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The Guardian, 10 settembre 2013 (f.b.)
Titolo originale: Italy's racism is embedded – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Settimana scorsa a Roma poco prima della visita del ministro Cécile Kyenge, prima esponente di pelle nera a occupare questa carica, sono stati trovati davanti all'edificio pubblico dei manichini spruzzati di finto sangue. E sparpagliati dei volantini che dicevano: “L'immigrazione è genocidio dei popoli, Kyenge dimettiti!”. Si tratta solo dell'ultimo di una serie di sconvolgenti attacchi e minacce da quando la Kyenge è entrata in carica a aprile. L'ha paragonata a un orango un ex ministro; l'ha accostata a una prostituta un vicesindaco; le hanno scagliato addosso delle banane mentre teneva un discorso.
Con la sua nomina non solo ha gettato luce sui problemi del paese con la tolleranza razziale, ma si è anche cominciato a capire quanto sia stereotipato il concetto di italiano caro e gentile, affettuoso e sorridente, capace soltanto di cercare le migliori cose. Un popolo in fondo più mediterraneo che europeo, magari un po' disorganizzato, ma sempre pronto ad accogliere tutti a braccia aperte, mai a insultare o minacciare. Un'idea riassunta dal modo di dire “italiani brava gente” [in italiano nel testo n.d.t.]. Questa è l'idea che mi ha condotta in Italia a preparare il mio libro. Perché contrastava con l'esperienza di mio nonno, della sua generazione che aveva combattuto contro l'invasione fascista dell'Etiopia, subendo poi cinque anni di occupazione italiana. Una contraddizione che mi ha portata a Roma, dove ho abitato per parecchio tempo, e dove ho fatto ricerche negli archivi dell'era coloniale.
Benito Mussolini e il suo partito fascista hanno governato dal 1922 al 1943, periodo nel quale l'Italia ha costruito il suo impero allargandosi dalla Libia, Eritrea e Somalia. Nel 1935 viene invasa l'Etiopia. Quel popolo subisce in modo devastante e contemporaneo un assalto dall'aria e da terra. Vengono usati i gas, i campi di concentramento, i massacri. Tattiche che l'Italia aveva già usato il Libia, nel corso di una brutale guerra durata trent'anni, ed eufemisticamente definita “campagna di pacificazione”.
I resoconti dalla guerra di Etiopia erano regolarmente censurati, e gli articoli enfatizzavano invece la missione civilizzatrice del paese. Il linguaggio dei pezzi è accuratamente scelto per per convincere gli italiani non solo del loro diritto ad occupare quel territorio, ma delle ottime intenzioni del gesto. Si sottolineano le realizzazioni di infrastrutture, senza dire che quelle strade, ponti, linee telefoniche, servono a migliorare le comunicazioni tra le forze militari, e costano anche vite umane per la costruzione. Certo il tentativo dell'Italia di mascherare gli aspetti sanguinari delle proprie ambizioni imperiali non è diverso da quello delle altre potenze coloniali, ma la cosa che colpisce è la quasi assenza di queste cose dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996 – 60 dopo gli eventi – il ministero della difesa italiano ammetterà che sono stati usati i gas.
La Germania ha avuto il Processo di Norimberga, il Sud Africa la sua Commissione per la Riconciliazione, ma in Italia manca del tutto quel tipo di bilancio post-bellico che obbliga a far luce sugli aspetti più gravi, e iniziare il difficile percorso di riconciliazione. Questi momenti di riflessione collettiva ci hanno dimostrato come affrontare fatti dolorosi possa contribuire a costruire una memoria condivisa, fissare un ethos, sviluppare un dialogo. Unire quelli che avevano il potere di colpire, e quanti hanno quello di perdonare. Attraverso questo tipo di linguaggio un paese si trasforma, costruisce identità nazionale. Dal momento dell'unificazione nel 1861, l'obiettivo dell'Italia è stato di forgiare unità a partire da gruppi straordinariamente diversi e spesso in conflitto. C'è una frase molto nota, attribuita allo statista Massimo d'Azeglio, che recita: “Abbiamo fatto l'Italia. Adesso dobbiamo fare gli italiani”. Qualunque carattere collettivo deriva da una consapevole e attenta costruzione. E storicamente questa costruzione comprende la pelle bianca. Quanto la presenza della Kyenge mette in discussione.
L'Italia, che le piaccia o meno, sta subendo una trasformazione. Nuovi italiani di prima e seconda generazione, e italiani da sempre, la stanno innescando: lottano contro leggi discriminatorie, e lottano non solo per una maggiore consapevolezza del passato, ma anche per le potenzialità del futuro. C'è speranza, ma molta strada da fare. Ricordo di una cena a Roma insieme a degli amici e colleghi. L'occasione festosa fu guastata da un commento urlato a proposito del colore della mia pelle, condito da allusioni sessuali. Gli amici attorno a me erano esterrefatti. Mi guardai attorno, e c'era un anziano che mi faceva l'occhiolino. Alle mie proteste rispose con una risata e sollevando le mani. E immediatamente tornò alla sua conversazione, ignorandomi.
Se non si fosse fatto caso a quel che aveva detto, la scena poteva sembrare quella di un piccolo equivoco da parte di un simpatico signore, e una reazione un po' esagerata. Insomma un altro italiano bonaccione, uno della “brava gente”. Certo gli attacchi alla Kyenge sono molto più violenti: difficile vederci l'italiano gioviale. Ma il mito resiste, finché non si interviene in qualche modo contro i politici e i gruppi che ne sono responsabili. Ci deve essere una riflessione nazionale che coinvolga tutti. Ascoltato dell'ultimo insulto alla Kyenge, ho sentito un'amica italiana di origine somala per chiederle cosa ne pensa. “Questo è il mio paese – mi ha risposto – e lavoriamo per cambiarlo. Ora più che mai l'Italia ha bisogno di persone come me”.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg un'intera cartella raccoglie scritti su "italiani brava gente". In particolare vi raccomando gli scritti di Nello Aiello, Angelo Del Boca e moltissimi altri che scoprirete sfogliando le pagine dei sommari di quella cartella.
«Gli Hewitt hanno passato un mese in uno
slum ma il loro esperimento sociale ha spaccato il paese»: qualche coraggioso vuole verificare se davvero l’umanità è una, come sosteneva Einstein, e sperimentare le conseguenze delle differenze sociali. La Repubblica, 17 settembre 2013
Un giorno gli Hewitt, proprietari di una bella casa nel verde di East Pretoria, hanno detto addio al loro mondo di certezze e sicurezza, di comodi sofà e ronde di vigilantes, e si sono trasferiti dieci chilometri e un altro pianeta più in là: alla porta accanto della loro donna delle pulizie, nello slum dei neri di Mamelodi , un villaggio di baracche affogato dalla malavita e dai pidocchi, dall’Aids e dalla droga. Lo hanno fatto per un esperimento di «empatia sociale » durato un mese, nato in sordina e finito sotto i riflettori di mezzo mondo, in un mare di polemiche.
Insieme a Julia e Jessica, i loro angioletti biondi di due e quattro anni, Julian e Ena volevano provare sulla loro pelle di sudafricani bianchi della middle class come fanno milioni di concittadini neri a sopravvivere in una stamberga di lamiera di 9 metri quadrati senza energia elettrica né acqua corrente, con una latrina maleodorante in comune con venti famiglie e un fornelletto a paraffina per cucinare qualche zuppa. «Sai che c’è? Spero che il fornelletto si rovesci e che ci bruciate vivi, nella baracca. Addio», li ha demoliti su twitter una blogger nera,@keratilwe.
Ma il loro esperimento senza apparenti doppi fini — niente libri in arrivo né programmi tv — ha diviso il Paese, tra lodi per il «coraggio» e accuse di «pornografia della miseria»; tra gli abbracci dei vicini di bicocca e le critiche feroci piovute sui social network e negli editoriali: «Hanno cercato e accettato simpatia e lodi per i disagi che altri subiscono quotidianamente senza nulla in cambio», li accusa lo scrittore Osiame Molefe dalle pagine del New York Times, uno dei quotidiani internazionali ad aver ripreso una storia così insolita. Loro si difendono con passione, attraverso il blog mamelodiforamonth. co.za che hanno aperto per raccontare la loro avventura.
«Ci hanno accusato di aver preso in giro la povertà, ma non è così. Come tanta gente nel nostro Paese vivevamo in una bolla. E abbiamo deciso di uscirne ». Dalla loro villetta si sono portati dietro solo dieci dollari al giorno — la stessa somma con cui campano ogni giorno milioni di neri nelle township — e un catino di vestiti, qualche materasso da stendere per terra e poche coperte, troppo poche per le rigide notti agostane dell’inverno di Pretoria, a 1350 metri di altitudine sull’altopiano del Transvaal. Si sono presi la febbre, hanno perso 5 chili a testa e hanno scoperto quanto sia difficile e costoso — il 47% del budget — andare al lavoro con autobus e treni. E «quanto mi è mancata la doccia... una pentola d’acqua calda e un secchio per lavarsi la testa è troppo, per me. Il secchio poi lo devi riusare per i piatti e i vestiti, ci vorrebbe un’ora e mezza per scaldare altra acqua al fornelletto», racconta Ena. Hanno vissuto senza sconti, ma per un mese soltanto: poi loro sono tornati a casa, gli altri no.
Mancava soltanto quella dichiarazione del presidente del Consiglio, quelle parole di puro e semplice disprezzo per la seconda parte della Costituzione, a mettere il sigillo sul sentimento e sul rispetto col quale il governo delle larghe intese si appresta a cancellare la Carta approvata dall'assemblea Costituente il 22 dicembre del 1947. Per capire lo spirito di allora, ricordo i titoli di un paio di quotidiani. l'Unità: «La Costituzione antifascista e repubblicana approvata in una storica seduta alla Costituente». il Popolo: «Approvata la carta Costituzionale del nuovo Risorgimento italiano». Un altro secolo, un'altra politica.
Nell'ultimo libro del filosofo Pierre Macherey,
La parola universitaria un''analisi dell'ineguale distribuzione dell'accesso ai saperi provocato dalle politiche neoliberiste nelle università francesi, causa primordiale del decadimento della democrazia. Il manifesto, 11 settembre 2013
Ce lo spiega Pierre Macherey in La parola universitaria (traduzione e cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes, pp. 259, euro 17). Il libro, uscito in Francia nel 2011, fu segnalato da Roberto Ciccarelli sulle pagine de il manifesto il 29 ottobre dello stesso anno in un articolo pensato nella contingenza degli effetti, oggi più che mai disastrosi, prodotti dall'entrata in vigore della legge Gelmini alla fine del gennaio 2011.
Lo stesso testo di Macherey, d'altronde, è il frutto di una riflessione nata dalla sofferenza per lo stato di decadimento dell'università francese e per gli ancora più deleteri rimedi - di matrice neoliberista - usati per cercare di sanarla. Nell'introduzione al libro, L'Università in questioni, l'autore fa il punto della situazione rispetto al sistema universitario vigente in Francia caratterizzato dalla divisione tra Università e Grandi Scuole e constata che la visione ideale di una comunità di saperi democraticamente accessibile a tutti in realtà è contraddetta «nei fatti dal risorgere di una divisione diseguale, "aristocratica" che obbedisce ad una logica di verticalità, con differenti percorsi, gli uni consentiti alle "masse" cui sono offerte solo delle forme di competenze non sfruttabili direttamente, e gli altri riservati a delle "élites", accuratamente selezionate, che si vedono promettere delle funzioni dirigenti nella società».
Ora, Macherey conosce troppo bene la lezione di Pierre Bourdieu, per non sospettare che un modello di analisi ben definito, anche lì dove si riferisce ad un contesto locale come quello francese, presenta un grado di universalità tale da poter essere applicato anche in contesti differenti da quelli rispetto ai quali è stato formulato. La situazione universitaria italiana si presta, purtroppo, a questo esercizio epistemologico: realizzata fino in fondo, la riforma Gelmini configurerà sul piano nazionale una netta divisone tra atenei del Sud, i quali, poco meritevoli per non riuscire a collocare i propri studenti sul mercato del lavoro, quindi poco «premeabili» dal punto di vista dei finanziamenti pubblici e di conseguenza poveri, saranno ridotti a mega-licei di massa buoni, tutt'al più, a fornire una didattica non professionalizzante e gli atenei del Nord che, ricchi di fondi per la ricerca grazie alla loro ricettività nei confronti delle esigenze del libero mercato e della grande imprenditoria, diverranno la palestra di formazione per le nuove classi dirigenti della borghesia italiana. Seguendo lo schema di Macherey si ritrovano, nella divisione francese tra Università e Grandi Scuole, non solo la finalità geopolitica della riforma Gelmini, ma le condizioni per la riproposizione di una nuova «questione meridionale» giocata al livello della formazione culturale superiore.
Non tutto il libro di Macherey, però, ha questo andamento, solo nell'introduzione il rigore argomentativo si concentra sullo stato attuale dell'Università (attualità che in tutti i suoi nodi problematici, in particolare quello relativo all'«ideologia della valutazione», è analizzata da Caridi nella sua presentazione del testo). I tre capitoli che lo costituiscono seguono un percorso sempre coerente rispetto al problema dell'Università, ma vanno in una direzione differente. Se l'introduzione si fa carico di problematizzare il presente universitario, gli altri capitoli si assumono il compito di tracciarne il passato a partire da diversi campi del sapere: filosofia, psicanalisi, sociologia e letteratura.
In questo modo, al primo capitolo spetta di presentare la situazione dell'Università tedesca attraverso lo scritto di Kant Il conflitto delle Facoltà del 1798, i due discorsi inaugurali tenuti da Hegel il 28 ottobre 1816 e il 22 ottobre 1818 per i rispettivi insediamenti nelle cattedre di filosofia delle Università di Heidelberg e Berlino, e il famigerato Discorso di rettorato tenuto da Heidegger il 27 maggio 1933 per la guida dell'Università di Friburgo. Nel secondo capitolo Macherey presenta l'Università francese degli anni Sessanta del Novecento facendo lavorare assieme le riflessioni che su di essa furono svolte da Jacques Lacan nel seminario Il rovescio della psicanalisi e da Bourdieu e Jean Claude Passeron in La riproduzione, e questo con buona pace di quella filosofia politica che, impunemente, crede di poter applicare le categorie psicoanalitiche alla comprensione del mondo sociale facendo a meno della mediazione della sociologia empirica. Infine, nel terzo capitolo, sono presentate le università immaginarie di scrittori come Rabelais (Gargantua), Hermann Hesse (Il gioco delle perle di vetro), Thomas Hardy (Jude l'oscuro) e Vladimir Nabokov (Pnin).
Ora, per quanto Macherey affermi, nelle conclusioni del libro, di essersi limitato a proporre una rilettura - «e niente di più» - di questi testi facendoli «dialogare fra di loro», in realtà, essi sono articolati da una logica stringente: se nel primo capitolo viene posta la tesi di un'università ideale (Kant, Hegel e Heidegger), nel secondo la si nega attraverso la verifica empirica di tutte le menzogne che si annidano nel discorso universitario reale (Lacan, Bourdieu e Passerron), nel terzo si riconfigurano, su di un piano simbolico, la dimensione utopica di un'università ideale (Babelais e Hesse) e quella fallimentare delle tante università reali (Hardy e Nabokov). Una ferrea logica dialettica.
Detto questo, al lettore rimane solo da scoprire quale legame potrà mai esserci tra un film, la bomba atomica e l'Università.
La Repubblica, 11 settembre 2013
La dittatura di Pinochet dell'11 settembre del 1973 , non è stata una dittatura militare come le altre «E' stato il primo esperimento, sulla pelle del popolo cileno, del modello di «neoliberismo autoritario» diventato dominante nel nuovo secolo».
Il manifesto, 11 settembre 2013
Come è noto, un ruolo importante l'hanno ricoperto i Chicago boys della scuola monetarista di Milton Friedman. Chiamati da Pinochet come consulenti hanno disegnato le linee di politica economia e sociale necessarie per implementare le teorie del caposcuola, Nobel per l'economia nel 1977 , che -come scrisse il Comitato svedese per gli assegnò il premio - è stato un raro esempio di un economista che abbia influenzato la politica almeno quanto l'Accademia. In effetti, la sua produzione scientifica è conosciuta solo dagli addetti ai lavori, e non presenta delle novità sconvolgenti rispetto al pensiero di Marshall e di Stuart Mill, mentre i suoi testi politici -come il best seller "Liberi di scegliere"- hanno avuto un grande impatto sull'opinione pubblica e sul rilancio della destra statunitense prima, e del mondo intero dopo.
La situazione cilena offriva una condizione ottimale per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la cura migliore per far uscire dalla crisi un paese come il Cile stremato da anni di recessione economica e di lotte sociali. Grazie all'eliminazione della democrazia si potevano facilmente rompere i vincoli istituzionali, lacci e lacciuoli sindacali, e contenere le rivolte ed il malcontento che inevitabilmente sarebbero scoppiati di fronte alle cure da cavallo del governo Pinochet. I Chicago boys vedevano la dittatura come un utile strumento per riportare velocemente il paese verso la crescita economica, per rilanciare lo sviluppo. A questo fine, venne implementato un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del mercato del lavoro che rendeva perfettamente "flessibile" la forza-lavoro (il sogno di Marchionne!), di totale apertura all'estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. Gli effetti sociali, culturali, ed economici si manifestarono chiaramente nel corso dei primi anni '80. Una parte maggioritaria della società cilena subì un vistoso processo di impoverimento che colpì i lavoratori (con l'aumento della disoccupazione e con l'abbassamento dei salari), una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche (i Mapuche) brutalmente espropriate della terra e ghettizzate. La mercatizzazione della società raggiunse livelli parossistici, tragicomici, demenziali.
Tre esempi. La liberalizzazione delle farmacie e dei prezzi dei farmaci (Bersani le avrebbe chiamate "lenzuolate"?) portò i gestori delle farmacie a offrire -con grande pubblicità- due antibiotici al prezzo di uno, una scatola di aspirina in regalo per chi spendeva un tot... La privatizzazione totale dei trasporti pubblici, comportò che gli autisti dei micro, come si chiamano gli autobus a Santiago, assunti a cottimo sui chilometri effettuati giornalmente divennero il terrore dei pedoni che attraversavano le strade. La possibilità di non indicare più nelle etichette il contenuto di cibi e bevande, in nome della libertà dell'impresa, comportò casi drammatici di intossicazione.
Ma, ancora più forte fu l'impatto culturale, ideologico, di questa dittatura neoliberista in cui il Mercato era diventato la sola ed unica religione. Più di una volta, agli inizi degli anni '80, mi capitò a Santiago di incontrare e discutere con lavoratori che avevano interiorizzato le ricette neoliberiste. Mi viene in mente, fra gli altri, un tassista che mi raccontò di come fosse stato un impiegato di banca e fosse diventato "superfluo" e quindi "giustamente" licenziato. Ora era felice perché si era inventato un lavoro. Era lo slogan del regime: dobbiamo essere tutti autosufficienti, imprenditori di noi stessi.
Infine, sul piano economico, è indubbio che, a partire dal 1976, il Pil cominciò a salire annualmente a tassi sostenuti- tra il 6-8 per cento e questo dato divenne la bandiera di tutta la cultura neoliberista, l'indicatore del successo della scuola di Friedman. Dopo la chiusura delle miniere di rame, di molte fabbriche che vivevano sulla domanda interna, si crearono delle nuove aziende agro esportatrici (soprattutto frutta e vino) che ebbero una corsia preferenziale di ingresso sul mercato nordamericano. I capitali, godendo di totale libertà, arrivarono nel paese per investire nei settori più redditizi (dall'agro- business al turismo) ed il Fondo monetario internazionale aiutò con ingenti prestiti il governo Pinochet, mentre aveva negato qualunque aiuto finanziario al presidente Allende.
Dopo la caduta di Pinochet il modello neoliberista continuò, con piccoli ritocchi, per molti anni ed è ancora presente nella società cilena,malgrado l'arrivo al governo della socialista Bachelet. Questo fatto non deve stupire, ma ci deve interrogare perché anche noi ci stiamo incamminando sulla stessa strada.
La crisi economica-finanziaria e la sua gestione hanno prodotto un abbassamento radicale delle aspirazioni, delle aspettative di decine di milioni di persone in Italia, come nella gran parte dei paesi europei. La crisi sta funzionando come ferrea disciplina, nell'accezione di Foucault , per rendere possibile il predominio del mercato capitalistico, per rendere totalmente flessibili i lavoratori, per smantellare definitivamente il welfare ed i diritti sociali conquistati in decenni di lotte. Questa crisi ha funzionato come un surrogato della dittatura che in Cile rese possibile accelerare questi processi e portarli a compimento. Ma, l'impoverimento e la perdita di diritti non è ancora completata. Per arrivare al risultato cileno bisogna mettere le mani alla Costituzione, avere il presidenzialismo, unitamente a leggi che colpiscano alla radice i movimenti (come già sanno i militanti del No Tav) . Insomma, bisogna indebolire la nostra democrazia senza bisogno dei generali, per arrivare magari ad avere quella "crescita" sbanderiata come unico fine della società, unico senso della vita, dal governo delle "larghe intese neoliberiste".
Per questo la battaglia per la difesa della Costituzione vede in prima linea un sindacato come la Fiom perché è ormai chiaro l'intreccio tra la difesa della democrazia costituzionale e la difesa dei posti di lavoro, della dignità del lavoratore e del diritto alla vita di precari e disoccupati.
Vedi qui anche l'articolo di Luis Saramago, e la postilla.
Nell'icona sotto al titolo: Milton Friedman e Pinochet
della Costituzione. «Ergastolo, carceri migranti, giusti referendum. La politica è sorda». «No bicameralismo perfetto. Le resistenze dai senatori, il premier lo ha ammesso». Il manifesto, 10 marzo 2013
Presidente Stefano Rodotà, fino a quando è accettabile il rinvio del voto sulla decadenza di Berlusconi?
Il tempo previsto dalle procedure parlamentari, che sono garanzia per tutti e non vanno forzate. Il diritto di difesa - questione tanto sbandierata - è stato ampiamente esercitato dalla persona interessata, cioè Berlusconi, presentando il parere di ben sei signori. Se Berlusconi vorrà, potrà parlare alla giunta o all'aula del Senato. Ma diritto di difesa non significa pretendere che le proprie ragioni siano accolte.
Il relatore del Pdl, Andrea Augello, ha presentato tre eccezioni di costituzionalità.
Non ne conosco il testo, ma se riflettono i pareri non potrebbero essere accolte. Se sto alle carte che conosco, l'infondatezza è evidente. Anzi, le argomentazioni hanno tratti perfino inquietanti. Sono state condotte sul filo di omissioni, estrapolazioni, citazioni di sentenze capovolgendone il significato, ignorando quello che la Consulta, la Cassazione e il Consiglio di Stato hanno fatto su questa materia.
Crede ci siano i presupposti per ricorrere alla Corte europea?
Intanto vale la considerazione fatta da Violante, e cioè: la decadenza non è stata ancora pronunciata, quindi manca il presupposto per l'ammissibilità del ricorso. Nel merito, credo che la Corte lo respingerebbe. Ma mi lasci dire: o quelli che hanno presentato il ricorso sono ignoranti; oppure è una strumentalizzazione. Un ricorso presentato in un momento in cui è inammissibile tende solo a influenzare la giunta. E questo modo di comportarsi non solo vìola la legalità ma svuota di senso lo stesso diritto, presentato come qualcosa di manipolabile. Sono scandalizzato dalle dichiarazioni di persone che hanno pure una loro autorevolezza ma che hanno detto: i giuristi possono sostenere tutto e il suo contrario. Non è vero. I giuristi non devono sentirsi portatori di verità assolute, ma il loro dovere è argomentare correttamente quella che a loro giudizio è l'interpretazione conforme al diritto. Accettare questa deriva scredita il diritto dinanzi all'opinione pubblica.
Dice il presidente Letta: «Non sono d'accordo con i conservatori secondo i quali non si deve toccare la Costituzione. Ma come si fa a dire una cosa di questo genere? Non siamo noi gli unici al mondo con due Parlamenti che hanno lo stesso potere?».
Il conservatorismo è obbligato quando si tratta di difendere principi e diritti costituzionali. Tanto che nell'88 la Corte ha affermato che ci sono principi supremi che non possono essere oggetto di revisione costituzionale. L'altro argomento invece è una manipolazione: chi sostiene la difesa intransigente della Costituzione sostiene nello stesso tempo quella che il professor Alessandro Pizzorusso ha definito la 'buona manutenzione costituzionale'. Con Luigi Ferrajoli facemmo, anni fa, l'iniziativa 'Una camera cento rappresentanti' per uscire dal bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari. All'inizio del governo Letta abbiamo proposto: invece stravolgere l'art.138, perché non presentate questi due disegni di legge in parallelo nelle due camere, sui quali c'è un consenso? Oggi ci troveremmo alla seconda lettura, cioè all'approvazione definitiva.
Perché non si è fatto?
Si voleva mettere attaccare al carro di riforme condivise una serie di altre riforme che condivise non sono e alterano il sistema costituzionale. Letta, a giugno, ha detto che ci sono resistenze al senato e che per batterle era necessaria una procedura costrittiva. È inquietante: un modo di usare la Costituzione ai limiti dell'indecenza.
'La via maestra', il vostro appello, chiama in piazza il 12 ottobre a Roma quelli che chiedono l'applicazione della Costituzione e la sua buona manutenzione. Fra voi c'è chi avverte: «Se saremo meno dei girotondi del 2002 il movimento sarà già morto».
Lo ha detto Paolo Flores d'Arcais. No, è un modo per mettere alla frusta chi si è assunto il compito impegnativo di imboccare 'la strada maestra'. Non siamo sciocchi, quello dei girotondi era un tempo di grande vivacità sociale. Oggi il tasso di astensionismo è ben altro e il clima è ben più deteriorato. Rovesciamo le posizioni lamentose di questi anni. E partiamo non solo dai difetti della politica ufficiale ma anche dai successi dell'"altra politica". Fuori dalle istituzioni in questi anni c'è stata una politica vincente: i referendum sull'acqua, sul nucleare, le iniziative contro le leggi ad personam. E la Fiom sui diritti sindacali, Gino Strada che apre ambulatori in Italia dopo averlo fatto nel cosiddetto terzo mondo, don Ciotti che difende la legalità. Tanti sindaci. Abbiamo tutto questo alle spalle, che però finora non ha ricevuto ascolto da parte della politica ufficiale. Al manifesto ho già detto che il Pd, all'indomani del referendum sull'acqua, avrebbe dovuto incontrarne gli organizzatori. Bersani alla fine aveva fatto la mossa anche coraggiosa di schierare il Pd a favore dei referendum, mentre c'erano Veltroni, D'Alema, lo stesso Letta contrari. La nostra speranza ora è creare una 'massa critica' per ottenere i risultati che ci sono stati solo in parte. Quando le azioni che hanno come riferimento la Carta avranno costruito legami effettivi, troveranno l'ascolto che da sole non sono riuscite ad avere.
Avete detto: non vogliamo escludere nessuno. È un invito a chi, anche nel Pd, vuole difendere la Costituzione?Certo. Anzi per me significa da una parte che non stiamo costruendo un'organizzazione chiusa e autoreferenziale, dall'altra che questa nuova realtà è costituita da associazioni, movimenti, persone e non è il surrogato o la scialuppa di salvataggio per i naufraghi o i perdenti degli anni passati. L'assemblea di domenica a Roma era aperta a tutti, ma alla manifestazione di ottobre non ci saranno voci di partito. Non vogliamo escluderle né dividere. Ma i partiti non debbono appoggiarsi a noi per coprire le loro debolezze. Invece di un'adesione formale, chiediamo che assumano le responsabilità che sono loro proprie.
Voi dite: il nostro obiettivo non è ricostruire la sinistra. Non c'è all'orizzonte quello che il manifesto ha definito 'una larga intesa a sinistra'?
Le formule sono pericolose. Ci sono molte realtà che si muovono sul terreno comune della Costituzione. E in questo momento noi guardiamo al di là di quelli che si riconoscono in una sinistra del resto ormai stravolta nei suoi lineamenti. Poi, personalmente, penso che con questo lavoro non escludente potremo anche ricostruire i tratti di una sinistra costituzionale.
La sinistra ha infilato una serie di fallimenti, dall'Arcobaleno a Ingroia. Questo cosa le dice?
Che non ha fatto il suo lavoro. L'Arcobaleno era cencellizzato, ha scelto i candidati con criteri non diversi da quelli del Pd o del Pdl. Rivoluzione civile era un altro assemblaggio di chi proveniva da diverse avventure. L'ho detto prima della campagna elettorale: abbiamo fatto una resistenza contro la personalizzazione della politica e il nome di Ingroia sul simbolo era più grande di quello di Berlusconi? La ricostruzione della sinistra non può essere surrogata da una mossa autoritaria. Se possibile, evitiamo questo rischio.
Carceri, limitazione dell'eragastolo e abolizione del reato di immigrazione clandestina. Sono tre temi su cui i radicali stanno raccogliendo le firme per una nuova tornata referendaria. Temi che hanno molto a che vedere con la Costituzione.
Sicuramente. Sull'ergastolo c'è stato un altro referendum nel quale mi impegnai moltissimo. Sono convinto che su questo referendum dobbiamo tornare in maniera molto esplicita. Sulle carceri, quanti articoli ho scritto? Ne ho perso il conto, ma ho conservato le lettere che poi ho ricevuto dai detenuti. Da parlamentare ho fatto tante proposte, sempre respinte. C'è una vecchia insensibilità della politica, non solo di destra. È un tema di civiltà ineludibile, non solo perché Strasburgo ha fissato un termine per il 2014. Sono necessari provvedimenti di urgenza, né mi spaventa l'argomento di chi dice che l'amnistia potrebbe essere applicata a Berlusconi, oppure che l'abolizione dell'ergastolo potrebbe essere applicata a qualche mafioso. Le battaglie di civiltà sono necessarie. Poi i provvedimenti di amnistia non hanno mai significato qualsiasi tipo di reato: la frode fiscale non ci sta. Ma i provvedimenti di urgenza sono insufficienti. Serve un cambio del sistema penale. L'abrogazione delle norme sui migranti, altro referendum sacrosanto: ma non è sufficiente. Il vero punto è la rilettura radicale del codice. Ma non si parte da zero. Perché il ministro della giustizia non tira fuori i risultati della commissione Pisapia e dice: vi propongo una delega per la riforma del codice di procedura penale? L'emergenza deve essere affrontata. Ma quando vedo l'attacco del Pdl sulle inefficienze della giustizia, ricordo che negli ultimi dieci anni al ministero della giustizia sono stati Castelli, Alfano e Nitto Palma. Che hanno cercato di usarlo contro una parte della magistratura. E non hanno fatto nulla sul terreno dell'efficienza del sistema giudiziario per tutti i cittadini.
«L’Unità, 13 settembre 2013
Per il momento si sa che si troveranno in una grande piazza di Roma il 12 ottobre. E che l’obiettivo è riempirla di centinaia di migliaia di persone, un po’ come quella piazza San Giovanni dei girotondi nel 2002. Per stoppare il processo di revisione della Costituzione, innanzitutto. Per dire no alla guerra in Siria e soprattutto per rianimare una sinistra dispersa, che non si riconosce nel Pd e neppure nel M5S, ma che è pure stufa dei fallimenti come l’Arcobaleno e la Rivoluzione di Ingroia.
Alla guida di questo nuovo movimento, che non vuole farsi partito, ma diventare una «massa critica», sono in cinque: Stefano Rodotà, Maurizio Landini e la professoressa Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky e don Luigi Ciotti (gli ultimi due assenti ieri). «Nessuno di noi ha ambizioni politiche», mette subito in chiaro Carlassare, seguita a ruota dal leader Fiom che, quanto a candidature, punta solo a quella per succedere a se stesso alla guida dei metalmeccanici. La folla radunata al centro congressi Frentani di Roma, è quella dei grandi occasioni: sala strapiena, maxischermi, gente in piedi. I reduci non mancano, da Ingroia a Ferrero e Cesare Salvi, Casarini e Agnoletto. Vendola fa un salto, con Fratoianni e Migliore, ma più per un gesto di cortesia: Sel non è in prima fila in questa operazione. «Ma siamo attenti a quello che succede», dice il governatore pugliese. Corradino Mineo e Vincenzo Vita sono i due dem che tentano di fare da pontieri: ma basta che Vita citi il Pd che partono i fischi. E non è un caso che l’applauso più fragoroso arrivi quando Paolo Flores D’Arcais spiega che «come Blair è stato la vera vittoria della Thatcher, così se Renzi sarà l’unica alternativa Berlusconi avrà vinto ancora».
Rodotà tra le righe benedice i grillini sul tetto di Montecitorio, e se la prende con chi «li accusa di eversione e intanto cerca di sabotare lo Stato di diritto per salvare Berlusconi». Il riferimento è al Pdl, ma nel mirino ci sono lelarghe intese, il governo e anche il Quirinale quando, come dice Guido Viale, «c’è uno scambio tra la manomissione della Costituzione e il tentativo di garantire stabilità a questo governo».
Rodotà non usa giri di parole: «Questa maggioranza non ha legittimità per cambiare la Costituzione. E il governo stesso è figlio di un grave azzardo politico. Il fatto che si stia proponendo una sospensione temporanea del 138 non è un’attenuante. Di sospensione in sospensione non si sa dove si arriva. Chi poi invoca il cronoprogramma sulle riforme istituzionali mi fa sorridere. Qui non si sa neppure se il governo arriva a domani...». «No, non si può più girare la testa dall’altra parte», spiega il Professore, fotografato come una star, «ci vuole coraggio e dobbiamo prenderci qualche rischio: dobbiamo rimettere in moto la politica, che può voler dire anche preparare il terreno per un nuovo soggetto, senza ripetere gli errori della Sinistra Arcobaleno e di Ingroia, come la lottizzazione dei posti».
Per il momento, l’obiettivo minimo è «indurre a un ripensamento» il Pd che vuole cambiare la Costituzione. «La Carta va cambiata, non deve prevalere lo spirito conservatore», manda a dire il premier Letta da Cernobbio. E Rodotà replica tra gli appalusi: «Qui da noi non troverà conservatori, semmai nella sua maggioranza. E se l’obiettivo è cambiare il bicameralismo non c’è bisogno di stravolgere il 138». Insiste Rodotà: «Non saremo una zattera per naugraghi, ma una casa per una sinistra vincente su temi come i referendum sui beni comuni».
«Un soggetto politico? La nostra ambizione è molto maggiore», dice Landini. «È cambiare questo Paese ripartendo dalla Costituzione. Ci sono milioni di persone che non votano più e si sentono sole. Vogliamo costruire un movimento di pressione». Il leader Fiom va ben oltre lo stop alle modifiche alla Carta. «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche», dice dal palco tra gli applausi. «Metteremo in campo gesti di difesa totale delle fabbriche e dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche». «Il lavoro deve avere una nuova rappresentanza politica», incalza il giuslavorista Piergiovanni Alleva.
Dal palco Carlassare parla di un «risveglio delle coscienze» e dice che «a qualcuno fa comodo guidare un gregge ignorante». Flores parla di un «golpe bianco strisciante» in corso e avverte: «Nelle prossime settimane ci giochiamo la chiusura del ventennio berlusconiano. E se la piazza sarà inferiore a quella del 2002 saremo sconfitti». Si parla anche dell’ipotesi di grazia per il Cavaliere, «un insulto alla democrazia», secondo Landini. Ingroia è in prima fila: «Sono con i partigiani della Costituzione».
l Fatto quotidiano online, 8 settembre 2013
Ve le ricordate? Erano le icone dell’Italia femmina scatenata e rampante, i volti dello yuppismo in short e autoreggenti, la gioventù bruciata del berlusconismo, tra il 2008 e il 2012, quando il Cav poteva governare da solo e non per interposta persona. Noemi, Sabina, Sara, Nicole e le altre, le pupe del capo, che riempivano le trasmissioni televisive con le loro spericolate interviste sulla vita, gli uomini, la politica, e ovviamente sull’indiscutibile grandezza ed eleganza di Silvio. Finita la festa, sono state adeguatamente pensionate ed è curioso leggere le interviste in cui si reinventano come educande delle Orsoline, tutte casa, marito e famiglia.
Noemi, ci racconta Oggi, «sta per laurearsi e aspetta un bimbo dal suo Vittorio». È «molto diversa dal passato. Capelli naturali schiariti dagli shatush, neanche un filo di trucco, dimagrita nonostante la gravidanza». La minorenne di Casoria che coniò l’immortale nomignolo di Papi, è un po’ scocciata perché i suoceri sono diffidenti, ma passerà: non sembra poi un dramma, se confrontato con le invettive di Veronica.
Incinta pure Sara Tommasi. Lo racconta il suo fidanzato, Fabrizio Chinaglia. Chiosa il settimanale che ha dato la notizia: «Alle viste un nuovo inizio per l’ex showgirl redenta». Sabina Began si reinventa come manager dei diritti sportivi, con venature femministe: «Mi impegno in quello che faccio, non vendo il mio corpo, anche se sono attratta dagli uomini nascondo questo mio lato, voglio essere apprezzata per il mio cervello». La Minetti si rimette col penultimo fidanzato, cancella il suo sito, il profilo facebook e ogni traccia di sé dal web e sparisce a Ibiza. Dice che vuole trasferirsi in America. Un nuovo inizio pure per lei.
Insomma, hanno tutte messo la testa a posto, o forse si sono solo rassegnate. Chissà a cosa aspiravano, chissà cosa si immaginavano per il futuro solo un paio di anni fa: conduttrici di prima serata, parlamentari, ambasciatrici, fidanzate ufficiali dell’uomo più ricco d’Italia. E tutta quella fatica, quelle notti bianche, la chirurgia estetica, le litigate furiose con le concorrenti, l’incubo di un chilo di troppo o di una ragazza nuova, per cosa? Per finire ai giardinetti con il pupo?
Dovranno farsene una ragione. Il Bunga Bunga non si porta più. È l’epoca delle larghe intese e, quindi, della civile mediazione tra il modello Marysthell Polanco e il modello Rosy Bindi. Le vecchie bandiere della guerra contro “la sinistra bacchettona e moralista” – sì, le signorine furono anche questo, magari a loro insaputa – sono stati ammainate, e pure con una certa vergogna. A nessuno fa piacere ricordare che ci fu un tempo in cui 314 parlamentari votarono su Ruby nipote di Mubarak. Noemi e le altre dovranno rassegnarsi a una second life a bassa intensità e a farsi piacere l’impensabile, le scarpe basse e magari pure il grembiule, non per lo spettacolino di burlesque ma per lavare i piatti.
Dalla memoria dello scrittore cronaca della fine gloriosa di un’avventura politica dal palazzo Moneda, ove iniziò la storia feroce del neoliberismo. La Repubblica, 9 settembre 2013, con postilla
IL GIORNO più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda.
Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare. Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità. Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente ero stato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo La sangre y la esperanzadi uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa. Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non si arrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo. Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno dipoliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indicare il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.
È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973». Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.
nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende.Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!
«SIl manifesto, 8 settembre 2013
Una difesa delle scienze umane dall'imperialismo delle sctenze quantistiche.«L’ideatore della “modernità liquida”: “Un naturalista può descrivere l’albero ma non può sapere come si sente, questo è compito dell’esperienza soggettiva».
La Repubblica, 8 settembre 2013
Il fattore umano spariglia ogni previsione. Quando entra in campo, i conti non tornano quasi mai. E non esistono computer tanto potenti da neutralizzare questa variabile. Per questo le scienze umane, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, teorico della “modernità liquida”, sono e resteranno insostituibili.
Ci riassume le differenze?
«Durkheim, ardente positivista, proponeva il metodo scientifico universale e lo applicava al regno dei “fatti sociali”, che considerava realtà come le altre perché determinano i comportamenti. Weber, anti-positivista, riconosceva che la sociologia è una scienza, però diversa da quelle che si occupano della natura. Non per il terreno che coltiva, ma per il metodo di coltivazione. Nel senso che non si ferma alla spiegazione (trovare le cause) ma procede verso la comprensione (trovare il significato). Un naturalista può descrivere tutto di un albero ma non, ovviamente, come si sente. Questo è il lavoro del sociologo: cercare di capire gli oggetti del suo studio».
E in questo le neuroscienze non ci possono aiutare...
«L’oggetto della sociologia è l’esperienza umana. Che i tedeschi definiscono in due modi: Erfahrung,“qualcosa che mi è successo” ed Erlebnis, “qualcosa che ho vissuto”. Il primo può essere descritto dall’esterno, in termini oggettivi. Il secondo no, solo attraverso i racconti, pensieri e sentimenti del soggetto. E qui le neuroscienze si fermano, lasciando il posto alle scienze umane».
Riguardo ai Big Data, la quantità senza precedenti di dati digitali su ogni attività umana, dovrebbero essere una manna per uno scienziato sociale. O invece alimentano l’illusione informaticocentrica che tutto possa essere calcolabile?
«Già nel XVII secolo il grande matematico Pierre-Simon Laplace disse che se gli avessero fornito “tutti i dati” sullo stato del mondo avrebbe potuto predire ogni suo successivo stato. Sono ambizioni che ritornano. Tuttavia è una prospettiva impraticabile non a causa della scarsità di informazione quanto per l’essenziale e irreparabile contingenza del mondo e l’irremovibile presenza di accidenti che lo caratterizzano. Le possibilità sono infinite e l’infinito non può essere calcolato».
Stiamo sconfinando sul terreno della meccanica quantistica, o sbaglio?
«Esattamente. La “teoria dei molti mondi” propone che “ogni volta che si realizza un’azione subatomica l’universo si divide in multiple, differenti copie di se stesso, per cui ogni nuovo mondo rappresenta uno dei possibili esiti”. Un’ipotesi, questa degli universi costantemente proliferanti, rilanciata più di recente dalla “teoria delle stringhe”, che sostiene che esisterebbero 10.500 diverse possibilità della loro equazione, pari ad altrettanti universi. Un numero che nessun computer può gestire».
Tra i vari esempi di questa Hybris epistemologica (tutto può essere calcolato) c’è quello dei rischi finanziari. I quant di Wall Street presumevano di sapere quali mutui sarebbero stati ripagati e quali no. Che lezione possiamo trarne?
«Che l’unica verità ottenuta con criteri scientifici si basa sulla dicotomia cartesiana tra soggetto e oggetto. Nel caso delle scienze umane sarebbe raggiungibile se gli oggetti, gli esseri umani, fossero privati della loro soggettività, il che non era totalmente vero neppure nei casi più estremi come Auschwitz o i gulag. L’indisciplinato intruso tra la verità scientifico-naturale e quella scientifico-sociale è rappresentato proprio dalla soggettività umana».
Intanto Facebook ha assunto un sociologo che studia le tendenze a partire dal miliardo di suoi utenti. Ha un senso scientifico?
«Dipende da chi pretendono di rappresentare. Le grandi catene di supermercati usano già campioni del genere per predire, ad esempio, quanto l’aumento di un grado di temperatura incida sulla domanda di prodotti per il barbecue. Sono ricerche a fini commerciali, come i sondaggi tentano di strologare la politica. Ma se pretendiamo di ricavarne tendenze stocastiche nel comportamento umano generale possono rivelarsi pericolosamente fuorvianti. Vaclav Havel, vecchia volpe politica, era solito dire che per predire il futuro bisogna sapere “quali canzoni la nazione è disposta a cantare”, ma poi aggiungeva che “non c’è modo di conoscere cosa vorrà cantare l’anno prossimo”».
C’è chi azzarda che non ci sarà più bisogno di teorie, basterà dedurre la giustezza di un’idea dai dati. Che ne pensa?
«Che essa stessa è una teoria. Costoro non sarebbero in grado di provare ciò che fanno senza una teoria, basata come tutte su una serie di assunti condivisi».
La sinistra di opposizione Berlusconi e a Renzi «oggi a Roma è chiamata ad un confronto di idee e di prospettive. I nomi in campo raccolgono consensi larghi: Rodotà, Landini, don Ciotti, Zagrebelsky, Carlassare. Le idee, i contenuti per battaglie politiche e sociali non mancano. Oggi sarà interessante vedere se e in quali forme politiche si tradurranno. ».
Il manifesto, 8 settembre 2013
Come la fine di Berlusconi - a prescindere dal voto per la decadenza, dalla grazia, dai ricorsi alla Consulta, lui è al capolinea - terremota il partito proprietario del capo carismatico, così la prossima quasi certa incoronazione congressuale di Renzi, un'inedita figura di sindaco-segretario, chiude la parabola del Pd, completandone la mutazione con una maggioranza neo democristiana e una minoranza socialdemocratica. È perfino svanita l'illusione di una spaccatura tra le due componenti. Non bastasse, stiamo assistendo ad uno spettacolo poco decoroso di ex leader che si accalcano e si spintonano (anche se con qualche distinguo) per salire sul carro del vincitore. Solo alcune autorevoli voci, Bersani, D'Alema, Cofferati e Cuperlo, l'unico antagonista sceso in campo, si mettono fuori dal coro.
In questa situazione, inedita, non è difficile immaginare che la distanza tra un Partito democratico renziano, e la sinistra politica, culturale, sociale, si allargherà. Pensare Renzi come interlocutore dei movimenti per i beni comuni, dei No-Tav, dell'acqua pubblica, della difesa della Costituzione, del reddito minimo, di una linea di confronto che ascolti le ragioni della Fiom piuttosto che quelle di Marchionne, è assai improbabile.
Se l'analisi non è così lontana da quello che succederà nei prossimi mesi, siamo di fronte ad un'occasione importante per la larga e diffusa rete di associazioni della sinistra di opposizione. Che proprio oggi a Roma è chiamata ad un confronto di idee e di prospettive. I nomi in campo raccolgono consensi larghi: Rodotà, Landini, don Ciotti, Zagrebelsky, Carlassare. Un appuntamento atteso, preceduto da incontri partecipati, come quello del 2 giugno a Bologna in difesa della Costituzione.
Seguendo da anni questa vasta area, abbiamo capito che le idee, i contenuti per battaglie politiche e sociali non mancano. Oggi però sarà interessante vedere se e in quali forme politiche si tradurranno. Ovviamente per noi del manifesto si tratta di un appuntamento al quale guardiamo con interesse perché le persone che lo promuovono sono state tra le voci critiche più importanti e intellettualmente attrezzate dell'opposizione ad un modo di vivere, di produrre e di consumare, e quindi naturalmente antiberlusconiane, senza sentirsi ossessionati dalle pagliacciate dell'uomo di Arcore.
I protagonisti dell'assemblea, insieme agli esponenti di movimenti sociali, hanno dato voce alle lotte contro le politiche che hanno sprofondato il Paese nella recessione più nera e profittato scandalosamente di una crisi tanto generosa con i ricchi, quanto avara con l'esercito di precari e disoccupati. Ma finora hanno camminato in ordine sparso, mentre adesso sarebbe importante costruire una larga intesa che sia punto di riferimento per chi è impegnato nel cambiamento. A sinistra.
Come intervenire dunque sui nuovi assetti di potere che si preparano? Come rispondere alla domanda di nuova rappresentanza? Non sarà solo questa assemblea a dover esaurire le risposte alla crisi della sinistra. Tuttavia sarà importante verificare quale percorso verrà tracciato. Tenendo presente che le scorciatoie partitiche andrebbero evitate e di derive identitarie non è più il tempo, resta la necessità della rappresentanza di un'area che non si ritrova né nel Pd di Renzi, né nel movimento di Grillo.
Resta l'incognita di Sel e di Vendola e di cosa faranno "da grandi". Nella nuova partita che si gioca a sinistra del Pd avrebbero ancora qualche carta da giocare. A meno che non vogliano custodire gelosamente l'orticello del tre per cento conquistato alle ultime elezioni.
La Repubblica, 7 settembre 2013
A Lampedusa, nel suo pellegrinaggio contro la “globalizzazione del-l’indifferenza”, Francesco ottenne di non essere accompagnato da autorità politiche.Vederlo affiancato, nell’omaggio ai migranti annegati, da ministri che in precedenza si erano vantati di avere organizzato la pratica incivile dei respingimenti in mare aperto, sarebbe stato per lo meno imbarazzante.
Si proclamano impegnati contro una guerra in Siria, come se la guerra in Siria non fosse in corso già da due anni, con più di centomila morti e milioni di profughi, mentre noi tutti giravamo la testa dall’altra parte. E intanto qualcuno, sottovoce, replica l’argomento dimostratosi così miope nei Balcani: «I contendenti sono uno peggio dell’altro, lasciamo che si ammazzino fra di loro. Certo, è doloroso che ci vadano di mezzo i bambini e la popolazione innocente, ma noi non possiamo farci nulla. Meglio che i tagliagole si indeboliscano sfogandosi fra di loro».
Noto un certo compiacimento nel sottolineare la plastica contrapposizione in atto fra due icone del progressismo contemporaneo, papa Francesco e il presidente Obama: il nuovo profeta della nonviolenza che s’immedesima nei poveri delle periferie del mondo; e il capo di un’America ridimensionata nel suo ruolo di superpotenza, intento nella difficilissima ricerca di un diverso equilibrio planetario. È facile dire no alla pretesa degli Stati Uniti di perpetuare la loro funzione di gendarme nel disordine internazionale. Ma come ha rilevato il verde tedesco Joshka Fischer, in mancanza di alternative rischiamo di dover rimpiangere quella vocazione. Non a caso il suo compagno Daniel Cohn- Bendit insiste nel proporre un’azione concertata in Siria con la partecipazione diretta dell’Unione Europea. Invano da noi, quando si consumò la tragedia dei Balcani, fu un pacifista come Alexander Langer a invocare la dolorosanecessità dell’“ingerenza umanitaria”. Le controindicazioni sono fortissime, non c’è chi non le veda. Ma è troppo comodo trincerarsi dietro all’argomento che oggi è tardi, si sarebbe dovuto intervenire per tempo, da parte di chi al momento giusto si era ben guardato dall’assumersi la responsabilità.
Responsabilità. È questa la parola che dovrebbe inchiodare i ministri oggi accorsi a digiunare con Francesco. Quasi che un gesto nobile e profetico potesse riempire il vuoto della diplomazia internazionale che al vertice di San Pietroburgosi è di nuovo manifestato platealmente.
Il digiuno è un intimo atto di contrizione le cui radici affondano nella tradizione biblica e nella religiosità orientale. Fra sette giorni, nella ricorrenza millenaria del Kippur, gli ebrei si asterranno dal cibo e dall’acqua, dal tramonto alla sera successiva. I musulmani per tutto il mese di Ramadan sopportano la calura del giorno in totale astinenza. La stessa che anticamente veniva praticata anche dai cristiani. Inoltre il digiuno, ben lo sappiamo, può essere un’arma di lotta politica formidabile, come ci insegna la nonv iolenza gandhiana. Ma quale credibilità dovremmo riconoscere – nel pieno di una crisi internazionale – ai titolari di delicatissime azioni diplomatiche e strategiche che cercano rifugio in una profezia la quale non rientra di certo nelle loro prerogative? Con quale legittimità ministri titolari di un uso calibrato della forza, possono derogare, sia pure per un giorno solo, e in ossequio al messaggio evangelico di un Pontefice, alla loro funzione istituzionale?
Riconoscere preziosa la forza spirituale impressa da Francesco al suo nuovo, sorprendente, affascinante magistero, e attribuire la dovuta importanza alla sua forza trascinatrice di cui oggi si sentono partecipi milioni di uomini di buona volontà, non ci esime dall’avanzare di fronte ai nostri rappresentanti politici questa obiezione.
Sarebbe volgare insinuare che la veglia di San Pietro possa trasformarsi in un atto ostile nei confronti di Obama e Hollande solo perché così, strumentalmente, la rivendicheranno Assad e Putin. Questa è la dimensione propagandistica di una guerra feroce già in corso. Papa Francesco ne prescinde, com’è giusto che sia. Non a caso il Vaticano ha smentito seccamente che Bergoglio abbia telefonato al dittatore siriano. E a Putin si è rivolto con una lettera nella sua veste di presidente del vertice fra i capi delle maggiori potenze.
Ma i leader politici italiani che oggi testimoniano con un (lieve) sacrificio nutrizionale la propria indisponibilità all’azione militare, sono davvero sicuri che da domani, a pancia piena, potremo fare a meno di opporci alla barbarie delle armi chimiche ricorrendo ad operazioni di polizia internazionale? È fin troppo facile esprimere il timore che essi debbano presto entrare in contraddizione con se stessi. Dirglielo oggi, non significa certo dichiararsi favorevoli al nostro intervento diretto nella guerra. Solo sarebbe stato meglio che digiunassero riflettendo in silenzio sul loro ruolo passato e presente nella “globalizzazione dell’indifferenza”.
I soliti cortigiani, quelli che hanno avviato lo smantellamento dello Stato sociale, facilitato l’egemonia del “berluscpensiero” e adesso, riuniti a Cernobbio per salvare ancora una volta l'Italia e compiacere il compiacente Re Giorgio, si adoperano perché al Caimano sia garantita l’impunità.
Il manifesto, 7 settembre 2013
Ora che la recessione è «tecnicamente» finita, non vorrete far cadere il governo Letta? Si rischia un «grande impatto negativo» sulla crescita, questo fiore nel deserto. Non s'interrompe un'emozione sul più bello. L'economista Nouriel Roubini, Franco Bernabé (Telecom), Franco Bassanini (Cassa Depositi e Prestiti), e via via molti degli invitati al seminario Ambrosetti a Cernobbio hanno ribadito le «indiscrezioni» filtrate dal Quirinale. Insieme stanno provando a costruire una cintura sanitaria attorno al figlio delle grandi intese, il governo che si avvia ad affrontare il calvario della legge di Stabilità. Un governo che sembra rischiare di cadere, falchi o colombe del Pdl permettendo, il 9, il 10, o l'11 settembre - o quando sarà - dopo la «decadenza» da senatore della Repubblica di Silvio Berlusconi. Il depositario della golden share del «futuro» di un paese, o almeno dei prossimi 18 mesi del suo governo, ieri è stato il convitato di pietra di Cernobbio. Sono stati in molti a rivolgergli almeno una preghiera, suggestionati dall'annuncio di una contrazione della recessione dal -0,6% a -0,2% nei primi sei mesi del 2013 che scambiano per una «crescita». Se al prossimo trimestre verrà registrato un +0,1%, cosa faranno banchieri, commis d'État e largointesisti di tutte le sfumature? Abbozzeranno una danza della pioggia.
L'accorata dolorante invettiva di un letterato che si appella a chi dovrebbe essere l'esempio della corretta tutela della cosa pubblica, e invece sacrifica ogni giorno la preoccupazione di uscire dalla crisi col consenso (e l'impunità) di chi l'ha provocata.
La Repubblica, 7 settembre 2013
Presidente, mio Presidente, Lei sa molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per giovani. Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato.
La politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno (è un problema di noi vecchi), di morirci.

La Repubblica, 6 settembre 2013
Il tempo politico italiano tendeva al torpido ma ha dei soprassalti da quando lo infesta l’Olonese. Forte d’eufemismi Imu (saremo torchiati sotto nome diverso), mercoledì 28 agosto Letta jr. parla Urbi et et orbi: alleluja, non hanno più termine le “larghe intese”; l’invadente consorte se ne vanta; e adesso, avverte, resti sospeso l’antipatico affare della sua decadenza dal Senato. Spirava aria d’appeasement. L’indomani la guastano i cinque della Cassazione depositando 208 pagine letali: negli anni lo Statista frodava fisco e azionisti, autore d’una colossale macchina falsaria; ormai restano briciole della res iudicanda,il resto essendo inghiottito da prescrizione, indulto, condoni che gli affatturavano Yes men in livrea parlamentare. E lui sbraita le solite invettive: «sentenza allucinante, fondata sul nulla »; milioni d’italiani impediranno che un voto butti fuori il loro condottiero. Assalto al Palazzo d’Inverno? No, o almeno non ancora: il governo in carica, dichiara venerdì 30, dura finché lui sieda nel Senato, violando norme votate anche dal Pdl (d. lgs. 31 dicembre 2012 n. 235); simul stabunt, simul cadent («cadunt», declamava una volta; abilissimi nelle cacce fraudolente, gli alligatori valgono meno in grammatica latina). Sabato nega d’averlo detto ma lo ripete, in cura d’anima presso Marco Pannella. Staremo a vedere se e come sia decentemente graziabile un gangster da Gotham City: quanto pericoloso, lo dicono fulminee metamorfosi nelle cosiddette colombe e l’ascendente elettorale; una sonda gli dà 3 punti sul Pd.
L’incognita è fin dove arrivi l’abito subalterno nella quasi sinistra, e manca poco al test; lunedì 9 settembre, a Palazzo Madama, Giunta delle immunità, va in scena un dibattito: se B. sia decaduto dall’ufficio. Il “no” presuppone schieramenti così stralunati, che non vi conta nemmeno lui: gli basta perdere tempo (arma forense d’alto rendimento); vuol mandare le carte alla Consulta; nel frattempo aspetta una sbalorditiva grazia; e se piovesse dal Colle, la spaccerebbe per sconfessione della res iudicata.
Formano l’ordigno bellico 6 opinioni d’8 giusloquenti. Le chiamavano “consilia sapientis”, un genere molto screditato, e stavolta pesano meno d’una piuma. Primo quesito se la Giunta possa spedire gli atti alla Corte, lavandosi le mani. No, dicono i precedenti: domanda inammissibile; l’accertamento d’illegittimità avviene in via incidentale, ossia su impulso del giudice chiamato ad applicare la norma dubbia. Siamo fuori del processo. I glossatori lo definivano “actus trium personarum”: due parti contraddicono; un terzo decide, stando in medio. La Giunta appartiene al parlamento: il quale discute e vota leggi; se teme d’avere lavorato male, vi rimetta mano (Corte cost., ord. 22 ottobre 2008 n. 334). S’era mai visto il Senato attore d’un giudizio contra se ipsum (presunta invalidità delle norme che ha votato)? Ipotesi lunatica.
Nel merito, a sciogliere gl’ipocriti dubbi bastano l’idioma italiano e un’elementare sintassi del diritto. La legge individua i non candidabili (art. 65, comma 1, Cost.): spetta alla Camera competente dire se ricorra uno dei casi previsti (art. 66); ed è discorso burlesco che, essendo sovrana, possa mantenere nei banchi i legalmente esclusi dall’ufficio. Tra le norme vigenti (d. lgs. n. 235/2012) eccone due: l’art. 1 marchia “non candidabile” l’irrevocabilmente condannato; l’art. 3 contempla la “incandidabilità sopravvenuta”; identico l’esito; non sta nel pensabile un rifiuto d’applicare la norma. Sia detto
en passant: in tali contesti “ineleggibile” e “non candidabile” sono sinonimi; è trucco vaniloquo distinguerli, come tenta uno dei sei “consilia”. Veniamo al clou della dottrina d’Arcore, formulabile così: la “incandidabilità” somiglia all’interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria; ed esiste dal 31 dicembre 2012;dunque colpisce solo l’autore dei fatti posteriori al 5 gennaio 2013, data dell’entrata in vigore (art. 25 Cost.: le norme penali non valgono in praeteritum). Salta agli occhi la falsa premessa, che lo stato personale de quosia pena nel senso tecnico. No, è profilassi parlamentare. Ogni pena presuppone una condanna che la infligga, e qui nessuno gliel’ha inflitta: gli artt. 1 e 3 l. c. escludono dall’elettorato passivo chiunque versi in date situazioni; l’esclusione avviene ex lege. Vale l’art. 66 Cost.: causa ostativa sopravvenuta, a fortiori varrebbe se la “incandidabilità” equivalesse a pena accessoria, perché le pene accessorie erano comminate prima che divus Berlusco se le meritasse frodando mezzo mondo. Le Camere devono potersi ripulire delle presenze infestanti.
I berluscones agitano questioni manifestamente infondate. Sarebbe indecoroso simulare dubbi, dispute, incubazioni (dormire in luoghi consacrati sperando che qualche dio mandi lumi), ma pendono disonorevoli precedenti: Re Lanterna era ineleggibile ab ovo, quale concessionario dell’etere (art. 10, comma 1, d. P. R. 30 marzo 1956 n. 361), e sei volte, omertosamente, gli avversari l’hanno tenuto in arcione con risibili cavilli. Decoro e moralità a parte, è perdita secca assecondarlo. Gli concedano quanti mesi vuole; invitato a concludere, urlerebbe: «siete un plotone d’esecuzione». In mani tartufesche il diritto alla difesa diventa perditempo. Speriamo che esca dal quadro politico: cosa dubbia; se mai accade, loderemo Dike. Gli oppositori sinora l’hanno trattato con i guanti, cappello in mano, inchini; e l’establishment gli presta sponde: Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, ex ministro degl’Interni nel gabinetto Monti, candidata al Quirinale, ora guardasigilli, raccomanda laboriose riflessioni sui dubbi sollevati dagli otto oracoli. Erano un sudario le “larghe intese”.
SIl manifesto, 6 settembre 2013
C'è qualcosa di malato nell'atmosfera malsana di questa estate prolungata, da Morte a Venezia, con il morbo che serpeggia nei vicoli non conclamato, intuibile solo per reticenti indizi nell'attesa che l'epidemia esploda. E non solo per il tanfo di guerra che viene dal Mediterraneo.
E', in fondo, indizio di malattia il pur tanto celebrato "accordo storico" tra Confindustria e Sindacati: questo patto tra produttori che non producono più, annunciato nello stesso giorno in cui le impietose statistiche europee ci inchiodavano agli ultimi posti con una caduta del Pil vicina al 2% e una competitività crollata al 49° livello. E lo è - altro che se lo è - la manovra sull'Imu, sintomo delle patologiche contraddizioni della maggioranza più che ragionevole intervento anti-crisi, annunciato senza copertura, senza che nessuno sappia da dove proverranno le risorse se non che una parte di esse sarà sottratta al lavoro e all'occupazione, con un'esibizione da medici sadici in presenza di un paziente comatoso.
Per non parlare della grottesca vicenda di Silvio Berlusconi e della sua decadenza da senatore, che riduce l'orizzonte temporale della politica ai minimi termini, alle settimane, ai giorni, forse alle ore con questa corsa dissennata a dilazionare l'inevitabile imponendo una navigazione a vista che per permettere al grande pregiudicato di guadagnare tempo per se stesso finisce per abrogare il tempo della politica. In questo contesto la cura omeopatica con cui la imponente regia del Quirinale e la logica stessa delle larghe intese trattano ormai da mesi la crisi dilazionandone sistematicamente i tempi, congelandone (senza risolverle) le contraddizioni, mettendo in campo narrazioni tanto rassicuranti quanto improbabili, più che una terapia tende a costituire un ulteriore fattore patogeno.
Perché in questo tempo sospeso, sotto la superficie piatta che ha il volto liscio di Enrico Letta, si consumano in realtà processi di trasformazione (e di dissoluzione) massicci, spostamenti di equilibri dirompenti e tuttavia sottratti alla riflessione collettiva. Lo è la mutazione genetica in atto nel Partito democratico con l'irresistibile ascesa di Matteo Renzi e la conversione ecumenica al renzismo di buona parte del personale politico di centro-sinistra (esempio di "trasformismo in un solo partito" degno di un saggio storico). Ne uscirà probabilmente mutato il quadro delle culture politiche italiane, con l'estinzione o comunque la riduzione al lumicino di ogni residua traccia di social-democrazia, il ritorno in grande stile del centrismo ex democristiano rivisitato alla luce di un populismo post-berlusconiano, la fine della sinistra istituzionale, a voler rimanere ai piani nobili dell'argomentazione. Senza considerare lo spettacolo meno nobile che andrà in scena ai piani bassi (i "polli di Renzi"?), con la corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie... Può non piacere - e non piace - ma questo sta diventando il Pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un "segno" della rinata identità di sinistra.
Simmetricamente la crisi latente e tuttavia inevitabile del Pdl (e dell'intero centro-destra) continuerà a lavorare e a produrre i propri veleni, a cominciare dalla devastazione dei più elementari principii giuridici e costituzionali prodotta dalla battaglia contro la decadenza, in cui si fa quotidianamente strame di ogni elementare logica argomentativa, in un'esibizione di non sense, di cervellotici espedienti (Violante ne è maestro) diretti ad affermare l'autonomia della politica dal diritto, con la possibilità - il rischio - che alla fine un intervento dall'alto verrà (forse solo un "contentino") per "stemperare le tensioni" e salvare la capra Berlusconi e i cavoli costituzionali, le larghe intese e la legalità repubblicana.
Per questo l'Assemblea convocata per domenica 8 settembre a Roma è importante. Tanto più se da essa venissero alcune - poche - parole chiare. Sulla inevitabile decadenza e incandidabilità del pregiudicato Berlusconi, senza se e senza ma. Sulla difesa intransigente della Costituzione, a cominciare da quell'articolo 3 (l'Eguaglianza!) mai come oggi insidiato non solo dalle pretese di un pregiudicato di rango ma anche dalle imposizioni tecnocratiche europee e globali. Sull'insostenibilità della logica delle grandi intese (nel cui Dna stesso è inscritta la manomissione costituzionale), sempre più ostacolo a ogni vero intervento di bonifica economica, sociale e morale del paese. E infine (ed è questo che in molti attendono) sulla improcrastinabile necessità di lavorare alla costruzione di una alternativa reale - credibile, stabile e organizzata, non minoritaria - allo stato di cose esistente.
La Repubblica, 5 settembre 2013
Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant’Ivo, tutta una controcurva, è un’antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po’ come la sinistra. «Strana e affascinante », la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell’operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: «Sono anch’io un’antichità del moderno », non si vergogna della sua nostalgia per il «magnifico Novecento», ma osserva le controcurve del nuovo millennio.
Ha mai detto di se stesso "«sono un uomo di sinistra"? Qualcosa mi fa supporre di no...
Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che “sinistra” sia qualcosa di cui c’è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola».
È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l’avrà pure...
«Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un’altra. La vado cercando».
Ipotesi?
«In autunno uscirà un mio libro il cui saggio finale, inedito, si intitola La sinistra è l’oltre. Ecco, la sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo».
Non è sempre stata questo? Un movimento che «abolisce lo stato di cose presente »?
«A questo si erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché dicevano immediatamente anche all’uomo più semplice che si andava verso qualcosa al di là dell’orizzonte».
Mentre sinistra è uno “stato in luogo”?
«Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo, ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che le vecchie parole suggerivano. Forse “sinistra” riflette proprio questo passaggio dalla prospettiva all’autodifesa, dal movimento alla trincea».
Ma si diventa di sinistra? O ci si nasce?
«Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo, diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato molto l’estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell’orizzonte in modo naturale, ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...».
Fino alla dramma del crollo. Lei ha scritto: fu uno strabismo, credevamo fosse il rosso dell’alba, era quello del tramonto...
«Ma prima di questo avevamo già declinato la categoria del disincanto. Quando sono caduti nome e forma del partito, ricordo bene che in quel travaglio mi sono affidato a una scelta: rimarrò un intellettuale comunista in qualunque partito mi troverò a militare. E così ho fatto. Resto in quest’area, con la mia identità».
Una volta non era concepibile essere comunisti senza il partito.
«È diventata una scelta libera dalle strutture. Io mi sono iscritto presto nel filone del realismo politico, lungo la linea anti-ideologica Machiavelli Hobbes Marx Weber Schmitt... Essere comunista in questa linea non è facile, ma le grandi idee vanno portate dentro la storia in atto. Tra la visione e la politica c’è la mediazione della pratica, io devo tener conto di quel che c’è, e di come c’è».
Lei ha scritto anche: basta con gli aggettivi, ai sostantivi. Cosa voleva dire?
La parola sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il bisogno di aggiungere “democratico”. Il comunismo non lo fece mai. Non so se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo fallimento».
Ma quale strada porta all’oltre? Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di onestà, rispetto...
«Da un po’ di tempo dico che si è aperta nel mondo contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell’essere qui, in un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista, partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società profondamente divisa non è possibile essere d’accordo con tutti. Certo una volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La parte ora te la devi andare a cercare».
E come si riconosce?
«Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato, mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell’Ottocento grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...».
La perde...
«Quella storia del movimento operaio ovviamente si è conclusa, ma la storia resta storia. La Spd non è il mio orizzonte politico preferito, ma ha appena celebrato senza imbarazzi i suoi 150 anni di vita. Ecco, quello è un partito! Non può essere partito quello che azzera tutto ogni volta che viene convinto a farlo dalla contintingenza politica».
Cosa resta di quella storia?
«Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure anche contraddittorie, il dipendente l’autonomo il precario, il lavoro di conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo multiverso in un’opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo antropologico, la vedo difficile ».
La politica al tramonto. È il titolo di un suo libro recente.
«Io teorizzo pessimisticamente il tempo della fine. Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono. Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. Altrimenti, per tornare alla sua domanda sulla deontologia civica, si cade nella la deriva eticista».
Può spiegare meglio?
«La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l’immoralità e ti senti a posto dentro questa società ».
La rivolta contro la “casta” sembra verbalmente forte e gratificante.
«La famosa antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto blu?».
Un’arma di distrazione di massa?
«Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c’è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c’è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro».
In due libri, le ambigue complicità del soggetto nei confronti dei meccanismi che favoriscono la sottomissione. Un percorso filosofico di Judith Butler che parte dalla riedizione di
La vita psichica del potere e arriva al recente pamphlet A chi spetta una buona vita?Il manifesto, 5 settembre 2013
L'assoggettamento, suggerisce Foucault, appare come una forma di dipendenza originaria che non abbiamo la possibilità di stabilire in anticipo ma che ci fonda, certo paradossalmente ma - a quanto pare - inesorabilmente. Così quel potere che sentiamo schiacciante fuori di noi è certamente un'esperienza tra le più dolorose. Tuttavia è importante essere consapevoli che la costituzione stessa del soggetto conversa proprio con (e di) quel potere. Lungo questo crinale si inserisce The Psychic Life of Power: Theories in Subjection (1997, Stanford University Press), una delle riflessioni più dense e interessanti di Judith Butler intorno al potere. Tradotto per la prima volta in Italia nel 2005 da Meltemi, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (Mimesis, pp. 248, euro 20) esce ora in un'edizione completamente rinnovata a cura di Federico Zappino.
La tesi principale di Butler è piuttosto disturbante giacché rimanda ad una complicità ambigua che il soggetto intrattiene con il potere e che difficilmente si può estirpare. Una doppia traiettoria fa del soggetto un paradosso temporale: se da una parte il potere indica la qualità di sottomissione del soggetto, dall'altra ne connota lo stesso divenire. Benché Foucault abbia intrapreso la strada del riconoscimento della relazione tra soggetto e potere, è pur vero - secondo Butler - che non ne ha saputo scandagliare interamente le forme così come i domini psichici.
Torsioni e ripiegamenti
Per indagare una teoria del potere insieme ad una teoria psichica, Butler problematizza l'ortodossia filosofica e psicoanalitica, proponendo un interrogativo politico e sociale che ragioni intorno alla soggettivazione critica. Occorre però discutere di un punto centrale: nelle due posture che il potere assume in capo al soggetto (nel suo fondarlo, e dunque precederlo, e nel suo essere agito) non vi è alcuna necessità teleologica. Né ontologica. Ciò con cui ci si scontra è piuttosto un'ambiguità e una plasticità del soggetto stesso che - da subito competente del potere - è già in colloquio con esso.
Se infatti la soggettivazione è sottomissione e insieme costituzione del soggetto, esiste una possibilità attraverso cui il soggetto stesso può emergere. Spesso, ricorda Butler, si fa riferimento ad un attaccamento appassionato nei confronti della propria sottomissione ma l'argomento andrebbe indagato con cura perché viene invocato proprio da coloro che vorrebbero minimizzare e depotenziare la rivendicazione degli oppressi. Secondo la filosofa, l'attaccamento è prodotto dallo stesso potere, adducendo e figurando una torsione del soggetto stesso che si manifesta come ripiegamento.
In queste maglie fittissime, quell'attaccamento diventa una possibilità di emersione dello stesso soggetto se - da un piano puramente filosofico - ci si sposta a «socializzare» il piano psicanalitico. Riconoscere l'attaccamento determina infatti la consapevolezza che nell'alveo di quella soggettivazione esiste qualcosa che sfugge alla definizione netta e rassicurante che da Hegel arriva a Foucault passando per Nietzsche e Freud. C'è infatti un amore smisurato che mostra la nostra stessa vulnerabilità e che si prostra e si rivolta conducendoci in una melanconia che è poi prodotta dalla perdita; nel domandarsi le responsabilità del soggetto che si lascia sottomettere non si tiene conto della forma psichica che quel potere assume. La coazione a ripetere dell'attaccamento si comporta come una nevrosi, il rifiuto (o forse sarebbe meglio dire: quel che ne resta) invece - dopo la consapevolezza - scompagina lo scenario repressivo del regime regolatore nell'impossibilità ad approfittarsi di noi. L'esistenza di un soggetto anteriore allo sfacelo è paventabile? Cioè l'interruzione di questo circuito che soggioga è pensabile? Butler risponde così: «sono orientata a sostenere che il soggetto che si oppone alla violenza morale, anche a quella contro se stesso, sia il prodotto di una violenza già consumatasi, senza la quale egli non sarebbe potuto emergere». E in effetti, dalla dialettica servo-padrone passando per la coscienza infelice proposte da Hegel, si introduce il prodromo di ciò che inchioderà Foucault e il dibattito a lui coevo. Cioè quel soggetto non è analizzabile solo come produzione ma anche come forma di interiorizzazione.
L'Io in perdita
Nella torsione che segna l'illuminarsi della coscienza, si deve poter distinguere la volontà dal desiderio. È in fondo la prima che configura ciò che Nietzsche individua come «cattiva coscienza» e che va a puntellare l'auto-rimprovero della norma di cui discetta Althusser. Seppure nell'irrinunciabile dettato teorico, la filosofa - anche qui come in molto suoi libri - sembra andare in cerca della debolezza di ogni fonte da lei scandagliata per trovare, infine, un inedito punto di avvistamento.
All'altezza de La vita psichica del potere tuttavia non ve n'è uno che possa dirsi più saldo degli altri; sarebbe meglio parlare di crocicchio, apparentemente senza via di uscita, entro cui il soggetto affiora, nello sfondo di una violenza già consumata, insieme all'ambiguità di una perdita che non si sa nominare e che, proprio per questo, inchioda l'io in uno stato di perenne melanconia. È quest'ultima a possedere un nome prestabilito e una sua utilità nell'economia butleriana; serve infatti per indicare lo statuto frastagliato del soggetto che diventa Io nel suo ripiegarsi.
Escrescenze «logiche»
Nella prefazione, Zappino spiega bene in che termini la melanconia si possa ricondurre al genere in una prospettiva della critica queer. E spiega anche come l'intero testo conservi esso stesso una tonalità affettiva melanconica. Più che soluzioni alla morsa del potere, Butler ne fotografa l'esiziale e doppia dislocazione, permanente in una forma psichica che non solo viene interiorizzata ma che sembra guidare lo stesso desiderio e le stesse relazioni.
In questo dramma - catastrofe pervasiva già in atto - non c'è posto per nessuna forma parodica; piuttosto la domanda che ci si potrebbe porre è: davvero il soggetto è solo un prodotto, seppur complesso, del potere? E davvero la melanconia avverte unicamente del mancato attaccamento sessuale? In una prospettiva di plasticità del genere a cui Butler ci ha abituati sembra di poter rispondere di sì (su questo e sul futuro del soggetto queer si interrogano con competenza Federico Zappino e Lorenzo Bernini in appendice al volume). Non c'è naturalità e non c'è determinismo, ciò è pur vero nel discorso della filosofa. Certo che però a pensare lucidamente che anche il dissenso critico, le strategie di liberazione e lo stesso desiderio, sono nient'altro che propaggini di quel soggetto, «escrescenza della logica», che decreta la propria nascita come una voragine della fine, viene quasi da chiedersi se non sia perfettamente inutile continuare a interrogarsi sulla vulnerabilità della condizione umana. Che se allo stringente orizzonte ontologico si sostituisce la relazionalità bisognerà pure sostanziarla affinché non sia una finzione anch'essa, come un atto narcisistico. Si potrà cioè concedere all'alterità tutta la sua incontenibile imprevedibilità nel luogo di quella relazione? Ma Judith Butler questo lo insegna, profondamente. Altrimenti non si chiederebbe, in un suo recente e bellissimo librino, A chi spetta una buona vita? (Nottetempo, pp. 80, euro 7). Pubblicato in collaborazione con il blog «il lavoro culturale», viene curato da Nicola Perugini ed è il discorso della filosofa in occasione dell'attribuzione del Premio Adorno 2012. Si tratta di un piccolo gioiello di chiarezza e sintesi politica che prende avvio da un'affermazione del filosofo tedesco contenuta in Minima Moralia: «Non si dà vita vera nella falsa». Chiedersi cosa sia una vita buona e se la si possa condurre entro il perimetro di una vita cattiva, non ha una mera accezione morale, bensì consiste in un ragionamento più ampio che metta in relazione la moralità e la teoria sociale. Secondo Butler, Adorno si domanda in che modo il dispositivo del potere possa condizionare, fino a sconvolgere, le nostre riflessioni sulla forma di vita migliore. Si potrebbe cominciare dalla propria di vita, ma la questione dirimente per Butler è anzitutto quali siano le vite da considerare tali. In ultima istanza, si gioca una partita più alta e scomoda: quali sono le vite alle quali l'amministrazione della biopolitica non riconosce il lutto? Forse quelle tantissime esistenze che, ancora prima di ulteriori costruzioni, sono già perdute o morte. In questo passaggio umbratile sono numerose le esistenze indegne di lutto che, non trovando spazio nella scena politica, si stringono in «forme di insorgenza pubblica». C'è una noncuranza di fondo che attiene ad una mancata condizione di supporto. Chi non è degno di lutto non è neppure degno di considerazione, e viceversa; non potrà beneficiare di libertà di espressione politica, di alloggio, di sostegno economico né di forme di riconoscimento sociale. Ritornando alla domanda iniziale, come si fa a condurre una vita buona se quella stessa vita è già invisibile, intercambiabile e del tutto dispensabile? Qui rientra la questione della riflessività dell'Io. Anche in un orizzonte neoliberista come quello presente, o in un sistema violento come quello dello Stato di Israele. Cioè, io ho la forza sufficiente per emergere nel campo del possibile? Se sì, devo poter dare seguito a qualunque risposta ne derivi, e poi - si potrebbe aggiungere - decidere come stare in quel campo. Devo soprattutto comprendere che la mia vita si staglia in un tessuto relazionale più vasto che è piagato dal dominio, sì, ma che al contempo può essere la scena di un riconoscimento. Per Butler «anche in condizioni di minaccia estrema, le persone compiono tutti i gesti possibili di supporto reciproco».
Anonimi nel mondo
Così, se l'invivibilità può essere ascritta alla categoria della precarietà, non sembrerà peregrino segnalare desideri che non si fermano alla sopravvivenza ma che tendono alla vita buona: «anche il solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza-nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo». Allora la vita buona solleva le battaglie per la sopravvivenza in un senso più alto, che comprenda quantomeno la vita organica e che attenga ad una visione sociale e di interdipendenza ma soprattutto che consideri la relazione fra me e gli altri. Sempre e in una molteplicità di emersione.
La resistenza alla invivibilità non significa esclusivamente dire di no ad un sistema di vita che non corrisponde, deve essere invece incarnata nei corpi e plurale e poter implicare l'incontro con chi non è degno di lutto. La resistenza in tal senso aspira ad una più ampia narrazione rappresentata dal combattimento della precarietà e della diseguaglianza differenziale. Una forma di scontro in cui non si espunge la vulnerabilità ma anzi se ne fa risorsa perché diventi vivibile, in una condizione critica di democrazia radicale.
Qualche volta rifletto, in mancanza di meglio, sulla democrazia (nel metrò, naturalmente). È noto che c’è dello smarrimento, nelle intelligenze, per quanto concerne questa utile nozione. E siccome amo ritrovarmi con il più gran numero possibile di uomini, cerco le definizioni che potrebbero risultare accettabili per questo gran numero. Non è facile e non pretendo di esservi riuscito. Ma mi sembra che si possa arrivare a qualche utile approssimazione. Per esser breve, eccone una: la democrazia è l’esercizio sociale e politico della modestia. Va spiegata.
Conosco due tipi di ragionamento reazionario (visto che tutto va precisato, conveniamo di chiamare reazionario ogni atteggiamento che mira ad accrescere indefinitamente le servitù politiche ed economiche che pesano sugli uomini). Questi due ragionamenti vanno in senso opposto, ma hanno la caratteristica comune di esprimere una certezza assoluta. Il primo consiste nel dire: «Non si potranno mai cambiare gli uomini». Conclusione: le guerre sono inevitabili, la servitù sociale e politica è nella natura delle cose, lasciamo i fucilatori fucilare e coltiviamo il nostro giardino (a dire il vero, si tratta generalmente di un parco).
L’altro consiste nel dire: «Si possono cambiare gli uomini. Ma la loro liberazione dipende dal tale fattore e bisogna agire nella tale maniera per far loro del bene». Conclusione: è logico opprimere: 1) Quelli che pensano che non sia possibile alcun cambiamento; 2) quelli che non sono d’accordo sul fattore in questione; 3) quelli che, pur essendo d’accordo sul fattore, non lo sono sui mezzi destinati a modificarlo; 4) tutti coloro, in generale, che pensano che le cose non siano così semplici. In totale, i tre quarti dell’umanità.
Nei due casi, ci troviamo davanti a un’ostinata semplificazione del problema. Nei due casi, si introducono nel problema sociale una fissità o un determinismo assoluto che non possono ragionevolmente trovarvisi. Nei due casi, si sente di possedere abbastanza certezze per fare o lasciar fare la Storia, secondo tali principi, e per giustificare o aggravare il dolore umano. Penso che questi spiriti, così diversi, ma la cui convinzione resiste egualmente all’infelicità altrui, vadano ben ammirati. Ma bisogna almeno chiamarli col loro nome e dire che cosa sono e che cosa non sono capaci di fare. Da parte mia, dico che sono spiriti dominati dall’orgoglio e che possono arrivare a tutto salvo alla liberazione dell’uomo e a una democrazia reale.
C’è una frase che Simone Weil ha avuto il coraggio di scrivere e che, per la sua vita e la sua morte, aveva il diritto di scrivere: «Chi può ammirare Alessandro con tutta la sua anima, se non ha un’anima bassa?». Sì, chi può commisurare le più grandi conquiste della ragione o della forza alle immense sofferenze che rappresentano, se non ha un cuore cieco alla più semplice simpatia e uno spirito alieno da ogni giustizia!
È per questo che mi sembra che la democrazia, che sia sociale o politica, non possa fondarsi su una filosofia politica che pretende di sapere e regolare tutto, non più di quanto abbia potuto fondarsi finora su una morale di conservazione assoluta. La democrazia non è il migliore dei regimi. È il meno cattivo. Abbiamo assaggiato un po’ tutti i regimi e adesso lo sappiamo. Ma tale regime può essere concepito, creato e sostenuto solo da uomini che sanno di non sapere tutto, che rifiutano di accettare la condizione proletaria e non si adattano mai alla miseria degli altri, ma che appunto rifiutano di aggravare tale miseria in nome di una teoria o di un messianismo cieco.
Il reazionario d’antico regime pretendeva che la ragione non regolasse niente. Il reazionario di nuovo regime pensa che la ragione regolerà tutto. Il vero democratico crede che la ragione possa illuminare un gran numero di problemi e forse regolarne quasi altrettanti. Ma non crede che essa regni, sola padrona, sul mondo intero.
Il risultato è che il democratico è modesto. Confessa una certa percentuale di ignoranza, riconosce il carattere in parte azzardato del suo sforzo e che non tutto gli è dato. E, a partire da questa ammissione, riconosce di avere bisogno di consultare gli altri, di completare quello che sa con ciò che essi sanno. Non si riconosce alcun diritto che non sia delegato dagli altri e sottoposto al loro accordo costante. Qualunque decisione sia chiamato a prendere, ammette che gli altri, per i quali tale decisione è stata presa, possano giudicarne diversamente e comunicarglielo. Poiché i sindacati sono fatti per difendere i proletari, sa che sono i sindacati che, attraverso il confronto delle loro opinioni, hanno la maggiore possibilità di adottare la tattica migliore.
La democrazia autentica fa sempre riferimento alla base, perché suppone che, in questo campo, nessuna verità sia assoluta e che le esperienze di diversi uomini, sommate le une alle altre, rappresentino un’approssimazione alla verità più preziosa di una dottrina coerente ma falsa.La democrazia non difende un’idea astratta, né una filosofia brillante; difende dei democratici, il che suppone che domandi loro di decidere sui mezzi più atti ad assicurare la loro difesa. Capisco bene che una concezione tanto prudente non è priva di pericoli. Capisco bene che la maggioranza può ingannarsi nel momento stesso in cui la minoranza vede chiaro. È per questo che dico che la democrazia non è il miglior regime. Ma bisogna commisurare i pericoli di questa concezione a quelli che risultano da una filosofia politica che piega tutto alle sue esigenze. Sulla base dell’esperienza, bisogna accettare una leggera perdita di rapidità piuttosto che lasciarsi trascinare da un torrente furioso. Del resto, la stessa modestia suppone che la minoranza possa farsi ascoltare e che si terrà conto dei suoi pareri. È per questo che dico che la democrazia è il meno cattivo dei regimi.
A partire da qui, non tutto è risolto. È in questo che tale definizione non è definitiva. Ma permette di esaminare sotto una luce precisa i problemi che ci pressano e il cui principio ha a che fare con l’idea di rivoluzione e con la nozione di violenza. Ma permette di rifiutare al denaro come alla polizia il diritto di chiamare democrazia ciò che non lo è. Mangiamo menzogne dal mattino alla sera, grazie a una stampa che è la vergogna di questo paese. Ogni pensiero, ogni definizione che rischi di contribuire a tale menzogna o di mantenerla è oggi imperdonabile. Questo basta per dire che, definendo un certo numero di parole chiave, rendendole sufficientemente chiare oggi perché siano efficaci domani, noi lavoriamo alla liberazione e facciamo il nostro mestiere.
Fra pochi giorni il settantesimo anniversario di un giorno fatidico: fu sconfitta, oppure fu «un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista»
Si parva licet componere magna, ancora una volta la storia può svelare le ambiguità del presente e illuminare il futuro. Articoli di Villari, Revelli e BartezzaghiLa Repubblica, 5 settembre 2013
L’“Otto settembre” cominciò verso l’imbrunire ed era mercoledì. «Alle 18,30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito che è stato concluso l’armistizio con gli anglo-americani». Questa sono le semplici parole, senza altro commento, del diario di Benedetto Croce con una indicazione dell’ora che non corrisponde esattamente a quanto stava avvenendo.
Croce non poteva sapere che l’armistizio era stato firmato cinque giorni prima e che l’annuncio ufficiale era stato dato poco prima delle 18 da Radio Algeri cogliendo di sorpresa Badoglio che era con il re al Quirinale insieme ai massimi responsabili militari e al ministro degli Esteri Guariglia. Alla notizia era seguito un minaccioso radiogramma di Eisenhower che imponeva al governo italiano di annunciare subito l’armistizio sia per evitare ulteriori ambiguità verso i tedeschi sia perché non era stato possibile coordinare l’annuncio con lo sbarco di una divisione di paracadutisti americani a nord di Roma. Era fallita infatti la missione di due ufficiali americani, il generale Taylor e il colonnello Gardiner, giunti segretamente nella capitale la sera del 7 settembre per prendere visione degli aeroporti e dare il via all’operazione per la mattina dell’8. I capi militari italiani li avevano dissuasi dicendo loro che non c’erano «forze sufficienti per garantire gli aeroporti». Taylor e Gardiner delusi lasciarono Roma informando Eisenhower.
L’unico a reagire allo stupore di quanti erano al Quirinale fu il ministro Guariglia: si doveva dare la notizia. Il colonnello Luigi Marchesi, addetto allo Stato maggiore, suggerì al maresciallo Badoglio di recarsi subito all’Eiar. «Il maresciallo mi chiese di accompagnarlo. Uscii subito sul piazzale del Quirinale e chiesi ai due autisti del maresciallo se sapevano dove era la sede dell’Eiar. Non lo sapevano. Poi si fece avanti un sergente che salì accanto all’autista. Il maresciallo ed io eravamo soli. Rimase in silenzio finché giungemmo alla sede dell’Eiar in via Asiago verso le 18,50. Fummo introdotti in una saletta di trasmissione.
Intanto l’usciere era andato a chiamare il direttore che giunse quasi subito. Lo informai che il maresciallo intendeva dare al più presto un messaggio alla nazione. Il direttore spiegò che diramandolo subito non sarebbe stato sentito da nessuno e consigliava di attendere l’inizio del programma delle 19,45. E alle 19,45 il maresciallo, con evidente sforzo lesse con voce chiara e ferma il proclama dell’armistizio».
Tre minuti dopo gli italiani seppero tutto. «La gente – ricorda Paolo Monelli – fece capannelli nelle strade che già s’abbuiavano, i passanti si interrogavano l’un l’altro. “Cosa ha detto? È vero che ha detto che siamo in guerra con i tedeschi?” ». Non era ancora vero, ma quella domanda coglieva nel segno. L’Italia usciva da una guerra e entrava in un’altra. Su questa linea di confine maturò in Badoglio, nel re e in alcuni capi militari il progetto di lasciare la capitale e trasferire nel Sud liberato le persone e i simboli dello Stato italiano per salvarli dalla reazione tedesca.
Da settanta anni si discute se questa scelta, avvenuta senza che il governo e i capi militari organizzassero la difesa della capitale e lasciassero ordini precisi ai nostri soldati sparsi sui vari fronti di guerra, abbia una spiegazione razionale. La vicenda della colonna di auto che portò lungo la via Tiburtina la famiglia reale e centinaia di ufficiali al seguito a Pescara e a Ortona, le scene penose dell’imbarco sulle corvette della marina militare in attesa, insomma “la fuga di Pescara” sono state ampiamente raccontate e documentate. In quelle stesse ore Roma era difesa a Porta San Paolo, sulla via Ostiense da centinaia di soldati e di civili di ogni ceto sociale. Nasceva in questi luoghi di Roma la Resistenza e germina qui la nuova, vera Patria. Ma intanto lo Stato giungeva a Brindisi e “continuava” a funzionare con il riconoscimento ufficiale della sua legittimità da parte degli ex nemici.
Come giudicare allora questo scenario assolutamente inedito che si stava configurando in Italia? Cosa c’era in quella fuga di diverso da quanto era avvenuto nell’Europa del 1940? Il re del Belgio Leopoldo III, mentre il suo paese capitolava, era stato arrestato e internato e il suo governo era fuggito a Londra. In Danimarca, il re e il suo governo erano agli ordini di Hitler. In Olanda la regina e il suo governo erano fuggiti a Londra e qui si erano pure rifugiati il re di Norvegia Haakon VII e i suoi ministri. E potrebbe continuare l’elenco di sovrani, governi e capi politici (basti ricordare il ruolo di De Gaulle a Londra) costretti alla fuga e all’esilio, ma determinati a combattere i nazisti. All’Italia andò certamente meglio e non è quindi più accettabile, sul piano storico e storiografico, sminuire il significato del Regno del Sud e negare il ruolo che quello Stato ha svolto, anche sul piano del diritto internazionale, confermandosi nel territorio italiano come Stato sovrano, “cobelligerante” con quegli Stati che avrebbero avuto tutto il diritto di fare del nostro paese una terra bruciata e divisa. Come in Germania. Fu anche questo che ha determinato, settanta anni or sono, il risorgimento della Patria, non certo la sua fine.
Il momento delle scelte
di Marco Revelli
Sembravano traversie ed eran in fatti opportunità ». Con questa citazione vichiana, scritta come dedica sulla propria copia de La scienza nova, Vittorio Foa aveva salutato il proprio compagno di cella il 23 agosto del ’43, uscendo dal carcere fascista dopo 8 anni di reclusione. Ed è forse la miglior sintesi, profetica, di quello che sarebbe stato, un paio di settimane più tardi, l’8 settembre.
Esso fu, senza dubbio, una catastrofe istituzionale di enormi proporzioni in cui tutto “andò giù” e fece naufragio un’intera classe dirigente, con la “fuga ingloriosa” del Re e la sua Corte, e il dissolvimento di ogni autorità statale. Ma fu anche un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista. E lo fu perché proprio quel “vuoto istituzionale”, quell’assenza di ogni autorità formale, rappresentano le condizioni essenziali di quello che costituisce il nucleo fondativo di ogni genuino atto morale: la scelta. La possibilità – e insieme la necessità – di scegliere, senza ordini né routine (non per nulla Claudio Pavone apre il suo splendido saggio sulla “moralità della Resistenza” con un capitolo intitolato La scelta). E di spezzare, con quell’atto, una deriva storica degradata e degradante.
È ancora Foa a esprimere il concetto quando scrive, a liberazione non ancora avvenuta, che l’8 settembre fu in fondo un gran bene per l’Italia, perché segnò «l’inizio di un processo rivoluzionario che ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze», combattendo, oltre all’occupante tedesco, anche la parte peggiore di se stessi, quella che aveva creduto nei miti imperiali e nell’“arido egoismo” del Regime. Ed è lo stesso messaggio di un altro intellettuale d’eccezione, Giaime Pintor, che poco prima di morire, fatta la propria scelta, scrisse che «questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione».
Non sono voci isolate. Lo stesso spirito, di possibile riscrittura della propria biografia individuale e collettiva, lo si ritrova in quasi tutti i protagonisti di allora. In Massimo Mila, ad esempio, che in uno dei suoi Scritti civili attribuirà all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato ». O in Franco Venturi, il grande storico dell’Illuminismo, quando evoca il «senso di necessità che stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». O ancora in Giorgio Bocca, che nelle prime pagine del suo Partigiani della montagna descrive il dirompente senso di liberazione e di rinascita, per un giovane normalmente destinato a una vita banale e già decisa, quando «invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio».
Può apparire un paradosso, ma fu allora, nel punto per molti aspetti più basso della nostra storia, che si formò e selezionò una delle classi dirigenti migliori della nostra nazione.
Come una data si fa simbolo
di Stefano Bartezzaghi
I bambini che seguivano Carosello, e magari era proprio il Sessantotto, si rallegravano con «È arrivato Lancillotto / or succede un quarantotto». La consideravano come una filastrocca, dove “un quarantotto” era come le tre civette sul comò o la palla di pelle di pollo, o come certi altri numeri misteriosi (Quarantasette, morto che parla; cento, la toilette; fino a «Centocinquanta, la gallina canta», di cui fece giustizia Achille Campanile). Non si aveva insomma alcuna idea su cosa si dovesse intendere per quel numero, e perché. Giunti verso la fine del liceo alle rivolte parigine, a molti tornò in mente Lancillotto: ecco a cosa si riferiva “un quarantotto”! Rivolta e caos, un anno di totale bagarre.
Con “otto settembre” va al contrario: si capisce subito che è una data, ma è più difficile cogliere il senso generale dell’allusione. Anche lì si parla di battaglie, confusione e “smarrimento” (è la parola più usata dagli storici a proposito del periodo che si aprì con l’8 settembre 1943). Ma se quella data ha costituito uno dei
Luoghi della memoria italiani recensiti da Mario Isnenghi (Laterza, 1997) è per un motivo ulteriore: oltre al caos e al collasso sistemico c’è infatti l’intrico illogico, il paradosso. Lo ha ben formulato una volta Emilio Lussu: «la guerra ufficialmente era finita, mentre continuava».
Il processo linguistico che sgancia una data dalla storia e ne fa un’espressione comune è a sua volta complesso. Ogni giorno è unico e irripetibile, e così è stato anche l’8 settembre del 1943. Ma per certi giorni speciali una prima operazione retorica porta a usare la data per nominare i fatti che l’hanno resa memorabile. Facile esempio, l’11 settembre. Soltanto un imbecille, o un giovanissimo, sentendo nominare l’11 settembre potrebbe infatti chiedere: «Di che anno?» Ogni anno c’è un undici settembre, ma l’Undici settembre, maiuscolo e inteso come atto di guerra terroristica inatteso e di mostruosa entità, è solo e per eccellenza (o per “antonomasia”) quello del 2001. Non è facile immaginare la catastrofe che potrebbe farci dire: «è stato un undici settembre». Lo sbandamento, l’incomprensibilità, l’abbandono delle autorità regnanti e governanti, la minaccia dell’invasore hanno colorato con le tinte più fosche la data dell’8 settembre 1943 e l’hanno resa emblema e sigillo storicamente memorabile di una specialissima evenienza italiana. L’8 settembre è diventato un’ “antonomasia”: come quando di un cauteloso si dice che è “un don Abbondio” o di un distruttore che è “un Attila” o di una débâcle che è “una Caporetto” (per restare tra le onte italiane).
L’8 settembre ha di diverso una certa ambiguità. I luoghi comuni che riguardano rispettivamente don Abbondio, Attila e Caporetto sono univoci e chiari a tutti. Ma cosa intendiamo, quando diciamo “Otto settembre”, intendendo per eccellenza quello del 1943? E cosa intendiamo quando ritorniamo alla minuscola e diciamo che una vicenda politica (nel genere di scioglimenti di partiti e di governi, ritirate paurose, vuoti di governance) ha costituito “un otto settembre”? Non si tratta però di un’ambiguità irresistibile. La stessa natura caotica dei fatti dell’estate del 1943 e il durevole sforzo storiografico di travisarli hanno provato a rendere opaca l’etichetta: “8 settembre”; essa nondimeno risulta chiarissima e inequivocabile per chi la sappia leggere: è il giorno che in Italia rappresenta l’eterna, perché sempre possibile e sempre imminente, irresponsabilità del Potere.
Un saggio di Jürgen Habermas contro le tesi nazionaliste e isolazioniste che si affermano in Germania, «dove la strategia anticrisi è affidata agli esperti che rinviano i problemi e non hanno consenso».. Un contributo alla ricerca di una visione interscalare del governo delle comunità.
LaRepubblica, 4 settembre 2013
ANTICIPIAMO qui parte di un saggio di Jürgen Habermas che appare in versione integrale su Reset.it e rappresenta l’aprirsi di una Europa Streit, di una polemica sull’Unione europea. Il filosofo tedesco accusa la sinistra di essersi fermata su posizioni “nostalgiche” e di ripetere l’errore nazionalista dell’inizio del XX secolo, che aprì la strada alla Prima guerra mondiale. L’attacco di Habermas prende di mira un libro del sociologo Wolfgang Streeck, Gekaufte Zeit, (Tempo comprato), Suhrkamp. Questi ha sostenuto, in una conferenza l’anno scorso e quest’anno nel libro, che l’Unione europea s’identifica oggi come l’epicentro del radicalismo neoliberale e che gli euro-idealisti di sinistra sono caduti vittime di un abbaglio, dando via libera alla costruzione di un edificio mostruoso. Queste tesi per Habermas riflettono un errore che nasce dalla timidezza della sinistra nei confronti delle tendenze populiste della destra e del centro. A chi lamenta l’assenza sulla scena pubblica tedesca di un dibattito aperto sull’Europa, Die Zeit fa notare in questi giorni che è assente solo dalle grandi tribune pubbliche di Stato e di partito. Su riviste e giornali la discussione divampa e non c’è dubbio che avrà un seguito.
Nella comunità monetaria europea è possibile osservare come i mercati limitino in forma perversa la capacità d’iniziativa politica degli Stati. Qui la trasformazione della Stato fiscale in Stato debitore costituisce lo sfondo del circolo vizioso tra il salvataggio di banche decotte da parte degli Stati i quali a loro volta sono spinti alla rovina da quelle stesse banche, con il risultato che il regime finanziario dominante mette sotto curatela le proprie popolazioni. Che cosa ciò significhi per la democrazia lo abbiamo potuto osservare al microscopio in quella notte del vertice di Cannes quando il premier greco Papandreu, fra le pacche sulle spalle date dai suoi colleghi, fu costretto a ritirare un referendum che aveva appena annunciato. Wolfgang Streeck ha il merito di aver dimostrato che la “politica dello Stato debitore”, che il Consiglio europeo porta avanti dal 2008 su pressione del governo tedesco, nella sostanza continua a seguire il modello politico favorevole al capitale che ha condotto alla crisi.
Wolfgang Streeck non propone di completare la costruzione europea, bensì di smontarla; vuole tornare nelle fortezze nazionali degli anni Sessanta e Settanta, al fine di «difendere e riparare per quanto possibile i resti di quelle istituzioni politiche grazie alle quali forse si potrebbe modificare e sostituire la giustizia del mercato con la giustizia sociale». Questa opzione di nostalgica chiusura a riccio nella sovrana impotenza di nazioni ormai travolte è sorprendente, se si considerano le trasformazioni epocali degli Stati nazionali che prima avevano i mercati territoriali ancora sotto controllo e oggi invece sono ridotti al ruolo di attori depotenziati inseriti a loro volta nei mercati globalizzati.(…)
Evidentemente la capacità di intervento politico di Stati nazionali vigili custodi di una sovranità ormai da tempo svuotata non è sufficiente per sottrarsi agli imperativi di un settore bancario ipertrofico e disfunzionale. Gli Stati che non si associano in unità sopranazionali e dispongono solo dello strumento dei trattati internazionali falliscono di fronte alla sfida politica di rimettere questo settore in sintonia con i bisogni dell’economia reale e di ricondurlo a dimensioni funzionali adeguate. In particolare sono gli Stati della comunità monetaria europea a vedersi sfidati dal compito di ricondurre mercati irreversibilmente globalizzati nel raggio d’azione di un intervento politico indiretto ma mirato. Nei fatti la loro politica anticrisi si limita al rafforzamento di una esperto-crazia per misure che rinviano i problemi. Senza la spinta di una vitale formazione della volontà da parte di una società di cittadini mobilitabile al di là dei confini nazionali, all’esecutivo di Bruxelles resosi ormai autoreferenziale manca la forza e l’interesse a regolare in forme socialmente sostenibili mercati ormai abbandonati ai loro spiriti animali.
Wolfgang Streeck condivide l’assunto che la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico sia realizzabile solo sulla base dell’appartenenza nazionale, e quindi solo entro i confini territoriali di uno Stato nazionle, perché altrimenti sarebbe inevitabile la marginalizzazione delle culture minoritarie. Anche prescindendo dall’ampia discussione sui diritti culturali, questo assunto, considerato da una prospettiva di lungo termine, è arbitrario. Già gli Stati nazionali si basano sulla forma altamente artificiale di una solidarietà tra estranei generata dal costrutto giuridico dello status di cittadino. Anche in società omogenee sul piano etnico e linguistico la coscienza nazionale non ha nulla di naturale. È piuttosto un prodotto, valorizzato sul piano amministrativo, della storiografia, della stampa e del serviziodi leva. (…)
Wolfgan Streeck teme i tratti giacobini di una democrazia sovranazionale poiché questa, sulla via di una permanente marginalizzazione delle minoranze, non potrebbe che condurre a un livellamento delle comunità economiche e identitarie basate sulla vicinanza spaziale. In tal modo, però, egli sottovaluta la fantasia innovatrice e creatrice di diritto che si è già manifestata nelle attuali istituzioni e nelle regole vigenti. Penso all’ingegnosa procedura decisionale della “doppia maggioranza” o alla composizione ponderata del parlamento europeo, che proprio in vista di un’equa rappresentazione tiene conto delle forti differenze numeriche tra le popolazioni dei paesi piùmpiccoli e dei più grandi.(…)
Lo Stato federale è il modello sbagliato. Infatti le condizioni di legittimazione democratica possono essere soddisfatte anche da una comunità democratica sovranazionale ma sovrastatale che consenta un governo comune. In essa tutte le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri. In una siffatta unione politica, chiaramente distinta da un “superstato”, gli Stati membri, in quanto garanti del livello da essi rappresentato di diritti e di libertà, conserverebbero un ruolo molto importante se paragonati alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.
Il blocco può essere forzato se i partiti europeisti si trovano insieme al di là dei confini nazionali per lanciare campagne contro questa falsa trasposizione di problemi sociali in problemi nazionali. La tesi che «nell’Europa occidentale di oggi il nazionalismo non è più il maggior pericolo, e meno che mai quello tedesco » la considero politicamente una stoltezza. Che in tutte le nostre sfere pubbliche nazionali manchino scontri di opinione su alternative politiche poste correttamente posso spiegarmelo solo con i timori dei partiti democratici nei confronti dei potenziali politici di destra. Le controversie polarizzanti sulla politica dell’Europa possono essere chiarificatrici piuttosto che sobillatrici solo se tutte le parti in causa ammettono che non ci sono alternative prive di rischi e nemmeno alternative gratuite. Invece di aprire falsi fronti lungo i confini nazionali sarebbe compito di questi partiti distinguere perdenti e vincenti della crisi per gruppi sociali che, indipendentemente dalla loro nazionalità, risultano di volta in volta più o meno colpiti.
I partiti europei di sinistra sono in procinto di ripetere i loro errori storici del 1914. Anche oggi essi indietreggiano per paura della propensione al populismo di destra presente nel centro della società. Poi in Germania un panorama mediatico incredibilmente succube alla Merkel incoraggia tutte le parti in causa a non toccare in campagna elettorale i fili elettrici della politica europea, e a stare al suo gioco furbesco della non tematizzazione. Per questo c’è da augurarsi che “Alternative für Deutschland”(il nuovo partito liberale ed euroscettico, ndr.) abbia successo. Spero che essa riesca a costringere gli altri partiti a spogliarsi della tuta mimetica che rende invisibile la loro politica europea. Così dopo le elezioni politiche tedesche si potrebbe profilare, per il prossimo necessario primo passo, una “grandissima” coalizione. Infatti, per come stanno le cose, solo la Germania può assumersi l’iniziativa di un’impresa tanto difficile.
(Traduzione di Walter Privitera)