Joe Stack, chi era costui? Cresciuto in un orfanatrofio nel vecchio quartiere industriale di Harrisburg, in Pennsylvania, dove ha visto intorno a sé l'impoverimento di quella che era la «classe operaia privilegiata», ha trascorso una vita travagliata tra debiti e tentativi falliti di autoimprenditorialità. Finché ha espresso il suo odio per il governo e i politici, per il salvataggio delle istituzioni finanziarie, per le multinazionali e le compagnie di assicurazione, in un suo «manifesto», consegnato ai posteri prima di lanciarsi nel febbraio 2010 con un piccolo aereo contro il palazzo dell'agenzia federale delle entrate ad Austin, in Texas. Per Noam Chomsky (intervistato da David Bersamian in Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali, Ponte alle Grazie, pp. 185, euro 15) quella di Stack è «un'analisi profonda e convincente della società americana».
Non è facile inquadrare con precisione Chomsky. I suoi riferimenti intellettuali e politici, come bene emerge da queste conversazioni realizzate tra il 2010 e il 2012, vanno cercati soprattutto nella tradizione giuridica della Magna Carta e nell'orizzonte morale dell'illuminismo. Nelle sue analisi c'è tanto Dewey e poco materialismo, più Bakunin che Marx: l'attenzione è rivolta ai lati oscuri dei «sistemi di potere», come recita in modo azzeccato il titolo, mentre il capitalismo è tenuto sullo sfondo. Forse potrebbe essere definito un fustigatore della cattiva coscienza liberal americana, sempre pronto a denunciare l'incoerenza tra gli ideali propugnati dalla società a stelle e strisce e la realtà di oppressione che storicamente ne contraddistingue lo sviluppo. Da questo punto di vista, l'analisi di Chomsky è inequivocabile: a differenza delle altre nazioni, quella americana si ammanta di una missione «trascendente», da imporre con le armi e la conquista. È questa la teologia politica su cui poggia l'imperialismo degli Stati Uniti, a cui nessuno dei diversi governi si è sottratto. Vanno così in pezzi tutti i miti dei liberal americani: da John Kennedy allo stesso George Washington.
Chomsky invita alla prudenza nel parlare di declino americano: concede che ci siano state delle trasformazioni, ammette che si possa parlare di un indebolimento della capacità di attuare una politica egemonica (come il fallimento della guerra in Iraq dimostra), ma vede tutto sommato una continuità nelle forme del dominio imperialista. Insomma, i «sistemi di potere» emergono da queste pagine come immutabili e comunque invincibili.
Sono note le tesi chomskyane sul linguaggio, a cui è dedicato un capitolo specifico delle conversazioni: esiste nel cervello umano una facoltà innata che consente all'essere umano di apprendere il linguaggio, la cui acquisizione è dunque un fattore biologico. Non è questo il luogo per discutere tali tesi; va tuttavia segnalato l'apparente contraddizione tra lo scrupoloso impegno nello studio del linguaggio e il quasi completo disinteresse per la rete e i social media, liquidati come semplici sistemi dottrinari del potere volti a ridurre le persone alla passività e all'atomizzazione. I concetti dovrebbero essere strappati dall'empireo dell'astrazione indeterminata e immersi nella verifica dei processi materiali. Ma qui il discorso riguarderebbe i vizi del ruolo dell'intellettuale sopravvissuti all'esaurimento della sua funzione storica, e ci condurrebbe lontano.
Per restare sul punto, non si può dire che sia la produzione di soggettività al centro degli interessi di Chomsky. Il soggetto è sempre quello che ha in mano le leve del potere, così come la lotta di classe è esclusivamente quella condotta dai padroni. Chomsky è sicuramente attento ai movimenti, come le «primavere arabe» o Occupy Wall Street. E tuttavia, nel rimarcare la sostanziale caducità dei movimenti in termini di durata, Chomsky sottolinea a più riprese come a mancare siano il partito e il sindacato; solo questi possono restaurare un rapporto lineare tra lotte e sviluppo del welfare, come fu negli anni '30 con il New Deal.
Le cifre riportate e il trend che denunciano dovrebbero inorridire di più chi, appartenendo alla razza umana e no a quella padana o simili, sa che questa piccola provincia, e nel primo mondo di cui essa fa parte, vivono ceti privilegiati rispetto al vasto resto dl pianeta: Qualcuno ne avrà colpa, qualcosa andrà cambiata.
La Repubblica, 18 luglio 2013
Solo per gli anziani che vivono da soli l’incidenza della povertà assoluta non è aumentata e quella della povertà relativa è diminuita un po’ (per effetto del peggioramento complessivo del restante della popolazione). È probabilmente l’effetto positivo del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse. Stante l’elevato numero di coloro che – come segnalato ieri dal rapporto annuale Inps – hanno una pensione attorno, o inferiore, ai 500 euro, esso non è stato tuttavia sufficiente a ridurre la povertà degli anziani che vivono con altri e la cui pensione è talvolta l’unico reddito sicuro in
famiglia.
A parte le pensioni, ci si può interrogare sull’adeguatezza degli ammortizzatori sociali messi in campo. Sempre il rapporto Inps ha evidenziato che la spesa per il sostegno al reddito non è piccola: oltre 22 miliardi nel 2012, di cui sei per la sola cassa integrazione, il resto per indennità di disoccupazione e mobilità, invalidità civile, contributi figurativi e simili. Sicuramente queste misure di sostegno hanno impedito a molte famiglie di cadere in povertà assoluta. Ma, a fronte dell’aumento di quest’ultima e delle caratteristiche di chi la sperimenta, non ci si può esimere dal riflettere sui costi sociali della mancanza, nel nostro Paese, di due strumenti che in altri si sono rivelati piuttosto efficaci nel contrastare gli effetti più negativi della povertà. Il primo è l’assegno per i figli, che aiuti chi ha figli a sostenerne il costo, perciò impedendo che la scelta individuale di investire sul futuro si traduca in povertà per sé e per i propri figli. Il secondo è un reddito di garanzia per chi si trova, appunto, in povertà, integrato da misure di inclusione e attivazione. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei occidentali a non avere né l’uno né l’altro strumento, affidandosi invece a misure frammentate e categoriali, che, mentre lasciano molti, di solito i più deboli, scoperti, talvolta beneficiano chi invece non ne avrebbe bisogno. Sarebbe opportuno che la presa d’atto dell’emergenza sociale evidenziata dai dati sulla povertà sollecitasse in tutti la necessità di una revisione della spesa per il sostegno al reddito, in direzione di una maggiore
equità ed efficacia.
«Molte persone sono sempre più deluse dagli stati-nazione da questo sentimento sta nascendo una reinvenzione dei valori. Si orientano attraverso i social media. Difendono l’ambiente contro le élite e riscriveranno le categorie politiche Il grande sociologo spiega come».
La Repubblica, 17 luglio 2013
Da che parte, a chi guardare per ritrovare la strada della Sinistra, variamente smarrita un po’ in tutto il mondo? Ulrich Beck, il sociologo della “società del rischio”, è da tempo convinto che ogni risposta nazionale ai problemi globali sia destinata a fallire. Vale anche in questo caso. Più che una cassetta degli attrezzi per riparare i partiti progressisti offre un campionario di pratiche, una serie di istantanee da una realtà che sta cambiando più in fretta delle imbolsite élite politiche. Dalla Primavera araba a quella che ha battezzato la Generazione dei Nuovi Colombo, dall’uso strategico delle catastrofi alle “New York svizzere”, scorge embrioni di una nuova Sinistra post-ideologica, giovane, ambientalista, altamente connessa. Ultima speranza per rivitalizzare quella perdente dei padri.
Professore, cosa significa “sinistra” nell’estate
del 2013?
«Dieci anni fa le avrei risposto che eravamo oltre destra e sinistra. Oggi non ne sono più così sicuro. Nel mondo sono successe così tante cose che credevamo inimmaginabili. Credo che ci sia bisogno di reimparare, reinventare la metafora della sinistra. Abbiamo anche bisogno di un nuovo linguaggio, una nuova fenomenologia di cosa sono oggi destra e sinistra».
Quali valori ha in mente?
«Purtroppo è più facile definirli in negativo che in positivo. Ma proverò. Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un “individualismo morale”, ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita. Poi un’attenzione ai problemi globali, ma in un modo molto locale e personale, ben diverso dall’agenda degli stati-nazione. Un esempio lampante è quello dell’ambiente, in cima alle preoccupazioni dei giovani di ogni paese. E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all’insicurezza economica, e
quindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti».
Di recente si è occupato molto dei movimenti di protesta globali: è lì che bisogna cercare le tracce della nuova sinistra?
Vede un partito o un leader al quale la sinistra europea dovrebbe guardare per ispirarsi e tornare a vincere?
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Lettera internazionale Un immaginario attivismo di fronte a un emporio adibito al consumo vorace di informazioni Il web è presentato come un medium per rivoluzioni e rivolte condotte a colpi di "mi piace"». Il manifesto, 17 luglio 2013
Il concetto «social media», che descrive un insieme confuso di siti web come Facebook, Digg, YouTube, Twitter e Wikipedia, non è un progetto nostalgico volto a rilanciare il potenziale, un tempo pericoloso, del «sociale», inteso come una folla inferocita che richiede la fine della diseguaglianza economica. Piuttosto, il sociale è riportato in vita come simulacro della sua stessa capacità di creare relazioni sociali significative e durature. Vagando tra le reti globali virtuali, ci sembra di essere sempre meno legati ai nostri ruoli all'interno della comunità tradizionale, come la famiglia, la chiesa, il quartiere. Soggetti storici, una volta definiti come cittadini o membri di una classe con determinati diritti, sono stati trasformati in attori dinamici chiamati «utenti», clienti che si lamentano, e prosumer. Ciò che conta - per esempio nella politica e nel mondo degli affari - sono i «fatti sociali» così come si presentano attraverso l'analisi della rete e le corrispondenti visualizzazioni dei dati. La parte istituzionale della vita è un altro discorso, un regno che viene rapidamente lasciato alle spalle. Si è tentati di rimanere positivi e di fare una sintesi, proseguendo lungo questo percorso, tra le strutture di potere formalizzate all'interno delle istituzioni e la crescente influenza delle reti informali. Il sociale, che era un tempo il collante utilizzato come rimedio al danno storico, può rapidamente trasformarsi in materiale instabile, esplosivo.
Freddo e intimo
In Questo non è un manifesto (Feltrinelli), Michael Hardt e Antonio Negri evitano di discutere la dimensione sociale più ampia della comunità, della coesione e della società. Parlano di una schiavitù inconsapevole: «Accade a volte che le persone lottino per la propria condizione di schiavitù come se fosse la salvezza». I due teorici sono interessati al diritto individuale nei «social media», piuttosto che al sociale in generale. «È dunque possibile che nella comunicazione ed espressione volontaria, nei blog, nella ricerca sul web e nell'uso dei social media, le persone contribuiscano a fare crescere invece di contrastare le forze repressive?» Per noi, il lavoro e il tempo libero mediatizzati non sono più separabili. Ma che cosa dire dell'aspetto positivo dell'essere collegati agli altri?
Hardt e Negri fanno l'errore di ridurre il social networking a una questione di medium, come se Internet e gli smartphone fossero usati solo per cercare e produrre informazioni. Per quanto riguarda il ruolo della comunicazione, concludono che «niente può sostituire la vicinanza fisica e la comunicazione corporea che è la base dell'intelligenza politica collettiva e del-l'azione».
In questo senso, la vera natura della vita sociale online resta fuori campo, e non viene quindi esaminata. L'incontro tra il sociale e i media non deve essere venduto come una sintesi in senso hegeliano, come un'evoluzione storico- mondiale; tuttavia, la forte seppur astratta concentrazione di attività sociale sulle piattaforme network di oggi è qualcosa che ha bisogno di essere teorizzato.
L'appello di Hardt e Negri al rifiuto della mediazione deve essere superato. Abbiamo bisogno di «costruire nuove verità che possono essere create unicamente da singolarità comunicanti in network e nello stare insieme». Abbiamo invece bisogno sia di lavorare in rete che di piantare le tende. Nella loro versione del sociale, «ci muoviamo in sciami come insetti» e agiamo come «una decentralizzata moltitudine di singolarità che comunica orizzontalmente». In questa prospettiva, le strutture di potere e le frizioni che emergono da questa situazione non sono ancora state affrontate.
Quello che dobbiamo fare invece è prendere il processo di socializzazione al valore nominale ed evitare di perderci in interpretazioni politiche benpensanti (come ad esempio le «rivoluzioni su Facebook» della Primavera araba e dei movimenti delle piazze). I meccanismi dei «social media» sono sottili, informali e indiretti. Ma è possibile concepire la svolta sociale nei nuovi media come qualcosa di freddo e intimo allo stesso tempo, così come dice la sociologa israeliana Eva Illouz nel suo libro Intimità fredde (Feltrinelli)?
La letteratura dell'industria dei media e dell'information technology evita di rispondere a questa domanda. Virtù come l'accessibilità e la fruibilità non spiegano che cosa le persone stiano cercando «là fuori». Limiti analoghi si ritrovano nel discorso sulla fiducia, che cerca di gettare un ponte tra la sfera informale e la sfera giuridica delle norme e dei regolamenti. Il sociale non è semplicemente la consapevolezza (digitale) dell'altro, anche se l'importanza del «contatto diretto» non va sottovalutata. Deve esserci un'interazione effettiva, reale, esistente. Questa è la differenza principale tra i vecchi media radiotelevisivi e il modello attuale dei «social network».
Nel contesto online, il sociale richiede infatti il nostro coinvolgimento costante, sotto forma di click. Abbiamo però bisogno di fare il link con il reale al di fuori dello schermo. Le macchine non potranno effettuare il collegamento vitale per noi, a prescindere da quanto avremo delegato loro. Non basta incrementare il nostro capitale sociale esistente. Ciò che i social media possono fare è espandere algoritmicamente la nostra portata, o almeno, è ciò che promettono.
Il «genio maligno del sociale» non ha dunque altro modo di esprimere se stesso se non tornando nelle strade e nelle piazze, guidato e assistito dalla moltitudine di punti di vista prodotti da smartphone «cinguettanti» e da fotocamere digitali. Così come Jean Baudrillard considerava l'esito dei sondaggi di opinione come una sottile vendetta della gente comune contro il sistema politico-mediatico, allo stesso modo dovremmo mettere in discussione la verità oggettiva dei cosiddetti big data provenienti da Google, Twitter e Facebook. La maggior parte del traffico sui «social media» proviene da milioni di computer che comunicano tra loro. Considerare un 10% di partecipazione attiva è già dire tanto, visto che gli utenti sono assistiti da un esercito di diligenti e laboriosi automatismi del software. Il resto degli account è infatti inattivo.
La crisi del «punto-com»
Il sistema di «social media» non è tuttavia più in grado di «immergerci in uno stato di stupore», come diceva Baudrillard riguardo all'esperienza dei media, decenni fa. Ora, piuttosto, il sistema ci mostra la via per avere le applicazioni più alla moda e altri prodotti che elegantemente ci fanno dimenticare il sapore della giornata di ieri. Basta un click, selezionare, e trascinare via la piattaforma per trovare qualcos'altro che ci distragga. Così trattiamo i servizi online: ce li lasciamo alle spalle, se possibile, su hardware abbandonati. In poche settimane, dimentichiamo l'icona, il segnalibro, o la password. Non è necessario ribellarsi contro i media del web 2.0, abbandonandolo mentre protestiamo per via di norme sulla privacy che riteniamo invadenti; al contrario, possiamo tranquillamente scartarlo, immaginando che alla fine si unirà al buon vecchio Html, nelle città fantasma dei passati anni Novanta.
Ci sono molti dubbi sul fatto che Facebook e Twitter, oggi piattaforme per milioni di utenti, siano ancora in grado di generare autentiche esperienze di comunità online. Ciò che conta sono gli argomenti di tendenza, la nuova piattaforma e le app più recenti. Un giorno, gli storici di Silicon Valley diranno che i siti di «social network» nascono dalle ceneri della crisi del «punto-com», quando un manipolo di sopravvissuti che operavano dai margini degli alti e bassi dell'e-commerce ha riconfigurato i concetti ancora operativi del web 1.0, così da rafforzare il ruolo dell'utente come produttore di contenuti. Il segreto del web 2.0, che ha preso il via nel 2003, è la combinazione tra uploads (gratuiti) di materiale digitale e possibilità di commentare i contributi di altre persone. L'interattività è sempre stata costituita da queste due componenti: azione e reazione.
Come spiega Andrew Keen in Vertigine digitale (Egea edizioni), il sociale nei social media è prima di tutto un contenitore vuoto; Keen porta a esempio la solita banalità secondo cui internet «sta diventando il tessuto connettivo della vita del XXI». Secondo Keen, il sociale sta diventando un'onda di marea che spiana tutto ciò che trova lungo il proprio percorso. Keen avverte che ci ritroveremo in un futuro anti-sociale, caratterizzato dalla «solitudine di un uomo isolato in mezzo a una folla connessa».
Condannati a condividere
Confinati nelle gabbie di software come Facebook, Google e i loro cloni, gli utenti sono incoraggiati a ridurre la loro vita sociale alla «condivisione» di informazioni. Il cittadino che si automediatizza trasmette costantemente il suo stato d'animo a un gruppo amorfo e insensibile di «amici». Keen fa parte di un gruppo in crescita di critici (principalmente) americani che ci allertano sugli effetti collaterali derivati da un uso estensivo dei social media. Dai discorsi di Sherry Turkle sulla solitudine, agli allarmi lanciati da Nicholas Carr sulla perdita di brain power e di capacità di concentrazione, alla critica di Evgeny Morozov del mondo utopico delle Ong, fino alla preoccupazione di Jaron Lanier per la perdita di creatività, ciò che unisce questi commentatori è che tutti evitano di dire quello che il sociale potrebbe essere in alternativa, se non fosse definito da Facebook e Twitter. Il problema qui è la natura dirompente del sociale, che si presenta come una rivolta contro un ordine sconosciuto e indesiderato: vago, populista, radical-islamico, guidato da memi buoni a nulla.
L'Altro come opportunità, come canale, oppure come ostacolo? A voi la scelta. Non è mai stato così facile «auto-quantificare» i contorni personali di un individuo. Seguiamo le nostre statistiche sul blog e sulle nostre menzioni di Twitter, controlliamo gli amici degli amici su Facebook, o andiamo su eBay per comprare un paio di centinaia di «amici» che poi possano mettere il loro «mi piace» sulle le nostre ultime foto e diffondere il nostro ultimo look. Secondo Dave Winer, il futuro dell'informazione sarà come «creare un fiume, aggregando i feed dei blogger che ammiri di più e le fonti delle notizie che leggono. Condividere le tue fonti con i tuoi lettori, nella consapevolezza che quasi nessuno è solo fonte o solo lettore. Mescolare il tutto. Fare una zuppa di idee e assaggiarla spesso. Essere connessi con tutti coloro che sono importanti per te, il più velocemente possibile, nella maniera più automatica possibile, premere al massimo l'acceleratore e togliere il piede dal freno». È così che i programmatori oggi incollano tutto a un codice. Collegare persone a dati, oggetti a persone. Questo è il sociale, oggi.
«Fare mondo»
su carta e nel web
Geert Lovink è ritenuto uno dei più influenti «media theorist». Studioso e attivista, ha da sempre studiato la vita in rete, puntando a sviluppare una teoria critica del web. Tra i suoi saggi, vanno ricordati: «Ossessioni collettive» (Università Bocconi), «Zero comments» (Bruno Mondadori), «Internet non è il paradiso» (Apogeo), «Dark fiber» (Sossella). Il testo presentato in questa pagina sarà pubblicato nell'ultimo numero di «Lettera internazionale», che ha come titolo «Fare mondo». Oltre al saggio di Lovink, la rivista propone articoli di Maria Rosaria Marella («Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza»),
Marcel Hénaffi («L'intangibile e l'inestimabile. I beni immateriali, il mercato e il senza-prezzo»), Abdelkébir Khatibi («L'universalismo e l'invenzione del futuro. Considerazioni sul mondo arabo».
«La democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri».
La Repubblica, 17 luglio 2013
SIAMO talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte.
Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla. Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre.
Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere. Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido.
C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico. Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta.
Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità. Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.
In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà. Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere.
Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati.Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia. Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fra Berlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam. Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia. Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi.
Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi. Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato-non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.
Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.
Il terzo volume del collettaneo
L'altro Novecento, a cura di Pier Paolo Poggi e Fondazione Micheletti: «Il capitalismo americano e i suoi critici». Miti che hanno orientato le scelte di milioni di individui, il comunismo referente-nemico dalla politica a stelle e strisce. Il manifesto, 16 luglio 2013
E tre! Il progetto di Pier Paolo Poggio e della Fondazione Micheletti de L'altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico in tre anni ha superato la metà del percorso. Il terzo dei cinque volumi previsti dall'opera è appena arrivato in libreria, non meno voluminoso dei precedenti (Il capitalismo americano e i suoi critici, Milano, Jaca Book-Fondazione Luigi Micheletti, 2013, pp. 719). Eppure, come e più di quelli, si presta a esplorazioni libere e plurime, con i suoi trentacinque agili contributi, opera di studiosi perlopiù italiani e statunitensi, che mai superano le venti pagine l'uno, corredati di note non maniacali e di una utile bibliografia. Lasciata l'Europa, il «comunismo eretico» prende il largo. In quattro sezioni dedicate a movimenti e conflitti sociali, razza e genere, correnti ideologiche e pensiero politico e teorie e critiche sociali, affronta il laboratorio-labirinto statunitense. Senza lasciarsi intimidire dalla traversata atlantica, nella sua bella Presentazione Poggio non rinuncia a respirare profondo. Colloca nel quadro internazionale novecentesco, cioè nel «secolo americano», la storia dei radicals di vario orientamento che - assieme, a lato e contro a frange progressiste e liberal - hanno criticato e combattuto un capitalismo con «un dinamismo senza pari», la cui «spinta espansiva...non si è ancora esaurita».
Conflitti epocali
Se è vero che «il comunismo ortodosso o eretico, inteso in una accezione storicamente determinata facente perno sulla rivoluzione russa e sviluppi successivi, non è stato un fenomeno rilevante nella storia politica e sociale nordamericana del Novecento, dove si è manifestata una pluralità di movimenti, lotte, ideologie e teorie politiche», è anche vero, dice Poggio, che «il comunismo è stato innegabilmente il referente principale della politica americana, il polo opposto che durante tutto il Novecento ne ha indirizzato scelte e strategie».
Di qui, il «rapporto americanismo-comunismo...per un verso di opposizione assoluta, per l'altro di mimetismo e concorrenza». Di qui, «il successo impressionante dei due miti contrapposti, capaci di orientare le scelte di vita e le passioni di milioni e milioni di individui» in una lotta «epocale» che, però, si rivela in realtà «scontro fra due realtà asimmetriche». Perché «mentre gli ideali americani, sia sotto forma di consumismo di massa che come patria della libertà e della democrazia, riuscivano a penetrare nel mondo comunista nonostante la 'cortina di ferro'...il comunismo russo-sovietico non riesce a prendere piede con forza nella società americana».
Di qui, infine, la sostanziale egemonia interna dell'American way of life («il grosso della società condivideva l'American way of life senza significative critiche o atteggiamenti antagonisti»), ma anche il fatto che «le critiche più efficaci e puntuali al capitalismo americano provengono dall'interno della società e cultura americana e solo eccezionalmente e marginalmente si pongono come obiettivo la negazione totale dell'America, dei suoi valori e ideali. Molto più frequentemente la loro riautentificazione, lo smascheramento del tradimento che hanno subito, l'attuazione delle promesse non mantenute».
Torneremo brevemente alla fine sul rapporto con la tradizione politica autoctona statunitense. Qui preme sottolineare come la scelta di una chiave interpretativa aperta sul mondo, inevitabile parlando di «imperi» e di un paese popolato di schiavi, servi a contratto e immigrati, dia i suoi frutti perché scivola nel libro, ne pervade molti dei contributi facendosi dimensione transnazionale, scenario variegato di influenze che entrano ed escono dall'universo Usa e disegnano, in maniera fluida e mossa, i contorni mutevoli della protesta, della presa di parola comunitaria, della critica, individuale e collettiva.
Così è per gli Industrial Workers of the World, il celebre piccolo-grande movimento sindacale d'inizio Novecento di cui Salvatore Salerno ricostruisce la matrice anarchica e soprattutto transnazionale e internazionalista, con soci fondatori di spicco nati negli Stati Uniti come Big Bill Haywood, ma anche, come nel caso di Daniel De Leon (su cui il libro ospita anche un contributo di Lorenzo Costaguta), alle Antille, o in quello di William Trautman, in Nuova Zelanda.
Così è per il pacifismo radicale e femminista della Women's International League for Peace and Freedom, una storia lunga un secolo tratteggiata da Maria Susanna Garroni. Così è per l'arcipelago di attivisti e organismi dei movimenti di liberazione afroamericani esaminato da Ferruccio Gambino, che colloca la battaglia antisegregazionista o l'incessante ridefinizione della vocazione politica di Malcolm X «contro l'esclusione» entro l'onda lunga dei movimenti anticoloniali e della decolonizzazione, da Alessandra Lorini, che getta uno sguardo globale sul pensiero antirazzista di W.E.B. Du Bois e Franz Boas, da Valter Zanin, che esamina un altro gigante del panafricanismo come C.L.R. James e il suo progetto di «rivoluzione come realizzazione dell'individuo sociale». O, ancora, per gli scienziati sociali fuoriusciti di lingua tedesca fra le due guerre mondiali studiati da Mariuccia Salvati.
Oltre alla dimensione transnazionale, un secondo elemento che emerge con forza dal libro è come tante delle voci qui presenti abbiano ingaggiato una complessa partita, di critica, lotta, rifiuto e sofferta convivenza, con le condizioni, materiali e culturali, della vita quotidiana, lavorativa e non.
Laboratori «radical»
È il caso del rapporto fra musica popolare e movimenti esplorato da Alessandro Portelli. Certamente, questa nozione della «vita quotidiana» è molto vaga e magari bisognerebbe scomodare categorie come «biopolitica» e ingaggiare un'analisi comparata col pensiero radicale, marxista e non, europeo e mondiale. Ma si ha la netta impressione che, per quanto minoritario e incapace di «unificarsi attorno a una prospettiva condivisa», come dice Poggio, questo laboratorio radical d'oltre Atlantico meriti ulteriori perlustrazioni proprio su questo terreno, così come sul suo rapporto, di tensione e convergenza, con le tradizioni politiche autoctone.
Ad esempio, non è proprio così appropriato, definire - come fa Poggio - la proposta populista tardo-ottocentesca come «un capitalismo popolare facente perno sull'individualismo proprietario», specie se si intreccia quella proposta con il progetto cooperativista e collettivo dei Knights of Labor nelle loro mille anime. Né va da sé che, se misurato sulle enormi poste sulle quali si è impegnato, il composito laboratorio radicale Usa meriti una valutazione pessimistica e negativa, come quella che, in fondo, le assegna Poggio quando conclude che «né il sistema economico-finanziario né il complesso militare-industriale sono stati seriamente messi in difficoltà» dalle lotte degli anni sessanta e settanta.
È stato comunque bello leggere questo importante libro e alzare la testa dall'album di figurine scompagnate della vita e della politica nostre di tutti i giorni.
riferimenti
Vedi anche, su eddyburg, la recensione di un altro volume, La crisi del capitalismo americano, , scritta per il manifesto da Giorgio Nebbia
Chiesero ad Einstein a quale razza appartenesse, rispose: razza umana. A sentire le gesta di certi italiani si direbbe loro non appartengano a quella razza. E' uno stato normale quello che ha tra gli esponenti figure simili? Una società normale quella che li elegge?
La Repubblica, 15 luglio 2015
ROBERTO Calderoli deve dimettersi dalla vice presidenza del Senato perché chi parla come l’ex ministro non è degno di ricoprire alcuna carica istituzionale, tantomeno una così importante, in un paese civile. Punto e basta. Almeno in questo caso, per favore, non apriamo il solito dibattito da talk show, dove tutti hanno un po’ ragione e un po’ torto. Qui la ragione sta tutta da una parte, il torto dall’altra.
Si dirà, ma qual è la novità? Sono ormai vent’anni che sopportiamo il continuo imbarbarimento del discorso pubblico, la progressiva perdita di dignità culturale della politica, archiviando ogni passo verso il baratro dell’intolleranza come occasionale “gaffe”, prontamente seguita da svogliate, ipocrite scuse. Il risultato concreto di questo vecchio che avanza è l’aver ridotto a pezzi l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo, l’infelice laboratorio di una regressione collettiva. Allora, che cosa cambia una in più o in meno? Il fatto è che esistono punti di non ritorno e questo dell’offesa di Calderoli al ministro Cécilie Kyenge segnala esattamente questo.
Sarebbe un tragico errore considerare la vicenda come un episodio isolato, per quanto deplorevole, o peggio una semplice voce dal sfuggita. Da un lato l’offesa di Calderoli è il precipitato di un ventennio di sotto cultura politica. Dall’altro, collegato agli altri fatti di questi giorni, annuncia il definito assalto agli ultimi baluardi di opinione pubblica democratica sopravvissuti nel nostro Paese.
Proviamo a guardarci un istante con lo sguardo degli altri. Siamo una nazione finita nelle prime pagine dei giornali stranieri, soltanto nell’ultima settimana, per queste tre notizie. Abbiamo bloccato i lavori del Parlamento in polemica contro una (forse) imminente condanna definitiva di un leader politico per evasione fiscale. Seconda notizia, abbiamo espulso e consegnato nelle mani di un regime dittatoriale in qualche modo amico, o meglio amico degli amici, una donna e una bambina colpevoli soltanto di essere moglie e figlia di un dissidente. Terza notizia, il vice presidente del Senato della Repubblica ha “scherzosamente” definito “un orango” una donna nera che è ministro del governo. Non stiamo a far paragoni con nazioni di superiore civiltà e quindi non staremo a raccontare che cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se un vice presidente del senato americano avesse definito “un orango” Condoleeza Rice. Ora, che cosa si può e si deve pensare di un paese in cui tutto questo passa in prescrizione in una sola settimana, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di nessuno, senza conseguenze, confuso nel grigio pietrisco della cronaca quotidiana?
Enrico Letta ha fatto bene a rivolgersi a Roberto Maroni per chiedere le dimissioni di Calderoli. Se Maroni fosse un vero leader politico, invece che un semplice erede, ne coglierebbe l’opportunità istituzionale, politica e personale. Istituzionale perché il presidente della Regione Lombardia è uno dei principali registi dell’Expo 2015, un evento ad alto rischio, il cui (improbabile) successo è legato all’afflusso di “orango” e “bingo bongo” dai paesi emergenti dell’ex Terzo Mondo, dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America. Visto che un massiccio arrivo a Milano 2015 di milioni di visitatori californiani o tedeschi o scandinavi, ansiosi di scoprire le novità tecnologiche del-l’Italia è, per usare un eufemismo, piuttosto incerto. Politico e personale perché se davvero la Lega, dismessa la bandiera pur nobile del federalismo, è ormai ridotta a sventolare lo straccio lurido del razzismo, allora non le serve un leader azzimato come Bobo Maroni. È molto più adatto uno dei dobermann addestrati alla caccia allo straniero.
«Nel mondo globale, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati».
La Repubblica, 14 luglio 2013
Nelle parole ferme ed eloquenti di Malala si deve cogliere proprio questo spirito. Non vi è soltanto il rifiuto del terrorismo, l’orgogliosa rivendicazione del “non mi piegheranno”. Vi è una indicazione politica precisa: il diritto all’istruzione è l’arma più potente, e per ciò più temuta, nella lotta al terrorismo. Sì che la strategia militare, l’unica effettivamente praticata con enorme dispendio di risorse economiche, non può mai essere sufficiente. Vi è un dovere degli Stati di intervenire perché il diritto all’istruzione sia effettivo e garantito a tutti: quelli che insistono sulla necessità di accompagnare al discorso dei diritti quello dei doveri, dovrebbero cimentarsi con temi come questo, e non usare l’insistenza sui doveri come strumento per svuotare di significato soprattutto i diritti sociali.
La riflessione sulla lotta al terrorismo al di là della pura logica militare o poliziesca incontra la questione del Datagate. La reazione ad una schedatura planetaria ad opera degli Stati Uniti ha rimesso in onore un diritto, quello alla privacy, alla protezione dei dati personali, di cui si era certificata la morte proprio per legittimare qualsiasi raccolta di informazioni personali, riducendo le persone al ruolo di fornitori obbligati di dati ritenuti necessari per il funzionamento del mercato e di meccanismi totalizzanti di controllo. Di nuovo la rivendicazione planetaria di un diritto, di cui siamo tornati a scoprire la funzione di tutela di libertà fondamentali.
Al fondo di queste due vicende si scopre l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti di tutti e di ciascuno, sempre sacrificabili per una ragion di Stato o di
mercato. Si è radicata quella indifferenza peraltro denunciata a Lampedusa dal Pontefice, con accenti che toccano in primo luogo e giustamente i migranti, ma che davvero riguardano tutti. La costruzione intorno ai migranti di un nuovo modo d’intendere i diritti è davvero questione ineludibile, per la qualità e quantità del fenomeno, globale per definizione e dal quale dipende l’assetto futuro del mondo. È una “politica dell’umanità” che deve essere avviata, indispensabile perché ciascuno di noi possa uscire da una condizione che ci ha fatto prigionieri dell’egoismo, che ha interrotto i legami sociali, che ci consegna una società frammentata nella quale, come ha scritto Luigi Zoja, facciamo i conti con “la morte del prossimo”.
Nel suo ultimo romanzo, Aldo Busi ha descritto con parole dirette questa condizione: «C’erano una volta gli altri e poi improvvisamente scomparvero dalla faccia della terra e io non fui pertanto più un altro per nessuno». Alla scomparsa delle persone, sostituite da astratti simulacri modellati sulle esigenze del consumo o del controllo, si reagisce proprio rivendicando la materialità dell’essere e dei bisogni, e misurando su questi i diritti di ciascuno. Ritorna imperioso il bisogno di pronunciare la parola più negletta della triade rivoluzionaria, “fraternità”, ricordando che l’articolo 2 della nostra Costituzione parla di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Non a caso si invoca oggi una “solidarietà globale” come orizzonte della politica. Così la rivendicazione dei diritti, che qualcuno vuol leggere come estrema frontiera dell’individualizzazione, si immerge invece nel contesto sociale, trova le sue radici in una “rivoluzione della dignità” che non è solo quella del singolo, ma la “dignità sociale” alla quale si riferisce l’articolo 3 della Costituzione. Forse possono tornare tempi propizi per quello che Eligio Resta ha chiamato un “diritto fraterno”.
Queste non sono dichiarazioni di buoni propositi o sentimenti, ma linee direttive lungo le quali si muovono concretissimi interventi a tutela della persona e dei suoi diritti. Se, per fare un solo esempio, si considerano le molte sentenze con le quali diverse corti hanno affrontato il conflitto tra il diritto fondamentale alla salute e il potere di Big Pharma, delle grandi multinazionali farmaceutiche, si coglie una tendenza a far prevalere le ragioni della salute su quelle del profitto con caratteristiche davvero globali, visto che si va dalle corti costituzionali di Sudafrica e India alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Quest’ultima, il 13 giugno, ha pronunciato una sentenza che pone limiti alla brevettabilità del genoma, con diverse specificazioni, ma sostanzialmente accogliendo le sollecitazioni di chi voleva infrangere il monopolio di una società, Myriad Genetics, per quanto riguardava i test riguardanti il cancro al seno. E, in più di una decisione, la prevalenza accordata ai diritti fondamentali è strettamente collegata con la considerazione come beni comuni dei mezzi direttamente necessari per la loro attuazione.
Nel mondo globale, dunque, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati. Qui la politica deve fare le sue prove, pena la sua crescente marginalizzazione. Dobbiamo ricordarlo oggi, perché si avvicinano le elezioni europee e la delegittimazione dell’Unione, dovuta alla sua totale identificazione con la logica dei “sacrifici”, può essere arrestata solo se si ricorda che esiste un ordine europeo nel quale, con lo stesso valore giuridico dei trattati, esiste una Carta dei diritti fondamentali.
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Non perdete l'intervista a un grande intellettuale dei nostri anni. Antigone e Creonte, Dostoiewskij e Tolstoi, legge e giustizia, le varie facce della natura umana. E un pensiero-guida: «La verità esiste, nessuno la può afferrare completamente e però esistendo, non è insensato cercarla».
La Repubblica, 14 luglio 2013
L’appuntamento con Gustavo Zagrebelsky è nella nuova università torinese che accoglie Giurisprudenza e Scienze politiche. Il campus, dedicato a Luigi Einaudi, ha un’aria sinuosa e trasparente. Colpisce il tetto che sembra l’enorme guscio di una tartaruga. Il professore mi attende all’ingresso. Non c’è nulla di formale, come ci si aspetterebbe da un grande giurista. Noto che tra le mani stringe un libro: una raccolta di saggi dedicata al Grande Inquisitore. Mi informa che sull’argomento sta preparando un libro e che della tantissime interpretazioni che sono state offerte delle pagine di Dostoevskij quella che lo ha maggiormente convinto è del teologo Dietrich Bonhoeffer. Penso alla sua morte avvenuta in un campo di concentramento nazista per impiccagione. E al fatto che lì, in quell’aprile del 1945, l’inquisitore prese il volto di un tiranno folle e crudele che ne decretò la condanna a morte.
Questa sua predilezione per Dostoevskij da cosa nasce?
«Dal senso di inquietudine e di confessione che attraversa i suoi romanzi. Più mi addentro nei suoi personaggi e più resto turbato dall’impasto di abiezione e salvazione che essi restituiscono».
È la duplicità della natura umana.
«Che non trovo per esempio in Tolstoj, il quale ci regala dei bellissimi monumenti classici, mentre in Dostoevskij si avverte un tormento continuo. Non credo sia secondario che egli scrivesse sotto l’assillo dei debiti».
Detto da un giurista è curioso.
«Perché? Dostoevskij era attento non tanto alle dottrine generali ma alla condizione umana; seguiva i processi e descriveva i comportamenti degli avvocati, degli imputati e dei giudici. Anche un giurista non può ignorare la vita delle persone».
Non dovrebbe occuparsi di norme generali e astratte?
«Certo, ma il diritto giusto non esiste in assoluto. Il suo dramma è che la norma pura e semplice può agire con violenza sulla condizione particolare, ma al tempo stesso la singolarità delle situazioni può distruggere la norma».
E allora?
«La discussione resta aperta. Pascal diceva che alla legge si ubbidisce perché è legge».
E se la legge è ingiusta?
«Se si introduce un elemento di valutazione di giustizia il rischio è la distruzione dell’ordine, perché ciascuno può dire: la legge è ingiusta e io non obbedisco. È una vecchia questione».
Talmente antica da risalire ad Antigone?
«Quella tragedia è una delle grandi fonti di ispirazione del diritto. Antigone ne rappresenta il lato tradizionale, il sangue, il genos, gli dèi; mentre Creonte è la legge modernizzatrice e artificiale. Credo ci sia bisogno di entrambi gli aspetti. Se uno dei due si libera dell’altro, il diritto può diventare uno strumento pericoloso. Il compito del giurista si svolge lì in mezzo».
Per fare esattamente cosa?
«Per difendere la duplicità. Mi sono formato in questa università e la mia impostazione era forgiata sui principi di Hans Kelsen. Mi sembrava un sistema perfetto. Ma le norme possono essere equivoche. Interpretabili. Ed ecco allora il bisogno di andare oltre Kelsen».
E quindi oltre Bobbio?
«Bobbio fu un pilastro di questa università e vide in Kelsen
di riferimento fondamentale. Ma lui, che si definiva positivista aggiungeva che era un positivista inquieto».
È stato uno dei suoi maestri?
«È stato un mio professore ammiratissimo e ricordo che le sue lezioni erano belle anche esteticamente. Però il mio vero maestro fu Leopoldo Elia, che insegnava diritto costituzionale».
Perché ha scelto il mondo del diritto?
«Mi piacerebbe risponderle: per convinzione e decisione. In realtà fu per caso. L’iscrizione a giurisprudenza avvenne perché ritenevo fosse una facoltà non molto complicata e in grado di aprire molte strade. Mio padre voleva che prendessi ingegneria. Mi portò da un suo amico, un celebre fisico russo che abitava a Torino e si chiamava Gleb Wataghin. Aveva fatto costruire nel suo laboratorio un acceleratore di particelle. Era un ometto vulcanico. Davanti a quell’acceleratore restai muto. Non sapevo cosa chiedere. E Wataghin disse a mio padre: tutto, ma non la fisica!».
Il caso ha governato spesso la sua vita?
«Quasi sempre. È incredibile come io mi sia inserito nelle situazioni senza nessun particolare progetto. Devo aggiungere che ho avuto una vita professionale molto fortunata. E mi considero un uomo libero che, con un certo tormento, si illude di fare al momento la cosa giusta».
E quali sono i suoi tormenti?
«Non essere abbastanza chiaro in quel che dico o scrivo. Poi ci sono i tormenti più personali. A me pesa moltissimo per esempio dire qualcosa che possa dispiacere a qualcuno col quale ho un buon rapporto. E questo tanto più, in quanto viviamo in un tempo in cui la gente si offende facilmente. Davanti a certe reazioni anch’io, a volte, non so trattenermi».
Nel senso?
«Contrariamente a quello che si vede sono un iracondo. Però cerco di tenere sotto controllo gli scoppi d’ira. Ritrovo in me molto di mio padre. L’ira, insieme alla vodka e al gioco, è una caratteristica del popolo russo».
Lei ha origini russe?
«La mia famiglia proveniva da San Pietroburgo. I miei nonni erano in vacanza a Nizza nel 1914 quando scoppiò la guerra e furono chiuse le frontiere. Mio padre era nato nel 1909, quindi all’epoca era un bambino. Poi, quando ci fu la rivoluzione in Russia il nonno, che era ufficiale a Mosca, riuscì a rientrare. Di lui per anni non avemmo più notizie. Salvo poi ricomparire con nostra sorpresa. Il regime sovietico lo espulse come persona inutile e non gradita».
Suo padre che faceva?
«Per dare una mano alla famiglia all’inizio fece il garzone di un ciabattino. Poi nella comunità russa di Nizza ci fu una spaccatura. Noi emigrammo a San Remo. Circolava in famiglia la storiella che la nonna era convinta di aver trovato il sistema per sbancare il casinò. Naturalmente dilapidò quel poco di gioielli che ci era rimasto. Mio padre, al quale non mancavano le risorse, si mantenne agli studi di Economia e Commercio con una serie di lavoretti, tra cui la composizione di brevi racconti che spediva al Corriere mercantile di Genova, spacciandoli come novelline di Gogol da lui tradotte».
Iracondo e intraprendente
«Era dotato di quel fascino russo che ha quasi sempre un fondo dissipativo. Di lui, una specie di gagà senza un soldo, si innamorò perdutamente mia madre, una valdese che veniva dalla Val Chisone».
Che cos'è l'ira?
«Spinoza la mette tra le passioni tristi. Per dirla con il mio amato Dostoevskij è la prova che il nostro impasto è fatto di cose belle e pessime».
Un giurista non dovrebbe misurarsi più con Kafka che con Dostoevskij?
«Non dimentichi le mie origini. In entrambi troviamo l’angoscia, l’assurdo, il nulla, la spersonificazione. Ma mentre in Kafka sembra esserci la resa, in Dostoevskij c’è la resistenza. Kafka è già precipitato; Dostoevskij è sul crinale dell’abisso. Uno parla di una società minacciata dal nulla l’altro di una società vinta dal nulla. Come giurista mi interessa più Dostoevskij».
Forse anche per la drammatizzazione del problema di Dio. Si nota in lei un interesse per i testi biblici.
«In effetti, ho una certa propensione. Ho perfino dedicato tre anni, nel tempo libero dall’attività alla Corte Costituzionale, alla traduzione di un grande testo di Chaim Cohn che ha studiato i resoconti evangelici dal punto di vista ebraico. Mi è servito come esercizio d’autodisciplina per resistere alla tentazione di trasformarmi in giurista tutto di un pezzo».
Anche interessarsi di democrazia è un modo per uscire dallo specialismo giuridico?
«Un giurista non ha solo la legge di cui occuparsi. Un tempo si poteva teorizzare la democrazia come il miglior modo di convivenza, adesso si rischia di dire le stesse cose dando l’impressione di fare una predica».
Evitando la predica, c’è un aspetto della democrazia al quale non possiamo rinunciare?
«Credo che la sua essenza consista nell’allontanare giorno dopo giorno il momento dei coltelli. Parlando, discutendo, confrontandosi e anche confliggendo sugli interessi ma sempre fermandosi un attimo prima che si sfoderino i pugnali. Perciò abrogare l’idea di democrazia significa legittimare il sopruso».
Vent’anni fa non si sarebbe posto il problema in questi termini.
«Non ne sarei così sicuro. È un paese il nostro che non ha quasi mai saputo discutere».
Viviamo nell'età del disprezzo?
«Siamo passati dall’ammirazione per il potere all’invidia e alla conseguente frustrazione. Oggi non si invidia più ma si disprezza. La società si è divisa tra i molti che disprezzano e i pochi che sono disprezzati».
Chi sono i pochi?
«Sono le oligarchie che un tempo erano nascoste e oggi sono percepite come tali».
Ovvero gli inammissibili privilegi di cui ancora godono?
«Sono mondi — finanziari e politici — chiusi all’esterno e molto litigiosi al loro interno. Da qui ne consegue quello che per me è diventato il chiodo fisso: aprire il mondo dei piccoli numeri ai grandi numeri, immettere energie sociali nuove in questo mondo chiuso ».
La democrazia è ancora dubbio?
«Mi ribello all’idea che chi professa l’etica del dubbio sia un nichilista ».
Magari è solo un relativista
«Non trovo sia un insulto, se relativismo significa atteggiamento non dogmatico e pluralistico, non sia cioè l’alternativa secca tra vero e falso, amico e nemico. L’etica del dubbio si fonda sulla premessa che la verità esiste ma che nessuno la può afferrare completamente e che però esistendo non è insensato cercarla».
Un atto di fede
«No, una dimensione terza che un tempo era Dio, poi lo Stato. Oggi quel terzo dobbiamo crearlo dal basso».
Sembra affiorare l'anima russa
«Non mi dispiacerebbe. Provengo da una famiglia con una lunga storia alle spalle. Noi, i figli, sappiamo poco anche di quella che, poi, è stata la vita di esuli, tra la Costa Azzurra e la riviera ligure. Sembra quasi che volutamente si sia steso un velo di oblio su vicende dolorose che sarebbe stato molto interessante cercare di riportare alla luce. In fondo, si è trattato d’una sia pur piccola scheggia di una grande storia europea».
E cosa le fa venire in mente?
«Penso a nostro padre che riposa vicino a nostra madre nel piccolo cimitero di San Germano Chisone, in terra valdese. Chi si aspetterebbe mai di trovare lì, su una lapide, la croce ortodossa? Quante vicende, traversie, dolori, sradicamenti e nuovi radicamenti; quanta storia!».
Quando dice figli pensa a sè e a suo fratello?
«In realtà siamo in tre. Io, quello che una volta si diceva «il più piccolo». Poi, Vladimiro, giurista anche lui, di tre anni più vecchio di me. Il più grande di tutti è Pierpaolo, non giurista, che ci protegge».
Da cosa?
«Dall’ipertrofia giuridica».
La lettura politica di un’enciclica non è opportuna. Opportune sono altre letture: teologica, pastorale, ecclesiale. E, per rispetto, è bene lasciare queste letture a chi di dovere. E tuttavia un politico pensante sarebbe bene che dedicasse qualche ora del suo tempo ad attraversare questa sapienza mondana che viene da un altro mondo. C’è molto da imparare. Discorso religioso e discorso politico non si intrecciano soltanto fuori dell’Occidente secolarizzato. Stanno anche qui da noi, insieme, solo in modi diversi, per diverse ragioni, con diversa intensità. In Italia, poi, c’è una storia che pesa, antica e moderna, che impone larghi tratti di lingua comune. Il dibattito pubblico, dall’intreccio dei discorsi, ha tutto da guadagnare, per sollevare il suo livello, per corrispondere sempre più da vicino nella vita delle persone. Lumen fidei ci interroga. Disporsi all’ascolto è il primo passo. Impegnarsi nella risposta, è il secondo. Il terzo, fondamentale, è l’assunzione del problema. E il problema è il senso della fede in un mondo che, siccome non crede più nelle cose grandi, finisce per credere solo alle cose futili. È singolare questo testo. Le quattro mani, dei due Papi, si sentono. La vedo così: la speranza di Bergoglio viene ad aggiungersi alla disperazione di Ratzinger. L’incredulità sfocia nell’idolatria, «l’opposto della fede». E c’è idolatria secondo la definizione che Martin Buber riprende dal rabbino Koch «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto». L’altra faccia dell’incredulità è l’indifferenza. Papa Francesco va a Lampedusa a denunciare quella «globalizzazione dell’indifferenza», dove «l’illusione del futile, del provvisorio» nasconde la tragedia del nostro tempo, che, tutte, sono a carico dei dannati della Terra.
Ma la mano di Papa Benedetto è dominante. Chi ha voluto l’Anno delle fede pensava già di concluderlo con questa riflessione a tutto campo. Dal giovane Nietzsche a Wittgenstein, tra Paolo e Agostino, lo spostamento è da fides et ratio a fides atque veritas. Credere non è il contrario di cercare, è la sua vera condizione. Bisogna sapere che cosa si cerca. La critica al relativismo viene presa da un’altra parte, da una orizzonte di fede, il solo in grado di dare luce. Chi crede, vede. E il vedere credendo è un cammino, una via, anzi un viaggio. Ecco però il punto essenziale: non in solitudine, ma in comunità. È impossibile credere da soli. E chi crede non è mai solo. Chi crede da solo si illude, e rimane vittima delle illusioni del mondo. Perché è «la crisi di verità», il contestostorico in cui viviamo, quello in cui ci fanno vivere. Qui è «il grande oblio nel mondo contemporaneo».
La critica dell’individualismo dominante nel tempo presente è il filo che lega il teologo Ratzinger al pastore Bergoglio. Diventa indifferente a chi dei due vada attribuita la frase: «La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio». Fede e verità significa questo: il doppio senso in cui si può dire il detto di Isaia. Nella versione greca: se non credete, non comprenderete. Nella versione ebraica: se non credete, non resterete saldi. Comprendere, con la ragione, vuole dire stare saldi, nella fede. Allora la verità grande è «la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale».
Di qui, il bellissimo concetto di «esistenza credente». Io credo questo, oggi, l’unica figura di esistenza veramente libera. Perché il credere a niente porta al credere a tutto. E questa è l’oppressione moderna, la dittatura occidentale, garantita dai diritti, praticata dai comandi, visto che nessun’altra forma di convivenza è possibile, oltre a questa che ci è data. Se la fede è «toccare con il cuore», come dice Agostino, e come sta praticando Bergoglio, allora c’è da introdurre, nel mondo così com’è, la passione di un altro futuro, per le persone, per la società. Mi piacerebbe trovare in un documento congressuale l’audacia e la forza che trovo in una indicazione di questa Enciclica: «Trasformare il mondo, illuminare il tempo».
La politologa fa parte del Comitato per le riforme: non sono intransigente, ma non potrei tollerare una sfida alla Cassazione.
La Repubblica, 13 luglio 2013
Si è trovata d’accordo con la decisione della sua collega?
«Ci siamo parlate e scambiate delle mail. Sin dall’inizio la Carlassare aveva mostrato delle insicurezze e delle tensioni circa il nostro lavoro. Che in parte vivo anche io. Però penso che andarsene adesso significhi lasciare maggiori spazi e margini di manovra a chi nel comitato ha delle visioni diverse dalla nostra».
Quindi lei per ora resiste...«Mi faccio questa domanda: lasciare il campo oppure presidiarlo? Non è il momento dell’intransigenza, almeno per me. Nonostante viva un tumulto interiore, in mezzo a due fuochi: i miei principi da una parte, il dovere di difenderli dall’altro».
Il gesto della Carlassare ha più che altro un valore simbolico. Lei dice: “I saggi sono frutto di questa maggioranza. E io in questa maggioranza non voglio più starci”. Cosa ne pensa?«Vivo la stessa sofferenza. Mi sento un’anima in pena. C’è un Pd che non ci aiuta nell’essere coerenti con le nostre idee. Ci rende la vita difficile, non ci dà alcun supporto. È un partito diviso in bande armate, con milizie contrapposte in lotta. Si comporta nel peggior modo possibile. Proprio per questo non dobbiamo lasciare il campo a chi vorrebbe una riforma presidenziale».
Nel vostro gruppo in quanti pensano più o meno le sue, le vostre, stesse cose?«Sa, non mi metto a contare... L’impressione comunque è che ci siano due dialettiche ben definite. Due schieramenti. Uno in difesa del parlamentarismo, che pure può essere migliorato e siamo lì apposta. Un altro, invece, per il semipresidenzialismo. I primi faticano molto, in questo contesto».
Qual è il limite che lei si pone, una linea oltre la quale non si va?«Aspetto di vedere cosa succede con il pronunciamento della Cassazione. Se Berlusconi venisse condannato e se il Pd finisse per salvarlo, allora davvero basta. Sarebbe un atto di sfida ad un altro organo costituzionale senza precedenti».
Intanto il Pd ha presentato un disegno di legge per superare la legge 361 del 1957: sostituendo il principio di ineleggibilità con quello di incompatibilità. Così Berlusconi avrebbe un anno di tempo per decidere cosa fare, se restare senatore o se tenersi le aziende. Come giudica questa iniziativa?«È una forma pilatesca che cerca di mettere insieme tutto e il suo contrario. Che sia il Pd a proporre scappatoie a misura per il potente di turno è assurdo».
Il Caimano, descritto con pochi essenziali parole, e il Pd, giustamente uniti nella tagliente invettiva del grande maestro di diritto.
La Repubblica, 13 luglio 2013
Da vent’anni siamo preda d’una compagnia mercenaria. Se l’è assoldata Berlusco Magnus, monarca assoluto. «Nomina sunt omina» ossia indicano gesta passate e future: nel catalogo medievale nomi malfamati erano indizio ad inquirendum, come la «mala physiognomia»; e la radice «lusco» descrive modi obliqui. Costui divorava mezzo mondo mescendo volgarità garrula, piagnistei, colpi a sorpresa. Sono tanti i trasgressori abituali. Lui configura una specie rara, anzi rarissima, essendosi ingigantito al punto da sfidare autorità e poteri, quasi invulnerabile: falsifica, corrompe, froda, plagia; inter alia, compra giudici; schiva le condanne perdendo tempo finché i delitti s’estinguano, essendosi tagliati i termini; già presidente del consiglio, costituisce fondi neri in paradisi fiscali, simulando passività. Tale l’oggetto del processo dove ha subito due condanne milanesi (tribunale e corte d’appello), passando in giudicato le quali, sarebbe interdetto dai pubblici uffici: la causa pende davanti alla Cassazione; sarà discussa martedì 30 luglio. Alla difesa fanno comodo tempi lunghi, perché parte del reato s’estinguerebbe, ma la Corte era obbligata a prevenire tale evento. Il caso, dunque, sarà deciso sulla base degli atti, come avviene sempre. Qui sta il punto: Sua Maestà rivendica privilegi d’excepta persona; rispetto a lui, non esistono norme; già l’accusa offende un tre volte benedetto dal voto popolare. Non valgono logiche giudiziarie: se i tali fatti siano avvenuti, corrispondano a modelli legali e l’autore debba essere punito; ragionando così i sacrileghi sminuiscono l’Unto. Provocatio ad populum. Ha dello sbalorditivo che in pieno ventunesimo secolo favole simili corrano nell’Europa evoluta. Ottantanove anni fa dei sicari uccidono l’oppositore Giacomo Matteotti: il regime fascista rischia il collasso, sebbene comandi ogni leva; lo sporco affare finisce in un giudizio truccato, chiuso da condanne miti. Mussolini fingeva ossequio alla legge. L’Olonese se la mette sotto i piedi.
A che punto siamo regrediti, lo dicono gli schermi. Uomini del re parlano e gesticolano a gara. Pigliamone uno dal rango ministeriale (e portafoglio, infrastrutture): milita in Comunione e Liberazione, visita la Terrasanta; venera divum Berlusconem. Mercoledì 10 luglio commenta l’accaduto: qualcosa d’orribile, «attentato alla democrazia»; tale essendo l’atto col quale «una parte della magistratura » tenta d’espellere l’uomo più votato dagl’italiani (che io sappia, non esistono decisioni deliberate dall’intero corpo), e via seguitando, più mimica stralunata. E nel merito della causa? Che domanda: è innocente, non potendo non esserlo; verità ontologica, direbbe sant’Anselmo. Nel dialogo evade dai punti pericolosi eruttando suoni vaghi. E fosse respinto il ricorso? Impossibile, ipotesi aberrante, fuori del mondo, intollerabile. In molti casi, però, s’era salvato per il rotto della cuffia, risultando estinti i reati. Colpa dei giudici, imparino il mestiere, poi nega che la voliera d’Arcore contenga colombe e falchi: credono tutti nel Silvius Magnus; o meglio, salmodiano in posa da credenti (sarebbe interessante qualche scorcio dei dialoghi tra collocutori sans gêne). Non era un capolavoro d’arte dialettica. Vi ricorreva la parola «storia», comune ad altre ugole: i Pdl hanno laringi collegate a un cervello collettivo; anche nel drammatico bisbiglio della Pasionaria risuonava lo stesso bisillabo. Qualcuno vuole dal premier una condanna dell’atto eversivo compiuto dalla Corte e lui resiste, gentiluomo equidistante: i Pd ortodossi «rispettano» le scelte giudiziarie, auspicandole tali da non turbare lo sterile idillio governativo; quando poi i partner chiedono tre giorni d’astensione dai lavori parlamentari, segnale polemico alla Cassazione, non è atto onorevole accordarne uno. Nessuno se ne stupisce. L’alambicco genetico fa degli scherzi. Palmiro Togliatti, temprato nel pragmatismo staliniano, aveva idee chiare; e forbito umanista (disputava con Vittorio Gorresio sul gerundio nello Stilnovo), non avrebbe degnato Re Lanterna, al quale i discendenti parlano rispettosi, cappello in mano, ormai cugini d’Arcore. Vedine due. Massimo D’Alema, sibilante uomo d’apparato, implacabile contro i concorrenti; e Luciano Violante, alias Vysinskij, feroce pubblico ministero nei dibattimenti moscoviti 1936-38. Non trascuriamo una componente craxiana: postcomunisti governativi distano poco da Fabrizio Cicchitto; in Sandro Bondi, venuto dal partito-chiesa, persistono invece cromosomi frateschi.
Conteremo i trasmutati dal voto sulla questione se B. fosse eleggibile. No, dicono norme più chiare del sole, ma esistendo accordi sotto banco, i partiti erano concordi nello svuotarle con una lettura da ubriachi, nel senso che l’incapacità colpisca solo i titolari della concessione, ossia Fedele Confalonieri, e l’effettivo padrone resti fuori causa, quando anche s’interessi alla gestione, come esemplarmente avveniva nel caso deciso dalla sentenza Mediaset. Il voto pro B. (in perfetta mala fede) significherebbe: qui comanda lui; non importa che due elettori su tre lo rifiutino; gli oligarchi hanno deciso cospirando nella notte 19-20 aprile perché restasse al Quirinale l’assertore delle «larghe intese», utili solo al pirata. Voto sicuro, secondo gl’informati. Toglieva ogni dubbio un’intervista 20 giugno, dove lo junior neocapogruppo Pd alla Camera afferma che tale sia la norma (rectius, lettura asininofraudolenta d’un testo), e molto applaudito ex adverso, sabato 13 luglio recita un autodafè: il Pd era «giustizialista», «sfrenatamente antiberlusconiano», non lo sarà più; inalbera l’insegna «garantismo » (in semiotica berlusconiana, impunità); annuncia anche una riforma in materia d’intercettazioni. Ha viso ed eloquio imperiosi questo giovane castigamatti del gruppo Pd, paternamente accudito da Pierluigi Bersani (icona e notizie in Wanda Marra, nel «Fatto Quotidiano, 9 luglio). Se i voti gli pesano e vuol perderne, l’infelice partito se lo tenga caro.
Il lungo tradimento della democrazia e della decenza perpetrato dalla sinistra che non c'è.
Il manifesto, 13 luglio 2013
L'unica legge che c'è è la Frattini. Grazie alla quale il Cav resta il «dominus» di Mediaset
Giustamente, come in ogni legislatura da vent'anni, il centrosinistra si prepara a non intervenire sul conflitto di interessi. E per farlo bene, anzi per non farlo, presenta una proposta di legge che non potrà, o non vorrà, approvare.
Ma gli anni passano e questa volta non ci lasciano neanche la suspense. Avremmo potuto dare oggi la notizia dell'iniziativa legislativa del Pd, preparandoci tra qualche mese o qualche anno a notare che era rimasta senza seguito. Invece dobbiamo fare tutto assieme, visto che anche il presentatore del nuovo disegno di legge, il senatore già vicedirettore del Corriere Massimo Mucchetti, di fronte alla prime polemiche del Pdl garantisce che «non è una legge fatta per Berlusconi» e che «comunque non farebbe mai in tempo a essere approvata».
Un atto di onestà. Del resto fare una legge per bloccare il ventennale gioco sui due tavoli di Berlusconi - politica e comunicazione, ovviamente - essendo al governo con Berlusconi è piuttosto difficile. Walter Veltroni era riuscito a fare (anzi, a non fare) di meglio, visto che nel 2009, reduce dalla sconfitta elettorale e dimessosi da segretario del Pd, presentò una proposta sul conflitto di interessi essendo il Pd all'opposizione e Berlusconi saldamente in maggioranza. La proposta, molto rigorosa, è negli archivi del parlamento, insieme alla lunga storia delle promesse mancate del centrosinistra.
Vicende non sempre limpide, anzi quasi mai, tanto che una volta a Romano Prodi scappò detto che sul conflitto di interessi non si riusciva a muovere foglia perché «si fanno volutamente delle manfrine». Ce l'aveva, probabilmente, proprio con Veltroni, le cui prove d'intesa con Berlusconi a cavallo tra il 2007 e il 2008 (ricordate, c'è una famosa foto dei due che si stringono la mano, mentre a palazzo Chigi c'era Prodi che arrancava) bloccò l'ultimo tentativo del Pd di approvare una legge «all'americana». Niente di rivoluzionario, tant'è che quando fu approvata in commissione affari costituzionali - era conosciuta, all'epoca, come legge Violante - i berlusconiani non votarono contro. Eppure in aula non arrivò mai.
Destino condiviso con almeno altre due proposte di legge del centrosinistra, che del conflitto di interessi in questi anni ha molto parlato. In genere per chiedere scusa, non lo faremo più, abbiamo sbagliato, ma alla prossima legislatura... L'hanno detto un po' tutti, D'Alema, Prodi, Veltroni. Qualche volta si sono dati la colpa reciprocamente: abbiamo visto Prodi contro Veltroni, non può mancare Veltroni che accusa D'Alema: «Quando c'era la bicamerale tutto era sospeso...». Si riferiva, l'ex sindaco di Roma, al niente di fatto numero due, quello del 1996-2001, quando al governo c'era l'Ulivo e a scrivere le regole del conflitto di interessi fu chiamato Franco Frattini. Anche allora la legge fu approvata alla camera ma restò acquattata al senato fino alla fine della legislatura. Il fallimento numero uno data 1995, governo Dini, maggioranza di centrosinistra uscita scottata dalla vittoria elettorale di Berlusconi l'anno prima. La strada scelta fu quella del trust «cieco», si partì allora dal senato ma il risultato fu identico: parlamento sciolto prima che la camera potesse approvare definitivamente la legge.
E dunque l'unica che abbiamo è la legge Frattini (che oggi è un «saggio» della commissione per le riforme). Fatta in casa dal centrodestra, contiene regole tanto stringenti da aver permesso a Silvio Berlusconi di continuare - lo ha scritto la corte d'appello nel processo Mediaset - a essere il «dominus indiscusso» delle sue aziende. Ha dovuto, però, lasciare la presidenza del Milan.
La solerzia dell’Interpol e il repentino via libera dato a Cortese hanno una ragione. Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura. E devono suonare convincenti, perché vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà. Ad horas. Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità, spiegano che «il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro». «Anche perché - aggiungono le stesse fonti - quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, né prima, né dopo, della visita e della richiesta dei diplomatici kazaki».
Il passaporto diplomatico. La Farnesina
Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è «una pratica ordinaria» sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocratica-macinata come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”. La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione. Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen. Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, né dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un «falso».
Errori materiali. Un solo dubbio
Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la prima volta gli avvocati dello studio Vassalli- Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato. Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel prestampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha). E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza). Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti. Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.
«Come costituzionalista sono sconvolta, si è oltrepassato ogni limite. La sospensione era in realtà un’intimidazione bella e buona verso la Cassazione».
La Repubblica, 12 luglio 2013
«Siamo alla disfatta morale, per favore lo scriva» dice Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista. Faceva parte dei 35 saggi per le riforme, ma dopo il blocco del Parlamento voluto dal Pdl ha deciso di dimettersi. Lo ha fatto inviando una lettera al ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello, poi pubblicata sul sito di Libertà e Giustizia.
Professoressa, come mai questa decisione?
«Voglio fare una premessa: nella commissione mi sono trovata bene, anche con Quagliariello i rapporti erano e sono ottimi. Però qualcuno doveva pur fare qualcosa. Certe cose non succedono nemmeno in Africa, non so se ci rendiamo conto... ».
Quagliariello le ha risposto con un’altra lettera in cui spiega che è “prassi consolidata delle Camere deliberare una breve sospensione dei propri lavori per consentire ai parlamentari di un gruppo di partecipare ad attività di particolare rilievo”.
«Ci ho parlato con il ministro, era dispiaciuto per la mia scelta. Ma come costituzionalista sono sconvolta, si è oltrepassato ogni limite. La sospensione era in realtà un’intimidazione bella e buona verso la Cassazione. Bastava ascoltare le parole di Daniela Santanché mercoledì mattina. Certe
regole devono necessariamente restare ben salde in questo Paese. Non potevo e non posso tacere di fronte a un atto di questo tipo. Sono sempre stata libera di poter dire come la pensavo nel corso della mia vita, faccio lo stesso anche adesso».
Dal punto di vista tecnico, da giurista, qual è stata la regola infranta?
«Si è infranto nel suo insieme lo spirito costituzionale. La maggioranza ha mostrato un’assoluta estraneità ai valori dello Stato di diritto, così pure il disprezzo per il costituzionalismo liberale e i suoi più elementari principi. Il bello è che poi si dicono tutti liberali».
I suoi colleghi della commissione invece come hanno commentato gli ultimi fatti?
«Non li ho sentiti. Ma noi siamo comunque un gruppo di persone messe lì a lavorare da questa maggioranza. A me dispiace andarmene. Però proprio perché la commissione è frutto delle larghe intese ho il dovere di manifestare questo dissenso. Soprattutto non comprendo il Pd: qualsiasi cosa gli chieda il Pdl loro la fanno, ma è mai possibile?».
Quindi a lei non piace questa maggioranza?
«Sono sempre stata convinta che questo governo non dovesse neanche nascere. Lo dico anche da un punto di vista politico-costituzionale, perché il percorso che ha condotto alla sua formazione mi è sempre sembrato - diciamo così - perlomeno dubbio».
Le sue dimissioni sono legate anche al fatto che si stesse discutendo al vostro interno del presidenzialismo?
«Assolutamente no e voglio che sia chiaro. È vero che quando mi fu proposto di far parte del comitato ero assai perplessa e indecisa se accettare o meno. Ma poi sul campo mi sono trovata molto bene. L’orientamento prevalente non era quello di una modifica in senso presidenziale».
E a che punto siete, anzi eravate, arrivati?
«C’era un accordo su come migliorare il funzionamento del sistema parlamentare. Ad esempio dando al premier la possibilità di revoca dei ministri, una sola Camera politica e il Senato organo territoriale. Quindi migliorare il sistema, ma senza andare verso il presidenzialismo».
. La Repubblica, 12 luglio 2013
ADESSO più che mai l’abolizione del porcellum costituisce un’urgenza democratica. Un dovere costituzionale che un governo che si proclama di necessità per il bene del Paese deve avvertire come priorità assoluta. E che il Presidente della Repubblica dovrebbe cercare di imporre con ogni mezzo al vertice dell’agenda nazionale, perché un paese senza una praticabile legge elettorale è privo di effettiva agibilità democratica.
Una regola legittima e riconosciuta dai cittadini non svolge la sua funzione solo in caso di elezioni, ma agisce ogni giorno come monito ed opportunità per tutti gli attori in campo. È la precondizione esistenziale di una democrazia: vitale come è per un corpo l’aria che si respira. Altrimenti è come un fiume rimasto senza fonte. Smette di scorrere, ristagna, imputridisce. Diventa pantano, buono solo per tafani, alligatori e, appunto, caimani.
Se questo è vero sempre, figuriamoci in questo desolante passaggio italiano dove un atto dovuto del vertice della giurisdizione ha scatenato una crisi politica e una ridda di ultimatum al governo. Ma ci troviamo a dover subire tutto perché tanto “finché c’è il porcellum…”. Così diventano possibili i più disparati ricatti che non sai se definire eversione o disperato folklore, ma anche la paralisi e i veti incrociati trovano il terreno più fertile. Tocchiamo così con mano che la riforma elettorale è la precondizione per la stessa ipotesi di una qualche efficacia dell’azione della legislatura: dal versante economico a quello delle vagheggiate riforme istituzionali si può coltivare un lumicino di speranza di un sussulto virtuoso delle larghe intese, solo se i partiti avvertono come un monito sempre possibile il ritorno all’esame dei cittadini. Se invece resta l’impedimento del porcellum è come pagare una tassa da paralisi decisionale ogni minuto che passa.
Ecco perché un governo coerente con quel che dice, dovrebbe oggi mettere la legge elettorale davanti a tutto. Lo si è voluto politico e non tecnico proprio per accelerare le mediazioni anche su questo fronte dove gruppi parlamentari e partiti sono fisiologicamente bloccati dal proprio calcolo particolare, come avviene del resto per la legge sul finanziamento. Scriva allora il governo una norma elettorale per collegi uninominali (come chiedono Pd e M5S) con un secondo turno nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza (come è più congeniale al Pdl), riservando una quota proporzionale come diritto di tribuna per le più piccole minoranze. Una norma semplice idonea a risolvere insieme gran parte dei problemi istituzionali e non sbilanciata a favore di nessuno. Un sistema che andrebbe bene persino ove dovesse passare il presidenzialismo.
La scriva il governo e la porti di urgenza alle camere; chi si oppone se ne assume la responsabilità e ogni relativa conseguenza. Se invece come è doveroso la norma elettorale passa non c’è nessun automatismo che porti solo per questo al voto anticipato. Anzi il consiglio d’Europa raccomanda che le riforme elettorali siano sganciate e il più possibile lontane dall’appuntamento con le urne. Ciò che soltanto cambierebbe è che il governo resterebbe in piedi sino a quando ha benzina nel motore ed è davvero utile per il paese.
Per questo Letta deve farlo, se è vero che non vuole tirare a campare. E lo dovrebbe pretendere il Pd se non vuole confermare nei suoi elettori l’amara sensazione che l’intesa con il Pdl stia cambiando natura; da coabitazione provvisoria necessaria per il paese, a sodalizio politico per i più retrivi interessi di bottega.
«Presumo che un giorno salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale».
La Repubblica, 11 luglio 2013
Il rapporto sull’andamento dell’occupazione reso noto venerdì scorso non era poi malaccio. Ma tenuto conto di quanto continua a essere depressa la nostra economia, ogni mese dovremmo in realtà creare oltre 300mila nuovi posti di lavoro, non meno di 200mila. Come fa notare l’Economic Policy Institute, di questo passo serviranno oltre cinque anni di crescita dei posti di lavoro per ritornare ai livelli di disoccupazione anteriori alla Grande Recessione. La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per quanto mi riguarda, inizio a temere che possa non venire mai.
Poniamoci una domanda difficile: di preciso, che cosa ci riporterà alla piena occupazione? Di certo, non possiamo fare affidamento sulla politica fiscale. La combriccola di chi promuove l’austerity ha subito una fenomenale batosta nel dibattito intellettuale, ma “stimolo” è ancora oggi una parola blasfema. E ancora non si vede, e forse mai si vedrà, un ponderato programma per la creazione di posti di lavoro.L’aggressiva azione monetaria intrapresa dalla Federal Reserve – qualcosa di simile a ciò che la Banca del Giappone sta collaudando adesso – potrebbe servire allo scopo, ma invece di diventare più aggressiva la Fed parla di “diminuire a poco a poco” i propri sforzi, e questo ha già inferto danni concreti. Ma ne riparleremo tra un minuto.
Nondimeno, anche se non abbiamo e non avremo una politica finalizzata alla creazione di posti di lavoro, possiamo quanto meno fare affidamento sui naturali poteri di rigenerazione del settore pubblico? Probabilmente no. È vero che, dopo una recessione prolungata, di solito il settore privato trova buoni motivi per ricominciare a spendere. Gli investimenti in apparecchiature e software sono già di gran lunga maggiori rispetto ai livelli anteriori alla recessione, in buon parte perché la tecnologia fa progressi e se vogliono restare al passo le aziende devono spendere. Dopo che in America, in pratica, non si sono costruite nuove case per sei anni, il settore immobiliare sta cercando di predisporre un recupero. Quindi sì, in definitiva l’economia sta dando qualche segnale di voler guarire.
Perché sta accadendo tutto ciò? La causa, in parte, è che la Fed si trova sotto le costanti pressioni dei falchi monetari, che vogliono sempre una rigida politica monetaria e tassi di interesse più alti. Questi falchi hanno trascorso anni interi a mettere in guardia dal fatto che c’era in agguato un’inflazione galoppante. Avevano torto, naturalmente, ma invece di cambiare idea si sono semplicemente limitati a inventare nuovi motivi — la stabilità finanziaria, e qualsiasi cosa saltasse loro in mente — per reclamare tassi più alti. A questo punto è evidente che in fondo essere falchi monetari è per lo più un modo per abbracciare quella forma di puritanesimo così ben espressa da H.L. Mencken con queste parole: «La paura ossessionante che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice». Resta in ogni caso pericolosamente influente.
Mettiamola in questi termini: se durante un anno di elezioni la disoccupazione sale dal 6 al 7 per cento, il presidente in carica quasi certamente ne esce sconfitto. Se invece la disoccupazione resta ferma all’8 per cento per l’intero mandato del presidente in carica, molto probabilmente quest’ultimo o quest’ultima vincerà un nuovo mandato. Questo significa che è possibile esercitare una pressione politica davvero esigua per porre fine alla nostra depressione che, per quanto piccola, si protrae. Presumo che un giorno salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale.
Da anni c’è chi sostiene, giustamente, che B. era ineleggibile fin dall’inizio .Non l’hanno voluto ammettere i D’Alema e i Violante, e con loro tutto l’ex PCI. «Ma perché mai, se si è sbagliato finora, il peccato deve essere recidivo?». Articoli di Luigi Saraceni e Vincenzo Vita, entrambi su
Il manifesto, 11 luglio 2013
IL DOVERE (SEMPLICE) DEL SENATO
di Luigi Saraceni
Non c'è dubbio che la questione della (in)eleggibilità di Berlusconi - su cui la Giunta del senato prima o poi dovrà prendere una decisione - ha anzitutto un'altissima valenza politica. La "prudenza" del Pd, stretto nell'alleanza delle larghe intese, è del tutto comprensibile. Ma questa esigenza politica non può essere contrabbandata per corretta interpretazione giuridica.
Si dice che non si può dichiarare ineleggibile un soggetto che ha riscosso nelle urne un ampio consenso popolare. L'argomento è davvero singolare. Nel nostro sistema le cause di ineleggibilità vengono sempre accertate dopo l'elezione, perciò, se si applicasse questo criterio, nessun eletto potrebbe mai essere dichiarato ineleggibile. Né potrebbe valere un criterio quantitativo. Dove collochiamo la soglia oltre la quale il numero dei voti dovrebbe prevalere sulla regola? La verità è che questo argomento, non insolito anche a sinistra, trascura che il rispetto delle regole è, insieme al consenso elettorale, uno dei fattori fondanti della democrazia rappresentativa.
Un altro singolare argomento dice che non si può applicare una legge di oltre mezzo secolo fa, quando le tv private neppure esistevano. A questa stregua alle aziende televisive non si potrebbero applicare neppure le regole del codice civile, visto che risale al 1940.
Un argomento, proposto anche da valenti giuristi, dice che non si possono oggi contraddire le ripetute e risalenti affermazioni che hanno escluso la ineleggibilità di Berlusconi in quanto titolare non "in proprio" di concessioni televisive. I "precedenti" hanno certamente un valore che non si può ignorare. Ma, come tutti sanno, nessuna pronuncia di natura giurisdizionale è vincolante per le decisioni successive ed anzi, se si riconosce che è sbagliata, è doveroso correggere l'errore. Ne sono esempio non solo le giurisprudenze dei giudici ordinari, compresa la Cassazione, ma anche le decisioni della Corte costituzionale su questioni di grande rilevanza. Per quarant'anni la Consulta ha tollerato che il governo legiferasse attraverso la ininterrotta reiterazione di decreti legge mai convertiti, finché nel 1996 non ha posto fine a questo malcostume istituzionale. E solo dal 2007, dopo averlo negato per cinquant'anni, ha stabilito che un decreto può essere annullato anche dopo la sua conversione, se non ricorrono i presupposti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Il Senato, dunque, deve dire in piena autonomia se le precedenti decisioni della Camera - secondo le quali il destinatario della ineleggibilità sarebbe solo l'intestatario formale della concessione e non il suo effettivo beneficiario - sia conforme alla "intenzione del legislatore", da cui, secondo le regole dell'interpretazione, non si può prescindere nella ricostruzione del vero significato della legge.
Orbene, è già irragionevole supporre che il legislatore del 1957 sia stato così insensato da escludere dalla ineleggibilità il dominus delle società commerciali, che certamente più del formale intestatario della concessione è interessato a sovrapporre la cura degli interessi economici della società concessionaria all'esercizio della funzione parlamentare. Ma, ove ce ne fosse bisogno, il legislatore ha chiarito la sua intenzione quando, per la prima volta nel 1990, ha disciplinato proprio la specifica materia delle concessioni dell'etere a società private. Con l'art. 17 della legge n. 223/90 (legge Mammì), il legislatore ha detto chiaramente che le predette società possono ottenere la concessione a condizione che «siano comunque individuabili, le persone fisiche che detengono o controllano le azioni aventi diritto di voto». Si tratta, palesemente, della estensione delle regole che disciplinano le società concessionarie all'azionista di riferimento, che viene equiparato, nel suo "statuto", agli organi formali della società.
Questa interpretazione di elementare buon senso è stata fatta propria nel 2004 dalla Consulta, che nella sentenza n. 86 ha affermato che le disposizioni della legge n. 223/90 «devono essere interpretate nel senso che non solo le persone fisiche concessionarie, ma anche i soggetti che effettivamente controllino, direttamente o indirettamente, le società concessionarie» sono destinatari della disciplina prevista nel citato art. 17. Perciò l'equiparazione dell'azionista di riferimento di società commerciali concessionarie dell'esercizio di impianti televisivi a chi è titolare "in proprio" di tali concessioni, non può essere ignorata, se non a costo di violare il dettato costituzionale.
In conclusione, i termini giuridici della questione sono chiari ed evidenti. Spetta ai componenti della Giunta dire se su di essi deve prevalere la ragione politica. Ma è auspicabile che la discussione non rimanga confinata alla fase preliminare e segreta che si conclude con l'archiviazione. Il Pd dovrebbe avvertire il dovere di assicurare ai suoi elettori una discussione pubblica almeno in Giunta, se le larghe intese proprio la sconsigliano nell'assemblea plenaria di Palazzo Madama.
Ha ben argomentato, con straordinaria lucidità, Franco Cordero (La Repubblica del 4 luglio) che il d.P.R. del 1957 va letto in parallelo alla legge 223/1990, quella legge Mammì che legittimò proprio i confini dell'avvenuta conquista dell'etere: gli articoli 12 e 17. Vale a dire che il sistema giuridico nazionale, per quanto fragile e pieno di buchi neri, sul punto della coincidenza di fatto tra divisa formale e proprietà reale è chiaro. Senza equivoci. Qualcuno sostiene che sarebbe preferibile rinviare ad una auspicabile legge sul conflitto di interessi. Siamo seri: la legge colpevolmente non è stata fatta, da anni. Complicare il discorso, per nulla cambiare, assecondando il gattopardismo insito in una certa parte della cultura di massa italiana, è amorale. È doveroso avere il coraggio della verità, uscendo dall'ambivalenza intrapresa dal discorso politico. Se un bidello di una scuola pubblica non è eleggibile...
Del resto, la vicenda berlusconiana è a un tornante decisivo. Non è credibile far finta che la storia italiana non sia bloccata da un grumo inestricabile. Il nodo va sciolto, anche perché una malriposta benevolenza ben poco potrebbe probabilmente nella ormai avanzata parabola giudiziaria del Cavaliere. Chissà, forse se lo augura persino la destra perbene che è sepolta dal peronismo all'italiana di Berlusconi. Forse lo sperano anche i tantissimi bravi professionisti di Mediaset, offuscati dall'egoismo proprietario della casa madre. In ogni caso, le forze democratiche non possono ritrarsi. Questo sì sarebbe un tradimento.
Una società oltre il profitto e le politiche di austerità che hanno scandito l'agenda di molti governi nel Nord e nel Sud del pianeta. Un'intervista con l'economista e premio Nobel per la pace «inventore» del microcredito,
il manifesto, 11 luglio 2013
Il fatto che non sia un sogno ad occhi aperti è dimostrato dal fatto che l'azione di Yunus ha aiutato il Bangladesh a ridurre di quasi la metà il tasso di povertà in poco più di trent'anni. Grazie a questo modo di intendere la finanza, è stato infatti possibile che centinaia di migliaia di persone si affrancassero dall'usura riuscendo così ad allargare, gradualmente, la propria base economica.
Negli ultimi anni, la microfinanza e il social business hanno cominciato ad attrarre e coinvolgere multinazionali, fondazioni, banche, singoli imprenditori, organizzazioni no-profit in ogni parte del mondo. Autore di diversi saggi tra i quali ricordiamo Un Mondo senza povertà, Si può fare! Come il social business può creare un capitalismo più umano e Il banchiere dei poveri tutti editi da Feltrinelli. Abbiamo incontrato il Yunus a Lugano dove, su invito di Samantha Caccamo - fondatrice di Social Business Earth -, ha partecipato alla seconda edizione della Social Business Conference presso l'Università della Svizzera Italiana (Usi).
Lei ritiene che l'attuale crisi economica possa essere superata e a quale costo per i poveri del mondo?
Molti governi e studiosi sono impegnati a trovare misure in grado di farci ritornare a un livello di crescita economica pre-crisi. Sono convinto che questa strategia non sia efficace. Inseguire quel traguardo ci riporterebbe, in tempi assai brevi, a dover affrontare gli stessi problemi che stiamo ora cercando di risolvere. Sono più interessato a ricercare soluzioni a lungo termine capaci di stabilizzare l'intero sistema economico. Non sarà un'impresa facile. Al contrario. Prevedo che il tentativo di evitare situazioni di future crisi (alimentari, energetiche, ambientali e disoccupazione di massa) si rivelerà un'impresa assai difficile, se non dolorosa. D'altra parte questa è diventata una priorità. Ritengo che l'attuale momento sia propizio per cominciare a pensare a soluzioni economiche non più basate sul profitto fine a se stesso. Dico questo perché constato che l'attuale è un periodo storico in cui ciò che un tempo era considerato impossibile è ora diventato realtà. Se confrontiamo il presente col passato, solamente 20/30 anni fa una miriade di beni e di servizi non esistevano. Questo mi suggerisce che la distanza tra il possibile e l'impossibile si stia assottigliando sempre più. Un mondo senza poveri non è più una cosa impossibile da ottenere.
In un'intervista rilasciata al New Statesman lei ha dichiarato che il problema degli economisti eterodossi riguarda la loro errata interpretazione della natura umana. Può dirci di più a riguardo?
Il sistema economico che ho in mente non potrà che basarsi su di una visione dell'essere umano molto diversa da quella che oggi guida il pensiero economico dominante, che riduce gli esseri umani a cacciatori di denaro. Questo modo di ritrarre l'individuo e la società mi pare superficiale. Gli esseri umani sono molto più che dei robots. Come già faceva notare Adam Smith, possiedono una personalità multi-dimensionale e dinamica. Non nego che a volte gli individui siano egoisti, ma sono anche, contemporaneamente, cooperativi e altruisti. Dobbiamo investigare in maniera molto più approfondita il lato altruistico dell'essere umano. Solamente tale esercizio ci consentirà di dare una solida base teorica al tentativo di creare un diverso modo di organizzare l'attività economica. Io vedo un'economia di mercato (for-profit) finalizzata a rispondere ai problemi della comunità capace di crescere al fianco di attività economiche che mirano solo a massimizzare il profitto. La differenza è che nel social business tutti i dividendi vengono reinvestiti nell'impresa per raggiungere l'obiettivo sociale.
Quando uso il termine comunità, non mi riferisco alle piccole realtà a cui ognuno di noi appartiene; piuttosto, faccio riferimento alla ben più estesa comunità in cui tutti gli esseri umani coabitano assieme a tutte le altre forme di vita.
L'effetto ottenuto dalle politiche di austerità applicate in Europa è stato quello di aumentare la disoccupazione, senza riuscire a stabilizzare i mercati. Non sorprende che tale strategia abbia generato un forte dissenso e crescente scetticismo. Esiste un percorso alternativo che permetta alle società Europee e più in generale a quelle occidentali di combinare crescita economica e riduzione delle diseguaglianze?
Le opzioni di politica economica praticabili entro un sistema economico capitalista sono limitate. In un regime di economia mista, mentre ai governi si chiedeva di proteggere le vittime della tumultuosa crescita economica attraverso un forte Welfare State, alle multinazionali era richiesto di accumulare sempre più ricchezza. Questa dicotomia ha condotto l'umanità sull'orlo del baratro.
Parto da alcune domande. Che cosa è la disoccupazione? Una massa di persone potenzialmente creative il cui potenziale giace inutilizzato. Il sistema economico e politico si cura poco o nulla dedi disoccupati; soprattutto il loro accesso al credito diventa pressoché nullo per via dell'elevato rischio di non poter recuperare il capitale dato in prestito. In un mondo dove l'accesso al credito è negato a quasi la metà della popolazione, la microfinanza diventa un'opportunità fondamentale. Se tutti gli individui possiedono illimitate potenzialità, allora ognuno ha il diritto ad avere un accesso al credito come ogni altro individuo. Il microcredito è un aiuto offerto a tutti coloro che desiderano investire parte del proprio tempo e delle proprie capacità in attività economiche che hanno un'elevata rilevanza sociale. Investire nelle illimitate capacità umane, questo è il futuro. Ogni volta che si produce qualche cosa, si aprono nuove opportunità, proprio perché si genera un reddito per chi prima non ne aveva. Non politiche di austerità ma business sociale, questa è a mio avviso la risposta.
I critici del suo approccio, però, continuano a sostenere che la microfinanza vada bene solo per i paesi del Terzo Mondo perché se davvero si volesse aiutare i poveri, si dovrebbero sostenere industrie di grandi dimensioni e ad alta intensità di lavoro. Come risponde all'insinuazione che la filosofia che sta alla base della sua proposta non possa essere messa in pratica nell'occidente industrializzato e individualista?
In primo luogo, non ho mai sostenuto che il microcredito sia in antagonismo con altre tipologie di organizzazione economica. Sicuramente, non è in contrasto con la produzione ad alta intensità di lavoro. Le attività economiche orientate alla massimizzazione del profitto non esauriscono tutte le forme di attività economica. Oltre alla dimensione del profitto, vi sono infiniti beni e servizi che il mercato non può o non vuole produrre. Il microcredito nasce dall'esigenza di creare opportunità di lavoro per milioni di individui che pur essendo disoccupati hanno ancora molto da dare. A chi sostiene che il microcredito e il social business siano innervati da una filosofia inadatta per i paesi occidentali faccio presente che abbiamo ben sei filiali nella sola New York City. Per definizione il luogo che maggiormente si identifica con il modello capitalista occidentale.
Le persone hanno bisogno di denaro in ogni angolo del globo, dunque anche nella «Grande mela», dove serviamo più di 12.000 persone. E il loro numero continua a crescere. Per la maggior parte sono donne che ripagano i debiti contratti con noi con estrema puntualità. L'esperimento si sta espandendo in altre città nevralgiche degli Stati Uniti, come San Francisco, Omaha, e Los Angeles. Con il passare del tempo ci stiamo rendendo conto che le possibilità di espansione sono pressochéillimitate. Va inoltre ricordato che sempre più spesso ricchi filantropi elargiscono ingenti somme di denaro al microcredito, così come alcune importanti banche a livello planetario (Citigroup Inc. e DeutscheBank AG) hanno creato fondi destinati al microcredito. Questo è quello che vedo. Non credo vi siano differenze sostanziali tra paesi ricchi e paesi poveri quando si parla di microcredito.
Come valuta la proposta di un reddito minimo garantito?
Per rendere attivi gli individui bisogna aiutarli a liberare le loro potenzialità non garantirgli una vita confortevole. Il reddito garantito è una forma subdola di carità, un palliativo temporaneo. Raramente la carità è un buon rimedio; la si può accettare solo per un periodo di tempo limitato e nei casi più estremi. Inoltre, il reddito minimo non mi sembra una buona soluzione perché rischia di abbassare il livello degli incentivi al lavoro e perché il denaro necessario al suo finanziamento sarebbe tolto dalle tasche di qualcun'altro attraverso la tassazione generale.
Il bene comune è un ideale universale o è destinato a rimanere un concetto culturalmente relativo? Che ruolo gioca all'interno del suo pensiero?
Non credo che il bene comune sia un concetto relativo legato alle differenti culture. Al contrario è una nozione universale che appartiene a tutta l'umanità. L'aria, gli oceani, le foreste non devono essere controllate da nessuno (nemmeno dai governi) e nessuno dovrebbe ricavare un profitto dal loro sfruttamento. Le multinazionali stanno sfruttando le risorse naturali del pianeta al punto che oggi si parla del loro esaurimento. Se, ad esempio, il legname diventa un business profittevole, le multinazionali si danno da fare a distruggere intere foreste in giro per il mondo. E questo deve essere fatto nel più breve tempo possibile, così da far salire il prezzo delle loro azioni sul mercato. Questo è precisamente il punto dove l'idea del social business entra in gioco.
Il social business non ha fretta; non persegue la modalità dello sfruttamento dell'ambiente e degli esseri umani. Non si fanno soldi tagliando foreste, ma piantando alberi per far ricrescere quelle foreste sacrificate sull'altare del profitto delle multinazionali. Quello che sto cercando di fare è offrire a questa tipologia economica uno spazio sempre maggiore. Come si vede, il bene comune e il social businesss ono due lati della stessa medaglia.
Se non si vuole fare un ragionamento ingenuo è però necessario porsi il problema degli incentivi. Il mio pensiero a riguardo è il seguente. Gli incentivi economici sono di varia natura e forma. Gli economisti ortodossi ritengono che il profitto sia l'unico l'incentivo capace di spingere gli imprenditori a rischiare i loro capitali. Il profitto, tuttavia, non è l'unico incentivo, bensì un incentivo tra gli altri. Provo a fare un esempio. Nel 1953 Hillary e Norgary conquistarono il Monte Everest. Dopo la loro ascensione, a scapito dei rischi connessi a una tale impresa, centinaia di alpinisti hanno continuato a scalare la montagna. Perché? Pur non esistendo nessun incentivo monetario, c'è un incentivo dato dalla sensazione di gioia, dall'essere stati capaci di superare una difficoltà così grande. Tradotta in termini economici, l'esempio ci dice che il profitto è un incentivo fortissimo, ma rendere le persone felici è un super-incentivo.
Una lettura appassionata e profonda della visita ai migranti da parte di un papa che fa politica attraverso la testimonianza. «Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza».
La Repubblica, 10 luglio 2013
Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio. Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la globalizzazione dell’indifferenza.
Un'opinione che parrebbe in decisa controtendenza rispetto ad altre, forse maggioritarie forse no, spinte a un'idea autoritaria di stato e governo, del territorio e non solo.
L'Unità, 9 luglio 2013 (f.b.)
La riflessione sul nesso stringente tra crisi della democrazia rappresentativa e crisi dei partiti, che ci spinge a cercare nuovi metodi di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di governo, deve entrare nel nostro dibattito precongressuale. Il tema decisivo è come organizzare la partecipazione democratica nel nostro tempo. La mancanza di luoghi di coinvolgimento attivo e responsabile nei processi decisionali conduce alla parcellizzazione dei punti di vista o allo stallo, alle scorciatoie personalistiche o populistiche. Questo vale tanto nella vita pubblica quanto nella vita interna ai partiti. E il Pd, che è un argine a questi vizi, tuttavia non ne è immune: non basta la coda ad un gazebo a ristabilire una connessione profonda tra rappresentanti e rappresentati.
In queste settimane, alla guida di un ministero cruciale per ridefinire un modello di sviluppo ormai insostenibile, sia dal punto di vista ambientale che sociale, ho avuto modo di interrogarmi a fondo proprio su questo tema. Il mancato coinvolgimento dei cittadini nelle scelte ha alimentato, in molti casi, quella contrapposizione tra sviluppo e ambiente che non può, non deve più avere luogo. Prendiamo il caso delle opere infrastrutturali. Nel nostro Paese, più che altrove, vi è una reazione quasi automatica di profonda diffidenza se non di ostilità dei cittadini e delle comunità locali per ogni intervento che modifichi il territorio. Nascono movimenti, comitati, per impedire la realizzazione delle opere, spesso riuscendovi. Il modello (asettico e tecnocratico) delle procedure autorizzate vigenti (Conferenza di servizi, Via, Aia) peraltro da razionalizzare e semplificare assicura soltanto (e non sempre) la legittimità di un iter e di un progetto. La tradizionale concertazione con gli enti locali non basta più. E tanto meno è accettabile il vecchio scambio implicito proposto alle popolazioni locali: più salari in cambio di un peggioramento, spesso definitivo, della qualità ambientale di un territorio.
Queste crescenti resistenze delle comunità locali non si possono sempre liquidare come «ambientalismo dei no», «localismo dei no». Sono tra i sintomi più acuti della crisi della democrazia rappresentativa, dei corpi intermedi e delle organizzazioni sociali, che in Italia più acutamente si pone. Ma è solo attraverso un investimento sulla partecipazione attiva che la politica e le istituzioni a tutti i livelli specie su questioni sentite come quelle ambientali, su opere che impattano fortemente sul territorio possono ricostruire un rapporto di fiducia coi cittadini. Non è solo una questione di metodo, ma anche di merito. Perché le soluzioni progettuali migliori non possono che derivare da un confronto anche duro, serrato tra visioni e approcci diversi. Solo se coinvolgimento e partecipazione vengono garantiti fin dall’inizio, le scelte potranno essere perseguite con efficacia e tempestività, in quanto «accettate» in fase decisionale e non contestate a posteriori fino allo stallo. Con questo metodo anche i «no» a progetti sbagliati potranno essere adeguatamente motivati.
Sulla base di questo convincimento, ho deciso di sottoporre al Consiglio dei ministri, nelle prossime settimane, l’esigenza di introdurre nel nostro Paese lo strumento del débat public (tratto dall’esperienza di successo francese, ma anche da significative sperimentazioni di alcune regioni italiane), attraverso procedure vigilate da un soggetto pubblico indipendente, da svolgersi in tempi certi di consultazione delle popolazioni e dei portatori di interesse diffusi, sulla realizzazione delle opere che incidono sull’ambiente, i territori e la vita delle comunità locali.
Ora, io credo che di strumenti del genere dovrebbero farsi promotori i partiti, metodi simili dovrebbero adottare anche al loro interno, per non trovarsi più di fronte a quel drammatico scollamento tra decisioni dall’alto e «sentimenti» dei militanti e dell’elettorato, che abbiamo registrato in questo difficile avvio di legislatura. Il nostro dibattito congressuale, almeno fin qui, non sembra ne abbia piena consapevolezza. La discussione è tutta avvitata su nomi e posizionamenti, e quando si discute di regole lo si fa troppo astrattamente o strumentalmente. Intorno al tema dell’organizzazione della democrazia, per la verità, vi sono stati momenti di riflessione interessanti, penso al contributo di Fabrizio Barca. Ma vi è ora la necessità di inserirli a pieno titolo in una discussione sul profilo politico, ideale e valoriale del partito, sulla sua funzione indispensabile di mediazione tra cittadini e autorità. Non ho nascosto, nemmeno in queste settimane di impegno istituzionale, i miei orientamenti e le mie simpatie sulle candidature in campo. Ma nulla come un confronto su questo aspetto decisivo della vita democratica del partito e del suo ruolo nella società è un'urgenza che tutti devono avvertire se si vuole salvaguardare, o meglio, costituire, un patrimonio di idee e comportamenti veramente condivisi.
Chiara sintetica analisi dei crescenti squilibri sociali e loro ragioni, che purtroppo desinit in piscem.
La Repubblica, 9 luglio 2013, postilla
Mentre le ultime rilevazioni dell’Istat indicano un vero e proprio crollo dei consumi delle famiglie, uno studio commissionato dall’Unione Europea, Gini-Growing inequality impact, ha messo in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: da noi la favola di Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana accentuando il divario tra generazioni.
Il crollo dei consumi in Italia è dunque associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.
La domanda che si impone è: come siamo arrivati a questo punto?
La risposta non è difficile: questa situazione va ricondotta al pensiero dominante di ispirazione neoliberista, che si è affermato all’inizio degli anni ’80 negli Stati Uniti e in Inghilterra e che poi ha influenzato la politica economica dell’Unione europea. La teoria economica neoliberista si fonda sull’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genererebbe un “effetto a cascata” che dai piani alti della società trasferirebbe la ricchezza fino ai piani bassi, portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita. Questa idea ha aperto la strada alle privatizzazioni e alladeregulatio dei mercati finanziari (inclusa la proliferazione dei paradisi fiscali) per permettere agli “spiriti animali” di dispiegare liberamente tutta la loro forza propulsiva. Così lo Stato diventa un “disturbatore”, fonte di sprechi e di inefficienza, e pertanto deve essere ridotto ai minimi termini. “La società non esiste, ci sono solo individui e famiglie. E nessun governo può far nulla. La gente deve pensare a se stessa”: così Margaret Thatcher in una sentenza diventata tristemente famosa.
Dall’inizio degli anni ’80, il drastico ridimensionamento della capacità di intervento dello Stato nell’economia e il progressivo indebolimento dei lavoratori, che cominciano a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive, interrompono l’espansione della classe media che si era registrata nell’Età dell’Oro (1945-1973). Ma una crescita fondata su diseguaglianze crescenti può destabilizzare l’economia riportando indietro di anni il livello di benessere della popolazione. Joseph Stiglitz ha sintetizzato i risultati delle sue ricerche in una formula che dimostra come diseguaglianza e sviluppo economico siano inversamente proporzionali.
Insomma, l’effetto a cascata auspicato dai liberisti non si è assolutamente verificato e sono risultati evidenti gli effetti nefasti della polarizzazione della ricchezza, così come era stato teorizzato da Karl Marx.
Dopo la crisi esplosa nel 2008 lo Stato è dovuto intervenire massicciamente per salvare il settore privato dal collasso, il che ha determinato un’espansione rapidissima del rapporto tra debito pubblico e Pil in tutti i paesi avanzati. E ora si è scatenata una nuova controffensiva del settore privato e dei mercati per tagliare i servizi sociali e più in generale la spesa pubblica aggravando la situazione delle fasce più deboli ed alimentando diseguaglianze sempre più marcate. Il ceto medio è il vero motore dei consumi sia perché rappresenta la fascia più larga della popolazione, sia perché tende a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi per promuovere l’intera economia ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento del middle class.
La politica dei redditi deve dunque tornare al centro della politica economica se vogliamo uscire dalla crisi che sta alimentando tensioni sociali destinate a diventare insostenibili.
Postilla
Forse qualche ragionamento si quali consumi far ripartire, quali gruppi sociali favorire, quali componenti del reddito far crescere e quali calare andrebbe almeno tentato, o no?
Riflessioni un po’ fuori dal coro di un abile analista, commentate da una postilla metà da piangere e metà da sorridere.
La Repubblica, 8 luglio 2013
È SINGOLARE, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent’anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente. Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle con altri enti intermedi. Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell’appartenenza territoriale per le persone.
Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, suLimes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.
Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate – le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.
Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.
Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.
Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.
Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

Leggendo le ragionevoli osservazioni di Ilvo Diamanti vengono in mente due pensieri: un dato, e una storiella.
Il dato. Le gravi responsabilità di quei partiti della Prima Repubblica che non vollero afferrare la grande occasione storica di rifondare l’antico istituto degli ordinamenti napoleonici affidandogli i compiti moderni del governo di “area vasta”: arroccati negli asfittici equilibri di piccolo potere che avevano raggiunto, travolti dalle conseguenze dello svelamento di Tangentopoli, convinti che la “fine della storia” giustificasse la rinuncia delle proprie ideologie per abbracciare quella del neoliberalismo, furono incapaci di proseguire la riforma regionale rifondando il tassello costituzionale della Provincia.
La storiella. L’atteggiamento dei “tecnici” cui la malapolitica si è affidata e la durezza delle loro inossidabili “ragioni” ricordano un’antica storiella, che vi presento.
Uno scienziato (nella storiella naturalmente è tedesco) decide di studiare sperimentalmente le caratteristiche motorie della pulce. Nel suo report annota scrupolosamente le fasi dell’esperimento e le sue conclusioni:
- 1° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b e lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 420 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 2° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b e lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 420 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 3° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta posteriore sinistra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 360 mm dal punto di partenza.
- 4° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore destra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 316 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 5° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore destra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 183 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 6° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore sinistra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 106 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 7° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto non salta. Ripeto lo schiocco per tre volte dalla stessa distanza. Il soggetto non salta Rimetto il soggetto nella celletta.
- 8° giorno. Stendo il rapporto sull’esperimento. La conclusione è: Ove si asportino in progressione le zampette al soggetto esso diviene sordo.
Tutti (o quasi) d'accordo a impiegare i carri armati contro la democrazia anche in Italia.
Il manifesto, 7 luglio 2013