L'ignoranza della legge non è una scusa per i legislatori imcompetenti. Soprattutto se la legge ignorata è la Costituzione. Vadano a casa e ci facciano sostituirle con una lrggr costituzionalmente legittima. La Repubblica
Il professor Gustavo Zagrebelsky con Repubblica riflette sulla sentenza della Corte sul Porcellum e sulle sue conseguenze. Grande caos. Grillo impazza. Vuole fuori dalla Camera i 148 “abusivi”. In realtà, vuol far fuori tutti. La sentenza della Corte cancella la storia d’Italia a partire dal 2005, quando è stato votato il Porcellum?
A proposito di Grillo, che impressione le fa l’attacco alla collega dell’Unità Maria Novella Oppo? «Le liste di proscrizione ci riportano a un periodo buio. Una cosa è la polemica sulle idee, che può essere accanitissima, un’altra l’attacco alle persone. Le idee si discutono e si contestano, le persone si rispettano ».
Torniamo ai travolgimenti, la sentenza travolge o no 7 anni di storia costituzionale? «No. Per il principio di continuità dello Stato: lo Stato è un ente necessario. L’imperativo fondamentale è la sua sopravvivenza, che è la condizione per non cadere nell’anomia e nel caos, nella guerra di tutti contro tutti. Perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla Repubblica, o dallo zarismo al comunismo. Il fatto stesso di essere costretti a ricordare questo estremo principio significa che siamo ormai sull’orlo del baratro».
Dunque, questa sentenza non è retroattiva?
Quindi esiste o non esiste il problema dei 148 eletti col premio di maggioranza? Propaganda politica a parte, vanno convalidati prima, vanno sostituiti, possono stare tranquilli?
Nel suo comunicato la Corte dice che il Parlamento può fare la legge elettorale che crede. Secondo lei, oltre ogni ragionevole dubbio, sta parlando di “questo” Parlamento?
Ma lei che giudizio dà della sentenza della Consulta? «È forse la decisione più legislativa che la Corte abbia mai pronunciato. Apparentemente elimina pezzi della legge, in realtà vale come ribaltamento della sua logica perché sostituisce un sistema maggioritario con uno puramente proporzionale. A mia memoria, un’operazione del genere non era mai stata tentata».
Sarebbe stato meglio azzerare tutto e ripristinare il Mattarellum? La corte avrebbe potuto farlo... «Avrebbe potuto ammettere il referendum di due anni fa facendo “rivivere” il Mattarellum. A maggior ragione avrebbe potuto farlo in questa occasione. Ma la storia non si fa con i se».
Che succede adesso? Se, per assurdo, si votasse domani, con che legge si voterebbe? E cosa succederebbe dopo l’uscita delle motivazioni? «Domani, si voterebbe con la vecchia legge. Dopo le motivazioni con una proporzionale ».
E come la mettiamo con il voto di preferenza? La Corte dice che il cittadino elettore ne deve esprimere almeno una. Questo non annulla tutti gli eletti attuali che non sono stati frutto di una preferenza e che succederà per quelli futuri?
Lei ha criticato il Porcellum tante volte. Adesso, se dovesse dare un consiglio ai nostri legislatori, cosa gli direbbe? Di lasciarlo com’è dopo la “cura” della Corte, di integrarlo, di buttarlo via tutto?
Sì, ovviamente. Ma cosa sarebbe più utile per il nostro Paese?
La sua previsione?
L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Noi crediamo in una Europa unita, però non nella forma attuale. Dobbiamo continuare a credere in un’Europa dove l’immensa maggioranza di quelli che non contano niente possano contare qualcosa.
La Repubblica, 6 dicembre 2013
Il Commissario europeo per gli affari economici, Olli Rehn, ci dedica da tempo rimproveri giornalieri circa il fatto che dovremmo fare di più e meglio in tema di riforme del lavoro e delle pensioni, di privatizzazioni, rispetto del patto fiscale e, perfino, organizzazione della giustizia. Il suo atteggiamento censorio è fuori luogo e ci sono molte ragioni per sostenerlo. Prima di tutto Rehn non è stato eletto e non ci rappresenta in nessun modo. Questo fatto lo percepiamo di per sé come una grave deviazione dal pensiero politico dei padri fondatori dell’Europa, tra i quali spiccano alcuni italiani (Altiero Spinelli e Alcide de Gasperi).
Nei documenti che avviarono la discussione per costituire una Europa unita si parlava di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non di rappresentanze decise dagli Stati membri. Sappiamo bene che non soltanto Rehn, ma tutti i dirigenti della Comunità europea, e con essi gli organi della Bce, del Fmi e della Corte di Giustizia europea non sono stati eletti, ma nominati. In secondo luogo le politiche di austerità che da qualche anno sono richieste dai suoi messaggi al nostro governo appaiono ormai manifestamente sbagliate, persino agli occhi di vari economisti ortodossi che pure le avevano suggerite anni fa. Appaiono sbagliate per almeno due ragioni. Anzitutto sul piano dei risultati. Si veda la sua lettera inviata al nostro ministro dell’Economia nel novembre 2011, con allegato questionario che sebbene in forma interrogativa esigeva perentoriamente di introdurre drastiche riforme in tema di pensioni, mercato del lavoro, imposte dirette e indirette, pubblica amministrazione. Quelle riforme, subito attuate dal nostro ossequioso governo, hanno avuto — come è successo in altri paesi in cui la CE era intervenuta — risultati semplicemente disastrosi.
I disoccupati sono cresciuti di almeno un milione; i precari sono arrivati a quattro milioni; la disoccupazione tra i giovani supera il quaranta per cento; il Pil ha perso altri punti rispetto al 2007 (siamo a meno 6); l’industria ha perso un quarto del suo potenziale produttivo. Per di più il debito pubblico che nel 2009 era del 106 per cento sul Pil, quest’anno è balzato al 134 per cento.
Dal punto di vista delle istituzioni la Ue sembra davvero un edificio sgangherato. Avrebbe quindi bisogno di meccanismi istituzionali di compensazione degli squilibri di produttività, del valore reale dell’euro nei diversi paesi, del costo del lavoro, di legislazione fiscale. E di una banca centrale che fosse una vera banca centrale, in luogo di essere un istituto finanziario che si preoccupa per statuto solo della stabilità dei prezzi. La Comunità europea, invece, si limita a insistere sull’emanazione senza tregua di nuove regole. Siamo al punto che mentre l’intero edificio della Ue rischia di crollare, Bruxelles si preoccupa soltanto delle finestre che non chiudono bene.
Le politiche sbagliate, nel nostro paese come in altri, hanno causato grandi sofferenze a molte persone. Sarebbe normale che chi ha contribuito a causarle fosse chiamato a risponderne. Un ministro che compie errori analoghi prima o poi perde il posto (forse non in Italia, ma da altre parti sì). Un macchinista viene citato in giudizio. Un funzionario di banca viene licenziato. Ma grazie al modo in cui i trattati Ue sono stati redatti, Rehn e i suoi colleghi, a fronte dei gravi errori commessi, non rischiano nemmeno un modesto taglio alla tredicesima.
L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Noi crediamo in una Europa unita, però non nella forma attuale. Dobbiamo continuare a credere in un’Europa dove l’immensa maggioranza di quelli che non contano niente possano contare qualcosa.
Servirebbe un trattato Ue ampiamente riveduto che invece di assomigliare, come quello attuale, all’ordinamento di una società per azioni, dove la parola “concorrenza” ricorre una trentina di volte e “democrazia” non più di quattro o cinque, si configuri come un genuino documento politico.
Un documento nel quale trovino ampio spazio le idee dei padri fondatori in tema di uguaglianza; di giustizia non riservata solo a chi può pagare gli avvocati più costosi; di libertà intesa come un bene comune non accessibile soltanto a privilegiati; di partecipazione dei cittadini alle decisioni; di stato sociale; di cooperazione sociale ed economica tra gli stati membri, in luogo del
mors tua vita mea
in cui si compendia la cosiddetta competitività.
L’articolo 10 del trattato Ue stabilisce che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”. Ma i dettati economici e sociali che Rehn e i suoi colleghi della Ce, della Bce e del Fmi ci trasmettono ogni giorno da anni mostrano come nelle politiche reali perseguite dalla Ue l’articolo 10 sia totalmente disatteso. Ci piacerebbe, tra tutti gli articoli del trattato che parlano solo di mercato, che almeno questo fosse applicato. In attesa che una nuova “Carta” ci sappia restituire, a noi semplici cittadini europei, non una democrazia conforme al mercato (un concetto purtroppo condiviso da molti governi europei a cui la Ue va bene così com’è), ma un mercato conforme alla democrazia.
Pesanti accuse del Censis sulla classe politica italiana nel rapporto annuale.
Il Fatto quotidiano, 6 dicembre 2013
Fare leva sulle difficoltà degli italiani per salvare le poltrone. E’ l’accusa rivolta dal rapporto annuale del Censis alla “classe dirigente italiana”, che “tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi“. Negli ultimi mesi si sono imposte così nella dialettica sociale e politica “tre tematiche che sembrano onnipotenti nello spiegare la situazione del Paese: la prima è che l’Italia è sull’orlo dell’abisso, la seconda è che i pericoli maggiori derivano dal grave stato di instabilità e la terza è che non abbiamo una classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro”. Criticità che sono confermate all’interno del dossier sulla situazione sociale del Paese, con dati allarmanti su tutti i fronti, dalla disoccupazione record ai consumi tornati indietro di dieci anni.
Italiani infelici, mentre la furbizia è generalizzata “Non si illumina una realtà sociale con questi atteggiamenti ed è impossibile pensare a un cambiamento”, precisa il rapporto, perché “la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla: una tentazione che peraltro vale per tutti, politici come amministratori pubblici, banchieri come opinionisti”. Un atteggiamento che porta a uno “sconforto continuato” tra gli italiani, con conseguenze dirette sulla società, sempre più “sciapa“, dove circola “troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro ed evasione fiscale” e dove si diventa “malcontenti e infelici”, sotto il peso di un “inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali“.
Il rapporto del Centro studi investimenti sociali, guidato da Giuseppe De Rita, dedica un passaggio alla “coazione alla stabilità”, che “non può certamente coprire lo sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di catastrofe” e che ha portato in un momento critico “a una tale paura del conflitto da sfociare in una ‘reinfetazione’ delle forze politiche nelle responsabilità del presidente della Repubblica”, anche se “non si è avuta adeguata coscienza” che una mossa di questo tipo fosse “un grande incubatore di disturbi essenziali e di sistema”. Di fronte a uno scenario simile, in altri periodi sarebbe scattato l’orgoglio dei cittadini che si ponevano come “soggetto di autonoma responsabilità collettiva”, ma questa volta “sempre più in ombra appare la società civile che verosimilmente ha consumato il suo orgoglio in illusorie ambizioni di una superiorità morale utilizzata come strumento politico”.
L’avvitamento della politica nella spirale della crisi Il rapporto dedica un paragrafo all’”avvitamento della politica“, sottolineando che “negli ultimi 12 mesi i governi che si sono avvicendati hanno emanato oltre 660 provvedimenti di attuazione delle varie leggi di riforma, mentre la quota di quelli effettivamente adottati è stata pari a circa un terzo”. Il dossier arriva così alla conclusione che “il paradosso della moltiplicazione degli interventi di riforma, cui però si associa la percezione di un’insufficienza di tali provvedimenti rispetto alla spirale drammatica della crisi economica e sociale, è il segnale di un’incompiuta riconfigurazione della scala e della dimensione d’intervento fra i diversi livelli di governo”. Non sorprende quindi che “gli italiani sono sicuramente molto meno attivi della media dei cittadini europei per quanto concerne il coinvolgimento nei processi decisionali pubblici”, al punto che “più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica”.
Le spese delle famiglie tornano indietro di dieci anni Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel 2013 le spese delle famiglie sono tornate indietro di oltre dieci anni. I tagli sono evidenti soprattutto al supermercato: il 48,6% dei cittadini dichiara di avere mutato intenzionalmente le abitudini alimentari cercando di risparmiare. E il paragone con gli altri Paesi europei è evidente: il 76% degli italiani dà la caccia alle promozioni, contro il 43% della media europea. Risparmi anche sulla benzina. Oltre il 53% ha ridotto gli spostamenti in auto e moto in 24 mesi e il 68% ha dato un taglio a cinema e svago. Ma i risparmi non bastano ad affrontare neanche le spese più essenziali. Per il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia sarebbe infatti un grave problema da finanziare, mentre il pagamento delle bollette mette in difficoltà oltre un italiano su cinque.
Il rapporto del Censis conferma che il nodo principale resta l’occupazione. “Il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia”, spiega il dossier, sottolineando che un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa peggiorerà, il 14,3% prevede un taglio della busta paga e un altro 14% teme di perdere il posto. Il trend, d’altronde, è già evidente. Sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con “situazioni di precarietà lavorativa“, un’area di disagio che rappresenta oltre un quarto della forza lavoro. A farne le spese sono soprattutto i più giovani, ma anche la fascia compresa tra i 35 e i 44 anni.
Boom di imprenditori immigrati, mentre gli italiani si fanno da parte Per uscire dalla spirale della crisi il Censis invita a riconsiderare il ruolo degli immigrati, definendoli “un volano”. “Di fronte alle difficoltà di trovare un lavoro dipendente, costretti a lavorare per restare in Italia, gli stranieri si assumono il rischio di aprire nuove imprese“, spiega il rapporto, sottolineando che gli imprenditori italiani sono calati del 4,4% dal 2009 al 2012, mentre i titolari d’impresa nati all’estero sono aumentati del 16,5 per cento. Sempre per quanto riguarda gli immigrati c’è poi un dato che invece preoccupa il Censis. Gli extracomunitari di età superiore ai 64 anni sono aumentati del 91% negli ultimi otto anni. Ora rappresentano solo lo 0,7% del totale degli anziani che vivono all’interno del Paese, ma lo scenario è destinato a cambiare: nel 2020 saranno il 4,4% del totale e nel 2040 saranno oltre un milione e mezzo, portando una “significativa richiesta di servizi sociali“.
Cambia quindi la situazione degli immigrati, mentre i problemi del Paese restano i soliti. A partire dall’istruzione. “L’affanno che gli atenei mostrano nei confronti internazionali è la conseguenza di un sistema universitario per certi versi troppo provinciale”, avverte il dossier. “Le università italiane stentano quindi a collocarsi all’interno delle reti internazionali di ricerca”, poiché la “prevalente connotazione locale” pesa sulla “reputazione internazionale”. Non c’è da stupirsi, quindi, se i dati sull’istruzione continuano a preoccupare, con il “21,7% della popolazione italiana oltre i 15 anni che ancora oggi possiede al massimo la licenza elementare”.
Nel frattempo la “fuga” degli italiani all’estero non conosce soste: nell’ultimo decennio il numero di chi ha trasferito la residenza è più che raddoppiato, da 50mila a 106mila. Ma è stato soprattutto nel 2012 che l’incremento ha visto un boom: +28,8% tra il 2011 e il 2012. Sono soprattutto giovani: il 54,1% ha meno di 35 anni.
I problemi irrisolti: dal Meridione ai grandi progetti urbani Un problema che rimane “irrisolto” è anche quello del Meridione. “Forte è l’impressione che da ogni programma politico la questione meridionale sia stata di fatto derubricata”, avverte il report. I dati parlano chiaro: l’incidenza del Pil del Mezzogiorno su quello nazionale è scesa di un punto percentuale dal 2007 al 2012, così come i dati occupazionali restano sensibilmente inferiori al Sud, dove sono a rischio povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6 per cento. Al punto che “l’Italia appare tra i sistemi dell’Eurozona quello in cui sono più rilevanti le disuguaglianze territoriali“. Resta poi il problema del “lungo travaglio dei grandi progetti urbani“, poiché “la difficoltà di portare a realizzare alcune grandi operazioni progettate ormai in un’altra fase storica” costituisce “senza dubbio” una componente importante della fase critica che stiamo attraversando.
Non bisogna infine trascurare il vizio delle mazzette. “l’indice di Transparency International, che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico, posiziona l’Italia al 72esimo posto nel mondo su 147 Paesi”, ricorda il rapporto, “e se guardiamo all’Europa l’Italia è in fondo alla classifica, davanti alle sole Bulgaria e Grecia”. Con un impatto “devastante” anche sull’economia. Secondo la Banca mondiale nel mondo ogni anno vengono infatti pagati più di mille miliardi di dollari in tangenti, una cifra che è di 50-60 miliardi per quanto riguarda l’Italia.
«La Corte ha rifiutato d’essere normalizzata, d’essere risucchiata nelle logica delle convenienze e dei rinvii, d’essere considerata parte di un sistema che sfugge regolarmente le proprie responsabilità. Ha così dato un buon esempio di autonomia, mostrando come ogni istituzione possa e debba fare correttamente la sua parte».
La Repubblica, 6 dicembre 2013
SONO francamente incomprensibili alcuni attacchi alla Corte costituzionale, la cui unica colpa è quella di aver toccato un nervo da troppo tempo scoperto di una politica che ha perduto la dimensione istituzionale. La Corte ha rifiutato d’essere normalizzata, d’essere risucchiata nelle logica delle convenienze e dei rinvii, d’essere considerata parte di un sistema che sfugge regolarmente le proprie responsabilità. Ha così dato un buon esempio di autonomia, mostrando come ogni istituzione possa e debba fare correttamente la sua parte.
La vera decisione “politica” sarebbe stata quella di piegarsi alle richieste di ritardare la sentenza, per dare al Parlamento altro tempo oltre quello che già gli era stato generosamente concesso. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Corte aveva segnalato fin dal 2008 (e con ben tre sentenze) il fatto che la legge elettorale conteneva un vizio di incostituzionalità. Lo aveva fatto con un linguaggio prudente, ma assolutamente chiaro: “l’impossibilità di dare un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione di un premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e di seggi”. Queste parole erano state scritte dall’attuale presidente della Corte, Gaetano Silvestri, che all’indomani del suo insediamento, nel settembre di quest’anno, aveva voluto ribadire una volta di più la necessità di un intervento parlamentare che ci liberasse da una legge costituzionalmente viziata. Lo aveva fatto anche il suo predecessore, Franco Gallo.
La sentenza appena pronunciata, dunque, era assolutamente prevedibile, e nessuno nel mondo politico può dire d’esser stato colto di sorpresa. Ma proprio questa sua prevedibilità rende ancora più pesante la responsabilità di un Parlamento che è andato avanti per cinque anni come se nulla fosse, portandoci addirittura a nuove elezioni con una legge incostituzionale proprio nel suo punto più significativo, quello della composizione della rappresentanza, radicalmente distorta da un abnorme premio di maggioranza. Il punto chiave è proprio questo. In una democrazia rappresentativa vi è una soglia oltre la quale la manipolazione delle regole finisce con il vanificare il valore del voto espresso da ciascun elettore. E probabilmente è anche questa la preoccupazione che ha indotto la Corte a dichiarare illegittime le norme che, escludendo la possibilità di esprimere preferenze, privano i cittadini della possibilità concreta di scegliere i loro rappresentanti.
La legge Calderoli ci aveva trascinato fuori dalla logica rappresentativa, e ci aveva abbandonato in una sorta di vuoto dove la logica costituzionale era stata sostituita dal potere assoluto di oligarchie ristrettissime (venti, trenta persone) di scegliere arbitrariamente 945 parlamentari. E tutto questo era avvenuto all’insegna della pura “governabilità”, parola che aveva cancellato, con una evidente e grave forzatura, il riferimento alla rappresentanza.
Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per valutarne tutte le conseguenze. Ma l’attenzione oggi deve essere rivolta proprio a questi temi generali, senza introdurre argomentazioni improprie come quelle riguardanti il fatto che la Corte ci riporterebbe alla Prima Repubblica. Qual è il senso di questa critica? La Corte avrebbe dovuto evitare di fare il proprio dovere? O doveva addirittura manipolare la legge vigente in modo da renderla gradita a quanti oggi immaginano questa o quella riforma elettorale alla quale affidare equilibri e dinamiche politiche? Davvero in questo modo la Corte si sarebbe sostituita impropriamente alla politica, alla quale invece è stata restituita la responsabilità della decisione. Questo è un segno ulteriore del rigore con il quale la Corte si è mossa, eliminando il vizio rappresentato dal premio di maggioranza, senza cedere ad alcuna tentazione di
interventi manipolativi. I critici dovrebbero essere consapevoli di tutto questo.
Nell’esercitare il potere di approvare una nuova legge elettorale, al quale fa esplicito riferimento il comunicato ufficiale della Corte, il Parlamento dovrà tuttavia tenere ben fermi alcuni vincoli che già emergono con grande nettezza. Il primo riguarda il fatto che, legiferando nella materia elettorale, il Parlamento si era finora sostanzialmente ritenuto immune dal controllo di costituzionalità, per la difficoltà tecnica di far arrivare queste leggi davanti alla Corte. Così che proprio le norme fondative della rappresentanza politica avevano finito con il costituire una categoria a sé, autoreferenziale, una zona franca, un territorio dove nessuno poteva penetrare, con effetti negativi per la generalità dei cittadini. Ora questo non sarà più possibile, e la legalità costituzionale potrà ovunque essere ricostruita. Il secondo
tipo di vincolo riguarda l’illegittimità costituzionale di meccanismi che alterano il rapporto tra voti e seggi attraverso forzature maggioritarie. In questo modo è possibile restaurare quella democrazia perduta negli anni tristi del Porcellum.
La sentenza non travolge formalmente il Parlamento. Ma sicuramente incide, e profondamente, sulla sua legittimazione politica. Ferma la possibilità di approvare una nuova legge elettorale, comunque rispettosa del contesto ridefinito dalla Corte, davvero non sembra possibile che un Parlamento con un così profondo vizio d’origine possa mettere le mani sulla Costituzione. Fino a ieri questa poteva essere considerata una presa di posizione polemica di qualche politico o studioso. Ora è un dato istituzionale, ineludibile per tutti.
La Costituzione è tornata, e dobbiamo tenerne conto.
Prologo a
Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli) che è molto più di quanto promette. Non solo esperienza di vita, dalla giovinezza alla maturità, di un comunista attraverso le stagioni del suo partito, ma profonda riflessione sul mondo d'oggi, inganni e possibili destini.
Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.
Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.
Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.
La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.
Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.
Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?
Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.
Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.
Roma, settembre 2013
I. Una storia a ritroso
1. Collasso
2. Il bilancio di una generazione
3. Due dissolvenze dall’Ulivo
4. La fede nuda
5. Identità per sottrazione
6. Il «populismo» comunista
7. L’obsolescenza del «partito nuovo»
8. La svolta e le sue alternative
9. L’eredità di Berlinguer
10. Dopo il compromesso storico
11. Le aspettative dei moderati
12. Innovazione e conformismo
13. Mille rivoli o modello di sviluppo
III. Teoria e pratica dell’Inganno
1. Il destino dell’Occidente
2. Il discorso capitalistico
3. La decisione perduta
IV. Alla rovescia del mondo
1. Paesaggi italiani
2. Le chiamiamo ancora città
3. Utopie-eterotopie
4. Le mura e la piazza
5. Luoghi del saper fare
6. C’eravamo dimenticati della rendita
7. Capitalisti no-global e postcomunisti anglosassoni
8. Potenza e potere del lavoro
9. Breve storia dell’ingegno italiano
10. Le disuguaglianze della conoscenza
11. Salvare il merito dalla meritocrazia
12. Le istituzioni della conoscenza
V. Sulla dignità del Politico
1. Oltre l’irrequietezza
2. La dignità costituente
3. Non è un tempo senza politica
4. Fino a quando sinistra senza popolo?
Due commenti sulla sentenza della Consulta, che tenta ancora una volta a raddrizzare le gambe ai cani (con rispetto parlando). Articoli di Piero Ignazi e di Andrea Fabozzi, rispettivamente su
la Repubblica e il manifesto, 5 dicembre 2013
UNA delle peggiori leggi elettorali delle democrazie occidentali, distillata dall’ingegno dei quattro saggi di Lorenzago, guidati dal dentista leghista Roberto Calderoli, è stata stracciata dalla Corte Costituzionale. Va finalmente al macero il sistema elettorale con il quale siamo stati condotti alle urne per ben tre elezioni, dal 2006 adoggi.Un sistema che era stato studiato per evitare che il vincitore annunciato alle elezioni del 2006, il centro sinistra guidato da Romano Prodi, potesse insediarsi a Palazzo Chigi forte di una maggioranza omogenea tra Camera e Senato. Inventando un premio di maggioranza che distorce in maniera clamorosa il principio di rappresentanza, differenziando la sua applicazione tra Camera e Senato e adottando le liste bloccate, gli apprendisti stregoni del centrodestra hanno portato al voto gli italiani in condizioni di “minorità democratica”.
Questa menomazione dei diritti deriva, come sottolinea la Corte, dal premio di maggioranza e dalle liste bloccate che vengono quindi considerate gravi violazioni della possibilità di determinare, attraverso il principio di “un uomo un voto”, la volontà dei cittadini.
La Corte Costituzionale ancora una volta interviene a supplenza della politica, come da ormai lunga tradizione (basti ricordare le sentenze della Corte guidata da Giuseppe Branca negli anni Settanta che aprirono la breccia alla stagione dei diritti civili). Il suo schiaffo all’inerzia parlamentare è sonoro. In nove mesi non è stato partorito nulla e i partiti si sono spesi inballon d’essaieproposte alambiccate. Ora non ci sono più scuse, e non c’è nemmeno più tempo. Le Camere devono produrread horasuna nuova legge che dovrà necessariamente tener conto delle indicazioni fornite dalla sentenza di ieri.
Anche perché il rischio è che si vada a votare con la proporzionale. Un rischio da evitare assolutamente.Il compito di elaborare dovrà impegnare a tempi serrati tutto il Parlamento. Però questa sentenza “delegittima” gli esponenti del centrodestra di allora, ideatori del Porcellum, da Bossi a Casini, da Berlusconi allo stesso Alfano: tutti corresponsabili di questomonstrum premiale, disomogeneo e bloccato.
Spetta agli oppositori del Porcellum, peraltro troppo acquiescenti e troppo a lungo silenziosi, proporre una nuova legge elettorale dato che Lega e Forza Italia (ma anche il Nuovo Centro Destra) hanno oggettivamente perso voce in capitolo.Il Pd diventa il master del gioco. E allora deve fare piazza pulita di formulette e giochini al ribasso e puntare alla chiarezza e alla semplicità. Gli elettori hanno diritto di poter decidere tra alternative chiare e ben visibili,sapendo bene qual è il reale peso del loro voto. Soprattutto devono vedere in faccia il loro eletto. A questo punto al Pd non rimane che ritornare alla sua opzione originaria, sempre recitata come una giaculatoria salvifica e poi sacrificata sull’altare della responsabilità e della concertazione: il doppio turno.Quello adottato in Francia per le elezioni legislative rappresenta un modello sperimentato che ha consentito nel tempo la riduzione della frammentazione, la formazione di coalizioni alternative e la governabilità. Poi si possono studiare anche altre varianti, purché gli obiettivi rimangano gli stessi. Infatti il doppio turno riporta nelle mani dei cittadini la scelta del loro eletto, e consente di riallacciare un rapporto fiduciario tra cittadini e rappresentanti, finora segregato dalle liste bloccate.L’antipolitica montante di questi ultimi anni è stata alimentata anche dalla distanza, anzi dalla barriera, che separava elettori ed eletti. Ridurre questa separazione, mantenendo le condizioni per il bipolarismo, è un imperativo. E per rispondervi non è rimasta che questa strada.
Un’ora prima che la Corte Costituzionale demolisse la legge elettorale facendo quello che tutti i partiti (anche gli autori del misfatto) dicono di voler fare da sette anni, una commissione di senatori giurava di aver trovato la strada per cambiare finalmente il Porcellum. O almeno fare una proposta. Subito, quasi subito, in due mesi al massimo. A tale livello di grottesco era arrivata la politica, foresta pietrificata sulla quale si è abbattuta l’ennesima supplenza giudiziaria. Ancora una volta obbligata e stavolta benvenuta. La Consulta, che non a caso è rimasta sotto attacco per tutto il ventennio berlusconiano assieme agli altri poteri di garanzia, ha rimesso la chiesa al centro del villaggio. La rappresentanza nel cuore del sistema elettorale. I cittadini elettori alla base della legittimazione dei rappresentanti. Non è detto che basterà per avere un buon sistema elettorale. Ma potrà solo essere migliore.
La Corte Costituzionale, evitando ogni tentazione di rinvio, ha dichiarato l’illegittimità del premio di maggioranza senza limiti, quello che dal 2005 consente a chiunque vinca le elezioni, anche solo di un voto e con qualsiasi percentuale, di conquistare 340 deputati, la maggioranza assoluta. Anche la legge Acerbo approvata durante il fascismo prevedeva una soglia minima di voti per aver diritto al premio. Ma la Corte è andata oltre accogliendo anche la seconda questione di costituzionalità che gli era arrivata dalla Cassazione e bocciando il meccanismo delle liste bloccate. L’ispirazione è la stessa: restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti. Bisognerà leggere le motivazioni che arriveranno tra qualche settimana, ma il principio sembra quello già anticipato in precedenti (ma non cogenti) pronunce della Consulta: la rappresentatività può essere sacrificata alla governabilità solo nel rispetto della ragionevolezza. Nel caso del Porcellum il sacrificio è (era) enorme e il vantaggio nullo, come prova il fatto che i vincitori per governare si sono dovuti alleare con gli sconfitti nel governo delle larghe intese.
Quella di ieri è una sentenza certamente politica, quasi costituente o meglio «ri-costituente» visto che mette in crisi il totem del premio di maggioranza attorno al quale ha ballato tutta la «seconda Repubblica». Lo si capisce benissimo non solo dalle conseguenze, ma anche dalle parole condiscendenti che i giudici hanno voluto rivolgere ai politici. «Resta fermo — si legge in conclusione del
In attesa delle motivazioni, la legge elettorale che viene fuori dalla sentenza di ieri è un proporzionale puro come ai tempi della Costituente (e allora sì che un parlamento eletto con questo sistema avrebbe una legittimazione in più per fare le riforme). È il sistema più in grado di garantire la rappresentatività delle forze politiche, ma anche quello che nel quadro politico attuale aprirebbe le porte alla stabilizzazione delle larghe intese. E al tramonto di quel bipolarismo che appare esaurito nei fatti e solo a fatica può essere creato in vitro dalle leggi elettorali.
Vent’anni dopo può forse chiudersi il ciclo dominato dalla religione del maggioritario. Ed è significativo che le parole di rispetto per il parlamento usate ieri dalla Consulta siano le stesse che erano contenute nelle sentenza che nel 1993 ammise il referendum sul sistema di voto del senato, aprendo la porta al Mattarellum e alla riforma istituzionale per via elettorale. Anche allora, come ieri, si volle riconoscere alle camere l’ovvio diritto di scrivere una nuova legge elettorale. Ma il parlamento di oggi si è messo fuori gioco da solo. E potremmo persino assistere allo spettacolo dei deputati che corrono a farsi convalidare la nomina prima che arrivino le motivazioni della sentenza di ieri. Una preoccupazione scomposta e probabilmente superflua, ma il giusto compendio di un’istituzione mortificata.
«il manifesto, 3 dicembre 2003
Quello toscano non è l'unico caso e neppure un'eccezione. Il «terzo mondo» di casa nostra è una realtà che colpevolmente facciamo finta di non vedere. Tutte le mattine nella piazza principale di Villa Literno si svolge un mercanteggiamento che ha per oggetto una merce particolare: braccia umane, africane soprattutto ma da qualche tempo anche rumene, da sfruttare in agricoltura come i ragazzini messi in vendita ogni 15 agosto nella piazza del Duomo di Benevento e raccontati da Corrado Alvaro. Nella cittadina del casertano la chiamano «piazza degli schiavi», e mai come in questo caso la vox populi è riuscita a trovare le parole giuste per descrivere la realtà.
Nella Terra di lavoro campana vive e lavora in condizioni terribili la più ampia comunità africana d'Italia. L'Italia si indignò solo quando, nel 2008, un commando dei Casalesi sterminò sette persone in una rappresaglia di stampo nazista.
Chi si trovasse a percorrere, sul far dell'alba, la via Pontina dalle parti di Sabaudia, potrà incrociare centinaia di ciclisti con i turbanti. Sono i bufalari sikh della «little India», dove le bufale non si chiamano più cantando, come faceva il Cosimo Montefusco incontrato da Rocco Scotellaro in Contadini del sud. «Un'immigrazione silenziosa e operosa», come l'ha definita il sociologo Marco Omizzolo, che fa notizia solo quando qualcuno di loro finisce vittima di un pirata della strada, meritandosi al massimo una breve nelle cronache locali.
Qualche giorno fa, a Rosarno, un africano è morto di stenti. Nelle campagne calabresi i raccoglitori di arance e mandarini vivono e lavorano in condizioni disumane, come ai tempi di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. La situazione è talmente precaria che Emergency ha aperto per loro un ambulatorio come in Afghanistan o in Sudan. Neppure la rivolta del 2010 è riuscita a modificare la loro condizione: quando le acque si sono calmate, sono tornati invisibili come il Garabombo di Manuel Scorza.
Si potrebbe continuare menzionando i «clandestini» dell'industria del falso che alimentano i roghi della Terra dei fuochi, o ricordare come, mentre si festeggiava la vittoria dell'Italia ai mondiali del 2006, un rogo in un materassificio ricavato in uno scantinato, in provincia di Salerno, uccise due operaie italiane che lavoravano al nero per due euro l'ora. Una di loro era anche minorenne e per questo la politica si commosse per qualche ora e poi passò a parlar d'altro.
I morti di Prato sono cinesi e non votano neppure alle primarie del Pd, ma come gli africani di Rosarno e i bufalari pontini sono indispensabili a far girare la ruota di un sistema economico che nessuno si sogna di mettere in discussione dalle fondamenta. Se ne parlerà meno e forse è persino preferibile. Almeno evitiamo eccessive ipocrisie.
«il manifesto, 3 dicembre 2013
«Abbiamo il debito pubblico più pesante d'Europa. E' la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza. I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna , semmai dovessero verificarsi...sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall'Europa. Un default dell'Italia no, sconquasserebbe l'Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa: il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato...è questa la spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell'Unione a cominciare dalla Germania».
Queste parole di Eugenio Scalfari (Repubblica, 1-12) segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che dal giorno della "salita" al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che contano, il principale puntello di quei due governi e dei relativi presidenti del consiglio, che hanno fatto dell'accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, Bce e Unione europea la ragione della loro esistenza e legittimazione. Massacrando la popolazione che avrebbero dovuto guidare fuori dalla crisi, rivelandosi tanto ridicoli quanto inetti (con il dramma degli esodati il primo, la farsa dell'Imu il secondo...).
Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sa uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la «spada di Brenno») ce l'ha il debitore e non il creditore. A condizione di saperlo/a e volerlo/a usare. Con l'Europa la posta in gioco è alta: si tratta di rinegoziare radicalmente i trattati dell'Unione e gli accordi della zona euro per riformare la Bce (e farne un prestatore di ultima istanza), azzerare il fiscal compact (eliminando l'obbligo di far rientrare il debito pubblico al 60% del Pil in vent'anni), il pareggio di bilancio (e qui la spada di Brenno andrebbe rivolta contro i parlamentari italiani che l'hanno votato), la mano libera alla finanza (vietando il traffico di derivati di ogni genere non sostenuti da adeguati sottostanti), la "libera" circolazione dei capitali (con una vera tassa sulle transazioni finanziarie), rivedere l'unione bancaria (introducendo il vincolo della separazione tra banca commerciale e banca d'affari) e sostituire alla moneta "unica" una moneta "comune" (con flessibilità interna tra i vari Stati); e molte altre cose ancora. Altrimenti, kaputt.
Una minaccia che all'Italia costerebbe ben poco, perché è comunque il destino a cui le politiche, in successione, di Tremonti, di Monti e di Letta - cioè della Bce e, per suo tramite, dell'alta finanza internazionale - l'hanno condannata da tempo; come hanno fatto con la Grecia e con gli altri nostri compagni di sventura: Spagna, Portogallo, Bulgaria, oggi; e domani Francia, Ungheria e via andando.
Se la "svolta" di Scalfari segnala che alla fine anche un elementare buon senso si vede ormai costretto a prospettare soluzioni radicali, fino a oggi esecrate come la più irresponsabile delle ipotesi - «pericoloso anche solo nominarla»: così, per esempio, Felice Roberto Pizzuti - è però altamente improbabile che qualcuno dia seguito a quel suo consiglio: Letta non ha la tempra né la cultura per farlo; non ha una forza politica che lo sorregga in un passo di questa portata, avendo abbracciato - su indicazione di Napolitano - la strada del galleggiamento giorno per giorno; ma soprattutto non ha a disposizione un "piano B": un'ipotesi per affrontare i problemi nel caso che le controparti rispondano picche al suo ricatto (perché di ricatto si tratta, anche se sarebbe una mossa sacrosanta).
Sulla tempra e la cultura di Letta (come su quelle di Monti, un "tecnico" portato in palma di mano da mezza Europa - la sua - e da tutto l'establishment italiano, e rivelatosi poi, insieme al cagnolino Empy, una mezza calzetta), sorvoliamo. Sulla sua forza politica, anche: i partiti delle larghe intese - ora ridotte a intese molto strette - non sanno nemmeno come si chiameranno domani, né se esisteranno ancora. Quanto al "piano B", non si tratta di bazzecole, o di misure che possano essere affidate a un consulente esterno qualsiasi, come un Bondi o un Cottarelli sulla spending review; o a ministri che non sono stati nemmeno capaci di calcolare il reddito medio dei deputati europei, avendo alle spalle tutto il personale tecnico dell'Istat, come Giovannini; o l'impatto dell'abolizione dell'Imu, come Saccomanni, che pure ha diretto per anni, chissà come, la Banca d'Italia.
Il "piano B" è una strategia che richiede studi, confronti, verifiche e soprattutto consenso: tutte cose che l'attuale compagine di governo non ha la minima idea di che cosa siano. Ma che mancano anche a chi ricorre alla formula semplicistica e demagogica di "uscire dall'euro", quasi che si potesse tornare alle cose di una volta: quando bastava svalutare la moneta per recuperare competitività e mercati di esportazione. Quella convinzione rappresenta in realtà la quintessenza del liberismo: l'idea che sia il mercato a regolare l'economia e che una variazione dei prezzi internazionali basti per rilanciare lo sviluppo. Un "piano B" invece non può che essere una strategia. Una strategia che deve poter funzionare tanto nel caso, assai improbabile, che l'Italia venga esclusa o si autoescluda dall'euro, o in quello, assai più verosimile, che l'euro si dissolva - nel caos di una serie di default incontrollati - per le sue contraddizioni, quanto nel caso che tutte o le principali richieste su una rinegoziazione dei trattati venissero accolte: perché il riordino del sistema finanziario che detta legge in Europa e nel mondo è sì necessario, ma di sicuro non sufficiente.
Al suo fianco ci vuole un programma per rimettere in piedi l'economia reale, cioè reddito, occupazione e servizi sociali; che non vuol dire rilanciare l'araba fenice della "crescita", ma valorizzare le competenze umane e il patrimonio di impianti, di know-how e di risorse materiali e ambientali che il trend economico sta mandando in malora a livello locale, nazionale, europeo e mondiale.
Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Si dia il caso, però, che quello a cui né Letta, né Monti, né Tremonti, né Scalfari non hanno mai pensato, sia invece da anni - anzi, da decenni - al centro della riflessione, delle buone pratiche, e dei dibattiti che coinvolgono milioni di donne e di uomini riuniti in comitati, movimenti, associazioni, forum e reti di varia natura e impegnati, anche se nessuno ne parla, in lotte, anche durissime e a volte mortali, in tutti gli angoli del pianeta, Italia compresa.
E' un programma di radicale conversione ecologica dell'apparato economico e degli stili di vita (ovvero dei modelli di consumo) teso a salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale e dai mutamenti climatici in corso (ciò di cui, ancora una volta, si è fatto beffe il vertice Cop19, riunito a Varsavia dal 23 al 29 novembre con i delegati di tutti i "governi Letta" del mondo) e, al tempo stesso, teso a valorizzare al massimo le risorse umane, materiali, ambientali e tecnologiche di cui l'umanità può disporre per rendere meno iniqua la distribuzione del potere e della ricchezza e più accettabile la condizione umana per tutti.
Non si tratta di utopie astratte, ma di progetti concreti, alla portata di tutti, perché imperniati su una partecipazione attiva (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni) e sulla ri-terrritorializzazione dei processi economici: cioè sul riavvicinamento sia fisico che organizzativo tra produzione e consumo; tutto l'opposto dell'accentramento politico e finanziario in corso e della globalizzazione dei mercati che mette in concorrenza miliardi di individui, di cui si sono nutriti tanto lo "sviluppo" degli ultimi decenni, quanto le politiche di risanamento che hanno ridotto, oggi la Grecia e domani l'Italia, a una condizione peggiore di quella di un paese devastato dalla guerra.E' un programma che non può essere perseguito a livello nazionale, perché è al tempo stesso locale - le cose vanno fatte innanzitutto là dove tutti possono partecipare alla loro realizzazione - e sovranazionale: i problemi di fondo sono quasi ovunque gli stessi, come uguali per tutti sono i poteri da abbattere o da riformare.
Per questo la partita fondamentale per tutti noi si giocherà nel prossimo futuro a livello europeo: proprio come dice Scalfari. Ma a giocarla dobbiamo essere noi tutti, trovando la strada per far sentire la nostra voce; e non Letta e i suoi pari, che non ne saranno mai capaci.
Che cosa c'è dietro l'apparente stravaganza del fatto che secondo molti osservatori Grillo e Renzi sono molto simili? Un tentativo di risposta.
Il manifesto, 1 dicembre 2013
Che tra le due personalità politiche ci sia più di una affinità lo hanno colto molti osservatori: basti pensare che le inchieste sono unanimi nell'affermare che la scalata di Renzi ai vertici del Pd contribuirà ad essiccare l'acqua in cui nuota il pesce grillino. Tra tutte le similitudini tra le due vicende politiche, ve ne è tuttavia una che ha, all'apparenza, del paradossale: sia il partito di sinistra, geneticamente modificato da Renzi, che il M5S attingerebbero il proprio bacino di consenso da due culture inconciliabili, quella dei delusi dalla sinistra tradizionale (di matrice addirittura comunista) e dal berlusconismo. Che ciò si produca indica un panorama politico impazzito; e tuttavia le radici di questa «follia» possono essere razionalmente rintracciate nella nostra recentissima storia politica.
A partire dai primissimi anni Novanta si è passati, in Italia almeno, da una democrazia «orizzontale» a una «verticale». Il modello «orizzontale» del Novecento europeo è un modello in cui interessi appunto orizzontali, contrapposti nella società, trovano espressione in partiti, movimenti, o anche singole personalità che se ne fanno interpreti nell'agone politico. Non si tratta di un modello assolutizzante, per cui si verificano al suo interno vistose osmosi - la working class Tory inglese, l'imprenditore comunista emiliano... La contrapposizione di questi interessi struttura vistosamente il sistema politico della nostra «prima Repubblica».
A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, una serie di macro-fenomeni sociali, accompagnati da scelte soggettive dei gruppi dirigenti, in specie della sinistra, contribuiscono a «periferizzare» gli interessi degli strati orizzontali inferiori, quando non lo stesso protagonismo politico dei loro esponenti. I luoghi e i riti della partecipazione alla politica dei ceti subalterni perdono di peso e di senso. Questi fenomeni profondi favoriscono e accompagnano il mutamento di paradigma che si produce negli anni Novanta, per cui i due poli che si confrontano si fanno portatori di interessi «verticali».
Oggi essi afferiscono entrambi a parti di gruppi dirigenti tradizionali, che menano le danze quasi a prescindere dallo scontro politico in atto - facilitati in questo dal trasferimento dei poteri decisionali dalle assemblee elettive a una tecnocrazia democraticamente irresponsabile. Si può a buon diritto argomentare a favore di una maggiore sensibilità civile e di un maggior cosmopolitismo di quella parte dei gruppi dirigenti di cui il centro-sinistra si è fatto espressione, ma poco cambia ai fini dell'argomentazione. Non è un caso che l'ultimo ventennio, pur contraddistinto da lunghi periodi di governi di centro-sinistra, sia stato marcato da un gigantesco spostamento di denaro (e di potere) dal salario diretto e indiretto al capitale e alla rendita. Il consenso di massa attorno a questo sistema di per sé elitario è mantenuto attraverso il meccanismo «verticale» della clientela - intesa in senso politico, non moralistico: spezzoni di società, che agiscono come somma di individui o tutt'al più come clan, che traggono il proprio sostentamento dalla vittoria dell'uno o dell'altro schieramento.
L'esplosione della Crisi ha inceppato questo meccanismo, dal momento che ha impedito ai gruppi dirigenti di assicurarsi il consenso dei «clienti» (emblematica la necessità di rinunciare allo strumento della Consulenza e del Condono fiscale). Gli esclusi dal meccanismo verticale hanno così iniziato a rispondere sul piano politico o con l'astensione, o con l'appoggio a movimenti e personalità che ne rivendicavano la rappresentanza. Si formano così, attorno ai leader «nuovisti», blocchi sociali eterogenei in lotta contro il sistema politico assodato: disoccupati e precari, giovani altamente formati, lavoratori dipendenti sono attratti dalle sirene di chi si scaglia contro manodopera occupata, pensionati e grandi industriali, genericamente accomunati dall'etichetta di «garantiti».
Renzi e Grillo, gli homines novi cui ci si rivolge, assediano il palazzo della larghe intese, asserragliate a difesa dell'esistente. I grandi organi di stampa, legati a doppio filo con interessi reali ben determinati, se ne accorgono per tempo, e pompano il fenomeno per non giungere impreparati alla nuova transizione. Ciò che si vuole assicurare è il perpetuarsi del modello «verticale», che sotto la coltre di una dialettica aspra mantiene inalterata la funzione dirigente dei gruppi di potere tradizionale. È probabile che l'attuale sistema politico verrà definitivamente travolto, oppure salvato dall'apatia di massa espressa nell'astensione.
Trent’anni fa qualcuno aveva già capito che cosa stava succedendo, e cercava di capire perché: quali erano le radici della crisi che era già in atto. Lo ha detto, ma non è stato ascoltato Ma non è mai troppo tardi per cambiare: basta comprendere perchè e come. E lavorare.
Per il partito nuovo, Luglio 2013
L’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e l’attitudine a costruire consenso trasversale, hanno assicurato la vittoria del sistema, oggi in crisi, che ci domina. Sono proprio le abilità che la sinistra avrebbe dovuto avere negli anni settanta.
Da quando la riflessione e l’insegnamento di Franco Rodano furono interrotti dalla morte, il 21 luglio 1983, sono dunque passati esattamente tre decenni. Questa interruzione non ebbe luogo in una situazione che potesse somigliare agli ultimi passi prima dell’apparizione della terra promessa: piuttosto, ebbe luogo quasi un istante prima che il cammino del genere umano cominciasse a svolgersi lungo ciò che egli avrebbe riconosciuto come uno sterminato deserto, e con ragione. Non ne sarebbe restato sorpreso, avendo già dettato per i Quaderni della Rivista Trimestrale, verso la fine degli anni settanta, una serie di lucide analisi circa l’esaurimento di tutte le condizioni che avevano permesso alla democrazia di coesistere con il capitalismo dopo la seconda guerra mondiale, sviluppandosi largamente pur senza mettere in discussione il nucleo fondamentale delle regole di tale sistema.
La serie di saggi il cui titolo generale enunciava il proposito di andare “Alla radice della crisi” merita infatti oggi di essere riletta insieme con il solo testo del periodo che esprima una consapevolezza altrettanto lucida e profonda dei processi allora in corso, cioè il “Rapporto alla Commissione Trilaterale sulla governabilità delle democrazie” scritto in quello stesso periodo da Samuel Huntington con Michel Crozier e Joji Watanuki. La differenza sostanziale tra le due analisi non è grande. Diventa enorme soltanto in termini di giudizi di valore e di scelte pratiche conseguenti. Mentre infatti Huntington & C. non avevano dubbi quanto alla preminenza delle esigenze del capitalismo su quelle della democrazia, e perciò quanto alla necessità che la democrazia cominciasse a fare notevoli passi indietro, Rodano insisteva nel ricordare che il problema sta innanzitutto nel capitalismo.
Ma, se tutto finisse qui, non ci sarebbe molto da imparare, né da dire. In effetti Rodano insisteva con altrettanta energia nell’indicare la presenza di problemi anche nella democrazia; e qui stava la differenza tra il suo pensiero e quella che stava ormai diventando la mentalità prevalente di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra. Dovrebbe essere inutile argomentare quanto la presente situazione di ciò che abitualmente chiamiamo sinistra possa ben suggerire attente riflessioni circa quella mentalità.
Rodano ci dice oggi, cioè, che la democrazia ha perso perché era stata messa – suo malgrado – in condizione di meritare, quasi, la sconfitta. Questo era il rischio che le sue ultime riflessioni additavano, e non è stato evitato. La democrazia fu cioè effettivamente lasciata, infine, a sostenersi da sola, come il solo ed estremo orizzonte del politico: priva, cioè, non soltanto di strutture sistemiche a sé adeguate, ma anche di ogni serio sforzo di costruire qualcosa di simile. Peggio ancora, la democrazia fu lasciata sostanzialmente a dipendere (per tale funzione) dall’improbabile benevolenza di quella particolare combinazione di potere ed economia che chiamiamo capitalismo (ed è del tutto indipendente, ricordiamo, dall’idea di mercato con la quale viene troppo spesso confusa e addirittura identificata). Tutto ciò accadde in stretta relazione con un esangue affievolimento del pensiero critico e soprattutto della critica pratica tanto sul tema del potere quanto sul tema dell’economia: in altre parole, attraverso la rimozione del concetto di rivoluzione dal pensiero e dall’azione nella sfera del politico.
Al contrario, la rilevanza centrale del concetto di rivoluzione, in tale sfera, rappresenta un motivo chiave in tutto lo sviluppo del lavoro intellettuale di Franco Rodano, insieme con lo sforzo costante di definirlo in modo adeguato, ossia pienamente storico e umano (e, insomma, pienamente politico), distinguendolo e depurandolo da ogni implicazione meta-storica come quelle comportate da filosofie della storia di carattere più o meno esplicitamente teologico (includendo in ciò, per quanto possa interessare, anche il problema rappresentato dalle teologie atee, o per meglio dire anti-teiste).
Attento lettore di Croce, Rodano rivendicò costantemente la scoperta moderna dell’autonomia e della coerenza interna dell’economia, e con essa della politica, nella loro distinzione dall’etica, che tuttavia non è contrapposizione. Coltivava e insegnava il gusto del lavoro ben fatto in relazione a necessità determinate. Le sue riflessioni sul tema del rapporto tra libertà e necessità (ruotanti intorno al fondamentale concetto di “limite”, così ricco di feconde implicazioni in tema di antropologia e di etica) restano affascinanti, innanzitutto come viatico per il mestiere di vivere a beneficio di tante persone che ebbero la fortuna di incontrare e frequentare la sua persona.
Ma ciò che rendeva fecondamente scomoda la sua riflessione a questo riguardo è che il suo concetto di necessità e di limite non aveva niente a che vedere con qualunque idea di fato o di predeterminazione del possibile, come quelle che il clero stabilito del pensiero unico va oggi predicando costantemente da tutti i più invadenti altoparlanti della comunicazione globale, spacciandole per ragionevoli oltre che per moderate. L’idea che il “sistema”, comunque, non debba essere toccato, non poteva che stupirlo ed esasperarlo. E, in effetti, è un’idea stupefacente ed esasperante.
In realtà, la persuasione che il ritmo normale e costante del processo storico sia continuo, anziché marcato da frequenti e necessarie cesure, scomposizioni e ricomposizioni sistemiche, e insomma rivoluzioni, sembra essere penetrata a fondo soprattutto nei ranghi del personale politico e intellettuale di ciò che un tempo fu una sinistra, e attualmente limita il suo orizzonte a quello di una specie di Opposizione di Sua Maestà entro i vincoli sistemici che proprio trent’anni fa furono concepiti e imposti da una spregiudicata e vittoriosa operazione di rottura dei vincoli precedenti (quelli, appunto, del compromesso tra democrazia e capitalismo che il capitalismo non sopportava più, né poteva sopportare). Si trattò di un’operazione che, a propria volta, non condivideva quella persuasione (se non come artificio di linguaggio). E in effetti ebbe successo a livello globale proprio perché adottava, dal proprio punto di vista e per i propri scopi, gli strumenti che Rodano proponeva quasi inascoltato ai grandi partiti democratici ancora robusti ma già in qualche modo irrigiditi (a cominciare dal PCI), per rispondere alle determinate, grandi e ineludibili necessità di quel decennio di svolta cruciale: vale a dire, da una parte l’attitudine a produrre discontinuità sistemiche, e dall’altra l’attitudine a costruire consenso trasversale.
Come è noto, la sua insistenza su quest’ultimo punto, nella sua interpretazione della politica berlingueriana del compromesso storico, lo fece oggetto di attacchi veramente concentrici come antimoderno, nostalgico di visioni organiciste, e via confondendo. Gran parte di questi attacchi, in realtà, andarono poi ad aggiungersi agli ingredienti del consenso trasversale vincente, a sua volta non si sa quanto moderno, fino alla recente e autorevole confessione che ardiva presentare il Governo Introvabile imposto all’Italia lo scorso aprile come – finalmente – l’attuazione della formula berlingueriana del compromesso storico, depurata da strane idee come cambiamenti di sistema al di là dell’orizzonte del capitalismo, e in particolare (oggi) di questo capitalismo, l’unico possibile, combinato con il massimo tasso di democrazia che gli sia tollerabile (cioè, poca), e stabilito dalla sola rottura sistemica che fosse ammissibile.
Se vogliamo veramente fare i conti con questa ideologia, allora, la lezione di Franco Rodano, convenientemente riletta e attualizzata, si presenta oggi tra gli strumenti più moderni e più adeguati di cui possiamo disporre.
Postilla
L'articolo è tratto dalla webzine. Per il partito nuovo. Inseriremo in eddyburg l'ampio saggio citato, e altri scritti di altri autori che solo per il velo d'ignoranza che è sceso sulla politica italiana sembrano oggi profetici
L’anticipazioni da un saggio di Nadia Urbinati ( ,Feltrinelli)sulla crisi della rappresentanza. La Repubblica, 28 novembre 2013
L’11marzo 2013, il parlamento ungherese ha approvato modifiche sostanziali alla Costituzione che limitano i poteri dell’Alta corte e le libertà civili. Il procedimento di revisione è stato promosso dal Partito nazional-populista Fidesz che controlla la maggioranza dei seggi in parlamento. Tra i ventidue articoli modificati spiccano quelli che rendono lecite le limitazioni della libertà d’espressione (...). Alle preoccupazioni sollevate dai rappresentanti dell’Unione europea, Viktor Orbán, leader della maggioranza, ha risposto (...): «La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione ».
Pochi mesi prima, il 20 ottobre 2012, in Islanda i cittadini approvavano con referendum la nuova Costituzione. Al testo erano giunti dopo un processo radicalmente democratico e non pilotato da una maggioranza parlamentare. Nel 2009, un anno dopo lo scoppio della crisi finanziaria che atterrò l’economia islandese, per iniziativa di alcune associazioni della società civile, un’Assemblea di millecinquecento persone (in maggioranza sorteggiate) si riunì per discutere e poi suggerire i punti della riforma della Costituzione. L’anno successivo, un Consiglio costituzionale veniva eletto a suffragio universale in base a candidature che escludevano parlamentari e membri dei partiti. I venticinque eletti, non politici di professione ma ordinari cittadini, giunsero all’approvazione della nuova carta dopo una diretta discussione con i cittadini tramite Facebook e Twitter. (...) Due storie che testimoniano la schizofrenia nella quale il sistema democratico si dibatte. Le democrazie contemporanee manifestano un sorprendente paradosso: il sistema democratico gode di un sostegno egemonico e perfino di un’attrattiva universale (...), eppure le sue esistenti forme di funzionamento sono sotto pressione a causa in primo luogo di un declino di legittimità. (...)
Due commenti sull'evento atteso per vent'anni. Norma Rangeri su
il manifesto ed Ezio Mauro su La Repubblica, 28 novembre 2013. Un evasore fiscale condannato in via definitiva non può essere senatore della Repubblica. Ma il berlusconismo non è morto
L'atto simbolico dell'espulsione di Silvio Berlusconi dalle istituzioni parlamentari alla fine si è compiuto. L'aula del senato ha mostrato, in diretta televisiva, le ultime difese delle truppe dei fedelissimi: senatori che denunciavano il sacrificio del leader, senatrici vestite a lutto, non contro l'immagine femminile sfigurata dall'epopea del bunga-bunga, bensì contro il rito democratico che a metà pomeriggio ha scritto la parola fine alla carriera istituzionale di Berlusconi. Tra uno Scilipoti che farfugliava di democrazia e un Giovanardi che involontariamente infieriva su se stesso parlando del paese di Maramaldo, si è giunti a un risultato dignitoso contro i timori di un salvataggio in extremis. Il parlamento ha reagito decorosamente, ha votato in modo palese e il Pd ha tenuto le posizioni.
Naturalmente ci congediamo dal decaduto, non dalla decadenza del paese. Ma aver dimostrato, per una volta, che la legge è uguale per tutti, che il corpo del "sovrano" è soggetto alle sentenze e alla Costituzione, rende altrettanto evidente che, insieme al velo dell'intoccabilità del re, sono cadute altrettanto fragorosamente le maschere degli avversari. Sulla politica, sui partiti, sull'informazione pesa ora la responsabilità, con i fatti, i comportamenti e le scelte di cambiare l'agenda.
Da oggi Forza Italia è un partito come gli altri, una forza di opposizione guidata da un pregiudicato che paragona i magistrati alle Br, stretta tra il populismo grillino e l'anima governativa del gruppo ciellino. Vedremo se il mondo politico e quello dell'informazione (due facce della stessa malattia) intenderanno prenderne atto o preferiranno continuare come prima. I politici a farsi schermo dell'antiberlusconismo per non assumersi la responsabilità di parlare un'altra lingua, e l'informazione a mostrarsi Berlusconi-dipendente per non tagliare il cordone ombelicale che ha tenuto insieme servo e padrone, conflitto d'interessi e giustizialismo. Tutti sappiamo quanto profondo è il danno subito da un paese che per decenni si è piegato ai diktat dell'uomo forte, quanto larga la compenetrazione tra il movimento della destra arcoriana e la società che a lui si riferisce. Ma l'acutezza della crisi e gli anticorpi che tuttavia il ventennio ha prodotto ci spingono, più che a ripetere la diagnosi, all'urgenza della cura.
La Repubblica
L’ECCEZIONE È FINITA
Ezio Mauro
TUTTO è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini più potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l’imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l’espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l’eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand’è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.
No, nonostante la propaganda. L’eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l’onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.
Questa verità è sparita dalla discussione, dall’analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l’inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell’intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l’ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l’aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica,umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l’immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.
“Lutto per la democrazia”, “Colpo di Stato”, “Legge calpestata”. “Persecuzione senza uguali”, “Plotone di esecuzione”. Uscendo dall’aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente — per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza — dall’abito dell’uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il “golpe”, una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell’ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell’anima. Riassunto, alla fine, nell’ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l’abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia fisica, affidandole la residua politica estenuata: «Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo». Come se mostrarsi ai suoi fosse l’unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l’eternità. Con un’ultima, minima via d’uscita per l’immediato futuro: «Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo». Con la differenza — taciuta — che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi novemesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L’universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l’abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l’emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di sé, l’unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l’ordinamento creando l’eccezione, e ottenendo su questo consenso.
La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l’eccezione per un solo uomo, l’eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando “lodo” i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l’accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l’intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.
E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisise non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l’esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.
Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un’eccezione che confermasse la sua specia-lità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d’interessi, ogni giorno, dall’uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione ad personam.
Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali — naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici — hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un’anomalia che dura in realtà da vent’anni, e non ha uguali in Occidente.
Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un’identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell’anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta “repubblicana”, come dice Scalfari.
Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un’opposizione a tutto, l’Italia, l’euro, l’Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.
Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di
Che cosa accadrà in concreto, è troppo presto per dirlo. E tuttavia questa tardiva resipiscenza merita un momento di attenzione. Tardiva, perché fin dai giorni della formazione del governo Letta s’era detto che sarebbe stato più corretto, e anche più funzionale, avviare una revisione sui punti già assistiti da un sufficiente consenso (uscita dal bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari). Se fosse stata subito imboccata questa strada, oggi potevamo essere vicini all’approvazione di questa non indifferente riforma. Ma questa resipiscenza, proprio perché tardiva, fa nascere problemi che debbono essere subito messi in evidenza, che non possono essere furbescamente elusi o occultati.
Il primo riguarda il fatto che proprio questa inversione di rotta conferma che ormai la Costituzione viene considerata come una semplice pedina di giochi politici a breve, di convenienze. Non siamo di fronte ad un vero recupero della cultura costituzionale, ma quasi al suo contrario. Che questo, oggi, possa avere un effetto positivo, non è certo indifferente. Ma la complessiva temperie istituzionale non muta e altri effetti, tutt’altro che positivi, possono prodursi.
L’attenzione, allora, deve essere rivolta al disegno di legge di modifica dell’articolo 138, già approvato dal Senato in seconda lettura e che sta per essere portato alla Camera per la sua approvazione definitiva. Che fine farà? Sarà messo prudentemente in un angolo o si procederà con la logica delle azioni parallele? In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una sorta di stralcio, con un paio di questioni – bicameralismo, riduzione dei parlamentari – affidate alla procedura di un articolo 138 non modificato, mentre la questione di fondo, dunque la modifica della forma di governo, rimarrebbe prigioniera dello strappo determinato dalla manipolazione dell’articolo 138, divenuta così ancor più evidente e clamorosa.
È una soluzione inaccettabile, in cui si riflette soltanto la disperazione di una maggioranza che proclama in ogni momento d’essere forte perché sa benissimo d’essere debolissima, e che assomiglia sempre di più a quel barone di Münchausen che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Un doppio binario non è ammissibile. Si certificherebbe che, là dove si riesce a costruire quel consenso largo necessario per le riforme costituzionali, si possono rispettare le regole. Dove, invece, questo non è possibile, si procede per strappi e forzature. Che razza di democrazia “costituzionale” diverrebbe la nostra?
Considerando il merito delle riforme, poiché vi sono molti modi di affrontare le questioni ricordate, si deve discutere seriamente almeno quali sarebbero gli effetti dell’abbandono del bicameralismo perfetto per quanto riguarda la nomina del presidente del Consiglio, che può avere riflessi sul ruolo del presidente della Repubblica; la questione della fiducia al governo; il procedimento legislativo, che non può essere totalmente concentrato in una sola camera. Inoltre, la furia un po’ cieca che ha portato a ritenere, troppe volte con argomentazioni soltanto di risparmio di spesa, che l’efficienza si raggiunga con il taglio dei parlamentari, dovrebbe essere temperata da una riflessione che, mantenendo fermo questo criterio, tuttavia si chieda quanto tutto questo inciderebbe sulla rappresentanza dei cittadini. Scomparsa, infatti, l’elezione diretta del Senato, questa sarebbe tutta affidata agli eletti alla Camera dei deputati, il cui numero diventa determinante. Emerge così la questione generale del mantenimento, attraverso la riforma, del carattere parlamentare e rappresentativo della nostra Repubblica.
Si giunge così ad un punto chiave. Sembra di scorgere, dietro questo possibile cambiamento di linea, anche la volontà di creare condizioni più propizie alla riforma della legge elettorale. Se, tuttavia, questa assumesse caratteristiche sostanzialmente ipermaggioritarie, sacrificando tutto all’affermazione falsa che in tutti i paesi democratici immediatamente dopo il voto è sempre automaticamente identificata la maggioranza di governo (e la Germania di oggi? e la Gran Bretagna di ieri?), la forma di governo ne risulterebbe modificata in maniera surrettizia, impropria.
Non sollevo difficoltà. Cerco di indicare i punti di una discussione che può essere proficua se viene liberata dalle forzature e dai secondi pensieri che l’hanno finora accompagnata, e rischiano di inquinarla ancora. E, soprattutto, se viene ricondotta al nuovo contesto politico così bene individuato ieri da Piero Ignazi, ricordando quanto sia mutato da quello originario, di cui era parte organica un’altra idea di riforma costituzionale. Questa è la novità dalla quale non si può sfuggire, e mi pare che lo abbia opportunamente messo in evidenza, con anticipo, Pippo Civati sottolineando come, al di là del fatto contabile, non vi siano più politicamente i “numeri” per la riforma dell’articolo 138. Questa è la riflessione alla quale non ci si può sottrarre, a meno che la politica non si incaponisca nel ritenere che l’unico orizzonte possibile sia quello della brevissima convenienza, senza recuperare un briciolo del rispetto dovuto alla sua fondazione costituzionale e al modo in cui questa, con ben diversa sensibilità, è ormai percepita in una parte sempre più larga della società italiana.
«Questa economia uccide e gli esclusi diventano rifiuti e avanzi». Una “rivoluzione gentile la prima “esortazione apoostolica di Papa Francesco. Una lezione politica.
L’Unità, 27 novembre 2013
È racchiusa in 224 pagine la «rivoluzione gentile» di Papa Francesco. La sua Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» rappresenta un vero manifesto del suo pontificato. Formalmente è dedicata alla «nuova evangelizzazione» al termine dell’Anno della Fede e a come annunciare il Vangelo al mondo di oggi, ma nei suoi cinque capitoli Papa Francesco non solo indica un modello preciso di Chiesa «aperta», «gioiosa», che sappia incontrare i lontani, fedele al Vangelo e con un rapporto preferenziale per i poveri. Che sappia uscire dalla sua autoreferenzialità, dal rischio della mondanità e sia aperta al cambiamento.
Esprime un punto di vista preciso sulla crisi globale e su come rispondere alla domanda di vera giustizia e di pace. La sua «Esortazione» non è un documento politico, ma richiama un punto di vista preciso verso ciò che offende la dignità dell’uomo e dei Popoli. Alle questioni sociali Bergoglio dedica due dei cinque capitoli del documento, il secondo e il quarto. Si coglie l’esperienza vissuta nella sua Argentina colpita duramente dalla crisi economica internazionale nella sua critica esplicita al «feticismo del denaro» e «alla dittatura di un’economia senza volto e senza scopo veramente umano», nuova e spietata versione dell’«adorazione dell’antico vitello d’oro». Stigmatizza l’attuale sistema economico che «è ingiusto alla radice» (59), «questa economia che uccide» perché prevale la «legge del più forte». Torna sulla cultura dello «scarto» che ha creato «qualcosa di nuovo» e drammatico: «Gli esclusi, che non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (53). Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando «all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della “inequità” insiste non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema». E indica proprio nell’«inequità», la radici dei mali sociali.
La Chiesa non può restare indifferente a tali ingiustizie. «L’economia non può più ricorrere a rimedi che siano un nuovo veleno, come quando si retende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando un tal modo nuovi esclusi». Dedica pagine alla denuncia della «nuova tirannia invisibile, a volte virtuale» in cui si vive è quella a «un “mercato divinizzato”, dove regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista”» (56). Ricorda come il possesso privato dei beni si giustifica «per custodirli e accrescerli», ma «in modo che servano meglio al bene comune». Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani osserva non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un’effimera pace «per una minoranza felice».
Chiede giustizia vera e non fa sconti il «vescovo di Roma». Invita ad avere cura dei più deboli: «i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati» e i migranti, per cui esorta i Paesi «ad una generosa apertura» (210). Parla delle vittime della tratta e di nuove forme di schiavismo: «Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta» (211). Ricorda il dramma delle donne doppiamente povere che «soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza» (212). In questa difesa della dignità della vita umana il Papa conferma la condanna dell’aborto. «Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando la vita umana». Aggiunge che però si è «fatto poco per accompagnare le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie».
Rivendica il diritto dovere della Chiesa ad intervenire su questi temi e chiede a Dio «che cresca il numero di politici capaci di sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo, più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri».
La Repubblica, 27 novembre 2013
La tentazione sarà grande, dopo il voto sulla decadenza di Berlusconi al Senato, di chiudere il ventennio mettendolo tra parentesi. È una tentazione che conosciamo bene: immaginando d’aver cancellato l’anomalia, si torna alla normalità come se mai l’anomalia - non fu che momentanea digressione - ci avesse abitati. Nel 1944, non fu un italiano ma un giornalista americano, Herbert Matthews, a dire sulla rivista Mercurio di Alba de Céspedes: «Non l’avete ucciso!» Tutt’altro che morto, il fascismo avrebbe continuato a vivere dentro gli italiani. Non certo nelle forme di ieri ma in tanti modi di pensare, di agire. ’infezione, «nostro mal du siècle », sarebbe durata a lungo: a ciascuno toccava «combatterlo per tutta la vita», dentro di sé. Lo stesso vale per la cosiddetta cadutadi Berlusconi.
È un sollievo sapere che non sarà più decisivo, in Parlamento e nel governo, ma il berlusconismo è sempre lì, e non sarà semplice disabituarsi a una droga che ha cattivato non solo politici e partiti, ma la società. Sylos Labini lo aveva detto, nell’ottobre 2004: «Non c’è un potere politico corrotto e una società civile sana». Fosse stata sana, la società avrebbe resistito subito all’ascesa del capopopolo, che fu invece irresistibile: «Siamo tutti immersi nella corruzione», avvertì Sylos. La servitù volontaria a dominatori stranieri e predatori ce l’abbiamo nel sangue dal Medioevo, anche se riscattata da Risorgimento e Resistenza. La stessa fine della guerra, l’8 settembre’43, fu disastrosamente ambigua: «Tutti a casa », disse Badoglio, ma senza rompere con Hitler, permettendogli di occupare mezza Italia. Tutte le nostre transizioni sono fangose doppiezze.
Dico cosiddetta caduta perché il berlusconismo continua, dopo la decadenza. Il che vuol dire: continua pure la battaglia di chi aspira a ricostruire, non solo stabilizzare la democrazia. Il ventennio dovrà essere finalmente giudicato: per come è nato, come ha potuto attecchire. Al pari di Mussolini non cadde dal cielo, non creò ma aggravò la crisi italiana. Nel ’94 irruppe per corazzare la cultura di illegalità e corruzione della Dc, di Craxi, della P2, e debellare non già la Prima repubblica ma la rigenerazione (una sorta di Risorgimento, anche se trascurò la dipendenza del Pci dall’oro di Mosca) avviata a Milano da Mani Pulite, e poco prima a Palermo da Falcone e Borsellino. Il berlusconismo resta innanzitutto come dispositivo del presente.
Anche decaduto, assegnato ai servizi sociali, il leader di Forza Italia disporrà di due armi insalubri e temibili: un apparato mediatico immutato, e gli enormi (Sylos li definiva mostruosi) mezzi finanziari. Tanto più mostruosi in tempi di magra. Assente in Senato, parlerà con video trasmessi a reti unificate. E in campagna elettorale avrà a fianco la destra di Alfano: nessuno da quelle parti ha i suoi mezzi, la sua maestria. Monti contava su 15-16 punti, prima del voto a febbraio. Alfano solo su 8-9 punti. La scissione potrebbe favorire Berlusconi, e farlo vincere contro ogni nuova gioiosa macchina di guerra. Ma ancora più fondamentale è l’eredità culturale e politica del ventennio: i suoi modi di pensare, d’agire, il mal du siècle che perdura. Senza uno spietato esame di coscienza non cesseranno d’intossicare l’Italia. Il conflitto d’interessi in primis, e l’ibrido politica-affarismo: ambedue persistono, come modus vivendi della politica. La decadenza non li delegittima affatto. La famosa legge del ’57 dichiara ineleggibili i titolari di importanti concessioni pubbliche (la Tv per esempio): marchiata di obsolescenza, cade nell’oblio. Sylos Labini sostenne che fu l’opposizione a inventare il trucco per aggirarla. Non fu smentito. L’onta non è lavata né pianta.
Altro lascito: la politica non distinta ma separata dalla morale, anzi contrapposta. È un’abitudine mentale ormai, un credo epidemico. Già Leopardi dice che gli italiani sono cinici proprio perché più astuti, smagati, meno romantici dei nordici. Non sono cambiati. Ci si aggrappa a Machiavelli, che disgiunse politica e morale. Ci si serve di lui, per dire che il fine giustifica i mezzi. Ma è un abuso che autorizza i peggiori nostri vizi: i mezzi divengono il fine (il potere per il potere) e lo storcono. Il falso machiavellismo vive a destra, a sinistra, al Quirinale. La questione morale, poco pragmatica, soffre spregio. Berlinguer la pose nel ’77: nel Pd vien chiamata una sua devianza fuorviante.
Anche il mito della società civile è retaggio del ventennio: il popolo è meglio dei leader, i suoi responsi sovrastano legalmente i tribunali. Democraticamente sovrano, esso incarna la volontà generale, che non erra. Salvatore Settis critica l’ambiguità di questa formula passe-partout: è un’«etichetta legittimante, che designa portatori di interessi il cui peso è proporzionale alla potenza economica, e non alla cura del bene comune; tipicamente, imprenditori e banchieri che per difendere interessi propri e altrui si degnano di scendere in politica » , ritenendo inabili politici e partiti. Non solo: la società civile «viene spesso intesa non solo come diversa dallo Stato, ma come sua avversaria; quasi che lo Stato (identificato con i governi pro tempore) debba essere per sua natura il nemico del bene comune». (Azione popolare, Einaudi 2012, pp. 207, 212). Così deturpata, la formula ha fatto proseliti: grazie all’uso oligarchico della società civile (o dei tecnici), la politica è vieppiù screditata, la cultura dell’amoralità o illegalità vieppiù accreditata. Il caso Cancellieri è emblematico: la mala educazione diventa attributo di un’élite invogliata per istinto a maneggiare la politica come forza, contro le regole. A creare artificiosi stati di eccezione permanente, coincidenze perfette fra necessità, assenza di alternative, stabilità.
Simile destino tocca alla laicità, non più tenuta a bada ma aborrita nel ventennio. Il pontificato di Francesco non aiuta, perché la Chiesa gode di un pregiudizio favorevole mai tanto diffuso, perfino su temi estranei alla promessa «conversione del papato». Difficilmente si faranno battaglie laiche, in un’Italia politica che mena vanto della dipendenza dal Vaticano. La nuova destra di Alfano è dominata da Comunione e Liberazione. Dai tempi di Prodi, i democratici evitano di smarcarsi sulla laicità. Tutti i leader del momento (Letta, Alfano, Renzi) vengono dalla Dc o dal Partito popolare. Diretto com’è da Napolitano, il Pd non ha modo di liberarsi del ventennio (a che pro le primarie quando è stato il Colle a dettare la linea sul caso Cancellieri?). Permane la vergogna d’esser stati anticapitalisti, antiamericani, anticlericali (l’ultima accusa è falsa da sessantasei anni: fu Togliatti ad accettare l’innesto nella Costituzione dei Patti Lateranensi di Mussolini). Infine l’Europa. Nel discorso ai giovani di Forza Italia, Berlusconi ha cominciato la sua campagna antieuropea, deciso a svuotare Cinque Stelle. La ricostruzione della sua caduta nel 2011 è un concentrato di scaltrezza: sotto accusa l’Unione, la Germania, la Francia. Ancora una volta, con maestria demagogica, ha puntato il dito sul principale difetto italiano: la Serva Italia smascherata da Dante.
No, Berlusconi non l’abbiamo cancellato. Perché la società è guasta: «Siamo tutti immersi nella corruzione». Da un ventennio amorale, immorale, illegale, usciremo solo se guardando nello specchio vedremo noi stessi dietro il mostro. Altrimenti dovremo dire, parafrasando Remarque: niente di nuovo sul fronte italiano. La guerra civile ed emergenziale narrata da Berlusconi ha bloccato la nostra crescita civile oltre che economica, e perpetuato la «putrefazione morale» svelata da Piero Calamandrei. Un’intera generazione è stata immolata a finte stabilità. La decadenza di Berlusconi, se verrà, è un primo atto. Sarà vana, se non decadrà anche l’atroce giudizio di Calamandrei.
Riferimenti
Su Matteo Renzi, probabile futuro leader di un partito che rappresenterà in un diverso format l'Italia unipolare rappresentata oggi dal moscuglio dei due poli delle Larghe intese" abbiamo pubblicarto molti articoli e una saporita immagine denominata Renzusconi. Su Renzi sindaco di Firenze si legga l'opinione di Paolo Baldeschi, Chi è Matteo Renzi e perchè ci perseguita.
La sinistra perde per due ragioni: perchè non c'è e perchè la destra è furba. Ne basterebbe una, ma il diavolo pensa: "melium est abundare quam deficere".
Il manifesto, 24 novembre 2013
Ciò spiega perché assistiamo, per la prima volta nella storia, ad una scissione soft. Con l'invito del sanguigno Berlusconi a non attaccare più di tanto la nuova formazione politica nata in apparente contrasto con i suoi propositi; con le reiterate espressioni di solidarietà e rispetto del capo appena abbandonato da parte del sempre mansueto Alfano.
Ma ciò spiega anche la riorganizzazione della galassia di centro destra. Anche forze in sé apparentemente insignificanti sono coccolate dal Capo. Fratelli d'Italia è in libera uscita, ma considerati pur sempre «fratelli», buoni per le prossime elezioni all'interno di una comune prospettiva di governo futuro. E poi la riorganizzazione della Destra. In questo caso se si riesce a contrastare un poco (ma neppure troppo) la fibrillazione tra le mille sigle nostalgiche, anch'esse possono essere utili per raggiungere il comune traguardo di una vittoria alle prossime elezioni. La Lega è lo storico alleato che ci si guarda bene dal delegittimare, ed anzi si corteggia, nella convinzione che ci si possa sostenere a vicenda.
Non è una strategia sbagliata neppure dal punto di vista del consenso. È infatti ormai evidente che la forza attrattiva di Silvio Berlusconi stia subendo una flessione. Le sue vicende processuali, l'interdizione, la decadenza, l'età, il logoramento progressivo avranno un peso, sicchè Forza Italia sconterà una riduzione di voti rispetto al Popolo delle Libertà. Ed è proprio in una situazione del genere che è necessario ampliare l'offerta politica della coalizione. Il Nuovo Centro Destra sarà assai utile per conservare il consenso degli elettori che non hanno più interesse a votare il partito di Berlusconi, ma che vogliono rimanere entro il proprio sistema di valori. Angelino Alfano, in fondo, rimane un «buon» surrogato del Cavaliere. Non siamo al dividi e impera, bensì al dividi e moltiplica il consenso.
E il centrosinistra? Disdegna ogni politica delle alleanze. Si divide senza separarsi. Si crogiola da mesi su chi debba essere il segretario di un partito sempre meno unito, rimuovendo la questione della coalizione che dovrebbe seguire alle larghe intese. Sembra anzi quest'ultimo l'unico orizzonte entro cui si sviluppa la dialettica e la polemica politica, tutta incentrata sul governo attuale e le sue prospettive di piccolo cabotaggio. Non ci si preoccupa degli altri soggetti politici che dovrebbero andare a comporre un'ipotetica nuova coalizione. Nessuno pensa a costruire una prospettiva programmatica di alleanze tra soggetti diversi: né il Pd né alla sua sinistra. Si pensa si possa vincere da soli, si blatera di vocazioni maggioritarie. Ognuno appare geloso delle proprie microidentità ed è attento a collocarsi entro la propria parte politica lacerata dal correntismo e dal localismo più esasperato. Ma non si vince mettendo in campo un sistema di caciccato locale e nazionale. Si vince in base ad un programma politico che sia in grado di coalizzare il più ampio spettro di forze e soggetti. In questa situazione la sinistra rischia ancora una volta di perdersi.
«Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione». www.affaritaliani.it, 2013 (m.p.g.)
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampante terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.
Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo.Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione. Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce.
Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa. L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo.
Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabiled’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani. La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare.
L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia. L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi – collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale. L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi.
L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia. In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato. Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna. Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare. I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.”
la Repubblica, 19 novembre 2013
1) In molti paesi è da tempo in corso una discussione sul grande e ineludibile tema dei beni comuni, che in Italia viene troppo spesso falsato da una diffusa e spesso compiaciuta ignoranza, e talora distorto da qualche intemperanza ideologica. Nell'ultimo periodo non sono mancate ironie sui "benecomunisti", e qualche aggressione pochissimo informata su alcune esperienze in corso. Si ignora che questo tema ha dietro di sé una lunga serie di studi e che, nel 2009, il Premio Nobel per l'economia venne assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi contributi alla teoria dei beni comuni (i più importanti sono disponibili in italiano). In Italia è stato pubblicato un fiume di libri. Segnalo soltanto la ricca raccolta di saggi nata da un seminario della Fondazione Basso (Tempo di beni comuni, Studi multisciplinari... Ediesse, Roma, 2013); il nitido itinerario di Guido Viale (Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano, 2013); e il lavoro di uno storico, Andrea Di Porto, che tra l'altro ricorda il lontano punto di partenza della sentenza della Corte di Cassazione del 1887, che diede ragione al Comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo (Res in usu publico e "beni comuni", Giappichelli, Torino, 2013).
Un bagno culturale eccessivo? Ma i parlamentari non hanno bisogno di andare così lontano. Basta che aprano la porta accanto. Troveranno i testi mandati a tutti loro all'inizio della legislatura, già strutturati in forma di disegno di legge, sulla disciplina dell'acqua e sulla riforma del sistema dei beni pubblici, che riproduce i risultati di una Commissione ministeriale e che qualcuno ha già trasformato in proposta di legge. Perché, allora, ripetere le trite e pericolose banalità della vendita dei beni pubblici per far cassa, fino alla grottesca vicenda delle spiagge?
In realtà, la questione dei beni comuni non fa storia a sé. Impone un ripensamento dell'intero ordinamento dei beni pubblici (ai quali ha dedicato un importante volume l'Accademia dei Lincei nel 2010). Non tutti possono essere attratti nell'area del "comune", ma non per questo la gran massa dei beni pubblici diventa disponibile per qualsiasi disinvolta operazione. Dovrebbe essere chiaro che questi beni hanno funzioni diverse, e si presentano come beni "ad appartenenza pubblica necessaria" (opere per la difesa, le reti viarie e ferroviarie, i porti), "sociali" (che devono soddisfare bisogni essenziali delle persone), "fruttiferi" (da gestire con adeguate modalità economiche). Per quanto riguarda le spiagge, per esempio, le operazioni da fare dovrebbero essere due. Eliminare la loro sostanziale privatizzazione, che per lunghissimi tratti esclude l'accesso ai cittadini, in forme sconosciute ad altri paesi. E rendere economiche le concessioni ai privati, che oggi danno allo Stato un reddito inadeguato (discorso che può essere esteso ad altri casi, come quello delle frequenze).
Tornando ai beni comuni, la loro definizione rinvia al fatto che essi sono indispensabili per la soddisfazione di bisogni fondamentali delle persone. Si istituisce così un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni. E infatti molti documenti nazionali e internazionali parlano, in primo luogo, di accesso all'acqua, al cibo, alla conoscenza in rete, ai farmaci essenziali, alla tutela del territorio come di diritti fondamentali, la cui realizzazione esige appunto regole particolari per quei beni. Tra queste emergono quelle sulla partecipazione dei cittadini alla gestione, prevista dall'articolo 43 della Costituzione, che parla di "servizi pubblici essenziali" da affidare a "comunità di lavoratori o di utenti". Qui nascono tre problemi. Rispetto dei risultati di referendum come quello sull'acqua, a proposito del quale si ha una timida e parziale apertura del ministro per l'Ambiente.
Non per tutti i beni comuni può essere individuata una comunità che li gestisce: come si può inventare questa comunità tra i tre miliardi di persone che accedono alla conoscenza in Rete? Questo bene, allora, deve essere qualificato in via generale come comune. E le istituzioni devono confrontarsi con le esperienze che formulano progetti, realizzano innovazioni dell'ordine esistente, distinguendo certo, ma senza trincerarsi dietro rifiuti pregiudiziali.
2) Punto sul vivo, il Presidente Letta ha reagito ai rilievi dell'Unione europea sulla legge di stabilità, cominciando a riecheggiare critiche sempre più diffuse sugli effetti negativi delle politiche di austerità. La reazione d'un momento, tutto sommato strumentale, o l'avvio di un'altra strategia? Si avvicinano le elezioni europee, e non ci si può limitare a esprimere preoccupazione per i populismi antieuropeisti, che rischia di trasformarsi in un inutile lamento. La strategia europea deve cominciare a prendere coraggiosamente atto che la politica dell'Unione è stata chiusa nella dimensione economico-finanziaria, amputando del tutto quella dei diritti, affidata alla sua Carta dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Questo "valore aggiunto" è stato in questi anni negato ai cittadini europei e ha determinato la progressiva delegittimazione delle istituzioni. Da qui bisogna ripartire, se il Governo vuole davvero dare un qualche senso al suo parlare di Europa. Altrimenti si allontanerà ancora di più da una società nella quale sta maturando un serio movimento che vuole parlare di politica "costituzionale" per l'Europa, così come sta facendo per l'Italia. La voce dei cittadini senza demagogia antieuropea deve esser ascoltata perché, si condivida in tutto o in parte la tesi di Luciano Gallino, è indubbio che sia avvenuto qualcosa che assomiglia a un colpo di Stato (Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013). E i cittadini stanno studiando i modi per rimettere in discussione quel mutamento dell'articolo 81 che si è voluto sottrarre ad un loro possibile voto. E per sfuggire alla subalternità all'economia, bisogna riconoscere che la discrezionalità politica deve obbedire ai criteri che, per la ripartizione delle risorse scarse, sono indicati proprio dalla trama dei diritti fondamentali.
3) La verità è che si è messo in discussione quello che definisco "il diritto all'esistenza". Divenuti residuali i diritti sociali, rafforzate le diseguaglianze, si è minata la stessa condizione dell'efficienza economica (continua a ricordarcelo Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013). Per questo non può essere allontanata, con una mossa infastidita, la questione del reddito minimo (esiste una proposta d'iniziativa popolare anteriore a quella del Movimento 5Stelle). È tema difficile, per il rapporto con le politiche del lavoro e per il reperimento delle risorse necessarie, ma ineludibile. E mi pare utile che, dopo una intemperanza iniziale, Stefano Fassina abbia parlato di un confronto politico su questo tema.
4) Ho citato molti libri. Ma, se dobbiamo uscire dalla profonda regressione culturale che ha reso misera la politica, possiamo farlo senza buone letture?
«Il governo Letta non è in questo momento il nemico principale; il nemico principale è l'ulteriore degenerazione della sinistra, quella che ci resta e quella che rischia di avanzare sotto i nostri occhi».
Il manifesto, 19 novembre 2013
Il 2013 è un anno machiavelliano: vi ricorre infatti il cinquecentenario (più o meno) della stesura del Principe. Nel chiuso un po' soffocante delle aule universitarie se ne è celebrata la ricorrenza (nemmeno tanto, a pensarci bene). Il paese, invece, - e cioè l'Italia, cui il Segretario fiorentino cercò invano di parlare, e che avrebbe ancora tanto da imparare da lui - è restato sostanzialmente indifferente: come, del resto, sempre più nei confronti di qualsiasi altra memoria del proprio non ignobile passato, che potrebbe aiutarlo a risalire dal proprio miserabile presente.
Machiavelli osserva nel Principe (cap. XVIII) che il buon principe deve avere insieme le qualità della «volpe» e quelle del «leone»: «Perché il leone non si difende dai lacci (inganni), la volpe non si difende dai lupi». E conclude: «Bisogna adunque essere volpe a conoscere i lacci e leone a sbigottire (spaventare) i lupi». Cioè: il buon principe deve esser capace, a seconda delle circostanze, d'esser leone e d'esser volpe, forte e astuto a seconda dei casi, oppure, se è necessario, astuto e forte insieme, se la situazione lo richiede e le sue qualità lo consentono. E' un'impresa difficilissima, che non è riuscita a molti nella storia.
Il nostro tempo - tempo italiano, ma forse europeo, forse mondiale - è un tempo di volpi. Il nostro Presidente, Giorgio Napolitano, è, machiavellianamente, volpe di classe, (come del resto lo è anche Papa Bergoglio, - volpe buona, s'intende!, con il quale infatti così bene si capiscono). E una volpe, minore ma niente male, si è rivelato anche il nostro presidente del consiglio, Enrico Letta, bravo a muoversi su di un sentiero accidentato in mezzo alla foresta. Le volpi - non c'è niente di negativo in questa definizione, a tener conto dei suoi aspetti generali - tengono la scena saldamente, la storia attuale ne è improntata.
E il leone, o i leoni? Il leone si è ritirato nelle sue tane misteriose, da dove sarà difficile persuaderlo a tornar fuori, a meno che il richiamo non sia particolarmente convincente e imperioso. Ma tornerò su questo punto in conclusione. Meditiamo un istante su quello che appaiono essere oggi il presente e il destino futuro della sinistra italiana (sinistra? insomma, questa cosa informe e ingovernabile che sta un poco più in là del neocentrodestra recentemente costituito). Essa è il frutto di una serie prodigiosamente lunga, ormai quasi trentennale, di «astuzie» politiche (e non di rado anche personali: faccio questo fondamentalmente perché serve a me), che si sono succedute nel tempo a opera di un gruppo dirigente che si è creduto tanto scaltro da cadere sovente nella stupidità.
Se Matteo Renzi, a quanto pare, è il nostro futuro, questo vuol dire che la Bolognina, la prima grande ganzata della nostra storia di sinistra è arrivata finalmente al suo traguardo finale e, doppiata la boa della storia, è libera di andare su rotte e verso approdi per noi da qui in poi perfettamente sconosciuti. Renzi, infatti, è anche lui, ahimè, una volpe, ma di quella specie inferiore che riesce a penetrare nei pollai solo perché i loro (presunti) custodi hanno perso la capacità di preservarli. Se poi fosse vero che il suo successo elettorale dipende soprattutto dalle regioni considerate tradizionalmente di sinistra, il quadro risulterebbe ancor più sconvolgente e drammatico: vorrebbe dire infatti che lì, dove meglio si poteva, invece di allevare leoni e buone volpi, si sono allevati in grande maggioranza polli da offrire alla prima, modesta, volpicina di passaggio.
In proposito non ho dubbi di sorta. Poiché visibilmente non siamo in grado come Federico il Grande di condurre una battaglia contemporaneamente su tutti i fronti, in questo momento il primo, forse esclusivo obiettivo è tentare d'impallinare Renzi prima che s'impadronisca del pollaio. Ma come si fa se il suo elettorato alle primarie è incalcolabile e dunque ingovernabile alla buona luce della ragione? Mi capita spesso di essere presidente di un condominio, quello in cui abito, ovviamente: se, al momento del voto, o dei voti, invitassi i passanti che circolano sotto casa a parteciparvi alla stessa stregua degli altri, gli altri utenti del palazzo dove abito mi prenderebbero per matto. E' invece esattamente quello che capita ora in seno al Pd: frutto anche questa volta dell'astuzia stupida dei maggiorenti, il Segretario può essere scelto, magari a maggioranza, non dai condomini, ma dai dirimpettai, interessati a smontarne, ad esempio, tutta la facciata (così, certo, sembrerà tutto più nuovo).
In ogni caso, sia che la volpicina di turno, in cui l'astuzia diventa furbizia di bassa lega, venga frenata, sia che riesca a conquistare il posto cui aspira, il problema resta. Il leone, l'ho già ricordato, non è necessariamente un soggetto diverso dalla volpe: per Machiavelli l'ideale è invece che stiano congiunti nella medesima persona, meglio, nel medesimo soggetto storico. Allora la volpe diventa quel che dev'essere, e cioè l'astuzia messa al servizio di una buona causa. E cioè: il leone è l'altra faccia della politica. E cioè: il leone è la forza che incarna l'astuzia e la rende efficacemente operante, sia contro i lupi sia contro gli inganni, che, dice Machiavelli, da ogni parte ci avvolgono e cimentano.
Da quando non abbiamo più i Principi (chissà se è stato un vantaggio), il binomio volpe-leone, il moderno Principe, si è incarnato il più delle volte in un'identità collettiva: l'organizzazione (anche questa non è una grande novità, o no?). I grandi uomini della sinistra europea otto-novecentesca lo avevano perfettamente capito. In parole povere: stiamo messi malissimo perché il problema di un'organizzazione politico-sociale orientata chiaramente a restituire potere (in tutti i sensi) a tutti quelli che, dal punto di vista sociale, economico e politico, ne hanno sempre più incredibilmente sempre meno, da alcuni decenni non è stato più posto con chiarezza, anzi non è stato posto per niente.
Allora: che vinca Renzi o auspicabilmente che perda, il problema resta questo. E cioè: possibile che il XXI secolo, ossia la gloriosa postmodernità, si accontenti d'essere soltanto il tempo delle volpi, e non più dei leoni? Ammettiamo pure che «partito» sia metafora vecchia di una cosa nuova che dobbiamo reinventare; ma la sostanza è questa, e alla sostanza «partito» bisogna tornare a pensare.
Come in tutti i ragionamenti in cui ambiziosamente contingenza e storia si mescolano insieme, anche in questo dev'esserci un apprezzamento anche molto rischioso, ma ineliminabile, del presente. Lo spazio temporal-politico che ci lascia la sopravvivenza del governo Letta, ora forse meno precaria di quanto non sembrasse fino a qualche giorno fa, va occupato, per quanto ci riguarda, da questo compito strategico ineliminabile. Dunque: il governo Letta non è in questo momento il nemico principale; il nemico principale è l'ulteriore degenerazione della sinistra, quella che ci resta e quella che rischia di avanzare sotto i nostri occhi. Affermazione veramente scandalosa, me ne rendo conto: per ora, questo governo più dura e meglio è.
Il mito degli italiani brava gente, come intuibile dopo l'emergere del razzismo con gli immigrati, non regge a un esame storico sul consenso alle leggi razziali fasciste. Recensione a un libro di M. Avagliano e M. Palmieri.
Corriere della Sera, 19 novembre 2013
Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.
I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.
Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).
Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.
«La "americanizzazione" del Pd è sbagliata Non ci serve un partito elettorale senza identità. La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra "noi" e "loro"».
L'Unità 15 novembre 2013
Più capace di portare a compimento la rivoluzione democratica italiana avviata tanti anni fa dall`antifascismo e definita negli articoli della Carta costituzionale e poi messa in causa dai fatti e dalle persone che sappiamo. Mi sembra questo, caro Fioroni, il patto fondativo del partito che non a caso chiamammo democratico. Un partito, non un comitato elettorale nel quale gli epigoni del socialismo e quelli del riformismo cattolico si univano non per diventare più moderati ma per realizzare i propri ideali andando oltre i vecchi confini delle vecchie ideologie. Questo voleva essere il Pd, un partito nuovo che rappresentava anche la sinistra democratica e occupava il suo spazio.
Quale tempo? Certo, lo vediamo, questo è anche il tempo del populismo e della democrazia ridotta a sondaggio. Ma è pure il tempo di quelle sfide nuove ed enormi che stanno cambiando il destino degli europei. Quale idea di sé e del suo ruolo ha una sinistra moderna? Questo mi sembra il problema che le cose stanno riproponendo sia in Italia che in Europa. È chiarissimo: la destra non riesce più a difendere il progetto europeo, e sta mettendo in pericolo perfino l`euro. Occorre una svolta. Non solo una immagine. Del resto l`attacco così violento che è in atto (li guardate i talk show televisivi ?) volto a delegittimare il Pd e a giustificare Grillo come si spiega se non col fatto che l`Italia è giunta a un punto che rende inevitabile prima o poi una svolta ?
L`importante è che la sinistra acquisti una più forte coscienza di sé nel mondo di oggi. Sarebbe positivo per tutti i democratici che si crei un insieme di forze politiche e culturali decise ad uscire dalla confusione e dall`incertezza di questi anni. Una forza convinta della necessità che all`interno delle regole di un partito plurale come il Pd una nuova sinistra moderna abbia una sua voce forte. È interesse di tutti riempire il vuoto lasciato dal fallimento disastroso del pensiero conservatore e neo-liberista. In caso contrario penserà a riempire questo vuoto una torbida ondata di protesta e di populismo. Vogliamo tornare a vincere ? Certo, ma per vincere bisogna fare i conti con la realtà. E allora siamo semplici. Allora non bastano le chiacchiere, bisogna partire dalla catastrofe del capitalismo finanziario e dalle sofferenze inaudite che ciò sta imponendo agli uomini e alle donne in carne ed ossa.
Voi pensate che sia vetero comunismo partire dalla tragedia che sta vivendo la nuova generazione, messa ai margini, esclusa dal mondo del lavoro ? Di che parliamo ? Certo, anche di Renzi, come di Cuperlo e con molto rispetto. Ma sapendo che la sinistra è in crisi non perché è vecchia rispetto a Twitter ma perché non osa partire da qui, dal popolo, dalle sofferenze umane, dalle ingiustizie sociali. La sinistra conta poco non solo perché non è alla moda ma perché non si riorganizza per mettere in campo una nuova soggettività, una chiara distanza
tra «noi» e «loro». Parlo della potenza soverchiante di una oligarchia finanziaria che si arricchisce stampando anche moneta fasulla. Il mondo inondato di debiti e una gigantesca rendita finanziaria che si mangia la ricchezza reale e costringe la povera gente a stringere la cinta per finanziare i lussi inauditi di una oligarchia. Non può più durare.
Rileggo queste mie parole e mi spavento. Sono diventato un estremista ? Eppure io non voglio tutto o niente. Capisco tutte le tattiche e i compromessi necessari. Sento però acutamente il bisogno di risvegliare la mia e le nostre coscienze. Penso che senza una più alta coscienza delle cose e delle sfide nuove non si va da nessuna parte. Il tema di fondo è ormai chiaro. Se non si afferma un partito europeo che affronti la questione di come cambiare la politica che sta portando al declino il vecchio Continente, l`Italia non avrà futuro. È da ciechi non vedere che questo dovrebbe essere il centro del congresso del Pd. L`«americanizzazione» del Pd è sbagliata Non ci serve un partito elettorale senza identità. La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra «noi» e «loro».