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Huffington post,

Leggo oggi sul Corriere della sera che: "Fra un paio di giorni, quando sarà rientrato dalla Palestina, Roberto Speranza convocherà un tavolo con Sinistra Italiana, Pippo Civati e il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari". Mi sono sempre chiesto se non esista una relazione tra il fatto che la Sinistra sia ridotta ad un fantasma e il fatto che per materializzarla si usi un "tavolo". Ma di certo ogni elettore di buon senso che legga una frase come quella trascritta penserebbe di trovarsi di fronte a liturgie ermetiche e remote, e si allontanerebbe ancora un po' dalla "politica politicata".

Il paradosso di questi immaginari riti segreti è che essi nascondono, nel discorso giornalistico, la realtà concreta di un percorso pubblico, invece sistematicamente ignorato. Qualcuno ha forse letto sul Corriere (o anche altrove, per carità) che migliaia di persone si stanno riunendo, in piazze e teatri di tutta Italia, per discutere di una sinistra che ancora non c'è, ma che sta lentamente prendendo forma? È il percorso partito il 18 giugno dal Teatro Brancaccio (che non è un movimento e non è di qualcuno), e che continua a snodarsi per l'Italia: in tutto ottobre ci saranno assemblee tematiche, e a novembre una grande assemblea romana che restituirà al paese un progetto di inclusione, eguaglianza, giustizia sociale. Un programma che suggerisca come si può attuare la Costituzione.

Chi partecipa a questo percorso? Cittadini senza tessere, singoli membri di associazioni, movimenti, sindacati (dall'Arci a Libera all'Anpi a Libertà e Giustizia alla Cgil e via elencando...), cattolici e laici, e anche ex elettori del Pd e dei Cinque stelle, o astenionisti impenitenti. E poi tanti iscritti (e dirigenti) di Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione, Mdp, l'Altra Europa, Diem e ancora altri partiti o movimenti.

Cosa unisce questo mondo variopinto, che nessun tavolo potrebbe per fortuna contenere? Due semplici cose: la consapevolezza che è necessario invertire drasticamente la rotta del paese; e la volontà di farlo costruendo una nuova sinistra, dal basso. È di questo che si discute, in quelle piazze e in quei teatri, intrecciando il discorso sulle cose, al discorso sul metodo. Inevitabilmente: perché nessun modo vecchio può far nascere una nuova politica capace di rinnovare l'Italia.

È, con ogni evidenza, un percorso culturale e politico di lungo periodo. Ma tutti coloro che partecipano hanno ben chiaro il fatto che non possiamo permetterci che nel prossimo Parlamento tutto questo non sia rappresentato.

Si tratta dunque di provare a costruire anche una lista. E perché ci sia una possibilità di successo, ci vuole una lista unica a sinistra. Ma non una lista arcobaleno fatta sommando sigle a un tavolo, bensì una lista aperta, insieme poltica e civica: costruita un po' come quelle che si sono imposte in tante città italiane. E cioè nelle piazze, nella trasparenza, nella partecipazione.

Come si fa, in pratica? Per esempio con una grande assemblea nazionale, eletta (con un sistema proporzionale: lo stesso che vogliamo per le elezioni politiche) da tutti i cittadini (con tessera e senza tessera) che si riconoscano in questo orizzonte comune. E affidando a questa assemblea tutte le decisioni: programma, liste, nome, della lista, leadership (che io credo debba essere plurale). Senza alcuna imposizione, senza alcuna scelta presa a priori. Tutto il contrario di un tavolo (che infatti nessuno ha convocato, per giovedì o per altre date): il dialogo con Roberto Speranza esiste fin da prima del 18 giugno e prosegue, come quello con tutti i diversi attori di questo processo.

I nodi sono tutti ben noti (in sintesi estrema: sinistra o centrosinistra; Pisapia leader designato o elezione democratica di una leadership; modello coalizione con primarie o modello lista civica dal basso), ed è altrettanto noto che se non si sciolgono non è possibile fare una lista unitaria. Ed è per questo che il dialogo continua, e continuerà: ma senza "tavoli", "convocazioni" e altri riti del passato.

La domanda è una sola. Alle prossime elezioni ci sarà la Destra, il Movimento 5 stelle guidato da Di Maio, e il Pd di Renzi. Vogliamo o no che esista un quarto polo: la Sinistra? Non un "centrosinistra" che denunci fin da quella incomprensibile (quale sarebbe il centro?) etichetta una sua insufficienza, prima culturale e poi politica: ma una Sinistra, anzi la Sinistra, unita e determinata a cambiare il paese.

La risposta di tutti coloro che partecipano al percorso iniziato al Brancaccio è un forte sì. Forte come il no che ha bocciato la riforma costituzionale, riaprendo lo spazio del conflitto sociale, unico motore possibile del cambiamento.

Dunque, chi vuole capire se una nuova sinistra può nascere, deve andare nelle piazze, non aspettare tavoli e convocazioni. Perché, in una nuova politica, il discorso pubblico e il discorso privato sono identici. E perché questa nuova politica non può che nascere dal basso, non dall'alto. Come ha scritto Emilio Lussu: «La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c'è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all'alto è capitolazione, sempre».

il manifesto

Centro-sinistra sì, centro-sinistra no, alleanza con il Pd, alternativi al Pd, coalizione con Renzi, mai con l’ex presidente del consiglio, e cosi continuando. La discussione a sinistra, come al solito, è desolatamente appiattita sugli schieramenti.

E naturalmente sulle schermaglie tattiche, sui posizionamenti in vista della campagna elettorale. La vita delle formazioni politiche – chiamiamole così – gira esclusivamente intorno a questo torneo, come squadre di calcio il cui unico compito è di affrontare il campionato. Eppure, basterebbe guardare ai contenuti, alle scelte programmatiche per rendere più chiare e dirimenti le scelte di schieramento.

Consideriamo il programma della manovra economica del governo Gentiloni. A detta dello stesso presidente del consiglio essa è «in linea con quelle che l’hanno preceduta». Ce n’eravamo accorti. Dopo i 18 miliardi e passa di euro generosamente elargiti alle imprese in tre anni dal governo Renzi, ora ci si prepara a replicare un fallimento lungamente sperimentato. Di nuovo agevolazioni fiscali e incentivi a chi assume, di nuovo si pompa l’economia dal lato dell’offerta a suon di denaro sottratto alla fiscalità generale e dunque agli investimenti pubblici.

Sì, certo, nella manovra ci sono le invenzioni clientelari di contorno: l’«assegno di ricollocazione» con cui si cerca di sistemare «attivamente» disoccupati e cassintegrati o il «Reddito di inclusione attiva», con cui si dovrebbe coprire una platea di 1 milione e 800 mila individui con un assegno oscillante tra 190 e 485 euro mensili.

Gocce nel mare della disperazione sociale. Mentre per il Mezzogiorno si pensa addirittura alle «Zone economiche speciali» con facilitazioni fiscali e semplificazioni di procedura per i giovani che avviano imprese e naturalmente per le multinazionali che dovrebbero essere attratte da ulteriori condizioni di favore. Come se non bastassero i bassi salari dei lavoratori italiani e la loro piena disponibilità da parte delle imprese. Evidenti palliativi di sostanza ma che consentono al governo e al Pd una narrazione di impegno sociale elettoralmente utile.

Ora, per cortesia, un po’ di storia. Intanto osserviamo i brillanti risultati, a tutti noti, in termini di occupazione, soprattutto giovanile, tralasciando il processo di precarizzazione che è dilagato nel mondo degli occupati. Questa politica di agevolazione fiscale alle imprese è la vecchia supply-side economics, l’economia del sostegno all’offerta, una invenzione del pensiero neoliberistico. E non esprimiamo una idisioncrasia intellettuale. Parliamo sulla base di prove storiche.

L’amministrazione di G. W. Bush, ad esempio, ha tagliato, in due trance di ben 1025 miliardi di dollari le tasse ai ricchi degli Usa, senza che tanta generosità si traducesse in nessun modo in slancio dell’economia americana. E soprattutto dell’occupazione. I ricchi privati, ha ricordato James Galbraith – che ha ribattezzato la teoria supply-side failure – «hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili». Hanno cioè investito nella rendita e nel lusso.

Ma questa politica – praticata nel mondo da gran parte dei governi nell’ultimo trentennio – rappresenta uno degli assi strategici, forse il più rilevante e decisivo, che ha condotto alla Grande Crisi del 2008. Essa ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza dai ceti popolari alle classi abbienti, ha generato le abissali disuguaglianze che abbiamo sotto gli occhi e che attanagliano nella stagnazione l’economia mondiale. Da noi, per soprammercato, alimenta un enorme debito pubblico.

Continuare su questa linea, come fa oggi il governo Gentiloni, ha delle conseguenze rilevanti. Se i soldi vanno alle imprese scarseggiano per un grande programma di ristrutturazione del territorio, non ci sono per la ricerca e l’Università, per le borse ai giovani bisognosi che rinunciano a proseguire gli studi, non ci sono per i comuni che non riescono a garantire i servizi essenziali, non ci sono per gli investimenti nel nostro Sud.

Il nobel Paul Krugman, nel 1998, sosteneva a proposito della teoria dell’offerta che «Gli errori economici non muoiono mai: nella migliore delle ipotesi, si affievoliscono lentamente». E c’è ovviamente del vero. Ma poiché noi non crediamo, nel nostro caso, nella capacità del nostro ceto politico di elaborare teorie economiche, riteniamo che le opzioni del governo Renzi (Jobs Act, abolizione dell’Imu sulla prima casa, ecc) e quelle attuali di Gentiloni siano una deliberata strategia di classe.

Il Pd ha scelto con piena consapevolezza di insediarsi socialmente, di fondare i propri consensi negli interessi del mondo imprenditoriale e della finanza. Punto.

Tutto il resto è manovra propagandistica per mantenere un po’ di consenso nel vecchio blocco popolare su cui si fondava il Pci. È di questo che si dovrebbe discutere, delle conseguenze di tale strategia per il destino del paese e scegliere da che parte stare.

L'Espresso, « In un mondo in preda a populismi e caos la Merkel si prepara al quarto mandato rassicurando i tedeschi e l'Ue con la "letargocrazia".


Se prestiamo fiducia ai manifesti elettorali attaccati dai silenziosi iscritti dei partiti su ogni superficie libera da Greifswald sino giù a Berchtesgaden, la prossima settimana si dovrebbero tenere nella Repubblica Federale le elezioni per il nuovo Parlamento di Berlino. Una data di cui ci si ricorderà con qualche tecnica mnemonica, dato che nulla lascia presagire che ci attendano elezioni significative o che gettino la politica tedesca, la cancelleria o le prossime coalizioni di governo in acque più agitate. Persino il termine "campagna elettorale" suona come una citazione d'altri tempi. E la parola "decisione" come un ghirigoro su una vecchia carta da parati.

Certo, la televisione, affiancata dagli altri media, fa quel che può per alimentare una certa tensione, e i soliti sospetti si danno il cambio davanti alle telecamere declamando i loro copioni. Ma nel pubblico non c'è nessuno che abbia il sentimento che alle elezioni del 24 settembre vi siano in gioco differenze essenziali. Tutti i segnali danno invece via libera alla continuità. A parte alcuni radicalismi verbali della sinistra estrema o dei Verdi, i portavoce dei partiti fanno a gara per strapparsi di bocca gli argomenti più razionali. E mentre in Francia la politica si ringiovanisce in modo drammatico, negli Stati Uniti ci si concede una stagione nel Caos, in Italia - come al solito - ci si dà all'improvvisazione, in Polonia e Ungheria ci si avventura più a fondo nel tunnel dell'isolamento nazionale, la Germania resta quel che è stata nei decenni scorsi: una Potenza tranquilla.

In questo autunno 2017 la Germania fa tornare in mente la formuletta con cui un tempo alla scuola guida si spiegava una regola decisiva del traffico stradale: "La precedenza spetta a chi si trova sulla rotatoria". Da 12 anni, su tutto il traffico tedesco, domina una Kanzlerin decisa, a quanto pare, a restare nella sua corsia sino al compimento del 16° anno. Nessun osservatore della scena berlinese dubita che il prossimo 24 settembre lei non reclami la precedenza assoluta. L'unica questione aperta è se toccherà ai liberali della Fdp, guidati da Christian Lindner, il loro quasi carismatico capo, formare una nuova coalizione, o se la Kanzlerin dovrà arrangiarsi ancora con i socialdemocratici, seguendo il modello del primo (2005-2009) e del terzo (2013-2017) governo Merkel.

È evidente che una variante "nero-gialla", un governo cioè della Cdu e Fdp, sia politicamente più "interessante" della ripetizione della coalizione "nero-rossa". Ma è proprio la questione di ciò che sia ancora "interessante" nella politica tedesca che si rivela come la croce che non può essere compresa senza il Fattore-Merkel. Rientra nei connotati psico-sociali dell'era Merkel il fatto che la cancelliera abbia estirpato all'elettorato il senso di ciò che è politicamente "interessante" (o di ciò che un tempo si sarebbe forse definito "progressivo"). Già nell'era Adenauer l'Unione cristiano-democratica mieteva successi con lo slogan alquanto filisteo : "Keine Experimente", Nessun esperimento. Una tesi che venne poi ricopiata dal Vaticano e posta a fondamento dei suoi pronunciamenti di etica sessuale. Resta sorprendente che all'inizio del terzo millennio, in un mondo estremamente dinamico, alla Signora Merkel sia riuscito di risvegliare una tendenza avversa agli esperimenti.

Per comprenderne il fenomeno occorre tener presente che la Merkel ha introdotto nel gioco politico alcuni fattori senza i quali non è possibile spiegarne il successo. La Kanzlerin è la prima persona a capo di uno Stato ad essersi servita della forza politica della Noia: una noia che Merkel combina con le sue oscillazioni producendo una miscela alquanto strana di affidabilità e imprevedibilità. A quanto pare è proprio questo curioso legame a convincere la maggioranza dell'elettorato tedesco. Se in Germania si potesse eleggere direttamente il cancelliere infatti, una maggioranza-Merkel sarebbe garantita sino al 2030. Sono i momenti di volatilità nel comportamento della Merkel a dar l'impressione che a Berlino si governi in modo molto deciso. I momenti di noia d'altro lato suscitano l'impressione che non ci si debba preoccupare più del necessario; mentre la naturale resistenza della popolazione alle profonde trasformazioni si rispecchia nell'apparente inerzia del governo di Berlino.

Questo stile di governo della Merkel è già stato definito "Letargocrazia", termine che caratterizza sia la lentezza dei suoi riflessi politici che la mancanza di profilo. "Letargocratico" è l'uso insistente che la Merkel ha fatto dell'arma della Noia, con cui ha indotto una parte consistente dei tedeschi a non interessarsi più di tanto delle questioni politiche. Allo stesso scopo punta anche la calcolata ingenuità della sua lingua che ha bandito ogni accenno di creatività, e ogni prontezza di spirito, dagli affari della politica. Il modo di presentarsi in pubblico della Merkel - i suoi gesti, i vestiti, il taglio dei capelli... - sono tutti elementi di una retorica della modestia. Lei sorride anche a chi è così ingenuo da sottovalutarla. Né è plausibile crederla vanitosa. Persino il suo rivale è pronto a credere che lei non sprechi un istante a chiedersi come apparirà sulla passerella del potere. Anche lo spietato candore con cui sinora ha respinto sullo sfondo tutti i suoi possibili rivali, eguale se uomini o donne, rientra nelle linee della sua letargocrazia.

Ma il suo capolavoro Merkel lo ha realizzato penetrando negli anni nel cuore del territorio del suo avversario per diffondervi la suggestione che siano in realtà i suoi cristiano-democratici i migliori socialdemocratici. Per meglio rendere questo effetto è stata disposta anche ad estraniarsi l'ala destra del partito. Una parte di questi conservatori è poi migrata in un nuovo movimento che, ironicamente, si chiama "Alternativa per la Germania", ma che de facto non offre un'alternativa se non alle frange di destra più frustrate dell'Unione di Cdu e Csu, e a un variegato popolo di falliti, semifalliti e amanti di frasi, gesti e assurdità varie col tricolore "nero-rosso-oro". Di sicuro non è l'emigrazione di questa gente a rubare il sonno alla Merkel: lei sa che con la sua strategia guadagna più voti al centro di quanti ne perda a destra. Con la Merkel, insomma, tramontano per sempre i tempi in cui i Cristiano-democratici fungevano da rifugio d'emergenza a vecchi nazisti o a neo-nazionalisti. E di sicuro la maggior parte dei tedeschi del 2017 non indovina più ciò a cui pensava Franz Joseph Strauß quando (presumibilmente negli anni '70) coniò lo slogan: «Più a destra di noi c'è solo il muro», cioè nessuno.

Per questo negli ultimi tempi il Fenomeno Merkel viene seriamente studiato dalle scienze politiche. Sulla scorta della sua persona una parte di questi teorici indaga la questione della cosiddetta "Egemonia involontaria". In effetti è difficile negare che la Germania, senza davvero averla ambita, si è ritrovata in una posizione egemonica all'interno d'Europa. Da Konrad Adenauer a Willy Brandt, e da Helmut Schmidt sino a Helmut Kohl la costante della politica tedesca stava nel togliere ai vicini europei il timore di una rinnovata Potenza Germania. Da questo punto di vista Angela Merkel è da considerarsi senza dubbio come una fortuna: nella sua personalità non si può trovare assolutamente nulla che rimandi a una nevrosi di stampo nazionalistico. Lei rappresenta anzi l'incarnazione della costante ricerca, libera da ogni megalomania, del compromesso tra gli interessi tedeschi e quelli dei nostri vicini. In questo senso lei è l'anti-Berlusconi, l'anti-Putin, l'anti-Erdogan, l'anti-Kaczynski, l'anti-Orbán e l'anti-Trump in una persona sola. Non occorre essere un fine troubadour per percepire tutto il benefico effetto di questa sua contrapposizione al patologico machismo della politica attuale.

Politologi e strateghi ne presentano d'altra parte un bilancio più critico: per alcuni di loro Angela Merkel riveste un ruolo di primo piano nella storia della depoliticizzazione della politica. Ad alcuni analisti – come Heiner Mühlmann ha evidenziato di recente in un saggio sulle pagine della "Neue Zürcher Zeitung" – il suo Quasi-Matriarcato appare come una mossa fatale di quell'altro metodo che gli analisti chiamano "demobilitazione asimmetrica".

Che essenzialmente consiste nello spruzzare sulla scena politica tanto di quel cloroformio sino a quando la maggior parte della popolazione non sia crollata in uno stato di dormiveglia. La norma ovviamente è di anestetizzare più a lungo possibile specie il campo dell'avversario; e, almeno sotto elezioni, di consentire ai propri seguaci di risvegliarsi più in fretta dei rivali.
Se tutto va secondo i piani, gli ammiratori di Angela Merkel si risveglieranno il 24 settembre abbastanza decloroformizzati per rivotare lei e il suo partito. Gli avversari invece si riprenderanno probabilmente troppo tardi dalla loro anestesia. Tutto fa pensare quindi che presto ne sapremo di più di un quarto governo della Merkel.

Traduzione di Stefano Vastano

il manifesto

Era il 28 marzo del 1999 quando alla riunione del Tavolo di Coordinamento governo associazioni per gli aiuti alla ex Jugoslavia, presenti l’attuale ministro Marco Minniti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Livia Turco, allora ministra del governo D’Alema, alle organizzazioni intervenute fu proposto – racconta Giulio Marcon nel suo libro “Le ambiguità degli aiuti umanitari: indagine critica sul terzo settore” – di partecipare al grande progetto italiano di assistenza ai profughi kosovari: Missione Arcobaleno. “Mentre bombardano, aiutano i profughi”, scrive Giulio Marcon. Dopo quasi vent’anni il governo Gentiloni e il ministro Minniti propongono un metodo analogo. Lo stesso schema di allora.

«Non staremo sotto il vostro elmetto». Questa fu la risposta di Raffaella Bolini, dirigente dell’Arci, per esprimere il dissenso del Consorzio Italiano di Solidarietà e di una parte delle organizzazioni presenti, che non partecipò alla Missione Arcobaleno. Anche oggi per noi dell’Arci, e non solo, la questione si pone negli stessi termini: non indosseremo la giacca del governo italiano e dell’Unione europea che hanno dichiarato guerra ai migranti. Fanno accordi con dittatori e governi fantoccio, con milizie criminali che torturano e stuprano, inviano strumenti e risorse per bloccare le persone in modo che nessuno possa arrivare alle nostre frontiere a chiedere protezione. Alle organizzazioni sociali, alle Ong che si occupano di progetti di cooperazione allo sviluppo, chiedono di collaborare per garantire servizi e i diritti umani delle persone che subiscono trattamenti disumani e violenti.

Come con la missione Arcobaleno si mettono in campo risorse, pare 6 milioni di euro, per intervenire nei lager libici, aprire nuovi campi e gestirli, in collaborazione con le autorità libiche. Presentate progetti, diranno, come avrebbero detto da lì a poco, nel lontano 1999 per i profughi kosovari. Aiutiamoli in Libia, con progetti da finanziare alle Ong. Cioè aiutiamoli a casa di altri per non farli arrivare in Europa, a “casa nostra”, e sentirci a posto con la coscienza. Un tentativo, come avvenne all’epoca, di avere una copertura dalla società civile, dal terzo settore, per un’operazione vergognosa, in questo caso di esternalizzazione delle frontiere, di guerra ai migranti, che ha trovato una forte opposizione sociale, nonostante l’ampio consenso pubblico.

Il tentativo di dividere le organizzazioni tra buone e cattive, com’è stato fatto con il codice delle Ong. Chi collabora sarà premiato, sul piano della comunicazione pubblica e delle risorse. Chi dissente sarà criminalizzato e isolato. Si rilancerà l’insulto “buonista” per mettere all’indice chi non vuole arrendersi alle violazioni della nostra Costituzione (ex art.10), della legge e delle convenzioni internazionali. Si dirà, com’è stato detto con il Codice Minniti, che c’è chi vuole partecipare a risolvere i problemi e chi invece fa l’anima bella e non si preoccupa del crescente razzismo che deriverebbe dagli arrivi sulle nostre coste, come dicono i “razzisti democratici”.

La Missione Arcobaleno fu una brutta pagina della storia delle organizzazioni che svolgono attività di solidarietà internazionale e di tutela dei diritti. Un’iniziativa di un governo di centrosinistra per dividere e distrarre l’opinione pubblica, ricercando un consenso altrimenti difficile da ottenere. Oggi, protagonisti nuovi e vecchi, ripropongono quel tentativo. Speriamo che nessuno caschi in questo tranello, per soldi o per calcolo politico. Una risposta forte e chiara di dissenso dalla società è auspicabile. E proveremo insieme ad altri a metterla in campo in questo autunno.

Nel frattempo, come in quella primavera del 1999, è bene far arrivare al governo un forte signornò!

Avvenire,

IUS CULTURAE,
CREDERE NELL'ITALIA E NEI SUOI FIGLI.
DIAMO UNA LEGGE A PRESENTE E FUTURO
di Marco Tarquinio

Chi e perché vuol mettere paura agli italiani? Chi e perché prova in tutti i modi a istillarci l’idea che la nostra civiltà non sia più buona né “contagiosa”? Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito? Chi vuol convincerci che la cittadinanza sia un immeritato stato di grazia, ereditato come una cosa, e non una conquista e riconquista, fatta di diritti e doveri onorevoli e onorati? La lista potrebbe essere lunga. Ma qui, oggi, comincia e finisce con coloro che avversano la nuova legge sulla cittadinanza, già votata alla Camera e ferma al Senato. E dibattono non per migliorarne questa o quella previsione, ma per impedire del tutto la normativa sullo ius culturae e sullo ius soli temperato (nessuno, cioè, diventerebbe mai italiano per il solo fatto di nascere nel Bel Paese…). Una battaglia condotta, purtroppo, per calcolo politicante, con manifestazioni di aperta xenofobia e rimettendo in circolo pregiudizi colmi di vergognoso e sempre meno celato razzismo.

Eppure quanti sono nati in Italia o in Italia sono arrivati da bambini e pensano e parlano italiano, coloro che crescono e studiano qui, condividendo la nostra cultura e le nostre regole di cittadinanza, assimilando i nostri costumi, e appartengono a famiglie di origine straniera ma residenti in questo nostro Paese con permesso permanente o di lungo periodo (e, dunque, sono figli di persone che qui lavorano, pagano tasse e contributi, e non hanno guai con la giustizia) non sono candidati all’italianità, sono già italiani. Non si tratta di concedere nulla, e tantomeno di regalare qualcosa. Si tratta di riconoscere per legge una realtà, vera, importante e buona. Si tratta di rendersi conto che mantenere in una sorta di limbo un bel pezzo della generazione dei nostri figli è un atto di cecità e di ingiustizia. E che farlo per presunto calcolo politico-elettorale è una piccineria umana, una miseria morale e, insieme, una scelta pratica imprevidente e imprudente.

Lungo questa estate 2017, dopo l’editoriale del 17 luglio scorso intitolato «Questa legge s’ha da fare», dedicato appunto allo ius culturae, questo giornale ha dato il via a una campagna informativa semplice e rigorosa. Mentre tanti politici – e purtroppo anche non pochi (dis)informatori – hanno continuato a diffondere slogan e favole cattive contro i nuovi italiani, noi invece abbiamo dato loro volto, pubblicando ogni giorno per due mesi quelle che, in dialogo con alcuni lettori, ho definito «parole di carne e sangue, di anima e di cuore, di sudore e di intelligenza». Non pure opinioni, ma storie di vita. E cioè attese e speranze, fatiche e impacci, traguardi e ricominciamenti di giovani che sono italiani non per tradizione, ma per formazione, per adesione, per maturata convinzione. Persone con radici familiari, culturali e religiose in Asia, in America, in Africa o in altre porzioni d’Europa eppure partecipi della nostra cultura, perché la vivono e le vivono dentro. Non sono tutti uguali, non tutto è sempre lineare nelle loro vicende, non sono perfetti, ma sono persone perbene come, fino a prova contraria, ogni altro figlio di questa terra e della civiltà dell’incontro che la fa speciale da secoli, anche grazie alla sua sinora aperta e salda identità cristiana.

Sono loro, guardateli, su questa prima pagina piena di facce pulite e vere. Sono loro, anche se qualcuno quelle facce continua a scarabocchiarle e distorcerle per trasformarle in quelle di orchi e mostri e terroristi (che esistono anche nella realtà, ma non sono tutta la realtà). E sono proprio loro a essere tenuti nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza – cioè di un non pieno e giusto equilibrio tra diritti e doveri nel far parte di una comunità civile dentro la misura delle sue leggi. Guardateli bene, sono loro. E, nonostante qualcuno – mentendo – gridi il contrario, non sono affatto i migranti dell’ultimo approdo dal mare sulle nostre coste, uomini e donne che portano un’altra croce e ben diverse domande di solidarietà e di giustizia.

Guardateli ancora, sono loro quelli e quelle a cui si vorrebbe dire, e già si dice: “No, tu non sei dei nostri, non ti conosco e non voglio riconoscerti”. Oppure e, per certi versi, è quasi peggio: “Sei dei nostri, è vero; ma non è l’ora di dichiararlo, perché più della tua vita mi interessano le percezioni di altri che di te non si fidano per via della tua pelle, per il Paese dei tuoi genitori o nonni, per la tua maniera di pregare…”. Atteggiamenti e propagande sprezzanti che umiliano la loro italianità, e il legittimo sentimento di appartenenza che ne discende, e che sembrano “strillati” apposta per generare in vecchi e nuovi italiani quei reciproci sentimenti di esclusione e di estraneità che portano a speculari ri-sentimenti. Sguardi cattivi e atti di respingimento e marginalizzazione non generano altro che sofferenza e ostilità, picconano ogni patto civile, minano la solidarietà. Un’imprevidenza incredibile, un’imprudenza grave.

Eppure i nuovi italiani sono e restano parte integrante di una generazione di giovani concittadini che non possiamo permetterci di perdere e disperdere. Sono parte integrante di un patrimonio di umanità, una ricchezza d’Italia. Dipende da noi, anche con una legge giusta e finalmente tempestiva, farli essere e sentire continuatori e interpreti del nostro grande passato e protagonisti del presente e del futuro comuni. Insieme.

JUS CULTURAE. FALSE CREDENZE
E SPECULAZIONI PER FERMARE
LA RIFORMA ATTESA
di Paolo Lambruschi

Le fake news, hanno inquinato anche il dibattito sulla riforma della cittadinanza sulla stampa, in tv e sui social media mescolando i piani. Proviamo a vederne alcune.

Effetto calamita. È stato detto che la legge in discussione – che prevede l’introduzione dello ius soli temperato e dello ius culturae – qualora approvata provocherebbe un aumento degli sbarchi attirando torme di disperati e soprattutto di donne in procinto di partorire. Ma la legge arenatasi al Senato non prevede alcun diritto incondizionato alla cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano. Colpa in verità anche della politica e di chi abbrevia il dispositivo chiamandolo ius soli come se questo fosse "puro", all’americana. La riforma prevede invece che vi sia uno ius soli temperato applicato a chi nasce in Italia figlio di almeno un genitore regolarmente residente e con permesso di soggiorno di lungo periodo (in Italia da almeno 5 anni). Lo ius culturae inoltre assegna la cittadinanza ai minori non nati in Italia, ma che vi sono arrivati entro i 12 anni di età a patto che vi compiano un intero ciclo di studi e almeno cinque anni sui banchi di scuola. Il provvedimento riguarda l’immigrazione stabile, regolare e stabilizzata. Restano esclusi quindi i richiedenti asilo e protezione umanitaria e chi ha un soggiorno di breve periodo.

Italiani veri mai. Tradotto Il senso è: essere figli di regolari lungo soggiornanti e compiere un ciclo scolastico non basta a rendere cittadini. Questo significa mettere in discussione anzitutto la scuola che non sarebbe in grado di integrare i nuovi arrivati insegnando loro i valori della Costituzione. La realtà di tutti i giorni pare ben diversa. E tra i Paesi europei partner e concorrenti le regole non sono più severe. In Francia, che adotta lo ius soli, ogni bambino nato sul territorio da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni e se dimostra di condividerne cultura e valori. In Germania diventa cittadino senza presentare domanda chi vi nasce a patto che almeno uno dei genitori risieda regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. In Spagna, paladina dello ius sanguinis, per diventare suddito di re Felipe a chi vi nasce, se figlio di stranieri, occorrono dieci anni di residenza.

Sicurezza in pericolo. I cani sciolti dello stato islamico che hanno colpito in Europa in questi ultimi anni erano spesso immigrati di seconda generazione divenuti cittadini. Ma stiamo parlando di Paesi con un passato coloniale ben più lungo e articolato del nostro e quindi con rapporti diversi con un’immigrazione molto più vecchia e che hanno scelto modalità evidentemente sbagliate di integrazione lasciando crescere ghetti fuori controllo sorti nei decenni scorsi. Il problema è il legame tra terrorismo e mancata integrazione, la cittadinanza non c’entra.

Neo italiani in massa. Ci sarà un impatto, ma in prospettiva. Il provvedimento riguarda potenzialmente circa 800mila persone, dei quali 600mila circa alunni delle scuole italiane. Poi, secondo l’elaborazione della Fondazione Leone Moressa su dati Istat e Miur, saranno naturalizzati quasi 60mila nuovi italiani ogni anno. Diventerà italiano un minore su otto. Per contro la popolazione residente attesa per l’Italia secondo previsioni Istat calerà di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Quadro che avrebbe parziale sollievo dalle naturalizzazioni e da altre migrazioni.

Invasione islamica. Sempre la laicissima Fondazione Moressa stima che due nuovi italiani su tre saranno cristiani.

Cittadinanza obbligata. L’acquisto della cittadinanza italiana continuerà a non essere automatico, ma a realizzarsi con una dichiarazione di volontà espressa o da parte di un genitore entro il compimento della maggiore età o dallo stesso soggetto entro i 20 anni. Il giovane può dunque rinunciarvi.

La riforma non cambia nulla. Le storie che abbiamo raccontato in questi ultimi due mesi rivelano che in molti casi invece la burocrazia italiana e quella del Paese di origine ostacolano l’iter per presentare la domanda in tempi utili e rallentano la risposta. Se la riforma muore, i semi-cittadini continueranno a restare in un inutile limbo.


Siamo ancora ben lontani dal riconoscere a chi è nato in un sito di avere in quel sito la propria patria, e godere degli stessi diritti degli altri. Siamo ben lontani dal riconoscere la diversità delle culture una ricchezza. Per godere della legge occorre soddisfare una serie di condizioni che a me, a te, a lui e a lei che siamo nati e registrati qui non sono richiesti. Se si è stranieri (cioè nati da genitori non italiani) bisogna aver frequentato per almeno 5 anni una scuola italiana. Devi essere stato promosso. La domanda deve essere presentata d un genitore che non sia un “clandestino” né un senza casa.

il manifesto

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.

Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».

Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista. Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.

Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.

Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.

Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.

Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.

Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.

Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.

Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).

Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.

Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.

sbilanciamoci.info,


Industria 4.0 e la Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx [1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.

Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata [3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico. Quindi, non proprio tecniche che modificano il paradigma tecno-economico nel senso stretto del termine. Semmai, sorprende l’enfasi posta da alcuni commentatori che assegnano a Industria 4.0 questa categorizzazione. Infatti, le tecniche legate a Industria 4.0 non delineano un mutamento sostanziale della domanda e dell’offerta come e quanto potrebbe la Green Economy, ovvero non consentono di sviluppare quelle che Leon P. (1965) chiamava tecniche superiori di produzione. In altri termini, la crescita del reddito che da un lato comprime taluni tipi di consumo primario, dall’altro ne espande altri tipi, così che in definitiva l’effetto di composizione dinamica delle due forze risulta in realtà positivo. In ultima analisi, il mutamento qualitativo che attraversa la domanda nella componente di consumo si estende alla componente di investimento, influenzando il processo di cambiamento della struttura produttiva (e dunque dell’offerta e della domanda di lavoro). Industria 4.0, al massimo, permetterà di integrare informatica, servizi e manifattura, ma siamo pur sempre all’interno di un paradigma che non consente di accrescere il valore e il lavoro come e quanto altri paradigmi sono riusciti a realizzare nella storia. È cambiata la geografia del lavoro, ma il numero di occupati è costantemente aumentato, nonostante tra il 1980-2015 si sia dispiegata la più importante rivoluzione tecnologica che il capitalismo abbia mai sperimentato.
La tecnica è un prodotto sociale
Innanzitutto è necessario ricordare che il progresso tecnico si diffonde in modo disomogeneo nei diversi settori produttivi, mentre gli effetti sulla produttività non sempre si manifestano là dove esso si genera. E’ quello che in molti non hanno esitato a definire con grande enfasi il “paradosso della produttività”, proprio quando negli anni ’90 la precedente rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) andava alimentando straordinarie aspettative. Al netto della teoria della compensazione (D. Ricardo), il tema dell’innovazione è soggetto a gravi errori di valutazione: in troppi indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica, modificando il paradigma di accumulazione; quando si passa da un paradigma a un altro, non sappiamo come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori maturi e/o emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione e la grandezza degli oligopoli suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza.
La combinazione tra ridisegno dei vecchi settori e la nascita di nuovi settori produttivi delinea un nuovo modello di produzione e/o sviluppo. Evidentemente non discutiamo di trasferimento tecnologico e/o innovazione. C’è differenza tra innovazione tecnologica, con il tempo sempre più programmabile (Ferrari, 2014), e paradigma produttivo. Il limite della discussione relativa a Industria 4.0 è nella sottovalutazione del paradigma, che non può essere ridotto all’integrazione tra industria e servizi, con l’effetto di alimentare e probabilmente sostenere una discussione bipolare tra chi sostiene che Industria 4.0 è una grande occasione per rilanciare il sistema economico, e chi intravvede nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine.
Industria 4.0 e la fuga dalla ragione
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) informano che Industria 4.0 e le macchine coinvolgeranno alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, oppure l’indagine conoscitiva della Commissione Industria della Camera del 2016 (G. Epifani), è il caso di ricordare che questa è storia e non solo fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) hanno diversi gradi e livelli di realizzazione. In particolare, il documento della Commissione Industria analizza solo le tecnologie della comunicazione ovunque queste abbiano un ruolo, dalle comunicazioni interne alle stesse macchine meccaniche o elettroniche, tra operatori, all’interno dell’impresa, tra imprese ecc. In definitiva, il progetto Industria 4.0 identifica come “quarta rivoluzione industriale” l’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate a internet. Non sono necessarie competenze specialistiche per sapere che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche costituisce un bagaglio accumulato, con un potenziale ancora tutto da scoprire anche dal punto di vista di una prospettiva applicativa. Sebbene industria 4.0 del Governo, alla fine, prenda atto dei limiti della propria analisi quando individua come “tecnologie abilitanti” solo quelle che hanno una caratteristica informatica, l’aspetto più preoccupante è legato alla accettazione da parte di tutti i commentatori della narrazione veicolata dalla pubblicistica.
Se consideriamo l’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro è certamente negativo, ma il capitale evolve e cambia assieme alla società; il sistema economico non rimane mai uguale a stesso; cambiano le consuetudini e le abitudini. L’emergere di una nuova classe media modifica i consumi (legge di Engel). WEF, Mc, Commissione Industria della Camera non conoscono gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è, quindi, bidirezionale e non unidirezionale. In altri termini, la politica economica e industriale hanno un ruolo fondamentale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. L’innovazione cambia la struttura e non è riconducibile a una sola impresa, sebbene tenda a concentrarsi in alcuni settori. Per queste ragioni il modello neoclassico di produzione equi-proporzionale non rappresenta la realtà, e nemmeno vi si avvicina. Viviamo una grande transizione dall’esito incerto.
Capire in quale direzione andrà l’occupazione rispetto allo sviluppo delle nuove tecniche-tecnologie, richiede, piuttosto, una più attenta valutazione di come evolveranno le nuove “catene di creazione del valore”, sia all’interno delle singole economie, sia a livello mondiale, data l’importanza che hanno assunto i processi di delocalizzazione produttiva. Ciò, significherà considerare in che misura, ad esempio, lo sviluppo interno all’industria si rifletterà su un aumento dei servizi ad alta qualificazione – fenomeno già ampiamente riscontrato nelle economie in cui la presenza di un manifatturiero ad “alta intensità tecnologica” è relativamente più elevata – dando luogo ad un aumento complessivo dell’occupazione e del reddito e, in ultimo, della domanda di nuovi beni e servizi. Questo processo potrebbe investire anche i paesi di più recente industrializzazione, verso i quali nel ventennio passato si sono diretti ingenti flussi di investimenti delle economie occidentali per sfruttare – là dove possibile – il minore costo del lavoro. La spinta propulsiva registrata dal reddito di tali paesi si è tradotta, infatti, negli ultimi anni in autonoma capacità di investimento che, guidata per lo più dall’intervento pubblico, ha favorito l’aumento della spesa in ricerca e promosso lo sviluppo di produzioni ad alta intensità tecnologica, dando vita a ulteriori incrementi di reddito e a nuovi flussi di investimento verso il “Nord” del mondo.
L’accelerata diffusione dei robot nei paesi emergenti sembra dunque concludere una fase importante di un processo di industrializzazione concentratosi finora su attività ad alta intensità di manodopera, che hanno assorbito la delocalizzazione produttiva attuata dalle economie avanzate. La vera sfida che ci troveremo di fronte nei prossimi anni riguarderà sempre di più il confronto tra aree del mondo che si sono avvicinate – come puntualmente confermano i dati sulla distribuzione del reddito –, portando le prospettive dello sviluppo globale sul terreno della produzione di nuove conoscenze e di nuovi beni e servizi.
Se consideriamo l’aumento delle vendite di robot e come questo si è distribuito nell’economia mondiale, e quali sono ad oggi gli effetti più macroscopici rilevati sull’occupazione, risultano evidenti almeno due fatti. Il primo riguarda il forte contributo che all’aumento di tali vendite hanno fornito i maggiori paesi di più recente industrializzazione (soprattutto in Asia, con in testa la Cina), caratterizzati da una minore densità di robot (ossia da un minore rapporto tra numero di robot e addetti nell’industria); il secondo investe il rapporto tra livello di qualificazione dell’offerta di lavoro e dinamica del processo di robotizzazione. Si vede così che la maggiore spinta verso la robotizzazione registrata nelle economie di nuova industrializzazione ha dato luogo a una progressiva sostituzione di forza lavoro relativamente meno qualificata, presente ancora in misura assai consistente nel tessuto produttivo.
Indiscutibilmente per l’Italia sarebbe comunque una rivoluzione, ritardata comunque di almeno 15 anni. Sostenere che un sistema è integrato vuol dire che ogni fase è governata, ma non è il caso di andare oltre al governo del processo produttivo. Le innovazioni legate alla biotecnologia, alla farmaceutica, nuovi materiali, ecc. hanno un peso e un ruolo che travalicano il peso e il ruolo delle così dette innovazioni legate a Industria 4.0.
L’Italia non trova politiche diverse
L’effetto principale della diffusione delle tecniche interessate da Industria 4.0 sarà, per l’Italia, una crescita delle importazioni delle stesse. Infatti, questi beni saranno prodotti da chi possiede un vero sistema di innovazione tecnologica. L’esigenza di una politica industriale che sappia correggere il nostro declino non è nemmeno stata abbozzata. Inoltre, Industria 4.0 non è il programma di un paese che deve cambiare la propria struttura produttiva, piuttosto la “trovata” pubblicistica di una parte della classe dirigente per evitare di realizzare investimenti pubblici necessari per piegare la produzione italiana verso beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico che sono, per lo più, legate alla Green Economy. I tagli alla ricerca e sviluppo, alla scuola, all’università, purtroppo, condurranno il paese a subire il paradigma della Green Economy che gli altri Paesi cominciano a delineare.
Inizierei a discutere di politica industriale e su come possiamo essere protagonisti della necessaria trasformazione industriale, invece che ragionare sugli effetti “potenziali” di Industria 4.0 sul vecchio modello di produzione. Dobbiamo ragionare in termini di nuova domanda e quindi di nuova offerta. Diversamente l’Italia può solo perdere posti di lavoro.

Bibliografia
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Commissione attività produttive Camera Deputati (2016), Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali, Camera Deputati.

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World Economic Forum (2016), The Future of Jobs, Employment, Skills and workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution, Global Challenge Insight Report.

Note
[1] La citazione di Marx è tratta da Rosenberg (2001), p. 64.

[2] La citazione di W. E. G. Salter è tratta da Rosenberg (2001), p. 34.

[3] Romano R. e Lucarelli S., 2018, Squilibrio, ed. Ediesse, Roma. Libro di prossima pubblicazione.

[4] Il valore aggiunto derivante dai prodotti ad altro contenuto tecnologico è cresciuto esponenzialmente, collocandosi tra il 40 e il 50% di quello aggregato. Se guardiamo all’Italia comprendo il disagio, ma l’Italia non è un buon indicatore per valutare il progresso tecnico.

ilSole24Ore, 15 settembre 2017. Un'ampia rassegna dei "progressi" compiuti sorregge l'auspicio dell'allegro mondo del capitalismo italiano che la rapina della speculazione immobiliare cammini ancora più svelta. Usque tandem?

Al via oggi i lavori del Forum di Previsioni e strategie di Scenari Immobiliari a S. Margherita Ligure, l'evento clou del real estate italiano alla ripresa post vacanze. Oggi e domani si riuniscono a full time i leader dell'industria immobiliare nazionale per la 25a edizione del Forum, in un'atmosfera di ottimismo europeo e un mercato italiano che riparte dalle città.

La giornata si apre con la presentazione dell'European Outlook 2018 (si vedano le anticipazioni sul Sole 24 Ore di ieri e in queste pagine). A seguire, i dettagli del Primo osservatorio sulla sostenibilità in edilizia, focalizzato sull'efficienza energetica e la sicurezza (Johnson Controls). Sigest si concentrerà sui mercati residenziali e le opportunità per gli operatori immobiliari e uno spazio particolare viene riservato a Idea Fimit Sgr, che viene premiata come “impresa d'eccellenza nel real estate”. L'intera 25a edizione del Forum è dedicata a Paola Gianasso, vice presidente di Scenari Immobiliari e socia fondatrice di Arel (l'Associazione delle ladies del rea estate), prematuramente scomparsa.

La città degli uomini
Il pomeriggio viene dedicato al tema “La città degli uomini”, con una carrellata di relatori (oltre a una video intervista esclusiva a Ermanno Olmi). Con la moderazione di Mario Deaglio (Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi), parlano Roberta Brandes Gratz (sociologa urbana), Carlo Ratti (Mit Senseable City Lab) e Cino Zucchi (Cza Cino Zucchi architetti). Nella seconda parte, con la moderazione di Giuseppe Roma (Rete urbana delle rappresentanze) intervengono Valentino Castellani (ex sindaco di Torino), Suketu Mehta (scrittore, New York University), Carlo Puri Negri (Aedes Siiq) e Silvia Viviani (Inu, Istituto nazionale di urbanistica). La seconda giornata di lavori verrà invece divisa in quattro slots.

Il residenziale
Il primo slot è dedicato al residenziale, con interventi di Immobiliare Caltagirone (Alessandro Caltagirone), Ance (Filippo Delle Piane), Allegroitalia (Piergiorgio Mangialardi), Casa.it (Luca Rossetto), Vonovia Se (Rolf Buch) e Sidief (Carola Giuseppetti). Il fatturato immobiliare italiano è previsto in aumento, nel 2018, del 6,2%, ma con una previsione di rialzo dei prezzi di appena l'1,1% medio. Molto meglio altri mercati, nel mirino degli investitori, privati e non. Parlando di previsioni di fatturato immobiliare, l'anno che verrà vede in una posizione di forte ripresa la Spagna, con un aumento previsto del 15,1%, conseguenza dei marcati ribassi accusati dalla Penisola Iberica durante gli anni della crisi e la relativa discesa dei prezzi, che per esempio in Italia è mancata. Bene anche la Francia, con un turnover previsto al rialzo del 10,5%, in forte ripresa rispetto al mini-dato del +2,6% del 2016. L'altro grande mercato a cui guardare sono gli Stati Uniti, dove tutti gli indicatori segnalano un momento di vivacità e forte ripresa degli investimenti immobiliari. Il fatturato immobiliare è previsto in aumento del 10,3% nel 2018. Qualche perplessità, invece, sul Regno Unito, dove il fatturato del real estate è previsto al +9%, ma dove il fattore di maggior incertezza è senz'altro la Brexit, con effetti soprattutto su Londra.

Alla previsione di andamento dei fatturati va poi aggregata la previsione relativa ai prezzi, che non per forza rispecchia la precedente. Così, relativamente al settore residenziale, l'incremento più marcato è quello della Germania, con un +4,4%, dove però il turnover complessivo è previsto in aumento del 6% (dunque meno che in Italia). A seguire, la Spagna, dove si prevede un incremento dei prezzi delle case, nel 2018, del 4,1%, questa volta sì associato alla citata vivacità del mercato in termini di transazioni. Seguono gli Stati Uniti, con un previsto +3,2%, anche in questo caso associato a un vivace andamento delle transazioni: in definitiva, si può dunque affermare che, incrociando i due indicatori, i mercati prospetticamente più attraenti sono, appunto, la Spagna (+15,1% e +4,1%) e gli Stati Uniti (+10,3% e +3,2%).

Il settore corporate
Il secondo slot di interventi di sabato è dedicato al settore terziario. Si confrontano Alberto Agazzi (Generali Real Estate Sgr), Ivano Ilardo (Bnp Paribas Reim Sgr), Alessandro Mazzanti (Cbre), Roberto Reggi (Agenzia del Demanio), Gabriele Scicolone (Oice), Dario Valentino (InvestiRE Sgr) con la moderazione di Paola Ricciardi (Duff & Phelps Reag) e l'intervento del nuovo presidente di Assoimmobiliare, Silvia Rovere.

Secondo l'Outlook di Scenari Immobiliari, il bicchiere è sicuramente più pieno che vuoto per quanto riguarda gli spazi a uso uffici, che in Europa attraversano una fase positiva. Uno degli indicatori più importanti per gli investitori è il cosiddetto assorbimento, cioè la percentuale di spazi affittati e, da questo punto di vista, a livello europeo la situazione è migliorata del 5% nel 2017 e dovrebbe crescere almeno del 6% nel 2018. In Italia è nettamente inferiore, con una media di incremento dell'1,6% e previsioni 2018 del 2,5%. “Il 2018 dovrebbe costituire un anno positivo per i diversi mercati - spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari -. I mercati “core” dell'Europa del nord, guidati da Berlino, Stoccolma e Amsterdam, vedranno una crescita robusta, mentre in fase di recupero saranno Madrid e Barcellona, seguiti da Milano e Francoforte, che dovrebbero consolidare il trend positivo del 2016, con un costante calo dei livelli di sfitto. I mercati dell'est vedranno performance mediamente deboli, fatta eccezione per Praga, in forte crescita. Solo il Regno Unito, e soprattutto Londra, vedranno calare domanda e valori, con alcune zone che evidenzieranno un eccesso di offerta, mentre il trend dei Paesi continentali sarà diversificato”. L'andamento dei prezzi sarà fortemente differenziato. Si prevede un incremento medio europeo superiore all'uno per cento, ma variazioni decisamente più consistenti sono attese a Stoccolma, oltre l'otto per cento, seguita da Praga e Barcellona.
Nella maratona di lungo periodo (dal 2007 al 2017) la miglior performance in termini di prezzi nominali degli uffici spetta alla Germania, con il +5,7%, seguita dalla Francia con il +2%. Tutti gli altri Paesi esaminati hanno risultati negativi: -6,6% l'Inghilterra, -14,4% l'Italia e -18% la Spagna, con una media dell'Europa a 5 del -6,3 per cento.

Imprese pubbliche e private
Particolarmente attesa è la sessione riguardante le strategie delle imprese, pubbliche e private. Ne parleranno Emanuele Caniggia (IDeA Fimit Sgr), Manfredi Catella (Coima Sgr), Valter Mainetti (Sorgente Group), Aldo Mazzocco (Generali Real Estate), Marco Sangiorgio (Cdp Investimenti Sgr), Elisabetta Spitz (Invimit Sgr), moderati da Mario Breglia.

Riflettori su Milano
Il pomeriggio del sabato è dedicato alla città italiana più europea, Milano, con un focus sulle prospettive. Si confronteranno Mario Abbadessa (Hines Italy Re), Gregorio De Felice (Intesa Sanpaolo), Marco Doglio (Ubs Global Asset Management Sgr), Antonio Mazza (Aareal Bank Ag), Mauro Montagner (Allianz Real Estate), con la coordinazione di Armando Borghi (Citylife). E parlando di città, non si può prescindere da un'analisi di lungo periodo, nella quale Scenari Immobiliari ha esaminato le performance delle principali città europee dal 2007 al 2017. Chi vince e chi perde dunque a livello di residenziale? Esaminando l'andamento dei prezzi nominali medi delle residenze in aree centrali, al primo e al secondo posto svettano Stoccolma, con un aumento nonostante la crisi del 47%, ed Helsinki, con il 46 per cento. Seguono Ginevra (+27%), Berlino (+26%), Oslo (+5%), Londra e Zurigo (+9%) e poi Milano con il + 4 per cento. In ultima e quindicesima posizione Madrid, che perde il 39 per cento.

Le prospettive del residenziale estero
Il residenziale estero sta diventando sempre più una vera e propria asset class di investimento, anche per gli istituzionali. Quali le previsioni? “Le compravendite sono in crescita nella maggior parte dei Paesi _ spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari_. Il 2017 ha registrato un aumento medio compreso tra il 2,1% della Germania, attribuibile allo sviluppo dell'attività da parte degli investitori esteri nelle città di seconda fascia, e l'8% della Spagna, che continua il trend positivo dello scorso anno grazie alla spinta derivante dal mercato delle case esistenti in leggero calo rispetto al nuovo. I prezzi sono in aumento nella maggior parte delle piazze e alcuni Paesi europei, quali Romania, Germania e Svezia, figurano ai primi posti nella classifica mondiale quanto a incremento annuo”. Londra ha invece mostrato una performance negativa, con cali delle quotazioni compresi tra il 3 e il 9%, perché i prezzi avevano raggiunto un livello insostenibile, così che combinati con l'aumento dell'imposta di registro, accompagnato dalle incertezze legate a Brexit, si è rallentata la domanda. Le prospettive di Londra sono in questo momento incerte. “È in crescita l'interesse per il residenziale come asset class, soprattutto da parte degli investitori istituzionali americani, che negli ultimi due anni hanno investito circa la metà della cifra globale, 6 miliardi di dollari, nel Regno Unito - spiega Breglia - e recentemente hanno incrementato la quota di acquisti nell'Europa continentale, con particolare riferimento alle quattro principali città tedesche, vale a dire Berlino, Amburgo, Francoforte e Monaco”.

il Fatto Quotidiano

“Questo sarebbe il tempo giusto per un nuovo Marx, ma il pensiero non si coltiva in serra e la storia non coincide con la nostra biografia. Avremmo bisogno di uomini che stiano un gradino più in alto del resto della società e invece ci ritroviamo a essere governati con gente che è risucchiata nel gorgo della stupidità. Come si può pensare alla rivoluzione – qualunque tipo o modello di riforma strutturale dell’esistente – se il nostro sguardo sul mondo è destinato per tutto il giorno unicamente alle variazioni sul display del nostro telefonino?”.
Era il 1867 quando fu pubblicato il Libro I del Capitale di Karl Marx. Centocinquanta anni fa il filosofo di Treviri mandò alle stampe il volume che avrebbe promosso, sostenuto e accompagnato passioni e reazioni, condotto in piazza milioni di persone, trasformando il senso del giusto e dell’ingiusto. E Aldo Masullo, classe 1923, massimo studioso delle differenze tra idealismo e materialismo, ha attraversato il secolo scorso leggendo e rileggendo Marx per i suoi studenti.
“Un’opera immensa. Ha annunciato il nuovo mondo. Ha spiegato e anticipato i caratteri del mondo borghese, del principio del tutti almeno formalmente uguali, della statuizione che ciascuno, indifferentemente dalla condizione sociale, è pari all’altro. Si usciva dal feudalesimo, dalla vita legata dallo status: feudatario, vassallo, plebeo. Grazie a lui si apre il mondo moderno, si afferma il principio della uguaglianza astratta. Sia che tu sia dritto o gobbo, intelligente o stupido, avrai da pagare le stesse mie tasse”.
Marx sembra Dio.
“L’enormità del suo pensiero non è sempre valutabile positivamente. Perché tutto ciò che è enorme straripa di fronte alle necessità dell’uomo. La storia che noi viviamo è sempre più grande della nostra condizione”.
Era troppo avanti?
“Sì, potremmo dire con un linguaggio attuale che ha esondato un po’”.
Non c’è dubbio però che grazie a lui il lavoro non è divenuto solo merce da vendere ma anche un valore da difendere.
“Quanto è stata grande e rivoluzionaria questa consapevolezza? Quanto ha fatto Marx perché fosse contrastato il principio secondo il quale lavoratore vende forza lavoro e il capitalista lo compra. Il teorema per cui tutto si può comprare e tutto si può vendere. E infatti oggi si vende anche la dignità. Tutto ha un prezzo: nelle democrazie fragili sudamericane o in quelle africane non c’è giudice che non si possa comprare, non c’è sentenza che non si possa addolcire”.
Lei parla dell’oggi, come se i progressi del secolo scorso non fossero serviti a niente. Tutto regredisce, si torna indietro.
“No. Ricordi che la storia è dinamica, è movimento e non coincide con il tempo che viviamo. La grandezza di Marx è stata quella di aver aiutato l’umanità almeno a ricercare forme nuove di vita, a conquistare spazi in cui la dignità e la libertà acquisissero un senso diverso e nuovo”.
Il comunismo relegò in gattabuia le libertà e costrinse milioni di persone a una vita di stenti.
“Parlo dei diritti conquistati durante le grandi lotte sociali nell’Occidente libero e democratico. Grazie a quella spinta teorica siamo giunti allo sciopero, che è un diritto diverso dalla rivoluzione o dalla sovversione. Si stabilisce attraverso delle regole la possibilità del massimo conflitto col massimo rispetto della legge. È una cosa enorme”.
Perché oggi sembra tutto così lontano, così perduto? Non ha più senso parlare di lotta di classe, fa sorridere solo immaginarla possibile. E i diritti regrediscono, il lavoro torna a essere merce, quindi ad avere un prezzo senza nessun valore.
“Quando si hanno trasformazioni degli assetti sociali così cruente, quando la classe dirigente si connette fino a divenire satellite del potere finanziario, il capitale, o meglio i capitalisti, non trovano più conveniente investire nella capacità produttiva, ma investono nel circuito finanziario globale. La moneta produce moneta e tutto si concentra nello sviluppo di tecnologie che riducano la necessità dell’apporto della forza lavoro. Piano piano il lavoro manuale viene dismesso, poi anche quello intellettuale non creativo”.
L’operaio come una escrescenza sociale.
“Bauman parla di scarto. Divengono elementi di scarto. Certo, non succederà che finiremo di morire di fame ma si ridurrà il prezzo e il valore del lavoro. Si entra nel campo della misericordia, della pietas”.
Il declino inarrestabile.
“Lei si fa condizionare dall’angoscia dell’attualità che non trova risposte. Ma i tempi della storia non corrispondono a quelli della cronaca. E se, come abbiamo detto e ripetuto, la storia è movimento, le crisi recessive sono parti di quel movimento”.
Quindi cosa resta del grande Marx, solo cenere?
“Il suo pensiero ha costruito il mondo nuovo, il mondo moderno che abbiamo conosciuto. La regressione civile ed economica che stiamo vivendo non può in ogni caso sospendere i caratteri fondativi della natura umana, l’elementarietà dell’uomo con i suoi bisogni indefettibili e irrinunciabili. È certo che l’uomo continuerà a mangiare, a sperare, a fare l’amore”.
Non ci sono più i pensatori di una volta.
“È la constatazione di una povertà generale e trasversale. Non è solo la classe dirigente del nostro Paese, è l’autorità che ha perso ogni distintivo di capacità di guardare oltre. Alzi lo sguardo e cosa vedi? Cordate di leader collegati a cordate di multinazionali, in una cointeressenza tra funzione di governo e speculazione finanziaria che erode spazi di libertà, di avanzamento professionale e culturale. C’è poi una parte del mondo soggiogata dal circuito malefico dell’industria delle armi che la priva – è il caso dell’Africa e dell’Oriente – di ogni dignità e la costringe a una migrazione senza diritti”.
Ma abbiamo detto che l’uomo spera.
“Questo è il tempo della stupidità al potere. La storia ci dirà quanto avrà resistito”.

il manifesto

È senza fine, lo strazio della violenza contro le donne. Ieri Lucio Marzo, 17 anni, ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, 16 anni, scomparsa dal 3 settembre. E ha portato i carabinieri nel luogo dove ne aveva nascosto il corpo, sotto alcuni massi. Sempre ieri, è stato denunciato un tentativo di stupro sulle scale del Campidoglio, a Roma. L’aggressore sarebbe un israeliano. La notte precedente ancora a Roma lo stupro di una ragazza finlandese, da un ragazzo del Bangladesh.

Di qualche giorno fa la denuncia delle ragazze americane a Firenze, appena prima la giovane donna polacca stuprata a Rimini. Lo strazio è infinito, mille connessioni che si allargano come onde, dal punto in cui è stata esercitata la violenza. Avranno conseguenze nelle vite di tutte le persone coinvolte. Penso ai genitori di Noemi, alla madre, che non è riuscita a convincerla che quel ragazzo era violento. Non è servita neanche la denuncia che aveva presentato per ottenere l’allontanamento di quel ragazzo dalla figlia, non era stato preso nessun provvedimento.

Le adolescenti sfidano i genitori, la madre in special modo, come fare a proteggerle senza renderle prigioniere? È una domanda che non ha facili risposte. O meglio. Non le ha oggi. Oggi che le ragazze sono libere, nei paesi come nelle metropoli. Oggi che i divieti e le proibizioni non sono più la regola condivisa.

E la libertà – delle donne, delle ragazze – è il punto geometrico del conflitto. La solidarietà, perfino il dolore, sono pieni di ombre, di dubbi. Perché quelle ragazze sono in giro di notte? Perché si fidano di chiunque? Perché si permettono di andare in giro come se fossero dei ragazzi, dei maschi? Si ipotizza che Noemi sia stata uccisa al culmine di una lite.

Sulla sua pagina facebook l’ultimo post fa pensare. L’immagine è il viso di una donna malmenata, a cui qualcuno tappa la bocca. Il testo comincia cosi: «non è amore se ti fa male». Su instagram il profilo è più esplicito: «Il giorno che alzerai le mani ad una donna, quello sarà il giorno in cui ufficialmente non sarai più un uomo». Aveva capito? È stata punita perché voleva la libertà? Un’azione diretta, un atto di guerriglia individuale, lo definisco. Come lo stupro, le aggressioni sessuali. Tentativi di sottomissione, per mantenere l’ordine patriarcale. Contro tutte queste donne che si permettono di aggirarsi libere per il mondo. E per questo è così difficile ascoltarne la voce, a parte la retorica della vittima, che si rivela sempre più finta. Non è solo l’antico gioco delle donne perbene messe contro quelle per male. Il conflitto è a tutto campo, nelle vite private come nello spazio pubblico, nelle forme inedite della vendetta. Anche nella scena mediatica. Che non vuole lasciare la parola alle donne, alla loro visione.

Quel grande interprete del sentimento medio che è Bruno Vespa l’ha detto senza esitazione a Porta a Porta: «La prima vittima è l’Arma». Il corpo delle donne rimane un pretesto. Usato contro i migranti, per legittimare il razzismo. Occultato di fronte alla “grande onta” della perdita di onore maschile. Eppure le femministe lo dicono da sempre. La violenza, lo stupro sono compiuti da uomini. Giovanissimi e anziani, di qualunque nazionalità, colore, religione. Qualunque divisa indossino. Oggi è tempo di dire di nuovo che le donne sono, siamo, libere. Che stiamo nel mondo. Perché non tornare nelle strade di notte, insieme?

Su

la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente... (segue)

Su la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente. Lo scritto merita di essere raccontato perché, proprio nella rivendicazione di presunti meriti ambientali, rende palese l’idea di ambiente che ha il segretario del Pd e consente di misurarne l’arretratezza intellettuale oltre che politica.

L’incipit ha una natura retorica e consiste nell’auto-presentazione, o meglio, nella auto-rappresentazione: Renzi amico di Hollande e di Obama, operoso insieme ai capi di stato che la pensano come lui, ferito da Trump. Prosegue il canovaccio con la magnificazione dell’opera del sindaco di Firenze “che ha chiuso al traffico la struggente bellezza dell’area del Duomo” insieme ad altri provvedimenti ecologici e depurativi. La retorica introduttiva si conclude con una captatio benevolentiae: “da sindaco del partito democratico, nel mio piccolo, ho fatto questo; e molti altri sindaci hanno fatto più di me, meglio di me.”; aggiungendo, senza ironia, che “i sindaci del Pd fanno di questo partito oggettivamente il più grande partito ambientalista d’Italia”.

Fin qui l’auto-rappresentazione di un uomo che dà del tu ai potenti ma sa anche occuparsi di questioni pratiche, non importa se apparentemente piccole.

Il secondo passo è lo sciorinamento di tutte le azioni che il governo Renzi o il Pd al governo hanno fatto a favore dell’ambiente: dalla lotta all’abusivismo di Caldoro, (ma non a quello di De Luca e di tanti sindaci Pd “oggettivamente ambientalisti”) alla nuova legge contro i reati ambientali: dai ben 1334 cantieri del progetto Italia Sicura (partito nel 2014 per prevenire il dissesto idrogeologico, se ne sono visti i risultati!), allo SbloccaItalia che “ha riaperto i cantieri immaginati 50 anni fa” (si spera aggiornandoli). Il tutto in una elencazione senza alcun nesso che faccia intravvedere una politica di qualche coerenza e respiro.

Arriva poi il piatto forte che manderà in brodo di giuggiole gli ambientalisti. Enel ed Eni sono incaricati di una nuova missione per la crescita delle energie rinnovabili. La missione implica trivellare l’Adriatico e sfruttare la geotermia dell’Amiata, tutte operazioni notoriamente ad alto contenuto ambientale - ma questo è sottinteso. Sempre elencando, diventano un successo l’Ilva e Bagnoli di cui sarebbero già iniziati i lavori (per ora c’è solo un accordo, certo non merito del Pd renziano).

Infine, c’è la cura del ferro, concordata tra Galletti e Del Rio. Di cui - Renzi non lo dice - quella più micidiale è riservata proprio a Firenze, con il dissennato progetto di sottoattraversamento per la Tav e una stazione sotterranea destinata a una manciata di viaggiatori per giustificare miliardi di spesa; tanto con qualche cantiere e qualche centinaio di milioni in più si può sempre rimediare ai futuri dissesti. Naturalmente, tutte queste belle cose possono essere fatte se la burocrazia non intralcia, (si intende con la pretesa del rispetto delle leggi, dei vincoli paesaggistici, dei piani regolatori, ecc.). Conclusione: chi non è d’accordo strizza l’occhio a Trump, chi è d’accordo venga a darci una mano.

La “risposta” di Renzi, oltre a essere farcita dei soliti annunci scambiati come fatti realizzati, è interessante perché mostra, senza alcun infingimento, l’idea che il segretario del Pd ha del mondo che ci circonda, della natura, di tutto ciò che riduttivamente chiamiamo ambiente, per non parlare di territorio e paesaggio bellamente ignorati. L’ambiente è per Renzi, una serie di criticità che devono essere rimediate, qualche volte prevenute. Renzi, il Pd, e purtroppo gran parte della sinistra con lui, non riflettono sull’idea di sviluppo e sulle scelte di governo che stanno a monte dei disastri ambientali.

Dopo la crisi del 2008, tutti i governi italiani, hanno in ogni modo cercato di stimolare una ripresa economica affidata al finanziamento e alla realizzazione di grandi infrastrutture, non importa se inutili e dannose per ambiente, territorio e paesaggio, non importa se con scarsissimo valore aggiunto (cioè, con pochi posti di lavoro, per lo più di bassa qualificazione). Per contro sono state neglette ricerca, università e cultura, il trinomio che altrove assicura una ripresa economica e uno sviluppo durevole - rispettoso dell’ambiente all’altezza dei tempi. E peggio sta facendo Gentiloni, letteralmente ostaggio delle lobby di Confindustria e delle banche che fanno e disfanno le leggi a loro piacimento: ne è prova l’infame Decreto legislativo 104, recentemente approvato, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo. Stupisce, perciò, che Renzi si sia dimenticato di annoverare il Decreto tra i meriti ambientali suoi e del Pd.

il manifesto

Chiara Saraceno L’equivoco della famiglia, Laterza, pp. 208

Famiglia è una delle parole più usate nel lessico della quotidianità e uno dei concetti ritenuti più chiari, più semplici, perfino più (apparentemente) «naturali». Un termine che diamo per scontato nella sua (supposta) ovvietà. E su cui, per pigro trascinamento semantico, portiamo avanti tutta una serie di stereotipi e di preconcetti che ci impediscono di vedere le profonde e veloci trasformazioni che negli ultimi decenni hanno rivoluzionato la stessa parola famiglia, tanto è vero che negli Stati Uniti il Censis Bureau vi aggiunge l’espressione living arrangement.

Chiara Saraceno, figura notissima di studiosa di sociologia della famiglia, in questo veloce volume (L’equivoco della famiglia, Laterza, pp. 208, euro 15) ci aggiorna sulle vicende della famiglia italiana facendo soprattutto pulizia delle ambiguità e delle ovvietà che vi pullulano e che rendono spesso la famiglia un ideale o una ideologia. In sette capitoli affronta agilmente tutti quei mutamenti – che in sintesi definiamo sociali, ma che in realtà sono demografici, culturali, religiosi, lavorativi, tecnologici, di welfare, giuridici – che hanno trovato nella famiglia il pivot più eclatante e visibile ma che in realtà sono i mutamenti con cui la modernità e la post modernità hanno rovesciato, in pochi lustri, la società italiana.

Una «apocalisse culturale» per dirla con de Martino, una «grande trasformazione» per dirla invece con Polany, che sono silenziosamente avvenute tra le mura di casa, nella quotidianità del vivere insieme, nelle relazioni affettive e di cura che connotano le figure dette appunto familiari. Saraceno parla di famiglia come «sostantivo plurale» e di famiglie «(s)confinate», cioè con architetture affettive ampie, mutevoli, variegate che spesso vanno al di là delle rigide (e datate) definizioni normative e talvolta anche degli schemi mentali di qualcuno. Tratta anche di nuovi padri e nuove madri (e anche del diventare genitori nell’epoca della riproduzione assistita). E dei diritti dei bambini, in primis ad avere dei genitori, pure dello stesso sesso, ma anche il diritto a essere liberati dallo sfruttamento lavorativo – 64mila minori di 14 anni hanno avuto un infortunio sul lavoro nel 2013, dice l’Inail – nonché il diritto allo ius soli per quella seconda generazione di migranti nati e cresciuti qui.

Si fanno più complessi poi i rapporti e i passaggi tra generazioni, generazioni sempre più squilibrate per motivi demografici, lavorativi, di welfare, perfino tecnologici, anche se «gli anziani costituiscono spesso l’unica rete di protezione disponibile per le generazioni più giovani», ammette Saraceno. Nonostante sia molta la ricchezza nascosta nel lavoro di cura – appannaggio com’è noto delle donne – il gender gap italiano è sconcertante. Perché le donne continuano a essere penalizzate dal minor tasso di occupazione e dai bassi salari. Per non parlare delle troppe madri (il 20%) che devono abbandonare il lavoro per occuparsi dei figli (specie il secondo o il terzo).

Al di là delle immagini edulcorate, inoltre, la famiglia ha anche un suo lato oscuro talvolta ospitato dalla cronaca nera: quasi una donna su tre è vittima di violenza nel corso della vita, frutto di «modelli di genere polarizzati», a cui vanno aggiunti i casi di matricidio e parricidio.

E infine le politiche per la famiglia, sollecitate dal calo della fecondità, dalla povertà dei nuclei numerosi, dalla maggior occupazione delle donne e dall’invecchiamento del paese: politiche che latitano non solo per motivi finanziari, ma anche perché fanno riferimento a modelli che non esistono più – ecco un esempio di «equivoco della famiglia» – mentre il dibattito sulle politiche di sostegno diventa facilmente ideologico («quali» famiglie aiutare?) e quindi inconcludente.

Un libro indicato soprattutto per coloro che – ignorando o respingendo la dilatata complessità delle famiglie attuali – si rifugiano con accorata nostalgia nella famiglia (astratta perché idealizzata e ideologicizzata) di un astorico buon tempo antico. Dimenticando la lezione di uno dei padri della sociologia, il francese Emile Durkheim, che nel 1888 scrisse: «Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti (…). La famiglia di oggi è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse».

il manifesto«Immigrazione. L’assist del papa rinfocola la canea antiprofughi, ma Francesco ha voluto evidenziare che non c’è accoglienza senza integrazione. I posti vanno cercati in Europa».

Certamente papa Francesco era consapevole che l’assist dato alle politiche migratorie del governo italiano avrebbe avuto l’effetto di rinfocolare la canea antiprofughi delle destre razziste, non solo italiane ma anche europee. Destre di cui peraltro le strategie del ministro Minniti – e prima di lui le parole di Renzi – ricalcano i punti fondamentali: l’abbiamo sempre detto «non c’è più posto»; caso mai, «aiutiamoli a casa loro», ecc.

Francesco ha voluto evidenziare una cosa che questo giornale sostiene da sempre: che non c’è accoglienza senza integrazione; senza la capacità di dare casa, lavoro, reddito, scuola e servizi sociali a chi si è visto costretto a cercare tra noi rifugio o speranza di sopravvivere. Ha anche ricordato che la questione dei profughi e dei migranti, insieme a quella del clima – tra loro strettamente legate – è la questione centrale del nostro tempo: tanto per il «cuore», cioè per lo spirito da cui ciascuno di noi si deve sentire guidato, quanto per la «politica», cioè per le scelte che ogni paese deve fare.

Ricevere, dice Francesco, è un comandamento di Dio, perché «tu sei stato schiavo – migrante – in Egitto». Ma poi, è come se Mosè, nel sottrarre il suo popolo al dominio del faraone, ne avesse lasciata in Egitto una buona metà, perché nella terra promessa «non c’è posto per tutti»; magari per poi aiutarli là, «a casa loro». Ma dicendo «Primo: quanti posti ho?», Francesco ha perso una grande occasione, che forse lo separerà, lasciandoli più soli di quel che già sono, da quanti cercano di andare alla radice del problema, perché solo così lo si può affrontare se si vuole aprire una prospettiva vincente.

Il fatto è che «i posti» per i nuovi arrivati non sono in numero fisso; questo dipende dalle scelte politiche. Per il fascista Orbán, e per i governi del gruppo di Visegrad, non ce n’è neanche uno. Per la Germania sembrava che ci fossero senza limiti. Ma poi, lasciata sola, anche la Germania ha stretto lei il passaggio.

PER L’ITALIA, CHE Francesco ringrazia, insieme alla Grecia, «perché hanno aperto il cuore sui migranti», la situazione è più complessa. Metà della popolazione proprio non li vuole; l’altra metà, o forse meno, li ha accolti volentieri e in molti si sono prodigati per alleviarne le sofferenze. Ma le scelte politiche sono venute dopo, di fronte a un flusso che entrambi i governi non sono riusciti a fermare; e non senza tollerare, quando non scatenare, episodi di violenza contro esseri così indifesi. L’arrivo di tante persone ha comunque costretto entrambi i governi a creare molti più «posti» di quanto ne avrebbero voluti. Tuttavia, a creare «il problema», cioè l’insofferenza o l’aperta ostilità da cui profughi e migranti sono spesso circondati, è il modo in cui la maggior parte di loro viene trattata, o abbandonata senza prospettive, o imprigionata in contenitori piazzati senza alcuna attenzione tra la parte più emarginata della popolazione locale, e non il loro numero. La questione dei «posti mancanti» nasce di lì.

Ma quello che a Francesco certo non sfugge è il fatto che il ministro Minniti e il governo italiano, i posti che non vogliono o non riescono a creare in Italia non sono andati a cercarli in Europa – dove peraltro la maggior parte dei nuovi arrivati vorrebbero andare – adoperandosi per forzare le chiuse dell’Unione e dei loro governi con tutti i mezzi a propria disposizione; cioè mettendo in chiaro che da ciò dipende non solo la coesione, ma la sopravvivenza stessa dell’Unione. Perché un’Europa sigillata come una fortezza assediata è destinata a finire in mano alle destre nazionaliste e xenofobe: scioviniste non solo nei confronti dei profughi, ma di tutte le altre nazioni europee.

I POSTI CHE «MANCANO» in Italia Minniti è andato a cercarli in Libia e ancora più giù; e sappiamo di che posti si tratti. Lo sa anche Francesco; e a ricordarglielo è stato anche, in un post virale, Andrea Segre, il regista del film L’Ordine delle cose. Così risulta alquanto ipocrita il suo auspicio che il governo italiano faccia di tutto per risolvere in modo umanitario il problema delle persone rimaste in Libia. Certo – dice Francesco – la condizione di chi è rinchiuso nei Lager libici deve cambiare e all’Africa non bisogna più guardare come a un continente da sfruttare; ma sono auspici vaghi che non si discostano da quelli dei governi europei impegnati a fondo nel fare il contrario. E anche l’accenno al tema intorno a cui ruota tutta la presunta strategia «umanitaria» europea – la distinzione tra profughi e migranti economici – non fa chiarezza.

Forse su una distinzione così importante occorre porsi una domanda elementare: un’adolescente nigeriana, venduta dalla sorella ai gestori della tratta, o reclutata dagli stessi con la promessa di un lavoro, e poi violentata in modo seriale, sia in Libia, da prigioniera, che, da schiava del sesso, in Italia (il paese al primo posto nel mondo per turismo sessuale, con nove milioni di maschi adulti frequentatori abituali di prostitute), magari preservando la sua verginità per il primo cliente, come raccontato nel bel reportage di Francesca Mannocchi sull’Espresso, è una profuga o una «migrante economica»? E la stessa domanda si può porre a proposito di decine di migliaia di uomini sfruttati in modo bestiale nelle campagne e nei retrobottega dei ristoranti, o definitivamente lasciati per strada, per i quali quella è comunque la loro ultima chance di sopravvivenza.

Il fatto è che le barriere frapposte all’arrivo di un popolo che fugge dai rispettivi paesi perché là non può più vivere, affrontando non solo un viaggio pieno di rischi e violenza, ma anche un futuro di emarginazione e miseria (perché che cosa li aspetti una volta «arrivati» in Italia non sfugge più a nessuno), non sono fatte solo di reti, di filo spinato, di cani inferociti e di guardie armate, né solo di accordi con banditi vestiti da Guardia costiera o da sindaci libici.

LA VERA BARRIERA è la politica dell’Unione europea, che in Africa e in Medio Oriente continua a distruggere i loro paesi affiancando o conducendo direttamente guerre devastanti e sostenendo multinazionali che saccheggiano i loro territori; e che in Europa pratica politiche che non sanno né vogliono dare posti di lavoro, reddito e casa a un numero enorme dei propri cittadini; e che proprio per questo non hanno più «posti» per chi arriva da fuori. Ma l’Europa, cioè tutti noi, si salverà soltanto quando queste politiche potranno essere rovesciate; e non scaricandone il peso sui più disperati. Dove non arrivano, e non arriveranno, né i governi né il papa, dovrà essere un movimento di massa a imporre quella grande svolta.

barbara-spinelli.it

Strasburgo, 12 settembre. Barbara Spinelli è intervenuta nel corso della seduta Plenaria del Parlamento europeo dopo la dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, sui “Recenti sviluppi in materia di migrazione”. Di seguito l’intervento:

Immagino che il vicepresidente Mogherini conosca i moniti dell’Alto Commissariato Onu e di Medici senza frontiere, a proposito degli effetti degli accordi di Parigi su Libia, Ciad e Niger. Nei moniti si parla di campi di detenzione libici dove i migranti subiscono violenze e morte. L’allarme delle Ong concerne anche il controllo da parte del Ciad e del Niger delle rotte di fuga, a Sud della Libia. Saranno loro – assistiti da forze europee – a controllare le oasi dove le carovane si fermano per dissetarsi. Le nuove rotte saranno minate o prive di pozzi d’acqua.

La verità è che l’Africa diverrà una nostra prigione, dalle inaudite proporzioni, che co-finanziamo. E la cosa più impressionante è che l’Unione è al corrente di questo. Non ignora che l’80 per cento degli sfollati già è in Africa. Che in Europa arriva una parte minima. Che la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra.

Ciononostante, l’Unione si rallegra della diminuzione dei flussi, degli smuggler beffati. Questo rallegrarsi è il capitolo più nero della sua storia presente. Nei comunicati, l’ipocrisia giunge sino a sostenere che questo avverrà rispettando i diritti dell’uomo. Definire “inaccettabili” i centri di detenzione libici è del tutto insensato, Signora Mogherini, visto che l’Unione li ha accettati.

La cosa sicura è che l’Unione non potrà dire, quando sarà chiamata a render conto – perché prima o poi lo sarà: “Non sapevamo”.

14 settembre 2017. Due realtà politiche molto vicine tra loro sia per la sostanza neoliberista e la maschera democratica dei partiti dominanti sia per l'assenza di un'alternativa di sinistra.

A un mese dalle elezioni parlamentari tedesche anche nella stampa italiana (p.es. l'Espresso 35/2017) si parla già di una "beatificazione" della Cancelliera Merkel ripetendo il cliché, caro alle destre, di un suo presunto "spostamento a sinistra" - dall'accoglienza dei migranti nel 2015 alle recenti riforme civiche. Eppure non si tratta d'altro che dell'abile pragmatismo conservatore della cancelliera che riesce spesso a cogliere delle tematiche nell'aria facendole sue, smontandole e rendendo obsolete le rispettive richieste politiche dell'opposizione. Questa è una prassi conservatrice collaudata in Germania, basti ricordare le riforme di welfare ante litteram di un Bismarck, che introdusse nell'Ottocento di fronte alla temuta avanzata della SPD già una prima previdenza sociale o del Cancelliere Adenauer, che varò nel lontano 1957 un consistente aumento delle magre pensioni di vecchiaia e il loro aggancio dinamico ai salari, assicurando con ciò la maggioranza assoluta alla sua CDU nelle elezioni successive.

Secondo tutte le previsioni la cancelliera seguirà dunque i suoi predecessori Kohl e Adenauer ponendosi per un quarto mandato alla guida del governo della Bundesrepublik, più che altro per la non-esistenza di una vera alternativa politica, ritornello ripetuto da anni dalla stessa Merkel. «Keine Experimente» (nessun esperimento): in Germania vince ancora quella vecchia massima della CDU, anni '60, contro cui la SPD già allora seppe contrapporre solo un timido: «Osare più democrazia!» ("Mehr Demokratie wagen".)

Eppure in Italia non ci si stanca di ammirare proprio quella stabilità politica tedesca contrapponendola alla deplorata instabilità italiana. Il che corrisponde alla realtà solo se si confrontano i numeri dei rispettivi governi nel dopoguerra, ma non la persistenza del blocco sociale ed economico al potere nei due paesi. Qui l'Italia potrebbe vantare addirittura una stabilità maggiore, dovuta ad un vero e proprio blocco del sistema delle forze al potere, non avendo mai permesso al maggior partito di opposizione di arrivare alla guida del governo. Solo dopo la fine dell'URSS, il conseguente scioglimento del PCI e la esplicita svolta della sua reincarnazione nel PD verso posizioni neoliberiste, questa ex-sinistra ha potuto - sempre per breve tempo e in coalizioni con varie forze del centro politico - assumere la guida del paese, per lo più per compiere le impopolari, ma decisive scelte europeiste come l'entrata nell'Euro e varie misure di deregolarizzazione economico-sociale. E lo stesso blocco sociale (nonostante le seguenti fantasiose denominazioni delle vecchie forze politiche in campo) dovrebbe continuare a guidare il Belpaese anche dopo le elezioni politiche del 2018, almeno secondo gli auspici di Berlino e Bruxelles, magari addirittura con una Grosse Koalition alla tedesca, tra una ri-berlusconizzata FI e il residuale PD.

Intanto la Grosse Koalition incombe ancora sulla Germania, nonostante essa in tre legislature abbia portato il partner minore, l'SPD, ad un declino che pare ormai inarrestabile. Lo stesso sfidante attuale, Martin Schulz, estratto ex novo dal cappello elettorale come un coniglio bianco, non è riuscito a smarcarsi da una impostazione politica troppo vicina a quella della cancelliera in carica. Dopo l'unico duello televisivo tra i due, percepito piuttosto come un “duetto”, Schulz viene anche già visto come possibile futuro vicecancelliere e ministro degli esteri. Anche in Germania - dove i partiti postbellici non hanno subito la Caporetto dei partiti italiani - le elezioni del parlamento federale si sono ormai da anni trasformate in confronti tra i singoli leader, ai quali gli elettori si sottomettono per lo più come sudditi. Ma la disaffezione ai partiti tradizionali si manifesta anche lì sia nell'astensionismo crescente, sia nella proliferazione di partiti minuscoli: nelle elezioni del prossimo 24 settembre gli elettori possono scegliere tra ben 21 liste diverse.

Rispetto alle elezioni del 2005 e del 2013 anche in Germania la prospettiva politica si è ulteriormente spostata a destra. Allora gli elettori si erano espressi ancora in maggioranza numerica proporzionale per i partiti a sinistra della Cdu/ Csu, ovvero per Spd/Linke / Grüne - una coalizione politica tuttora irrealizzabile tra queste forze - sicché di fatto la Merkel fu "senza alternativa" già allora. Ma questa volta la sinistra è fuori gioco dall'inizio e la questione di un'alternativa politica non si pone affatto (avendo Martin Schulz escluso dall'inizio una coalizione con la Linke). Decisivi per eventuali nuove prospettive di coalizione della Cdu/Csu saranno dunque i voti a favore dei partiti minori, che figurano ciascuno intorno al 10%, in prima linea i Verdi e di nuovo i liberali della FDP, risuscitati grazie ad un nuovo leader yuppi, oltre alla Linke e all' AfD, fuori dall'orbita di governo.

La crescente protesta sociale dei tedeschi non ha rafforzato la sinistra della Linke, ma si è raccolta negli ultimi anni intorno ad una destra, che si autoproclama abilmente come unica "Alternativa per la Germania "(Afd). L' affermazione di questo nuovo partito xenofobo, composto da varie anime più o meno estremiste, compresi elementi ex-democristiani e neo-nazisti, costituisce una preoccupante novità nel panorama politico. Per lunghi decenni la Cdu/Csu si era sempre vantato di aver tenuto fuori dalla sfera del governo federale i partiti "a destra della Csu", soprattutto i neonazisti dellla Npd e dei Republikaner, che non avevano mai oltrepassato l'ambito regionale.

Al riguardo è diffusa l'opinione chela svolta a destra sarebbe una conseguenza della politica generosa di Mutti Merkel verso i profughi, che in verità non sarebbero poi così benvoluti dal paese profondo, come voleva farsi credere. Con ciò non si mette in conto la crescita dei movimenti di destra già ben prima dell' estate del 2015, in seguito al crescente disagio sociale nei Länder perdenti (ad est come ad ovest) nella riconversione economica della Germania dopo l'affrettata riunificazione nazionale. Una tematica che la politica ha rimosso ormai da un quarto di secolo.

La Germania, il paese più ricco d'Europa, è storicamente connotata da una grande diseguaglianza economica, caratteristica rafforzata dalla riforma monetaria del 1948, attuata nelle zone occidentali sotto controllo degli alleati a guida USA, che anticipò la successiva divisione nazionale. Ma nella Repubblica federale il divario sociale venne mitigato negli anni della ricostruzione postbellica e del boom economico da strumenti di welfare crescenti. Un complesso sistema di sussidi sociali e di disoccupazione, smantellato dopo il 2000, ovvero razionalizzato secondo le direttive neoliberiste della Agenda 2010, aveva ancora tenuti a bada i milioni di disoccupati degli anni Settanta e Ottanta. La cosiddetta riunificazione aveva poi risollevata la bassa congiuntura economica e portato anche ad una profonda "riforma" sia delle condizioni di lavoro che del welfare unificato, ad opera della Spd del Cancelliere Schröder (2001/04). Fu l'inizio del lento declino politico alla Spd. Queste cosiddette riforme Hartz hanno precarizzato il lavoro e imposto ai disoccupati e ai lavoratori poveri (working poor) un rigidissimo controllo burocratico e sociale, difficilmente pensabile e ancor meno imponibile in paesi con strutture statali meno forti ed efficienti. Eppure proprio a questo “modello tedesco” dovrebbero ispirarsi anche gli stati più deboli economicamente, secondo il volere del governo di Berlino. Questo intende Angela Merkel quando parla dei “compiti a casa” (Hausaufgaben) per l'Europa, al momento è la Francia di Macron a provarci ancora.

E non mancano i tentativi di "riforma" neanche in Italia -da tempo nel mirino sono p.es. le pensioni italiane finora ancora "più ricche" percentualmente rispetto a quelle tedesche, che corrispondono ormai solo più al 47% dell'importo dell'ultimo stipendio (2016), con tendenza al ribasso. Ma in Germania esse vengono integrate, almeno per i più fortunati, da diverse forme pensionistiche aziendali o private, quasi inesistenti in Italia. Prove evidenti dell' inadeguatezza assoluta al bisogno reale delle nuove proposte di welfare in Italia sono anche i recenti progetti della REI, ovvero del magro sussidio previsto per appena un quarto dei milioni di poveri. In un' Italia deindustrializzata con milioni di disoccupati e senza massicci investimenti pubblici e privati per una riconversione dell'economia mancano i soldi per garantire la sopravvivenza a tutti, a meno che non si invertono i meccanismi di fondo che sorreggono l'economia europea. Ma di questo non si parla, non si discute nei comizi elettorali. E nei programmi dei partiti dominanti mancano - in Germania come in Italia - proprio delle visioni ampie per un futuro che possa affrontare in modo diverso le grandi contraddizioni e i compiti urgenti del nostro tempo.

Che cosa allora si dovrà aspettare domani un qualunque nuovo governo italiano da un reiterato governo della grande finanza tedesca a guida Merkel, con o senza Schäuble, ma con un probabile nuovo presidente della Bce (dal 2019) di cognome Weidmann? E chi dirigererà il nuovo ministero delle finanze europee appena propagandato dal Presidente Juncker?

non tentare di aprire gli occhi a chi non vede.

Qualche giorno fa, sul sito di Amazon è apparso un bando che invita le città nord americane a candidarsi per ospitare il secondo quartier generale del gruppo. Denominato HQ2 (second headquarters), il nuovo insediamento avrà dimensioni non inferiori a quelle dell’attuale sede di Seattle, dove la corporation, con i suoi 40 mila dipendenti, occupa il 20% della superficie destinata a uffici.

Che le città facciano a gara per attirare le grandi imprese non è una novità, ma l’iniziativa rappresenta un cambiamento notevole rispetto alla prassi di trattative segrete con i pubblici amministratori, perché il bando elenca e descrive in dettaglio i requisiti per candidarsi, ed i criteri con i quali verrà scelta la località vincitrice del premio, che consiste nel miraggio di cinquanta mila posti di lavoro.

Dovrà trattarsi di un’area metropolitana con almeno un milione di abitanti, un ambiente business friendly - documentato da testimonianze di grandi compagnie già attive nella zona - buone scuole e università tali da attrarre e mantenere in loco talenti e forza lavoro altamente qualificata, un’ottima dotazione in infrastrutture e trasporti. Requisiti irrinunciabili sono anche una adeguata offerta residenziale, un basso livello di criminalità, un’ampia diversificazione demografica e una ricca gamma di servizi e amenità ricreative, perché, dice il bando, “ vogliamo investire in comunità dove i nostri dipendenti possano godere di un’alta qualità di vita”.

Ovviamente, la compagnia chiede di specificare gli incentivi finanziari offerti dai governi locali e statali, nonché la disponibilità ad approvare nuove leggi ad hoc per aumentare la convenienza finanziaria dell’investimento, perché “sia il costo iniziale del progetto che i successivi costi dell’attività sono fattori decisivi nella nostra scelta”.

Alcuni commentatori hanno definito l’iniziativa “the Olimpics of corporate relocation” e paragonato i suoi presumibili effetti a quello che succede quando le città competono per ospitare le Olimpiadi, negoziando accordi e concessioni i cui costi superano ampiamente i benefici per le comunità interessate.

Tra gli osservatori più attenti, l’organizzazione Good Jobs First ha ricostruito la serie di enormi favori che Amazon ha già ricevuto in sgravi fiscali e sussidi di vario genere, che ammonterebbero a circa un miliardo di dollari negli ultimi dieci anni, ed ha suggerito ai contribuenti di “stare attenti al loro portafoglio perché, per aggiudicarsi il trofeo, i politici offriranno tagli di tasse e incentivi che verranno pagati dai residenti e dalle piccole attività economiche locali”.

Interessanti sono anche le reazioni che il bando per HQ2 ha suscitato a Seattle, dove il gruppo si è insediato a metà degli anni ’90, e dove si trova HQ1. Qui, con la sua presenza predominante, Amazon ha fatto lievitare i prezzi delle case e il costo della vita ed è da tempo oggetto di campagne antigentrification, mentre poco migliorano la sua immagine sporadici gesti di beneficenza, come la concessione di una parte di un suo edificio a un ricovero per senza tetto. Anche i rapporti con l’amministrazione sono altalenanti, e una recente proposta di aumentare le tasse per i redditi più alti ha irritato la compagnia. Nel complesso in città si registra “sollievo” perché “Amazon non va via, ma non raddoppia la sede qui”, riconoscendo che, in ogni caso, “sono loro che decidono”.

Incuranti di questi avvertimenti, lo stesso giorno in cui è apparso il bando, sindaci e amministratori in tutti gli Stati Uniti e il Canada hanno rilasciato dichiarazioni perentorie circa la loro intenzione di vincere la gara. Da Dallas (dimostreremo in modo aggressivo che siamo il posto giusto) a Toronto (abbiamo tutto quello che stanno cercando) a Baltimora (sanno che siamo un buon partner), tutti sono pronti a battersi fino all’ultimo dollaro pubblico e hanno formato gruppi di lavoro che sono già all’opera. Bisogna, infatti, agire in fretta (la scadenza per presentare le offerte è il prossimo 17 ottobre) e costruire candidature corroborate da concrete informazioni, a cominciare dai siti che le città mettono a disposizione.

A questo proposito il bando specifica che sono accettabili sia zone urbane che suburbane, vuote o con edifici abbandonati, purché in posizione pregiata e con molto spazio (a prime location with plenty of space to grow), e che Amazon vuole avere a che fare con “comunità che pensano in grande e in modo creativo quando si tratta di localizzazioni e scelte di sviluppo”, vale a dire sono disposte ad adottare norme e regolamenti edilizie e urbani tali da non rallentare le sue attività di costruzione.

Società di developers stanno affiancando le amministrazioni nella identificazione dei siti adatti a quello che, secondo gli esperti del real estate, sarà il più grande affare immobiliare dei prossimi anni. Si inizierà con un lotto di cinquanta mila metri quadrati, ma alla fine l’intervento consisterà in oltre settecentomila mila metri quadrati di superficie (più grande del Pentagono che ne misura seicentomila) su un’area di almeno quaranta ettari. Su questa enclave privilegiata il governo dell’area metropolitana concentrerà enormi risorse, inevitabilmente togliendole da altre voci di spesa.

Le offerte saranno rese note fra un mese, ma sembra fin d’ora condivisibile l’opinione di chi ritiene che stiamo per assistere ad “un’asta tra le città americane che diventerà un capitolo da manuale nella evoluzione dei rapporti tra corporations e comunità locali”.

Nel silenzio del governo italiano prosegue il depistaggio sul rapimento, la tortura e l'assassinio di Giulio Regeni. Una complicità basata su interessi petroliferi? Non c'è bisogno di essere maligni per sospettarlo.

la Repubblica, 11 settembre 2017

Prima hanno messo off line il loro sito Internet. E ora arrestato e “fatto sparire” uno dei loro legali che si stava recando a Ginevra per una conferenza alle Nazioni Unite, dove avrebbe parlato anche del sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni. Continua la guerra dell’Egitto di Al Sisi all’Ecrf (l’Egyptian commission for right and freedom), ossia i consulenti legali della famiglia Regeni al Cairo.

L’offensiva è ripartita nei giorni scorsi quando l’Ecrf ha pubblicato on line il nuovo rapporto sulle sparizioni forzate censendone 378 negli ultimi 12 mesi. Report che in Egitto non si può più scaricare dalla pagina Internet dell’associazione, perché la pagina è stata chiusa dal governo.
Ieri è successo però altro, denunciano dall’Ecrf. L’avvocato Ibrahim Metwaly, 53 anni - una delle persone che fisicamente avevano scritto quel rapporto in cui vengono messe nero su bianco alcune pratiche del regime egiziano, purtroppo ben note in Italia è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre saliva su un volo per Ginevra dove era stato invitato per relazionare al consiglio dei diritti umani sulla situazione in Egitto.
«Metwaly avrebbe dovuto parlare, tra le altre cose, di suo figlio Omar, sparito nel 2013 e anche di quanto accaduto in Egitto a Giulio Regeni », fanno sapere dall’Ecrf. «Ibrahim – dicono ancora – sembra essere sparito nel nulla. Dopo il suo arresto, per accuse che chiaramente non ci sono assolutamente note, non abbiamo saputo più nulla. E per questo siamo molto preoccupati per quanto può accadere».
Che Sisi e il suo governo abbiano nuovamente alzato l’attenzione contro chi si occupa di tutela di diritti umani era, d’altronde, chiaro da giorni. Dopo la pubblicazione da parte di Human Rights Watch di un altro rapporto-denuncia sull’uso sistematico della forze e della tortura da parte dei servizi di sicurezza egiziani, era partito l’ordine di oscurare anche il loro sito per rendere clandestina la ricerca. Si tratta in questo caso di 63 pagine nelle quali vengono raccolte testimonianze di detenuti e familiari di scomparsi che raccontano come «la polizia e i funzionari della Sicurezza nazionale usano regolarmente la tortura nei loro interrogatori per costringere presunti dissidenti a confessare o divulgare informazioni ».
«Quel rapporto è pieno di calunnie», hanno risposto funzionari del governo. Che hanno riservato ad altri lo stesso trattamento di Ecrf e Human Rights: da maggio il governo egiziano ha bloccato 420 siti web e agenzie di informazione, come il giornale on line Mada Masr o i media indipendenti, da Al Jazeera all’Huffington Post Arabic.
Sarà dunque questo il clima che troverà la prossima settimana il nostro ambasciatore, Gianpiero Cantini, che dopo più di un anno riaprirà la sede diplomatica italiana al Cairo. Ed è in questo clima che si dovrebbe tenere, probabilmente entro il mese di settembre, il vertice dei magistrati italiani con la procura generale del Cairo che ha promesso, per l’ennesima volta, «tutto lo sforzo per trovare gli assassini e i torturatori di Giulio». Sforzo che, fino a questo momento, si è rivelato poco più che una presa in giro.
«Russia, Usa, Francia, Cina, Gran Bretagna, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord hanno bombe, missili, sottomarini. Una corsa al riarmo in barba ai trattati».

il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2017 (p.d.)

Il mondo è in pieno riarmo nucleare. Non tanto per il numero di testate, in lento calo dopo il nuovo trattato Start del 2010, ma per i programmi di modernizzazione delle forze nucleari avviati da tutte le nazioni armate di atomica. Non solo la Corea del Nord, ma tutti i nove Stati nucleari sono impegnati in costosissimi progetti per la costruzione di bombe più potenti o di nuovi missili, bombardieri e sottomarini per il lancio di testate nucleari. Una competizione tra programmi a lungo termine che, come osserva l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, dimostra che “nessuno di questi Stati sarà pronto a privarsi del suo arsenale nucleare nel prevedibile futuro”.
Il 92% delle quasi 15.000 testate nucleari esistenti – di cui 4.150 schierate, cioè ponte all’uso – si trova negli arsenali americani e russi in quantità equivalenti: 7.000 in Russia (di cui 1.950 schierate) e 6.800 negli Stati Uniti (di cui 1.800 schierate). Le due potenze nucleari europee, Francia e Gran Bretagna, detengono rispettivamente 300 testate (quasi tutte schierate) e 215 testate (la metà schierate). La Cina ha 270 bombe, tutte schierate, così come gli eterni nemici India e Pakistan che ne hanno circa 130 ciascuna, tutte puntate contro il vicino avversario. Anche le 80 atomiche di Israele sono pronte all’uso. Infine la Corea del Nord, che sembra averne almeno una ventina, il triplo secondo Washington.
Troppo spesso nel tracciare la mappa globale del Risiko atomico (che fino agli Anni 90 comprendeva anche Sudafrica, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan) ci si limita a questi nove Paesi dimenticando di citare anche gli Stati nucleari “in subappalto”, tra cui l’Italia, vale a dire le cinque nazioni che fin dagli Anni 60, in virtù della dottrina atlantica della “condivisione nucleare” (Nuclear Sharing) detengono bombe atomiche Usa che, in caso di conflitto nucleare, saranno impiegate dalle forze aeree nucleari nazionali (oggi i Tornado, domani gli F-35). In tutto almeno 150 bombe, di cui un terzo in Italia (nelle basi di Aviano e Ghedi), altrettante in Turchia e il resto spartito tra Germania, Belgio e Olanda. Tutti Paesi, Italia compresa, che non a caso hanno boicottato il Trattato per la messa al bando degli armamenti nucleari approvato a luglio dall’Assemblea generale Onu.
Stati Uniti. Obama aveva avviato – e Trump sta portando avanti – un poderoso programma di ammodernamento nucleare da 400 miliardi di dollari fino al 2026 (un trilione di dollari in trent’anni) per potenziare le bombe termonucleari tattiche B61 (comprese quelle schierate in Italia), costruire i nuovi bombardieri nucleari a lungo raggio B-21 per rimpiazzare i vecchi B-52 e B-1, i nuovi missili nucleari da crociera Long-Range Standoff, i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Ground Based Strategic Deterrent destinati a sostituire i vecchi Minuteman III e infine i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Columbia che prenderanno il posto della classe Ohio.
Russia. Anche Putin, in risposta al dispiegamento dello scudo antimissile americano in Polonia e Romania e allo sviluppo del programma Usa Prompt Global Strike (Attacco Globale Fulmineo), sta investendo molto nell’ammodernamento dell’arsenale nucleare ex-sovietico. Dopo aver costruito i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi RS-24 Yars in grado di trasportare sei testate termonucleari capaci di colpire obiettivi diversi, il Cremlino sta testando gli ancor più potenti missili intercontinentali pesanti da silos RS-28 Sarmat, che di testate ne potranno trasportare addirittura quindici e che pare abbiano capacità di condurre bombardamenti atomici orbitali. Senza dimenticare i nuovi bombardieri nucleari Tu-160 e i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Borei.
Gran Bretagna. Nel 2015 il governo conservatore del primo ministro David Cameron, su proposta del segretario alla Difesa Michael Fallon, ha avviato il discusso programma di sostituzione della flotta di sottomarini lanciamissili nucleari classe Vanguard con i nuovi sottomarini classe Dreadnought che verranno armati con missili Trident II dotati di nuove testate Mark 4A, più potenti e precise. Il costo complessivo del programma è stimato in 45 miliardi di dollari.
Francia. La Difesa francese, oltre a portare avanti il programma di ammodernamento dell’arsenale missilistico nucleare sottomarino con i nuovi missili balistici intercontinentali M51, ha avviato dal 2012 lo studio per la sostituzione dei sottomarini lanciamissili nucleari classe Triomphant. Analogamente, per la componente aerea, Parigi ha deciso l’ammodernamento del missili nucleari da crociera a medio raggio ASMP-A in dotazione ai bombardieri Mirage e Rafale e la loro sostituzione con missili nucleari supersonici e stealth ASN4G (prodotti da MBDA, partecipata da Leonardo).
Cina. La Repubblica popolare cinese sta testando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi Dongfeng-41 (DF-41) ognuno in grado di trasportare una dozzina di testate termonucleari: una volta operativi, saranno i missili a più lunga gittata esistenti al mondo, in grado di colpire il territorio americano. Grande importanza riveste per Pechino lo sviluppo di un’effettiva deterrenza nucleare marittima basata sulla creazione di una flotta di moderni sottomarini lanciamissili nucleari, i Type 094 classe Jin, armati con i nuovi missili nucleari intercontinentali JL-2. La Cina si sta dotando anche di un bombardiere strategico nucleare stealth a lungo raggio Xian H-20 per rimpiazzare gli H-6 di vecchia concezione, così da mettersi al pari con i B-21 americani.
India e Pakistan. I due storici nemici (non firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare del 1970) stanno entrambi lavorando per accrescere i loro arsenali, oltre a potenziare le rispettive forze nucleari, non solo per deterrenza reciproca. Nuova Delhi sta sviluppando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Agni-V in grado di colpire anche la Cina e si sta dotando per la prima volta di una flotta di sottomarini lanciamissili nucleari, classe Arihant, armati con i nuovi missili K-4, attualmente in fase di test. Islamabad rincorre il nemico lavorando ai nuovi missili nucleari balistici Shaheen-III, e alla costruzione di una deterrenza nucleare marittima, ma soprattutto allo sviluppo di piccoli ordigni nucleari tattici da impiegare contro l’India.
Israele. I progetti nucleari militari israeliani rimangono avvolti nel mistero, a partire dal reale numero di testate (il doppio delle 80 dichiarate secondo alcune fonti). Si sa solo che Tel Aviv (non aderente al Tnp) sta testando un nuovo missile nucleare balistico intercontinentale, il Jericho IV, in grado di colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta, e sta continuando ad accrescere la sua flotta di sottomarini tedeschi classe Dolphin, in grado di lanciare missili Popeye armabili con testate nucleari.
Corea del Nord. Come noto, il regime di Kim Jong-un ha condotto negli ultimi mesi una serie di test con missili balistici Hwasong che gli consentono di minacciare con armi nucleari non solo il Giappone e la base americana di Guam nel Pacifico, ma addirittura la costa ovest degli Usa e l’Europa. Non è chiaro se, oltre alla gittata, questi missili siano anche in grado di colpire accuratamente il bersaglio.

il manifesto, 10 settembre 2017, con riferimenti

L’inchiesta sulla rivoluzione d’ottobre, donata dal manifesto, fa bella mostra di sé nelle 33 tavole giganti che abbelliscono gli spazi della festa nazionale di Rifondazione comunista. I giardini dell’Obihall sono affollatissimi, almeno mezzo migliaio di donne e uomini di ogni età riempiono il ristorante e il contiguo spazio dibattiti, dove questa sera si parla di «Sinistra: come, dove e quando». Ci sono Tomaso Montanari, che appena due giorni prima ha catalizzato l’attenzione di trecento attivisti fiorentini nel suo giro d’Italia organizzato per dare fondamenta all’appello del Brancaccio. Poi Paolo Berdini, Chiara Giunti dell’Altra Europa e, naturalmente il padrone di casa Maurizio Acerbo con Nicola Fratoianni.

Il popolo della sinistra c’è. A 200 metri di distanza, alla festa Mdp, ci sono in contemporanea Pippo Civati e Arturo Scotto, Antonio Floridia e Daniela Lastri. Quello che ancora manca è la chiarezza, osserva Francesca Fornario che tiene le fila dell’incontro: «Alla sinistra del Pd c’è ua discussione surreale: c’è Rifondazione che attende Sinistra italiana, che a sua volta attende Mdp, che a sua volta attende Pisapia che attende il Pd. Sembra di essere alla fiera dell’est…».

Fornario coglie nel segno: «È vero, la sinistra unita si doveva fare prima, siamo in ritardo – le risponde Maurizio Acerbo – ma fare la sinistra non è come inventare una nuova marca di detersivo da vendere. È mettere insieme tutti quelli che in questi anni si sono opposti alle politiche neoliberiste, e alle guerre. Minoritari? Lo dicono a quelli che fanno seguire alle parole i fatti, che dicono cose nette, chiare. Come Sanders, come Corbyn, che sono stati efficaci perché sono credibili. Mentre noi, con tutto il rispetto, non possiamo mettere alla nostra testa chi le guerre le ha fatte, e continua perfino a difenderle. La sinistra è stata sconfitta nella società perché è stata troppo politicante».

Il segretario del Prc, nel merito, ribadisce la bontà del decalogo del Brancaccio. E così fa Nicola Fratoianni, che però segnala ad Acerbo: «Chi ha oggi vent’anni non ricorda il Kosovo. Invece ricorda benissimo il pareggio di bilancio in Costituzione, e Bersani in tv che prende le distanze da Corbyn. Un Corbyn, o un Iglesias o un Mélenchon, che però noi non abbiamo».

Qui il segretario di Sinistra italiana pone il tema della leadership: «Si deve costruire, perché la politica è dinamica». Poi, alla domanda di Fornario se non abbia il timore che i voti si elidano di fronte a un generico rassemblement alla sinistra del Pd, Fratoianni ammette: «È possibile. Per questo dobbiamo guardare al terreno delle proposte politiche. Se non costruiamo un progetto che dia risposte all’idea che abbiamo di questo paese nei prossimi vent’anni, non andiamo lontano. Sto girando l’Italia e tanti mi dicono: ‘Dateci la possibilità di votarvi’».

Da dove passa la conquista del consenso? Dalla ribadita – e meritoria – indisponibilità ad ammorbidire il senso politico del decalogo del Brancaccio (Acerbo); ma anche dalla faticosa riconquista di una egemonia socioculturale, che faccia massa critica e impedisca al paese di scivolare ancor di più a destra (Fratoianni). Nel mezzo Tomaso Montanari, a cercare un equilibrio non facile: «Al Brancaccio c’era anche D’Alema, e gli abbiamo detto in faccia quello che pensiamo sulla guerra del Kosovo. Poi gli abbiamo detto anche “guardiamo avanti, è essenziale che si possa costruire un’alleanza che si presenti con un volto solo, e che sia radicale”. Perché se ci impantaniamo con il passato, e cediamo a questo istinto che pure è forte anche per me, rischiamo di non dare risposte ai giovani che sono andati a votare per la prima volta il 4 dicembre, e che per i prossimi vent’anni si aspettano dalla sinistra risposte politiche opposte a quelle degli ultimi vent’anni. Perché se penso al nostro presidente regionale Rossi sull’aeroporto intercontinentale che vogliono fare a Peretola…».

Un tema caldissimo qui a Firenze. Così come sono sempre caldissimi i temi dei beni comuni a partire dall’acqua, rimarcati da Chiara Giunti, e dei servizi pubblici «che devono essere, appunto, pubblici» evocati da Paolo Berdini. Temi di sinistra.

Riferimenti
Sul tema della "Sinistra" c'è una ricca cartella in eddyburg, precisamente qui. Ma vi raccomandiamo di leggere anche l'articolo dedicato, appunto, a La parola "Sinistra". E magari siete d'accordo anche voi (e.s.)

«Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo».

la Repubblica, 10 settembre 2017 (c.m.c)

La democrazia senza partiti e contro i partiti è stata negli ultimi tre decenni la risposta, non soltanto emotiva, alla caduta della democrazia dei partiti nella polvere della corruzione, portata in tribunale per aver mercanteggiato con i soldi pubblici il sostegno di privati potenti e gruppi di potere. I partiti hanno gestito le istituzioni e la macchina elettorale, come si supponeva che dovessero fare — ma lo hanno fatto non per perseguire obiettivi di interesse generale e tra loro alternanti, ma per mantenere la posizione dentro le istituzioni. Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo.

Ma la ruggine contro la democrazia dei partiti precede di molto il fatidico 1992. Nasce insieme alla repubblica dei partiti, in Assemblea Costituente c’erano anche i rappresentanti dell’Uomo Qualunque, il movimento-partito di Guglielmo Giannini, anch’esso con un’ideologica gentista e anti-partitista, liberale e anti-statalista, orientata a destra. Molte pulsioni dell’uomoqualunquismo sono ricomparsi nel Vaffa Day. Ma l’antipartitismo ebbe anche propaggini più a sinistra; per esempio con una visione comunitaria di democrazia che doveva unire competenza e partecipazione, creare un ordine sociale strutturato per gruppi di funzioni complementari invece che per individui. Simile a questo fu il sogno di Adriano Olivetti di una “democrazia senza partiti”, dal quale emerse il co-fondatore del M5S, Gianroberto Casaleggio.

La sua impronta sul movimento è ben espressa nel volume pubblicato insieme a Beppe Grillo, Siamo in guerra, dove si profetizza una visione di “mondo nuovo” fatto di connettività, senza partiti e possibilmente senza istituzioni statali perché senza un “dentro” e un “fuori”. La totalità della Rete come preambolo di una società totale tecnocratica e senza più parzialità partigiane: il mito di una società coesa e integrata per autonoma cogestione — un mito libertario e tuttavia non individualista; organico ma senza gerarchie. Questo doveva essere il progetto del non-partito M5S.

Scriveva Norberto Bobbio che i critici della rappresentanza politica sono anche critici della democrazia dei partiti. Il loro sogno è di avere una rappresentanza diretta o una delega con mandato imperativo (come propose appunto Grillo nel 2013, quando il suo gruppo portò un esercito di rappresentanti in Parlamento), così da togliere libertà agli eletti e superare la detestata divisione “dentro/fuori”. Ma quale sarebbe l’esito di questo mito totalizzante? L’esito sarebbe una democrazia di partiti personali, ammoniva Bobbio, in cui i signori Bianchi o Rossi chiedono voti in nome di quel che dicono e sono. Votandoli, tuttavia, si finirà per dar vita veramente a un Parlamento di plenipotenziari che faranno quel che vorranno poiché loro saranno il partito, decidendo senza limiti l’azione legislativa e di governo. Al di fuori di una piccola città-Stato, la democrazia senza partiti è un tremendo sistema di potere che possiamo chiamare “rappresentativo patrimoniale”, un termine che è un ossimoro, poiché la rappresentanza moderna è stata la pietra tombale del patrimonialismo.

Eppure, la storia è capace di darci ossimori e sorprese. E a leggere Supernova di Nicola Biondo e Marco Canestrari si ha il timore di trovarsi di fronte a una forma di potere davvero inedita e molto inquietante. Il libro parla del M5S nell’età di Luigi Di Maio come la chiusura del cerchio: la trasformazione da puro movimento anti-partito a movimento di qualcuno, del leader designato Di Maio. “A quel punto il Movimento non sarà altro che lui”. Proprio come aveva paventato Bobbio riflettendo sull’ondata di anti- partitismo, allora solo all’inizio.

La transizione assai veloce dal “movimento di tutti” al “partito di qualcuno”, dal gentismo al personalismo senza contrappesi (poiché la Rete stessa è stata esautorata) ci conferma la grande diffidenza che dobbiamo nutrire nei confronti della propaganda anti-partitica. I partiti- associazione, con statuti pubblici (possibilmente attenti a trovare contrappesi al potere del leader nel potere degli iscritti e di organi collegiali di discussione e decisione), sono una garanzia e un baluardo contro i partiti- di-qualcuno, anche quando il qualcuno non è un ricco uomo d’affari. Quel che appare dalle trasformazioni del M5S è che il “capitale” del consenso-via-audience può generare una versione post- moderna di patrimonialismo: dove il patrimonio è l’assenza di struttura e la presenza differita via Rete di un pubblico indefinito.

Ecco i personaggi di cui Gentiloni e Minniti sono complici: uomini come Al Ammu «il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza».

Corriere della Sera, 9 settembre 2017

Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato all’aperto. Uno di quelli che si presta per lavoretti a ore di ogni tipo, trasporta le cassette della frutta, scarica i camion e aiuta anche nei traslochi, con il padre impiegato all’ufficio postale di Sabratha e i fratelli ancora bambini che giocano a pallone per la strada.

«Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo. “Ammu, mi regaleresti una sigaretta?”, chiedeva strascicato a quelli che incontrava. Così diceva, “ammu”, che in arabo significa zio. E per tutti era diventato “Al Ammu”, lo zio. Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?».

Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. E rispecchiano fedelmente ciò che a Sabratha e dintorni è oggi il parere più comune: Al Ammu, l’ex facchino, ha fatto fortuna.

D i ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel caos seguito alla rivoluzione «assistita» dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose, ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo «regno»: Sabratha, il cuore pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso le coste italiane. La «riconversione»

A fine agosto gli uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a rivelare la sua recente «riconversione» da principe degli scafisti a collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia locale ci dice «che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj». Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine. «Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi», ci dice con tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di Sabratha. Questi afferma di «non escludere, ma non sapere, se davvero gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma». Cosa del resto già nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a Tripoli.

Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. «È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato», dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati: hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011.

Da tempo «Al Ammu» aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico. Uccise «quasi per caso» un miliziano di Zintan che insidiava alcune ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300 ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della sua giovinezza.Affari di famiglia

La sua struttura si militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la «Brigata Anis Dabbashi», intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra Brigata, la «48», è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed chiamato «al Bushmenka», con la partecipazione attiva dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che «Al Ammu» si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle attività Eni nel Paese. «Probabilmente è allora che lui ha i primi contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente assassinati, ndr. )», aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi, oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. «Yihab ha trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie saranno legalizzate», leggono dai loro documenti i capi dell’intelligence.Il blocco

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. «Quanto erano efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla», afferma Algrabli.

Vedere per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a macchia d’olio. «Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il 30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza all’arrivo dei dati di fine settembre», dice ancora il sindaco di Sabratha.I «prigionieri»

La nuova situazione si manifesta amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. «Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non si parte più», dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra. Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24 anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici. «Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi», ricorda. Sono vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio. Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno intervenendo. «Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a visitarci?», protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro.

E Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato commenti. «Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità di Tripoli», ci fa dire, più formale e legale che mai.

«Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne».

il manifesto, 9 settembre 2017

Da una parte l’istituzione per eccellenza, l’arma dei carabinieri, dall’altra due ragazze americane, tra i fumi dell’alcool e della cannabis. Molto chiaro il retropensiero neanche tanto nascosto delle cronache di ieri: si può credere a due così? L’accusa di stupro non sarà stata tutta un’invenzione? E così la macchina dello scandalo mediatico non si è messa in moto subito, qui non c’erano «le nostre donne da difendere». Una nota del Dipartimento di Stato Usa cambia registro: «Prendiamo queste accuse molto seriamente, i nostri uffici all’estero sono sempre pronti ad assistere cittadini Usa vittime di crimini», l’atteggiamento è cambiato.

Le due giovani donne, hanno 21 anni, sono sotto shock. La loro versione dei fatti, in interrogatori separati e ripetuti, sono coerenti.

La gazzella dei carabinieri che le ha accompagnate a casa, in via Tornabuoni nel pieno centro di Firenze, è stata ferma 20 minuti sotto il palazzo, come confermato da telecamere di controllo. I due ora sono indagati per violenza sessuale, la stessa ministra della difesa Roberta Pinotti dice che c’è qualche fondamento. Si aspettano i risultati delle analisi del Dna. Loro, le ragazze, ora sono in una casa protetta, secondo la procedura del «codice rosa» che si è attivato subito, al momento della loro denuncia, la mattina del 7 settembre.

La gravità del fatto si commenta da sola. Due militari in servizio, sarebbe un abuso di autorità gravissimo. Se non ci si può fidare di chi dovrebbe proteggerti non c’è scampo. Per questo va detto e ripetuto il punto di vista che le donne, i femminismi, hanno conquistato per tutte e tutti. E che andrebbe condiviso con fermezza: uno stupro è uno stupro è uno stupro. A prescindere da relazioni affettive, familiari, etnie, colori, divise. È la violenza di uomini contro donne. Se l’accusa verrà confermata, come è possibile che due carabinieri in servizio, rispettivamente di 45 e 28 anni, abusino di due ragazze e pensino di potersela cavare? Forse perché le credevano così sbronze da non essere abbastanza lucide per ricordare e denunciare? O speravano che la divisa li avrebbe garantiti?

Sono giorni accesi. Basta pensare a tutto il clamore montato, anche con invenzioni, intorno allo strupro di gruppo di Rimini, Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne. Di questo bisognerebbe parlare, gli uomini per primi.

I soprusi e la rete di interessi dietro il flusso migratorio delle ragazze nigeriane. Per comprendere la complessità delle condizioni socio-economiche e umane sia nel paese di origine che di arrivo, un'inchiesta del

New Yorker ripresa dall'Internazionale, 8 settembre 2017 (i.b.)

Sulla costa della Libia, pochi chilometri a ovest di Tripoli, è quasi mezzanotte. Alcuni trafficanti armati gonfiano dei gommoni in riva al mare. Circa tremila migranti, in gran parte originari dell’Africa subsahariana, aspettano in silenzio e scalzi, in file da dieci. I trafficanti libici ordinano ad alcuni di loro di disporsi a lato dei gommoni e di spingerli in acqua. I migranti tengono ferme le imbarcazioni mentre un trafficante fa salire a bordo più persone possibile. Quelle sedute al centro potrebbero ustionarsi se, a causa di una perdita, il carburante si mescolasse all’acqua. Quelle sui lati potrebbero cadere in mare. Ufficialmente nel 2016 sono morte almeno 5.098 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Ma la costa libica è lunga più di 1.700 chilometri, e nessuno sa quante imbarcazioni affondano senza che nessuno se ne accorga.

Su uno dei gommoni, dove ci sono 150 persone, una ragazza nigeriana, Blessing, scoppia a piangere. Ha viaggiato sei mesi per arrivare lì. Ha il volto scavato e le costole sporgenti. Si chiede se Dio abbia fatto visita a sua madre in sogno per dirle che è ancora viva. Le onde sono alte e le persone a bordo cominciano a vomitare. Poco prima dell’alba Blessing perde i sensi. Il gommone sta imbarcando acqua.

Una valvola di sfogo
Negli ultimi anni decine di milioni di africani sono scappati da carestie, siccità, persecuzioni e violenze. Anche se il 94 per cento di loro è rimasto sul continente, in centinaia di migliaia hanno cercato di raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo è diventata una sorta di valvola di sfogo anche per i paesi afflitti dalla corruzione e da profonde disuguaglianze. “Se non ci fosse l’Italia, in Nigeria scoppierebbe la guerra civile”, mi ha detto un migrante. Nel 2016, dopo che la valuta del paese africano è crollata, i nigeriani sono stati i più numerosi a tentare la traversata.
Il flusso di migranti verso l’Europa non è un fenomeno recente. L’Unione europea era riuscita in qualche modo a contenerlo, sia costruendo delle recinzioni intorno alle enclave spagnole in Marocco sia pagando i paesi costieri africani per impedire ai migranti di raggiungere le acque europee. Molte persone hanno passato anni nei paesi di confine, tentando più volte di attraversare le frontiere con l’Europa.

Quando si dirigono verso il Mediterraneo, i migranti africani involontariamente ripercorrono le antiche vie del commercio degli schiavi attraverso il Sahara. Per ottocento anni schiavi neri e concubine furono condotti con la forza attraverso gli stessi villaggi sperduti nel deserto. Queste vecchie rotte oggi sono ingovernabili e inondate di armi. Decine di migliaia di persone che partono di loro volontà finiscono nelle mani dei trafficanti, per essere vendute, costrette a fare lavori pesanti o prostituirsi. Gli uomini che finiscono in schiavitù per debiti vengono dall’intera Africa, ma quasi tutte le donne hanno caratteristiche molto simili: sono adolescenti originarie della zona di Benin City, la capitale dello stato di Edo, nel sud della Nigeria. Ragazze come Blessing.

Sono stato in Nigeria nell’autunno del 2016. È il paese più ricco dell’Africa, ma il denaro destinato alle infrastrutture finisce spesso nelle tasche di funzionari del governo.
A Benin City ci sono poche strade asfaltate e le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno. L’economia nigeriana è cresciuta grazie ai proventi del petrolio, all’agricoltura e agli investimenti stranieri, ma è aumentata anche la percentuale di persone che vivono in povertà.

Un giorno sono andato al mercato dei pezzi di ricambio di Uwelu. C’erano ragazzi che trasportavano motori di auto sui carretti e venditori a torso nudo che contrattavano sui pezzi raccattati dagli sfasciacarrozze. Seguendo un sentiero all’estremità occidentale del mercato, sono arrivato a una baracca dove una donna di mezz’età vestita di viola vendeva patatine, bibite e birra. Le ho chiesto se era Doris, la madre di Blessing. Lei ha annuito con un sorriso, poi è scoppiata in lacrime.
I genitori di Blessing avevano una casa e un pezzo di terra. Suo padre faceva il muratore, ma morì in un incidente d’auto quando Blessing era bambina. La famiglia era poverissima e Doris fu costretta a crescere i suoi quattro figli da sola. Il fratello maggiore di Blessing, Godwin, si mise a riparare macchine a Uwelu. Sua sorella Joy andò a vivere da una zia. All’età di 13 o 14 anni, Blessing lasciò la scuola per lavorare come apprendista da un sarto, ma lui voleva essere pagato per insegnarle il mestiere, e dopo sei mesi la mandò via. Blessing, scoraggiata, pensava di non avere un futuro. Poi alcuni amici le parlarono di un agente di viaggio di Lagos che poteva procurarle un passaporto, un visto e un biglietto aereo per l’Europa. L’uomo le promise che avrebbe trovato lavoro e guadagnato abbastanza per mantenere la sua famiglia. “Voleva partire”, mi ha assicurato Doris, che quindi decise di vendere la casa e la terra per dare tutti i soldi al tizio di Lagos. Lui però sparì subito dopo.
Doris e i figli si trasferirono in un appartamento più piccolo. Blessing, bella e slanciata, con gli occhi grandi e gli zigomi alti, aiutava la madre a vendere prodotti alimentari. La sera prendeva i soldi che avevano guadagnato e andava in un altro mercato dove tutto costava un po’ meno per rifornire il chiosco. Con il resto dei soldi compravano da mangiare, e a volte non mangiavano nulla.
Blessing si sentiva in colpa per aver messo in difficoltà la famiglia. Un giorno di febbraio del 2016, mi ha raccontato Godwin, “Blessing se ne andò senza dire niente a nessuno”.

Dagli anni ottanta

L’emigrazione delle ragazze di Benin City è cominciata negli anni ottanta, quando le prime donne del popolo Edo – stanche della repressione, delle incombenze domestiche e della mancanza di opportunità economiche – raggiunsero l’Europa in aereo con documenti falsi. Molte finirono a fare le prostitute sulle strade delle grandi città: Londra, Parigi, Madrid, Atene e Roma. Alla fine di quel decennio, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, “la paura dell’aids aveva allontanato i clienti dalle prostitute italiane tossicodipendenti”, che furono rimpiazzate dalle nigeriane dello stato di Edo. Queste ragazze non guadagnavano molto per gli standard europei, ma abbastanza da permettere ai loro genitori a Benin City di lasciare le baracche per trasferirsi in una vera casa. Nei necrologi c’era l’abitudine di elencare i prodotti costosi – auto, mobili, generatori – comprati con le rimesse provenienti dall’Europa, e i vicini invidiosi prendevano nota. I sacerdoti pentecostali nelle loro prediche esaltavano la ricchezza e i vantaggi dell’emigrazione.

I racconti delle donne emigrate parlavano di lavori ben retribuiti come parrucchiere, sarte, governanti, bambinaie e cameriere, e quello che facevano davvero in Italia rimaneva un segreto. Così i genitori spingevano le figlie a prendere soldi in prestito per andare in Europa e aiutare la famiglia a uscire dalla povertà. Con il passare del tempo, le prostitute diventarono delle madam (tenutarie), che dall’Italia impiegavano altre persone in Nigeria: reclutatori, trafficanti e gente che falsificava i documenti. A metà degli anni novanta la maggior parte delle donne dello stato di Edo che andavano in Europa attraverso questi canali “era probabilmente consapevole del fatto che avrebbe dovuto prostituirsi per ripagare i debiti”, si legge in un rapporto dell’Onu. “Ma non conosceva le condizioni di sfruttamento violento e aggressivo a cui sarebbe stata sotto posta”. Dal 1994 al 1998 in Italia sono state uccise almeno 116 prostitute nigeriane.

Nel 2003 la Nigeria adottò la prima legge contro il traffico di esseri umani. Ma era troppo tardi. Il rapporto dell’Onu, pubblicato lo stesso anno, concludeva che questa industria “era così diffusa nello stato di Edo, in particolare a Benin City e dintorni, che secondo alcune stime tutte le famiglie della
città avevano almeno un parente coinvolto”. Decine di migliaia di donne dello stato di Edo hanno continuato a esercitare la prostituzione in Europa, e oggi alcune strade di Benin City sono intitolate alle madam. La città è piena di donne e ragazze che sono tornate a casa, ma alcune non riescono a trovare lavoro e vanno di nuovo in Europa.


Il quartiere dove tutto ha inizio

I primi trafficanti venivano quasi tutti da Upper Sakpoba road, in uno dei quartieri più poveri di Benin City, dove i bambini vendono patate dolci per strada e le prostitute guadagnano meno di due dollari a cliente. Le suore del Comitato per il sostegno e la dignità delle donne, un’ong locale, visitano le scuole e i mercati per avvisare le ragazze delle violenze che potrebbero subire se sceglieranno la strada della prostituzione. Una suora mi ha raccontato che le donne del mercato di Upper Sakpoba road fanno di tutto per allontanarle. “Sostengono che non dovremmo fermare questi traffici perché le ragazze guadagnano bene”, mi ha detto. “Le famiglie sono complici. Tutti sono complici”.

A Benin City gli accordi importanti si concludono di norma con un giuramento fatto alla presenza di un sacerdote juju (un insieme di credenze tradizionali dell’Africa occidentale). L’idea è che la legge si può infrangere, mentre le promesse fatte davanti agli antichi dèi no. Molti trafficanti sfruttano queste tradizioni per garantirsi l’obbedienza delle vittime. Dall’Italia le madam ordinano ai loro scagnozzi di portare le ragazze in un tempio dove un sacerdote juju celebra un rito di affiliazione usando, di regola, le loro unghie, il loro pelo pubico o il loro sangue.

“Ti fanno giurare che una volta arrivata non scapperai”, mi ha raccontato Sophia, appena tornata dall’Europa. La madam copre le spese di viaggio e in cambio la ragazza accetta di lavorare fino a quando non avrà ripagato il suo debito; la madam le sequestra i documenti e le dice che ogni tentativo di fuggire scatenerà un attacco del juju che vive nel suo corpo. “Se non paghi, muori”, mi ha detto Sophia. “Se parli con la polizia, muori. Se dici la verità, muori”.Prima di sparire, Blessing aveva incontrato una trafficante yoruba (uno dei principali gruppi etnici nigeriani, insieme a quello degli igbo), ma aveva rinunciato a partire quando aveva scoperto che voleva farla prostituire. Poco dopo la sua amica Faith le ha presentato una donna igbo con buoni contatti in Europa. Aveva modi gentili ed eleganti, ed era ben vestita. La donna ha promesso a Blessing e a Faith di portarle in Italia. Avrebbe pagato il viaggio e gli avrebbe trovato un lavoro, poi le ragazze avrebbero restituito i soldi. Blessing sognava di finire gli studi e di ricomprare la casa che la madre aveva perduto. Così è salita su un furgoncino insieme a Faith, alla donna e ad altre ragazze.

È stato l’inizio di un viaggio pericoloso verso nord, fino al Niger. Man mano che avanzavano la fertile terra rossa dei tropici diventava più arida e sottile: ben presto si vedevano solo sabbia e cespugli inariditi. Dopo molti giorni e almeno 1.500 chilometri di strada, hanno raggiunto Agadez, in Niger, un’antica città carovaniera all’estremità meridionale del Sahara.

Agadez è sempre stata un luogo di passaggio, un labirinto di muri di fango dove mangiare, riposarsi e prelevare un nuovo carico prima di partire per la destinazione successiva. Le mura più antiche furono costruite circa ottocento anni fa e nel 1449 la città diventò il centro di un regno tuareg. I mercanti si fermavano ad Agadez mentre attraversavano il deserto con carovane di sale, oro, avorio e schiavi. I tuareg diventarono famosi perché guidavano i mercanti attraverso il deserto, e poi li rapinavano.

Oggi per Agadez passa ogni genere di contrabbando: merci contrafatte, hashish, cocaina, eroina. Ai margini delle strade si vende petrolio libico rubato in bottiglie di liquore. Dopo la caduta di Muammar Gheddai, nel 2011, i tuareg e i tubu (una popolazione libica) hanno saccheggiato i depositi di armi abbandonati nel sud della Libia e venduto quelle che non gli servivano ai gruppi ribelli dei paesi vicini. Nel 2014, però, il valore del traffico di esseri umani ha superato quello di ogni altra attività economica.

Il furgone di Blessing si è fermato in un terreno recintato con al centro un edificio, una “casa di collegamento”, dove decine di migranti erano sorvegliati da uomini armati di pugnali e spade. Non c’era niente da fare lì, bisognava solo aspettare. La donna igbo non aveva ancora detto a Blessing e a Faith il suo nome; le aveva semplicemente pregate di chiamarla “madam” e gli aveva detto di non avventurarsi fuori. L’edificio si trovava in mezzo a un gruppo di squallide case di collegamento alla periferia della città, un ghetto per migranti. Il Niger fa parte della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao), una zona dove non serve il visto per viaggiare da un paese all’altro. Le frontiere occidentali e meridionali del paese sono aperte a circa 350 milioni di cittadini di altri quattordici stati. Molti migranti avevano percorso in pullman più di mille chilometri ed erano arrivati ad Agadez con il numero di telefono del loro agente di collegamento, di solito un migrante diventato imprenditore, della stessa nazionalità o eredità coloniale.

La maggior parte delle ragazze nigeriane restava nelle case dei ghetti per migranti. Non avevano bisogno di lavorare perché il viaggio era stato pagato dai trafficanti in Europa. Le case di collegamento erano soffocanti e sovrafollate, ma loro ricevevano da mangiare ed erano al sicuro, almeno fino al momento di attraversare il deserto. Altre nigeriane, arrivate per conto loro, dovevano prostituirsi per mangiare e per poter continuare il viaggio. Ad Agadez le prostitute guadagnano circa tre dollari a cliente e versano buona parte di questa cifra alle madam locali in cambio di vitto e alloggio. Un’adolescente nigeriana mi ha confidato che ci sono voluti diciotto mesi e centinaia di clienti per guadagnare i soldi necessari ad andarsene.

L’unica attività di Agadez

Ogni lunedì gli autisti tuareg e tubu andavano nei ghetti dei migranti, incassavano i soldi dagli agenti di collegamento e caricavano circa cinquemila persone sui loro pickup Toyota, circa trenta in ogni auto. Si mettevano in marcia insieme a un convoglio militare nigeriano che li avrebbe accompagnati per un tratto del viaggio verso la Libia. Oumar, un giovane autista tubu, mi ha detto di aver percorso quel tragitto venticinque volte. Quando gli ho chiesto se doveva pagare tangenti lungo la strada, mi ha fatto un elenco preciso di posti di controllo e relative tariffe. Secondo un rapporto interno della polizia nigerina, ottenuto dalla Reuters, a un certo punto ad Agadez c’erano almeno settanta case di collegamento, ognuna sotto la protezione di un poliziotto corrotto. In un’altra indagine l’agenzia anticorruzione nigerina ha scoperto che, dal momento che i fondi destinati all’esercito venivano rubati nella capitale Niamey, le tangenti pagate dai trafficanti ai posti di blocco nel deserto erano essenziali per il funzionamento delle forze di sicurezza. Senza le bustarelle, i soldati non avrebbero potuto comprare la benzina, i pezzi di ricambio per i veicoli o da mangiare.

Nell’ottobre del 2016, poco prima del mio arrivo ad Agadez, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva fatto una visita ufficiale in Niger. “Il benessere dell’Africa è nell’interesse della Germania”, aveva detto. Dopo la sua visita, era cambiato tutto. Gli agenti delle forze di sicurezza avevano fatto irruzione nei ghetti e arrestato i loro ex soci d’affari. Erano stati sostituiti i militari e gli agenti di polizia di guardia ai checkpoint nel deserto tra Agadez e la frontiera libica. Il presidente nigerino Mahamadou Issoufou aveva annunciato che lui e Merkel si erano accordati per “mettere un freno all’immigrazione irregolare”.

Secondo Mohamed Anacko, leader della comunità tuareg e presidente del consiglio regionale di Agadez, che amministra un territorio di 650mila chilometri quadrati, la realtà era molto diversa. “Il Niger ha il coltello puntato alla gola”, mi ha detto, spiegandomi che l’unica attività economica della città era il traffico di merci e persone. “Ogni trafficante mantiene un centinaio di famiglie”, ha aggiunto. Se la repressione fosse continuata quelle famiglie non avrebbero avuto “più niente da mangiare”. Per discutere della situazione, un giorno Anacko ha convocato una riunione del consiglio regionale di Agadez, a cui ha invitato anche i più importanti trafficanti del Sahara. Metà erano tuareg, l’altra metà tubu, tutti avevano combattuto in ribellioni recenti. Anacko aveva promesso di riferire le loro lamentele allo stato e di chiedere la liberazione dei trafficanti arrestati.

Dopo le dichiarazioni di apertura di Anacko, un tuareg di mezz’età di nome Alber si è alzato in piedi: “Non siamo criminali, siamo trasportatori!”, ha gridato. “Come faremo a mangiare? Porteremo i turisti? Non ci sono turisti! Non possiamo vivere!”. Poi ha indicato me: “Cosa vuole farci diventare? Dei ladri? Non vogliamo essere ladri! Non vogliamo rubare! Cosa dovremmo fare secondo lei?”.

Il giorno dopo ho incontrato Alber a casa sua. Mi ha fatto entrare e mi ha offerto dell’acqua da una grande conca. La stanza era buia. Sul divano c’erano altri tre uomini, tutti e tre capi di potenti famiglie di trafficanti. “Conosco più di settanta delle persone che sono state arrestate”, ha detto Alber. “Ma non conosco la legge. Nessuno conosce i dettagli della legge”. Anche se le autorità del Niger avevano approvato una legge contro le migrazioni irregolari nel 2015, non avevano mai fatto niente per applicarla. Né avevano avvertito i trafficanti delle conseguenze legali delle loro attività. “Chi può
impedirmi di portare qualcuno da Agadez a Madama? Siamo nello stesso paese. È come se guidassi un taxi”, ha detto Alber. “Nessuno andrebbe nel deserto se ci fossero alternative valide”, ha aggiunto Ibrahim Moussa, un altro trafficante. “Il deserto è un inferno. Sei sempre a un passo dalla morte. L’Unione Europea…”, ha sospirato. “Lì si vive bene. Per questo gli europei vogliono che il Niger metta fine all’emigrazione. Ma perché non possiamo vivere anche noi?”.

Tutti i trafficanti che ho incontrato temevano che il giro di vite ad Agadez avrebbe esposto i giovani del posto al reclutamento dei gruppi jihadisti. In passato, ha detto Moussa, “ogni volta che vedevamo un movimento sospetto informavamo lo stato”. Le soffiate dal deserto erano trasmesse attraverso la gerarchia dell’esercito del Niger e potevano trasformarsi in informazioni utili alle operazioni antiterrorismo statunitensi e francesi nella regione. Ma oggi, mi ha detto Alber, “se vedessi un gruppo di terroristi, lo direi allo stato? No, perché avrei paura di essere arrestato”. “Il deserto è grande”, ha aggiunto Moussa. “Senza di noi lo stato non saprebbe niente”. “Hai visto le montagne dell’Aïr?”, mi ha chiesto Anacko nel suo ufficio. “Nessun estremista islamico può metterci piede. Nessuno. Perché la popolazione non li vuole. La gente vuole la pace. Ma se l’economia si fermasse e le persone cominciassero a finire in prigione perché lavorano con i migranti, di certo i jihadisti riuscirebbero a penetrare nelle montagne. E il giorno in cui riusciranno a stabilire una base nell’Aïr, ilSahel sarà finito. Americani ed europei non riusciranno a cacciare i terroristi dalle montagne. Sarà come l’Afghanistan”.

Il cimitero nel deserto

Il giro di vite contro i trafficanti ha avuto un’altra conseguenza: più migranti morti. Per evitare i posti di blocco, i trafficanti hanno cominciato a usare strade meno battute e non hanno esitato ad abbandonare i loro passeggeri appena avvistavano quello che poteva sembrare un convoglio militare.

“So che rischio la vita, ma non m’importa”, mi ha detto Alimamy, un uomo della Sierra Leone che ho incontrato ad Agadez. Era quasi morto al primo tentativo di attraversare il Sahara. Aveva finito i soldi, il trafficante con cui era in contatto era in prigione, e lui stava cercando un altro modo per arrivare in Europa. “Se riesco ad arrivare in Italia, la mia vita andrà bene”, mi ha detto. In Sierra Leone “siamo già morti da vivi”.

Dopo le retate era diventato impossibile prelevare i migranti dalle case di collegamento per attraversare il deserto. Ma c’erano altri metodi. Oumar, il trafficante tubu, ha lasciato Agadez con un pick-up Toyota dotato di un navigatore satellitare Nokia, duecento litri di acqua e scorte di benzina. Ha superato senza difficoltà il posto di controllo in una gola di montagna. Ottanta chilometri dopo, passate le rocce vulcaniche del massiccio dell’Aïr, si è incontrato con altri sei trafficanti e insieme hanno aspettato il carico. Enormi autocarri trasportano quotidianamente lavoratori e provviste da Agadez fino alle miniere d’oro e di uranio nel deserto. I lavoratori, a volte più di cento su un solo camion, sono seduti in cima e si tengono stretti a funi. Ma quella volta il camion che si è fermato non trasportava minatori. Oumar e gli altri trafficanti hanno fatto salire i passeggeri sui loro pick-up e sono partiti in direzione della Libia.

Dopo diverse ore sulle montagne, Oumar ha raggiunto la porta del deserto, l’inizio del Ténéré. “Sembra il mare”, mi ha detto in seguito una nigeriana di diciassette anni. “Non ha inizio e non ha fine”. A volte passano anni senza che cada una goccia di pioggia. “Non sopravvive niente, neppure gli insetti”, mi ha detto Oumar. Ogni volta che ci passa, Oumar incontra un numero sempre più grande di cadaveri sepolti e disseppelliti dalla sabbia sempre in movimento. Se i migranti cadono dai camion, gli autisti non sempre si fermano.

Alla frontiera libica, una striscia d’asfalto segna l’inizio di una lunga autostrada che porta a nord. Ma l’illusione che il viaggio possa migliorare è subito demolita dal totale disprezzo della legge e dalle crudeltà in agguato. Nell’autunno del 2016, a un posto di blocco, un migrante della Sierra Leone di nome Abdul ha visto un libico che molestava un’adolescente nigeriana. “C’è stata una discussione. Il libico ha preso il fucile e le ha sparato alla schiena”, mi ha raccontato Abdul. “Abbiamo portato la ragazza sul pickup”. I libici gridavano: “Haya!”, cioè che se ne dovevano andare. La ragazza era ancora viva, ma l’autista ha fatto una deviazione di sei ore nel deserto, fino a un immenso cimitero di migranti, dove piccole pietre disposte a cerchio segnavano i punti dov’erano sepolti i cadaveri. Ce n’erano centinaia. Sotto alcune pietre c’erano passaporti e carte di identità. “La maggior parte dei nomi erano nigeriani”, ha continuato Abdul. “Di donne”.

Quando sono arrivati, la ragazza era già morta. Prima di lasciare Agadez, di norma i migranti ricevono il numero di telefono di un agente di collegamento nel sud della Libia. Per alcuni questo significa scendere ad Al Qatrun, un villaggio libico a 320 chilometri dalla frontiera con il Niger. Per altri significa pagare altri trentamila franchi cfa (più di cinquanta dollari) per raggiungere Sebha, una città carovaniera 290 chilometri più a nord. “Se entri a Sebha senza aver pagato l’agente di collegamento soffrirai!”, mi ha detto Stephen, un rifugiato ghaneano. “Ti picchiano la mattina. E la notte. E di nuovo all’alba!”. Stephen si è messo la testa tra le mani ripetendo più volte: “Sebha non è un buon posto”.

Le case di collegamento di Sebha sono molto pericolose per le donne. Come mi ha raccontato Bright, diciassette anni, originaria di Benin City, una notte un gruppo di libici armati di spade ha cominciato a radunare le donne in una di queste case. “Alcune di loro erano incinte. Erano rimaste incinte durante il viaggio, non a casa”, mi ha detto. “Stuprate”. Secondo le stime di un rapporto commissionato dall’Onu, quasi la metà delle profughe e delle migranti che passano per la Libia, comprese le bambine, subiscono aggressioni sessuali, spesso più volte nel corso del viaggio. Un nigeriano di ventun anni di nome John mi ha detto di aver visto uccidere delle migranti perché avevano respinto i loro carcerieri libici.

Le case di collegamento in Libia sono di proprietà di persone del posto ma spesso sono gestite da gente dell’Africa occidentale. “Alcuni sono ghaneani e ci trattano peggio dei libici”, mi ha detto un ragazzo originario del Ghana. I migranti sono incarcerati, picchiati, torturati con la corrente elettrica e spesso costretti a chiamare i familiari per farsi mandare altro denaro. “Sono rimasto in una di quelle case per un mese e due giorni”, mi ha detto Ousmane, 21 anni, del Gambia. La struttura era gestita da libici che, a scopo dimostrativo e per fare spazio ad altri detenuti, “ogni venerdì uccidevano cinque persone. Anche se pagavi, non era detto che ti liberassero”. Ousmane aveva detto ai carcerieri che non poteva pagare di più perché non aveva più nessuno che potesse inviargli dei soldi. “Un venerdì mi hanno chiamato”, mi ha detto. Dal momento che era uno dei più giovani, un altro migrante più anziano si è fatto avanti per farsi uccidere al suo posto. Prima che lo portassero fuori, ha detto a Ousmane: “Quando torni in Gambia, vai a mio villaggio e digli che sono morto”. Pochi giorni dopo Ousmane è riuscito a scappare. Tornato ad Agadez, ha raccontato la sua storia all’agenzia delle migrazioni delle Nazioni Unite, che l’ha aiutato a tornare nel suo paese.

A gennaio, stando al giornale Welt am Sonntag, l’ambasciata tedesca in Niger ha mandato un dispaccio a Berlino confermando le esecuzioni settimanali e paragonando le condizioni nelle case di collegamento dei migranti in Libia a quelle dei campi di concentramento nazisti. A volte i malati sono sepolti vivi.

Vendute

È la primavera del 2016: Blessing, Faith e la madam lasciano Agadez, attraversano il deserto e raggiungono Brak, poco a nord di Sebha, dove sono ospitate in una casa privata. La madam continua a promettere alle ragazze che in Italia potranno studiare e trovare un lavoro ben pagato. Non è chiaro se sia mai stata nella condizione di decidere del loro destino: le donne che accompagnano le ragazze attraverso il deserto spesso sono alle dipendenze dei traicanti in Italia. Un giorno a Brak la madam decide di vendere Blessing e Faith al proprietario di una casa di collegamento per farle lavorare come prostitute.

“Non è quello che ci avevi detto!”, protesta Blessing. “Avevi detto che saremmo andate in Italia, e ora vuoi lasciarmi qui?”. La ragazza scoppia a piangere. Anche se non ha fatto il giuramento juju, la madam minaccia di ucciderla. A Benin City la madre
di Blessing riceve una telefonata da una nigeriana con un numero italiano. Sono passati tre mesi da quando sua figlia è andata via, e la donna al telefono le dice che se non paga 480mila naira (circa 1.500 dollari), Blessing sarà costretta a prostituirsi.

Quella domenica, alla riunione settimanale dei commercianti del mercato di Uwelu Doris spiega la situazione di Blessing chiedendo aiuto. Anche se la donna ha già molti debiti, gli altri commercianti approvano la sua richiesta di un prestito, issando un interesse del 20 per cento. Il fratello di Blessing, Godwin, versa il denaro a uno sportello MoneyGram usando i dettagli forniti dalla donna al telefono. Ma poi non riceve più notizie.

Blessing viene consegnata a un’altra casa di collegamento a Brak. Qualche giorno dopo alcuni uomini armati la fanno salire sul retro di un camion insieme ad altri migranti e nascondono il carico sotto una coperta e dei cocomeri perché i trafficanti rivali non li vedano. Il camion parte in direzione di Tripoli. Faith rimane a Brak perché la sua famiglia non ha pagato. Blessing viene condotta in un grande centro di detenzione, una stanza di cemento in un deposito abbandonato vicino a Tripoli. Rimane prigioniera per mesi con un altro centinaio di persone. Per sentirsi più sicura sta accovacciata vicino ad altre ragazze nigeriane. I pestaggi arbitrari e gli stupri sono frequenti. A volte i migranti ricevono da bere solo acqua di mare. La gente muore sistematicamente di fame e malattie.

Così arriva anche il 22 agosto, il compleanno di Blessing. Ma lei ormai ha perso il senso del tempo. Piange ogni giorno, non sa da chi dipende il suo destino e quando s’imbarcherà. Ogni volta che starnutisce, si chiede se non sia un segno di Dio e se sua madre stia pensando a lei. Una notte di settembre le guardie del centro svegliano Blessing e gli altri migranti e li fanno salire su un camion, che li lascia su una spiaggia a ovest di Tripoli. Alcuni scafisti armati li stipano su un gommone, dicono una preghiera sulla sabbia e li spediscono in mare.

Da giorni la Dignity I, una nave gestita da Medici senza frontiere (Msf ), sta pattugliando quel tratto di costa libica. Poco dopo le otto di mattina, il primo ufficiale avvista il gommone di Blessing. L’equipaggio cala in acqua una piccola imbarcazione di salvataggio, che fa avanti e indietro per portare i migranti, quindici alla volta, sulla Dignity I. Nicholas Papachrysostomou, il coordinatore delle operazioni di Msf, aiuta Blessing ad alzarsi in piedi sul gommone. Lei ha la nausea e si sente debole. Ha i piedi avvizziti perché sono rimasti a mollo per ore in una pozza sul fondo del gommone. Due uomini la issano sulla nave tenendola sotto le spalle. Lei rimane sul ponte con le braccia incrociate singhiozzando, tremando, trattenendo il vomito e lodando Dio.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel 2016 nel Mediterraneo sono state salvate più di undicimila donne nigeriane, l’80 per cento delle quali era destinata allo sfruttamento sessuale. “Sono ragazzine di tredici, quattordici, quindici anni”, mi ha spiegato un agente dell’Oim. “Il mercato le vuole sempre più giovani”. L’Italia è il punto d’ingresso: da lì queste donne sono vendute alle madam di tutt’Europa.

A bordo della Dignity I un’infermiera registra la nazionalità e l’età di ogni migrante. Blessing le dice di avere diciott’anni ma, sospettando che sia una bugia, l’infermiera le lega un cordoncino azzurro al polso, per indicare che Msf la considera una minore non accompagnata. La maggior parte delle ragazze nigeriane ha lo stesso cordoncino. Le madam dicono alle più giovani che devono fingere di essere grandi, in modo da essere mandate nei centri d’accoglienza per adulti, dove i migranti possono muoversi liberamente. Altrimenti finiscono in rifugi più protetti per minori non accompagnati.

La Dignity I si dirige al porto di Messina, dove arriva dopo due giorni e mezzo di viaggio. A bordo ci sono 355 migranti. Il più piccolo ha tre settimane. Pochi hanno abbastanza spazio per stare sdraiati, ed è difficile camminare tra i corpi senza pestare braccia e gambe. Il pomeriggio del salvataggio Sara Creta, un’operatrice italiana di Msf, e io parliamo con Blessing e un’altra ragazza, Cynthia, che è cresciuta in una fattoria e poi ha venduto da mangiare sulle strade di Benin City. Blessing e Cynthia si sono conosciute sul gommone e stanno sedute vicino ad altre ragazze nigeriane. Sembrano tutte minorenni, anche se ripetono di avere diciott’anni. Blessing sorride e parla nervosamente, a scatti, continuando a massaggiare i piedi gonfi di Cynthia. Dice di essere stata rapita, senza scendere in dettagli. Mentre Blessing parla, Cynthia piange. Creta cerca di consolarle: “Una volta arrivate in Italia, non sarete costrette a fare nulla che non vogliate fare. In Italia siete libere, ok?”. Blessing si gratta per qualche secondo, poi dice: “Non posso”.

Tre nigeriane più anziane sembrano origliare la conversazione. Una di loro – tarchiata con una cicatrice a forma di falce sul mento – mi chiede cosa faccio sulla nave e alza le sopracciglia quando le dico che sono un giornalista. Non risponde alle mie domande e si limita a dichiarare: “Non ho pagato per il viaggio”. Con le altre due donne passa gran parte dei due giorni successivi appollaiata sul parapetto della nave a controllare le più giovani. A Messina i migranti sbarcano a gruppi di dieci. L’agenzia dell’Onu per i rifugiati ha mandato un rappresentante con dei volantini per informare i migranti sui loro diritti, ma sono in tigrino, la lingua dell’Eritrea e dell’Etiopia settentrionale. Molte persone che forse potrebbero avere diritto di asilo non sanno neanche cosa sia. Egiziani e marocchini sono radunati sotto un tendone azzurro, senza probabilmente sapere che l’Italia ha stretto accordi di rimpatrio con i loro paesi. Gli altri migranti vengono portati verso una colonna di pullman. Blessing e Cynthia mi fanno un cenno di saluto prima di salire.

La donna con la cicatrice a forma di falce sale sul loro stesso pullman. Molti migranti vengono temporaneamente sistemati al Palanebiolo, un campo improvvisato in un ex stadio da baseball alla periferia di Messina, prima di essere trasferiti in altri centri in Italia (il centro è stato chiuso all’inizio del 2017). Un paio di giorni dopo un gruppo di uomini soccorsi dalla Dignity I siede all’aperto su un blocco di cemento. Non hanno soldi né altri beni e si lamentano dei pasti scadenti e delle tende in cui entra la pioggia. Non hanno ricevuto cure mediche, neppure una crema antiparassitaria per trattare la scabbia. Alcuni indossano gli stessi vestiti con cui hanno viaggiato, induriti dal vomito secco e dall’acqua di mare. Non mi permettono di entrare al Palanebiolo, ma Cynthia è seduta fuori. Anche Blessing è ancora lì, ma quella mattina è uscita con un nigeriano che lavora nel centro. Tornano insieme qualche ora dopo. “Mi ha portato in treno!”, dice Blessing. “I bianchi… ho visto tanti bianchi”.

La vera età

Le ragazze mi rivelano la loro vera età: Cynthia ha 16 anni, Blessing ne ha appena compiuti 17. Mi raccontano di aver detto la verità agli operatori di Frontex, l’agenzia che controlla le frontiere esterne europee, ma io sono scettico perché al Palanebiolo sono ospitati solo migranti adulti. Scendiamo
insieme dalla collina per andare a mangiare. Nei pressi di un incrocio molto trafficato chiediamo indicazioni a un nigeriano alto con la barba. Si chiama Destiny, ha attraversato il Mediterraneo nel 2011 e ora lavora in un supermercato di Messina. Ha le braccia e il collo coperti di tatuaggi religiosi. Cynthia lo trova bello e lo invita a venire con noi. Raggiungiamo un bar poco lontano, ma appena entriamo la cameriera ci manda via dicendo che il locale è chiuso. Ai tavoli ci sono dei clienti italiani che consumano caffè e pasticcini. Rimaniamo davanti al bar per decidere cosa fare, inché la cameriera non esce dalla porta per mandarci via.

Torniamo al Palanebiolo. Blessing si muove a fatica e con passi lenti. Le fanno male le giunture, ancora gonfie dai tempi della prigionia in Libia. Destiny mi chiede dove alloggio. “Ah, Palermo!”, commenta. “La mia città preferita”. Mi fa l’occhiolino e, passando all’italiano perché le ragazze non capiscano, aggiunge: “È là che vado a scoparmi le nere per trenta euro”. La prostituzione non è un reato in Italia, ma attira l’attenzione della polizia, perciò le reti dei trafficanti cercano di procurarsi un permesso di soggiorno per ogni ragazza che mandano a lavorare sulle strade. Dal momento che hanno mentito a Frontex sulla loro età, le minorenni ricevono dalle autorità italiane dei documenti secondo i quali hanno diciott’anni o più, e questi documenti le proteggono dalle domande degli agenti.

Le intercettazioni della polizia italiana dimostrano che le reti dei trafficanti nigeriani si sono infiltrate nei centri di accoglienza, usano alcuni dipendenti per controllare le ragazze e pagano tangenti ai funzionari corrotti per accelerare le pratiche burocratiche. Un agente dell’Oim mi spiega che, nei centri come il Palanebiolo, “l’unica cosa che una ragazza deve fare è telefonare alla madam e dirle che è arrivata, specificando in quale città e in quale centro. Loro sanno cosa fare perché hanno uomini dappertutto”. Nei bordelli di Palermo le prostitute nigeriane hanno fino a quindici clienti al giorno: più ne ricevono prima riescono a comprarsi la libertà. Se qualcuno per strada gli sputa addosso, le ragazze vanno a recuperare la borsa che hanno nascosto tra i cespugli, prendono uno specchietto e, alla luce giallastra dei lampioni di via Crispi, si aggiustano il trucco. Poi tornano al lavoro.

“C’è un livello incredibile di razzismo non dichiarato, e lo dimostra il fatto che sulle strade non ci sono minorenni italiane”, conferma padre Enzo Volpe, un prete che gestisce un centro per bambini migranti vittime del traffico di esseri umani. “La società dichiara che è reato andare a letto con una
tredicenne o una quattordicenne. Ma se è africana? Non importa niente a nessuno. Non pensano a lei come a una persona”.

Due volte alla settimana padre Enzo carica un furgoncino di acqua e panini e, aiutato da un giovane frate e da una suora, va a offrire conforto e assistenza alle ragazze sulle strade. La sua prima fermata, un giovedì d’autunno, verso mezzanotte, è il parco della Favorita. Padre Enzo parcheggia il furgoncino vicino a uno spiazzo. Quattro nigeriane escono dai boschetti dove hanno acceso un falò. “Buonasera Vanessa”, dice padre Enzo. “Buonasera. Dio la benedica”. Si dispongono in cerchio, poi pregano e cantano inni che le ragazze hanno imparato in Nigeria. Si avvicina una macchina, da cui esce Jasmine, che dimostra quindici anni. “È il mio compleanno”, dice. Qualcuno le chiede quanti anni compie. Lei esita un attimo e poi risponde in italiano: “Ventidue”.

La suora ha portato una torta. “Se vai a pregare con loro e a dargli informazioni mediche, va tutto bene”, mi dice padre Enzo. “Ma se provi a fare domande su come funziona la rete non parlano. Spariscono”. Due settimane dopo lo sbarco a Messina, la maggior parte dei migranti della Dignity I è scappata dal Palanebiolo o è stata trasferita altrove. Blessing e Cynthia sono ancora lì, e hanno cominciato ad avventurarsi in città. Una domenica mattina una donna italiana ha notato le ragazze in chiesa e le ha invitate a prendere un caffè, il primo in assoluto. Un’altra donna gli ha regalato degli abiti usati. Io gli ho comprato degli antinfiammatori e dei farmaci contro la scabbia e i pidocchi.

Le ragazze hanno imparato a contare fino a dieci in italiano e conoscono alcune parole: pomodoro, farfalla, mal di stomaco. Cynthia grida “ciao!” a ogni automobilista, pedone e cane, ed è felice quando ottiene una risposta amichevole. “È una ragazza di campagna”, la prende in giro Blessing. “Mi piace salutare tutti!”, replica Cynthia. Un’auto si avvicina all’incrocio dove sono sedute le ragazze. “Ciao!”, dice Blessing alla donna alla guida. Lei tiene lo sguardo fisso davanti a sé e tira su il finestrino. “In Italia siamo molto bravi nella prima accoglienza, l’aspetto umanitario”, mi spiega Salvatore Vella, sostituto procuratore di Agrigento. “Arrivano. Gli diamo da mangiare. Li ospitiamo in un centro di accoglienza. E poi? Non c’è soluzione. Cosa facciamo con tutta questa gente?”. Vella guarda fuori dalla finestra. “Siamo onesti: questi centri di accoglienza hanno le porte spalancate, e noi speriamo che se ne vadano. Dove? Non lo so. Se vanno in Francia, per noi va bene. Se vanno in Svizzera, grandioso. Se restano qui, finiscono a lavorare in nero, praticamente scompaiono”.

A Palermo la maggior parte dei migranti vive a Ballarò, un vecchio quartiere sovraffollato con i vicoli tortuosi e i panni stesi alle finestre, dove si svolgono le corse illegali di cavalli e c’è il più grande mercato all’aperto della città. Una notte a Ballarò, in un bar all’aperto che puzza di sudore, erba e vomito, incontro un ex spacciatore originario del Mali. Le prostitute indossano calze a rete e
tacchi alti dodici centimetri. All’angolo due uomini cuociono della carne alla griglia su un fuoco acceso con i rifiuti. Italiani e africani si scambiano denaro e droga senza curarsi di chi c’è intorno. “È il potere della magia nigeriana”, mi dice il maliano. “Dà lavoro a chi non ha documenti”. Ballarò sembra in larga misura sotto il controllo delle bande nigeriane. Il gruppo più potente, Black axe (ascia nera), ha radici a Benin City e cellule in tutt’Italia, ed è responsabile di attacchi con coltelli e machete
contro altri migranti. Anche se le bande nigeriane sono armate e abbastanza organizzate, nessuna lavora da sola. “Se voglio fare affari, devo parlare con il capo siciliano”, mi spiega il maliano. I trafficanti devono dare a cosa nostra una certa quota dell’affare, precisa, altrimenti “puoi andare avanti per un paio di giorni, ma se capiscono che stai facendo qualcosa ti eliminano”. L’anno scorso, dopo una rissa vicino a Ballarò, un pregiudicato italiano ha sparato alla testa a un gambiano ferendolo gravemente. Le autorità italiane e i criminali locali concordano sul fatto che cosa nostra lucra da entrambe le parti: i boss nigeriani comprano grandi quantità di droga dalla maia, poi pagano un pizzo aggiuntivo per il diritto di smerciarla. Ballarò è da tempo sotto il controllo della famiglia D’Ambrogio, il cui capo, Alessandro, è in prigione. È impossibile dire quante nigeriane lavorino nei bordelli di Ballarò, ma molte sono vittime degli abusi dei clienti e vengono picchiate, marchiate o accoltellate dalle madam. Secondo Vella, s’indaga poco sulla violenza contro le prostitute nigeriane perché “la tendenza è stata quella di ignorare le organizzazioni criminali se commettevano reati solo contro gli stranieri”. Di conseguenza, spiega, da almeno quindici anni le bande nigeriane “raccolgono grandi somme di denaro, si armano” e sfruttano le minorenni impunemente.

Un funzionario della polizia di Palermo mi dice che per la sua squadra, impegnata a contrastare la criminalità nigeriana ma senza collaboratori nigeriani, Ballarò è praticamente impenetrabile. Senza contatti sul campo, mi spiega Vella, l’80 per cento del lavoro investigativo si concentra su intercettazioni telefoniche che la polizia non è in grado di capire. “Abbiamo migliaia di persone che vivono qui e parlano lingue di cui fino a quindici anni fa ignoravamo perfino l’esistenza”, continua Vella. “La persona che scelgo per ascoltare le intercettazioni di solito è un’ex prostituta o una ragazza che lavora in un bar. Devo fidarmi di lei, anche se praticamente non la conosco”. Il tutto è complicato dalle minacce alla sicurezza. “Durante i processi devo chiamare a testimoniare l’interprete”, racconta. Il suo nome e la sua data di nascita finiscono agli atti, e la rete dei trafficanti è così ramificata che “con una telefonata Skype o un messaggio riescono a ordinare ai loro compari di raggiungere un villaggio sperduto della Nigeria e bruciare le case con la gente dentro”.

Le ragazze di solito non conoscono l’entità del loro debito fino all’arrivo in Italia, quando si sentono dire che devono rimborsare fino a ottantamila euro. Alcune madam aumentano il debito facendo pagare alle ragazze la stanza, il vitto e i preservativi a prezzi esorbitanti. Una notte, a Palermo, parlo con tre nigeriane che lavorano vicino a piazza Rivoluzione.

Una di loro è cresciuta a Upper Sakpoba road a Benin City, prima di venire in Italia “da bambina” e di essere ripetutamente stuprata. Odia quello che fa ma non può smettere perché, dopo cinque anni a Palermo, deve ancora migliaia di euro alla madam. Blessing vuole studiare Per le autorità, uno degli aspetti più sconcertanti del mercato del sesso è che le vittime del traffico con la Nigeria non denunciano quasi mai chi le tiene prigioniere. La maggior parte delle ragazze ha paura di essere espulsa e anche di dover subire le conseguenze del juju. “Ho sentito che questo juju ha ucciso molte ragazze”, commenta Blessing. “È un incantesimo potente”. Dopo due mesi in Italia, Blessing, Cynthia e una sedicenne di nome Juliet sono le uniche migranti soccorse dalla Dignity I ancora al Palanebiolo. Blessing mi dice che molte ragazze della nave sono andate via dal campo insieme a dei trafficanti. Anche Blessing vuole andarsene. “Sono stufa della pasta”, dice schioccando la lingua in segno di frustrazione. “Mi manca la Nigeria, dove la gente sa cucinare”. Sente la mancanza della madre ed è seccata perché non ha ancora avuto la possibilità di studiare.

In Italia i migranti minorenni dovrebbero essere iscritti a scuola, ma le tre ragazze sono state lasciate al Palanebiolo perché tutti i centri per minori della Sicilia sono pieni (quando il Palanebiolo è stato chiuso, le ragazze sono state trasferite in un centro per minori).

A Benin City i libri scolastici di Blessing sono ancora sullo scafale della sua ex camera da letto. Doris ha venduto il materasso per comprare da mangiare. La stanza è occupata dalla sorella minore di Blessing, Hope, che ha quindici anni e ha lasciato la scuola per aiutare la madre nel chiosco. Per non perdere l’appartamento, Godwin dà una mano a pagare l’affitto. Il debito contratto da Doris per liberare Blessing in Libia continua a crescere.

“Non so come farà mamma a trovare quei soldi. Ma non posso vendermi, anche se ho bisogno di soldi”, mi dice Blessing. “È meglio andare a scuola, l’ho promesso a me stessa e a mia madre”. Blessing sogna di costruire una casa per sua madre. “Mia madre… voglio viziarla. Il motivo per cui sono qui è mia madre. Il motivo per cui sono viva oggi è mia madre. Il motivo per cui non intendo
prostituirmi è mia madre”. Le lacrime le rigano il volto. “Sono il respiro di vita di mia madre”. Blessing, Juliet e un’altra ragazza nigeriana, Gift, scendono la collina cantando inni religiosi e strappando un sorriso ai passanti. Il cielo è scuro, e comincia a piovigginare.

Ma loro continuano a camminare, allontanandosi dal campo come non hanno mai fatto prima. Raggiungono una spiaggia pochi chilometri a nord del porto di Messina. Smette di piovere, e per un attimo due arcobaleni scintillanti appaiono sull’acqua.

“Viene dal mare”, dice Blessing alludendo al doppio arcobaleno. “Guardalo adesso. Sta scendendo”. “Sì, viene dal mare”, risponde Gift. “E poi va nel cielo”.“Sì”. Le nuvole si spostano. “È inito”, fa Blessing.Gift annuisce. “È tornato nel mare”. Pregano. Poi Blessing entra in acqua e allarga le braccia gridando: “Ho attraversato il deserto! Ho attraversato questo mare! Se questo fiume non si è preso la mia vita, nessun uomo e nessuna donna potranno togliermela!”.

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