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«idomini idadominijanni.com, 30 marzo 2014

Qualcuno dovrebbe spiegare a Matteo Renzi che Barack Obama, l'uomo di cui indegnamente aspira a presentarsi come un clone di provincia, non ha mai pensato di abolire il ferreo sistema di contrappesi parlamentari che nella democrazia americana limita il potere del presidente eletto dal popolo. Anche lì ci sono due camere (elette con sistemi diversi, ma con la stessa funzione legislativa) e anche lì Obama si trova a dover governare con numeri parlamentari che intralciano qualunque sua velleità decisionista: se Renzi, oltre a fare, come ci ha informati, la sua corsetta mattutina con i discorsi di Obama nell'ipod si fosse anche applicato a seguire il tortuoso iter della riforma sanitaria americana lo saprebbe. E saprebbe anche che a Obama non è mai venuto in mente, sol per questo, di abolire il Senato o la Camera d'imperio con la scusa che rendono farraginoso fare le riforme o che costano troppo (eppure anche lì negli Usa c'è una vasta opinione pubblica provata dalla crisi che se la prende con la casta di Washington). Ma Renzi non lo sa, o finge di non saperlo. E va avanti come Brancaleone nella sua crociata contro Palazzo Madama, che non è però una crociata contro il palazzo, bensì contro la rappresentanza, dal momento che secondo lui il suo progetto il palazzo resterebbe, ma abitato da senatori non eletti bensì delegati dai Comuni e dalle Regioni, e con funzioni residuali. L'intervista del presidente del Senato su la Repubblica di oggi dovrebbe servirte a farlo riflettere, ma non servirà perché Brancaleone è Brancaleone e non si fa fermare da nessuno.

Renzi invece sa, perché l'ha detto e ridetto e ripetuto per giustificare il suo patto con Berlusconi sulla legge elettorale, che le riforme istituzionali e costituzionali non si possono fare a colpi di maggioranza. E se questo l'ha fatto valere sulla legge elettorale, che non è una riforma costituzionale, a maggior ragione dovrebbe farlo valere per la riforma del bicameralismo e della forma di governo. Invece qui va avanti come un carro armato, forte ora dell'alleanza con Berlusconi (al senato), ora (alla camera) della maggioranza schiacciante di deputati che al suo partito viene dall'aver usufruito del premio di maggioranza sulla base di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Il carrarmato non prevede solo la tabula rasa del bicameralismo, con la sola Camera titolare del voto di fiducia al governo e del processo legislativo. Prevede altresì, anche se questo il buon Matteo non lo dice ma si limita a farlo trapelare, il rafforzamento dei poteri del premier; e si può facilmente immaginare che di un premier così rafforzato si richieda, o prima o poi, l'elezione diretta. Per la quale, grazie all'Italicum, basterebbe il 37% dei votanti, ovvero meno del 30% del corpo elettorale. Dopodiché il premier si troverebbe a regnare con pieni poteri su una sola Camera, nella quale disporrebbe, sempre grazie all'Italicum, di una schiacciante maggioranza costituita da parlamentari scelti da lui stesso, nella doppia qualità di candidato premier e segretario del partito cui spetta la formazione delle liste elettorali bloccate.

Non bisogna essere esperti di ingegneria costituzionale per valutare il tasso di democraticità di questo progetto. Si tratta palesemente, come dice lo scarno appello promosso da Libertà e giustizia, di una svolta autoritaria, identica a quella che non abbiamo fatto mettere a segno da Silvio Berlusconi negli anni passati (http://www.libertaegiustizia.it/2014/03/27/verso-la-svolta-autoritaria/). Mi allineo dunque a quell'appello sottoscrivendolo parola per parola, nel giudizio non solo sulla riforma ("un sistema autoritario che dà al presidente del consiglio poteri padronali") ma su ciò che rischia di renderla possibile ("la stampa, i partiti e i cittadini [che] stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare") e sulla gerarchia delle responsabilità in gioco ("la responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto" perché Berlusconi non c'è più ed è "il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria"). A parziale correzione aggiungo solo una sfumatura, questa. Non è che il Pd metta la sordina sulla svolta autoritaria perché a gestirla adesso c'è il suo leader e non più il Cavaliere. Il fatto vero, che emerge ogni giorno con maggiore evidenza, è che per la maggioranza del Pd questa svolta nell'assetto costituzionale, al pari della svolta nei diritti del lavoro che si annuncia con il jobs act, va benissimo oggi e andava benissimo anche ieri, solo che purtroppo a impedire di attuarla c'era l'impedimento della persona di Berlusconi. Tolta di mezzo la persona, si può finalmente farsi titolari del suo progetto: senza sordina ma ribattezzandolo "il bene degli Italiani", come Renzi strombazza tre volte al giorno. Chissà perché ci siamo tanto tormentati su come uscire dal ventennio berlusconiano. In fondo era semplice, semplicissimo: bastavano una sentenza che mettesse fuori gioco il Cavaliere e un erede cresciuto nell'altra metà del campo che ne continuasse l'opera.

Anche nel secolo scorso lo facevano, ma almeno con maggiore dignità.

Il manifesto, 29 marzo 2014

Con un sin­cro­ni­smo per­fetto (con la visita di Obama) la mini­stra della difesa Pinotti e il capo­gruppo del Pd Spe­ranza sono ieri scesi in campo per difen­dere gli F35. La prima, di fronte ai ver­tici dell’aeronautica, ha detto che in fondo non sono aerei cat­tivi, cioè che sono buoni; e il secondo ha dichia­rato che non sono inu­tili, cioè che sono utili. Per le spese mili­tari entrambi hanno par­lato di «com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che» e della neces­sità di ridurre gli spre­chi. Tra gli spre­chi evi­den­te­mente non ci sono i 14 miliardi di euro da spen­dere nei pros­simi anni per 90 cac­cia­bom­bar­dieri capaci di fare la guerra e di tra­spor­tare ordi­gni nucleari e che sono dal punto di vista eco­no­mico e tec­no­lo­gico dei veri e pro­pri bidoni. Pesano troppo, devono atter­rare al primo tem­po­rale, hanno un soft­ware che fa cilecca e il casco dei piloti è da but­tare. I loro costi aumen­tano ver­ti­gi­no­sa­mente anno dopo anno. La corte dei conti ame­ri­cana (il Govern­ment Accoun­ta­bi­lity Office) ha detto che è un pro­gramma tutto da rivedere.

Invece, solo il 25 marzo scorso — con­trav­ve­nendo alle mozioni par­la­men­tari appro­vate nel giu­gno del 2013 che chie­de­vano la sospen­sione dei nuovi acqui­sti — il mini­stero della Difesa di F35 ne ha com­prati altri due. A fine set­tem­bre ne aveva presi tre. C’era da aspet­tare la fine dei lavori di inda­gine della Com­mis­sione difesa sui sistemi d’arma prima di fare altri con­tratti, ma prima Mauro e poi Pinotti non ne hanno tenuto conto, con la scusa che le pro­ce­dure erano state già avviate. La Com­mis­sione Difesa ter­mi­nerà i suoi lavori mer­co­ledì pros­simo: c’è il docu­mento dei depu­tati Pd che almeno chiede (e con­ferma) la sospen­sione di nuovi con­tratti per gli F35, ma evi­den­te­mente il capo­gruppo alla Camera di quel par­tito ha un’altra idea, come la mini­stra della Difesa.

Vedremo cosa suc­ce­derà in un Pd in grande con­fu­sione e diviso: tra chi (e sono tanti) gli F35 non li vuole o li vuole signi­fi­ca­ti­va­mente ridurre e chi — il governo — invece pensa che siano buoni e utili. Solo poco più di un anno fa (in cam­pa­gna elet­to­rale) i lea­der del Pd dice­vano che il lavoro viene prima degli F35 (Ber­sani) e che si tratta di un pro­gramma insen­sato (Renzi): ora quel par­tito non si sa che idea abbia, anche se — in con­tra­sto con una parte signi­fi­ca­tiva del suo gruppo par­la­men­tare e con il senso comune del suo elet­to­rato — sem­bra che la bus­sola della lea­der­ship stia tor­nando nuo­va­mente ad orien­tarsi verso il sostan­ziale man­te­ni­mento del pro­gramma. Sarebbe una scelta disa­strosa che avrebbe effetti lace­ranti sulla base sociale di quel partito.

Para­dos­sal­mente ha avuto più corag­gio l’ex mini­stro della Difesa — mili­tare e ammi­ra­glio della marina — Di Paola nel ridurre con il governo Monti gli F35 da 131 a 90 che l’ex mar­cia­trice di Porto Ale­gre e l’ex mani­fe­stante con­tro la mostra navale bel­lica di Genova — ovvero l’attuale mini­stra della Difesa — che non perde occa­sione per avva­lo­rare tutte le peg­giori scelte dei sistemi d’arma delle nostre Forze Armate.

Magari il governo e la mag­gio­ranza par­la­men­tare ten­te­ranno di rin­viare la deci­sione finale per l’ennesima volta (uti­liz­zando la ste­sura di un libro bianco da fare entro la fine dell’anno), men­tre nel frat­tempo si con­ti­nuerà a pro­ce­dere a sin­ghiozzo con nuovi con­tratti che per­met­tono di andare avanti nella pro­du­zione fino al 2016. Oppure con­ce­de­ranno un con­ten­tino: qual­che aereo in meno. Si tratta di una stra­te­gia dila­to­ria e comun­que miope. Una scelta dan­nosa per l’Italia e rite­nuta sba­gliata dalla stra­grande mag­gio­ranza degli elet­tori di sini­stra e sicu­ra­mente anche dalla mag­gior parte del paese. Tra qual­che set­ti­mana ci sarà una nuova mozione dei depu­tati paci­fi­sti per lo stop agli F35: quella potrebbe essere l’occasione per cam­biare strada. Pos­siamo ancora fer­marci e desti­nare que­sti soldi al lavoro e a cause più buone e utili.

«Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche».

La Repubblica, 29 marzo 2014

SONO passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica «di tipo leninista»: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, dovremmo forse esultare della felice resipiscenza? In teoria, sì, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada - come ci avverte fin dal titolo l’ultimo saggio di Massimo Giannini - in un panorama di macerie : L’anno zero del capitalismo italiano.

Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, il vicedirettore di questo giornale fornisce un’analisi di sistema che è insieme economica e politica. Descrive con sapienza l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia. Come nella fuga dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. Come il plenipotenziario Paolo Scaroni che all’Eni riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile. E avanti di questo passo. Fa impressione la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione.

Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto. Dove vengono meno anche i polmoni del credito se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione. Mentre Intesa Sanpaolo, concepita come “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita.

L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti. Perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili non possono essere liquidati come corpi estranei. Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?

Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. È l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani; con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma nella sua appassionante ricostruzione già nel 2011 salta un architrave decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostengono a vicenda: parliamo della presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro.

Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio, lo spiega bene Giannini, è a sua volta una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizza i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagirone e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano. Nel primo capitolo del suo saggio, Massimo Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante. Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche: l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri.
Si chiarisce giorno dopo giorno l'ideologia del branco renzusconiano. Vogliono formare pezzi della macchina del capitalismo, non donne e uomini capaci di pensare, criticare, cambiare, crescere e contribuire a migliorare il mondo.

Il manifesto, 28 marzo 2014

Il modello per la scuola scelto dal mini­stro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini è quello tede­sco. Que­sto signi­fica pri­vi­le­giare l’istruzione tec­nica, por­tare gli stu­denti a fare tiro­cini o stage in azienda sin dal quarto anno di scuola come già pre­vi­sto, usando magari le norme sui con­tratti a ter­mine del Jobs Act che can­cel­lano l’acausalità dei con­tratti e dere­go­la­men­tano l’apprendistato. Per que­sto, il Miur aumen­terà gli isti­tuti tec­nici supe­riori. Ai 63 attuali se ne aggiun­ge­ranno altri dedi­cati al turi­smo e ai beni cul­tu­rali con classi in cui si par­lerà solo in inglese o francese.

Secondo i dati di Alma­Di­ploma, il 37,2% dei diplo­mati tec­nici del 2012 lavo­rava già ad un anno dal titolo, men­tre il tasso di disoc­cu­pa­zione è il più alto tra i diplo­mati: il 34%. L’insistenza su que­sto indi­rizzo di studi si spiega nella cor­nice più gene­rale della pro­fes­sio­na­liz­za­zione dell’istruzione, un modello inse­guito anche dai pre­de­ces­sori di Gian­nini: Gel­mini, Pro­fumo e Car­rozza. I dati non sem­brano con­fer­mare que­sto orien­ta­mento nelle poli­ti­che dell’istruzione, come del resto in quelle del lavoro: secondo il bilan­cio delle iscri­zioni alle scuole supe­riori per l’anno 2014–2015 gli stu­denti che scel­gono i tec­nici sono il 30,8%, prima viene il liceo scien­ti­fico con 121.686 richie­ste, poi l’alberghiero con 48.867. Gli iscritti ai licei sono sem­pre i più nume­rosi di tutti: il 50,1%. Fino a quando durerà il governo Renzi, il Miur andrà in contro-tendenza impor­tando un modello che, come ha più volte denun­ciato il con­sor­zio inte­ru­ni­ver­si­ta­rio Alma­lau­rea, mette impro­pria­mente in com­pe­ti­zione la for­ma­zione tec­nica sul lavoro della conoscenza.

Espo­nendo alcune delle linee pro­gram­ma­ti­che sulla scuola in com­mis­sione Istru­zione al Senato, il mini­stro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini ha annun­ciato ieri di rinun­ciare a «fir­mare un’altra riforma dell’istruzione»: «Resi­sterò alla ten­ta­zione di un’ipertrofia nor­ma­tiva». Era ine­vi­ta­bile, con­si­de­rato che sono ancora in corso di attua­zione i decreti della riforma Gel­mini del 2008. Nel man­te­ni­mento di unosta­tus quo che ha depresso e con­fuso l’intero mondo dell’istruzione, il mini­stro intende pro­ce­dere con la pro­gram­ma­zione delle risorse scarse esi­stenti e la sem­pli­fi­ca­zione nor­ma­tiva. A par­tire da un testo unico in mate­ria di nor­ma­tiva scolastica.

Un’altra linea fon­dante del suo dica­stero sarà la bat­ta­glia per il merito e con­tro le retri­bu­zioni degli inse­gnanti basati sugli scatti di anzia­nità. Que­sta bat­ta­glia por­terà ad uno scon­tro fron­tale con i sin­da­cati. Il con­tratto di lavoro nel set­tore è bloc­cato dal 2009. La Corte dei conti ha cal­co­lato i danni del blocco: è costato 3.348 euro in meno per i docenti, 6.380 ai diri­genti sco­la­stici, 2.416 al per­so­nale Ata. Soldi che non ver­ranno mai resti­tuiti. Gian­nini ha men­zio­nato l’esigenza di sbloc­care la con­trat­ta­zione, intro­du­cendo però la pre­mia­lità attra­verso valu­ta­zione e meri­to­cra­zia. In attesa che qual­cosa si sbloc­chi, gli orga­nici docenti restano fermi al 2011, anno in cui si è chiuso il piano trien­nale di tagli oltre 81 mila posti, men­tre gli alunni sono aumen­tati di 87 mila, creando l’emergenza delle «classi pol­laio». Con­tro que­sta situa­zione, la Flc-Cgil ha annun­ciato mobilitazioni.

Si vuole inol­tre com­ple­tare l’anagrafe dell’edilizia sco­la­stica, un pro­cesso ini­ziato nel 1996 e mai con­cluso. Senza que­sto stru­mento sarà infatti dif­fi­cile spen­dere i 3,7 miliardi di euro pro­messi da Renzi. Gian­nini ha riba­dito l’esigenza di rifi­nan­ziare l’istruzione tagliata di 9,5 miliardi di euro dai tagli lineari di Tre­monti e Gel­mini (8,4 alla scuola, 1,1 a uni­ver­sità e ricerca). Su que­sto si gio­cherà una par­tita impor­tante nel governo. Scelta Civica intende strap­pare un fondo e sostiene di volere andare fino in fondo. Per il momento, il mini­stro pro­verà a rifi­nan­ziare il fondo per il miglio­ra­mento dell’offerta for­ma­tiva (Mof) ai livelli del 2011 (1,5 miliardi).

Dichia­ra­zioni di rito sulla neces­sità di «rias­sor­bire» 178 mila sup­plenti pre­cari «in un’ottica di lungo periodo». Non sono state fatte pre­vi­sioni, né cifre. Forse entro la fine della legi­sla­tura, nel 2018, quando Gian­nini intende varare una forma unica di abi­li­ta­zione all’insegnamento sco­la­stico, uni­fi­cando le dif­fe­renti figure esi­stenti: Tfa ordi­nari e spe­ciali, Pas, vec­chie Ssis, ido­nei al «con­cor­sone». Un eser­cito di 100 mila per­sone nel caos: non si sa se rien­tre­ranno in una gra­dua­to­ria, o cosa acca­drà quando ver­ranno ria­perte, o se ver­ranno assunti.

Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi. Non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro. A oggi ogni soluzione che concordiamo di fronte al succedersi di sfide e dissensi emana un’aria di temporaneità. Sembra essere, e il più delle volte dimostra infatti di essere, valida «sino a nuova comunicazione », con una clausola ad hoc che ne rende possibile la revoca, così come ad hoc sono le nostre divisioni e coalizioni, fragili e incerte. Su Le Monde del due febbraio scorso Nicolas Truong, riferendosi ai concetti espressi ripetutamente da Daniel Cohn Bendit e Alain Finkielkraut, ha delineato due opposti scenari per il futuro della nostra convivenza, di noi europei. Cohn-Bendit ha pubblicato con Guy Verhofstadt il manifesto Per l’Europa!, nel quale promuove una via rapida per eludere e superare il mito della sovranità territoriale dello Stato-nazione per costruire una Federazione europea basata sull’”identità europea”, la quale deve ancora essere costruita, pazientemente e uniformemente. Finkielkraut invece è convinto che il futuro dell’Europa risieda nella sua unità, ma ritiene che questa debba corrispondere a un’unità (convivenza? cooperazione? solidarietà?) di identità nazionali.

Finkielkraut ricorda l’insistenza con cui Milan Kundera affermava che l’Europa è rappresentata dalle sue conquiste, i suoi paesaggi, le sue città e i suoi monumenti; Cohn-Bendit invoca invece l’autorevolezza di Jürgen Habermas, Hannah Arendt e Ulrich Beck, uniti nella loro opposizione al nazionalismo. A rigor di logica, queste sono le due strade che si presentano ai nostri occhi nel luogo in cui ci siamo collettivamente raccolti alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Senza dubbio l’attuale, incoerente struttura istituzionale dell’Unione Europea — nella quale le regole senza politica promosse da Bruxelles contrastano con la politica senza regole per cui il Consiglio europeo è famoso, mentre il Parlamento è tutto chiacchiere e poco potere — alimenta simultaneamente entrambe queste tendenze. Ottant’anni fa Edmund Husserl ammoniva: «Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la sua stanchezza».

Nel corso degli ultimi cinquant’anni i processi di deregolamentazione originati, promossi e controllati dai governi statali che si sono uniti volontariamente (o sono stati indotti a farlo) alla cosiddetta “rivoluzione neo-liberale” hanno prodotto una separazione sempre più acuta e crescenti probabilità di separazione tra il potere (ovvero, la capacità di fare) e la politica (ovvero, l’abilità di decidere cosa deve essere fatto). I poteri un tempo racchiusi nella cornice dello Stato-nazione sono per lo più evaporati e sono finiti in una terra di nessuno, quella dello “spazio dei flussi” (secondo la definizione data da Manuel Castells), mentre la politica resta, come in passato, ancorata e confinata al territorio. Tale processo tende a essere sempre più intenso e autoindotto. I governi nazionali, ormai privi di potere e sempre più deboli, sono obbligati a cedere una ad una le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici dello Stato, per affidarle alle cure di forze di mercato già “deregolamentate”, sottraendole così all’ambito della responsabilità e del controllo da parte della politica. Ciò provoca il rapido dissolversi della fiducia popolare nei confronti dell’abilità dei governi di fronteggiare con efficacia le minacce alle condizioni di vita dei loro cittadini. Questi credono sempre meno che i governi siano capaci di tener fede alle loro promesse.

Per dirla in breve: la nostra crisi attuale è innanzitutto e soprattutto dovuta a una crisi dell’azione di governo — benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale.

Gli europei, così come la maggior parte degli altri abitanti del pianeta, stanno attualmente attraversando una crisi della “politica così come la conosciamo” e al tempo stesso sono costretti a trovare o inventare soluzioni locali a sfide globali. Gli europei, come la maggior parte degli abitanti del pianeta, ritengono che le modalità attualmente impiegate per “fare le cose” non funzionino a dovere, mentre all’orizzonte ancora non si vedono modalità alternative ed efficaci (una situazione che il grande filosofo italiano Antonio Gramsci definì come stato di “interregno” — ovvero una situazione nella quale il vecchio è già morto o sul punto di morire, ma il nuovo non è ancora nato). I loro governi, come tanti altri al di fuori dell’Europa, si trovano di fronte a un dilemma irrisolvibile. Tuttavia, a differenza della maggioranza degli abitanti del Pianeta, il mondo degli europei è un edificio a tre — non a due — piani. Tra i poteri globali e le politiche nazionali c’è infatti l’Unione Europea.

L’intrusione di un anello intermedio nella catena di dipendenza confonde la divisione, altrimenti palese, tra “noi” e “loro”. Da quale parte sta l’Unione europea? Da quella della “nostra” politica (autonoma), o del “loro” potere (eteronimo)? Da un lato,

l’Unione è considerata uno scudo protettivo che difende l’aggregato dei singoli Stati. Dall’altro, appare come una sorta di quinta colonna dei poteri globali, un satrapo degli invasori stranieri, un “nemico interno” e un avamposto di forze che cospirano per erodere e in definitiva annullare la possibilità che nazione e Stato mantengano la propria sovranità. Una percezione, questa, che viene spregiudicatamente e slealmente sfruttata dalle sirene dei neonazionalisti, che a poche settimane dalle elezioni europee stanno guadagnando sempre più consensi, come abbiamo visto alle ultime elezioni locali in Francia, dove ha trionfato il Front National. I neonazionalisti presentano il sogno della sovranità nazionale/ territoriale come cura di tutti i mali causati, secondo loro, dalla realtà odierna.

Proprio come il resto del Pianeta, l’Europa oggi è una discarica dei problemi e delle sfide generate a livello globale. Tuttavia, a differenza del resto del Pianeta, l’Unione europea è anche un laboratorio, forse unico, nel quale ogni giorno si progettano, discutono e collaudano nuove proposte per far fronte a quelle sfide e a quei problemi. Mi spingerei sino a suggerire che questo è un fattore (forse l’unico) che rende l’Europa, il suo retaggio e il suo contributo al mondo straordinariamente significativi per il futuro di un pianeta oggi di fronte a una seconda e cruciale trasformazione della convivenza umana nella storia moderna — e cioè del passaggio incredibilmente faticoso dalle “totalità immaginate” degli Stati-nazione alla “totalità immaginata” dell’umanità. Questo processo, che è ancora agli inizi e che, se il pianeta e i suoi abitanti sopravvivranno, è destinato a proseguire, l’Unione europea incarna un’opportunità molto concreta. Tuttavia, l’obiettivo non è facile da raggiungere. Non c’è alcuna garanzia di successo e sottoporrà la maggior parte degli europei, hoi polloi, e dei loro leader eletti, a una forte frizione tra priorità contrastanti e scelte difficili.

L’idea dell’Europa forse era e rimane un’utopia. Ma è stata e rimane un’ utopia attiva, che si sforza di fondere e consolidare azioni altrimenti disconnesse e multidirezionali. Un’utopia la cui attività dipenderà, in definitiva, dai suoi attori.

( Traduzione di Marzia Porta)

. www.Sbilanciamoci.info, newsletter, 28 marzo 2014

Nel suo libro "Il sarto di Ulm", Lucio Magri pone il problema della crisi ambientale come un elemento nuovo dell'antica lotta di classe «Nessuno nega che la minaccia del disastro ambientale costituisce un problema dirompente della nostra epoca, una contraddizione già materialmente vissuta e insieme un elemento dell'immaginario collettivo. È una novità non da poco che costringe grandi masse e non solo inquiete avanguardie a riconsiderare globalmente il senso dello sviluppo e a valutarlo con altri parametri». Lucio Magri, «Il sarto di Ulm» (pag. 410).

Lucio Magri pone, con il suo stile, il problema relativamente nuovo della crisi ambientale e di come costituisca un elemento nuovo dell'antica lotta di classe. Ma Lucio, ricordiamolo, non pone mai problemi rinviando ad altri o al futuro la risposta, e cosi alla fine del capitoletto scrive: «La questione ambientale dunque non solo offre a un progetto comunista un nuovo terreno su cui fondare la sua critica del sistema, ma anche una spinta che lo trasforma e lo arricchisce qualitativamente, lo porta a superare una subalternità all'economicismo; nel contempo la questione ambientale ha bisogno di un progetto e di una forza organizzata comunista per unire soggetti e interessi contrastanti, per individuare la vera radice dei problemi, per affermare un potere capace di affrontarli nel loro insieme, infine per cambiare la testa stessa della gente».

Insomma la questione ambientale diventa centrale nella lotta per il comunismo e solo con il comunismo potrà essere seriamente affrontata. Questo è il problema che per tanti anni noi comunisti abbiamo trascurato considerandolo non strutturale. Ancora un grazie a Lucio.

«Il fiscal com­pact ha sot­tratto agli stati, con la pote­stà finan­zia­ria e di bilan­cio, il potere di prov­ve­dere alla garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nali di ultima gene­ra­zione, quelli sociali. Una con­qui­sta di civiltà giu­ri­dica, poli­tica e sociale è stata rin­ne­gata. Va riaf­fer­mata».

Il manifesto, 28 marzo.2014
Pare che, con la sua ambi­ziosa bal­danza, Renzi non sia riu­scito a con­vin­cere la signora Mer­kel dell’anacronismo dei divieti con­te­nuti nei Trat­tati euro­pei e della pos­si­bi­lità di atte­nuarne il rigore.
Evi­den­te­mente le tec­ni­che comu­ni­ca­to­rie del Pre­si­dente del Con­si­glio in carica hanno un limite di effi­ca­cia che non supera l’ambito delle pri­ma­rie. Il che la dice lunga sulla serietà di tali pra­ti­che ma anche sulla durezza del capi­ta­li­smo cano­niz­zato dal neo­li­be­ri­smo nei Trat­tati Ue.

La signora Mer­kel, infatti, rispon­dendo a Renzi che la ras­si­cu­rava sul rispetto del divieto di oltre­pas­sare il 3 per cento del rap­porto deficit-Pil, gli ha ricor­dato che non era l’unica norma da rispet­tare ed allu­deva, con ogni pro­ba­bi­lità, all’obbligo di ridurre il debito, come pre­scrive l’articolo 4 del fiscal com­pact. Obbligo quanto mai gra­voso visto che implica un taglio della spesa pub­blica di rile­van­tis­sima entità, a par­tire dal 2015 (30–50 miliardi) a meno che il Pil non aumenti del 3 per cento, obiet­tivo fran­ca­mente mira­bo­lante.

È quindi da pre­ve­dersi, nel pros­simo futuro, un taglio con­si­de­re­vole della spesa pub­blica. Come se non bastas­sero quelli che, da sette anni, stanno deva­stando rap­porti umani, con­di­zioni di vita, dise­gni di futuro, pro­du­cendo mise­ria, dispe­ra­zione, reces­sione, distru­zione di valori giu­ri­dici, sociali, morali. Che il taglio col­pi­rebbe pro­prio i diritti sociali ancor più com­pri­men­doli, è pur­troppo ipo­tesi più che probabile.

Che fare? Il rap­porto di sud­di­tanza della poli­tica, del diritto, della civiltà umana all’economia neo­li­be­ri­sta va rove­sciato con urgenza asso­luta. Oppo­nendo i diritti ai pro­fitti e riaf­fer­man­done la sovra­nità. Le rica­dute che ne segui­ranno potranno essere solo virtuose. Due anni fa, (il mani­fe­sto, 18.4.2012), avan­zai una proposta. La ripro­pongo attua­liz­zan­dola. È quella di un dise­gno di legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva popo­lare diretto ad inte­grare l’articolo 81 della Costi­tu­zione, pro­prio quello che su ukase delle auto­rità euro­pee, col fiscal com­pact, rece­pi­sce l’imperativo del pareg­gio. Inte­grare, tale arti­colo, con una norma, quella per cui, nel bilan­cio dello Stato, siano desti­nate risorse pari alla media della spesa sociale pro­ca­pite dei tre paesi più svi­lup­pati dell’Unione euro­pea al fine di assi­cu­rare il godi­mento dei diritti rico­no­sciuti dagli arti­coli 32 (diritto alla salute) 33–34 (all’istruzione) e 38 (assi­stenza e pre­vi­denza sociale).

Il fiscal com­pact ha sot­tratto agli stati, con la pote­stà finan­zia­ria e di bilan­cio, il potere di prov­ve­dere alla garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nali di ultima gene­ra­zione, quelli sociali. Una con­qui­sta di civiltà giu­ri­dica, poli­tica e sociale è stata rin­ne­gata. Va riaf­fer­mata. Nel secondo dopo­guerra si pose come vanto ed emblema dell’Europa prima che la offris­sero alla rapina del capi­ta­li­smo finan­zia­rio. Potrà con­tri­buire a costruire una Europa diversa, quella dei diritti e della democrazia.

Se in tanti, pro­prio in tanti, le cit­ta­dine e i cit­ta­dini di que­sta Repub­blica si uni­ranno nel pro­porre al Par­la­mento di deli­be­rare su tale pro­po­sta, sarà dif­fi­cile ai feti­ci­sti del neo­li­be­ra­li­smo imporre il rifiuto di assi­cu­rare diritti, di difen­dere le con­qui­ste di libertà e di dignità umana san­cite nella Costi­tu­zione repub­bli­cana. Proviamoci.

Costituzione, articolo 32: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La Repubblica, 28 marzo 2014

Benvenuta la lettera con la quale il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’interesse del Parlamento per le questioni riguardanti la fine della vita. Non sarà facile. Ma la ragione non sta nell’esistenza di un completo “vuoto normativo”. Al contrario, esiste già un insieme di principi e regole che definiscono il quadro giuridico da tener presente, sì che il vero rischio oggi può essere quello di usare una nuova legge per restringere diritti già riconosciuti.

”Morire con dignità”, “morire bene”, “diritti dei morenti”, sono alcune tra le tante espressioni con le quali da anni si descrive non solo la condizione delle persone alla fine della vita, ma più in generale il rapporto che ogni persona deve poter stabilire con il tempo estremo della sua esistenza. Infatti, se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, è divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo.

Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell’articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell’articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun’altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un’area dell’”indecidibile”, preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità.

Quest’area, sottratta alla competenza parlamentare, è quindi attribuita alla libertà di scelta del
la persona. Un passaggio essenziale, chiarito in modo inequivocabile dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».

Questa linea costituzionale ha trovato ripetute conferme in importanti sentenze dei giudici ordinari e nelle iniziative di un centinaio di comuni che hanno istituito registri dei testamenti biologici. Che non hanno un semplice valore simbolico, perché consentono di accertare l’effettiva volontà di una persona, superando una delle polemiche che accompagnarono la vicenda di Eluana Englaro. E da questo quadro di principi bisogna partire, lasciandosi alle spalle le polemiche che, nella scorsa legislatura, furono determinate dai tentativi di risolvere con norme proibizioniste una questione tanto impegnativa.

Nella discussione, che si snoda ormai nel corso dei decenni e non in Italia soltanto, compaiono due espressioni — accanimento terapeutico e rifiuto delle cure — che costituiscono punti fermi per quanto riguarda i doveri del medico e i diritti della persona. Ma questi non sono due mondi separati, anzi i veri problemi da risolvere sono proprio quelli che riguardano i medici e le loro responsabilità, anche se queste sono state escluse sia dalla magistratura che dall’ordine dei medici nei casi Welby e Englaro. Permane comunque una incertezza, che deve essere eliminata.

Su questi temi ha lavorato a lungo un gruppo di giuristi, medici e studiosi di bioetica, intelligentemente coordinati da professor Paolo Zatti, che ha elaborato una dettagliata proposta di legge, presentata al Senato da Luigi Manconi e che può costituire il riferimento per una discussione parlamentare finalmente liberata da ogni pretesa fondamentalista. Su questo testo varrà la pena di tornare quando sarà avviata la discussione parlamentare. Ma fin d’ora si può ricordare che esso muove dall’ormai incontestabile diritto all’intangibilità del corpo, ribadito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui si esprime al più alto grado il rispetto della dignità umana.

L’abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all’esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all’autodeterminazione, fondato com’è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l’assistenza necessaria. Emerge così il diritto d’ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l’intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche.

Questi sono i tragitti che portano verso un effettivo rispetto della vita, non quelli di chi si arrocca intorno alla difesa di valori “non negoziabili”, espressione di posizioni che possono avere anche una forte convinzione personale, ma che non possono cancellare i principi costituzionali. Forse i tempi si stanno facendo più propizi ad un confronto ispirato al rispetto pieno della dignità delle persone, grazie all’attenzione partecipe che per questa manifesta continuamente il Pontefice. Il Parlamento non può estraniarsi da questo contesto, continuando a subordinare i diritti delle persone alle convenienze di un partito o di una maggioranza di governo. La Chiesa può rendere la discussione più libera e consapevole. La Germania, oggi così detestata, può ricordarci il ruolo significato della sua Conferenza episcopale nel favorire una legge assai avanzata proprio sulle decisioni di fine vita.

«Rifletterà l'Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?». I partiti italiani hanno accettato addirittura di introdurre nella Costituzione il vincolo di bilancio. Sbilanciamoci, Newsletter n.316 del 25 marzo 2014

Il Fronte nazionale di Le Pen non solo è diventato – dove presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, al terzo posto. Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?

Speriamo che la solenne botta presa dai socialisti alle elezioni municipali in Francia cancelli gli insulsi sorrisi dai faccioni di Renzi e di Barroso, finora non sfiorati dal dubbio che la politica di austerità seguita dalla commissione avvantaggi le destre. E non le destre, per intenderci, alla Monti, ma quelle estreme e fascistizzanti. Inutile riconoscere che tale è, e senza infingimenti, l'ungherese Viktor Orban, cui è andata per sei mesi la presidenza europea, e lo sono anche le forze che dovunque sfondano i residui bipolarismi tra una destra e una sinistra "democratiche". Ultima, clamorosa, la Francia, dove domenica si è votato nei 36.000 comuni e il Fronte nazionale di Le Pen, antisemita, xenofobo e antieuropeo, non solo è diventato – là dove era presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, non al secondo ma al terzo posto, mentre il Partito comunista e il fronte delle sinistre sono sovente scivolate al quarto.

Era da prevedersi, quando la disoccupazione e il precariato toccano quattro milioni di francesi, non molto diversamente dall'Italia. Da un paio di anni a questa parte – quasi ogni giorno – una grande o media azienda francese delocalizza o chiude, e il governo Hollande, che aveva vinto impegnandosi a lottare contro la finanza, non è stato in grado difendere l’occupazione, né in genere l’azienda, neanche quando chiudeva o delocalizzava pur dichiarando lauti guadagni; le maestranze uscivano dai reparti decise a lottare, trovavano la solidarietà del sindaco se, come sovente, l’azienda colpita era anche la più importante dei molti borghi di media urbanizzazione. Il risultato abituale era che in capo a tre settimane ci si doveva contentare di negoziare i cosiddetti “piani sociali”, altri e perlopiù lontani impieghi o indennizzi, con le condoglianze delle centrali sindacali e dei ministeri interessati. A tre giorni dalle elezioni municipali, la settimana scorsa ha chiuso la Redoute, la più antica e nota impresa di confezioni che da sola copriva una vasta percentuale dei consumi del ceto medio, trascinando in rovina intere città industriali, erodendo le possibilità di acquisto della massa operaia e piccolo borghese.

Tutto visibile e prevedibile? Sì, salvo che per un governo socialista, simile al nostro Pd, cui i trattati impongono di non intervenire per non turbare la libera concorrenza e che sperava di cavarsela in imprese militari costose e difficili nell'ex impero coloniale francese, nel Mali e poi nel Centro Africa. Mentre il presidente e il ministro degli esteri Fabius strepitavano per ricorrere alla mano dura contro Putin in Crimea; come se il noto nazionalismo dell’esagono potesse far dimenticare le condizioni di impoverimento crescente.

Ieri sera davanti ai risultati tutto lo staff socialista cadeva dalle nuvole mentre Marine Le Pen sguazzava nel trionfo dell’ondata blu che portava il suo nome. Soddisfatta anche l’Ump di Sarkozy, sicura che il governo avrebbe chiamato all'unità nazionale antifascista, legittimando il voto alla destra repubblicana, come già al tempo della caduta di Jospin nelle presidenziali degli anni Novanta. Rifletterà la Commissione europea? Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra? E che il Fronte nazionale diventa il primo partito popolare in Francia? Rifletteranno i molti che in Italia osservano benevolmente Renzi e il gioco delle tre carte che consiste nel mettere (forse) in busta paga di una fascia di bassi redditi quel che gli toglie in servizi pubblici e in tasse locali?

Il Pd infatti segue la stessa strada di Hollande, e la sua flebile sinistra interna non appare in grado di fargli cambiare rotta. E che dire della Cgil di Susanna Camusso che strepita dopo aver poco prima votato con la Confindustria un accordo sulle relazioni industriali eccessivo anche per il nostro malridotto vicino? E della Fiom di Landini che, isolata, spera anch'essa nel Matteo nazionale?

Insomma, non resta che augurarci che la dura botta francese, difficilmente recuperabile al secondo turno, funzioni da severa lezione contro gli eccessi di stoltezza degli ultimi vent'anni d'Europa.

«Riforme. Serve un senato di controllo eletto a suffragio universale. Il bicameralismo perfetto si supera rafforzando la funzione del parlamento, non mutilandolo con l’amputazione di una parte. Ecco gli emendamenti possibili». Il

manifesto, 26 marzo 2014

Nella pro­po­sta di riforma del Senato for­mu­lata dal governo la que­stione di fondo appare essere la moda­lità di com­po­si­zione (da una Camera elet­tiva si pas­se­rebbe a un organo com­po­sto da mem­bri di diritto, eletti di secondo grado e nomi­nati dal Capo dello Stato). Solo in seconda bat­tuta ci si inter­roga sulle fun­zioni del «nuovo» Senato. Dovrebbe essere esat­ta­mente il con­tra­rio. Solo una volta defi­nito il «tipo» di bica­me­ra­li­smo si può sta­bi­lire come devono essere sele­zio­nati i suoi componenti.

Da anni sia in sede scien­ti­fica sia in quella poli­tica si discute di come «dif­fe­ren­ziare» i ruolo di Camera e Senato. Da ultimo, è stata la sfor­tu­nata com­mis­sione dei saggi isti­tuita dal governo Letta a for­nire un qua­dro delle pos­si­bili alter­na­tive. Bastava assu­mersi la respon­sa­bi­lità poli­tica di sce­gliere e pro­porre al Par­la­mento un dise­gno di legge coerente.

Così non è avve­nuto. Forse è la volontà di acce­le­rare i tempi scri­vendo un testo poco medi­tato, pro­ba­bil­mente la volontà di non uti­liz­zare nulla di quel che era stato fatto dal pre­ce­dente governo, magari l’esigenza rite­nuta prio­ri­ta­ria di comu­ni­care un solo mes­sag­gio sem­plice e popo­lare: non si pagano più gli sti­pendi dei sena­tori. Come che sia il risul­tato è la defi­ni­zione di un organo fra­gile e poli­ti­ca­mente inu­tile. La nuova «Assem­blea delle auto­no­mie» (il nome attri­buito all’organo che andrebbe a sosti­tuire il Senato), esclusa dal cir­cuito della fidu­cia al governo, dovrebbe essen­zial­mente limi­tarsi ad espri­mere pareri sulle leggi già appro­vate (rimar­reb­bero bica­me­rali solo le leggi costi­tu­zio­nali). Un parere che può essere facil­mente supe­rato dalla Camera, anche nei casi più deli­cati, essendo richie­sta al mas­simo la mag­gio­ranza asso­luta, vale a dire un quo­rum facil­mente rag­giun­gi­bile (con l’Italicum potrebbe far da sola anche la sin­gola lista che ottiene il premio).

Eppure, in que­sto caso ben più che non sulla legge elet­to­rale, ci sarebbe lo spa­zio per un con­fronto. Si può con­tare, infatti, su un dato di par­tenza ormai pres­so­ché una­ni­me­mente rico­no­sciuto: l’attribuzione solo alla Camera del rap­porto fidu­cia­rio con il governo. Ma pro­prio l’esclusione del Senato dal cir­cuito fidu­cia­rio impone di far valere — raf­for­zan­dole — le altre fun­zioni che una «seconda Camera» può svol­gere. Il Par­la­mento, come è noto, non eser­cita solo la fun­zione legi­sla­tiva (ed anzi, da ormai molto tempo que­sta è in crisi), ma anche fun­zioni di con­trollo, di garan­zia, d’inchiesta, di rac­cordo con le istanze sovra­na­zio­nali e con quelle locali. A fronte dell’importanza di tali fun­zioni si regi­stra un pro­gres­sivo dete­rio­ra­mento della capa­cità di un loro effet­tivo eser­ci­zio. Poche leggi d’iniziativa par­la­men­tare e pre­va­len­te­mente di micro­le­gi­sla­zione (lasciando al governo la legi­sla­zione di prin­ci­pio e quella poli­ti­ca­mente più rile­vante), scarsa capa­cità di con­trollo sull’attività del ese­cu­tivo, inde­ter­mi­na­tezza dell’attività di garan­zia, per­dita di senso e di forza delle inchie­ste par­la­men­tari, mar­gi­na­lità dell’organo della rap­pre­sen­tanza poli­tica nei rap­porti con le istanze e gli organi sovra­na­zio­nali, euro­pei in par­ti­co­lare, scarsa con­si­stenza dei rap­porti isti­tu­zio­nali tra Par­la­mento ed auto­no­mie locali.

Quale migliore occa­sione di una riforma del bica­me­ra­li­smo per­fetto per porre la que­stione del raf­for­za­mento del sistema parlamentare.

Non dico che sarebbe facile indi­vi­duare un equi­li­brio cor­retto tra Camera e Senato nell’ipotesi in cui si volesse seria­mente dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo, e il pre­sup­po­sto con­di­viso (la sot­tra­zione al Senato del rap­porto fidu­cia­rio) non esenta dalla neces­sità di un attento lavoro di sin­tesi e scelta, pro­ba­bil­mente foriera di divi­sioni e con­flitti tra le forze poli­ti­che, non­ché tra le opi­nioni della cul­tura costi­tu­zio­na­li­stica. Nes­suno può pen­sare che met­tere le mani su una Costi­tu­zione sia un’operazione indo­lore e soprat­tutto priva di rischi. Ma almeno dovrebbe essere chiara la dire­zione di mar­cia e l’obiettivo comune. Sono molti anni che si denun­cia la debo­lezza pro­gres­siva del Par­la­mento e la ricerca di una sua cen­tra­lità è la vera scom­messa costi­tu­zio­nale da rac­co­gliere.

Così una scelta tra le diverse fun­zioni prima elen­cate dovrebbe essere neces­sa­ria­mente com­piuta, ride­fi­nendo le com­pe­tenze tra le due Camere. Non solo. È pro­prio a seguito — e in con­se­guenza — di que­ste deci­sioni di sistema che potranno anche coe­ren­te­mente defi­nirsi i cri­teri di com­po­si­zione della «seconda Camera». Ad esem­pio, riser­vare la tito­la­rità del rap­porto di fidu­cia con il governo ai soli depu­tati non com­porta ine­vi­ta­bil­mente l’esclusione dell’altro ramo anche dalla fun­zione legi­sla­tiva, tut­ta­via dovrebbe essere chiaro che nel caso per­ma­nesse la con­cor­renza nella pote­stà legi­sla­tiva si dovrebbe dif­fe­ren­ziare la fonte di legit­ti­ma­zione del Senato. Non avrebbe altri­menti senso favo­rire la for­ma­zione del governo, sem­pli­fi­cando l’ottenimento della fidu­cia adot­tando sistemi elet­to­rali pre­miali, e poi con­fer­mare le logi­che duali del bica­me­ra­li­smo nel momento dello svol­gi­mento dell’attività legislativa.

Se dun­que si vuole man­te­nere un’ampia com­pe­tenza legi­sla­tiva per il Senato (le leggi costi­tu­zio­nali fareb­bero comun­que caso a se) può essere con­di­visa l’idea di un’elezione di secondo grado espressa diret­ta­mente dagli enti ter­ri­to­riali. Si trat­te­rebbe, in caso, di valu­tare i mec­ca­ni­smi in con­creto, per­so­nal­mente sono molto dub­bioso circa la pos­si­bi­lità di una com­po­si­zione mista fatta da pre­si­denti di Regione, alcuni con­si­glieri regio­nali e rap­pre­sen­tanza di sin­daci. Non mi pro­nun­cio poi sulla incom­pren­si­bile indi­ca­zione con­te­nuta nel dise­gno di legge del governo di far nomi­nare un nutrito gruppo di sena­tori (ben 21) dal Capo dello Stato per un lasso di tempo di sette anni: una pro­po­sta che non vedo come possa con­ci­liarsi con alcuno dei pos­si­bili modelli di bica­me­ra­li­smo. A meno di non voler richia­mare — peral­tro impro­pria­mente — lo Sta­tuto alber­tino. Così anche la scelta di raf­for­zare la fun­zione di par­te­ci­pa­zione e rac­cordo degli enti ter­ri­to­riali all’attività non legi­sla­tiva dello Stato cen­trale può far rite­nere ido­nea la solu­zione della rap­pre­sen­tanza indiretta.

Se, invece, com’è nella pro­po­sta del governo, il Senato (ovvero l’«Assemblea delle auto­no­mie») si dovesse limi­tare ad espri­mere pareri sull’attività legi­sla­tiva mono­po­liz­zata dalla Camera, l’elezione indi­retta non avrebbe grande signi­fi­cato. Se non quello di ucci­dere la seconda Camera per sosti­tuirla con una «Con­fe­renza Stato, Regioni auto­no­mie locali», dai poteri mera­mente con­sul­tivi. Una tale “Con­fe­renza” non avrebbe però nes­sun biso­gno di essere col­lo­cata in Costi­tu­zione, tant’è che già opera, con com­pe­tenze diverse, nel nostro ordi­na­mento. Più coe­rente sarebbe allora indi­care la via mae­stra — che ha una sua nobile tra­di­zione di pen­siero — del mono­ca­me­ra­li­smo integrale.

Diverso ancora sarebbe se si optasse per una distin­zione più radi­cale, la solu­zione pre­fe­ri­bile. Lasciando alla Camera sia il rap­porto fidu­cia­rio sia gran parte dell’attività legi­sla­tiva (fatte salve, oltre alle leggi costi­tu­zio­nali, le leggi in mate­ria di libertà e diritti fon­da­men­tali delle per­sone), accen­trando sul Senato le fun­zioni di con­trollo, di garan­zia, d’inchiesta, di rac­cordo con le istanze sovra­na­zio­nali. In tal caso però, il cri­te­rio di com­po­si­zione dovrebbe essere quello più con­ge­niale alla rap­pre­sen­tanza di tutte le forze poli­ti­che e i gruppi sociali. Un sistema che favo­ri­sca le mino­ranze, che svolga un pre­zioso ruolo di inte­gra­zione e di riav­vi­ci­na­mento dei sog­getti sociali alle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive. L’elezione a suf­fra­gio uni­ver­sale con sistema pro­por­zio­nale sarebbe il modo di com­po­si­zione più ade­guato. Magari ridu­cendo il numero di sena­tori. Un Senato che, anche gra­zie alla sua piena e diretta legit­ti­ma­zione demo­cra­tica, sia in grado di bilan­ciare la gover­na­bi­lità assi­cu­rata alla Camera.

Come uscire dalla crisi? Più risposte sono possibili, dipende dal punto di vista da cui ci si pone la domanda: questo libro collettivo non assume quello delle banche, ma quello delle persone. Il manifesto, 26 marzo 2014

«Come si esce dalla crisi?» è una domanda, e la rispo­sta dipende dalla pro­spet­tiva di chi osserva. Alcuni stu­diosi misu­rano gli effetti delle crisi (eco­no­mica, sociale ed ambien­tale) sulle fami­glie ita­liane, forti di sta­ti­sti­che che infor­mano che il numero di quelle povere con­ti­nua a cre­scere (oltre il 14% della popo­la­zione, cioè oltre 8,5 milioni di per­sone, con altre 12 milioni «a rischio»), e che i gio­vani ita­liani hanno sem­pre meno pos­si­bi­lità di incon­trare un lavoro (la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è esplosa oltre il 40 per cento). Altri stu­diosi, invece, con­cen­trano l’attenzione sulla crisi finan­zia­ria del sistema del cre­dito, sco­prendo ban­che «in sof­fe­renza», nono­stante i cospi­cui aiuti rice­vuti in que­sti ultimi anni (su tutti, oltre mille miliardi di euro otte­nuti a un tasso irri­so­rio dalla Banca cen­trale euro­pea, di cui 255 toc­cati a quelle ita­liane), e una costante e con­ti­nua ero­sione degli impie­ghi, ovvero delle risorse che le ban­che pre­stano all’economia reale.
Tra que­sti ultimi stu­diosi e impren­di­tori appar­ten­gono gli uomini che hanno gover­nato e gover­nano il paese e l’economia ita­liana negli ultimi anni (da Ber­lu­sconi a Tre­monti, da Monti a Grilli, da Letta a Sac­co­manni, da Renzi a Padoan): sono quelli che imma­gi­nano di uscire dalla crisi a par­tire dalle ban­che, e si affan­nano per miglio­rare i ratio patri­mo­niali dei big del cre­dito a tutti i costi, anche un richiamo for­male della Com­mis­sione euro­pea, com’è avve­nuto nel caso della «riva­lu­ta­zione» delle quote della Banca d’Italia, che potrebbe gene­rare una plu­sva­lenza miliar­da­ria per i due primi gruppi ban­cari ita­liani, Uni­cre­dit e Intesa Sanpaolo.

Pre­fe­ri­scono, invece, la prima rispo­sta gli uomini e le donne che che da quasi vent’anni pro­muo­vono, ani­mano e coor­di­nano cam­pa­gne volte a garan­tite un con­trollo della finanza nazio­nale e inter­na­zio­nale, dalla «più antica» sulla Tobin Tax fino all’ultima «Per una nuova finanza pub­blica e sociale», che — com’è chiaro a chi segue la rubrica set­ti­ma­nale omo­nima su «l mani­fe­sto» — ha due focus sul debito degli enti locali e su Cassa depo­siti e pre­stiti. Si chia­mano — tra gli altri — Fran­ce­sco Gesualdi, Marco Ber­sani, Andrea Bara­nes, Anto­nio Tri­ca­rico, e oggi fir­mano insieme una valida (pic­cola) enci­clo­pe­dia delle ana­lisi pro­dotte dai movi­menti sulla finanza. Nel libro, pub­bli­cato da una casa edi­trice indi­pen­dente, le edi­zioni Ale­gre, Come si esce dalla crisi non è più una domanda, ma un’affermazione (pp. 256, euro 15).

Per­ché i pal­lia­tivi non ser­vono: è il momento di agire. Di navi­gare lascian­dosi gui­dare da alcune stelle polari. La prima è que­sta: «Se lo scopo delle pri­va­tiz­za­zioni (tutte le pri­va­tiz­za­zioni) era lo svi­luppo del mer­cato finan­zia­rio, a sua volta la pri­va­tiz­za­zione del set­tore ban­ca­rio era il pre­sup­po­sto stra­te­gico delle suc­ces­siva pri­va­tiz­za­zioni». L’Italia, in que­sto, si rivelò straor­di­na­ria­mente dispo­ni­bile. A ricor­dalo la Corte dei Conti in una rela­zione del 2010 che poneva l’accento sugli effetti di quasi vent’anni di pri­va­tiz­za­zioni. Come infatti spiega Ste­fano Risso nel suo con­tri­buto, nei primi anni Novanta «in Fran­cia la pro­prietà pub­blica del sistema ban­ca­rio passò dal 36%al 32%, in Ger­ma­nia dal 61,9% al 52% e in Ita­lia dal 74,5% allo 0%”».

La seconda stella polare è indi­cata da Tri­ca­rico: «Il primo — e unico per pro­fon­dità — mer­cato glo­bale creato negli ultimi 40 anni è stato quello dei capi­tali, in seguito alla libe­ra­liz­za­zione mone­ta­ria del 1971–73, quindi a quella dei movi­menti di capi­tale negli anni 80, quella ban­ca­ria e dei ser­vizi finan­ziari degli anni 90 e all’ingegneria finan­zia­ria negli ultimi 15 anni, che ha creato l’immenso sistema ban­ca­rio ombra».

Per ripren­dere il con­trollo del sistema del cre­dito e sot­trarlo all’eccesso di «finan­zia­riz­za­zione» degli ultimi anni, però, non basta la «sepa­ra­zione dei risparmi delle per­sone dalla finanza spe­cu­la­tiva». Lo Stato — sug­ge­ri­sce Roberto Errico, tra gli ani­ma­tori del «Forum per una nuova finan­zia pub­blica e sociale», ma anche dipen­dente del Monte dei Paschi di Siena — dovrebbe pren­dere misure che «supe­rino l’attuale spinta alla con­cen­tra­zione del set­tore finan­ziari (…), atti che com­pren­de­reb­bero innan­zi­tutto incen­tivi al ridi­men­sio­na­mento, alla rilo­ca­liz­za­zione ed al deli­sting (fuo­riu­scita) dai mer­cati di Borsa di alcuni isti­tuti di cre­dito, al fine di creare un gruppo omo­ge­neo di ban­che pic­cole e legate ai ter­ri­tori di provenienza».

È a par­tire da que­sto che sarà pos­si­bile discu­tere in modo serio di una pos­si­bile sepa­ra­zione tra ban­che com­mer­ciali ed atti­vità finan­zia­rie delle stesse. Che è solo uno degli anti­doti alla crisi, una delle (tante) misure neces­sa­rie per argi­nare la finanza — e le sue derive — che ven­gono pas­sate in ras­se­gna nei saggi rac­colti nel libro. Uno stru­mento, non il fine, che è spie­gare «come si esce dalla crisi» a par­tire dalla pra­ti­che (cam­pa­gne, azioni) messe in campo dalla società civile: dall’analisi del debito pub­blico, che in qual­che modo dev’essersi for­mato, e che uno Stato o un ente locale potrebbe rifiu­tarsi di pagare — almeno in parte -, ai limiti neces­sa­ria da porre ai para­disi fiscali e ai Paesi a fisca­lità age­vo­lata, pas­sando per una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, che renda meno attraenti que­sti «inve­sti­menti impro­dut­tivi». Un manuale, dun­que, per pas­sare dalla teo­ria all’azione, certi di una cosa: i soldi (per uscire dalla crisi) ci sono, per­ciò baste­rebbe la volontà poli­tica di indi­riz­zare al meglio il loro uso.

L'Unità del 26 Marzo 2014.

Il nesso tra legge elettorale e nuovo Senato è discusso con preoccupante superficialità. Se ne fa una questione di calendario, senza badare alla sostanza. L'Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione.

Si tratta di un worst case scenario, certo, che potrebbe diventare un presidenzialismo selvaggio senza bilanciamenti se si indebolisse anche la funzione politica del Senato facendone il dopolavoro degli amministratori locali. Il capo del governo non avrebbe difficoltà a concedere qualcosa agli interessi locali per ottenere il consenso dei nuovi senatori non eletti direttamente dal popolo e quindi sprovvisti delle garanzie dell'articolo 67 della Carta. Non avrebbero, infatti, la libertà di mandato e non rappresenterebbero la nazione intera, poiché sarebbero obbligati all'indirizzo di governo dell'Ente di provenienza, come ammette in parte il testo del governo.

Se si insiste con l’Italicum – si spera con qualche miglioramento - ci serve un forte Senato delle garanzie che, in regime bicamerale, si occupi di alta legislazione, della Costituzione, dei Codici dei diritti fondamentali, dell'ordinamento istituzionale e del controllo dell'attività statale. Funzioni tanto delicate richiedono l'elezione da parte dei cittadini con un’apposita legge elettorale non finalizzata alla governabilità, perché in questa assemblea mancherebbe il voto di fiducia; sarebbero inoltre dimezzati il numero di senatori e le rispettive indennità. Si passerebbe dal bicameralismo perfetto al bicameralismo delle garanzie con una chiara distinzione di compiti, alla Camera il governo del Paese e al Senato l'attuazione dei principi costituzionali.

Curando la qualità dell’ordinamento si renderebbe più agevole il governo non solo a livello nazionale, ma anche nelle Regioni e nei Comuni. Il Titolo V è fallito perché il Parlamento, dopo aver decentrato i poteri, ha continuato a legiferare al vecchio modo, con norme di dettaglio che hanno deteriorato le relazioni Stato-Regioni, senza una vera autonomia fiscale e senza riformare la macchina statale in funzione dei nuovi poteri locali. Ora si vuole tornare al centralismo statale, ma per non farlo vedere si getta fumo negli occhi con la retorica del Senato federale, che avrebbe il compito davvero modesto di dirimere il contenzioso. Sarebbe più saggio prevenirlo, innalzando la qualità delle leggi con la Camera Alta.

Viene spesso usato a sproposito l’esempio del Bundestrat, dimenticando che il sistema tedesco non solo è bilanciato ma non si darebbe mai una legge elettorale con l’abnorme premio di maggioranza dell’Italicum. E soprattutto ha saputo recuperare il divario con le regioni dell'Est in soli venti anni. Da noi la tensione Nord-Sud si è accentuata senza arrivare alla frattura, ma solo in virtù della mediazione svolta dai partiti nazionali di destra e di sinistra, pur con le loro debolezze; l'aver contenuto la scissione leghista negli anni Novanta è l'unico merito di Berlusconi. Nel Senato federale, peraltro non previsto nel nostro programma elettorale, si formerebbero invece maggioranze di regioni forti contro quelle deboli e ciò, in assenza di mediazione politica, potrebbe portare alla rottura dell'unità nazionale. L'Italia è l'unico paese europeo che non può permettersi di poggiare la rappresentanza parlamentare sulla frattura territoriale.

È ancora possibile discuterne o già è tutto deciso? La qualità di una riforma costituzionale dipende in gran parte dalle finalità e dal modo in cui viene dibattuta. Tutti i cambiamenti apportati durante la Seconda Repubblica si sono rivelati sbagliati perché vincolati a ragioni politiche contingenti. Nel 2006 la destra cercò la propria stabilizzazione stravolgendo la Carta, che fu salvata in extremis dai cittadini nel referendum. La sinistra invece ha cambiato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo ius sanguinis del voto all'estero per dare sponda a Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio - di cui oggi si chiede la deroga - per dare retta a Monti. Renzi rischia di ripetere vecchi errori e si spinge fino a minacciare la crisi politica per ottenere la cancellazione del Senato. Una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale: è allarmante che non desti allarme.

Se la nuova classe politica vuole superare davvero il ventennio non prosegua a cambiare le istituzioni secondo i propri fini politici. Non bisogna servirsi della Costituzione, ma servire la Costituzione migliorandola.

a Repubblica, 26 marzo 2014

Enrico Deaglio lo ha fatto di nuovo. Un diario finito stamattina, l’ultima pagina è oggi. Una foto scattata in movimento, mentre ancora tutti gli invitati alla festa stanno risalendo sulle auto tenendo con una mano la coda del vestito, la pochette sotto l’ascella nuda, gli uomini il piede nella berlina la portiera aperta il sorriso troppo largo ad uso della tv, buonanotte e grazie del vostro lavoro. Nitida la foto, ferma la mano: ogni dettaglio bene in vista e il quadro d’insieme ai lati del grandangolo, sul fondo. Vent’anni. Il Ventennio, il secondo dei due. 1994, 2014.Indagine sul ventennio, s’intitola il libro. Proprio come se fosse un delitto, o per lo meno un pasticciaccio brutto. Al principio di questa storia Deaglio aveva mandato alle stampe per la stessa casa editrice, Feltrinelli, i primi due suoi quadernetti di appunti. Il “diario di un anno abbastanza crudele”, era il 1994 e il titolo del libro Besame mucho. Poi il “diario di un anno che poteva anche andare peggio”, era il 1995, il libro Bella ciao. Dopo è venuto altro: romanzi, biografie di uomini notevoli, storie di gesti efferati e di agguati. Nel 2010 l’antologia di un trentennio, dagli anni Settanta ai Duemila, per il Saggiatore: un’opera monumentale, un abbecedario indispensabile a chiunque si occupi di cosa è accaduto in Italia, per chi voglia sapere l’Italia cos’è: Patria. Adesso, di nuovo, quaderni di diario: con gli appunti e le interviste, il glossario e i post-it su cosa facevamo, come mangiavamo, cosa dicevamo in quegli anni.

Però nel frattempo Deaglio, che è un grande giornalista attento soprattutto alle cose di politica e di mafia, è andato a vivere in America, a San Francisco. Sarà per l’oceano che ha messo in mezzo, ma questo suo ultimo diario ha qualcosa di meno e qualcosa di più rispetto agli altri. Di meno: l’enfasi, il personale ingaggio, l’illusione e la disillusione di chi è dentro la storia che racconta. Di più: la chiarezza quasi da antologia scolastica, la nitida messa a fuoco, alla distanza, della sequenza.

Di suo, sempre, c’è quella peculiare capacità di essere analitico nella sintesi, sintetico nell’analisi. «I furbetti del quartierino furono i nostri lupi di Wall Street». Le olgettine «fantastico gruppo di ragazze, un vero musical. Le prime a capire che un’orgia poteva trasformarsi in sindacato».Indagine sul ventennio nonè una lettura adatta a chi pensi, avvisa l’autore, che questi due ultimi decenni abbiano portato freschezza novità e liberalismo. Costoro d’altra parte si sarebbero astenuti comunque dal leggere un libro di Deaglio.

Così oggi stanno le cose: si legge ormai quasi solo per avere conferma di quel che già si pensa, in generale. Assai di rado per curiosità, per mettere alla prova le proprie certezze o esercitare il dubbio. Sarebbe interessante avere a disposizione un’analisi altrettanto documentata, precisa e dettagliata da mettere a confronto con questa: una confutazione punto per punto. Per qualche ragione, tuttavia, manca. Per il momento manca.

Il racconto di Deaglio parte dall’alba del nuovo mondo, il ’94, e si occupa sì di Silvio Berlusconi, le sue origini la sua ascesa i suoi legami e i suoi padrini, i suoi alleati. Racconta certo la storia di un uomo e della stagione politica che lo ha visto dominare la scena, stagione che sarebbe azzardato oltre che ingenuo considerare chiusa. Più di tutto, però, si occupa di cosa sia stato e cosa sia ancora il berlusconismo. Una definizione di quello spirito gregario, servile, pronto all’acchiappo del piccolo vantaggio che tanti considerano connaturato all’indole dell’italiano medio, amorale familista e antistatuale.

Già Piero Gobetti nel ’24 diceva che più grave del fascismo era stato il mussolinismo, «abito cortigiano, scarso senso della propria responsabilità, vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza». Del duce, poi, cambia il nome ma sempre qualcuno che arrivi a risolvere si attende. Il berlusconismo, dice Deaglio, «se ti prende da giovane è una brutta bestia, perché nasci senza aver visto altro; se ti prende da adulto è quasi peggio perché ti viene il terrore di morire prima che finisca ».

Grande la responsabilità delle opposizioni, nel Ventennio. «Il Pci sapeva, taceva, trattava. Gli eredi del Pci non si accorsero, quando si accorsero non si opposero sicuri di soccombere in uno scontro aperto. Non furono né intelligenti, né lungimiranti, né coraggiosi ». Le ragioni dell’interesse di Silvio Berlusconi per la politica l’autore le lascia declinare a Fedele Confalonieri: lo fece perché «altrimenti noi oggi saremo sotto un ponte o in galera con un’accusa di mafia».

Detto e noto questo resta da capire l’atteggiamento degli italiani. Il perché, più del come. Il movente non del colpevole del delitto ma della vittima consenziente. Perché acconsentiva, la ragione del consenso. Deaglio ne chiede conto a Romano Prodi per la parte strettamente politica, a Peppino Ortoleva domanda del potere televisivo, ad Andrea Jacchia della degenerazione della borghesia, a Fausto Melluso, studente universitario, chiede come sia stato crescere a Palermo, a Roberto Saviano di Napoli e Caserta. Ogni tanto disserta e ricorda come parlavamo, cosa dicevamo in quegli anni. Berlusconi mi ricorda mio cognato. Inciucio, lodo, mi consenta. Passo indietro, pizzino. Ad personam, metterci la faccia, usato sicuro.

Poi, ostinato, torna a chiedere. A Mario Deaglio di economia. A Ivan Carozzi di usi e costumi. Ad Adriano Sofri il ventennio visto dalla galera. A Gad Lerner dell’ascesa della Lega, a Massimo Recalcati una diagnosi psicanalitica di nevrosi, ossessioni, paranoie. Intanto, come di passaggio, torna a declinare con esattezza la storia dell’acquisto di villa San Martino ad Arcore, la riunione coi capi di Cosa Nostra di cui si dà conto nel dettaglio nella sentenza di condanna di Marcello Dell’Utri, i legami con la mafia, nomi e cognomi di tutti. Come passavamo il tempo libero, nel frattempo. Cosa vedevamo in tv, cosa leggevamo se ancora stavamo leggendo. Come mutavano i paesaggi: il Veneto, il parlamento, Genova nei giorni del G8, la terra dei fuochi.

Dice Saviano: «Probabilmente i problemi dell’Italia sono più gravi di quanto pensassimo. Probabilmente siamo tutti parte del problema». Dice Sofri: «Quando sono uscito dalla prigione mi sembrò che le persone avessero facce incattivite, anche quando parlavano da sole per strada, anche quando guidavano l’automobile. Solo un’impressione ». Dice Prodi, nell’intervista forse più importante, che Berlusconi certo si poteva sconfiggere e difatti in qualche occasione è accaduto, ma in sostanza le «divisioni e i personalismi dell’opposizione hanno lanciato all’opinione pubblica il messaggio che non vi fossero alternative concrete a Berlusconi». Non è scontato, aggiunge, che non sarà così anche alle prossime elezioni.

In coda al capitolo sul miraggio fallico (Recalcati) e a quello, tecnico, intitolato “La gnocca”, parlano due donne. Silvia Ballestra, scrittrice, e Marcelle Padovani, giornalista corrispondente dall’Italia per il suo paese, la Francia. Padovani racconta che ad una conferenza alla Stampa estera Berlusconi la avvicinò per chiederle, galante, quale fosse il suo profumo. Lei ebbe la prontezza di domandargli subito, specularmente, quale fosse il suo. Berlusconi non lo ricordava. Il giorno dopo le arrivò un pacco imponente da Palazzo Chigi, accompagnato da un biglietto: «Ecco la risposta alla sua domanda». Era colmo di decine di creme, dopobarba, deodoranti e polveri col marchio Antaeus di Chanel. «Insomma, il presidente del Consiglio mi aveva spedito un pacco pieno del suo odore». Ecco, questo. Indagine su un ventennio torbido come una palude, ma odoroso di Chanel.

«La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosiı».

La Repubblica, 26 marzo 2014

COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita. Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.

Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».

Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani — quello sui patti fra Stato e mafia — esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni.

L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro. Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze.
Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo,disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ». Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).

Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”;da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza .Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana». Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano.

E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori. È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione» lo prescrisse soltant
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato- mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia. Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).

Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e delGattopardodi Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».

Elezioni in Francia: «Non capi­sco lo stu­pore, è un risul­tato annun­ciato che solo sbri­ga­ti­va­mente si può attri­buire a popu­li­smo, antipolitica, antieuropeismo cieco. È l’esito della politica della Com­mis­sione che in que­sti anni ha fatto come Mar­ga­ret That­cher: "La società non esi­ste"». Il

manifesto, 25 marzo 2014

Pro­fes­sore Ste­fano Rodotà, è anche lei pre­oc­cu­pato per il risul­tato delle ammi­ni­stra­tive francesi?
Sì, nel senso che temo possa avere un effetto di tra­sci­na­mento in altri paesi. Ma non capi­sco lo stu­pore, è un risul­tato lar­ga­mente annun­ciato che solo sbri­ga­ti­va­mente si può attri­buire alla cat­ti­ve­ria del popu­li­smo, dall’antipolitica, dall’antieuropeismo cieco. È piut­to­sto l’esito con­se­guente della poli­tica della Com­mis­sione euro­pea, che in que­sti anni ha fatto come Mar­ga­ret That­cher: «La società non esi­ste», hanno detto a Bruxelles.
Non vede qual­che segnale di cam­bia­mento di linea?
Adesso, nella fase pre­e­let­to­rale, e molto timido. Ma non è di qual­che bat­tuta del pre­si­dente del Con­si­glio ita­liano che abbiamo biso­gno, quanto di met­tere al cen­tro dell’agenda ita­liana un ripen­sa­mento pro­fondo delle poli­ti­che europee.
Renzi dice di volerlo fare, ma dice anche che intende rispet­tare tutti i para­me­tri europei.
Dovrebbe bat­tere un colpo in que­sta fase, in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale. L’altra Europa non può aspet­tare che il pre­si­dente del Con­si­glio rag­giunga chissà quale risul­tato in Ita­lia. La que­stione è tanto matura da essere stata evi­den­ziata dallo stesso par­la­mento euro­peo, che in nume­rosi docu­menti ha cri­ti­cato i fal­li­menti della poli­tica della Com­mis­sione. Renzi con la pro­messa dei due tempi finirà pri­gio­niero dei vincoli.
Non trova che il ritardo delle isti­tu­zioni euro­pee sia a tal punto cro­nico che delle nuove regole fini­ranno per appro­fit­tare gli anti­euro, in cre­scita ovunque?
In poli­tica dei rischi biso­gna pren­derli. Con le nuove regole pos­siamo imma­gi­nare una cam­pa­gna elet­to­rale di dimen­sione euro­pea, in Ita­lia un discorso come quello della lista Tsi­pras non sarebbe stato altri­menti pos­si­bile. Altre volte le ele­zioni euro­pee si sono svolte in una sorta di indif­fe­renze. E a Bru­xel­les, in par­ti­co­lare dall’Italia, sono stati man­dati gli scarti della poli­tica nazionale.
Lei cita la lista Tsi­pras, ma come si può con­tra­stare il mes­sag­gio facile «no all’Europa» con il ragio­na­mento dif­fi­cile sull’altra Europa?
Io penso che sia pos­si­bile per­ché aveva comin­ciato a farlo la stessa Europa. Può darsi che que­sta mia con­vin­zione derivi dall’aver par­te­ci­pato alla scrit­tura della carta dei diritti fon­da­men­tali, ma ricordo che già nel giu­gno 1999 il Con­si­glio euro­peo di Colo­nia era arri­vato a porsi il pro­blema di supe­rare la con­ce­zione dell’Europa come sem­plice mer­cato comune. Una con­ce­zione che, si diceva già 15 anni fa, aveva dato tutto quello che poteva dare in ter­mini di costru­zione del famoso popolo euro­peo. Dopo di che solo il rico­no­sci­mento dei diritti comuni a tutti i cit­ta­dini sarebbe stata la con­di­zione di legit­ti­mità dell’Unione.
Ci vol­lero altri cin­que anni per arri­vare alla Costi­tu­zione, poi affon­data pro­prio dal refe­ren­dum fran­cese. Si può tor­nare indietro?
Non si può, ma di quello slan­cio si deve tenere conto. Senza dimen­ti­care gli errori com­piuti da una parte della sini­stra. Per­ché l’ostilità alla carta dei diritti fon­da­men­tali, o certe cri­ti­che, per quanto più fon­date, alla carta costi­tu­zio­nale euro­pea scon­ta­vano un otti­mi­smo senza fon­da­mento. Si diceva: fac­ciamo cadere quelle carte, poi faremo cose molto migliori. Non era così, la situa­zione poli­tica era molto nega­tiva e adesso paghiamo anche il prezzo di quella inconsapevolezza.
Come giu­dica l’avvio della cam­pa­gna elet­to­rale della lista Tsipras?
Ho visto qual­che inciampo, mi auguro che d’ora in poi si cam­mini in maniera spe­dita. Ma ci sono ancora molte resi­stenze, reti­cenze ed egoi­smi da parte delle forze poli­ti­che orga­niz­zate. Spero che tutto que­sto non si risolva nei disa­stri che abbiamo cono­sciuto con le liste della sini­stra arco­ba­leno e Ingroia nelle ultime ele­zioni poli­ti­che nazio­nali. Vor­rei ci fosse la con­sa­pe­vo­lezza che i patriot­ti­smi di gruppo hanno effetti distruttivi.
Prima ha cri­ti­cato il rigido rigore con­ta­bile della Com­mis­sione euro­pea, ma da due anni l’obbligo di pareg­gio di bilan­cio sta scol­pito nella nostra Costituzione.
Un grave errore com­piuto nella quasi totale una­ni­mità e assenza di dibat­tito. Io e altri facemmo appello ai par­la­men­tari per­ché con­sen­tis­sero almeno il refe­ren­dum, rice­vemmo indif­fe­renza. E così abbiamo por­tato la logica del rigore in Costi­tu­zione, senza che ci fosse richie­sto. Molti di quelli che adesso avan­zano qual­che cri­tica all’indirizzo di Bru­xel­les dovreb­bero ricor­dare le pro­prie responsabilità.
Il nuovo art. 81 si può cambiare?
È una norma costi­tu­zio­nale e non può essere oggetto di refe­ren­dum. Ma nei pros­simi giorni il gruppo pro­mo­tore della mani­fe­sta­zione del 12 otto­bre scorso, La via mae­stra, pre­sen­terà due ini­zia­tive col­le­gate. Una pro­po­sta di refe­ren­dum abro­ga­tivo di alcune parti della legge attua­tiva, stu­diata in modo tale che non sia dichia­rato inam­mis­si­bile dalla Corte Costi­tu­zio­nale e che abbia effetti sul bilan­cio pub­blico. E insieme un’iniziativa di legge popo­lare costi­tu­zio­nale per la modi­fica totale dell’articolo 81, sulla quale rac­co­glie­remo le firme. Spe­riamo di sol­le­vare quel dibat­tito pub­blico che due anni fa non c’è stato, in difesa della Costi­tu­zione e per una cri­tica all’Europa non anti­po­li­tica o anti­eu­ro­pei­sta. E lavo­riamo anche ad altre iniziative.
Quali?
Abbiamo già un testo in forma di pro­po­sta di legge per rifor­mare lo stru­mento dell’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare. Pre­vede l’obbligo del par­la­mento di pren­dere in esame le pro­po­ste entro ter­mini certi, con la pos­si­bi­lità per i pro­mo­tori di seguirne l’iter nella com­mis­sione par­la­men­tare, la diretta strea­ming della com­mis­sione e l’obbligo di pas­sare il testo all’aula. Poi tor­niamo sui beni comuni, aggiun­gendo alla cam­pa­gna per l’acqua pub­blica la que­stione della cono­scenza in rete con una pro­po­sta di legge per inse­rire nell’articolo 21 della Costi­tu­zione il diritto di accesso a inter­net come diritto fon­da­men­tale del cit­ta­dino. E infine il lavoro, su tre fronti. Ripren­de­remo le pro­po­ste di legge di ini­zia­tiva popo­lare sul red­dito di cit­ta­di­nanza; inten­si­fi­che­remo la cam­pa­gna di con­tra­sto all’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che con­sente la con­trat­ta­zione azien­dale in deroga alle leggi — gra­zie alla Fiom sap­piamo che sta pro­du­cendo tutta una serie di accordi che can­cel­lano i diritti dei lavo­ra­tori; infine c’è il tema della rap­pre­sen­tanza del lavoro. Su que­sti punti vogliamo insi­stere con una logica di decen­tra­mento, anche per supe­rare dif­fi­coltà che abbiamo avuto: di cia­scuna que­stione si occu­perà un pezzo della coa­li­zione sociale che vogliamo favorire.
Dei par­titi ha par­lato solo per denun­ciarne gli egoi­smi, li con­si­dera ormai inser­vi­bili? La Costi­tu­zione affida loro un ruolo centrale.
L’articolo 49, in base al quale i par­titi sono lo stru­mento dei cit­ta­dini per con­cor­rere alla poli­tica nazio­nale, sap­piamo che fu voluto da Lelio Basso, il quale in seguito ha scritto cose molto amare sulla dege­ne­ra­zione dei par­titi. Negli ultimi anni la pro­spet­tiva costi­tu­zio­nale si è com­ple­ta­mente rove­sciata; nei par­titi si sono create delle oli­gar­chie che hanno uti­liz­zato il con­senso non per ren­dere più age­vole la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini ma per per­pe­tuare il loro ruolo e potere. Vedo con molto pia­cere il ritorno della figura di Ber­lin­guer, ma non biso­gna con­fi­nare la sua denun­cia della que­stione morale in un recinto etico. La sua era una bat­ta­glia poli­tica tutta legata alla dege­ne­ra­zione dei par­titi, che ha finito col coin­vol­gere anche il suo par­tito. E anche oggi il Pd può andare incon­tro a brutte sor­prese. Renzi non ha negato l’intenzione di met­tere il suo nome nel sim­bolo, siamo com­ple­ta­mente fuori dalla logica di recu­pe­rare i par­titi nella loro funzione.
Renzi vuole essere giu­di­cato sui fatti.

Lo fac­cio. La nuova legge elet­to­rale ha al suo interno gra­vis­simi rischi di inco­sti­tu­zio­na­lità. È in più un’iniziativa schiet­ta­mente con­ser­va­trice che vuole chiu­dere la pos­si­bi­lità di accesso al par­la­mento attorno alle due forze (oggi) mag­giori. Il cosid­detto Ita­li­cum ha una cur­va­tura mag­gio­ri­ta­ria molto pesante che fa sal­tare il sistema delle garan­zie. La pro­po­sta del senato è poi un pastic­cio inac­cet­ta­bile. Non c’è nes­suno con un minimo di peso e ragio­ne­vo­lezza che non l’abbia detto, eppure ho l’impressione che non si voglia tener conto di que­sta massa di cri­ti­che, avvian­dosi così a ripe­tere l’errore fatto con l’articolo 81. Dall’insieme di que­ste pro­po­ste si ricava l’impressione di una chiu­sura del sistema e di un accen­tra­mento di poteri che mette in discus­sione l’equilibrio costi­tu­zio­nale e le garan­zie dei diritti indi­vi­duali e col­let­tivi, dei quali non a caso Renzi non parla. Trovo poi di estrema vol­ga­rità dire «vi tolgo dai piedi il senato così rispar­miamo un miliardo». In futuro si potrebbe pro­porre di rinun­ciare a qua­lun­que altra cosa essen­ziale per la vita della repub­blica, solo per rispar­miare. Que­ste dichia­ra­zioni sono il segno evi­dente di quanto è stato pesante il con­ta­gio dell’antipolitica

Se i partigiani responsabili dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati ai tedeschi avrebbero evitato la strage delle Fosse Ardeatine”. E’ la tesi con cui i post fascisti tentano di scansare l'orrore di cui i loro ispiratori sono stati causa diretta. Una menzogna. Ecco perché».

Micromega, marzo 2014

Anniversario della strage delle Fosse Ardeatine. Quel giorno, il 24 marzo del 1944, 355 italiani, già prigionieri, molti di loro ebrei, sono stati massacrati, per ordine di Hitler, da ufficiali e soldati tedeschi che occupavano Roma. Era la loro "rappresaglia" per l'attentato avvenuto poche ore prima in via Rasella, nel centro di Roma. Dove tre partigiani (tra i pochissimi italiani che a Roma hanno combattuto la feroce occupazione e le torture sistematiche di tedeschi e fascisti in via Tasso), erano riusciti ad attaccare con esplosivo un reparto tedesco uccidendo 30 militari occupanti.

I tre combattenti italiani, Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi, pur insigniti della medaglia d'oro al valor militare, sono stati perseguitati tutta la vita da ciò che è restato e resta del conformismo e della "zona grigia " italiana (coloro che non si immischiano mai e si fingono sempre equidistanti), con la seguente ragione, sostenuta con vigore dai post fascisti che tentano di scansare l'orrore di cui i loro predecessori e ispiratori sono stati causa diretta: i tre partigiani dovevano consegnarsi e avrebbero evitato la strage. Infatti, il giorno stesso della pubblicazione di un mio testo su Il fatto quotidiano ho ricevuto la lettera che riporto testualmente.

"Caro Furio Colombo, i tre studenti dell'attentato di via Rasella non erano soldati con le stellette ma erano tre sprovveduti. Se erano intelligenti se lo dovevano immaginare che ci poteva essere una rappresaglia. Se credevano di essere eroi come tu li hai descritti si dovevano consegnare. Un altro Salvo D'Acquisto deve ancora nascere. Giuseppe."

La lettera, nella sua illogicità, si spiegherebbe da sola. Ma questa volta, e ogni anno e in ogni occasione in cui si parla di via Rasella o delle Fosse Ardeatine, arrivano decine di lettere uguali a questa.

Supponiamo la buona fede, perché la disinformazione è una industria attivissima e coloro che speculano su "orrende storie" della Resistenza, che hanno cominciato a ricordare decenni dopo, (una volta scoperto che con quelle storie si guadagna moltissimo,) si moltiplicano in libreria. E rispondiamo con paziente precisione.

Primo: tutta la guerra della Resistenza italiana (che voleva dire guerra contro il fascismo, contro il razzismo, contro l'occupazione tedesca) non ha mai avuto stellette o uniformi. Era clandestina come quella francese, come tutta la Resistenza europea. Resistenza significava eliminare, sia pure in piccola parte, i militari stranieri occupanti e i loro complici fascisti, e rendere sempre più difficile la loro attività. Tale attività consisteva nella cattura e tortura degli avversari e dei resistenti politici, nel terrorizzare la popolazione civile con stragi perché non prestasse aiuto "ai banditi" , nella cattura ed eliminazione di tutti gli ebrei rintracciabili, compresi i neonati e i malati.

Secondo. Carla Cappon, Rosario Bentivegna e Pasquale Balsamo non si sentivano affatto eroi.
Si sentivano in dovere di fare, qualunque fosse il rischio, tutto il danno possibile al nemico. I tedeschi occupanti, aiutati dai fascisti che avevano abbandonato l'Italia legale, erano il nemico.
I tre di Via Rasella, in una Roma quasi senza Resistenza hanno colpito giusto. Bisognava che tedeschi e fascisti sentissero il pericolo di una vera guerra di popolo contro di loro anche se a rischiare e a combattere, a Roma, erano in pochi.

Terzo. "Dovevano consegnarsi." Perché? Non è mai accaduto e non deve accadere perché renderebbe inutile quella momentanea, ma importante, battaglia vinta. Non deve accadere perché i comandanti tedeschi sono gli stessi che hanno appena catturato e deportato tutti gli ebrei di Roma che hanno potuto trovare, dopo averli derubati ("come garanzia di salvezza", avevano detto) di tutto l'oro che avevano. Non deve accadere perché la principale attività tedesca e fascista nella Roma dove il Papa tace, è la pratica ininterrotta della tortura in via Tasso.

Non può accadere perché la rappresaglia è stata decisa subito e subito è stato stabilito che dovevano morire dieci italiani per ogni soldato tedesco, dunque più di trecento (già prigionieri a Regina Coeli) come vendetta per i trenta soldati morti nell'attentato. A Hitler importava poco, per l'azione esemplarmente crudele che aveva subito deciso, di avere o non avere tre prigionieri in più. Inoltre non avrebbero rinunciato perché stavano mandando a morte un numero molto alto di ebrei, e il punto che stava a cuore a Hitler e ai suoi ufficiali era che fossero ebrei, il reato più grave, in quel momento di follia della storia.

Chi insiste nel presunto dovere di consegnarsi dei tre mente due volte. La prima è perché non era possibile. Quando si è saputo di via Rasella il comunicato era seguito dalle parole: "La sentenza è già stata eseguita". La seconda è che, se lo avessero fatto, niente e nessuno avrebbe risparmiato i morti delle Ardeatine (dieci per ogni soldato tedesco, decisione immediata di Hitler). Ma i tre sarebbero morti di torture a via Tasso nel tentativo di sapere altri nomi della Resistenza a Roma.

Il nome di Salvo D'Acquisto è una provocazione con cui si usa un grande italiano, che si è offerto (in una rappresaglia che non è affatto stata evitata) di prendere il posto, in una fucilazione collettiva, di un padre di famiglia con figli. I tedeschi hanno accettato la sostituzione di uno. Ma hanno sterminato tutti gli altri. Dunque su vicende del genere sarebbe bene non negare e non mentire e non far finta di non sapere.

«La Repubblica, 24 marzo 2014

SONO state accolte con qualche sorpresa e molta perplessità — per non dire incredulità — le notizie riguardo al referendum sull’indipendenza del Veneto. Promosso e organizzato dai movimenti autonomisti, il “plebiscito” si è svolto la scorsa settimana. Secondo i promotori, vi avrebbero partecipato circa tre elettori veneti (aventi diritto) su quattro. Quasi 2 milioni e mezzo. Con un esito “plebiscitario”: 89% di “sì”. Naturalmente, i dati sono ipotetici e non verificabili. Così, in Italia, è prevalsa la tendenza a liquidare l’iniziativa con un misto di sarcasmo e di scetticismo. A differenza degli osservatori stranieri, che hanno, invece, trattato l’evento con attenzione. Non solo per il precedente (immediato) della Crimea. Ma, ancor più, per le tensioni indipendentiste che scuotono altri Paesi europei. In Gran Bretagna, Spagna, Belgio... Così, mentre cresce l’insoddisfazione verso l’Unione Europea, si acuiscono le divisioni all’interno degli stati nazionali. Per questo conviene prendere sul serio il segnale che proviene dal Veneto. Anche perché rivela sentimenti estesi. In misura, magari, non “plebiscitaria”, come quella dichiarata dai “venetisti”, ma, tuttavia, maggioritaria.

Lo conferma un sondaggio di Demos, condotto presso un campione rappresentativo di elettori veneti nei giorni scorsi (per la precisione: il 20 e il 21 marzo). La partecipazione al referendum, dai dati, esce ridimensionata. Ma resta, comunque, molto significativa. Quasi metà degli elettori veneti, infatti, sostiene di aver votato oppure di essere intenzionato a farlo. E poco meno dell’80% di essi si dice favorevole al quesito referendario: l’indipendenza veneta. Una posizione condivisa, d’altronde, da un terzo di coloro che dicono di non essere intenzionati a votare.

Nell’insieme, la maggioranza degli elettori (compresi nel campione) si dice d’accordo con l’ipotesi che “il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana”. Circa il 55%. Mentre i contrari sono poco meno del 40%. Dunque, l’indipendenza costituisce una prospettiva attraente per la maggioranza della popolazione. Piace, soprattutto, agli imprenditori e agli operai. I lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa, che costituiscono il “distintivo” economico e sociale del Veneto. Solo tra i più giovani — e, quindi, fra gli studenti — la posizione contraria all’indipendenza prevale nettamente. Oltre che fra i disoccupati. Anche dal punto di vista politico, gli orientamenti sono molto chiari. L’indipendenza veneta piace agli elettori di Destra (in particolare di FI) e, ovviamente, ai leghisti e agli “autonomisti”. Ma prevale nettamente anche fra gli elettori del M5s, dove, peraltro, negli ultimi due anni è confluito gran parte del voto leghista.

Il Veneto, d’altronde, è politicamente una zona di centrodestra. Forzaleghista (come la definiva Edmondo Berselli). La distanza dei veneti dallo Stato nazionale, dunque, è cresciuta e oggi si traduce in aperto distacco. In misura molto maggiore che in passato. Tuttavia, molte cose sono cambiate, negli ultimi anni. La crisi, anzitutto, ha accentuato il risentimento verso lo Stato, riassunto, non solo simbolicamente, in Roma capitale. Le difficoltà economiche, infatti, hanno sollecitato maggiore sostegno e hanno reso più acuto il contrasto con il ceto politico e la burocrazia centrale. A differenza del passato, inoltre, la rivendicazione indipendentista, oggi, non evoca patrie immaginarie, come la Padania, ma neppure aree poco definite e, internamente, differenziate, come il Nord. Com’è divenuto lo stesso Nordest. Richiama, invece, il Veneto. La Regione. Considerata l’ambito che suscita maggiore appartenenza da circa il 25% dei Veneti (Oss. Nordest per Il Gazzettino, settembre 2012). Non a caso, la Lega (Padana), inizialmente tiepida verso l’iniziativa, l’ha, in seguito, sostenuta. Il governatore, Luca Zaia, in particolare. Che si prepara, a sua volta, a far votare al Consiglio veneto una proposta di legge per indire un referendum “formale” per l’indipendenza. Anche se incostituzionale, costituirebbe, comunque, per Zaia, il manifesto per una Lista civica (personale) in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Per compensare la debolezza della Lega.

D’altronde, la Liga Veneta è “la madre di tutte le leghe”, come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta. Che venerdì sera era in piazza, a Treviso, a festeggiare il referendum e il mito dell’indipendenza veneta. Bisogna, dunque, prendere sul serio il segnale che proviene dal referendum. Al di là delle misure — ipotetiche — della partecipazione e del consenso dichiarate dagli organizzatori, la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria. Al tempo stesso, bisogna interpretarne correttamente il significato. In-dipendenza significa, infatti, “non dipendenza”. E, dunque, autonomia. Autogoverno. Non necessariamente “secessione”. Ne danno conferma le opinioni circa il modo migliore “per sostenere gli interessi del Veneto”. La “piena indipendenza del Veneto”, infatti, è sostenuta da una quota ampia, ma non superiore al 30%. Meno di quanti riterrebbero più utile “eleggere parlamentari migliori” (dunque, capaci di esercitare maggiore pressione “su Roma”). Mentre appaiono ampie anche le componenti “federaliste”. È significativo come, fra gli stessi sostenitori dell’indipendenza veneta al referendum, quanti vedono nell’indipendenza “piena” la via maestra per affermare gli interessi regionali siano una maggioranza larga. Ma non assoluta: il 45%. L’indipendenza, dunque, costituisce per i veneti e il Veneto un modo per denunciare, in modo estremo, il disagio nei confronti dello Stato centrale. L’insoddisfazione contro la classe politica e di governo. Non solo nazionale, ma anche regionale.

Da ciò, un’altra indicazione significativa. Soprattutto se si pensa al diverso impatto ottenuto dal referendum dei giorni scorsi rispetto alla manifestazione per l’indipendenza padana, promossa nel settembre 1996. Quando, in marcia lungo il Po per marcare la frontiera del Nord, si recarono pochi leghisti, spaesati e sparsi. Per rappresentare il sentimento e il risentimento territoriale, oggi, conviene rinunciare a patrie immaginarie, come la Padania. Ma anche alle macroregioni oppure ad aree ampie — e differenziate. Come il Nord e lo stesso Nordest. Per storia, economia, identità e interessi, infatti, è sempre più difficile tenere insieme il Veneto con il Piemonte, la Lombardia e lo stesso Trentino Alto Adige. Treviso con Milano e Bolzano. La “questione Veneto”, oggi, conta più di quella “settentrionale”. E affievolisce il Nordest.

«L’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali non aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso». La Repubblica, 24 marzo 2014

Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.

Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero. Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari.

Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere — se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese.

A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione. Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa. La politica americana odierna aggrava questi problemi.

Anche nella migliore delle ipotesi, la vecchia teoria del libero commercio diceva soltanto che i vincitori avrebbero potuto risarcire i perdenti, non che l’avrebbero fatto. E così è stato: non l’hanno fatto. Anzi, hanno fatto il contrario. I sostenitori degli accordi commerciali spesso affermano che per far diventare competitiva l’America non si dovranno tagliare soltanto i salari, ma anche le tasse e le spese pubbliche, soprattutto quelle relative a programmi che vanno a sostegno dei normali cittadini. Dovremmo accettare di soffrire a breve termine, dicono, affinché sul lungo periodo ne traggano beneficio tutti. Ma, come disse una volta John Maynard Keynes in altro contesto, «nel lungo periodo saremo tutti morti». In questo caso, ci sono poche prove dalle quali evincere che gli accordi commerciali porteranno a una crescita più rapida o più profonda. I critici del Partenariato trans-pacifico (Tpp, Trans-Pacific Partnership, Trattato di libero scambio con 11 nazioni del Pacifico intorno alla Cina, NdT) abbondano perché sia l’iter sia la teoria sulla quale esso si basa sono un fiasco. L’opposizione al Tpp è fiorita non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Asia, dove i colloqui si sono arenati.

Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali — e la globalizzazione più in generale — siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani.

L’esito di questa guerra è tuttora incerto. Più volte ho ribadito due punti: il primo è che l’alto livello di disuguaglianza presente oggi negli Stati Uniti (e il suo enorme aumento negli ultimi trent’anni) è il risultato cumulativo di tutta una serie di politiche, programmi e leggi. Tenuto conto che il presidente stesso ha sottolineato che la disuguaglianza è la priorità numero uno del paese, ogni nuova politica, ogni nuovo programma, ogni nuova legge dovrebbe essere valutata dal punto di vista del suo effettivo influsso sulla disuguaglianza. Accordi come quello del Tpp hanno contribuito in modo sostanziale a questa disuguaglianza. Le multinazionali potrebbero trarne beneficio, ed è addirittura possibile, per quanto non garantito, che migliori anche il prodotto interno lordo così come è misurato per prassi. È assai probabile, però, che il benessere dei normali cittadini subirà un duro colpo. E questo mi porta al secondo punto, che ho più volte sottolineato: l’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali — come farebbe il Tpp — non necessariamente aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Due pesi e due misure. I partiti e gli altri raggruppamenti politici che hanno almeno un seggio al Parlamento italiano o europeo possono partecipare senza problemi alle elezioni al Parlamento europeo competere, sperare di essere eletti. I gruppi di cittadini che non si riconoscono in nessuno dei partiti esistenti sono obbligati a un percorso difficile, in un terreno disseminato di trappole.

In Italia, per presentare una lista alle elezioni europee è necessario raccogliere le firme: in ogni regione, grande o piccola che sia, almeno 3.000 firme; in ognuna delle 5 circoscrizioni (Nordovest, Nordest, Centro, Sud, Isole), almeno 30.000 firme e non più di 35.000,;nell’intera Italia, almeno 150.000 firme. Ciò significa che se in una regione (per esempio la Val d’Aosta) non si raggiungono 3.000 firme, sono invalidati tutti i voti raccolti nella Circoscrizione Nordovest. E se nella circoscrizione Isole non si raggiungono almeno 30.000 firme, anche se in tutte le altre circoscrizioni si raggiungesse il massimo delle firme (35.000x4=140.000) non si raggiungerebbe il quorum delle 15.000 firme, e la nuova formazione politica non potrebbe gareggiare con gli altri per portare un’altra voce nel Parlamento europeo.

Perciò Barbara Spinelli, capolista della lista “L’altra Europa con Alexis Tsipras” ha chiesto un incontro urgente con la Presidente della Camera dei deputati perché si provveda a correggere l’evidente disparità democratica derivante dall’applicare parametri uguali tra realtà profondamente diverse (il manifesto, 21 marzo 2014).

Perciò Chiara Ingrao, sostenitrice della lista, ha chiesto (l’Unità, 21marzo 2014) anche a chi voterà per altri partiti di firmare perché la lista “L’altra Europa” possa partecipare alle elezioni. La militante per la pace e i diritti delle donne conclude il suo invito ricordando le parole di Voltaire:«non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». E prosegue: «Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti».

Perciò, infine, io chiedo agli amici di eddyburg, e a chiunque sia raggiunto da questo messaggio: firmate le per la lista “con Tsipras”, che abbiate deciso o no di votare per essa il 25 maggio. E raccogliete le firme tra i vostri amici e conoscenti. Qui trovate le informazioni necessarie per contribuire affinché possa esprimersi una voce diversa dalle altre: per l’Europa e dentro l’Europa, ma per un’altra Europa. Per conto mio, ho deciso di partecipare per le ragioni che ho riassunto qui: potete condividerle o no, ma aiutateci a far sentire anche la nostra voce a quanti voteranno per il Parlamento europeo

Il 23 marzo1944 ero a pochi passi da via Rasella, a Roma, quando un gruppo di partigiani assalì un plotone di soldati tedeschi. Due giorni dopo si seppe che i nazisti, con l'assistenza dei fascisti italiani, avevano trucidato, per rappresaglia, alle Fosse ardeatine, 335 detenuti frettolosamente prelevati nel carcere di Regina coeli . Ricordo quegli episodi con due stralci del mio libro

Memorie di un urbanista, Corte del fòntego editore, Venezia2010

Prologo, p. XXXV-XXXVI

Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, soggiornavano in quel periodo all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di Via Veneto verso piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era molto frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi sapemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.

Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla minaccia. Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia mamma era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe dopo), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. E’ uno di quelli che furono trucidati, all’indomani dell’attentato.

San Pietro in vincoli, p. 5-8

[...]

I valori che per noi erano divenuti centrali erano quelli della Resistenza. Ne leggevamo nei libri che ne raccontavano la storia come quello di Roberto Battaglia[1] e le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana[2]. In quelle lettere, scritte pochi minuti prima della fucilazione o dell’impiccagione, scoprivamo la realtà di un’Italia nella quale l’antifascismo, oltre a essere un sentimento, era anche un’azione nella quale si rischiava la vita per raggiungere una vittoria che significasse anche l’avvio alla costruzione di una società più giusta. Ci rivelavano un versante dell’eroismo molto diverso da quello cui ci aveva abituato il patriottismo savoiardo e fascista, di cui la nostra infanzia era stata nutrita: un eroismo votato all’affermazione concreta di valori quali l’uguaglianza, la libertà del corpo e della mente.

Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui avevo assistito da vicino, a Roma, con mio cugino Luigi, all’hotel Imperiale a Via Veneto. Un piccolo commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo attacco con pistole e bombe a mano, un reparti di soldati tedeschi che percorrevano la centrale via Rasella. 32 soldati erano stati uccisi. Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un gruppo formato da 10 persone per ogni tedesco ucciso e di liquidarli per rappresaglia. In realtà ne furono presi 335: militari e partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche persone che con la resistenza non c’entravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furono trucidati con le mitragliatrici, finiti con un diligente colpo di revolver, seppelliti con l’esplosione di mine.

Né quel giorno né il giorno dopo se ne seppe nulla: i giornali pubblicavano solo le notizie permesse dai fascisti, tacquero. Due giorni dopo un crudele comunicato, pubblicato sul “Messaggero”, diede la loro versione:

“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quell’ordine è già stato eseguito”[3].

Dopo la Liberazione il Comune bandì un concorso nazionale che condusse alla costruzione del più bell’episodio di architettura civile dell’Italia del secolo scorso, e forse uno dei più belli in assoluto. Lo disegnò un gruppo di giovani architetti e scultori[4]. Accanto alla roccia tufacea della cava un grande parallelepipedo si calcestruzzo, come una gigantesca lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua; accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati; un cancello molto tormentato segna l’ingresso al complesso, nel quale sono state ripristinate le cave nelle quali gli ostaggi furono raccolti e trucidati.

Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana si tentò di gettare fango su quell’episodio, definendolo un atto criminale dei comunisti (quasi riecheggiando le parole dell’ukase nazista). Ma la giustizia riabilitò l’operato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di legittimo atto di guerra[5].

[1] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953.

[2] Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Torino, Einaudi Editore, 1961.

[3] “Il Messaggero”, 25 settembre 1944

[4] Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia, Mirko Basaldella

[5] Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 6 agosto 2007, n. 17172

Per uscire dall'appiattimento della politica su ideologia e prassi dei Mercati, dall'ipocrisia degli economisti, «un insieme di saperi costruiti sulle evi­denze della vita quo­ti­diana di milioni di uomini, donne, vec­chi e bam­bini; sui loro biso­gni; sui loro desi­deri; e soprat­tutto sui loro mille talenti».

Il manifesto, 22 marzo 2014

Alcuni anni fa – era­vamo già in piena crisi – dopo una tra­smis­sione in cui un noto eco­no­mi­sta di sini­stra, non­ché colum­nist di un impor­tante quo­ti­diano, si era a lungo dif­fuso sulla neces­sità rimet­tere in moto la cre­scita, gli avevo chie­sto: ma dav­vero pensi che l’economia ita­liana possa tor­nare a cre­scere a breve? Mi aveva rispo­sto in modo peren­to­rio: in Ita­lia non ci sarà più cre­scita per almeno dieci anni. Da allora quell’economista–colum­nist ha pub­bli­cato arti­coli su arti­coli su come il paese può ripren­dere a cre­scere; ora, subito, ovvia­mente; non fra dieci anni.

A un altro eco­no­mi­sta–colum­nist che aveva pub­bli­cato, insieme a un terzo col­lega — suc­ces­si­va­mente risuc­chiato nel buco nero della lista “Fer­miamo il declino” di Oscar Gian­nino — un arti­colo molto citato dove soste­neva che per fer­mare lo spread biso­gnava ven­dere subito tutte le imprese di Stato, avevo chie­sto, qual­che mese dopo, se non avesse cam­biato idea. Per­ché quello che si può rica­vare da una ven­dita simile è irri­so­rio rispetto alla mon­ta­gna del debito pub­blico ita­liano. Mi aveva rispo­sto di sì; con­si­de­rava quell’articolo un errore. Da allora ha con­ti­nuato a scri­vere arti­coli su arti­coli per pro­pu­gnare la ven­dita di tutti gli asset di Stato. E per occu­parsi meglio della cosa è diven­tato anche un con­si­gliere di Renzi.

Que­sti epi­sodi, insieme ad altre rifles­sioni, mi hanno con­vinto che gli eco­no­mi­sti main­stream, o la grande mag­gio­ranza, non cre­dono asso­lu­ta­mente in quello che scri­vono. Sanno benis­simo, o sospet­tano for­te­mente, che con le loro ricette, o soprat­tutto a causa di esse, le cose non pos­sono che andare sem­pre peg­gio. Ma allora, per­ché lo fanno? Per­ché non rac­con­tano quello che vera­mente pen­sano? Il fatto è che non rie­scono a uscire dalla gab­bia con­cet­tuale in cui li impri­giona la loro disci­plina, ormai assurta al rango di pen­siero unico, senza più distin­zioni tra destra e sinistra.

Non sanno ragio­nare senza il pun­tello di cate­go­rie che riman­dano a un mondo che non esi­ste e non è mai esi­stito, dove tutto ruota intorno a un mer­cato imma­gi­na­rio, eretto a supremo rego­la­tore del creato, e a cui isti­tu­zioni, poli­tica, cul­tura, ambiente, e la vita stessa di miliardi di esseri umani, non pos­sono fare altro che adat­tarsi (o cer­care di farlo) adot­tando come unica regola di con­dotta una lotta di tutti con­tro tutti. Che loro chia­mano con­cor­renza o com­pe­ti­ti­vità. Però, al ter­mine mer­cato (al sin­go­lare) con il quale desi­gnano per lo più un mec­ca­ni­smo ano­nimo, imper­so­nale, tra­spa­rente, agìto in modo pre­te­rin­ten­zio­nale da milioni o miliardi di indi­vi­dui, hanno da tempo sosti­tuito il ter­mine “mer­cati” (al plu­rale), che allude invece a un potere opaco – ano­nimo solo per­ché i suoi deten­tori agi­scono nell’ombra – con­cen­trato in mano a pochis­sime entità che domi­nano il mondo con la finanza. Ecco spie­gata in modo sem­plice la loro afa­sia su ciò che sta suc­ce­dendo: una gigan­te­sca espro­pria­zione di miliardi di esseri umani per con­cen­trare la ric­chezza in un pugno sem­pre più ristretto di pri­vi­le­giati. Molti di loro, in realtà, lo sanno benis­simo e die­tro a tanta teo­ria non c’è che la difesa dell’ordine esi­stente, per quante cri­ti­che, peral­tro asso­lu­ta­mente mar­gi­nali, gli rivolgano.

Ci sono molti pre­ce­denti sto­rici di un approc­cio con­cet­tuale del genere, che Marx chia­mava ideo­lo­gia; ma uno è più chiaro di tutti. E’ il con­flitto che aveva spinto la Chiesa cat­to­lica e l’inquisizione a man­dare al rogo Gior­dano Bruno e a imporre una ritrat­ta­zione a Gali­leo Gali­lei per difen­dere una con­ce­zione dell’universo con­so­li­data in una dot­trina da cui discen­deva l’immutabilità dell’ordine gerar­chico della società del tempo. Anche allora gli inqui­si­tori di Gali­leo non cre­de­vano a quello che soste­ne­vano: per que­sto si rifiu­ta­vano di guar­dare nel tele­sco­pio che mostrava due satel­liti di Giove che “buca­vano” la sfera cele­ste, met­tendo in forse la sua per­fe­zione cri­stal­lina e, con essa, quella dell’ordine sociale.

Ma oggi a bucare i cieli del pen­siero unico non ci sono solo due pic­coli satel­liti, ma diversi gigan­te­schi buchi neri. Per restare in Europa, il primo è la Gre­cia, il paese-cavia degli espe­ri­menti cor­ret­tivi della Troika, che anche il nostro attuale mini­stro dell’economia, solo tre anni fa, spac­ciava come un’amara medi­cina che avrebbe risa­nato il paese. Il paese non è stato affatto risa­nato; anzi, è stato con­dan­nato al rogo come Gior­dano Bruno. E il suo popolo è ancora in vita solo per­ché sta lot­tando con tutte le pro­prie forze con­tro quei fami­ge­rati memo­ran­dum; cioè con­tro le con­se­guenze di poli­ti­che che, come ci ricor­dava Luciano Gal­lino (la Repub­blica, 15 marzo), vanno con­si­de­rate un vero e pro­prio «cri­mine con­tro l’umanità». Eppure quella medi­cina i soste­ni­tori del pen­siero unico insi­stono a pro­pi­narla; la loro scienza non può sba­gliare; d’altronde a morine è solo il paziente. Ma in quel can­noc­chiale pun­tato sulla Gre­cia, qual­cuno dei nostri eco­no­mi­sti–colum­nist ha pro­vato a guardare?

Un secondo buco nero, che non richiede nem­meno un bino­colo per essere visto, è una meteo­rite che sta per pre­ci­pi­tare sul nostro già deva­stato paese, e su molti altri, per ridurli in poco tempo in cenere come la Gre­cia. Si chiama fiscal com­pact e pre­vede per le finanze dell’Italia, a par­tire dall’anno pros­simo, l’esborso di circa 50 miliardi all’anno, per venti anni di seguito, per resti­tuire una parte cospi­cua del debito pub­blico del nostro paese. Cin­quanta miliardi che si andranno ad aggiun­gere ai quasi 100 che già sbor­siamo ogni anno, sotto forma di inte­ressi, ai cre­di­tori (pri­vati) dello Stato ita­liano; soprat­tutto da quando è stato rea­liz­zato il fami­ge­rato divor­zio tra Governo e Banca d’Italia; la quale, da allora non ha più potuto finan­ziare il defi­cit della spesa pub­blica. Cumu­lando gli inte­ressi che lo Stato ita­liano ha pagato da allora, infatti, e per nes­sun altro motivo, si è andato costi­tuendo quel mostruoso debito pub­blico che oggi viene invece impu­tato a una popo­la­zione sac­cheg­giata e impo­ve­rita, che secondo gli eco­no­mi­sti main­stream sarebbe vis­suta per anni al di sopra delle sue pos­si­bi­lità. Quel divor­zio, peral­tro, ha poi for­nito alla Bce il modello dello sta­tuto che la esclude dal ruolo di pre­sta­tore di ultima istanza; e che è all’origine della mag­gior parte dei colpi inferti alla soli­da­rietà e alla soli­dità dell’Unione europea.

Per que­sto, sia detto di sfug­gita, uscire dall’euro, posto che sia fat­ti­bile, non ci resti­tui­rebbe certo un pre­sta­tore di ultima istanza: un’istituzione che può invece venir rein­tro­dotta solo con una lotta con­dotta a livello euro­peo. Bene, in quel bino­colo nes­sun eco­no­mi­sta–colum­nist sem­bra dispo­sto a guar­dare: cioè a spie­gare da dove lo Stato ita­liano potrà mai tirar fuori tutto quel denaro; ovvero quale tasso di cre­scita sarebbe neces­sa­rio rag­giun­gere – e subito! – per far fronte a un impe­gno simile. Pre­fe­ri­scono discet­tare, incen­sando il nuovo pre­mier come ave­vano fatto con tutti quelli venuti prima di lui, sui due o quat­tro deci­mali di punto per­cen­tuale su cui potrebbe gio­care Renzi per far qua­drare i conti senza far arrab­biare troppo la Com­mis­sione euro­pea. Ma può quel che resta del tes­suto pro­dut­tivo ita­liano, non dico cre­scere, ma reg­gere ancora a lungo, se lo Stato destina ogni anno alla ren­dita un decimo del Pil? Nes­suna rispo­sta in pro­po­sito sem­bra venire dai poli­tici e dagli eco­no­mi­sti che stanno man­dando anche noi al rogo.

Il fatto è che per scru­tare sia le viscere di quei poteri dove si accen­tra ormai quasi metà della ric­chezza della Terra, sia l’universo di una popo­la­zione mon­diale – e nel suo pic­colo, ita­liana — pro­le­ta­riz­zata, impo­ve­rita, sfrut­tata, inde­bi­tata e sospinta ai mar­gini di una vita decente, ci vogliono ben altre disci­pline che non l’economia main­stream, di destra o di sini­stra. Ci vuole una scienza nuova che can­celli dalla fac­cia della terra tutti i quei pre­giu­dizi; una scienza come quella con cui Gali­leo aveva fatto piazza pulita dell’universo tole­maico. O, forse, non una scienza vera e pro­pria, con tutti i palu­da­menti che accom­pa­gnano que­sto ter­mine, ma un insieme di saperi costruiti guar­dando in fac­cia il mondo com’è. Dei saperi costruiti sulle evi­denze della vita quo­ti­diana di milioni di uomini, di donne, di vec­chi e di bam­bini; sui loro biso­gni; sui loro desi­deri; e soprat­tutto sui loro mille talenti. Le forze che si stanno rac­co­gliendo in Europa intorno alla can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras alla Pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea – e che riven­di­cano una revi­sione radi­cale dei trat­tati che rego­lano l’Unione, la remis­sione di una parte sostan­ziale dei debiti e un grande piano di lavori pub­blici per ricon­durre il paese alla soste­ni­bi­lità ambien­tale — pos­sono essere un punto di rife­ri­mento per pre­sen­tare oggi, e far valere sem­pre più domani, una visione del mondo alter­na­tiva e una pro­spet­tiva radi­cal­mente diversa da quella con­ce­zione tole­maica del mer­cato come “riso­lu­tore di ultima istanza” dei nostri pro­blemi che ci sta con­dan­nando tutti al rogo.

Quando la sinistra rompe i recinti che la dividono e ragiona sulla base dei principi che la uniscono riesce a tracciare prospettive programmatiche convincenti. Il

manifesto, 21 marzo 2014
Fer­mare l’austerità, espan­dere la demo­cra­zia, con­trol­lare la finanza. Que­ste le parole d’ordine emerse dal forum «Ano­ther Road for Europe», orga­niz­zato mer­co­ledì al Par­la­mento euro­peo dalla Rete euro­pea degli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti (euro-pen), di cui fanno parte Sbi­lan­cia­moci!, Euro­Me­mo­ran­dum, Eco­no­mi­stes Atter­rés fran­cesi, Trans­na­tio­nal Insti­tute e molti altri.

Pochi giorni prima del Con­si­glio euro­peo di ieri e a qual­che mese dalle ele­zioni, movi­menti e sin­da­cati hanno pre­sen­tato alle forze poli­ti­che euro­pee e nazio­nali – tra cui Gianni Pit­tella, vice-presidente del Par­la­mento euro­peo; il socia­li­sta fran­cese Liêm Hoang Ngoc, autore della recente mozione dell’Europarlamento con­tro la troika; Ste­fano Fas­sina del Pd; Giu­lio Mar­con e Gior­gio Airaudo di Sel; Monica Fras­soni dei Verdi e Jür­gen Klute del Gue [Sinistra Europea - n.d.r.] – le loro pro­po­ste per uscire dalla crisi. Rispetto al primo forum di due anni fa, sor­prende quanto si sia col­mata la distanza tra movi­menti e poli­tici, con que­sti ultimi che ormai fanno pro­prie molte delle argo­men­ta­zioni dei primi.

Segno della gra­vità della situa­zione, e di una sem­pre più dif­fusa presa di coscienza (anche tra i social­de­mo­cra­tici) del fatto che il Tita­nic Europa – come lo defi­ni­sce Ste­fano Fas­sina – sta cor­rendo dritto verso l’iceberg, e che l’unica sal­vezza per il con­ti­nente è un radi­cale cam­bio di rotta, che includa una revi­sione pro­fonda dell’architettura stessa dell’Ue, e che non può limi­tarsi a nego­ziare qual­che punto di per­cen­tuale di mar­gine sul rap­porto deficit/Pil del 3%, su cui Renzi sem­bra aver incen­trato tutta la sua stra­te­gia euro­pea. Tro­vando comun­que delle impor­tanti con­ver­genze isti­tu­zio­nali. «Biso­gna ridi­scu­tere il fiscal com­pact, per­met­tere ai paesi in crisi di supe­rare il limite del 3% e aprire un dibat­tito sulla revi­sione dei cri­teri fiscali di Maa­stri­cht». A dirlo non è un atti­vi­sta di Attac ma Gianni Pit­tella, vice-presidente del Par­la­mento euro­peo, che aggiunge: «Serve un grande piano di inve­sti­menti pub­blici euro­pei per rilan­ciare la cre­scita e la domanda».

Tutti d’accordo sulla neces­sità di nuovi inve­sti­menti, ma c’è chi pun­tua­lizza che non si esce dalla crisi sem­pli­ce­mente rilan­ciando lo stesso modello che di que­sta crisi è in parte la causa. «La cre­scita è impor­tante», chiosa Luciana Castel­lina, «ma altret­tanto impor­tante è dire quale cre­scita: le poli­ti­che indu­striali devono ser­vire anche per riqua­li­fi­care la pro­du­zione (soprat­tutto quella ener­ge­tica) in chiave soste­ni­bile, rio­rien­tare la domanda e creare lavoro».

La cen­tra­lità del lavoro nella ripresa euro­pea è stata riba­dita da Ronald Jans­sen della Con­fe­de­ra­zione euro­pea dei sin­da­cati (Etuc): «La pres­sione com­pe­ti­tiva sui salari sta aggra­vando la reces­sione, ucci­dendo la domanda e spin­gendo l’Europa verso la defla­zione. Biso­gna smet­tere di vedere il lavoro come un fat­tore di com­pe­ti­ti­vità ma come uno stru­mento di cre­scita e di sta­bi­lità, a par­tire dall’introduzione di uno stan­dard euro­peo sul sala­rio minimo e dalla difesa del modello sociale euro­peo».

Se il rilan­cio del lavoro è cen­trale per argi­nare la defla­zione e ridurre le disu­gua­glianze, altret­tanto lo sono le poli­ti­che mone­ta­rie della Bce, che devono essere radi­cal­mente rifor­mate per far ritor­nare l’inflazione almeno al 2% e per­met­tere alla banca cen­trale di offrire liqui­dità agli stati e agire da pre­sta­trice di ultima istanza sul debito dei sin­goli paesi e sugli euro­bond emessi col­let­ti­va­mente dall’eurozona, cru­ciali per sta­bi­liz­zare il debito pub­blico.
Pur rico­no­scendo l’importanza degli euro­bond, Ste­fano Fas­sina e altri hanno sot­to­li­neato però che il debito pub­blico ha rag­giunto livelli inso­ste­ni­bili in molti paesi (a par­tire dalla Gre­cia), e che l’istituzione di mec­ca­ni­smo di ristrut­tu­ra­zione del debito – uno dei punti cen­trali del pro­gramma euro­peo di Tsi­pras – è un pas­sag­gio ormai ine­lu­di­bile. Se cre­diti e debiti sono due facce della stessa meda­glia, lo sono anche i sur­plus e defi­cit com­mer­ciali che sono alla base degli squi­li­bri della bilan­cia dei paga­menti inter-europea. Per que­sto – come ha spie­gato Jordi Angu­sto di Eco­no­Nue­stra, gruppo di eco­no­mi­sti ete­ro­dossi spa­gnoli – «è sui­cida pen­sare di ridurre gli squi­li­bri com­mer­ciali sem­pli­ce­mente costrin­gendo i paesi in defi­cit a tagliare i salari e ridurre la domanda, aggra­vando così la reces­sione. Ser­vono dei mec­ca­ni­smi che costrin­gano anche i paesi in sur­plus a fare la loro parte, sti­mo­lando la domanda interna». Ri-regolamentazione della finanza (a par­tire dalla rein­tro­du­zione dei con­trolli di capi­tale), ricon­qui­sta degli spazi di demo­cra­zia (a livello sia euro­peo che nazio­nale) e l’opposizione al Trat­tato tran­sa­tlan­tico di libero com­mer­cio (Ttip) alcuni degli altri temi trat­tati. Molto, insomma, il lavoro da fare. Soprat­tutto in vista delle ele­zioni di mag­gio. Anche per scon­giu­rare l’ipotesi di una “grande coa­li­zione” tra social­de­mo­cra­tici e con­ser­va­tori nel nuovo Euro­par­la­mento, che non potrebbe che decli­narsi sulla base di una tra­gica con­ti­nuità con quelle poli­ti­che che stanno tra­sci­nando l’Europa nel baratro.
«L'Ue tutela il diritto di asilo ma non accoglie i rifugiati, vieta espulsioni collettive e discriminazioni ma permette agli Stati di restringere gli accessi e di costruire centri di detenzione. E non concede il diritto di voto agli immigrati. In vent'anni, la «fortezza Europa» ha provocato 16 mila morti».

Sbilanciamoci.info, 21 marzo 2014

L'Europa che oggi sponsorizza e celebra con centinaia di manifestazioni e iniziative la Giornata mondiale contro il razzismo è la stessa che ha permesso la strage di Lampedusa del 3 ottobre, solo la più grave delle centinaia di naufragi che hanno attraversato il Mediterraneo. È quella che impone a chi è costretto a fuggire dal proprio paese di chiedere asilo nel primo paese europeo di arrivo, a meno che non sia provato e documentato che questo non è in grado di accoglierlo. Tutela il diritto di asilo, ma sino ad oggi ha accolto solo 56 mila degli oltre 2,5 milioni di profughi siriani (la Turchia ne ha accolti 656 mila, il Libano un milione).

L'Europa di oggi è quella che vincola la «cooperazione con i paesi terzi» alla sottoscrizione di accordi stringenti sul «contrasto dell'immigrazione irregolare» e che con la "direttiva della vergogna" ha stabilito che è possibile rinchiudere nei centri di detenzione i migranti senza documenti colpiti da un provvedimento di espulsione per 18 mesi. È, infine, quella che nella Carta dei diritti fondamentali vieta le espulsioni collettive e le discriminazioni "etniche", religiose o fondate sulle caratteristiche somatiche, prevedendo il «rispetto delle diversità culturali, religiose e linguistiche». Ma poi lascia che i singoli paesi membri possano negare o restringere l'accesso dei cittadini stranieri (ormai non solo di paesi terzi) ai servizi sanitari, assistenziali e previdenziali.

L'Unione Europea promuove regole comuni per rifiutare, respingere ed espellere i migranti di paesi terzi; disciplina le regole sul soggiorno e sulla circolazione dei migranti regolarmente residenti; ha definito uno status uniforme e procedure comuni in materia di asilo, ma lascia che siano i singoli stati membri a governare l'immigrazione per motivi di lavoro. Nè è prevista alcuna forma di armonizzazione delle politiche di «integrazione», ambito nel quale l'Ue può solo «incentivare e sostenere l'azione dei paesi membri». Così in Germania come in Italia e in Spagna si pongono limiti all'ingresso di lavoratori migranti, salvo poi farne lavorare a migliaia al nero e sottopagati nell'edilizia, nell'industria alimentare, nell'agricoltura o nelle ristrette mura domestiche, per svolgere quei lavori di cura che il sistema di welfare in via di smantellamento non assicura più. E ciò avviene anche nel pieno della crisi. In molti, espulsi dal mercato del lavoro, decidono di tornare nel paese di origine. I più restano.

Non di memoria dunque dovremmo parlare oggi, ma del presente. E l'Europa del presente è quella del rifiuto, della sofisticazione degli strumenti di sorveglianza e di militarizzazione dei mari e delle frontiere grazie al sistema Eurosur e all'agenzia Frontex: 2 miliardi e 496 milioni stanziati tra il 2007 e il 2013 per i due fondi per le frontiere esterne e per i rimpatri, ma solo 1 miliardo e 455 milioni per i fondi per i rifugiati e per «l'integrazione» dei cittadini di paesi terzi.

Nel 2012 i cittadini di paesi terzi stabilmente soggiornanti erano il 4,1% della popolazione europea, 20,7 milioni, ma non parteciperanno alle prossime elezioni europee perché non sono considerati cittadini e sono privi del diritto di voto. Potranno invece candidarsi i rappresentanti di quei movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti che vorrebbero cacciarli tutti. Sarebbe un errore lasciare che fossero loro a dettare l'agenda nella prossima campagna elettorale.

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