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A proposito del "macchiavellismo" della Merkel e della rassegnazione degli altri «Nel perfezionismo della sua democrazia s’annida la minaccia. Nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo è iperdemocratico».

La Repubblica, 4 settembre 2013

Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell’Unione non si sa come contrastare. L’Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l’ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l’esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell’Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d’Europa.

Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania – pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht – ansiosa di non esser più, «in mezzo ai popoli, derisione o spavento». Devota all’Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul Guardian ha avvalorato l’immaginario racconto: «L’idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un’Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi». Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto più di quanto dicano. E chiedono, con l’impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L’attesa inerte del voto tedesco – attesa addirittura miracolista in Italia – suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell’Unione.

I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca – i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l’involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant’anni l’antico assillo della questione tedesca.

Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell’ecologia: «C’è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un’Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo ». La Merkel è sospettata di voler tornare a un’Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull’equilibrio-competizione fra potenze (la balance of power), che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni ’50, il baluardo della Comunità europea.

Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l’europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l’appena nato partito Alternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s’è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti «manca qualsiasi nocciolo normativo», dice Habermas. Per questo s’è alleata all’Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: «L’era dell’Unione sempre più stretta è finita». Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s’è come liberata d’un fardello: «L’Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l’ipotesi di restituire qualcosa agli Stati. Dopo il voto ne discuteremo».

Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell’euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 (Der europäische Landbote - Il messaggero europeo, Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati – Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali – hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell’euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli.

In un’Europa dove regnano di nuovo gli Stati – è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale – è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla di modello Merchiavelli, quando descrive l’impero accidentale messo su da Berlino: «Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l’occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa». Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l’Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome di Periferia-Sud. Non si spiegano altrimenti l’evaporare d’ogni «nocciolo normativo», la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull’Europa-federazione, o sull’unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: «Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio» (Europa tedesca, Laterza 2012).

Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l’Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s’annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché «non ancora sorrette da una democrazia postnazionale ». La voglia isolazionista di Alternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l’Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l’Europa (art. 23, riscritto nel ’92), ma l’Europa voluta non è federale.

L’ultimo luogo comune riguarda la memoria. L’Italia ha poco da criticare, essendo abituata all’oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l’inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l’austerità adottata nel ’30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel ‘53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l’Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo «si coordinano», dimenticando strada facendo il nome solidale - Comunità - che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.

Le parole di Papa Francesco «non sono un fervorino devoto, ma un appello forte, concreto e chiaro; queste sono parole politiche, parole da statista oltre che da capo religioso» Ma gli interessi in gioco sono altrettanto forti, e diversamente concreti. Il manifesto, 3 settembre 2013

«Oggi, cari fratelli e sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, dal cuore di ognuno, dall'unica grande famiglia che è l'umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato». Così domenica scorsa papa Francesco.
E non si è trattato di uno di quei discorsi pii, devozionali, magari retorici, che vengono ascoltati con distratto rispetto e archiviati dubito dopo. No. Perché il papa si è espresso proprio in un momento drammatico, mentre fortissimi stanno soffiando i venti di guerra animati soprattutto da Parigi e da Istanbul, ma mentre si alza alto anche il grido della pace. In Gran Bretagna, la Camera dei Comuni ha gettato acqua gelida sui bollori guerrieri del premier Cameron, che è stato costretto a prenderne atto; ciò ha indotto il presidente Obama, già alquanto incerto anche nei giorni scorsi, a far marcia indietro su una decisione bellicista che ormai si era rassegnato ad adottare e praticamente a sconfessare il suo segretario di stato Kerry che aveva già dato precipitosamente per certi sia le l'impiego di gas tossici da parte delle forze armate governative siriane (un dato che continua a permanere incerto), sia l'intervento statunitense: ora, secondo il modello britannico, la parola passerà al Congresso. Ciò sta obbligando anche il nuovo Signore Europeo della Guerra, il bellicoso Hollande, a decidersi a consultare in qualche modo anche il parlamento del suo paese. Il presidente francese continua a sostenere di disporre di prove certe relative all'impiego dei gas da parte del governo siriano e dell'esistenza a disposizione di esso di vasti arsenali: sono le "terribili armi di distruzione di massa" già sventolate nel 2002 come alibi per l'aggressione all'Iraq: e sappiamo tutti (e cerchiamo di ricordarcene) come è andata allora a finire.
I papi sono sempre intervenuti, negli ultimi decenni, alla vigilia dei conflitti:sempre cercando di sventarli e sempre fallendo. Così Benedetto XV nel 1914, così Pio XII nel 1939, così Giovanni Paolo II nel 2002. Stiamo vivendo un déjà vu? Resterà inascoltato anche l'accorato, intenso appello di papa Bergoglio?
Non ci facciamo illusioni. Gli interessi che spingono alla guerra sono molti: la volontà di procedere sempre più nella scellerata destabilizzazione del Vicino Oriente da parte di alcuni governi e di alcune lobbies è evidente; la questione dei metanodotti ai sensi del recente trattato irano-irako-siriano che dovrebbero passare dall'Iran attraverso Iraq e Siria anziché attraverso la Turchia è di per sé un casus belli ovviamente inconfessabile ma fortissimo, e Istanbul preme per questo (avete notato che i media internazionali hanno messo immediatamente a tacere le polemiche sulla deriva autoritario-fondamentalista di Ocalan?); la volontà congiunta di molte potenze, di colpire la Siria come ulteriore passo verso l'aggressione all'Iran, è evidente; gli arsenali francesi e americani sono pieni e bisogna pure svuotarli per incentivare la produzione e avviare un nuovo business di «ricostruzione»; e infine c'è la volontà degli emirati, soprattutto del Qatar, di proseguire la loro fitna sunnita contro gli sciiti - forti in Siria, insieme con gli alawiti ad essi affini - e d'indebolire il solito Iran, loro concorrente sul piano delle esportazioni energetiche come dell'egemonia geopolitica sul Golfo Persico.
L'armamentario propagandistico è il medesimo del 2003, sconfortante per idiozia ma purtroppo efficace a livello mediatico: Assad oggi, come Saddam ieri, detentore di «terribili armi di distruzione di massa»; Assad oggi, come Saddam ieri, «nuovo Hitler». Il segretario statunitense di stato, il ridicolo mister Kerry, non ha perso questa pur ghiotta attenzione di tacere: e si è candidato così a una figura peggiore di quella che nel 2002 fece Powell, ch'era pur tanto migliore di lui. Se si farà la guerra, succederà come nel 2003: sul momento tutti sicuri e tutti d'accordo, poi tutti colpiti da amnesia sulle loro stesse bugie.
Eppure, stavolta c'è qualcosa di nuovo. Il ricorso agli strumenti democratici, in Inghilterra, ha sconfitto le infami ragioni della guerra e ha messo in difficoltà tutti i loro sostenitori. E questo papa non si limita a implorare durante l'Angelus: chiama i cattolici alla mobilitazione, li impegna a una grande veglia di preghiera in Piazza San Pietro e a un digiuno sabato 7, alla vigilia della seduta del congresso americano del 9. Ma il papa, quando in soccorso della sua preghiera invoca la Vergine Maria, sa quel che fa. Sabato 7 la Chiesa celebra la vigilia della festa della Natività della Madonna. Il richiamo liturgico e religioso, alto e profondo, viene chiamato a soccorrere l'appello civico.
«Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all'altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell'incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esorto anche la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell'intera popolazione siriana».
Questo non è un fervorino devoto. Questo è un appello forte, concreto e chiaro; queste sono parole politiche, parole da statista oltre che da capo religioso: «Ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma questa: la cultura dell'incontro, la cultura del dialogo; questa è l'unica strada per la pace».

È un appello ai potenti della terra, ai governi e a coloro dei quali i governi sono ormai sempre più chiaramente dei comitati d'affari. Ma è soprattutto un appello ai popoli, a tutti noi. Bisogna impegnarci affinché non cada nel vuoto, affinché venga inteso da tutti. Bisogna sul serio scendere in guerra contro la guerra.
La «borghesia gaglioffa e predatoria», che esprime l'attuale governo Letta-Berlusconi, , continua a spolpare i poveri per rimpinguare i patrimoni e i privilegi dei ricchi. L'unica speranza: una larga adesione all'assemblea generale della sinistra convocata da Maurizio Landini e Stefano Rodotà,

Il manifesto, 3 settembre 2013
Lo si potrebbe definire come il paradosso della confusione. In questa fase, seguita alla caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011, la confusione è massima. Le «larghe intese» ne sono un paradigma. Eppure il quadro dei conflitti è netto e si chiarisce ogni giorno di più. La faccenda dell'Imu e quel che le va dietro è un ottimo esempio. Sul piano politico è una vittoria limpida del Pdl e del suo capo, la dimostrazione della sua capacità di rappresentare e proteggere gli interessi della propria base elettorale contro ogni principio di equità e ragione economica.

Ed è per questo una massiccia dose di tritolo scaricata sul governo, con buona pace del presidente del Consiglio (il quale non per caso si è affrettato a prendere distanza dal suo stesso ruolo). Quel che le larghe intese mascherano, l'Imu (e l'Iva) svela. Concordi nel considerare inevitabile l'austerità - cioè la riduzione della spesa pubblica sociale - i due pilastri del governo si fanno la guerra in vista delle prossime elezioni, che la condanna di Berlusconi sembra avvicinare. La destra incalza. Di fronte al rischio personale del Cavaliere è pronta anche all'autodafé. Di contro, il Pd in stato confusionale indietreggia. Strabico, guarda con un occhio al Quirinale, temendone le ire, con l'altro al proprio interno, dove divampano lotte intestine. Di fronte allo scontro tra interessi non c'è grande coalizione che tenga. E qui, con buona pace della retorica, di interessi si tratta. Difatti un conflitto sempre più duro scuote sottotraccia anche la società, umiliata da questa ennesima «riforma» che regala due miliardi e mezzo ai più ricchi e sparge sale sulle ferite di chi stenta a campare. Un conflitto sociale al calor bianco, a malapena dissimulato dalle perorazioni patriottiche dei governanti.

Mai, da cinquant'anni a questa parte, la forbice della ricchezza è stata così aperta. Mai è apparso tanto chiaro e mortificante il divario tra garantiti e precari, tra privilegiati e umiliati. Non è una guerra di posizione, ma di movimento. Che, sotto l'ombrello mediatico della crisi, radicalizza le ineguaglianze decretando una mutazione genetica del modello sociale. La società italiana (come quella europea) si americanizza, assume i tratti di una oligarchia, traduce in termini castali le appartenenze di classe. Non è un fatto inedito. La presenza di una borghesia gaglioffa e predatoria («rurale» diceva Gramsci) è un dato cronico nell'Italia moderna. Solo che oggi non c'è nessuno a ostacolarla nella sua corsa ad arraffare per tesaurizzare. L'Imu, si diceva, è un ottimo esempio, materiale e simbolico. Ma si pensi anche alla vicenda, che sarebbe sconcertante se non fosse invece coerente con il tutto, del gigantesco regalo fiscale agli impresari del gioco d'azzardo. 98 miliardi di euro evasi dalle slot machine, ridotti a una micro-contravvenzione di 650 milioni. Come se si trattasse di benefattori e non di mafie. Come se non si contassero a centinaia di migliaia le famiglie italiane distrutte dalle ludopatie e dai cravattari. Come se non vivessimo nella culla dell'evasione fiscale, dove lo Stato con una mano squarta chi non ha vie di fuga e con l'altra alliscia il pelo a chi gli nega il dovuto. Vale la pena di parlarne ancora?

Dunque il quadro è chiaro. Le ragioni della politica e quelle della morale (della giustizia sociale, della democrazia costituzionale) divergono. L'una costruisce consenso a spese dell'altra. La ripresa autunnale sarà durissima, anche se alle parole dei vertici sindacali - finalmente, da ultimo, concordi nell'attacco alle scelte del governo - non dovessero malauguratamente seguire fatti. Sarà durissima anche sul piano internazionale, coi venti di guerra che tornano a sconvolgere il Medio Oriente scatenando lo spettro di un conflitto globale.

Di fronte a questo quadro qual è il nostro problema? Nostro, del mondo del lavoro subordinato (salariato o eterodiretto), precarizzato in massa e rapinato sistematicamente (10 punti di Pil, 160 miliardi, nei soli ultimi dieci anni). Nostro, dei senza lavoro (tre milioni e mezzo di cittadini degradati a paria, soprattutto giovani, soprattutto nel Sud). Nostro, dell'Italia democratica che non si rassegna allo scempio della Costituzione repubblicana e alla degenerazione civile e morale di questo paese. Nostro, di chi assiste sgomento da un quarto di secolo alla devastazione delle istituzioni e del territorio e della stessa civiltà nelle relazioni personali. Berlusconi non nasce dal nulla né per caso: è l'interprete e il simbolo di un'Italietta volgare e prepotente, prima che il figlio del suicidio pianificato della parte politica che sino agli anni '80 aveva, bene o male, tenuto fede all'eredità della Resistenza antifascista.

Il nostro è evidentemente né più né meno che un problema, drammatico, di non-rappresentanza. O, se si preferisce, di non-voce. Siamo tanti a non riuscire a parlare più, da anni, sulla scena politica, e a vedere negate le nostre ragioni sul terreno sociale. Almeno il 15% del Paese. Potenzialmente il doppio (quanti voti grillini vengono dai settori sociali massacrati dal neoliberismo postdemocratico?). Forse la maggioranza assoluta degli italiani. Ma siamo ciò nonostante - forse proprio per questo - dispersi e senza interpreti. Ridotti a un pulviscolo impotente, il che retroagisce sul sistema politico, azzerandone credito e legittimità.

Abbiamo riflettuto più volte su questa condizione e chiamato in causa gli errori e le responsabilità dei nostri gruppi dirigenti. Errori gravi, responsabilità storiche, poiché nulla imponeva che le cose seguissero questo corso, nulla impediva che la fine della «prima repubblica» vedesse sorgere una sinistra forte e unita (forte perché unita) capace di tenere le posizioni conquistate e di trasmettere all'Europa una domanda pressante di giustizia e di partecipazione democratica. Sta di fatto che siamo più che mai, qui e ora, mentre la crisi politica si avvita su se stessa, prigionieri di una micidiale impotenza.

Se questo è vero, com'è vero, è il momento di alzare la testa, se non vogliamo che una condizione di estrema difficoltà si trasformi nella morte della speranza. L'8 settembre - data fatidica - si avvicina, e con esso l'appuntamento dell'assemblea generale della sinistra convocata da Maurizio Landini e Stefano Rodotà. Il loro appello, rivolto a quanti intendono riempire un desolante vuoto politico e sociale, dev'essere ascoltato e raccolto senza indugi, senza tentennamenti. Raccolto e rilanciato con la ferma determinazione a lavorare finalmente per l'unità della sinistra italiana, del mondo del lavoro, del popolo della Costituzione, della partecipazione e della pace.

Sappiamo da dove viene il pericolo. Conosciamo le riserve di chi aspira a proteggere la propria piccola riserva, traducendo la partita politica a misura dei propri destini personali o di consorteria. Ma confidiamo in un sussulto di intelligenza politica e morale. Non è chi non veda quanto alta sia la posta in gioco in questi mesi, in queste settimane. Non si tratta di suonare la campana apocalittica per suscitare qualche emozione. Se anche la prossima legislatura vedesse la sinistra relegata al rango di comprimario ininfluente, è molto probabile che anche in Italia il discorso si chiuda per sempre come nelle «grandi democrazie» occidentali, in cui l'opposizione sociale non è rappresentata e scade a semplice virtualità.

Questa volta ci giochiamo molto, forse tutto. Ritroveremo una speranza se sapremo vedere il molto che ci unisce, al di là di appartenenze ormai obsolete. Se invece prevarranno ancora spinte corporative avremo mancato un'occasione preziosa. E ci saremo anche noi aggregati - consapevoli o no - al seguito dei fautori delle larghe intese.

Le ragioni per le quali l'Assemblea di Palazzo Madama, anche se lo volesse, non può rifiutarsi di dichiarare decaduto il dott. Berlusconi dalla carica di membro del Senato della Repubblica, né ritardare l'applicazione della legge. Ove, s'intende, non voglia uscire dalla legalità.

Il manifesto, 3 settembre 2013

La cosiddetta legge Severino sarebbe incostituzionale e la Giunta per le elezioni del senato dovrebbe sospendere la decisione sulla decadenza da parlamentare di Silvio Berlusconi per far pronunciare la Corte costituzionale. Questa la proposta del Pdl, sostenuta anche da alcuni giuristi. È una tesi fondata?

Vediamo nel merito gli argomenti a sostegno. Le ragioni di incostituzionalità sarebbero essenzialmente tre. Primo: si sostiene la violazione dell'art. 65 della Costituzione che prevede sia la legge a stabilire le cause di ineleggibilità e incompatibilità dei parlamentari. In secondo luogo, si denuncia il non rispetto dell'art. 66 che riserva alla camera il giudizio sulle cause sopraggiunte. Infine, si afferma la violazione dell'articolo 25 (e della normativa CEDU) che vieta la retroattività delle «pene».

Nel primo caso si sostiene che la «incandibabilità» (che è stata introdotta per le Regioni e gli enti locali sin dalla legge n. 16 del 1992) non sarebbe riconducibile alle cause di «ineleggibilità», le uniche per le quali la costituzione (all'articolo 65) ammette per il Parlamento una limitazione del diritto di elettorato passivo. Peccato però che la Corte costituzionale ha, in più occasioni, già affermato che l'istituto della «incandibabilità» va considerata una causa particolare di ineleggibilità (vedi in tal senso le sentenze 407 del 1992, 141 del 1996 e 132 del 2001). Dunque, l'organo al quale ci si vuole rivolgere per risolvere la questione proposta s'è già pronunciato. Perché mai l'incandidabilità, se riferita ai parlamentari, dovrebbe d'improvviso mutare di natura? Solo per rendere non applicabile l'articolo 65?

Ma v'è di più. In questa prospettiva non si considera che il fondamento costituzionale della legge Severino non è solo l'articolo 65 ma è anche una legge che dà attuazione all'articolo 48, quarto comma, che stabilisce limitazioni al diritto di voto (e dunque, secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale, anche di elettorato passivo); all'articolo 51, primo comma, che rinvia alla legge ordinaria la definizione dei requisiti per poter accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; all'articolo 68, secondo comma, che esclude la necessità di un'autorizzazione della Camera di appartenenza per dare esecuzione ad una sentenza irrevocabile di condanna.

Più delicato il discorso sulla presunta violazione dell'articolo 66. La legge Severino è esplicita sul punto, ed espressamente assegna alla Camera di appartenenza il giudizio sulle cause di incandidabilità «sopraggiunte» proprio «ai sensi dell'art. 66 della Costituzione». Perché dunque ci si lamenta? Qui il dibattito politico in corso ha confuso un poco le acque. Almeno dal punto di vista del diritto costituzionale dovrebbe essere chiaro che non esiste un obbligo giuridico nel dichiarare la decadenza del parlamentare. Il Parlamento non è dunque chiamato a un «atto dovuto» che finirebbe per vanificare la garanzia di autotutela contenuta in Costituzione. Che l'ultima parola spetti alla Camera è indubbio, tant'è che siamo in attesa delle decisioni della Giunta e poi dell'Aula. La vera questione è però un'altra. In quali casi il Senato potrebbe decidere di non far decadere Silvio Berlusconi?

Nel rispetto dell'autonomia degli organi costituzionali e della divisione dei poteri in una sola ipotesi: qualora si convenisse che la decisione della Cassazione sia stata un fatto eversivo, non si sia mantenuta entro la propria sfera di competenza, abbia attentato alla libertà politica del parlamentare. Il Parlamento non può, infatti, discutere nel merito la decisione dei magistrati, non può valutare la correttezza o meno della decisine (la divisione dei poteri lo impedisce), può solo salvaguardare la propria autonomia e quella dei suoi membri ove ritenesse siano state lese. Potrebbe solo far propria la tesi sostenuta dai «falchi» del Pdl, ammettere che siamo nelle mani di giudici eversori, salvare Berlusconi e apprestare misure idonee a ripristinare la democrazia proditoriamente violata. È questa la posta in gioco. Andando, se possibile, oltre la propaganda degli estremisti alla Santanchè, penso che nessuna forza politica responsabile in Italia possa immaginare uno scenario di questo tipo. Il Presidente Napolitano ha chiaramente sostenuto la tesi opposta: è necessario anzitutto che tutte le parti in causa - il Pdl e Silvio Berlusconi in primo luogo - riconoscano la legittimità dei comportamenti e rispettino le decisioni dei giudici. Non vedo come le altre forze - il Pd anzitutto - possano immaginare di discostarsi e cedere alle ubbie dei più estremisti. È questo che rende la decisione sulla decadenza di Berlusconi una strada parlamentare obbligata, almeno dal punto di vista politico-costituzionale.

Sulla diversa questione della presunta irretroattività della legge Severino ci sarebbe molto da dire. Qui, in sintesi, può ricordarsi l'essenziale. Si tratta in questo caso di accertare se l'incandidabilità e la conseguente decadenza da parlamentare rappresenti o meno una norma penale, poiché solo per queste la costituzione impone il divieto di retroattività. È vero che oggi sono più sfumati rispetto al passato i confini tra sanzioni penali e amministrative o, più in generale, leggi civili. E a leggere la giurisprudenza nazionale e, soprattutto, quella della Corte di Strasburgo, non appare più sufficiente richiamarsi ad un criterio formale per delimitare il campo della norma ritenuta propriamente «penale». Ciò non toglie però che nel nostro caso l'interpretazione sul «tipo» di norma e sulla retroattività è già stata chiaramente formulata dai giudici e non si vede per quale ragione ci si dovrebbe ora discostare dai precedenti. Il Consiglio di Stato nel febbraio di quest'anno (sez. V, n. 695 del 2013) si è espresso sul punto ritenendo applicabile la norma dell'incandidabilità anche con riferimento ai reati commessi prima dell'entrata in vigore della legge Severino. La Corte costituzionale, in tempi non sospetti, ha esplicitamente escluso possa configurarsi l'incandidabilità come una sanzione penale, ma essa determina il venir meno di un «requisito soggettivo» per l'accesso alle cariche elettive (sent. 132 del 2001).

Rimane da dire della richiesta di far sollevare la questione di costituzionalità dalla Giunta per le elezioni del Senato, nonostante la legge che regola i giudizi della Corte costituzionale (la n. 87 del 1953) sembra escluderlo, riservando tale possibilità solo al «giudice nel corso di un giudizio» . Una richiesta assai innovativa che si fonda - dal punto di vista del diritto costituzionale - su due argomenti. La prima è l'affermazione - condivisa dalla Corte costituzionale (sent. 259 del 2009) - della «natura giurisdizionale» del controllo compiuto dalla Giunta in sede di giudizio sui titoli di ammissione (e dunque sulla causa di sopraggiunta decadenza). La seconda sulle aperture della Consulta che in alcuni definiti casi ha riconosciuto un'attività di carattere oggettivamente giurisdizionale a soggetti non facenti parte integrante dell'ordine della magistratura (dalla commissione disciplinare del Csm ai collegi arbitrali). Il punto decisivo appare però il seguente: anche ammessa la «natura giurisdizionale» dall'attività della Giunta, il requisito necessario in base al quale la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale appena richiamata s'è potuta fondare è l'accertamento della terzietà e imparzialità dell'organo che esprime il giudizio. Ora chi può pensare che il giudizio espresso da un organo politico (la Giunta per le elezioni) possa rappresentarsi come terzo e imparziale? Non vi è nessuna demonizzazione della politica in questa osservazione, ma anzi un porre la questione nel suo giusto rilievo: la decisone sulla decadenza è demandata alle Camere proprio per salvaguardare l'autonomia politica dell'organo della rappresentanza popolare. Nel controllo operato dalla Giunta, la politicità non è separabile dal giudizio. In fondo basta guardare al dibattito in corso: tutto ruota attorno alla questione propriamente politica della possibilità che il leader carismatico del centrodestra sia impedito nella propria «agibilità politica».

V'è infine un ultimo, ma decisivo, ostacolo alla proponibilità della questione di legittimità costituzionale da parte della Giunta. È giurisprudenza costituzionale costante (tra le tante decisioni in tal senso le sentenze 40 del 1963 e 226 del 1976) che per poter rivolgersi alla Corte costituzionale è necessario che all'organo spetti effettivamente decidere nel giudizio in corso. Così, ad esempio, non il pubblico ministero, che non ha poteri decisori «ultimativi», bensì il giudice.Ora si dà il caso che la Giunta non deciderà alcunché, avendo solo un potere di proposta per l'Assemblea che si dovrà pronunciare in via definitiva solo in un secondo momento, in base all'esito del lavoro istruttori compiuto dalla Giunta. Dunque, a tutto concedere, dovrebbe essere l'Aula l'organo competente a sollevare la questione di fronte alla Consulta. Ma chi può credere che il Senato in quanto tale (l'Assemblea) possa essere considerato un giudice imparziale e terzo?

L’autorevole storico dell’arte si improvvisa urbanista, ma frodando: fa credere che parla del trasporto pubblico, invece in testa ha solo l’automobile privata: leggere per credere. Lo diceva Cederna che è un vizio degli intellettuali italiani.

La Repubblica, ed. Napoli, 31 agosto 2013

QUALE che sia o sarà l’amministrazione comunale, ritengo di notevole interesse per la città revocare l’ordinanza che vieta il passaggio automobilistico davanti alla Reggia, in piazza Plebiscito. Se, in occasione dell’incontro del G7, fu opportuno liberare la piazza davanti alla Basilica di San Francesco di Paola, fu invece un grave errore chiudere al traffico dei mezzi privati e persino di quelli pubblici il tratto di strada tangente il Palazzo Reale. Questo divieto equivale all’aver chiuso la principale arteria del corpo umano, quella che porta il sangue dal cuore a
tutti gli altri organi.

Infatti, prima della chiusura, chi proveniva da occidente lungo la strada del mare, saliva per il Gigante e subito s’immetteva in piazza Trieste e Trento, nodo centrale del quartiere Chiaia San Ferdinando. Nel senso opposto, chi muoveva da questa piazza, grazie al tratto in parola, raggiungeva la strada del mare e da questa i versanti est ed ovest della città. La similitudine con un’arteria occlusa è confermata, sul piano del traffico, dall’aver reso l’area di Santa Lucia un organo non irrorato dal sangue e quindi commercialmente morto; ma ancora più grave è il disagio che non tocca solo i luciani, ma tutti gli abitanti provenienti dalla parte occidentale di Napoli.

Questi, per passare da un capo all’altro del fusiforme organismo urbano - in pratica per superare l’altura di Pizzofalcone - sono costretti a salire le rampe Brancaccio, attraversare i vicoli, la piazza Santa Maria degli Angeli e lungo il San Carlo guadagnare finalmente il centro di piazza Municipio. Per quanto tortuoso questo cammino è più breve degli altri due, quello per la litoranea e l’altro per la Galleria della Vittoria che giungono entrambi a strozzarsi sulla via Acton. Qui, il percorso non è ancora finito: bisogna incamminarsi per la Marina, raggiungere piazza della Borsa e poi tornare indietro per entrare nell’area che va da Toledo a piazza Dante, da via Medina al Mercato, ossia la più ricca di negozi e uffici.

I moccoli non si contano rivolti a Giuseppe Bonaparte che volle la modifica del Largo di Palazzo, agli architetti Laperuta, che disegnò quel colonnato ad emiciclo mai utilizzato per negozi e botteghe, e Pietro Bianchi, che non riuscì a mascherare col suo Pantheon il «presepe » del Pallonetto ed ai vari re e ammini-stratori che si affacciarono sulla neoclassica piazza, i quali almeno consentirono il passaggio di carri e carrozze.

Con tutto il rispetto per l’estetica, non si può costringere mezza cittadinanza a un disagio da affrontare due volte al giorno, per la velleità di rendere la piazza Plebiscito l’emblema di Napoli. Ma posto che sia tale e sorvolando sul fatto che una destinazione d’uso non è stata ancora trovata, la stessa estetica si perde con il divieto suddetto che nuoce alla visibilità della piazza.

Se si aprisse al traffico la strada parallela alla Reggia, non ci sarebbero più i turisti raggruppati solo a un angolo di quest’ultima e quindi in grado di vedere il famoso «scenario» unicamente di scorcio, bensì, avvalendosi di un mezzo di trasporto, in condizione di ammirarlo soprattutto frontalmente, così come si addice a un impianto urbanistico simmetrico. Peraltro, al pari di molte altre piazze del mondo, l’area centrale è sempre circondata o affiancata da strade che ne consentono la migliore visibilità.

Auspico che queste mie osservazioni tecniche possano indurre a un ripensamento che non comporta la costruzione o demolizione di qualcosa, bensì la modifica di una semplice ordinanza comunale. Alcuni politici, quando perdono le elezioni, continuano a dire che è «necessario fare un’ampia riflessione». Perché questa volta non farla prima?

Le profonde diseguaglianze comportate dalla scelta del governo Letta-Berlusconi di abolire l'IMU.

Il manifesto, 30 agosto 2013

I principi di equità e di solidarietà sociale sono alla base della nostra Costituzione. Lo stesso governo «dei professori» li aveva citati tra i suoi obiettivi: non ci credeva affatto - si è visto dai provvedimenti approvati - ma almeno formalmente si poneva all'interno di quella cultura. Con la cancellazione dell'Imu per tutti i proprietari di prime case, il governo Letta rompe l'ultimo tabù: si governa per rafforzare e perpetuare disuguaglianze e privilegi.

Con la riforma dell'Imu i proprietari di un solo alloggio di 80 metri quadrati di categoria catastale usuale, risparmieranno 4-500 euro all'anno. Quelli di 4 o 500 metri quadrati di maggior pregio ne risparmieranno 10-15 mila. Ma non basta! I grandi costruttori non pagheranno l'Imu 2013 e 2014 per il gigantesco numero di alloggi invenduti che popolano le desolate periferie urbane. Un regalo misurabile in decine di milioni di euro. Soldi con cui si possono acquistare o potenziare giornali (Caltagirone e Bonifaci - Messaggero e Tempo - ne sono il più noto esempio) utili a cantare le lodi al governo di turno. O ad aiutare nelle strepitose rimonte berlusconiane in campagna elettorale. Sociologi ed economisti di ogni corrente di pensiero concordano nell'affermare che il ventennio che abbiamo alle spalle è quello in cui si sono prodotte le più impressionanti differenze sociali a tutto vantaggio dei ceti benestanti. Il governo Letta ha aumentato la forbice.

Ma oltre ai numeri contano ancora di più i fatti simbolici e strutturali. L'Italia, come paventava La voce.info, è diventata l'unico paese sviluppato a non tassare la proprietà edilizia. Sono soggette a Imu soltanto le abitazioni di lusso: in tutto 73 mila immobili su 20 milioni di alloggi. Tutti gli altri sono stati equiparati e azzerati alla faccia della Costituzione. Tanto è vero che nascerà la «service tax», un'imposta legata all'erogazione dei servizi urbani che verrà pagata in gran parte dagli inquilini invece dei proprietari com'era con l'Imu.

In buona sostanza con la novità introdotta i proprietari di una sola abitazione perderanno immediatamente i benefici della cancellazione dell'Imu, mentre gli inquilini vedranno crescere notevolmente il prelievo fiscale. Un altro regalo alla rendita immobiliare. Un altro colpo micidiale all'equità.

Non stupisce dunque la felicità del centro destra. Ha cancellato il principio fondante della progressività della tassazione, chiudendo con un suggello impensabile il ventennio della restaurazione proprietaria. Stupisce invece la serafica indifferenza del primo ministro Letta che sembra non aver colto la rilevanza di questo micidiale colpo. Eppure dovrebbe essere culturalmente erede di quel Fiorentino Sullo che aveva compreso cinquant'anni fa - pagando un prezzo personale pesantissimo - che il nodo scorsoio che strangola l'Italia è il dominio della rendita speculativa. Evidentemente i cattolici «democratici» alla Letta non appartengono a questo importante filone di pensiero. Ma stupisce di più la sconcertante sudditanza dell'intero Pd che ha messo sullo stesso piatto della bilancia 500 milioni per la cassa integrazione, che dovevano essere comunque trovati se non si volevano acuire le tensioni sociali del prossimo autunno caratterizzato dalla crescente disoccupazione, con la cancellazione di uno dei pilastri che reggeva lo stato.

Il trionfo di Berlusconi sta qui, nell'aver lasciato senza rappresentanza i due terzi della popolazione italiana. Una ristretta élite sociale governa per interposta persona e continua a colpire ciecamente le classi più sfavorite. Può contare su una maggioranza dei due terzi del parlamento cui impone ogni tipo di provvedimento legislativo: articoli come quelli approvati ieri l'altro sono scritti da chi conosce alla perfezione i meccanismi, come ad esempio l'ufficio studi dei costruttori.

Ridare voce e rappresentanza a questa Italia senza più fiducia è il compito sempre più urgente che ha la sinistra in cui crediamo. La proposta di Micro Mega ripresa da Pierfranco Pellizzetti mercoledì su queste pagine di lavorare per un governo di «legalità repubblicana» formato da personalità impermeabili alle pressioni delle lobby, è l'unica strada per ridare speranza al paese.

Siamo la nazione che cresce di meno perché siamo in perenne ostaggio di una rendita parassitaria che non ci permette di diventare un paese realmente libero e moderno. Non ci si può meravigliare se mancano investimenti stranieri. O se molti imprenditori non investano nei comparti produttivi: meglio giocare all'eterna tombola della speculazione immobiliare improduttiva e intascare plusvalenze gigantesche. Il trucco funziona sempre, anche grazie al governo Letta.

Truffava il fisco e i suoi stessi sodali per formare e accrescere fondi neri da usare come sappiamo: a comprare voti nel Parlamento e nel paese E’ così uno statista all’italiana? Lo pensano evidentemente quelli che si danno da fare per garantirgli la "agibilità politica"che agli altri colpevoli non è concessa.

La Repubblica, 30 agosto 2013

SILVIO Berlusconi è davvero un “soggetto speciale” come dicono i suoi uomini chiedendo alle istituzioni e alla politica di salvarlo dalla condanna definitiva proprio per l’eccezionalità della sua storia: e infatti la Corte di Cassazione ieri lo ha confermato, scrivendo nelle motivazioni della sentenza che è “pacifica e diretta” la responsabilità del Cavaliere “nell’ideazione, nella creazione e nello sviluppo” del “gioco di specchi sistematico che rifletteva una serie di passaggi senza giustificazione commerciale” dei diritti cinematografici, con un continuo aumento dei prezzi che truffava il fisco italiano mentre andava ad “alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere”. Cioè fondi neri di un leader politico, da usare chissà come.

Qui sta la “specialità” di Berlusconi. Che invece di spiegare agli italiani come tutto questo sia potuto succedere, ieri ha parlato di “sentenza allucinante e fondata sul nulla”, nonostante tre gradi di giudizio abbiano confermato il meccanismo criminale che lo ha visto per anni dominus indiscusso, mentre frodava fisco, azienda e azionisti di minoranza, oltre agli italiani cui aveva raccontato la favola del libero mercato. Ora il quadro è chiaro e soprattutto è definitivo. La politica, ovviamente, non c’entra nulla, trattandosi di una truffa perpetrata a lungo, poi svelata, quindi provata e infine sanzionata secondo il codice penale. Ieri affacciandosi dalle sue televisioni Berlusconi ha detto che ogni tentativo di eliminarlo attraverso la sentenza sarebbe “una ferita per la democrazia”.

Ma il leader del Pdl dovrebbe rendersi conto, leggendo le motivazioni, che lui solo è l’autore della sua sventura, fabbricata con le sue stesse mani nei giorni dell’onnipotenza, inseguendo un potere improprio perché il potere legittimo non gli bastava.Applicare la legge, perseguire i reati, pronunciare le sentenze ed eseguire le condanne fa parte in Occidente del normale funzionamento della democrazia che riconosce la separazione dei poteri e la loro libera autonomia. La vera “ferita” è una sola, l’eccezione al diritto e all’uguaglianza in nome della forza, del ricatto, della casta. O della paura.

Staino, l'Unità

Diritti civili e dignità della persona umana, progressi compiuti di ieri e doveri e speranze per domani: così parla uno statista. Altrove.

Il Fatto quotidiano, 20 agosto 2013

Barack Obama aveva due anni quando, il 28 agosto 1963, 250mila persone calarono su Washington per ascoltare Martin Luther King e il suo discorso sull’eguaglianza civile ed economica degli afro-americani. Cinquant’anni dopo Obama si è ritrovato sugli stessi scalini del Lincoln Memorial da cui il reverendo King declamò più volte “I have a dream” e ha parlato da presidente degli Stati Uniti; il primo afro-americano a entrare alla Casa Bianca. Con diversi riferimenti biblici e i toni che talora hanno ricordato quelli di un predicatore, Obama ha indicato se stesso come il simbolo del cambiamento auspicato da King, ma ha anche ricordato che “le disparità economiche e civili del Paese rendono il sogno ancora irrealizzato”. Con lui, sulle scale del Lincoln Memorial c’erano altri oratori e invitati: tra questi, gli ex-presidenti Jimmy Carter e Bill Clinton, oltre a diversi esponenti della famiglia del reverendo assassinato nel 1968. Prima del discorso di Obama, davanti a migliaia di persone che da ore stazionavano sotto la pioggia nel National Mall, sono risuonati i rintocchi della campana di una chiesa di Birmingham, Alabama, dove nel settembre 1963 una bomba uccise quattro bambine.

Il discorso di Obama era particolarmente atteso. Pur essendo il primo presidente nero della storia Usa, Obama non ha mai parlato volentieri della questione della “race”. In sole due occasioni il presidente si è lasciato andare. La prima volta è stata nel 2008, quando l’allora candidato alla Casa Bianca rispose alle polemiche sulla sua appartenenza alla chiesa del reverendo Jeremiah Wright. L’altra occasione è arrivata il mese scorso, dopo la sentenza che ha sollevato da ogni accusa l’assassino di Trayvon Martin. “Ci sono pochi afro-americani in questo Paese, me compreso, che non sono stati seguiti dai commessi mentre facevano shopping in un grande magazzino”, ha detto Obama per riassumere il senso di frustrazione di molti neri.

Per il resto, il presidente ha sempre preferito collocare la battaglia per i diritti dei neri in un contesto generale, che comprende tutti i gruppi che in qualche modo soffrono di discriminazioni: i neri, ma anche gli ispanici, gli omosessuali, le donne. “Il mio lavoro, come presidente, è quello di favorire politiche che creino opportunità per tutti”, ha spiegato lo scorso maggio ai laureandi del Morehouse College, dove si diplomò Martin Luther King. L’apparente distacco di Obama ha tra l’altro generato particolare delusione, in certi casi anche manifesta insofferenza, proprio nella leadership politica afro-americana, che ha accusato Obama, cresciuto alle Hawaii e in Indonesia, di non sentire davvero un senso di vicinanza ideale con leader come Martin Luther King, e di essere troppo prudente sulle questioni della discriminazione razziale. “E’ il presidente di tutti gli americani, non soltanto di un gruppo”, ha detto la sua amica e consulente alla Casa Bianca, Valerie Jarrett. Ma intanto, in questi anni, la delusione di molti neri d’America è cresciuta nei confronti di un presidente nel quale avevano riposto enormi speranze. Oggi soltanto il 25 per cento degli afro-americani pensa che la sua vita sia cambiata in meglio con l’elezione di Obama.

Dal Lincoln Memorial, cinquant’anni dopo Martin Luther King, Obama ha dunque parlato soprattutto a questa America, prima entusiasta, poi perplessa e delusa dal proprio presidente. Ha riconosciuto i meriti della generazione che lo ha preceduto nella lotta per l’eguaglianza – “E’ perché hanno marciato”, ha declamato più volte, con un tono che ha ricordato quello del reverendo King – ma ha anche ricordato che la battaglia per l’eguaglianza non è completa e che “l’arco dell’universo morale può piegarsi verso la giustizia, ma non si piega da solo”. Cercando di inquadrare il problema afro-americano nel quadro più vasto della recessione economica, Obama ha poi ricordato che l’obiettivo della marcia del 1963, oltre alla tolleranza razziale, era “quello dell’eguaglianza economica”. E da questo punto di vista, 50 anni dopo, i risultati non sono confortanti. La disoccupazione tra i neri è al 12,6 per cento, il doppio di quella degli americani bianchi. Il reddito medio di una famiglia nera è circa il 60 per cento di quello di una famiglia bianca – e la differenza di reddito è aumentata dal 2009. Circa un nero su tre vive sotto il livello di povertà.

Obama ha detto di aver chiesto al Congresso maggiori fondi per le infrastrutture, l’educazione, la ricerca, “per colmare le differenze di reddito” e ha spiegato, per far rivivere la sua agenda di riforme in gran parte bloccata al Congresso, che gli Stati Uniti si trovano oggi di fronte, proprio come nel 1963, a una scelta storica tra stallo e progresso: “Possiamo continuare per la strada attuale, in cui la nostra grande democrazia è frenata e i nostri figli devono accettare un’esistenza di minori aspettative – ha detto Obama -. O possiamo avere il coraggio di cambiare. E la Marcia su Washington ci insegna che non siamo intrappolati negli errori della Storia, e che siamo noi stessi i padroni del nostro destino. Ma la promessa di questa nazione può essere mantenuta soltanto quando lavoriamo insieme”. Un altro passaggio che è sembrato un riferimento esplicito all’opposizione decisa che l’agenda interna di Obama incontra al Congresso ad opera dei repubblicani.

La celebrazione dei cinquant’anni dal discorso di Martin Luther King è arrivata in un momento particolare per i neri d’America. Oltre all’esito del processo per l’assassinio di Trayvon Martin, a turbare e alimentare la sensazione di un Paese in cui la giustizia non è ancora uguale per tutti è arrivata anche la sentenza della Corte Suprema che ha cancellato una parte importante del Voting Rights Act – quella che garantiva la partecipazione elettorale di minoranze e giovani . Proprio a questa sentenza hanno fatto riferimento i due ex-presidenti, Jimmy Carter e Bill Clinton – particolarmente duro è stato proprio Clinton, che ha detto che “una grande democrazia non rende più difficile votare che comprare una pistola”. Della decisione della Corte Suprema ha parlato anche Obama, in un passaggio di particolare durezza per un presidente di solito prudente. La sentenza, ha detto Obama, mostra che “per garantire i successi che il Paese ha raggiunto ci vuole continua vigilanza e non compiacenza”.

Il senso della giornata è stato comunque riassunto da uno dei primi oratori, John Lewis, il deputato oggi 73enne che è l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. Allora, Lewis intervenne a nome dello “Student Nonviolent Coordinating Committee”. Oggi è uno degli ultimi e più rispettati esponenti del movimento per i diritti civili. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni – ha detto Lewis – ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”.

Propensione all’intrigo da parte del padrone, propensione alla subordinazione da parte dei servi: furbi alcuni di questi, sciocchi gli altri. Noi, intanto, paghiamo.

La Repubblica, 29 agosto 2013
Chi sia l’Olonese, lo sapevamo: falsario, circonventore d’inermi, predone fraudolento, spietato nell’arte d’inquinare le anime, estorsore, ma da 7 anni il Colle predicava un regime consortile; il Pd vi pareva incline; e sconta questo penchant mangiandosi una comoda vittoria elettorale contro la mummia pirata, il cui terzo malgoverno era rovinosamente fallito. Non che i due precedenti fossero meglio, vende fumo da 19 anni. Due elettori su tre non lo vogliono più tra i piedi, ma dalle urne esce un Parlamento a tre teste: in lieve maggioranza relativa nella Camera alta, il Pdl deve pigliarsi un socio; e non tenta accordi seri con le Cinquestelle. Qua e là resta l’idea d’un matrimonio innaturale, affievolita. Non ci sarà più lo sponsor pronubo: compiuti i sette anni, l’Inquilino ormai sloggia; l’ipotesi d’un secondo settennio, lanciata dal campo d’Arcore, è talmente assurda che l’interessato obietta d’essere troppo vecchio (88 anni e alla fine sarebbero 95, età patriarcale). Ma l’intrigo è uno dei pochi caratteri che l’Italia 2013 abbia ereditato dai fasti rinascimentali (vedi Ludovico Sforza, detto il Moro). Venerdì 19 aprile il candidato Pd al Quirinale era Romano Prodi, forte dei numeri, e sarebbe débâcle berlusconiana, ma 101 franchi tiratori l’affossano; l’indomani l’uscente rientra al Quirinale, e sull’asse dei Letta zio-nipote, uno là, uno qui, prendono subito corpo «larghe intese»: che al grosso degli elettori ripugnino, è irrilevante. Inutile dire chi abbia vinto. Va in scena il capolavoro delle frodi: avendo le marionette al governo, B. tutela interessi poco rispettabili; scarica scelte impopolari sullo sventurato consorte (Imu e Iva); accumula risorse elettorali fingendosi campione dei contribuenti; e un pubblico intronato beve.

L’unico inconveniente sta nelle pendenze penali, una prossima a sciogliersi (quante volte s’era salvato come reo non punibile, essendo estinti i delitti). Gl’interessati al vizioso equilibrio speravano che in qualche modo la condanna cadesse, ma Dike è una dea seria: Sua Maestà frodava il fisco; sconti la pena residua, d’un anno, 3 essendo coperti da indulto. Qui erompe la pantomima criminalpsicotica.
L’Unico sputa su Carta, leggi, sentenze, ed esige misure extra ordinem che gli restituiscano l’«agibilità politica»: guai se Palazzo Madama lo dichiara decaduto (applicando norme votate dai suoi); lì salta il banco, povera Italia; e pretende un salvacondotto dai rischi futuri, perché restano gravi pendenze. In lingua penalistica «estorsione»: caso classico; la commette chi «mediante violenza o minaccia» costringa «taluno a fare od omettere» qualcosa, procurandosi «ingiusto profitto con altrui danno» (art. 628 c.p.). Scende in campo il circo. Le colombe tubano muovendo il collo, munite d’un rostro: «l’Italia non uscirebbe indenne» se Lui fosse escluso dal Senato, sussurra Gaetano Quagliarello, mellifluo-furente ex radicale, cattolico-forzaitaliota, quirinalista, architetto ministeriale delle riforme costituzionali. Che soffi aria da «guerra civile», è tema farfugliato dall’ex comunista, arcivescovo primate del culto berlusconiano. Maurizio Lupi, guerriero mistico Cl, gestisce trasporti e infrastrutture: qui vanta i mirabilia pronti nel cilindro governativo; sarebbe imperdonabile mandarli in fumo quando basta un gesto distensivo. Professa Cl anche Mario Mauro, ex Pdl, ora Scelta civica, ministro della Difesa; e gli vengono idee luminose: amnistia, affinché rinasca «il senso dello stare insieme», da cui «germoglia l’armonia» sine qua non fit iustitia. Memorabile analisi filosofica, segnala uno stomaco foderato in ghisa. La stessa via indica Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, trasformata in guardasigilli. Sgrana gli occhi Angelino Alfano, intellettuale vicepremier, ministro dell’Interno, segretario Pdl: è «incostituzionale» escludere B. dal Senato; ipse dixit 24 agosto, uscendo dal summit a Villa San Martino. Dominus aveva convocato i più o meno dignitari. Vuol arrembare lo Stato. S’era svelato qualche giorno fa: al diavolo le regole elettorali; ha in serbo lobotomie davanti alle quali spariscono le messinscene allestite da Joseph Goebbels nelle campagne hitleriane; e se vince qualificandosi vittima d’un complotto giudiziario, davvero stavolta non fa prigionieri; alternando lo scudiscio ai buoni bocconi, domerà il terzo potere; a quel punto la nave va (all’inevitabile bancarotta, con grasso profitto dei bancarottieri). Dodici anni fa chi cantava guerra senza prigionieri (in messicano, degheio)? Cesare Previti, nello staff berlusconiano addetto alla corruzione delle toghe.
Letta nipote difende la premiership con le unghie: la ripresa dista appena due passi; e svanirà se il governo cade. Pochi gli credono: 3 anni fa considerava giusto schivare i processi, né riteneva anomala una piccola legge immunitaria. Quel che avviene era molto prevedibile, perché i caimani non sono cagnolini da salotto. Lo schieramento pro Silvio batteva varia grancassa: la palude pseudomoderata (disinvoltamente incline alla mano piratesca), anime ministeriali, praticoni, canonici in cerca d’ingaggio, chierichetti rampanti; e i pulpiti conficcavano un dogma nelle teste, che sia notte fuori delle «larghe intese» (in latino, «extra pactum cum divo Berluscone nulla salus»). Non siamo ancora alla fine; i forzaitalioti guardano stupiti la metamorfosi giacobina nel Pd; possibile che, così duttile, d’un colpo diventi inesorabile legalista? Sarà tutto chiaro post 9 settembre, appena la questione della decadenza arrivi all’assemblea: il voto è segreto e fanno precedente i 101 antiprodiani 19 aprile. Sua Maestà dissemina esche: l’ultimatum è anche bluff; che tripudio nella reggia d’Arcore, stile Eliogabalo, se tutto finisse in appeasement.

La proprietà immobiliare è sacra, guai a scalfirla. Il “blocco edilizio” continua a vincere, il prezzo lo pagheranno altri, oggi, domani e dopodomani. Una frustata di Michele Serra (La Repubblica) e un articolo di Micaela Bongi (il manifesto), 29 agosto 2013

L’amaca
di Michele Serra

Il socialista (cose da pazzi) Brunetta annuncia gongolante che non si pagherà l’Imu sulla prima casa, qualunque reddito si abbia. Non può non sapere che niente è più iniquo che trattare allo stesso modo i poveri e i ricchi, ma non sembra importargliene più di tanto: l’importante era far pagare il prezzo politico della campagna elettorale del suo capo a tutto il Paese.

Perché mai uno come me (e come tanti italiani che l’Imu volevano e potevano pagarla) debba essere esentato da quella tassa allo stesso modo del pensionato o dell’operaio monoreddito, non si capisce. Neppure si capisce che genere di copertura, e a spese di chi, sarà escogitata per coprire il buco, sempre per pagare la campagna elettorale di Berlusconi. Una politica onesta dovrebbe dire ai cittadini che abolire una tassa (specie una tassa come l’Imu) pesa sulle finanze degli enti locali, costringendo a tagliare i servizi sociali. E dunque penalizzando i deboli. La demagogia disonesta si guarda bene dal fare questo genere di conti in pubblico. Strilla “vi levo l’Imu” per avere gli applausi e i voti degli sprovveduti. Che poi si domandano furibondi perché non passa più l’autobus, o perché aumentano i ticket sui farmaci.

Una tassa che allunga la vita
di Micaela Bongi

Vince chi se la cava meglio con twitter: «Missione compiuta, Imu cancellata», digita svelto Angelino Alfano dal consiglio dei ministri che volge al termine. «Parola Imu scomparirà dal vocabolario del futuro», insiste il vicepremier per la gioia di Silvio Berlusconi, assicurando che per finanziare l'abolizione dell'Imu non aumenteranno altre tasse.

In effetti Alfano non mente: la parola Imu scomparirà. Sarà sostituita da Taser (la cosiddetta service tax). Non «altre tasse» che aumentano, ma una nuova tassa, federale. Slogan che mette d'accordo tutti: «Nel 2013 l'Imu non sarà pagata». Da nessuno. Ma vanno ancora trovate le coperture per il saldo di dicembre 2013, da indicare nel decreto che accompagnerà la legge di stabilità (c'è tempo fino al 15 ottobre) e va articolato ciò che Enrico Letta preferisce chiamare «superamento» dell'Imu piuttosto che abolizione: partirà ora il confronto con i comuni.

Ma adesso «guardiamo al futuro con più fiducia», è soddisfatto il presidente del consiglio, che grazie al gioco di prestigio e alla ormai consueta tattica del rinvio guadagna per il governo da lui presieduto almeno qualche mese di vita. Anzi, «il governo non ha più scadenza», assicura. Sarà eventualmente Berlusconi - in base all'evoluzione delle sue vicende giudiziarie e all'andamento delle sue aziende - a decidere di fissarne un'altra. Per ora il Pdl in coro è autorizzato anche a strapazzare i generosi alleati: «Bravo Angelino. Sconfitti i tassofili. Vittoria Pdl», cinguetta Maurizio Gasparri. Più generoso Silvio Berlusconi, che alla cancellazione dell'Imu aveva appeso la vita delle larghe intese ritenendola un «punto cardinale», non solo «pratico» ma anche «simbolico»: «Il Popolo della Libertà ha rispettato il patto con i suoi elettori e il presidente Letta ha rispettato le intese con il Pdl», dichiara in una lunga nota che arriva in tempo per la conferenza stampa al termine del consiglio dei ministri e nella quale annuncia un futuro di prosperità, con redditi più alti, consumi che subito ripartiranno e nuovi posti di lavoro.

Ma se sul «punto pratico» si preferisce per ora non approfondire (Renato Brunetta assicura invece che anche dalla service tax saranno abolite prime case, terreni agricoli e prefabbricati, ma non dovrebbe essere così), su quello «simbolico» sottolineato dallo stesso Cavaliere un risultato il leader del Pdl lo ha già ottenuto: la service tax, spiega Letta, riguarderà appunto i servizi e non il concetto di «proprietà dell'abitazione». Il premier comunque assicura anche che alla fine si arriverà a «una diminuzione del carico fiscale sulle famiglie».

«Apprezziamo che la service tax sia introdotta a partire dal 2014, potendo così disporre del tempo necessario al miglior decollo di questo nuovo tributo», commenta Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci.

Nella conferenza stampa a palazzo Chigi una giornalista chiede a Alfano se dunque si tratti di una vittoria del Pdl. Ma è Letta a rispondere stoppando il suo vice: «E' una vittoria del governo». «E' una vittoria di Berlusconi», dicono invece in coro i ministri pidiellini, sperando così anche di tranquillizzare l'ex premier. Ma ora tocca «alla battaglia più importante, quella per la democrazia», rilancia subito Daniela Santanchè riferendosi alla questione della decadenza di Berlusconi da senatore.

Di fonte a tanto orgoglio pidiellino, il Pd si concentra soprattutto sugli altri provvedimenti contenuti nel decreto varato ieri: il rifinanziamento, con 500 milioni, della cassaintegrazione in deroga, e circa 700 milioni di euro in 5 anni favore di altri 6.500 esodati, quelli indicati come «licenziamenti individuali». Entusiasmi raffreddati dalla Cgil, che ritiene le risorse stanziate per la Cig in deroga sufficienti appena per l'emergenza ma non per risolvere il problema, così come per gli esodati: «Fondi scarsi e poco significativi». E durante il cdm alcuni ministri del Pd avevano chiesto di allargare la platea degli esodati su cui intervenire.

Caustico, poi, Massimo D'Alema, ieri alla festa del Pd di Firenze, chez Matteo Renzi: «Fa piacere che si sia trovata una soluzione alla questione dell'Imu, adesso speriamo che il governo possa dedicarsi più intensamente a questioni più importanti, che sono quelle della crescita e dell'occupazione». E aggiunge, rompendo le uova nel paniere: «E' stata trovata una soluzione equilibrata, nel senso che è stata cancellata la prima rata dell'Imu, poi subentrerà un'altra tassazione, affidata ai comuni, come è giusto, e che dovrà essere applicata, secondo me, non ai cittadini meno abbienti».

Il presidente del consiglio invece ingaggia anche una polemica a distanza con Mario Monti. Il Professore lamenta il cedimento di Letta, Saccomanni e del Pd al Pdl e a Berlusconi. Ribatte il premier: «Difendo questa riforma per il merito, non per le intese politiche». Diverse le parole pronunciate in consiglio dei ministri: «Se superiamo questo scoglio avremo la strada indiscesa».

Drammatica la situazione del Sud Mediterraneo, l’aggrovigliarsi dei suoi problemi: «se così vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà».

La Repubblica, 28 agosto 2013

ACCUSATO di aver perpetrato un massacro con armi chimiche, mercoledì scorso in due sobborghi di Damasco, e di aver forse bombardato il proprio popolo col gas nervino, il Presidente siriano Bashar al-Assad si è rivolto all’America e ai governi europei con parole sprezzanti, colme di scherno. Ha ricordato loro i disastri delle recenti guerre contro il terrorismo globale e ha detto: «È vero, le grandi potenze possono condurre le guerre. Ma possono vincerle?»

Ecco il dilemma che sta di fronte agli Occidentali, nel momento in cui alzano la voce contro Damasco, denunciano l’»oscenità morale» delle armi chimiche contro cittadini inermi (le parole sono di John Kerry, segretario di Stato), e affilano i coltelli nella convinzione che un intervento punitivo sia a questo punto necessario, dunque legittimo. Il dilemma esiste perché sulle conseguenze di un’offensiva nessuno pare avere idee chiare. Neppure sull’obiettivo c’è per la verità chiarezza, il che inquieta ancor più: in nome di quale disegno aggredire Assad? Ed esistono prove credibili che quest’ultimo abbia usato i gas, oppure Kerry ha dedotto le sue certezze consultando, come ammesso lunedì, i social network?

È il motivo per cui, anche quando le prove spunteranno (ieri il portavoce di Obama le ha promesse fra breve), non è a una guerra che si pensa in America ma a un gesto simbolico, a un’affermazione di forza. Giusto per dire «Eccoci», e poi andarsene. Evitando, a parole, il cambio di regime a Damasco.

È quanto fa capire l’ex capo di Stato maggiore Usa, Jack Keane, che da mesi preconizza più decisivi interventi ma che li ritiene improbabili. Intervistato dalla Bbc, dopo le parole di Kerry, il generale ha specificato che un semplice segnale castigatore, un colpo di avvertimento, lascerebbe le cose come stanno. «Il giorno dopo Assad ricomincerà i bombardamenti sulle popolazioni civili, con armi chimiche o senza. I rapporti di forza fra regime e ribelli nella sostanza non muteranno». La coalizione dei volonterosi che Obama sta provando a raggruppare avrà detto la sua, ma l'ultima parola molto probabilmente non sarà lei ad averla e il controllo su quel che accadrà dopo neppure. Lo stesso Keane ha detto in passato che la Siria di Assad non è la Libia di Gheddafi. Dispone di armi più sofisticate, le sue truppe di terra e di aria combattono i ribelli con notevole successo da due anni. E ha alleati assai potenti: l’Iran, la Russia, e dietro le quinte la Cina che come sempre sta a guardare, gigante che aspetta infinitamente paziente che l’America si rompa un osso dopo l’altro.

Neppure il paragone con il Kosovo è pertinente. È vero, siamo davanti a un disastro umanitario la cui oscenità è evidente. Ma l’osceno avviene per sua natura «fuori scena »: non è visibile come lo fu in Kosovo, e la sicurezza esibita da Kerry è quantomeno labile, per ora. Gli ispettori dell’Onu sono lì per verificare, come a suo tempo tentarono di verificare in Iraq l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. A un certo punto l’America decise di entrare in guerra comunque, e gli ispettori vennero scaricati senza essere ascoltati. Hans Blix, che guidava il team dell’Onu, non cessa di evocare con amarezza la sordità dell’amministrazione Bush. Si parla di un’operazione simile al Kosovo perché cominciò allora la pratica della coalizione dei volonterosi, architettata sotto la guida di Washington per aggirare il Consiglio di sicurezza Onu e quindi Mosca. Ma Milosevic era già vinto quando scattò l’offensiva, mentre Assad no.

Sabato, sul New York Times,è intervenuto con un articolo singolare lo studioso di storia militare Edward Luttwak, a suo tempo difensore delle guerre antiterroristiche. Oggi scrive che meglio stare a guardare la Siria da fuori, aspettando che i contendenti si scannino a vicenda. Meglio lo stallo, prolungato ma tenuto in stato di continua incandescenza: aiutando massicciamente i ribelli anti-Assad, ma smettendo l’aiuto non appena questi diventino troppo forti e stiano per vincere. Il ragionamento si finge astuto, prudente. In realtà è perverso, e palesemente sprovvisto di ambizione politica. «L’America perde in ambedue i casi», conclude Luttwak. Nessun occidentale, e men che meno Parigi e Londra, ha in questa vicenda ambizioni politiche, oltre che intellegibili obiettivi. E quanto bluffano poi Parigi e Londra? Sarebbero pronte a intervenire senza America e a fianco di Israele, ripetendo la rovinosa spedizione contro Nasser a Suez, che Eisenhower provvidenzialmente bloccò nel ’56?

Questo significa che la Siria è un vespaio prima ancora che scatti l’eventuale attacco euro-americano. La questione morale apertasi con l’uso del sarin è innegabile, ma la catastrofe umanitaria non la si può combattere come la si è combattuta in Kossovo, o peggio in Iraq. E non solo perché mancano prove inoppugnabili che attestino le responsabilità di Assad, non solo perché i più forti, tra i ribelli, sono al momento le milizie di Al Qaeda, e la scelta è tra la peste e il colera. Solo forze di interposizione Onu potrebbero proteggere i civili siriani da nuovi attacchi (sferrati da Assad o dai ribelli) e agire in nome del divieto di ricorrere a armi chimiche. La coalizione dei volonterosi è incompatibile con la via dell’Onu, e si propone altro.

Cosa, precisamente? Forse per questo il ministro Bonino si mostra dubbiosa: «L'Italia non prenderebbe parte a soluzioni militari al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu». L’analista Yagil Levy, studioso del peso esercitato dai militari nell’edificazione dello Stato israeliano, enumera le tre ragioni per cui la questione morale non può esser risolta da interventi militari (Haaretz 26-8). In primo luogo perché farebbe un gran numero di vittime e distruggerebbe le infrastrutture del Paese, come già accaduto in Kossovo e Libia. In secondo luogo perché non placherebbe la guerra fra regime e ribelli ma la acuirebbe. Terzo motivo, cruciale: l’intervento tenderebbe a «favorire un cambio di regime artificiale». Dipendente da aiuti esterni, il futuro potere sarebbe senza radici.

La storia delle guerre negli ultimi 14 anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) conferma le inquietudini di Yagil Levy. Nessuna di esse ha creato nuovi ordini stabili, tutte sono finite in pantani diabolicamente gelatinosi, nei quali non si distinguono le persone fidate dalle inaffidabili. I costi in termini di vite umane, una volta sconfitto Gheddafi, sono già oggi enormi: i morti del dopo-guerra sono quasi equivalenti alla metà dei caduti prima dell’uccisione del rais.

Fanno bene le democrazie, fanno bene Parigi e Londra, a indignarsi per l’uso eventuale di gas. Ma l’indignazione morale suona falsa, quando non calcola le conseguenze delle proprie azioni e neanche sa bene chi sia il colpevole. Quando il passato non insegna nulla, e cadono nell’oblio le false prove date da Colin Powell contro Saddam, e sono senza peso le sconfitte cui sono andate incontro le guerre umanitarie lungo gli anni.

Non si esportano la democrazia e la stabilità, quando a uno Stato fallimentare si sostituisce uno Stato ancora più sfasciato di prima. Non si esporta neppure la morale, con attacchi simbolici che soddisfano solo l’orgoglio di chi li sferra e non aiutano i veramente minacciati. Se il pericolo in Medio Oriente è la degenerazione siriana, e al tempo stesso il potere esercitato nell’area dall’Iran o da Hezbollah in Libano, se è la fatiscenza del regno giordano, la rigidità di Israele, il ritorno in Egitto di un regime corrotto che si gloria di abbattere nel sangue l’integralismo dei Fratelli musulmani: se tale e così vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà.

Ricordando Antonio Cederna, a 17 anni dalla scomparsa. «I temi che portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì: Parco dell’Appia, Fori, centri storici, difesa delle coste, piani per le città.

La Stampa, 27 agosto 2013

Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, scomparve un pilastro della cultura ambientalista italiana. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita dal declino dell’idea stessa di comunità

L’estate permette, con i suoi tempi dilatati, di far correre la mente, ricordando e riflettendo sul passato. Un esercizio della memoria e della volontà per trarre insegnamento dalla storia, comprendendo il senso delle cose e dando il giusto valore a ciò che conta veramente. Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, è scomparso Antonio Cederna. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita ma, piuttosto, un deterioramento dei valori e il declino dell’idea stessa di comunità.

I valori sono stati il centro della vita di Antonio Cederna: etica, responsabilità, competenza, impegno civile, di volta in volta rivolti alla professione di giornalista, al ruolo di militante ambientalista, all’azione dell’uomo politico, all’essere un esponente del mondo della cultura. Con rigore ha saputo dire cose scomode, non accettando di tacere di fronte ai disastri, alle manomissioni del territorio e del patrimonio culturale del nostro paese.

Argomenti scomodi, un fastidio per la politica diventata strumento di gestione del consenso e oggetto di scambio clientelare: una scomodità che costò a Cederna l’essere posto nell’alveo degli intellettuali, un po’ eccentrici, ma non adatti a governare. Troppo spesso liquidato con l’appellativo di Cassandra, con la superficialità di chi non vuole capire e affrontare realmente i problemi, preferendo l’improvvisazione di soluzioni poco efficaci e di scarso rilievo.

Serve ancora oggi, nell’Italia del 2013, ricordare chi scrisse libri che in realtà erano denunce e testimonianze, come I vandali in casa, La distruzione della natura in Italia, Memorabilia Urbis, … . Serve e sarebbe utile ripercorrere e studiare il suo archivio, vedere le interviste, ascoltare la descrizione di come si costruivano periferie brutte e invivibili: tutto il materiale, raccolto in decenni di attività, è oggi disponibile, grazie alla sua famiglia che lo ha donato, affinché diventasse un patrimonio di conoscenza collettivo. Una scuola dell’esperienza e del metodo di lavoro che mise in cima alle priorità la comprensione dei problemi, studiando le soluzioni e proponendo un modo diverso di affrontare le criticità, guardando all’Europa, restituendo un valore al bene comune e affermando un ruolo ineludibile del decisore pubblico. (www.archiviocederna.it)

L’attualità dei suoi scritti è ancora qui, sotto i nostri occhi: l’incapacità di governare il territorio, di guidare lo sviluppo, attraverso scelte di buon governo, fatti che possono risultare ovvii ma che, ancora oggi, caratterizzano l’assenza di una politica che capace di fare della sostenibilità la base per il futuro dell’Italia. Un’attualità resa ancor più dirompente perché, già negli anni ’60, indicava nell’Europa il modello da imitare, seguendo l’evoluzione dell’urbanistica e delle politiche di gestione del territorio.

I dati relativi al consumo di territorio, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento nelle aree urbane, alle emergenze “permanenti” come quelle dei rifiuti, del dissesto idro-geologico sono inquietanti: l’Italia registra un ritardo e un arretramento rispetto agli altri paesi europei, accumulando inefficienze e inadempienze. Non si tratta di una posizione puramente estetica, da “anime belle” come l’avrebbe definita Cederna: è un problema ben più complesso, fondato sul rapporto tra scarsità e disponibilità di risorse. Si tratta, in realtà, di una questione civile e culturale che può fare la distinzione tra una nazione e un’altra per il livello di progresso raggiunto, per il rispetto della legalità e delle opportunità di sviluppo alle quali accedono i cittadini. L’Italia oggi detiene il primato in Europa per le procedure di infrazione alle norme comunitarie in materia ambientale e in molte regioni il circuito economico legato alla criminalità coincide, non casualmente, con un alto tasso di reati ambientali, favorendo un florido settore che abbiamo imparato a chiamare “ecomafie” fatto di traffici illeciti, corruzione e inquinamento.

Si continua a credere che sia sufficiente scrivere le leggi, senza preoccuparsi di come farle rispettare, facendo crescere il capitale sociale e la coscienza di una cittadinanza attiva. Siamo tuttora bloccati a un modello dell’economia slegata dai processi ecologici e dall’impatto delle attività dell’uomo sull’ecosistema dove l’energia diventa un’emergenza se il petrolio raggiunge il prezzo di 100 dollari al barile ma non ci poniamo il dubbio di comprendere quali costi collettivi, legati ai cambiamenti climatici, non sono compresi in quel prezzo, ma pesano come un macigno in termini di ritardo nell’adottare altri modelli fondati sull’innovazione.

Nel frattempo un altro anno è trascorso così, con boschi bruciati, discariche stracolme di rifiuti, città ammorbate dal PM10 e dal monossido, spiagge con divieti di balneazione, alluvioni e frane, …, . Si dirà che tutto questo è inevitabile, che non si può limitare il mercato: eppure gli allarmi si fanno sempre più ricorrenti, il clima si sta modificando e le soluzioni non possono essere sempre improntate all’emergenza, a provvedimenti estemporanei.

Biodiversità, clima, trasporti, energia, acqua, territorio, rifiuti, tutte tematiche che quotidianamente entrano con forza sulle pagine dei giornali e nelle nostre vite ma che, con grande difficoltà, si trasformano in politiche strutturali restando, spesso, inutili grida d’allarme, titoli di giornale che durano pochi giorni, facendoci restare nel rischio dell’emergenza e della catastrofe imminente. Le stesse emergenze di cui scriveva Cederna, avvolte, oggi come allora, nella disattenzione. La disattenzione che potrà essere più o meno colpevole ma sempre ancorata alla convinzione che l’ambiente sia un serbatoio da consumare senza mai porsi il dubbio circa la riproducibilità delle risorse e la responsabilità verso le generazioni future.

Degli incendi estivi, diceva Cederna, bisognerebbe parlarne durante l’inverno, quando è necessario programmare gli interventi, predisporre i provvedimenti, rendere efficienti gli strumenti di tutela e di prevenzione: un’idea alquanto bizzarra in un paese abituato all’emergenza e all’ineluttabilità delle cose che accadono perché il destino è cinico e baro. Un paese dove la regola non è la pianificazione bensì la deroga e il ripetersi di condoni e prescrizioni, frutto di una corruzione diffusa e dell’irresponsabilità di chi dovrebbe controllare. Eccoci quindi fermi nel ritenere che l’ambiente sia un limite, un intralcio per il progresso, un vincolo per la crescita economica misurata dal PIL: i boschi in fiamme, i fiumi inquinati o il traffico congestionato nelle aree urbane sono ancora considerati il costo da pagare per accedere a un maggiore benessere. Il PIL dimostra la sua inadeguatezza nel misurare lo sviluppo di un’economia che non può basarsi soltanto sulla quantità di beni e servizi ma dovrebbe registrare anche il livello di qualità dello sviluppo, creando condizioni di maggior competitività basate su scelte strutturali.

Antonio Cederna queste cose le vide e le denunciò, con forza e fermezza, insistendo affinché l’opinione pubblica prendesse coscienza e rinnegasse uno stato di cose come questo: alcune battaglie di Cederna sono arrivate tal quali fino ai nostri giorni e, tuttora, sembra impossibile ripristinare la normalità. Battaglie che, riascoltando gli accorati interventi di Cederna, sembrerebbe ovvio che lo Stato facesse proprie, oggi più che mai, riaffermando i principi di legalità e di buona gestione, definendo obiettivi e programmi, affidando compiti e responsabilità in modo chiaro.

Eppure non è così: si continua a discutere dello sviluppo delle città e delle condizioni di vivibilità delle periferie; si insiste a mettere in dubbio l’utilità di parchi e riserve naturali; si minano le condizioni minime per tutelare e proteggere il patrimonio storico, artistico e archeologico; si considera il paesaggio come un intralcio per la crescita economica; si resta immersi nella pigrizia e nell’assenza di visione, una poltiglia che avvolge tutto e rende inestricabili i nodi.

Quelli che furono, cinquanta anni fa, i temi che Cederna portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì, afflitti dal disinteresse e dall’ignavia: il Parco regionale l’Appia Antica, i Fori, la tutela dei centri storici, la difesa delle coste, la pianificazione delle città. Di volta in volta si annunciano programmi straordinari e soluzioni innovative ma, alla fine, restano solo l’abbandono e la precarietà, nell’assenza pressoché totale di una visione di lungo periodo. Anche per Antonio Cederna ha funzionato la regola che vuole che si dia maggior risalto e valore alle idee di coloro che non ci sono più, spesso per un vezzo elitario, per dare solo maggior dignità alle proposte, destinate a restare ipotesi o dichiarazioni di principio. Toccò anche a lui la sorte di restare nella solitudine di chi vuole anteporre l’interesse collettivo al profitto personale, la solitudine di chi scrive e vorrebbe vedere le cose cambiare.

Sono trascorsi diciassette anni dalla sua scomparsa: se Cederna fosse qui continuerebbe a essere una voce pungente e brillante denunciando disastri annunciati e disattenzioni. Ben poco si è saputo apprendere dalla sua intelligenza e dal suo impegno civile: i calendari continuano a essere punteggiati con le date delle alluvioni, degli incendi, delle frane, delle discariche stracolme, del caos sulle strade, delle città invivibili. Continuiamo a ricordare i luoghi con le conseguenze delle nostre disattenzioni, senza intravedere un’alternativa. Restano soltanto gli sprechi irrisolti, i tagli irragionevoli e l’abbandono cronico.

La grande bellezza la vediamo solo nei film, ma, una volta tornati nella realtà, siamo ancora lì, tra l’abbandono e la desolazione, con la rassegnazione che possa cambiare ben poco. Antonio Cederna resta un monito, utile se un giorno si decidesse di cambiare marcia, per davvero.

L'autore precisa il senso dell'articolo nel quale poneva un punto fermo,costituito dal«tenere ben separate la sfera dell'applicazione e difesa della legalità repubblicana dalla sfera delle opportunità politiche, vulgo sopravvivenza o meno del "governo delle larghe intese».Il manifesto, 27 agosto 2013

Fra le varie motivazioni pretestuose e compromissorie, cui chiedevo di rispondere con fermezza nel mio articolo "Il punto fermo" (il manifesto, 23 agosto), a quanti le avessero usate per salvare Berlusconi (respingere tout court la decadenza, manipolare in qualche modo la ineleggibilità, concedere la grazia, adoperarsi per manovre dilatorie di ogni tipo, ecc. ecc.), non mi era venuto in mente di annoverare anche l'amnistia. Come mai? Perché mi sembrava impossibile che qualcuno avesse il coraggio di tirare in ballo la più bastarda, la più infamante delle possibilità di salvazione del pregiudicato Berlusconi: il baratto, visibile e consapevole a tutti, tra una misura in sé astrattamente giusta e la continuazione, anzi l'inevitabile accentuazione del degrado etico-politico del sistema italiano, e in particolare della sua sinistra, la quale dovrebbe inevitabilmente condividere e votare il colossale inciucio.
Massimo Villone ha già illustrato (il manifesto, 25 agosto), con la consueta eleganza e dottrina, tutti gli argomenti che muovono contro l'adozione di una linea del genere.Vorrei solo aggiungere una considerazione di ordine, in qualche modo, personale. Cadere in questa trappola per motivi squisitamente umanitari non è in fondo molto diverso, nei molteplici effetti finali, dal condividerne l'ispirazione perversamente assolutoria.

Se s'imbocca questa strada, si dimentica, o si accantona, quale sia la posta in gioco. Non mi riferisco soltanto al dogma della legalità puramente e semplicemente considerato. Mi riferisco all'ennesima, catastrofica ricaduta che ne deriverebbe nelle politiche di sostegno ai lavoratori, di riforma della società, di redistribuzione dei poteri, di trasformazione (in meglio) della politica. Questo è il punto fermo, di cui io mi sono sforzato di parlare. Al resto ci si penserà dopo, se ci sarà un dopo.

Nell’intervista di Liana Milella l’insigne costituzionalista ribadisce le ragioni di una “presa d’atto” ed esprime un amaro pessimismo sull'esito delle manovre che impudenti furbacchioni stanno intessendo per calpestare le regole elementari della convivenza civile. La Repubblica, 27 agosto 2013

- I no - «chiari e tondi» - si sarebbero dovuti dire nella fin troppo lunga stagione delle leggi ad personam. Adesso, purtroppo, «rischia di essere tardi». A farne le spese saranno le istituzioni. È pessimista, il professor Gustavo Zagrebelsky, sull’affaire Berlusconi. Giudica «umiliante» che, per un leader di partito, si discuta di carcere, di domiciliari, di rieducazione sociale. E a chi sbandiera la tesi della sua agibilità politica, Zagrebelsky contrappone la necessità, da tanti avvertita, che «la politica sia protetta dall’illegalità». Per questo il Senato dovrebbe «prendere atto» della condanna del Cavaliere e rispettare la legge Severino. Il ricorso alla Consulta «è possibile» ma, ironizza il professore, cosa potrebbe negare un Parlamento che ha consentito di far passare la tesi di Ruby nipote di Mubarak? Infine la grazia: Zagrebelsky ne ragiona con la freddezza di chi ci vede «un nuovo elemento divisivo» che potrebbe solo «intaccare» la figura del capo dello Stato.

Da un mese il dibattito politico è paralizzato. Berlusconi e il Pdl, perfino con il ministro dell’Interno Alfano, chiedono una cosa sola: cancellare quella condanna. Quanto è anomala e pericolosa la situazione che si vive in Italia?
«Una cosa è da dire, innanzitutto: era tutto prevedibile. Per anni si è creduto di tenere sotto controllo un conflitto che, alla fine, si dimostra non componibile con un compromesso. Non è componibile, perché sono in gioco non interessi politici tra cui può esserci mediazione, ma principi ultimi che o si rispettano o si violano. Nel momento in cui è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, è venuto il momento del redde rationem: o la forza della legge o certe aspettative della politica. Per anni si è andati avanti con stratagemmi più o meno scaltri: rinvii, leggine personali mascherate da generali, impedimenti e furbizie varie, tollerate colpevolmente a tutti i livelli, politici e istituzionali, nella vana speranza che il conflitto si potesse controllare politicamente e che, alla fine, si spegnesse da sé. Se una lezione è da trarre, a futura memoria, è che i piccoli cedimenti iniziali sono destinati ad aprire la strada ad altri, e che, cedimento su cedimento, si forma una massa che non si riesce più a fermare. Il rigore istituzionale implica il dovere e la forza di dire dei “no” chiari e tondi, soprattutto all’inizio, quando è più facile».

Il neologismo “agibilità politica” può diventare una categoria per giustificare un trattamento speciale per Berlusconi? O la legge non sarebbe più, a quel punto, “uguale per tutti”?
«Effettivamente, che il capo d’un partito che raccoglie molti voti e che ha governato per molti anni sia in carcere o, più facilmente, “ai domiciliari” o, peggio, lo si debba rieducare con opere di bene “ai servizi sociali”, è una prospettiva umiliante: non (solo) per lui, ma (soprattutto) per tutti noi. S’invoca il diritto dei tanti elettori che l’hanno votato di poter sperare ancora nell’attività politica del loro leader. Ciò è comprensibile, ma non può essere senza limiti. Ritorniamo al rapporto legge-politica. Siamo in una democrazia, ma anche in uno Stato di diritto. La “agibilità politica” che la democrazia richiede a favore di tutti non cede forse di fronte all’esigenza dello Stato di diritto che la politica non sia o non cada nelle mani di chi è stato riconosciuto colpevole di gravi reati contro la cosa pubblica? La politica, più di ogni altra attività sociale, non deve essere protetta dall’illegalità? Dal punto di vista dell’agibilità politica, un condannato per gravi reati è “meno uguale” di chi non lo è stato. L’art. 48, terzo comma, della Costituzione prevede infatti la più classica delle limitazioni alla “agibilità politica”, cioè l’ineleggibilità per effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Questo suo ultimo argomento, però, pare a molti, formalistico: Berlusconi, per i suoi sostenitori, non è uno come tanti altri, è un unicum e quindi merita una particolare considerazione.
«Sì, si dice così. L’uguaglianza di fronte alla legge varrebbe per gli uomini comuni, come siamo tutti noi. Lui, però, è un megantropo. Applicargli la legge comune sarebbe come chiudere ipocritamente gli occhi di fronte alla realtà. Ma, dicendo così, si finisce per denunciare una stortura ancor più grave: l’aver lasciato crescere nella democrazia un corpo estraneo: un’aggregazione di potere economico, comunicativo e politico in una sola persona, dove il potere acquisito in un campo serve ad alimentare il potere negli altri campi. Questo è un disequilibrio assai grave, che denominiamo impropriamente “conflitto d’interessi”, mentre dovremmo chiamarlo accumulo d’interessi (e di potere)».

Il Parlamento ha varato la legge contro la corruzione e, al suo interno, il decreto sull’incandidabilità dei condannati fino a due anni. Anche il Pdl ha detto sì. Berlusconi rientra nei casi previsti dalla legge. Lei vede una via d’uscita dalla sua decadenza dal Senato e dalla sua impossibilità a ricandidarsi?
«Il Senato, pacificamente, è chiamato a prendere atto della sentenza e delle sue conseguenze e, per questo, ci sarà un voto. Trattandosi d’una presa d’atto, l’esito dovrebbe essere scontato, non potendo implicare una valutazione nel merito della sentenza di condanna. Però, nessuno può sapere che cosa accadrà. Se ci fosse un rifiuto, si aprirebbe un conflitto costituzionale di grande portata. Di nuovo: politica contro giustizia. Siamo sempre lì».

Il Senato - la giunta per le immunità prima, l’aula in seconda battuta - possono rivolgersi alla Consulta?
«Certo che “possono”! Chi potrebbe impedirglielo? Se, però, “potere” significa “essere lecito”, per rispondere dovrei entrare in argomenti strettamente giuridici. Preferisco non rispondere. Troppe sono le cose dette dai giuristi e troppo diverse tra loro. Crediamo forse che le forze politiche si orienteranno secondo l’argomento migliore, quando una maggioranza ha votato senza battere ciglio che una ragazza di nome Ruby è nipote d’un presidente egiziano? La realtà è che, in queste questioni, ciò che conta non è la forza degli argomenti, ma la forza dei numeri. Agli argomenti dei giuristi ci si appiglia solo come a pretesti. Sarebbe bene che, per l’onorabilità nostra e della nostra disciplina, in questa circostanza ci si astenesse dal fornire, per l’appunto, pretesti. In attesa ditempi migliori per il diritto».

La grazia. Napolitano si è espresso in proposito. Berlusconi deve chiederla ed essa non coprirebbe comunque le pene accessorie. Ma nella situazione penale di Berlusconi - un’altra condanna in primo grado e altri processi in corso - una grazia è possibile? Soprattutto: è eticamente accettab«Quando, nel 2006, la Corte costituzionale ha definito i caratteri del potere di grazia, l’ha sottratto al Governo, poiché il Governo esprime per sua natura orientamenti di parte, mentre la grazia deve prescinderne. Per questo, è stata assegnata al potere esclusivo del Presidente della Repubblica, rappresentante dell’unità nazionale. Ora, a parte le altre questioni, cui lei accenna nella domanda, le pare che in questo caso la grazia sarebbe un atto di unità? Non fomenterebbe, invece, profonde reazioni - come si dice - divisive, che intaccherebbero la figura stessa del Capo dello Stato?».

Una situazione come quella di questi giorni e la prospettiva della crisi di governo farà saltare la scommessa di una nuova legge elettorale. Rischiamo di tornare alle urne con il Porcellum oppure lei vede vie d’uscita?
«Una proposta meritevole d’attenzione c’è: sistema proporzionale con premio di maggioranza dato a chi prevale con una certa percentuale di voti oppure, in mancanza, assegnato con ballottaggio. Le idee non mancano. Ciò che manca è una convergenza d’interessi su una proposta. Se c’è una materia su cui, più che su ogni altra, si giocano gli interessi immediati delle forze politiche, e le ragioni di principio, cioè le visioni di giustizia, sono recessive, è proprio la materia elettorale. Gli interessi non si sommano ma si elidono. Per questo, c’è poco da essere ottimisti. Un’occasione s’è persa quando la Corte costituzionale ha bloccato un referendum per il ritorno alla legge precedente, imperfetta ma certo migliore dell’attuale. Perciò, è assai probabile che si ritorni a votare con la legge attuale, da tutti deprecata per il suo marcato carattere oligarchico, per la possibile abnormità del premio di maggioranza e per l’incoerenza degli esiti, tra Camera e Senato: tre ragioni d’incostituzionalità. Ora, che si possa essere chiamati a votare con una legge che la Corte costituzionale, di passaggio in una sentenza di qualche anno fa, ha bollato come incostituzionale, è una delle non ultime ragioni della malattia che sfianca la democrazia nel nostro Paese».

Inversioni semantiche:Oggi si chiamano “benpensanti" perché pensano male e si comportano peggio: i razzisti di casa nostra.

La Repubblica, 26 agosto 2013

INSULTARE Cecile Kyenge è diventato una forma di neoconformismo. Bastano una buona dose di razzismo volontario o involontario; una notevole mancanza di fantasia; e una pagina Facebook. Di suo il vicesindaco di Diano Marina, signor Cristiano Za Garibaldi (Pdl) ci ha messo un sovrappiù così surreale da risultare quasi divertente: scusandosi, ha spiegato di averlo fatto perché era stressato dalle tasse.

A ben vedere, nella sua caotica autodifesa il vicesindaco dice anche qualcosa di più: è irritato perché il ministro Kyenge ha accennato (solo accennato) alla possibilità di usare qualche alloggio vuoto e inutilizzato per i senza tetto e per i nomadi. Si capisce che in una terra come la Liguria, scempiata dalle seconde case, buona parte delle quali sfitte e in vendita, l'argomento non sia molto popolare. Anche perché costringe gli amministratori liguri, compreso il vicesindaco Za Garibaldi, a riflettere sulla pluridecennale svendita del loro territorio, massacrato dal cemento. Ma sono, questi, solo dettagli, minime variazioni di un ritornello davvero monotono, quello che ha fatto del primo ministro afroitaliano il bersaglio di ogni sconcezza e di ogni sberleffo.

È già stato detto e scritto molte volte, in circostanze identiche a questa, che il bersaglio finale di queste esternazioni è il politicamente corretto, cioè quell’insieme di consuetudini e di inibizioni linguistiche utili a non offendere le minoranze razziali e non solo. Nato non per caso negli Stati Uniti, Paese che prima e più di ogni altro ha dovuto fare i conti con una composizione sociale multietnica e multireligiosa, una colossale immigrazione, le difficili convivenze che ne conseguono, le incomprensioni, gli scontri di sensibilità.

Per quanto ipocrita, e spesso foriero di neologismi davvero goffi, il politicamente corretto discende da un’intenzione virtuosa, che è quella di far convivere le diversità, di renderle governabili. È esattamente per questo — non certo per scrupoli lessicali ai quali in genere non sono aduse — che le destre populiste di mezzo mondo, quella italiana in primo luogo, lo odiano. Perché lo vedono come il sintomo più evidente di una volontà di convivenza che non condividono e non vogliono. E così come per Bossi chiamare gli africani “bingo bongo” non era solamente una manifestazione del suo razzismo privato, ma anche un modo per far sapere ai suoi elettori terrorizzati dall’immigrazione e dal “mondialismo” che finalmente in Italia si poteva dare libero sfogo a qualunque fobia sociale, e anzi farne uno strumento di consenso e di governo; allo stesso modo l’avvento sulla scena politica di Kyenge è stata un’occasione imperdibile per chiarire una volta per sempre che no, un ministro nero non fa parte delle cose tollerabili.

Più in generale, insieme al fragile tappo del politicamente corretto made in Italy, saltato ormai da tempo, sono le buone maniere nel loro insieme a risultare di impiccio alla destra populista. Come molte delle regole in vigore, sono imputate di imbrigliare i cosiddetti “umori popolari”. Rifarsi alla orgogliosa maleducazione fascista, turpiloquente e manganellatrice, è probabilmente congruo ma rimanda troppo indietro nel tempo. Bastino, come esempio corrente, le interruzioni e le urla nei talk-show, il sorriso di scherno e lo scuotimento della testa mentre parla l’avversario, la totale mancanza di contraddittorio politico nel ventennale (e rudimentale) soliloquio berlusconiano, la titolazione incredibilmente becera e aggressiva dei due principali quotidiani di destra, l’odio di classe per “gli intellettuali” che parlano difficile, per la cultura “che non dà da mangiare”, nonché (cito dalla pagina Facebook del vicesindaco di Diano Marina) per “i benpensanti”.

Parola che, usata in quel contesto, e da una persona che ha appena insultato Cecile Kyenge, colpisce molto. Il termine “benpensanti” tanti anni fa serviva per indicare i borghesucci timorati e baciapile, quelli che votavano per la Dc e per i suoi alleati, e che oggi probabilmente votano per il vicesindaco di Diano Marina, il Pdl e la Lega. Oggi la parola viene torta al punto da indicare quelli che non ritengono normale né giusto insultare “i negri”, e ancora si sforzano di chiamarli “neri” o “africani” o “afroitaliani” (è il caso della signora Kyenge). Vedi come mutano i tempi: l’antirazzismo è nato rivoluzionario e per tanti versi lo è ancora, dovendo risalire una potente corrente contraria. Ma oggi i suoi nemici di destra, per deriderlo, per liberarsene, per non farci i conti, lo liquidano come “benpensante”.

«Da quasi vent'anni Berlusconi schianta la giustizia sugli scogli dei propri guai giudiziari, e divide il paese. E' giunta l'ora di finirla»

. il manifesto, 25 agosto 2013

È proprio un indecente teatrino, questo dell'agibilità politica di Berlusconi». L'ultima trovata è l'amnistia, per cui abbiamo anche una sponsorizzazione ministeriale che fa riflettere. La legge costituzionale del 1992 riformò l'articolo 79 sull'amnistia e l'indulto, prevedendo una maggioranza di due terzi dei componenti. All'avvio della stagione di tangentopoli fu un forte segnale contrario a clemenze facili e «politiche». Il percorso è impervio. Ma proprio per questo è singolare l'uscita dei ministri Cancellieri e Mauro. Sanno che una simile maggioranza di fatto non esiste nei numeri parlamentari. Sanno che il maggior partito che sostiene l'esecutivo è contrario. Sanno che Letta cerca disperatamente di separare le sorti del governo da quella personale di Berlusconi. Come è possibile allora che sponsorizzino l'amnistia, quasi manifestassero la propria opinione in un seminario di politologi? È un siluro dall'interno? È una presa d'atto che la barca fa acqua? È una captatio benevolentiae a futura memoria? Fra i tanti sintomi di salute precaria di un governo nato in provetta, questo non è da poco.

Ieri su queste pagine Andrea Fabozzi ha sostenuto che l'occasione è da cogliere, per la necessità impellente di ridare condizioni umane alle carceri, e perché - riguardando comunque molti - sarebbe un male minore e fatto alla luce del sole rispetto a strappi più gravi o occulti fatti nel solo nome di Berlusconi. Un'opinione che non condivido. Anzitutto, ridare umanità alle carceri attraverso la sola clemenza è illusorio. Per avere risposte durature è necessaria una strategia integrata che contemperi una tutela incisiva della legalità con adeguate risorse per una vita dignitosa nelle carceri, il recupero, il reinserimento, il contrasto preventivo al bisogno, il rafforzamento degli strumenti di crescita civile, di coesione sociale, di solidarietà. Di una simile strategia nemmeno si parla in queste ore, e mancherebbero le risorse se si volesse metterla in campo. Mentre l'esperienza dimostra che, se manca, gli effetti della clemenza sono effimeri, e il sovraffollamento si riproduce in breve. Una percentuale elevata di chi esce dal carcere vi rientra, e non è certo un caso che tornino dentro gli emarginati e i poveracci piuttosto che i colletti bianchi. L'effetto ultimo è che la clemenza è letta dalla pubblica opinione come debolezza dello stato ed evanescenza della legalità, dagli apparati volti alla repressione dei reati come prova di inutilità del proprio impegno, e da chi esce dal carcere per poi rientrarvi come illusione e inganno. Lo strappo è sostanzialmente inutile, oltre che grave. Vi sono paesi che puntano sul carcere. A quanto si sa, la popolazione carceraria degli Stati uniti supera i due milioni - in proporzione, molte volte quella italiana. La Cina segue a qualche distanza. Ma anche paesi europei, ad esempio la Gran Bretagna, registrano cifre superiori a quelle italiane. C'è un ampio dibattito sull'efficacia di simili strategie. Si discute del giusto rapporto tra repressione carceraria, tutela della legalità, lotta alla povertà, al bisogno, all'ignoranza. Ma non è civile un paese - il nostro - in cui non si valuta affatto un corretto bilanciamento di interessi, e non si mettono in campo politiche mirate a risposte strutturali. E non è di sinistra l'ipotesi che - nell'inerzia complessiva - si giunga a una amnistia berlusconiana. Non basta l'argomento che almeno avremmo un provvedimento in chiave di eguaglianza. Sappiamo tutti che l'amnistia si concederebbe solo perché Berlusconi la pretende, e non per tutte le altre ragioni che potrebbero sostenerla. Nella realtà della politica sarebbe una concessione a lui, un riconoscimento delle sue ragioni, un sostanziale avallo dell'assurda tesi della persecuzione giudiziaria. In questo la gravità dello strappo, non minore degli altri perché ugualmente connotato dall'uso del poteri pubblici per le ragioni di uno. Un'essenza di arbitrio sotto l'apparenza di norma generale e astratta.

Da quasi vent'anni Berlusconi schianta la giustizia sugli scogli dei propri guai giudiziari, e divide il paese. È giunta l'ora di finirla. Crisi o non crisi, non si può pagare qualunque prezzo per puntellare un governo. Indigna che la destra richiami l'amnistia di Togliatti del 1946, quando oggi chiede l'indulgenza plenaria per un moderno satrapo. Ma possiamo consolarci. Per l'articolo 14, il decreto di amnistia del 22 giugno 1946, n. 4 «non concerne i reati finanziari e non ha effetto ai fini dell'applicazione delle leggi sulla avocazione dei profitti di regime». Abbiamo la ragionevole certezza che per Berlusconi evasore fiscale Togliatti avrebbe gettato via la chiave.

Al di là del bene e del male, del ragionevole e del folle, del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e dl disonesto – al di là ( al di sotto) –dell’immaginabile i tentativi di corruzione collettiva in atto per portare sugli altari un ladro di beni pubblici. Se questa è l’Italia…

La Repubblica, 24 agosto 2013

MAI registrata a memoria d’uomo cotanta sensibilità umanitaria della destra italiana di fronte alla piaga del sovraffollamento nelle carceri. Nel novembre 2002 non bastò l’appello rivolto da Giovanni Paolo II davanti alle Camere riunite per convincere il governo Berlusconi a promulgare un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Né si ricordano pressioni in tal senso dai cattolicissimi ciellini riuniti a Rimini, dove quest’anno scrosciano applausi per i ministri Mauro e Cancellieri fautori di un provvedimento d’amnistia.

Per la verità un indulto fu poi approvato nel luglio 2006 su iniziativa del governo Prodi, che ne pagò per intero il prezzo d’impopolarità, anche perché la destra, per votarlo, ne impose l’estensione a reati per cui era sotto processo, guarda un po’, Silvio Berlusconi. Il quale, ritornato alla guida del Paese, introdusse nuovi reati (come quello di clandestinità) e aggravi di pena, che contribuirono in maniera determinante all’abuso della custodia cautelare e al sovraffollamento incivile delle nostre carceri. Fino alla condanna della Corte di giustizia europea; del tutto ignorata dai forcaioli che oggi si riscoprono estimatori di Pannella, pronti a firmarne i referendum e a garantire una corsia preferenziale per l’amnistia che esimerebbe il loro leader dall’anno di detenzione cui è stato definitivamente condannato.

Avvertiamo quindi una speciale viltà in quest’ultima, ennesima trovata che mira a trasformare un atto di clemenza – per sua natura rivolto a mitigare la pena di una moltitudine di persone colpevoli ma derelitte, precipitate all’ultimo gradino della scala sociale – in ossequio alla prepotenza di un oligarca che vorrebbe imporsi al di sopra e al di fuori dello stato di diritto. Il ministro Lupi ora smentisce che sia all’ordine del giorno del governo una tale oscena strumentalizzazione della vergogna in cui versano le carceri: deve essersi reso conto che il “no” secco del Pd rende impossibile una maggioranza parlamentare favorevole a un’amnistia ad personam.

Ma nel frattempo è stato davvero imbarazzante udire le voci di tanti forcaioli del Pdl salutare con favore l’improvvida proposta della ministra della Giustizia e del ministro della Difesa.Quest’ultimo, Mario Mauro, giunge a definire impossibile una riforma della giustizia, nel senso della malintesa pacificazione, «senza un gesto di clemenza, cioè l’amnistia». Così Mauro la missione dell’esecutivo di larghe intese si estenderebbe fino a trasformarlo in governo di “riconciliazione nazionale”. Già in passato, senza esito alcuno, fu prospettata una soluzione politica di vicende drammatiche che avevano gravemente colpito la comunità nazionale: se ne parlò per il terrorismo politico degli anni Settanta e per la Tangentopoli degli anni Novanta. In entrambi quei casi si trattava di affrontare piaghe dolorose, lutti e ladrocini, che avevano però a che fare con comportamenti devianti di natura collettiva, purtroppo assai diffusi nella nostra società. Alla fine la soluzione politica risultò improponibile perché cozzava con le regole fondamentali dello stato di diritto.

Ma è davvero singolare che Mauro non si renda conto della differenza sostanziale fra quelle devianze estese e il caso eminentemente personale, individuale, con cui si misurano oggi la giustizia e la politica: la responsabilità penale di un singolo cittadino, per quanto potente e prepotente egli sia.

Stiamo trattando il caso di un oligarca che frodando il fisco ha sottratto centinaia di milioni all’erario pubblico e danneggiato gli altri azionisti della sua stessa azienda. La propaganda cui si assoggettano i fautori della soluzione politica tende a presentare come vittima un uomo di governo che – per arricchirsi e costituire riserve di denaro all’estero – ha recato danno allo Stato che si era impegnato a servire.

Si prova imbarazzo a elencare – prima dell’amnistia ad personam

– gli altri innumerevoli sotterfugi escogitati giorno dopo giorno per sottrarre Berlusconi alla condanna inappellabile comminatagli il 1° agosto scorso. La richiesta di una grazia presidenziale. La commutazione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. La pretesa superiorità del Parlamento rispetto a una sentenza definitiva della Cassazione. La richiesta sovversiva di mantenere capo politico della lista elettorale, ai sensi della legge Calderoli, un cittadino privato dei diritti politici. La non retroattività della decadenza automatica dai pubblici uffici del parlamentare condannato, sancita meno di un anno fa dalla legge Severino. E infine, più beffardo che mai, il dubbio di costituzionalità adombrato sulla medesima legge Severino che pure il Pdl aveva votato in Parlamento senza alcuna obiezione. Ha proprio ragione Cirino Pomicino: ce ne sarebbe abbastanza perché Berlusconi licenzi gli avvocati che paga profumatamente e che per giunta ha fatto eleggere in Parlamento, se solo ora scoprono di aver votato una legge anti-corruzione incostituzionale!

La contraddittoria, grottesca sequela di escamotage dalla vita breve con cui il Pdl cerca di mascherare la pretesa dell’impunità per Berlusconi, comprova la natura eversiva della sua leadership e non trova appigli nelle regole dello stato di diritto. Al massimo riusciranno a strappare ancora qualche settimana di dilazione prima che la pena diventi esecutiva e comporti la decadenza dell’evasore fiscale dal suo incarico pubblico.

Ma certo la strumentalizzazione del dramma delle carceri, con la proposta di amnistia, appare, fra tutte, la più detestabile delle furbizie. Maldestra, perché l’approvazione di una legge di amnistia richiede tempi lunghi. Odiosa, perché abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito.

La parola "crisi" è diventata l'alibi per proseguire ad infinitum ciò che è, ed è marcio. Per uscirne c'è un passo obbligato: la Costituzione e le forze che la difendono devono affrontare il nodo della legge elettoraleUn appello per una proposta di legge d'iniziativa popolare.

Il manifesto, 24 agosto 2013

La nostra vita politica, come la nostra quotidianità, sono da tempo dominate da un termine, crisi , che ne determina l'auto-rappresentazione simbolica, l'azione politica e ogni prassi di mutamento. Il termine ha perso uno dei significati originari, ossia "stato di tensione verso un nuovo equilibrio" per imporsi solo nell'accezione di "stato di sofferenza" e quindi di negazione di ogni progettazione del futuro. Se viviamo politicamente, dentro e fuori di noi, la crisi come inarrestabile e necessario declino e quindi come impossibile cambiamento, siamo ben dentro quella condizione moderna di cui parla Hannah Arendt, la condizione di de-realizzazione, l'incapacità, cioè, di conoscere e aderire alla vita reale e alla vita delle emozioni legate alla volontà di cambiamento e quindi permanendo in una sorta di assoggettamento al potere presente. Forse a descrivere le ultime vicende italiane possono essere paradossalmente delle considerazioni elaborate nel Cinquecento in un libello, Il discorso sulla servitù volontaria , da un giovane magistrato francese, Etienne de La Boétie: «Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo [....]come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Oserebbe attaccarvi se voi stessi non foste d'accordo?». Visto che sono parole scritte da un magistrato, la tentazione di attualizzare questo passaggio e vedervi il ritratto anticipato di Berlusconi è grande. Non voglio cedere a questa banalizzante attualizzazione e voglio invece appuntare l'attenzione su questo "voi", su questo soggetto politico collettivo che crea e accresce il potere dell'uno e agisce in sua vece. E' esattamente quello che sta accadendo nelle scelte politiche del Pd da molti anni, ma adesso con un'accelerazione degna di nota poiché sta mostrando una sorta di volontà di perpetuare il potere carismatico dell'Uno anche al di là del suo effettivo potere. Come interpretare diversamente l'intervista di Luciano Violante Corriere della sera (10 agosto), dove delinea gli impegni futuri del governo che al di là degli interventi economici dovrebbe varare una nuova legge elettorale e immediatamente dopo la riforma dell'articolo 138 della Costituzione «poiché la vera stabilità può venire soltanto da una riforma costituzionale». Pensare di legare la nuova legge elettorale e la riforma della Costituzione a questo scenario delle precarie "larghe intese", che riescono a portare avanti solo le compatibilità di bilancio e quelle priorità finanziarie discendenti dall'agenda Monti e dai diktat della Ue e del Fmi, significa non avere della democrazia la stessa idea di chi si professa di sinistra. E soprattutto significa dare una legittimità a farlo a chi in più occasione questa stessa carta Costituzionale ha disprezzato e tacciato di parzialità e di stalinismo. Ma si sa gli italiani hanno la memoria corta e facilmente dimenticano chi li offende, lo aveva già detto Machiavelli a proposito del popolo nei confronti del Principe.

Ma il popolo quando si fa non volgo ma cittadino, e cittadino di una repubblica fondata sul lavoro è capace di sottrarsi a questo rapporto di servitù come fascinazione dell'Uno e ritrovare un'idea forte di democrazia come costruzione e rischio della libertà. Rischio perché la libertà è pratica quotidiana di cambiamento, è appunto crisi , come mutamento, a cui non è assicurato il risultato se non dalla capacità di farsi "maggioranza". Rischio perché, come sta avvenendo in una serie di iniziative spontanee sorte a difesa della Costituzione, quanti si stanno coinvolgendo nell'organizzazione di un'assemblea da tenersi il 5 ottobre a Roma su questi temi - dall'iniziativa di Rodotà, Maurizio Landini e Gustavo Zagrebelsky, ai firmatari dell'appello promosso dal Fatto , alle associazioni come "Viva la Costituzione", ai cattolici dei "Comitati Dossetti" per finire con il coinvolgimento di Azione Civile - lo stanno facendo rischiando in prima persona, al di fuori dei luoghi deputati della politica, portando avanti una volontà di rinunciare a soggettività politiche escludenti, a steccati d'appartenenza rigidi. Almeno questo dovrebbe essere lo spirito generale, pena la riedizione della fallimentare lista di Rivoluzione civile e della sinistra radicale alle scorse elezioni. E qui in poche battute vorrei delineare il problema del rapporto tra movimenti e organizzazioni che siano forme maggiormente strutturate rispetto alle forme della politica che stanno agendo nel tessuto civile italiano. Il rischio che quest'iniziativa sulla difesa della Costituzione coinvolga uno strato d'intellettuali o di scontenti della politica del Pd ma resti senza peso sul mondo dei movimenti, delle associazioni, si può evitare quando si sappia delineare un collegamento tra diritti costituzionalmente tutelati e tutte quelle forme di resistenza e riappropriazione del territorio, dei beni comuni, del diritto alla conoscenza o di rifiuto del debito che innervano la vita civile in Italia.
Resta, ineludibile, il nodo della legge elettorale. Per alcuni strategico, per altri, soprattutto nei movimenti, meramente tattico. Ma un nodo che andrebbe comunque affrontato e risolto se vogliamo uscire realmente dalla servitù ad un esecutivo che governa grazie alla continua minaccia della mancanza di alternative politiche. E allora perché non cercare un minimo comune denominatore tra le forze che stanno lavorando alla difesa della Carta costituzionale proprio sull'iniziativa di raccogliere 50.000 firme per la presentazione in Parlamento, tramite Sel o il M5S, di un disegno di legge d'iniziativa popolare su una legge elettorale, di pochi articoli, che abbia come obiettivo primario non solo la governabilità ma la rappresentatività della società italiana dentro il momento della delega di sovranità.
Un'intervista a FareedZakaria: L’Occidente e l’Islam vent’anni dopo Huntington. Il tragico “dirottamento” delle primavere arabe, le illusioni soffocate nel sangue al Cairo ebbero un profeta visionario vent’anni fa?

La Repubblica, 23 agosto 2013. Con postilla

Samuel Huntington, il grande studioso americano di scienze politiche e relazioni internazionali scomparso nel 2008, pubblicò nell’estate del 1993 un saggio destinato ad essere esaltato, strumentalizzato, incompreso, vituperato. Poche opere negli ultimi decenni hanno avuto l’impatto de Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (pubblicato in Italia da Garzanti). Spesso ignorando la raffinatezza e la complessità della sua analisi, molti se ne sono impadroniti senza averlo veramente letto: è il destino dei veri classici, da Machiavelli a Marx. Huntington, forse pentito di aver lasciato cadere il punto interrogativo del suo titolo iniziale, tentò di difendersi dai manipolatori: fino all’ultima intervista che mi rilasciò poco prima della sua morte, si definiva caparbiamente un conservatore senza il prefisso “neo” davanti, per distanziarsi così dalle avventure militari con cui l’Amministrazione Bush s’illuse di ridisegnare gli equilibri geostrategici del Medio Oriente.

Ma oggi, proprio mentre il suo saggio più celebre compie vent’anni, c’è chi vede nella tragedia egiziana una conferma che è impossibile “trapiantare” frettolosamente le regole della liberaldemocrazia in quel contesto. È quel che pensano i fautori della realpolitik, compreso il governo d’Israele, quando suggeriscono all’America di rassegnarsi alla dittatura militare in Egitto. Ne parlo con Fareed Zakaria, l’allievo che pubblicò Huntington, diventato a sua volta una star del dibattito geopolitico negli Stati Uniti, oggi come editorialista di Time e della Cnn.

Lei era un giovanissimo direttore della prestigiosa rivista Foreign Affairs,quando decise nel 1993 di pubblicare l’articolo di Huntington sullo “scontro delle civiltà”, lo spunto iniziale di quello che poi divenne il libro. Lei che ne era stato allievo a Harvard, come ricorda Huntington?
«Era una strana mescolanza di contrasti. Era timido e formale nei modi, eppure si ritrovò circondato da una comunità di studenti e amici molto leali. Di persona era esitante, impacciato, ma la sua prosa esprimeva idee forti e controverse. Fu il mio maestro, e alla fine un amico. Che io condividessi o meno le sue analisi, ho imparato più da lui che da qualunque altro studioso incontrato nella mia vita. Aveva una grande disciplina. Ogni mattina della sua vita la dedicò a lavorare ai suoi grandi progetti di ricerca; solo quando aveva finito quella parte si rivolgeva all’insegnamento o altri impegni. Perciò fu capace di sfornare un’opera monumentale ogni cinque o sette anni. Si concentrava sui grandi temi, non perdeva tempo con i dettagli».

Lo scontro delle civiltà ebbe un grande impatto già negli anni Novanta, ma fu ancora più influente dopo l’11 settembre 2001. Oggi lei lo considera preveggente sul conflitto tra l’Occidente e il fondamentalismo islamico?
«Ricordo che nella versione iniziale, che lui mi mandò mentre finivo il mio dottorato di ricerca e stavo per andare a dirigere Foreign Affairs, c’era un punto interrogativo in quel titolo. Appena uscì la rivista con quel saggio in apertura, divenne un caso mondiale. Sì, per molti aspetti fu preveggente. Ciò che Sam capì meglio di chiunque altro fu questo: con la fine della Guerra Fredda le ideologie perdevano il loro potere di mobilitare i popoli, e qualcos’altro le avrebbe sostituite. Lui anticipò che questo qualcos’altro sarebbe stato un senso di identità culturale, basato soprattutto sulla religione. E questo avrebbe messo particolarmente la civiltà islamica in conflitto con l’Occidente. Si possono contestare le specifiche conseguenze politiche che furono derivate da questa analisi, ma il nucleo centrale è vero ed è importante ».

Nel suo saggio Huntington citava molte altre civiltà, non solo l’Occidente e l’Islam, che oggi concentrano l’attenzione.
«La sua analisi aveva due tipi di difetti. Primo: Huntington sottovalutò la potenza della modernizzazione, che ha diluito molte di quelle identità culturali. I nazionalisti cinesi o russi sono opposti all’Occidente, ma all’interno dei loro Paesi ci sono forze che si mescolano con l’Occidente. L’Islam è la più forte civiltà in cui molti elementi sono a disagio nella modernità definita dall’Occidente. Questo non esclude che nascano problemi con altre culture, penso per esempio al caso del nazionalismo turco sempre più intrattabile. Ma parlare di scontro di civiltà per descrivere queste tensioni è eccessivo. Il secondo difetto nell’analisi di Huntington è che sembra dimenticare chi sono gli attori primari nelle relazioni internazionali: sono gli stati, non le civiltà. E gli stati agiscono sulla base di interessi nazionali, che talvolta coincidono con le culture ma spesso no».

Nonostante questi limiti, la sua analisi resta rilevante oggi?
«Sì, possiamo imparare molto usando le sue intuizioni centrali: il senso d’identità si sta rafforzando, e sull’identità (a differenza che sugli interessi economici) è difficile accorciare le distanze o raggiungere compromessi. Non puoi diventare metà musulmano e metà ebreo. Nel mondo arabo, al posto delle tradizionali rivalità nazionali, abbiamo gli arabi contro i persiani, i sunniti contro gli sciiti. Questo non coincide esattamente con le previsioni di Sam, ma corrisponde alle sue intuizioni».

Che dire delle conclusioni che Huntington traeva in termini politici, sull’interazione fra l’Occidente e gli altri?
«È il punto su cui fu spesso incompreso. La sua ricetta diceva che l’Occidente dovrebbe avviare un dialogo con le altre culture, cercare terreni d’intesa, cooperare per un mondo multipolare più stabile. Era orgoglioso della cultura occidentale, credeva nelle sue grandi virtù, ma non era un guerriero dei valori culturali. Voleva trovare la strada verso il rispetto reciproco, la tolleranza, l’armonia nelle relazioni internazionali. Non una resa, ma un dialogo e un confronto ».

Dopo le primavere arabe e i loro tragici sviluppi, cosa dovremmo concludere sulla relazione tra valori universali (diritti umani, libertà, democrazia) e specifiche culture come quelle islamiche?
«Molte componenti delle culture islamiche sono a disagio nella modernità che l’Occidente ha creato. Questa può sembrare un’affermazione eccessiva visto che la più grande nazione musulmana, l’Indonesia, è molto moderna. E l’India con i suoi 150 milioni di musulmani è democratica e tollerante. Ma siamo realisti, ci sono elementi nell’Islam e soprattutto nel mondo arabo che considerano inconciliabili con la loro religione il rispetto delle altre fedi, i diritti delle donne, il pluralismo. Anche quando non sono la maggioranza a pensarla così, tuttavia hanno un seguito di massa. Finché le società islamiche non si conciliano con alcuni ingredienti basilari della modernità, come la tolleranza verso le altre religioni e l’eguaglianza di diritti per le donne, ci sarà una tensione fra loro e l’Occidente. Ma poiché quelle società sono divise anche al loro interno, questo significa che le tensioni da sciogliere sono dentro di loro, e forse più gravi».

Quel che accade oggi in Egitto convalida la visione di Huntington, o al contrario dietro il colpo di Stato militare e la repressione dei Fratelli musulmani c’è un pezzo di quella società che continua a credere in un ideale democratico universale?
«L’Egitto illustra proprio quella coesistenza di due correnti, la moderna e l’anti-moderna. Quel conflitto va risolto perché l’Egitto possa andare avanti. Da fuori, possiamo fare poco per influenzare lo scontro al suo interno. L’esistenza di quella spaccatura in qualche modo rende giustizia alle teorie di Huntington, sia pure con un paradosso. Lui vedeva l’Islam, erroneamente, come un monolito. Non capì che lo scontro di civiltà avviene dentro quella grande civiltà. E tuttavia quel che resta valido vent’anni dopo il suo saggio sono le grandi forze che lui descriveva in azione: la religione, l’identità, la cultura, e le loro influenze congiunte sulle varie civiltà ».
Postilla

Postilla
Forse un altro errore di Huntington è stato non aver compreso che c’era una nuova religione emergente e pronta a devenire vincente: quella del Denaro, il cui profeta è il Mercato.

Insisto: conviene in questo momento, anzi bisogna, tenere ben separate la sfera dell'applicazione e difesa della legalità repubblicana dalla sfera delle opportunità politiche, vulgo sopravvivenza o meno del "governo delle larghe intese". Le due sfere non sono reciprocamente comunicanti: chi lavora per metterle in relazione, bilanciare, equilibrare, spossare, depotenziare, lavora per il Re di Prussia, ossia contro l'Italia.

La prima sfera viene oggi decisamente al primo posto, sia cronologicamente che logicamente, e va affrontata e risolta nella propria assoluta autonomia di competenze e di giudizio. Anche qui possono esserci, e di fatto ci sono, contrapposizioni e abili sfumature di giudizio, forse più pericolose delle prime. Tutto dipende dalla valutazione etico-politica che ognuno dà dei fenomeni che sono alla base dell'attuale dibattito. Noi ci sentiamo profondamente diversi (davvero un'altra Italia) da coloro che per anni non hanno imparato a considerare Berlusconi e il berlusconismo come un vero e proprio cancro che ha divorato in Italia le basi del diritto, la funzione e le prerogative della giustizia, la base morale del far politica, e ha avallato in ogni campo le strategie dell'avventurismo e del privatismo più sfrenato.

Se si vuole salvare la salute futura di un sistema di valori, democratico, repubblicano, costituzionale, messo in piedi dal sacrificio dei nostri padri, occorre mettere un punto fermo: anzi, dico io, il punto fermo.

Per ottenere questo, oltre tutto, la strada è assai semplice: basta che ognuno faccia la sua parte, nella distribuzione dei ruoli che l'assetto istituzionale prevede: assicurare la decadenza; sanzionare la ineleggibilità; nessuna grazia a posteriori, neanche di tipo semplicemente risarcitorio o consolatorio; garantire l'esecuzione della pena nelle forme previste dalla legge. E, per favore, ci sia risparmiata almeno questa volta la farsa penosa di un ricorso dilatorio (infondato e inutile) alla Consulta, che svelerebbe, forse ancor più drasticamente di quanto non farebbe una qualche forma di "assoluzione", di quale pasta sia fatto il cosiddetto tessuto politico italiano.

Dopo aver detto "sì" per vent'anni o, ancor più frequentemente, "nì", - vero simbolo del malcostume nazionale, - si decida per favore di dire con chiarezza "no": non si può discutere; non si può accettare; non si può fare. L'"agibilità politica" è una nozione che lo Stato di diritto ignora. Infatti: o c'è, perché le condizioni, giuridiche e politiche dell'interessato, la consentono; o, se le condizioni, giuridiche e politiche dell'interessato, non la consentono, non c'è. Non può essere reinventata a posteriori, sulla base del principio, in ogni caso molto dubbio, che il consenso popolare sottrae al controllo e ai rigori della legge.

Un'Italia in risalita, non solo nei mercati e nello spread, ma come tono pubblico generale, civiltà del confronto, libertà del pensiero e, se mi è consentita la parola forte, dignità nazionale (troppe volte evocata solo per lasciarla trascinare nel fango), può partire solo dal punto fermo che ipotizziamo. L'occasione ce l'ha offerta anche questa volta la magistratura; ma spetta ai politici e alle istituzioni di portarla rapidamente fino in fondo.

Non sarà facile, anche restando dentro i limiti rigorosamente fissati dalla "semplice" applicazione delle leggi (come io ipotizzo). Siccome la battaglia è decisiva, - e questo lo sa bene anche il principale protagonista della faccenda, - tutti i mezzi verranno usati, dal rovesciamento dell'attuale governo (esempio supremo di confusione delle sfere) a intraprese anche più dure. Sotto la scorza mediatico-plutocratica emergerà più chiaramente in questa fase finale il caudillo potenzialmente eversore. Verrà evocata senza mezzi termini la guerra civile; ne saranno messe in opera concretamente le premesse, magari attraverso l'alleanza con altre forse eversive incistate ormai da anni nel degradato sistema italiano.

Per fare fronte allo scarto d'irrazionale che s'introduce qualche volta e poi permane a tratti nella storia, l'esperienza insegna che l'unico strumento adatto alla bisogna, - si pensi al Novecento, - è l'assoluta fermezza: l'eloquente dimostrazione, fin dal primo momento, fin dalle prime battute, che l'eversione, il rovesciamento delle parti, lo stupido arrangiamento, il compromesso che posticipa al passaggio successivo l'inevitabile catastrofe, non hanno neanche una minima possibilità di fare il primo passo avanti.

Ci si aspetta perciò che, all'adozione della linea giusta, - il rispetto e la difesa della legalità repubblicana a tutti i costi, - segua al tempo stesso tutta la fermezza necessaria a portarla fino in fondo (anni fa evocai i carabinieri come forza utile/necessaria a render efficacemente praticabile lo scioglimento positivo di una situazione del genere, e fui subissato dalle indignate reazioni dei media: chissà se mi accadrebbe la medesima cosa, se ripetessi oggi il suggerimento e l'appello, in presenza delle occasioni di cui stiamo parlando).

Se il processo, andando per questo verso, producesse tutte le sue possibili conseguenze, forse uno spiraglio di luce si aprirebbe nell'annuvolato, anzi torbido e tempestoso cielo italiano. Che dire del possibile ritrovamento, imboccando questa strada, nel nostro paese di una prospettiva politico-istituzionale, in cui le forze politiche rappresentassero limpidamente grandi interessi sociali collettivi, diversi e/o contrapposti, e non quelli, privatistici e assolutistici, e per giunta le innominabili magagne, di un Capo proprietario?

L'Italia ne ha passate tante, uscendone ogni volta solo quando ha ritrovato le ragioni profonde, autentiche, del proprio essere nazione civile, coesa intorno all'unico verbo che fa unione: l'onestà dei propositi, dei comportamenti e degli obbiettivi. Prima di parlar d'altro, parliamo di questo. Questo è il punto.

Razzisti: con la giacca blu e la cravatta a pois, ma comunque razzisti. Al governo, con centro e sinistra. (s)parlando a un meeting di cattolici con la patente CL. C'est l'Italie! L

a Repubblica, 23 agosto 2013, con postilla

Ieri al meeting di Rimini il vice-presidente del Consiglio, Angelino Alfano, ha proposto di far pagare vitto e alloggio dei detenuti stranieri ai paesi da dove provengono gli immigrati. Ci sono quasi 25.000 detenuti stranieri nelle carceri italiane. Non pochi di questi si trovano in questa condizione per il solo fatto di essere entrati illegalmente nel nostro paese, grazie al reato di immigrazione clandestina introdotto da un governo di cui Alfano faceva parte. Quasi tutti questi detenuti sono in carcerazione preventiva, messi in prigione senza quel “giusto processo” che oggi il vice-presidente del Consiglio torna nuovamente ad invocare per chi è già passato attraverso ben tre gradi di giudizio. Solo uno straniero su dieci può accedere a quelle forme alternative alla detenzione che oggi Alfano vorrebbe per altri conciliare addirittura con la presenza in Parlamento. Come pensa il ministro di farsi liquidare i quasi 250 milioni che sarebbero richiesti per pagare vitto e alloggio per un anno ai più di 12.000 detenuti africani presenti nelle nostre prigioni? A chi chiederà Alfano questi soldi in Egitto? E nei paesi dell’Africa sub-sahariana dove il reddito pro-capite è di circa un euro al giorno contro i 50 del costo medio della detenzione in Italia? Vuol far morire di fame questi detenuti per riportarli alle condizioni dei paesi d’origine? Oppure vuole abbassare ulteriormente il salario dei secondini? E perché al “meeting dell’amicizia” nessuno ha avuto alcunché da ridire su questa proposta?

Dopo aver per mesi insultato il ministro Kyenge, nei giorni scorsi la Lega ha deciso di promuovere un referendum per abolire il ministero dell’Integrazione. In verità la Lega ha da anni agito consapevolmente per abolire l’integrazione degli immigrati. Il linguaggio cruento, il terrore sparso tra la popolazione autoctona, le leggi promulgate quando era al governo hanno un comune denominatore: impedire una qualsiasi forma di integrazione. Bene ricordarsi di quando l’allora ministro degli Interni Maroni, in compagnia del ministro della Difesa La Russa, preconizzava sbarchi biblici dal Nordafrica, con due milioni e mezzo di lavoratori stranieri pronti a sbarcare dalla sola Libia. Ci sarebbero voluti almeno 12.500 barconi (quando oggi l’intera Marina militare italiana non dispone di più di 50 navi), con 200 persone a bordo ciascuna, roba da rendere il canale di Sicilia più ingolfato del grande raccordo anulare nelle ore di punta. A cosa serviva sparare cifre alla cieca, prive di qualsiasi riscontro con la realtà, se non a mobilitare gli italiani contro le legioni straniere? Bene ricordare che da allora sono sbarcate in Italia in più di tre anni circa 60.000 persone, molte delle quali sono poi emigrate altrove o tornate in patria.

La legge Bossi-Fini, che oggi Lega e Pdl difendono strenuamente, non impedisce certo l’immigrazione clandestina, ma sembra fatta apposta per far permanere illegalmente decine di migliaia di immigrati nel nostro Paese, una condizione spesso contigua al coinvolgimento in attività criminali, mentre gli immigrati regolari hanno tassi di criminalità in linea con quelli della popolazione italiana. La riduzione della criminalità e della popolazione carceraria straniera (dunque dei costi della detenzione a carico del contribuente) passano proprio attraverso la regolarizzazione.

Uno studio condotto dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb.o rg) mostra che coloro che si sono visti rifiutare la domanda di regolarizzazione nel “click day” del 2007 solo perché sono riusciti ad accedere al sito del ministero degli Interni pochi secondi dopo le 8 e 29 (a Milano) o le 8 e 10 (a Napoli) hanno tra il doppio e il triplo della probabilità di commettere reati gravi nell’anno successivo rispetto a coloro

che si sono visti accettare la domanda. Sono da noi e non possono lavorare. Di qualcosa dovranno pur vivere… L’integrazione è quindi fondamentale per gestire meglio l’immigrazione, per renderla non solo economicamente (lo è già, dato che contribuisce a più del 10% del nostro reddito naziona-le), ma anche socialmente sostenibile. Da quando è iniziata la crisi, i flussi in entrata, gli arrivi di immigrati, sono fortemente diminuiti (attorno al 10 per cento in meno all’anno) e quelli in uscita sono aumentati (quasi +20% nel 2012). Per questo oggi è fondamentale concentrarsi sull’integrazione di chi è già da noi. Non è detto che sia necessario un ministero dell’integrazione, soprattutto se privo di risorse e di poteri come quello creato con un forte connotato simbolico dal governo Letta. Più che un ministero serve una politica dell’integrazione. Dovrebbe reggersi sulla concessione di permessi di soggiorno a tempo indeterminato (al posto dei permessi tutti a breve termine della Bossi-Fini) per i minori stranieri (anche di irregolari) e per tutti quegli immigrati che hanno mostrato di volersi integrare. Servirà anche ad attrarre immigrati che investono nell’integrazione, dunque nel nostro Paese. Dovrebbe questa politica anche favorire in tutti i modi l’accesso all’istruzione da parte degli immigrati di seconda generazione, senza richiedere in alcun modo l’esibizione del permesso di soggiorno da parte del minore o del suo genitore. Dovrebbe anche permettere allo straniero legalmente soggiornante l’accesso a posizioni nella pubblica amministrazione al pari dei cittadini italiani, quando oggi invece gli immigrati di seconda generazione non possono partecipare ai concorsi pubblici. A proposito, perché il ministro Kyenge non ha detto nulla quando paradossalmente il disegno di legge europea varato dal suo governo ha, per un errore materiale, finito per escludere dall’accesso al pubblico impiego molti immigrati legalmente soggiornanti in Italia o che hanno acquisito titoli di studio da noi? Infine, bisognerebbe rimuovere una serie di ostacoli burocratici all’acquisizione della cittadinanza, ad esempio assimilando a questi fini gli anni di residenza legale a quelli di iscrizione all’anagrafe. È possibile farlo anche agendo sui soli provvedimenti attuativi. Non c’è bisogno di grandi proclami e di nuove leggi con il loro inevitabile strascico di demagogia e di polemiche, alla ricerca di un qualche dividendo elettorale.
Postilla
Postilla
D’accordo. Ma forse bisognerebbe intendersi su che cosa significa “integrazione”: Significa
italianizzare che viene da altre culture, oppure rendere l’Italia un paese nel quale molte culture convivono e si arricchiscono contaminandosi?. Io propendo per la seconda concezione. Forse perché sono napoletano e so che la storia del mio popolo è stata quella della contaminazione; e forse perché so che la grandezza degli USA non è nata dall’aver fatto diventare olandesi o svedesi gli immigrati calabresi veneti britannici francesi kenioti cinesi…

«Il primo problema è che questa sinistra non vuole prendere atto dei propri errori strategici: non è un caso che l'Italia sia praticamente l'unico tra i grandi paesi europei che non abbia in parlamento una formazione che rappresenti l'ampio popolo della sinistra».

Il manifesto, 22 agosto 2013

Le elezioni, italiane ed europee, si avvicinano e l'ampio popolo italiano di sinistra vorrebbe essere rappresentato nelle maggiori istituzioni ma manca un soggetto politico delle diverse anime a sinistra del Pd. C'è un estremo bisogno di una formazione unitaria di sinistra , contro i governi delle larghe intese e le politiche di austerità. Capace di orientare la disperazione sociale e la protesta di milioni di elettori e fare davvero un'opposizione efficace per candidarsi alla guida del paese. Non sarà facile costruire il nuovo soggetto politico ma occorre l'ottimismo della volontà. Purtroppo è molto difficile che il ceto politico attuale della sinistra cosiddetta radicale e alternativa abbia la volontà e la capacità di costruire una formazione aperta, plurale ma sufficientemente coesa per cambiare il corso della politica italiana (pessimismo della ragione). I dirigenti delle formazioni della sinistra alternativa - Sinistra Ecologia e Libertà, Rifondazione Comunista, i Verdi, i sindaci arancioni, quelli della lista Ingroia, ecc - appaiono troppo spesso carenti di una visione politica di ampio respiro, quasi sempre autoreferenziali, minoritari, e alla fine inconcludenti o scarsamente influenti.

Troppo spesso appaiono agli occhi della gente comune come politici di professione che difendono il loro orticello e la loro fettina di potere (istituzionale, accademico, sindacale o di qualsiasi altra natura). La sinistra a sinistra del Pd è scioccamente divisa, e soprattutto lontana dalle esigenze e dai movimenti popolari che, nella crisi, si radicalizzano e cercano interlocutori affidabili per le loro istanze di cambiamento. Ma non vedono ancora nuovi leader per la trasformazione sociale.

Che lo spazio a sinistra sia potenzialmente enorme lo dimostra il grande successo di Beppe Grillo. Beppe Grillo ha conquistato alle ultime elezioni quasi 9 milioni di voti; nonostante la sua ideologia estremista di democrazia diretta contro tutti i partiti, l'80% del suo programma è compatibile con quello di una sinistra radicale, a partire dalla difesa della Costituzione contro il presidenzialismo, dal reddito minimo garantito, dalla lotta contro il regime berlusconiano, contro gli F35 e la corruzione dilagante. Perché Grillo è riuscito a costruire un'opposizione potente e radicale e la sinistra cosiddetta alternativa invece no?

Grillo ha perso un'occasione storica rifiutando un nuovo governo con Bersani e il Pd. Poteva svoltare e formare un governo di cambiamento ma ha deciso invece di rifiutare ogni alleanza e ha favorito oggettivamente Berlusconi. La responsabilità è di Grillo, della sua prepotente autocrazia e della sua immaturità politica. Ma se la sinistra minoritaria continua così è destinata solo a fare testimonianza, a essere ininfluente, e forse alla fine a sparire del tutto.

Il primo problema è che questa sinistra non vuole prendere atto dei propri errori strategici: non è un caso che l'Italia sia praticamente l'unico tra i grandi paesi europei che non abbia in parlamento una formazione che rappresenti l'ampio popolo della sinistra. In Grecia Syriza ha conquistato il 26% dei voti ed è il secondo partito; in Germania la Linke ha preso l'11% dei voti alle elezioni federali; in Francia il Fronte di Sinistra di Jean-Luc Mélenchon ha preso alle ultime presidenziali l'11% dei voti.

Occorre quindi cominciare ad analizzare in maniera severa, e anche spietata, gli errori della sinistra, a partire da Sel, la formazione più significativa. Nichi Vendola si è posizionato come corrente esterna del Pd con l'obiettivo di fare come la mosca che vuole spostare l'elefante. Ha abbracciato l'alleanza con Bersani che cercava l'alleanza con Monti - l'austero rappresentante del mondo finanziario nazionale e internazionale-. Ma Bersani dopo avere perso clamorosamente l'occasione di andare al governo, oggi sostiene anche il governo Letta delle larghe intese promosso anche da Silvio Berlusconi. Attirando affettuosamente a sé Vendola, Bersani è riuscito comunque a raggiungere un obiettivo importante: quello di distruggere la possibilità di una forte formazione politica autonoma alla sua sinistra. Tuttavia, fallito l'obiettivo governativo di Bersani, è fallita anche la strategia di Vendola: conquistare la direzione del Pd a colpi di vittorie nelle primarie. Ma la scalata ai vertici del centrosinistra è palesemente mancata, e non poteva essere altrimenti. Le primarie rappresentano una novità ma caratterizzano i partiti elettorali americani e deprimono la militanza organizzata della base.

Occorre prendere atto che il Pd non è neppure un partito socialista, non aderisce al gruppo socialista europeo; pur composto da ex comunisti ed ex democristiani, è spostato al centro e certamente non si farà mai scalare dalla sinistra. Forse riuscirà invece a scalarlo con campagne mediatiche all'americana il rottamatore Renzi che in nome del nuovismo ripropone però la vecchia politica liberista. Vendola si trova dunque, suo malgrado, a fare opposizione a un governo, a guida Pd, moderato a parole, nei fatti garante della piena subordinazione all'austerità imposta dall'euro tedesco, pronto a modificare la Costituzione per introdurre un presidenzialismo autoritario.

Intendiamoci: il Pd, anche se complessivamente diretto da professionisti moderati della politica, ha un elettorato popolare che certamente è collocato a sinistra; e in prospettiva l'alleanza con il Pd e con il M5S di Grillo diventerà essenziale per formare un governo di sinistra. Ma subordinare tutta la politica della sinistra alternativa all'alleanza con il Pd è suicida.

Bisogna però sgombrare il campo da un'altra illusione un po' infantile: che sia possibile costruire una nuova formazione di sinistra solo grazie ai movimenti. Sono ovviamente la base di tutto: la storia dimostra però che tutte le formazioni politiche non nascono solo dal basso ma anche dall'alto. Le nuove organizzazioni politiche nascono dalle crisi dei regimi precedenti e dai movimenti sociali. Ma anche, e forse soprattutto, da nuovi ideali e visioni intellettuali, da nuove culture ed elaborazioni politiche, da nuovi ceti dirigenti che si organizzano dall'alto. E' per questo che anche le attuali organizzazioni politiche sono importanti. L'avversione di molte persone di sinistra verso le organizzazioni della sinistra radicale è in parte giustificata, ma, se diventa radicale e totale, dimostra primitivismo politico o anche settarismo intellettuale. La battaglia critica delle idee può essere spietata ma nessuno può davvero proclamarsi migliore degli altri. E dentro le formazioni politiche della vecchia "nuova sinistra" militano molte ottime persone che da anni lottano per un diverso mondo possibile: non esiste alcuna ragione per sbarazzarsi di loro e della loro esperienza.

Ben vengano le iniziative contro il fiscal compact, la precarizzazione del lavoro, il presidenzialismo e il pareggio di bilancio in Costituzione voluto da tutte le forze governative, Pd compreso. Ma per avviare un nuovo corso, occorrerebbe innanzitutto riconoscere i propri errori, riformulare le visioni e le strategie, superare i settarismi minoritari, elaborare programmi comuni. Difficilmente Paolo Ferrero riuscirà a rifondare il comunismo: ma, dopo essere stato scottato dall'esperienza affrettata e dilettantesca della lista Ingroia, il suo appello a superare rapidamente le divisioni è fin troppo giusto: infatti il governo Letta potrebbe cadere presto e già nel 2014 verrà eletto il nuovo Parlamento europeo. Prendiamo atto che ciò che unisce questa (finora deludente) sinistra è comunque molto più di quello che la divide.

Il tentativo è sempre lo stesso: incantare gli sciocchi, che sono tanti. Da Dulcamara in poi ci sono cascati sempre. La Repubblica, 22 agosto 2013

NON èla dialettica dei retori, non è l’eloquenza della difesa di Coppi contro irigori dell’accusa del sostituto procuratore generale Antonio Mura, non sono leparole di Ghedini contro le parole della Boccassini, non è nemmeno la sapienzalinguistica degli esperti in cavilli e in sfumature, ma è un’apertura diostilità che fa saltare l’intero codice, è quell’offesa allo Stato che,lanciata da un ex premier, in altri tempi si sarebbe chiamata alto tradimento.

E losi capisce benissimo ricordando che «la soluzione politica» proprio ieririchiesta da Angelino Alfano a Enrico Letta, è la stessa pretesa dei terroristicondannati, da Senzani a Cesare Battisti, a tutti i brigatisti antistato cheappunto non riconoscevano né il parlamento né i tribunali, e neppure il singolocarabiniere.
Quelli raccontavano come epica guerra civile la loro macelleria ei loro agguati e Berlusconi mistifica la sentenza che lo inchioda alla frodefiscale come se fosse la nobile sconfitta di mezza Italia. «La pacificazione »per lui è trascinare nel suo singolare, individuale destino di frodatore quellaparte d’Italia che, per legittimi motivi, non è di centrosinistra: tutti dentroil suo carniere di bracconiere.

«Siamotutti colpevoli, siamo tutti evasori » ha sostenuto infatti la Santanché con unaltra raffica di senso comune capovolto. La formula della Santanché parodizzala solidarietà, rovescia quella locuzione retorica che tutti usiamo quandovogliamo identificarci con le vittime della barbarie e delle violenze, anchenaturali: «Siamo tutti americani» dopo l’11settembre, «siamo tutti berlinesi»davanti al muro del comunismo, «siamo tutti aquilani
» dopo il terremoto,«siamo tutti clandestini » davanti alla legge razzista che ci fa vergognare diessere italiani.

Ebbene,ora l’imbonitore si è appropriato dello strumento toccante della fratellanza edecco che «siamo tutti ladri», «siamo tutti Berlusconi».
E il meccanismo è cosìramificato ed efficace che i quotidiani della casa sempre più spesso pubblicanosfoghi di lettori che raccontano di essere stati aggrediti e insultati come«ladri» perché leggono appunto
Libero
e il
Giornale.
Trionfa così l’impostura.È la prova che la menzogna sta prendendo piede, e non solo provoca ma confondee disinforma.
Il ladro è Berlusconi e non chi lo ha votato. È stato condannatolui e non gli elettori di centrodestra. L’imbonitore lavora per trasformare indelinquenti anche i suoi sostenitori, è come lo spacciatore che vuole la solidarietàdelle sue vittime,
come il bracconiere che si appella alla complicità dellaselvaggina che impallina, come il mafioso che dice di essere Enzo Tortora.
Quelladi Berlusconi è la sindrome di Sansone: muore sì, ma con tutti gliitaliani.
Attentidunque alle nuove parole dell’eversione che una volta era verbosa, fatta difumosissimi comunicati illeggibili e di risoluzioni declamatorie. Oggil’eversione è l’evasione fiscale e l’inversione dei significati più semplici.
Enel gergo del truffatore pop il massimo della complessità consentita è «ilproblema di sistema» di Quagliariello oppure la «la questione di democrazia» diBrunetta.
Nontrucchi linguistici ma slogan di quella «guerra civile» annunziata daBondi.
«L’agibilità», «le più mature determinazioni », «l’omicidio politico»,il dramma della democrazia», «l’atteggiamento pregiudiziale »: sono tuttiallarmi, avvisi, dettati, ricatti all’Italia che deve piegarsi alla «anomaliaBerlusconi» (scrive il
Foglio)
che una volta era la vittoria dell’outsider eora è l’impunità del reo.
Non parole, ma parole d’ordine dunque, truffe disignificato come l’appello della Gelmini per «un approfondimento della leggeSeverino» che in questo neoitaliano eversivo è l’appello a disattendere unalegge, l’appello a mettersi fuori legge.

Certo,si può anche ridere delle frode linguistica e dell’abuso di analogie storiche.Al profondo Capezzone si potrebbe dire per esempio che se davvero volesseandare sino in fondo nel (bislacco) richiamo all’amnistia che fu accordata aifascisti dovrebbe ricordare che il fascismo fu messo fuori legge e cheMussolini fu giustiziato.

Ilpiù imbarazzante è stato Luigi Amicone che ieri sera durante la trasmissione diLuca Telese su La7 ha paragonato Berlusconi a Che Guevara, e la magistratura eil governo Letta al governo militare boliviano che lo volle morto. Se continuacosì tra poco diranno che, durante il processo, a Berlusconi hanno rubato ilportafoglio che è, per volontà popolare, il portafoglio d’Italia. E che sonostati i giudici, ladri ovviamente di democrazia.
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