«Il legame tra le attività estrattive e terremoto non si può escludere».La
Repubblica, 11 aprile 2014
Non si può dire né sì né no, ma di certo non si può escludere. E di certo si deve continuare a indagare. Sarebbe questa la sintesi di un rapporto stilato per conto della Regione Emilia Romagna da un panel di esperti chiamati a dire se i terremoti che hanno colpito la regione nel 2012 possano aver avuto come concausa le attività estrattive del petrolio (che nella regione si praticano da decenni) e, più in generale, trivellazioni e perforazioni del suolo. Il rapporto non è ancora stato reso pubblico, ma già circola negli ambienti scientifici e politici. Se ne occupa l'ultimo numero della rivista scientifica Science, secondo la quale il documento è stato consegnato agli amministratori emiliani da almeno un mese, ma ci sarebbe imbarazzo nel parlarne. Non solo: la rivista americana precisa come sul rapporto si baseranno le decisioni in merito a nuove autorizzazioni per le attività estrattive nella regione.
Ed è molto probabile che la linea sarà quella della massima cautela. Il panel si chiama Ichese (Commissione tecnico-scientifica per la valutazione delle possibili relazioni tra attività di esplorazione per gli idrocarburi e aumento di attività sismica nel territorio della regione Emilia Romagna colpita dal sisma del mese di maggio 2012) ed è stato convocato dalla Regione guidata da Vasco Errani nel maggio del 2013: è composto da due esperti italiani e da tre stranieri che hanno effettuato sopralluoghi sia nelle aree colpite dal terremoto sia negli impianti petroliferi di Cavone, quelli contro i quali oggi si punta il dito. Ichese ha interpellato esperti, aziende e istituzioni. Ed è giunto alle conclusioni che Science riporta tra virgolette: il legame tra le attività estrattive e terremoto «non si può escludere ».
Da anni si sa che alcune attività umane possono causare terremoti. Non è mai stata una novità e gli scienziati hanno sempre preso l’ipotesi molto sul serio. L’idea è che il ricorso ad alcune tecniche geoingegneristiche, tra cui il famigerato fracking che però in Italia non si pratica, almeno non ufficialmente), se effettuato ad alta intensità può causare l'instabilità delle faglie su cui poggiamo i piedi. In particolare, il nesso è stato studiato laddove le ricerche di petrolio comportano trivellazioni numerose e profonde, come nel centro degli Stati Uniti. Indagini statistiche hanno rafforzato questo timore e alcuni degli ultimi terremoti in Texas e Oklahoma sono stati ritenuti probabili “figli” delle trivellazioni. Bisogna però considerare che al momento è molto difficile dire se un dato sisma è stato causato da una certa attività. Resta il fatto che quelli per i quali è stata ipotizzata una concausa umana sono stati pochi e, in ogni caso, più deboli di quelli generati solamente dalla natura in una specifica zona. Comunque, se i sospetti su certe responsabilità dell’uomo dovessero diventare forti, è probabile che non sarebbe solo la Regione Emilia Romagna a rivedere le proprie scelte sull’utilizzo del territorio.
Il rapporto di Ichesa, prosegue Science, spiega anche che rimuovere e reiniettare liquidi non basta a causare un terremoto più intenso di quanto non sarebbe senza quell’attività. Ma è possibile che la faglia coinvolta nella sequenza sismica del maggio di due anni fa fosse sul punto di muoversi e che l’uomo abbia accelerato il processo. Non solo: le attività estrattive nel sito di Cavone erano state aumentate dall’aprile del 2011 e questo stabilirebbe un legame temporale. Però, conclude la rivista, manca ancora un modello fisico di sostegno: insomma, ipotizzato il nesso, non è ancora chiaro come e perché funzioni. Science spiega infine di non aver ricevuto risposte sul rapporto né da parte degli estensori né da parte delle compagnie che sarebbero implicate, ma riferisce di altri sismologi per i quali questi legami sarebbero molto deboli e tutto il rapporto poco chiaro: l’impianto di Cavone, del resto, è molto piccolo e si trova ad almeno venti chilometri dall’epicentro.
La proposta del PD di Renzi «invece di cancellare il Senato, come dice la vulgata demagogica, lo vorrebbe riciclare come pensionato di lusso per quel ceto di amministratori politici locali e regionali che si affolla in cerca di altri incarichi pubblici e non vuole passare attraverso altre elezioni».
Il Manifesto, 11 aprile 2014
Inutile, davanti al vento di tempesta che sospinge le vele dell’opinione pubblica, ricordare che non tutto ciò che è nuovo è bene e tutto ciò che è conservazione è male: anche se tutti sappiamo quanto sia necessario conservare beni come l’ambiente, i beni culturali, i diritti umani, la memoria del passato, e così via.
Polemiche a parte, la discussione di merito si è svolta prevalentemente tra esperti di diritto: ogni parte ha sfoderato i suoi costituzionalisti. E tuttavia davanti all’importanza dei mutamenti oggi in via di ratifica ma anche alla lunga discussione e alle molte polemiche che li hanno preceduti negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qualche riflessione sulla genesi storica delle costituzioni.
È noto che da sempre le Costituzioni, materiali o scritte che siano, sono figlie di tempi agitati: guerre e rivoluzioni . Senza bisogno di risalire alla Costituzione di Atene, basta considerare la storia medievale e moderna degli stati europei: dallaMagna Charta e dal Bill of Right del Parlamento nella lotta contro la monarchia inglese del ’600 fino alla Costituzione degli Stati uniti d’America e a quelle della Francia moderna, si è trattato ogni volta di interventi regolatori dei rapporti formali di potere resi necessari da profonde trasformazioni nei rapporti sostanziali.
Il caso italiano conferma che all’introduzione o al cambiamento di Costituzione si arriva solo in momenti gravissimi, quando vi si è costretti dalla pressione di eventi straordinari. Non avremmo avuto la nostra Costituzione se non ci fosse stata una guerra perduta, seguita dalla perdita della sovranità nazionale e dall’auto-cancellazione delle istituzioni statali vigenti ratificata dal referendum istituzionale del 1946. Senza una feroce guerra civile, senza la Resistenza non ci sarebbe stato quel fermento di volontà innovativa che sopravvive ancora nella Costituzione repubblicana dandole un valore di esortazione ad andare al di là dell’esistente.
Si pensi a quel fondamentale secondo comma dell’art.3 sulla necessità di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che limitano di fatto libertà e uguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Mai come in questi tempi si è avvertita tutta l’importanza e l’angosciante attualità di questo testo, bandiera di una battaglia che riguarda ancora e sempre i lavoratori tutti intesi come persone, ma oggi soprattutto chi per non avere lavoro o per averlo precario e revocabile a piacere scivola nella categoria delle non persone.
E tuttavia non va dimenticato che alla nascita della Costituzione repubblicana si arrivò non per una rivoluzione popolare contro il regime precedente ma per effetto della ricezione del nuovo ordine mondiale in cui aveva finito per trovare collocazione lo sconfitto stato italiano. Questo aiuta a capire la debolezza e l’inefficacia della Carta costituzionale una volta ripartita la vita del paese sotto il saldo controllo di forze moderate e di apparati ereditati dallo stato fascista. Fu allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di una dialettica sana del conflitto sociale e politico, si aprì l’epoca del partito unico al potere e dell’opposizione bloccata da una insormontabile esclusione. L’Italia di allora fu uno dei paesi dove un solo partito aveva accesso al governo dello Stato: una delle uncommon democracies, secondo la definizione di T. J.Pempel evocata di recente da Sabino Cassese inGovernare gli italiani. Storia dello Stato (Il Mulino). Dunque, se rivoluzione ci fu con l’avvento della Costituzione repubblicana, si trattò ancora una volta di una specie particolare di rivoluzione.
Nella storia italiana si materializzò di nuovo un fantasma antico, quello della «rivoluzione passiva». Un concetto che Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, introdusse nel vocabolario politico italiano. Ricordiamolo: secondo lui quella rivoluzione napoletana era stata «passiva» perché importata da fuori e attuata da una minoranza , un’élite intellettuale, senza che ci fosse stata una coscienza,una partecipazione diffusa in mezzo al popolo. Quel fallimento dimostrava, secondo Cuoco, che nessuna rivoluzione poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filosofi» o essere imposta con «la forza delle baionette». Una Costituzione autentica come patto durevole di un popolo poteva nascere e mantenersi solo se adeguata alle caratteristiche, alla storia e alla cultura di quel popolo.
L’appuntamento per una nuova Costituzione si presentò alla metà dell ’800. Fu nel 1848 che prese forma lo Statuto albertino, un documento fondamentale della storia d’Italia. Era una costituzione octroyée, concessa dal sovrano sabaudo ai suoi sudditi, non conquistata da una rivoluzione popolare, ma dettata dal timore dei movimenti che agitavano l’Europa e in modo speciale la Francia. Ancora una rivoluzione passiva, dunque. E così si entra in quella stagione della storia d’Italia che è stata chiamata Risorgimento quando, per la prima volta sulla scena europea, prese forma un stato italiano unitario. Lo Statuto albertino fu esteso senza modifiche a tutta l’Italia di cui fu la Carta fondamentale dal 1861 al 1944 (con la cesura del Fascismo). Fu un fenomeno singolare: lo potremmo definire una fusione fredda, lontana come fu dal calore e dal rumore di popoli in rivolta, anzi compiuta proprio allo scopo di evitarne il rischio. Perché avvenisse questa trasformazione in punta di piedi ci volle la paura dello «spettro rosso» del comunismo, decisiva nel convincere le classi dominanti della penisola a rifugiarsi sotto la bandiera sabauda. Così quello Statuto fu non il frutto di una rivoluzione ma lo strumento di una restaurazione. E proprio così – restaurazione – la definì un appassionato osservatore della realtà italiana, Edgar Quinet. Bisognava – come ha scritto Giuseppe Tomasi di Lampedusa – che tutto cambiasse perché tutto restasse com’era.
Sulla questione della «rivoluzione passiva» doveva riflettere in prigione Antonio Gramsci in pagine che restano fondamentali e da rileggere in questo nostro presente. Il Risorgimento secondo lui era stato una «rivoluzione passiva», una «restaurazione»: una «reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari». Era mancata l’ iniziativa delle masse popolari , c’era stato ancora una volta lo scollamento con l’élite intellettuale del paese.
«Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto».
La Repubblica, 10 aprile 2014
Voleva punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.
Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue — l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona — se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».
Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale?
Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista.
Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale — e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.
Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione — mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia. Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri — non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?
Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene. A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.
«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose — l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).
Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita… ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero. Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo — come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).
D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?
Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Non è solo per avere meno tagli al welfare e più risorse finanziarie per il lavoro, l'ambiente e la povertà nel mondo, ma anche perchè la pace è un bene e la guerra un male. Il nostrto nemico non è nel mirino dei "sistemi d'arma", ma al centro dei opoiteri che ci domninano. Sbilanciamoci.info, 9 aprile 2014
1.700 addetti per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività. Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato il 9 aprile da Corporate Europe Observatory – CEO e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”.
Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco. Ogni regola, Direttiva, o ricerca passi da Parlamento, Commissione, BCE o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. “Probabilmente la lobby più potente del mondo”; parole non di un qualche gruppo di complottari, ma del Commissario Europeo Algirdas Semeta.
Così come non sono gruppi di complottari ma decine di parlamentari europei di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrivono un appello nel quale testualmente si segnala che “possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano. Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia”.
Questo “pericolo per la democrazia” diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto di CEO. In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1. Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento europeo su una Direttiva riguardante hedge fund e private equity, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario.
Al Parlamento europeo sono attivi gruppi come il European Parliamentary Financial Services Forum (EPFSF) che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento europeo e l’industria dei servizi finanziari”. Questo dialogo comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali JP Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri. E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in UE nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili.
Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.
Analogamente, il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 4 milioni per ONG, società civile e sindacati. Un rapporto superiore a 30 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, ONG e sindacati.
Lo squilibrio è se possibile ancora più impressionante quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti” ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, BCE o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche. In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo. Nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union 62 membri dal mondo finanziario, 0 da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse; sulla MIFID, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5; nel gruppo di esperti sui Derivati, 86 esperti del mondo finanziario, 0 tra Ong, consumatori o sindacati. Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati.
Se possibile va ancora peggio alla BCE, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”. La parola stakeholder viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. Il gruppo presso la BCE prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei.
I risultati? Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci. Il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi continua a lavorare indisturbato, mentre al culmine del paradosso sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita a ritrovarsi con il cerino in mano e a dovere accettare sacrifici e austerità.
La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di Direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati. La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto. A settembre 2013 il Commissario europeo Barnier annuncia tranquillamente in un comunicato stampa che “dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra”. Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo, a cinque anni dal fallimento della Lehman Brothers e oltre sei dallo scoppio della crisi, la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse.
Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio. In una recente intervista, Luciano Gallino ricorda che “il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati”. Da oggi riusciamo a capire un po’ meglio con quali mezzi e risorse tale straordinaria operazione di marketing sia stata e continui ad essere realizzata.
Il rapporto integrale è disponibile su: http://corporateeurope.org
Quello che può incuriosire, piuttosto, è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini, i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti dell’Unità e di Europa, gli spin doctors di complemento del Tg3, su lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vicedirettore della Stampa sulle «vecchie cinture di castità» …), tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni, il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto probabile che alcuni di questi “persuasi” proveranno un giorno vergogna del proprio involgarimento, una volta svanito l’effetto della fascinazione. Ma resta l’interrogativo sull’origine misteriosa di quel fascino improvviso. Che carisma è questo, che bypassa ogni lezione della storia, e fa cadere ogni barriera all’accesso alle menti, tanto da cancellare decenni di cultura critica, razionalista e democratica perché colpisce, ora, anche quei settori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?
Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini, uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico pagante. Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs act e dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati alla privatizzazione. Dice di aver abolito le province, come promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il trucco.
L’odiato intellettuale è odiato per questo. Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura. Unica consolazione: la constatazione che oggi, dell’“uomo di mondo” Callicle – che contrariamente all’“insulso” e “ingenuo” Socrate non inseguiva le nuvole e le idee -, nessuno ricorda neppure più il nome.
«». Il manifesto, 8 aprile 2014 (m.p.r.)
Vorrei invitare tutti (opinione pubblica, soggetti politici, responsabili istituzionali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota retorica dominante, dalla politica dello sberleffo, dalla fascinazione della frase ad effetto. Per guardare al merito delle cose. Impressiona, in effetti, vedere come la discussione pubblica sulle riforme costituzionali si svolga ormai prescindendo del tutto dai fatti e dal contenuto della riforma proposta. Alle critiche non si risponde nel merito, ma ci si limita ad adottare una strategia di delegittimazione delle persone (la polemica contro il «professoroni» ne rappresenta l’epitome). Partiamo allora dai fatti, per poi esprimere delle valutazioni.
Iniziamo dal metodo. Nel nostro ordinamento costituzionale al governo non spettano tutti i poteri, bensì solo alcune fondamentali, ma pur sempre definite, funzioni. Esso principalmente è titolare — assieme ad altri organi — dell’indirizzo politico che si realizza nel programma di governo. Tradizionalmente sfugge all’esecutivo la materia costituzionale ed è per questo che le iniziative per l’eventuale revisione della costituzione sono prese dal parlamento, che è l’organo a cui spetta il potere di revisione. La ragione sostanziale che porta a questa separazione di compiti (al governo l’ordinaria gestione del potere, al parlamento la straordinaria manutenzione del testo della costituzione) dovrebbe essere intuitiva e accettata da ogni persona che abbia consapevolezza dell’importanza del principio della divisione dei poteri: ad evitare il rischio che una maggioranza politica intervenga impropriamente sulle regole di tutti. È vero che abbiamo assistito — anche nel recente passato — ad iniziative governative per la modifica della costituzione, ovvero si possono richiamare esperienze di altri Stati. Non è dunque un «colpo di stato» (a proposito di toni eccessivi) quello che si è posto in essere con la presentazione da parte del governo di un disegno di legge di revisione del bicameralismo perfetto e del Titolo V. Ciò non toglie però che l’assunzione della responsabilità diretta della revisione da parte del governo Renzi evidenzia uno squilibrio a favore dell’esecutivo e a scapito del legislativo.
Ad evitare di aggravare lo scompenso si dovrebbe pensare di sottoporre alla più libera discussione il disegno del governo, soprattutto in sede parlamentare, che — si ripete — è l’organo titolare del potere di revisione. Invece, si assiste alla chiusura di ogni spazio di dibattito: si impone una tempistica (entro il 25 maggio la prima lettura del senato), si esclude ogni confronto con le diverse proposte presentate da gruppi di parlamentari (quella ben più meditata presentata da 22 senatori dello stesso partito di Renzi), si preannunciano improprie sanzioni politiche in caso di fallimento del progetto governativo (far fallire le ambizioni del leader di governo verrebbe sanzionato con il classico e un po’ inquietante «tutti a casa»). Comportamenti formalmente legali (tutto ciò che non è vietato e possibile), cionondimeno sostanzialmente privi di legittimità (ponendosi in contrasto con i principi di fondo del nostro ordinamento politico).
Per quanto riguarda il metodo, dunque, può dirsi che esso tende ad imporre una decisione, sottraendo al legittimo titolare del potere di revisione — ma anche al libero dibattito dell’opinione pubblica — ogni spazio di discussione. È possibile avanzare delle critiche sul metodo senza per questo essere messi all’indice e tacciati di ostacolare le riforme? La richiesta di discutere nel merito e nelle sedi appropriate le riforme costituzionali è una esigenza sentita sola da disprezzati «intellettuali militanti»? Il fatto — sempre richiamato — che sono trent’anni che si parla di riforme può rappresentare una giustificazione per non discutere più nulla proprio nel momento in cui si cerca di dare seguito a questo dibattito?
Passiamo ora al merito. Per quanto riguarda la riforma del senato ho già argomentato sul manifesto del 25 marzo la mia opinione. Ora vorrei pormi solo la domanda che a me pare essere quella fondamentale per poter giudicare la proposta avanzata dal governo. Dopo l’approvazione della riforma avremmo rafforzato o indebolito il sistema parlamentare? Sarebbe infatti assai discutibile cambiare per sbilanciare ulteriormente gli equilibri tra i poteri, a favore del governo e a scapito del parlamento. Non è allora tanto un’astratta modellistica costituzionale che viene in gioco (ovvero la sua versione propagandistica: riduzione dei costi e odio alla casta), quanto l’effettivo ruolo che si vuole assegnare ai distinti poteri. Come scrivono i costituzionalisti, si tratta di ridefinire gli equilibri incrinati della forma di governo parlamentare italiana. Qui scatta l’allarme: secondo alcuni la riduzione della seconda camera a organo privato di legittimazione diretta e di funzioni di garanzia, senza un corrispettivo aumento dei poteri dell’altro ramo del parlamento, nonché la concentrazione di ulteriori poteri nelle mani del governo (la «ghigliottina» per l’approvazione delle leggi), rende questa riforma costituzionale temibile. È un sospetto infondato? Discutiamone. E invece no, non si può fermare il treno delle riforme. Non c’è dubbio che alcuni costituzionalisti possono apprezzare l’impianto del disegno di legge governativo (ci sarebbe da stupirsi se così non fosse), ma forse si dovrebbe dare ascolto anche alle voci dissenzienti. La politica di delegittimazione delle critiche e delle persone non allineate non solo è una caduta di stile, ma anche un’altro argomento di preoccupazione di una possibile «svolta autoritaria». Una frase che ha fatto irritare molti e ha scatenato reazioni allarmate.
Anche in questo caso — al di là dei toni eccessivi da tutti utilizzati — andiamo alla sostanza. Il rilievo che i modelli democratici stiano subendo una torsione autoritaria non mi sembra molto originale. Sono decenni che si discute di una riduzione degli spazi di partecipazione e di progressiva concentrazione del potere. In Italia, poi, sono vent’anni almeno che si assiste ad un graduale slittamento verso forme sempre più autocratiche di gestione del potere. La vera questione è allora: la riforma costituzionale annunciata accentua o restringe la tendenza alla riduzione degli spazi di democrazia? Indebolire il parlamento, aumentare i poteri del governo, non stabilire misure di riequilibrio e di garanzia a fronte di una legge elettorale con cui si vuole forzare la rappresentanza per conseguire lo scopo di assegnare ad un solo competitore la maggioranza assoluta dei seggi nell’unica camera politica rimasta, mi sembra riveli la direzione di marcia. Non è ancora sufficiente per parlare di «svolta autoritaria»? In effetti, si potrebbe anche dire che si sta semplicemente proseguendo sulla stessa strada del passato. Scoprendo così, finalmente, quel è il segno della svolta annunciata.
Giunti a questo punto sarebbe veramente auspicabile una seria discussione sulle politiche costituzionali. Dovremmo anzitutto aver chiaro però che non si cambia la costituzione solo per ragioni d’immagine, bensì per invertire una rotta che ci ha condotto ad indebolire progressivamente il sistema parlamentare e ad un’eccessiva concentrazione ed autoreferenzialità dei poteri, non compensata da una mitologia della governabilità senza popolo. È proprio da quella parte della dottrina che oggi viene accusata di aver bloccato per trenta anni il cambiamento costituzionale che sono state avanzate le proposte più radicali. Per dirne una: perché anziché limitarci a differenziare il bicameralismo non pensiamo ad adottare un sistema monocamerale eletto a suffragio universale con sistema proporzionale?
Qualcuno, lasciandosi prendere da un eccesso polemico, ha ritenuto di poter assimilare questa ipotesi all’attuale proposta di riforma. Forse vale la pena allora spiegare quel’è la differenza abissale: in un sistema democratico il monocameralismo pretende la rinuncia ad ogni distorsione della rappresentanza (un sistema elettorale proporzionale). Altro che «la sera delle elezioni si conosce chi governa per i successivi cinque anni», sarebbe il ritorno alla centralità dell’Assemblea dei rappresentanti. Un vero cambio di rotta. Chi è disposto a seguire questa via «rivoluzionaria»?
Se non si volesse essere così radicali e ci si volesse limitare a differenziare il bicameralismo, se inoltre non si volesse rinunciare alla malsana idea di adottare un sistema elettorale che assicura la governabilità sacrificando la rappresentanza (nella perversa forma ideata dall’Italicum), si dovrebbe quantomeno assicurare che la seconda camera possa bilanciare l’accentramento dei poteri. Costituendosi come senato di garanzia i cui membri non siano espressioni delle istituzioni, bensì rappresentanti scelti in base al principio di pura proporzionalità, con uno statuto che assicuri un forte peso politico di controllo alle minoranze.
Ma è difficile, di questi tempi, solo adombrare possibili scenari alternativi, bisognerebbe far comprendere ai soloni della riforma, che cambiare una costituzione non è solo un problema di velocità, ma anche di equilibrio.
«Il governo non risponde alle critiche sulla riforma elettorale e su quella del Senato e attacca le persone. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. In confronto all’Italicum, la legge truffa del 1953 è un modello di garanzie. La riforma del Senato provocherà pasticci infiniti». Il manifesto, 5 aprile 2014
L’ALBA DEL RUANDA
di Pietro Veronese
«La prossima settimana sarà di nuovo un periodo difficile», dice Valérie Mukabayire. Sarà la penombra, la luce soffusa, la quiete della stanza dove stiamo parlando da un’ora, ma ho l’impressione che la compostezza di Valérie per un momento si incrini, le parole rallentino e i suoi occhi scuri si facciano lucidi. È solo un momento però. «Dobbiamo lavorare, andare avanti», aggiunge subito dopo una pausa.
La prossima settimana, a partire da lunedì 7 e per tutti i giorni successivi, sarà lutto nazionale in Ruanda. Il paese rivivrà i giorni del genocidio del 1994, quando 800mila, fors’anche un milione di Tutsi ruandesi e di Hutu che si opponevano alla carneficina vennero giustiziati all’arma bianca, a colpi di mazze e di machete, trasformando il paese in un gigantesco carnaio. Nella sostanziale indifferenza del mondo, durò cento giorni, fino ai primi di luglio, quando il Fronte patriottico ruandese entrò a Kigali e pose fine alle stragi. È stato il più grande massacro dalla fine della Seconda guerra mondiale, una delle pagine più atroci della storia dell’umanità: per l’efferatezza degli assassini, e per il mancato soccorso internazionale.
«Il genocidio è un lutto che non si elabora», scrive qui accanto [di seguito n.d.r.] Scholastique Mukasonga, ed è quello che credo di intravedere negli occhi di Valérie. Dei fatti del ‘94 siamo venuti a parlare esplicitamente solo alla fine, ma in Ruanda sono il riferimento implicito in tutto quello che si dice, così come a Murambi, Nyamata, Bisesero, Nyarabuye e altrove il verde smeraldo di uno dei Paesi più belli dell’Africa nasconde sotto un sottile velo di terra (e talvolta neppure quello) le pile di morti.
Valérie Mukabayire dirige la Casa della Pace, un centro che assiste le donne più povere di Kigali dando loro una formazione, un mestiere per aiutarle a farcela da sole. È un progetto molto bello, un piccolo successo che dura da dieci anni, interamente sostenuto da una piccola ong italiana che si chiama Progetto Ruanda. All’inizio, ricorda Valérie, tutte le donne assistite avevano le vite segnate dalla grande strage del ‘94: perché erano rimaste vedove, perché i mariti erano in prigione accusati di genocidio, perché erano giovani orfane che dovevano badare ai fratelli minori, perché erano ragazze-madri vittime di violenze sessuali. Le mogli delle vittime e dei sospetti aguzzini, insieme. «C’erano molti problemi, poi abbiamo scoperto che lavorando le une accanto alle altre la riconciliazione si faceva da sé».
Con gli anni le tensioni si sono stemperate e le donne hanno continuato a venire alla Casa della Pace spinte dalla perdurante povertà, più che dalle ferite aperte del genocidio. La vita è andata avanti. Il passato si è allontanato. È stato a questo punto del racconto che ho commesso l’errore di chiedere a Valérie dove era lei nell’aprile del 1994. È stato allora che la sua voce si è quasi spezzata. Senza spiegare né il dove né il come, mi ha detto che nel genocidio ha perso il marito, entrambi i genitori, tutti i fratelli. Si sono salvati insieme a lei i tre figli, all’epoca piccolissimi, nascosti a rischio della vita da alcuni amici.
A Immaculée Ingabire sono venuto a chiedere le ragioni di un’altra peculiarità del nuovo Ruanda: il potere delle sue donne. A differenza dal resto dell’Africa e di quasi tutto il mondo, il Parlamento, rieletto in settembre, è donna: 50 seggi su 80; molti portafogli ministeriali importanti sono affidati a donne e l’avanzata continua nelle amministrazioni locali, nel business, nelle professioni. Immaculée è una donna formidabile, alta, elegante, piena di autorità, una specie di zar anticorruzione nel ruolo di presidente della sezione ruandese di Transparency International. «Se è una conseguenza del genocidio? Sì e no. Sì, perché all’indomani dei massacri c’era un bisogno estremo di tutte le energie rimaste e gli uomini erano o morti, o in fuga all’estero, o in prigione. Le donne sono state chiamate a riempire quel vuoto e hanno dimostrato di essere all’altezza. Ma anche no, perché l’uguaglianza di genere è sempre statauna bandiera del Fronte patriottico. Dunque, quando il Fronte ha preso il potere, si è aperta una possibilità e le donne ne hanno subito approfittato. All’inizio non è stato facile: c’erano sì e no cento laureate in tutto il Ruanda, anche se molte sono tornate dall’esilio».
Kigali si prepara lentamente alla commemorazione di lunedì. Ai maggiori incroci della capitale compaiono grandi cartelli che annunciano il ventesimo anniversario e proclamano lo slogan delle celebrazioni: «Ricordare, unire, rinnovare». Forse il secondo punto è quello meno realizzato, anche se il parere di Valérie (e il credo ufficiale) è che la riconciliazione nazionale è avvenuta e i ruandesi non sono più né Hutu né Tutsi, ma tutti cittadini allo stesso titolo e senza distinzioni. Davanti a una birra, più di uno straniero residente è pronto a giurare che se solo il potere abbassasse un poco la guardia l’odio tornerebbe a prendere il sopravvento. Un buon motivo per non abbassarla, dunque, e anche se i commentatori internazionali sottolineano in questi giorni l’isolamento internazionale del Ruanda, accusato di destabilizzare la vicina Repubblica democratica del Congo e soprattutto di compiere assassinii politici mirati di esuli all’estero, la politica estera ruandese sembra ispirata a questo semplice principio: meglio soli che morti.
Sarà un caso, ma il mio taccuino ruandese continua a riempirsi di nomi di donne. Ritrovo Yolande Mukagasana, la prima e la più nota testimone del genocidio. Il suo primo libro, La morte non mi ha voluta, del1997,fu tradotto in tutto il mondo. In quelle pagine Yolande ha raccontato come nei primi giorni dell’aprile 1994 le uccisero i tre figli, il marito, fratelli, sorelle, cognati. Lei si salvò nascosta sotto l’acquaio nella cucina di una vicina. Per il decimo anniversario Yolande commemorò il genocidio con un articolo pubblicato sulla prima pagina di Repubblica. Dal 2011, dopo molti anni passati in Belgio, è tornata a vivere a Kigali. Nella sua vecchia casa, quella, mi dice, «dove accadde tutto». Il passato non passa, il lutto del genocidio non si elabora. Eppure Yolande si è fatta con gli anni più luminosa, più serena. Un po’ come il Ruanda.
I MIEI MAUSOLEI DI CARTA
PER CHI NON C’È PIÙ
di Scholastique Mukasonga
IL GENOCIDIO è un lutto che non si elabora. Io dico che la memoria della tragedia debba essere conservata e protetta, contro ogni forma di negazionismo. Noi abbiamo il dovere, la necessità, di non dimenticare nulla: le commemorazioni del ventesimo anniversario del genocidio ruandese si svolgono proprio per questo motivo, e nessun altro.
Allo stesso tempo, il Ruanda non deve rimanere ostaggio del suo spaventoso passato. Chi oggi arriva a Kigali non può che rimanere felicemente stordito dallo straordinario dinamismo della città. Io stessa, ogni volta che torno, stento a riconoscere la capitale che avevo lasciato qualche mese prima. I mattoni della vecchia chiesa dei missionari della Santa Famiglia sembrano essere i soli testimoni, muti ed incongrui, della tragedia che fu.
Ogni volta che ritorno nel mio Paese mi reco in pellegrinaggio a Gitagata, il villaggio dove la mia famiglia fu massacrata nel 1994. Laggiù la foresta ha ricoperto ogni cosa. E nessuno osa abitarci. Ogni volta che arrivo là, mi è sempre più difficile ritrovare il luogo dov’era costruita la nostra casa. Una volta in Ruanda c’erano dei boschi, sacri e intoccabili. Oggi ci sono altri luoghi che consideriamo tabù, resi sacri dalla morte.
Il Ruanda deve riconquistare la sua storia: è stata violentata fino agli anni Cinquanta da antropologi e storici che l’hanno raccontata in termini di guerre tra razze e di invasioni successive.Le tradizioni sono state demonizzate dai missionari e occultate dagli Hutu che le attribuivano solo alla cultura Tutsi. Per fortuna è apparsa una nuova generazione di storici che ha fornito un’altra lettura della nostra storia antica. Che certo non è idilliaca, ma non si basa su pregiudizi razzisti. La verità è che i ruandesi possono riconoscersi in un passato comune, animato dalla stessa cultura.
Sì, è stato il genocidio a rendermi una scrittrice. I miei primi due libri autobiografici li ho scritti al fine di erigere un mausoleo di carta per coloro i cui corpi non saranno mai ritrovati. Oggi, anche se il genocidio fa sempre da sottofondo nei miei libri, sono riuscita ad ampliare l’orizzonte di ciò che scrivo, grazie alla finzione. La donna ha sempre rivestito un ruolo importante nella società tradizionale ruandese. E non c’è dubbio che l’attuale governo favorisca al massimo la sua promozione. In politica siamo infatti andati ben oltre la semplice parità, poiché in parlamento si conta una larga maggioranza di donne. Il loro dinamismo è un’occasione enorme per il Paese.
Quello che vogliamo più di qualsiasi altra cosa è la giustizia. Anzitutto in Francia, che ha accolto numerosi presunti carnefici del genocidio. Un primo processo si è appena concluso. Il verdetto di colpevolezza dà speranza, ma vi sono ancora una trentina di persone accusate di crimini contro l’umanità. Quando verranno giudicate?
Scholastique Mukasonga è l’autrice di “Nostra Signora del Nilo” ( edito da 66thand2nd)
Postilla
Non tutti sanno che le tre etnie che popolavano il Ruanda da secoli (i Tutsi, gli Hutu e i Twa) hanno convissuto senza tensioni fino alla colonizzazione, nè che l’obbligo di dichiarare la propria appartenenza etnica sulla carta d’identità venne imposto dai colonialisti Belgi, e neppure che all’esplodere del massacro dei 100 giorni contribuì la crisi economica, derivante dall’improvviso crollo dei prezzi sul mercato internazionale di quei prodotti (in primo luogo tea) con i quali il colonialismo del Primo mondo aveva sostituito la ricca produzione agricola dell’economia di autoconsumo.
«La crisi infinita fa aumentare il divario tra il nord da una parte, il sud e l’est dall’altra. Le politiche dei Piigs aggravano la situazione: tagli a istruzione e ricerca, nessuna garanzia per chi rimane senza lavoro. La soluzione è inventare un modello sociale continentale, sottraendolo alle nazioni».
Il manifesto, 4 aprile 2014
Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Europea nel dettare le regole per affrontare la crisi ha ulteriormente indebolito lo spazio che hanno le politiche sociali e la costruzione di un modello sociale europeo nella costruzione della Unione.
Ovviamente, sia l’intensità di ciascuna di queste tre crisi distinte, il grado della loro interdipendenza, le risorse per affrontarli variano da paese a paese sulla base non solo della salute delle loro economie e del potere negoziale che hanno all’interno dell’Unione Europea, ma anche della lungimiranza che hanno avuto nel recente passato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più tempo si sono attrezzati per rispondere all’aumento nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro, alla richiesta di maggiore eguaglianza tra uomini e donne, ai bisogni provocati dall’invecchiamento, alla necessità di non sprecare le proprie risorse umane creando condizioni di pari opportunità tra i bambini per correggere le disuguaglianze nell’origine famigliare, che hanno capito che un mercato del lavoro mobile e flessibile aveva bisogno di rafforzare e modificare le proprie reti di protezione, sono stati colti meno impreparati dalla crisi, con strumenti più adeguati. Anche se in tutti i paesi vi sono tensioni attorno a se e come ridefinire gli strumenti di welfare.
In questo contesto, non solo le politiche di austerità, ma il discorso con cui sono state argomentate a livello Ue, il diverso uso delle sanzioni e dei richiami che vengono fatti se si sfora il patto di stabilità piuttosto che se non si realizzano gli obiettivi sociali ha fortemente indebolito i welfare state già in partenza più deboli e più bisognosi di riforma, come quello italiano, facendo passare l’idea che il welfare state sia la causa, se non della crisi tout court, del debito pubblico.
Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Il deficit sociale di alcuni paesi, tra cui l’Italia, con i tassi di povertà assoluta e deprivazione che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate – benché vistosamente lontani dagli obiettivi di Europa 2020 – non produce né richiami, né ripensamenti della politica di austerità
«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».
La Repubblica, 4 aprile 2014
«Ho fiducia nei cittadini di questo Paese. Sono convinto che le liste de “L’Altra Europa con Tsipras” troveranno le adesioni necessarie per partecipare a pieno titolo alle elezioni di maggio. Anzi, lancio un appello: Io, Alexis Tsipras, chiedo agli italiani di andare a firmare per l’unica vera forza politica controcorrente... ».
Lei dice: io non sono il candidato dell’Europa del Sud. Mi scusi ma lei chi rappresenta veramente?
«Io non sono il candidato di uno Stato o di una nazione, né di una periferia geografica e neppure rappresento alleanze fra Stati. Io sono un candidato della Sinistra Europea che presenta un programma politico e di priorità programmatiche per l’uscita definitiva e solidale dalla crisi e per la riconquista della democrazia in Europa. Sono il candidato di ogni cittadino europeo che combatte contro l’austerity, indipendentemente dal voto che questo cittadino esprime alle elezioni politiche nazionali e indipendentemente da dove questo cittadino vive».
Cosa pensa di Matteo Renzi e delle sue riforme del lavoro e costituzionali? Un dialogo con questo Pd sarà possibile?
«Non sono qui in Italia per criticare i vostri rappresentanti politici, tantomeno per commentare la vostra agenda di politica interna. Pensa che possa essere io a suggerire al vostro governo cosa deve fare e come lo deve fare o decidere quali interlocutori debbano scegliere i nostri compagni italiani? Assolutamente no. Le posso dire però che il signor Renzi va giudicato adesso e in futuro per le scelte che farà per il suo Paese e per il segno che esse porteranno. Sarà anche giudicato sulla base delle sue alleanze politiche in Europa».
Nel senso?
«Mi riferisco al percorso che Angela Merkel considera virtuoso per l’Italia, per la Grecia e per tutta la zona Euro. Bisogna sapere che quello è un binario morto».
Lei non è di quelli, come i populisti, che vogliono uscire dall’euro. Dopo le elezioni sarà inevitabile il dialogo con gli esponenti del Pse?
«Milioni di cittadini europei credono alla moneta comune, senza il corsetto dell’austerità, senza quelle politiche che allargano sempre di più la distanza tra ricchi e poveri in tutti i Paesi. Con i rappresentanti di questi cittadini possiamo trovare un linguaggio comune».
In Italia i dati sulla disoccupazione giovanile sono agghiaccianti. Si possono garantire nuovi posti di lavoro con nuove ricette?
«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».
Tsipras ma un’altra Europa è possibile?
«La storia dell’umanità è piena di sogni che sono diventati realtà. Queste elezioni sono un inizio potente per rifondare l’Europa».
C'è chi. come Zagrebelsky nell'intervista di Liana Milella, continua con tenacia a esprimere le ragioni della ragione. Ma c'è chi ha venduto la sua faccia a una ditta di demolizioni, e dietro la faccia non ha mai avuto un gran che. E ci sono le teste di paglia che lo seguono, e i caimani che gli indicano la strada.
La Repubblica, 3 aprile 2014
Lei non è mai stato tenero con chi ha messo o tentato di mettere mano alla Carta. Sono storiche le bacchettate a Berlusconi. Con Renzi non è che si sta superando?
«C’è un disegno istituzionale che cova da lungo tempo e che, oggi, a differenza di allora, viene alla luce del sole. Gli oppositori d’un tempo sono diventati sostenitori. Delle due, l’una: o tacere, con ciò acconsentendo di fatto, o parlare forte. È quanto s’è fatto col documento di Libertà e Giustizia».
Non la imbarazza che Grillo l’abbia firmato?
«Perché dovrebbe? Se, su una certa materia, si condividono le stesse idee… C’è un fondo d’intolleranza, in questa domanda che da molte parti ci è posta. M5S ha aderito all’appello per la difesa della democrazia costituzionale: è un brutto segno? Semmai, il contrario. Poi si vedrà».
È seccato perché Renzi ha detto che non dà retta a professori come lei e Rodotà?
«Non è questione di “dar retta”, ma di ragionare e soppesare gli argomenti. Sarà lecito invitare chi deve prendere le decisioni a considerare le cose “da tutti i lati”?».
E quale sarebbe il «lato» che manca?
«L’antiparlamentarismo. Ora s’abbatte sul Senato, capro espiatorio di mali collettivi. È un sentimento elementare che non s’accontenta di qualcosa ma vuole tutto. “Tutto” significa il demiurgo di turno: fuori i trafficanti della politica, i profittatori, i corrotti, gli incompetenti, i chiacchieroni. Eppure, negli anni trascorsi, non sono mancati gli avvertimenti. Si è chiesta “dissociazione”: per riconciliarsi con i cittadini. Siamo stati accusati di antipolitica, di populismo: noi, che ci preoccupavamo di quel che stava accadendo; loro, che preferivano non vedere. E ora, proprio di questo vento gonfiano le vele. Chi sono allora gli antipolitici, i populisti, i demagoghi?».
Ma è un nostalgico del bicameralismo perfetto?
«Per nulla. Ma per mettere mano a una riforma, bisognerebbe chiarirsene il senso. Qual è la vocazione di tutte le “seconde Camere”? I Senati devono corrispondere a un’esigenza di precauzione. La democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materialie spirituali. È una vecchia storia, alla quale non ci piace pensare. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi, i Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi: dovrebbero essere “conservatori di futuro”».
Il Senato finora non l’avrebbe fatto?
«Non in misura sufficiente. Per questo, non sono un nostalgico. Mi piacerebbe che si discutesse d’un Senato autorevole, elettivo, per il quale valgano rigorose norme d’incompatibilità e d’ineleggibilità, diverso dalla Camera dei deputati, sottratto però all’opportunismo indotto dalla ricerca della rielezione. Una volta, i senatori erano nominati a vita. Oggi, la nomina e la durata vitalizia non sarebbero “repubblicane”. Ma si potrebbe prevedere una durata maggiore, rispetto all’altra Camera (come era originariamente), e il divieto di rielezione e di assunzione di cariche politiche ».
Ciò significherebbe differenziare i poteri delle due Camere?
«Per ciò, si dovrebbe andare oltre il bicameralismo perfetto, non per umiliare ma per valorizzare: eliminare il voto di fiducia, ma prevedere un ruolo importante sugli argomenti “etici”, di politica estera e militare, di politica finanziaria che gravano sul futuro. Altro potrebbe essere il controllo preventivo sulle nomine nei grandi enti dello Stato, sul modello statunitense. Sarebbe uno strumento di lotta alla corruzione e di bonifica nel campo dove alligna il clientelismo. Insomma, ci sarebbe molto di serio da fare».
Il manifesto, 2 aprile 2014
La crisi italiana sta producendo uno dei fenomeni politici più inquietanti, oggi, in Europa: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emergente non al margine ma nel centro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movimenti così etichettati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere esecutivo, dal Governo stesso), assumendo come vettore (altro paradosso) l’unico partito che continua a definirsi tale.
E che fino a ieri tendeva a presentarsi, a torto o a ragione, come la principale barriera contro le derive autoritarie e populistiche. Mi riferisco al rozzo Stil novo introdotto da Matteo Renzi, con la convinzione che non si tratti, solo, di una questione di stile. O di comunicazione, come frettolosamente lo si classifica. Ma che tutto ciò che si consuma sotto i nostri occhi alluda a una mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell’immaginario politico che gli fa da contorno, in senso, appunto, populista.
Se infatti per populismo si intende l’evocazione (in ampia misura retorica) di un “popolo” al di fuori delle sue istituzioni rappresentative e per molti versi contrapposto alla propria stessa rappresentanza (al corpo dei propri rappresentanti riconfigurati in “casta”), allora non c’è dubbio che Renzi ne interpreta una variante particolarmente virulenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha varcato la porta di palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal Parlamento) per istituire un rapporto diretto capo-massa.
Le maniche di camicia ostentate nei palazzi del potere (come fosse il leader di un movimento di descamisados anziché provenire da una tradizione democristiana di lungo corso e da uno dei più formalistici pezzi dell’establishment quale è stato in questi anni il Pd). Il lessico da ricreazione scolastica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricordate? -, volutamente sgangherato, informalmente involgarito, con quello sguardo perduto lontano, nell’occhio delle telecamere per sembrare puntato sull’intimità delle famiglie, comunque oltre i volti preoccupati dei senatori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, esplicita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle molteplici strutture di mediazione del rapporto tra popolo e Stato, che siano le forme consolidate della democrazia rappresentativa (il Parlamento in primo luogo), o quelle sperimentate della rappresentanza sociale e dei gruppi di interesse (sindacati, Confindustria, liquidati tutti come concertativi). E di verticalizzare quel rapporto sull’asse personalizzato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.
Ora non c’è dubbio che in questa spericolata operazione Renzi può contare su un dato sacrosanto di realtà, costituito appunto dalla macroscopica crisi della Rappresentanza. Dei suoi soggetti e dei suoi istituti, ben visibile nei fatti di cronaca: nell’impotenza mostrata dal Parlamento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle vergognose scene che accompagnarono l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel discredito dei parlamentari (quasi tutti), dei consiglieri regionali, degli amministratori provinciali e comunali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elettivi, nessuno salvo. Persino nello status dei protagonisti attuali: nessuno dei tre leader che si spartiscono la scena, da Grillo, a Berlusconi a Renzi stesso è un “parlamentare”. Ma a differenza di chi di quella crisi non ha voluto neppur prendere atto (la precedente maggioranza Pd, che infatti si è andata a schiantare senza neppure capire perché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arrovellano per cercarne una uscita in avanti (noi della lista per Tsipras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quotarla alla propria borsa.
E’ il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo pure senza temere di apparire retrò, anti-democratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo. Decidere per decidere. Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque, quello che conterà al fine del consenso, non sarà un fatto concreto ma piuttosto il racconto di un fare (Crozza docet).
Per questo hanno ragione, terribilmente ragione, gli autori del documento di Libertà e giustizia, laddove denunciano il reale rischio di un autoritarismo di tipo nuovo. Basato sullo sconquasso dell’architettura istituzionale e sulla rottamazione dell’idea stessa di democrazia rappresentativa, fatta con giovanilistica noncuranza (con “studentesca spensieratezza”, per usare un’espressione gobettiana), nel quadro di una partita in cui l’azzardo prevale sul calcolo, la velocità sul pensiero. E’ possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi “vada a sbattere”. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta ad ogni mano perduta, alla resa dei conti (all’emergere dell’iceberg sommerso del fiscal compact e delle decine di miliardi da pagare) faccia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vicinanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irreversibili) che è destinato a fare. Dentro questa forbice temporale, si gioca la possibilità di costruire un’alternativa politica, di sinistra, partecipativa, non arresa ai vincoli europei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaffare italiano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.
La Repubblica, 2 aprile 2014
La democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?A giudicare da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in un altro momento critico della storia recente.
«Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento », e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società ». Ai cittadini si chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata.
Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da Claudio Tito: «Per governare efficacemente nelXXIsecolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre».
Renzi non è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (Repubblica 29/3).
Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.
Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttivedel mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa».
Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblica di domenica. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essereelettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali.
L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto.
Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo».
Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si riferisca.
Salvare le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo. Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non più nazionalmente (è impossibile) ma per patriottismo costituzionale, come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima che Habermas resuscitasse il concetto.
«Il manifesto, 2 aprile 2014
Il disegno di legge costituzionale approvato ieri dal Consiglio dei ministri per il “superamento” del bicameralismo perfetto non ha il solo obiettivo che dichiara. Quello che declama è secondario, strumentale. La sostituzione del Senato paritario con questo fantomatico assembramento di presidenti di regione, di due delegati di ogni regione, di sindaci e di “nominati” dal Capo dello stato in numero corrispondente a quello delle regioni non mira solo allo svuotamento esplicito di potere di quel ramo del Parlamento (lo si potrà ancora chiamare cosi?) ma a qualcosa di più rilevante e inquietante.
Anche più che inquietante. Non uso a caso un termine di tal tipo. Di fronte abbiamo l’estremismo revisionista che sfocia nell’assolutismo maggioritario. Il superamento del bicameralismo del progetto renziano non è affatto diretto a concentrare in una sola Camera la forza della rappresentanza nazionale, come chi scrive propose alla Camere (IX Legislatura proposta di legge cost. n. 2452) in rigorosa coerenza con il costituzionalismo democratico della sinistra. Si viveva in ben altro clima, in una stagione della storia repubblicana del tutto diversa dall’attuale. Era il 1985, i partiti c’erano, erano di massa ed erano quegli stessi dell’Assemblea costituente, il regime elettorale era quello proporzionale, gli anticorpi allo strapotere delle maggioranza gli erano impliciti ed inestricabili.
Mira all’opposto del rafforzamento della rappresentanza popolare il disegno di Renzi, mira ad eliminarne una sede, un organo, una istituzione. Privato della partecipazione al potere di indirizzo politico, il Senato delle autonomie non eserciterà neanche una funzione legislativa di qualche rilievo. Non è organo parlamentare una assemblea che non la esercita, disponendo solo del potere di emendamento il cui esercizio non produce effetti di qualche consistenza. Ma come configurato, il Senato delle autonomie non può rilevare come espressione di una qualche forma di democrazia.
A comporlo non vi saranno rappresentanti della Nazione ma i mandatari degli enti regionali e comunali o perché titolari di organi di enti regionali o comunali o perché scelti da tali titolari di organi di enti regionali o comunali.
Come dimezzata, contratta, svuotata è la rappresentanza politica configurata dalla legge elettorale per la Camera dei deputati, il renzusconum. Il cui obiettivo — e lo abbiamo scritto e motivato — è la distorsione della rappresentanza parlamentare e la sua riduzione a funzione servente del premierato assoluto con tensione alla monocrazia.
il manifesto, 1° aprile 2014
Il governo ha approvato ieri un disegno di legge costituzionale che non ha i numeri per passare al senato. In questo senso la forzatura è doppia. L’esecutivo strappa al legislativo il potere di iniziativa sulla legge che è terreno comune di tutte le forze politiche, maggioranza e opposizione. In più la impone alla sua stessa maggioranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O questo o lascio la politica, dice il presidente del Consiglio. Da intendersi meglio: o questo o le elezioni anticipate.
Chi non vota questa riforma del parlamento, insiste Renzi, blocca il cambiamento. Sul piano della comunicazione semplice ha già vinto.
Renzi sta solo raccogliendo i frutti dei difetti reali del bicameralismo italiano, dei limiti reali della classe politica almeno dell’ultimo ventennio, e del vento freddo che soffia sulle istituzioni al quale ha spiegato le sue vele. Messa così non c’è analisi seria del progetto di legge che tenga, perché l’argomento che si deve cambiare e cambiare presto è più travolgente di qualsiasi ragionamento. Anche l’osservazione di partenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i contrari che i favorevoli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che voteranno sulla base delle loro convinzioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?
Molto poco è cambiato in queste tre settimane, da quanto il Consiglio dei ministri aveva reso pubblica la prima bozza. Chiedendo quei suggerimenti che non sono stati accolti. La riforma cambia il bicameralismo paritario italiano, senza avere il coraggio di scegliere fino in fondo il monocameralismo, ma tradendone la pulsione. Il senato viene quindi conservato, dopo mille proteste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qualcosa da fare. Procedimento rovesciato: Renzi non è partito dalle funzioni della camera alta per disegnarne la composizione, ma si è mosso dai risultati che voleva raggiungere — strombazzando quello (tutto da dimostrare) del risparmio economico — e ha adattato le forme. La conclusione è paradossale al massimo: i cittadini non eleggeranno i nuovi senatori, ma dovrebbero sentirsi più rappresentati da 150 esponenti delle elite politiche e culturali cooptati nel Palazzo. Il che pone un problema enorme di tradimento del principio della sovranità popolare. E fa saltare ogni garanzia di equilibrio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elettorale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.
Basta ragionarci un po’ su, fare calcoli semplici — in fondo non potendo noi frenare il cambiamento possiamo permetterci il lusso di giudicarlo. La legge elettorale approvata dalla camera permette a un solo partito, in ipotesi il Pd, che raggiunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di partiti più piccoli che restano sotto la soglia di sbarramento del 4,5%, di conquistare al primo turno la maggioranza assoluta della camera. Quel partito basta a se steso nel voto di fiducia al — naturalmente suo — presidente del Consiglio. Il parlamento diventa la cinghia di trasmissione dell’esecutivo, che in più avrà a disposizione lo strumento nuovo della «tagliola» sui suoi provvedimenti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a questo resta per l’esecutivo lo strumento del decreto legge, che la riforma presentata ieri da Renzi limita appena un po’, in ossequio a quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale.
Passando al senato, guardando all’appartenenza politica dei sindaci dei capoluoghi, dei presidenti di regione e dei consiglieri regionali che verosimilmente sarebbero scelti oggi, si può concludere che ancora il Pd avrebbe i numeri sufficienti per cambiare da solo la Costituzione, per quanto la revisione resti di competenza bicamerale. Per il delitto perfetto al primo partito mancherebbero solo pochi voti, ma potrebbe facilmente trovarli all’interno di quel «partito del presidente» che ha resistito nel passaggio di bozza in bozza. Saranno 21 i senatori nominati direttamente dal presidente della Repubblica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto decisivo quando avulso da qualsiasi legittimazione popolare, di primo o di secondo grado.
Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle istituzioni. E in quella discussione si colloca, schierandosi con una linea di pensiero precisa: quella che da sempre indica la soluzione nel rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Piccolo problema: è la stessa linea che ha ispirato le leggi elettorali maggioritarie e consentito l’indicazione diretta del presidente del Consiglio. I risultati li abbiamo conosciuti nell’ultimo ventennio. La riforma del senato aggiungerà un sovrappiù di rinunce sul versante parlamentare. Ma che l’intenzione sia quella di colpire più il simbolo che la sostanza lo dimostrano non solo le novità che la riforma introduce ma anche quelle che ha dimenticato per strada. Due su tutte, che avrebbero sì inciso nelle inefficienze del parlamento: la sfiducia costruttiva, che avrebbe consentito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di esprimere una maggioranza alternativa per un esecutivo diverso. E, finalmente, la sottrazione ai deputati del potere di decidere sui loro stessi titoli di ammissione in parlamento. È il privilegio che ha consentito le ripetute elezioni dell’inelegibile Berlusconi e che Renzi non tocca. Gli interessano più gli slogan, e le alleanze
Tassare i grandi patrimoni non è sbagliato, ed è in linea con la migliore tradizione degli USA, e non è vereo «che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica».
La Repubblica, 1° aprile 2014
E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».
Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo. La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.
E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».
E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?
Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?
A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale - lo 0,1 per cento più ricco della popolazione - è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti. Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.
Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?
©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Il vero populismo è quello di Renzi, e del codazzo che lo segue: a partire dai direttori della grande stampa d'"opinione unica". Ma Renzi è un frutto, non la radice. Il manifesto, 1° aprile 2014
«O con me o contro di me», sapendo che chiunque, «professoroni» o «benaltristi» oserà contraddirmi dovrà vedersela con la furia «dei cittadini, delle famiglie, di chi ha sempre pagato e ora si aspetta che a pagare siano i politici». L’appello al popolo è l’arma atomica brandita da Matteo Renzi contro le voci che criticano la sua riforma costituzionale approvata, all’unanimità, dal consiglio dei ministri.
Il ricatto del capo del governo ha dalla propria parte la forza d’urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra. E dunque vale la pena prendere questo toro per le corna, come ha fatto nei giorni scorsi Maurizio Landini nel corso di una manifestazione a Marzabotto. Il segretario della Fiom raccontava di essere stato fermato per la strada da un automobilista che gli chiedeva di dare una mano a Renzi. Proprio a lui che, sia sulle riforme costituzionali che del lavoro, ha sostenuto posizioni contrarie. «Come rispondiamo? Chiedendo qualche tavolo? E con quale forza di rappresentanza?».
Le parole di Landini spiegano meglio di tanti discorsi a che punto siamo e perché Renzi non è un coniglio uscito dalle primarie del Pd, ma un prodotto della crisi della politica, della sinistra, del sindacato. E spiegano perché l’opposizione dei costituzionalisti firmatari dell’appello contro la nuova Costituzione disegnata dal governo (tra i quali molte firme del nostro giornale) può facilmente essere bollata come una ridotta di parrucconi contrari al cambiamento.
Osservare che una riforma della Costituzione come quella presentata dall’unanime governo, combinata con una legge elettorale ipermaggioritaria, può determinare che il solo partito di maggioranza abbia mano libera, è bollato come un attentato al riformismo. Le voci dissonanti, da quelle del presidente del senato a quelle della sinistra radicale, è denunciato dal coro della grande stampa e dai tg come pericoloso disfattismo. Sul sito di repubblica.it, a proposito del decreto sul lavoro, il 29 marzo si poteva leggere la cronaca sui «i due punti intoccabili» del governo con la chiosa «così Renzi tenta di mettere ordine alle scomposte posizioni del suo partito». Un esempio di slittamento del linguaggio che annovera le opposizioni alle proposte del segretario-presidente come fuoco amico.
L’onda populista che spinge i giornali a farsi bollettini dei sondaggi, con gli editorialisti che vogliono salvarci dalla brace di Grillo e Casaleggio per friggerci sulla padella di Renzi, è cresciuta nel paese insieme e proporzionalmente all’arretramento della sinistra fino all’annullamento, culminato con la crisi economica, di qualunque visione non di alternativa, o di “equilibri più avanzati” come si sarebbe detto nella prima repubblica, ma dell’idea stessa di una democrazia costituzionale.
Sembra una farsa, ma è una tragedia.
Il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2014
"Per me nel Sud c’è una sola roba da fare: un unico Sharm El Sheik, dove ci va tutto il mondo in vacanza”. Parola di Oscar Farinetti, patron di Eataly e guru di Matteo Renzi, che così si è espresso ieri nel faccia a faccia con Andrea Scanzi su Reputescion (La3 Tv). Farinetti ha spiegato la sua teoria: “Il Sud è uno dei posti più belli del mondo: facciamo venire tutti i turisti del mondo lì. Aprirei a tutte le multinazionali del mondo affinché vengano a farlo. Concederei loro agevolazioni fiscali bestiali, non farei pagar loro le tasse per 10 anni. L’importante è che assumano tutti italiani, che usino prodotti alimentari italiani, tavoli, sedie italiane… farei enormi agevolazioni fiscali per le startup”. Poi la conclusione: “Il problema per cui non vengono ha un nome semplice: mafia. Hanno paura di quello”.
«Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno».
Sbilanciamoci, newsletter n. 318, 1 aprile 2014
Come ho spiegato più approfonditamente in un recente articolo, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.
Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.
L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.
Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.
E questo sarebbe solo l’inizio. In base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero, infatti, gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact costringerebbero l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno).[1] Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione. E questo ipotizzando delle condizioni economiche future (tasso di crescita, inflazione, ecc.) “al meglio”. Una strada insostenibile non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Come ha scritto Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore:
Se si considera il moltiplicatore fiscale si può dire che per effetto di una tale manovra il Pil scenderà di un altro punto percentuale e che quindi nemmeno la manovra aggiuntiva metterà i conti italiani in ordine. I cittadini saranno estenuati dalla dimensione della manovra e indignati per la sua inefficacia. A quel punto l'azione del governo sarà politicamente insostenibile. In conclusione: o si cambia strategia nei confronti dell'Italia (Marshall Plan, deroghe su debito e spesa per investimenti, intervento della troika) o l'architettura del Fiscal Compact dovrà essere modificata.[2]
Alla luce di ciò, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht. Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? O piuttosto le sue dichiarazioni vanno intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo).
Se fosse veramente così – e ovviamente ce lo auguriamo – Renzi però dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.
[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
[2] Carlo Bastasin, “L’Europa cambi linea”, Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2013
Ancora ombre nere sui protagonisti dell’assassinio di Aldo Moro, l’evento che rovesciò il senso della storia dell’Italia contemporanea, avviando in Italia (cinque anni dopo il colpo di Stato in Cile) la discesa lungo lo scivolo Craxi-Berlusconi-Renzi.
La Repubblica, 31 marzo 2014
Notizie giornalistiche riaprono i margini d’un terribile caso. Dopo 31 anni il Pci rimette piede nell’area governativa, alquanto diverso ab illo, votando fiducia al governo monocolore Dc, ma desta sospetti Giulio Andreotti (quattro volte premier), archetipo d’un versatile clericalismo reazionario, e circolano aggressivi malumori. Le Camere votano giovedì 16 marzo 1978.
La svolta conflittuale è opera d’Aldo Moro, cattedratico penalista. Quel mattino esce in via Forte Trionfale n. 79, dove l’aspettavano due automobili, 130 blu, Alfetta bianca e i cinque della scorta. In via Fani era appostato un commando delle imperversanti Brigate Rosse: la scorta tamquam non sit; li abbattono come sagome al bersaglio e lo sequestrano. L’iconografia indica un signore gentile, diverso dalla fauna politica democristiana: porta sul viso un sommesso taedium vitae, congenitamente triste, stanco, annoiato; così appare nelle fotografie 18 marzo e 20 aprile, mandate dai sequestratori.
L’occulta “Prigione del popolo” ospita un processo: capo d’accusa avere servito lo Stato Imperialista delle Multinazionali (i terroristi recitano dogmi rudimentali); tortuosamente abile nel labirinto verbale, tiene in scacco gl’inquisitori. Nel partito aveva sostenuto che gl’innocenti non siano sacrificabili al rigorismo statolatrico; e lettere ai confrères contemplano uno scambio con guerriglieri detenuti: ipotesi estrema, intanto guadagna tempo confidando nelle ricerche. Qualche parola, sfuggita alla censura, suona come riferimento topografico (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, ed. 1983, 175s.). Non è un ago nel pagliaio: Joseph Fouché, ministro della polizia napoleonica, troverebbe il bandolo a colpo d’occhio; e l’omologo Francesco Cossiga vantava singolari abilità tecnocratiche. Dev’essersene dimenticato. In mano sua al Viminale comanda la P2, nel cui disegno va stroncata l’apertura al Pci: l’apparato dà spettacolo senza l’ombra d’un piano intelligente; omissioni, sviste, passi malaccorti; davvero lo cercano? Nell’immaginario collettivo le BR assurgono a potente ente metafisico.
Sincronicamente vanno in scena orribili pantomime. Vedendosi perso, sperava ancora uno scambio. Sul teorema umanitario sostenuto illo tempore chiama testimoni due eminenti democristiani: vero, risponde Luigi Gui; Paolo Emilio Taviani nega, duramente rimbeccato. Stavolta squadra i conti, fuori dei denti. Quel boss ribatte: «Non entro in polemica con le BR»; tanto vale dire che sia succubo dei terroristi, in preda a ignobile paura. Antonello Trombadori, comunista da salotto, e Indro Montanelli gl’intonano un requiem: non esiste più, moralmente morto; riposi in pace (ivi, 68-76, 97).
Che lo Stato dovesse raccogliere la sfida terrorista, l’aveva predicato subito Ugo La Malfa, e nel clamore mediatico qualche mistificatore coinvolgeva la futura vedova attribuendole massime matronali; non lo barattino (ivi, 47 ss.). L’ineguale partita prende cadenze d’inferno. Da 40 giorni abita un cunicolo largo 90 cm e lungo 3 metri: vi macina pensieri e scrive (anche un memoriale), riuscendo a non impazzire; era impresa enorme. Martedì 25 aprile, festa della Liberazione, gli statolatri gonfiano l’ugola: non è più lui, irriconoscibile, testimoniano 50 “vecchi amici”; al posto loro, anche lui sosterrebbe la linea dura, ciarla Flaminio Piccoli (ivi, 102-8). Stando al sicuro, scherniscono l’uomo in spaventoso pericolo. E resiste alla delusione quando Paolo VI implora un rilascio senza corrispettivo (le Br chiedevano 13 detenuti, contropartita impossibile). Questo passo gli salverebbe la vita se i guerriglieri avessero l’organo pensante. Il senso salta agli occhi. Sinora hanno vinto contro lo Stato guadagnando un capitale d’immagine: l’atto pietoso lo moltiplicherebbe; libero, A. M. pone problemi insolubili; ucciderlo è favore alla clique reazionaria.
E non significa niente che là dentro (nella balena democristiana) sia il più pulito? Lo stile Andreotti risplende quando Craxi propone un modico atto umanitario: niente vieta che se ne parli, ma il governo non ammetterà la minima deroga alle norme (l’afferma uno spregiudicatissimo illegalista, partner d’accordi mafiosi), né dimentica il lutto delle famiglie colpite dall’attentato in via Fani; morto chi lo scortava, muoia anche lui. Bel teorema cannibalesco. Il morituro tocca l’argomento con mano lieve nella lettera 4 aprile a Benigno Zaccagnini: la squadra era impari al compito; l’avesse adempiuto, «non sarei qui».
Basterebbe poco a deviare le serie causali giovedì 16 marzo, h. 8.55, ma l’agguato riesce, altrettanto la fuga. Gli restano 55 giorni d’agonia: vilipeso dalla platea, non piange né inveisce, nemmeno parlando d’Andreotti. Nel cunicolo e attraverso i ritagli, scopre una diabolica giostra del potere. L’ultima lettera alla moglie contiene addii e istruzioni sul funerale. Dio sa cos’avverrebbe se, essendosi improvvisamente svegliata qualche fibra cerebrale, martedì 7 le BR lo liberassero raccomandando cautela, perché esiste un fronte statale mortuario. Sabato 13 quanti Tartufi fingono cordoglio in San Giovanni. Vincono P2, Andreotti, Cossiga (s’è guadagnato una funesta carriera). Il Pci sbaglia partita. L’affarista emergente d’Arcore mette piede nell’etere, futuro Re Lanterna.
Corrono fili neri nella storia italiana tra i due secoli: degli oligarchi simulavano rigore etico, genuflessi davanti all’entità mistica “Stato” (da queste parti pochi sanno cosa sia); così liquidano l’innovatore: 36 anni dopo dei giudici devono stabilire se e come lo Stato coesistesse transigente con temibili antagonisti criminali; puntuale, l’oligarchia tenta d’allungare le mani nel giudizio e oppone dei segreti. Meno visibile, ha ancora voce determinante l’ormai vecchio Re Lanterna, tre volte premier, egemone d’un ventennio, negromante dei media, smisuratamente ricco.
Intervista al presidente di Palazzo Madama che contesta la riforma proposta da Renzi.Resti un’assemblea di eletti: non dia la fiducia, ma si occupi di leggi costituzionali e etiche. La democrazia viene prima del portafoglio. Le parole del Presidente del Senato non è rivolto solo al caopetto, ma a tutti quelli vhe condividono la responsabilità di decidere.
La Repubblica, 30 marzo 2014
Sindaci e governatori nel nuovo Senato? «Ci sarebbe una sovrapposizione di poteri diversi ». Chi dovrebbe scegliere i futuri senatori? «Anche la gente». Il nome? «Sempre Senato». I rapporti tra Montecitorio e Palazzo Madama? «No al bicameralismo perfetto». La fiducia? «Solo alla Camera». L’obiettivo istituzionale? «La stabilità e la rappresentatività indicata dalla Corte costituzionale ».
Nel suo studio le foto sono soprattutto quelle della vita da magistrato, anche se spicca l’ultima con Papa Francesco. Lui, il presidente del Senato Pietro Grasso, ragiona solo da politico. Quando gli si dice che un accreditato gossip lo descrive come il futuro capo dello Stato, con aria visibilmente seccata, replica: «Non scherziamo. Io penso a fare bene il mio lavoro, e da presidente parlo della riforma del Senato, nel mio pieno ruolo istituzionale e super partes». E come si sente come probabile ultimo presidente di questo Senato? «Da fuori mi vedono come l’ultimo imperatore, io mi sento l’ultimo dei mohicani...».
Renzi è stato netto, ha detto «se il Senato non va a casa, vado a casa io». Domani esce il suo testo. Se vestisse i suoi panni che farebbe? «Quello che sta facendo lui, lavorando con tutte le mie forze per superare il bicameralismo perfetto, diminuire il numero dei parlamentari, semplificare l’iter legislativo». Ma da qui come la vede? Abolire il Senato è davvero necessario e indispensabile? «Aldilà delle semplificazioni mediatiche nessuno parla di abolire il Senato, ma di superare il bicameralismo attuale. L’urgenza è prima istituzionale che economica: dobbiamo accelerare il processo legislativo, senza indebolire la democrazia ».
Che aria ha avvertito nei suoi incontri con la gente, ritengono il Senato un’inutile fonte di sprechi? Un duplicato della Camera? Una perdita di tempo? Un residuo del passato? «Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta». E sarebbe? «Affidare a una sola camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato».
Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto? «Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini...». Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi... «Non è la stessa proposta, perché io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane ».
Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perché è contrario? «Perché ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ». Quindi un fifty-fifty? «Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso».
Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze. «Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni». E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perché gli eletti, proprio come quelli di illustri che siano? adesso, dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi? «Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità, solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».
Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa? «Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, né di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera». Di quali leggi dovrebbe occuparsi? «Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona». Solo questo? «Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi.
Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa». Prevede anche i senatori a vita o cittadini «L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».
Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile? «Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».
Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma? «Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato». Ne è davvero convinto o s’illude? «Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità, si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni».
Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile? «Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni». Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede? «Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum». Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perché? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma? «Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».
Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato? «Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».