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«Il legame tra le attività estrattive e terremoto non si può escludere».La

Repubblica, 11 aprile 2014

Non si può dire né sì né no, ma di certo non si può escludere. E di certo si deve continuare a indagare. Sarebbe questa la sintesi di un rapporto stilato per conto della Regione Emilia Romagna da un panel di esperti chiamati a dire se i terremoti che hanno colpito la regione nel 2012 possano aver avuto come concausa le attività estrattive del petrolio (che nella regione si praticano da decenni) e, più in generale, trivellazioni e perforazioni del suolo. Il rapporto non è ancora stato reso pubblico, ma già circola negli ambienti scientifici e politici. Se ne occupa l'ultimo numero della rivista scientifica Science, secondo la quale il documento è stato consegnato agli amministratori emiliani da almeno un mese, ma ci sarebbe imbarazzo nel parlarne. Non solo: la rivista americana precisa come sul rapporto si baseranno le decisioni in merito a nuove autorizzazioni per le attività estrattive nella regione.

Ed è molto probabile che la linea sarà quella della massima cautela. Il panel si chiama Ichese (Commissione tecnico-scientifica per la valutazione delle possibili relazioni tra attività di esplorazione per gli idrocarburi e aumento di attività sismica nel territorio della regione Emilia Romagna colpita dal sisma del mese di maggio 2012) ed è stato convocato dalla Regione guidata da Vasco Errani nel maggio del 2013: è composto da due esperti italiani e da tre stranieri che hanno effettuato sopralluoghi sia nelle aree colpite dal terremoto sia negli impianti petroliferi di Cavone, quelli contro i quali oggi si punta il dito. Ichese ha interpellato esperti, aziende e istituzioni. Ed è giunto alle conclusioni che Science riporta tra virgolette: il legame tra le attività estrattive e terremoto «non si può escludere ».

Da anni si sa che alcune attività umane possono causare terremoti. Non è mai stata una novità e gli scienziati hanno sempre preso l’ipotesi molto sul serio. L’idea è che il ricorso ad alcune tecniche geoingegneristiche, tra cui il famigerato fracking che però in Italia non si pratica, almeno non ufficialmente), se effettuato ad alta intensità può causare l'instabilità delle faglie su cui poggiamo i piedi. In particolare, il nesso è stato studiato laddove le ricerche di petrolio comportano trivellazioni numerose e profonde, come nel centro degli Stati Uniti. Indagini statistiche hanno rafforzato questo timore e alcuni degli ultimi terremoti in Texas e Oklahoma sono stati ritenuti probabili “figli” delle trivellazioni. Bisogna però considerare che al momento è molto difficile dire se un dato sisma è stato causato da una certa attività. Resta il fatto che quelli per i quali è stata ipotizzata una concausa umana sono stati pochi e, in ogni caso, più deboli di quelli generati solamente dalla natura in una specifica zona. Comunque, se i sospetti su certe responsabilità dell’uomo dovessero diventare forti, è probabile che non sarebbe solo la Regione Emilia Romagna a rivedere le proprie scelte sull’utilizzo del territorio.

Il rapporto di Ichesa, prosegue Science, spiega anche che rimuovere e reiniettare liquidi non basta a causare un terremoto più intenso di quanto non sarebbe senza quell’attività. Ma è possibile che la faglia coinvolta nella sequenza sismica del maggio di due anni fa fosse sul punto di muoversi e che l’uomo abbia accelerato il processo. Non solo: le attività estrattive nel sito di Cavone erano state aumentate dall’aprile del 2011 e questo stabilirebbe un legame temporale. Però, conclude la rivista, manca ancora un modello fisico di sostegno: insomma, ipotizzato il nesso, non è ancora chiaro come e perché funzioni. Science spiega infine di non aver ricevuto risposte sul rapporto né da parte degli estensori né da parte delle compagnie che sarebbero implicate, ma riferisce di altri sismologi per i quali questi legami sarebbero molto deboli e tutto il rapporto poco chiaro: l’impianto di Cavone, del resto, è molto piccolo e si trova ad almeno venti chilometri dall’epicentro.

La pro­po­sta del PD di Renzi «invece di can­cel­lare il Senato, come dice la vul­gata dema­go­gica, lo vor­rebbe rici­clare come pen­sio­nato di lusso per quel ceto di ammi­ni­stra­tori poli­tici locali e regio­nali che si affolla in cerca di altri inca­ri­chi pub­blici e non vuole pas­sare attra­verso altre ele­zioni».

Il Manifesto, 11 aprile 2014

Nella discus­sione intorno alle riforme isti­tu­zio­nali in corso in Ita­lia lo schema conservazione-innovazione si è sosti­tuito da tempo alla cop­pia antica destra-sinistra. Così si è giunti all’esito di defi­nire con­ser­va­tori i cri­tici delle pro­po­ste del governo Renzi, anche se qual­cuno ha ricor­dato (come un dato nega­tivo) che si tratta di figure appar­te­nenti alla «sini­stra radi­cale»: radi­cali ingua­ri­bili, attar­dati pro­fes­sio­ni­sti dello scontento.

Inu­tile, davanti al vento di tem­pe­sta che sospinge le vele dell’opinione pub­blica, ricor­dare che non tutto ciò che è nuovo è bene e tutto ciò che è con­ser­va­zione è male: anche se tutti sap­piamo quanto sia neces­sa­rio con­ser­vare beni come l’ambiente, i beni cul­tu­rali, i diritti umani, la memo­ria del pas­sato, e così via.

Pole­mi­che a parte, la discus­sione di merito si è svolta pre­va­len­te­mente tra esperti di diritto: ogni parte ha sfo­de­rato i suoi costi­tu­zio­na­li­sti. E tut­ta­via davanti all’importanza dei muta­menti oggi in via di rati­fica ma anche alla lunga discus­sione e alle molte pole­mi­che che li hanno pre­ce­duti negli anni scorsi, vale forse la pena di fare qual­che rifles­sione sulla genesi sto­rica delle costituzioni.

È noto che da sem­pre le Costi­tu­zioni, mate­riali o scritte che siano, sono figlie di tempi agi­tati: guerre e rivo­lu­zioni . Senza biso­gno di risa­lire alla Costi­tu­zione di Atene, basta con­si­de­rare la sto­ria medie­vale e moderna degli stati euro­pei: dallaMagna Charta e dal Bill of Right del Par­la­mento nella lotta con­tro la monar­chia inglese del ’600 fino alla Costi­tu­zione degli Stati uniti d’America e a quelle della Fran­cia moderna, si è trat­tato ogni volta di inter­venti rego­la­tori dei rap­porti for­mali di potere resi neces­sari da pro­fonde tra­sfor­ma­zioni nei rap­porti sostanziali.

Il caso ita­liano con­ferma che all’introduzione o al cam­bia­mento di Costi­tu­zione si arriva solo in momenti gra­vis­simi, quando vi si è costretti dalla pres­sione di eventi straor­di­nari. Non avremmo avuto la nostra Costi­tu­zione se non ci fosse stata una guerra per­duta, seguita dalla per­dita della sovra­nità nazio­nale e dall’auto-cancellazione delle isti­tu­zioni sta­tali vigenti rati­fi­cata dal refe­ren­dum isti­tu­zio­nale del 1946. Senza una feroce guerra civile, senza la Resi­stenza non ci sarebbe stato quel fer­mento di volontà inno­va­tiva che soprav­vive ancora nella Costi­tu­zione repub­bli­cana dan­dole un valore di esor­ta­zione ad andare al di là dell’esistente.

Si pensi a quel fon­da­men­tale secondo comma dell’art.3 sulla neces­sità di rimuo­vere gli osta­coli di ordine eco­no­mico che limi­tano di fatto libertà e ugua­glianza dei cit­ta­dini e impe­di­scono il pieno svi­luppo della per­sona umana e l’effettiva par­te­ci­pa­zione dei lavo­ra­tori all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del Paese. Mai come in que­sti tempi si è avver­tita tutta l’importanza e l’angosciante attua­lità di que­sto testo, ban­diera di una bat­ta­glia che riguarda ancora e sem­pre i lavo­ra­tori tutti intesi come per­sone, ma oggi soprat­tutto chi per non avere lavoro o per averlo pre­ca­rio e revo­ca­bile a pia­cere sci­vola nella cate­go­ria delle non persone.

E tut­ta­via non va dimen­ti­cato che alla nascita della Costi­tu­zione repub­bli­cana si arrivò non per una rivo­lu­zione popo­lare con­tro il regime pre­ce­dente ma per effetto della rice­zione del nuovo ordine mon­diale in cui aveva finito per tro­vare col­lo­ca­zione lo scon­fitto stato ita­liano. Que­sto aiuta a capire la debo­lezza e l’inefficacia della Carta costi­tu­zio­nale una volta ripar­tita la vita del paese sotto il saldo con­trollo di forze mode­rate e di appa­rati ere­di­tati dallo stato fasci­sta. Fu allora che, invece dell’alternanza al potere di forze diverse e di una dia­let­tica sana del con­flitto sociale e poli­tico, si aprì l’epoca del par­tito unico al potere e dell’opposizione bloc­cata da una insor­mon­ta­bile esclu­sione. L’Italia di allora fu uno dei paesi dove un solo par­tito aveva accesso al governo dello Stato: una delle uncommon demo­cra­cies, secondo la defi­ni­zione di T. J.Pempel evo­cata di recente da Sabino Cas­sese inGover­nare gli ita­liani. Sto­ria dello Stato (Il Mulino). Dun­que, se rivo­lu­zione ci fu con l’avvento della Costi­tu­zione repub­bli­cana, si trattò ancora una volta di una spe­cie par­ti­co­lare di rivoluzione.

Nella sto­ria ita­liana si mate­ria­lizzò di nuovo un fan­ta­sma antico, quello della «rivo­lu­zione pas­siva». Un con­cetto che Vin­cenzo Cuoco nel Sag­gio sto­rico sulla rivo­lu­zione napo­le­tana del 1799, intro­dusse nel voca­bo­la­rio poli­tico ita­liano. Ricor­dia­molo: secondo lui quella rivo­lu­zione napo­le­tana era stata «pas­siva» per­ché impor­tata da fuori e attuata da una mino­ranza , un’élite intel­let­tuale, senza che ci fosse stata una coscienza,una par­te­ci­pa­zione dif­fusa in mezzo al popolo. Quel fal­li­mento dimo­strava, secondo Cuoco, che nes­suna rivo­lu­zione poteva calare dall’alto, da «un’assemblea di filo­sofi» o essere impo­sta con «la forza delle baio­nette». Una Costi­tu­zione auten­tica come patto dure­vole di un popolo poteva nascere e man­te­nersi solo se ade­guata alle carat­te­ri­sti­che, alla sto­ria e alla cul­tura di quel popolo.

L’appuntamento per una nuova Costi­tu­zione si pre­sentò alla metà dell ’800. Fu nel 1848 che prese forma lo Sta­tuto alber­tino, un docu­mento fon­da­men­tale della sto­ria d’Italia. Era una costi­tu­zione octroyée, con­cessa dal sovrano sabaudo ai suoi sud­diti, non con­qui­stata da una rivo­lu­zione popo­lare, ma det­tata dal timore dei movi­menti che agi­ta­vano l’Europa e in modo spe­ciale la Fran­cia. Ancora una rivo­lu­zione pas­siva, dun­que. E così si entra in quella sta­gione della sto­ria d’Italia che è stata chia­mata Risor­gi­mento quando, per la prima volta sulla scena euro­pea, prese forma un stato ita­liano uni­ta­rio. Lo Sta­tuto alber­tino fu esteso senza modi­fi­che a tutta l’Italia di cui fu la Carta fon­da­men­tale dal 1861 al 1944 (con la cesura del Fasci­smo). Fu un feno­meno sin­go­lare: lo potremmo defi­nire una fusione fredda, lon­tana come fu dal calore e dal rumore di popoli in rivolta, anzi com­piuta pro­prio allo scopo di evi­tarne il rischio. Per­ché avve­nisse que­sta tra­sfor­ma­zione in punta di piedi ci volle la paura dello «spet­tro rosso» del comu­ni­smo, deci­siva nel con­vin­cere le classi domi­nanti della peni­sola a rifu­giarsi sotto la ban­diera sabauda. Così quello Sta­tuto fu non il frutto di una rivo­lu­zione ma lo stru­mento di una restau­ra­zione. E pro­prio così – restau­ra­zione – la definì un appas­sio­nato osser­va­tore della realtà ita­liana, Edgar Qui­net. Biso­gnava – come ha scritto Giu­seppe Tomasi di Lam­pe­dusa – che tutto cam­biasse per­ché tutto restasse com’era.

Sulla que­stione della «rivo­lu­zione pas­siva» doveva riflet­tere in pri­gione Anto­nio Gram­sci in pagine che restano fon­da­men­tali e da rileg­gere in que­sto nostro pre­sente. Il Risor­gi­mento secondo lui era stato una «rivo­lu­zione pas­siva», una «restau­ra­zione»: una «rea­zione delle classi domi­nanti al sov­ver­si­vi­smo spo­ra­dico e disor­ga­nico delle masse popo­lari con ‘restau­ra­zioni’ che accol­gono una qual­che parte delle esi­genze popo­lari». Era man­cata l’ ini­zia­tiva delle masse popo­lari , c’era stato ancora una volta lo scol­la­mento con l’élite intel­let­tuale del paese.

Uno scol­la­mento che oggi emerge di nuovo pur se in con­di­zioni sto­ri­che e sociali diver­sis­sime: il titolo di «pro­fes­sori», con la variante peg­gio­ra­tiva di «pro­fes­so­roni» ne è l’espressione più popo­lare. Le esi­genze di muta­mento sostan­ziale nell’assetto della catena di comando e di orga­niz­za­zione del con­senso nascono ancora una volta dall’esterno: dopo il crollo del muro di Ber­lino c’è stato quello degli assetti sta­tali davanti alla glo­ba­liz­za­zione come governo del mondo da parte della finanza inter­na­zio­nale. Da qui la neces­sità di ren­dere liquida la società e per­mea­bili gli esseri umani ai rapidi rias­setti di un sistema pro­dut­tivo fun­zio­nale all’illimitato arric­chi­mento di pochi .
Avremo dun­que ancora una volta una «rivo­lu­zione pas­siva». Se ne fa por­ta­tore un governo di emer­genza soste­nuto da un Par­la­mento di nomi­nati e da un pre­si­dente della Repub­blica da tempo con­vinto che il ritorno alle ele­zioni sia un male da evi­tare, una «scioc­chezza». Quello che sulle riforme costi­tu­zio­nali pro­po­ste fa aleg­giare il sospetto di una restau­ra­zione è il fatto che manca in tutto il dise­gno una parola impor­tante: la parola Par­tito. Se c’è oggi una realtà costo­sis­sima e che si è resa odiosa alla popo­la­zione attra­verso innu­me­re­voli scan­dali è pro­prio il sistema attuale dei par­titi. Mac­chine di potere refrat­ta­rie a qua­lun­que disci­plina di legge e sorde al refe­ren­dum dell’abolizione del finan­zia­mento pub­blico, assi­stono adesso a una sot­ter­ra­nea rina­scita. È il Par­tito che vin­cerà le future ele­zioni con l’Italicum (il nome lo lasciamo alla fan­ta­sia dei let­tori) l’entità che si cela die­tro la pro­po­sta di un Senato-fenice che muore e rina­sce dalle sue ceneri come Camera delle auto­no­mie. Camera non elet­tiva, benin­teso, che invece di can­cel­lare il Senato, come dice la vul­gata dema­go­gica, lo vor­rebbe rici­clare come pen­sio­nato di lusso per quel ceto di ammi­ni­stra­tori poli­tici locali e regio­nali che si affolla in cerca di altri inca­ri­chi pub­blici e non vuole pas­sare attra­verso altre ele­zioni. Una pic­cola pre­ghiera, dun­que: si eli­mini pure il Senato, ma senza resur­re­zioni sospette. Altri­menti la defi­ni­zione di con­ser­va­tori sarà meglio usarla per i «rinnovatori».

«Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto».

La Repubblica, 10 aprile 2014

La crisi dell’Europa non è, essenzialmente, una crisi economica. La crisi dell’Europa è una crisi mentale; di più: una crisi di immaginazione della buona vita al di là del consumismo. Gran parte dei critici dell’Europa, degli anti-europei, che ora alzano la loro voce, è prigioniera di una impolverata nostalgia nazionale. In questo senso argomenta ad esempio l’intellettuale francese Alain Finkielkraut: l’Europa ha creduto di potersi costituire senza, o addirittura contro le nazioni

Voleva punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.

Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue — l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona — se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».

Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale?

Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista.

Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale — e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.

Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione — mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia. Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri — non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?

Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene. A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.

«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose — l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).

Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita… ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero. Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo — come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).

D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?

Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Non è solo per avere meno tagli al welfare e più risorse finanziarie per il lavoro, l'ambiente e la povertà nel mondo, ma anche perchè la pace è un bene e la guerra un male. Il nostrto nemico non è nel mirino dei "sistemi d'arma", ma al centro dei opoiteri che ci domninano. Sbilanciamoci.info, 9 aprile 2014

1.700 addetti per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività. Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato il 9 aprile da Corporate Europe Observatory – CEO e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”.

Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco. Ogni regola, Direttiva, o ricerca passi da Parlamento, Commissione, BCE o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. “Probabilmente la lobby più potente del mondo”; parole non di un qualche gruppo di complottari, ma del Commissario Europeo Algirdas Semeta.

Così come non sono gruppi di complottari ma decine di parlamentari europei di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrivono un appello nel quale testualmente si segnala che “possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano. Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia”.

Questo “pericolo per la democrazia” diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto di CEO. In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1. Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento europeo su una Direttiva riguardante hedge fund e private equity, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario.

Al Parlamento europeo sono attivi gruppi come il European Parliamentary Financial Services Forum (EPFSF) che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento europeo e l’industria dei servizi finanziari”. Questo dialogo comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali JP Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri. E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in UE nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili.

Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.

Analogamente, il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 4 milioni per ONG, società civile e sindacati. Un rapporto superiore a 30 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, ONG e sindacati.

Lo squilibrio è se possibile ancora più impressionante quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti” ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, BCE o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche. In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo. Nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union 62 membri dal mondo finanziario, 0 da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse; sulla MIFID, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5; nel gruppo di esperti sui Derivati, 86 esperti del mondo finanziario, 0 tra Ong, consumatori o sindacati. Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati.

Se possibile va ancora peggio alla BCE, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”. La parola stakeholder viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. Il gruppo presso la BCE prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei.

I risultati? Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci. Il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi continua a lavorare indisturbato, mentre al culmine del paradosso sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita a ritrovarsi con il cerino in mano e a dovere accettare sacrifici e austerità.

La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di Direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati. La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto. A settembre 2013 il Commissario europeo Barnier annuncia tranquillamente in un comunicato stampa che “dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra”. Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo, a cinque anni dal fallimento della Lehman Brothers e oltre sei dallo scoppio della crisi, la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse.

Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio. In una recente intervista, Luciano Gallino ricorda che “il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati”. Da oggi riusciamo a capire un po’ meglio con quali mezzi e risorse tale straordinaria operazione di marketing sia stata e continui ad essere realizzata.

Il rapporto integrale è disponibile su: http://corporateeurope.org

Niente di nuovo sotto il sole. « Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore». Il manifesto, 9 aprile 2014

«Certo, Socrate, la filo­so­fia è un’amabile cosa, pur­ché uno vi si dedi­chi, con misura, in gio­vane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende ammi­ni­strare la città.
Così dice Cal­li­cle nel Gor­gia, il dia­logo pla­to­nico dedi­cato alla Reto­rica, e aggiunge che «chi si attar­dasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pre­ten­desse di dir la pro­pria sulle cose della Polis, fini­rebbe per infa­sti­dire e intral­ciare, per­ché ine­sperto delle “cose del mondo”: degli “affari” pri­vati e pub­blici, «dei costumi degli uomini nor­mali», tanto da «ren­dersi ridi­colo allo stesso modo in cui si ren­dono ridi­coli i poli­tici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragio­na­menti». E’, il suo, il primo esem­pio – un arche­tipo – di quel disprezzo per la cono­scenza e per i“sapienti” (per gli intel­let­tuali, appunto) che ritor­nerà infi­nite volte nelle zone gri­gie della storia.
Su chi fosse Cal­li­cle si hanno poche infor­ma­zioni. Com­pare come una meteora in quest’unico dia­logo, e poi scom­pare. Di lui si sa solo che era un gio­vane (più gio­vane di Socrate e anche di Pla­tone) molto ambi­zioso. Che mili­tava nel par­tito oli­gar­chico. E che era un sofi­sta nel senso prag­ma­tico del ter­mine, cioè un fau­tore di quell’intreccio tra sapere e affari che si pra­ti­cava nella scuola di Gor­gia (sorta di Cepu dell’età clas­sica), e di quell’idea della Reto­rica come arte della per­sua­sione altrui che teo­riz­zava il pri­mato del Discorso sulla Giu­sti­zia, sfor­nando schiere di pri­mi­ge­nii Ghe­dini ate­niesi. Volendo fare il gioco della tra­spo­si­zione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disa­strata Città, potremmo dire che Cal­li­cle incar­nava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, con­si­de­rate impacci. Peg­gio, inven­zioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per fre­nare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impe­dir loro di fare «e di pre­va­ri­care» (testual­mente nell’originale) come richie­de­rebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto com­piuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrol­larsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incan­te­simi, sor­ti­legi e leggi, che sono tutti con­tro natura».
Del secondo (e solo di que­sto) con­di­vi­deva il culto per la sen­sua­lità e l’intemperanza, per la dila­ta­zione del desi­de­rio e del pia­cere come cul­mine della feli­cità, nella con­vin­zione che «colui che intende vivere con ret­ti­tu­dine [«secondo natura»] deve lasciare che i pro­pri desi­deri s’ingigantiscano il più pos­si­bile e non deve met­tervi freno» per «saperli ser­vire, con corag­gio e accu­ra­tezza» una volta che essi abbiano rag­giunto il cul­mine. Pul­sioni, umori, diversi, ma in qual­che misura uni­fi­cati dalla comune osti­lità – dall’odio rive­stito di disprezzo — per la rifles­si­vità, il lavoro, ine­vi­ta­bil­mente più lento e meno ferino, del pen­siero. I suoi moniti e le sue dub­bio­sità. In una parola per il ruolo sto­rico dei cosid­detti “intellettuali”.
Sem­bra impos­si­bile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese risco­pre il fascino cupo del cari­sma come , è lì che ritorna, alla velo­cità della luce: a quell’archetipo tos­sico che con­trap­pone l’Azione al Pen­siero. Il Demiurgo al Rifles­sivo. Il Fare al Pen­sare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il peda­groso posa­piano che ral­lenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille pro­mette e manterrà.
E’ suc­cesso una tren­tina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repub­blica entrava nella sua fase coma­tosa (ricor­date l’invettiva con­tro gli «intel­let­tuali dei miei sti­vali»?). E si è ripe­tuto una ven­tina di anni or sono, con Ber­lu­sconi, quando nac­que (male, malis­simo) la cosid­detta Seconda Repub­blica, nell’odore di fango e nella mar­cia trion­fale dei media. Era suc­cesso, con aspetti ben più tra­gici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato libe­rale e l’avvento del mus­so­li­ni­smo. Suc­cede oggi – si parva licet – con Mat­teo Renzi, al suo esor­dio come impro­ba­bile sal­va­tore della patria. Ogni volta si è assi­stito all’esibizione dello stesso les­sico, con poche varia­zioni. E chi richia­mava all’opportunità di sof­fer­marsi sulla pro­ble­ma­ti­cità dell’accadere, sulla sua com­ples­sità non ridu­ci­bile con le parole magi­che, è stato liqui­dato con una catena di ter­mini che vanno dal post­bel­lico ““disfat­ti­sta” e “imbelle”, al deni­gra­to­rio “insulso” («insulso intel­let­tuale» fu la for­mula con cui Mus­so­lini invitò il Pre­fetto di Torino a per­se­gui­tare Gobetti) ai più didat­tici «pro­fes­so­roni» o «pro­fes­so­rini» (in qual­che caso «pro­fes­so­ru­coli»), all’enfatico «Soloni» o «sapien­toni», oltre i quali la crea­ti­vità dei cri­tici della cri­tica non sa andare. Né la cosa stu­pi­sce. Fa parte dell’ordine delle cose il fasti­dio per la fatica del pen­siero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono solu­zioni possibili.

Quello che può incu­rio­sire, piut­to­sto, è l’estensione della ragna­tela oggi, che giunge a lam­bire figure che si cre­de­vano esenti da que­ste fol­go­ra­zioni sulla via del Naza­reno: non più i soliti Fel­tri e Bel­pie­tro, se pos­si­bile i meno aggres­sivi per esau­ri­mento delle bat­te­rie, ma i Gra­mel­lini, i Meni­chini, le mini­stre­bo­schi, gli edi­to­ria­li­sti dell’Unità e di Europa, gli spin doc­tors di com­ple­mento del Tg3, su lun­ghezze d’onda non dis­si­mili dai vari Gasparri (memo­ra­bile per vol­ga­rità la sua mimica sulla lun­ghezza delle par­ruc­che di Zagre­bel­sky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vice­di­ret­tore della Stampa sulle «vec­chie cin­ture di castità» …), tutti ad acca­nirsi con­tro l’intellettuale fre­na­tore, il disin­can­tato disin­can­ta­tore, lo scet­tico blu che spe­gne i sogni, il fasti­dioso acri­bioso che cerca sem­pre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto pro­ba­bile che alcuni di que­sti “per­suasi” pro­ve­ranno un giorno ver­go­gna del pro­prio invol­ga­ri­mento, una volta sva­nito l’effetto della fasci­na­zione. Ma resta l’interrogativo sull’origine miste­riosa di quel fascino improv­viso. Che cari­sma è que­sto, che bypassa ogni lezione della sto­ria, e fa cadere ogni bar­riera all’accesso alle menti, tanto da can­cel­lare decenni di cul­tura cri­tica, razio­na­li­sta e demo­cra­tica per­ché col­pi­sce, ora, anche quei set­tori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?

Non è il cari­sma guer­riero del Benito Mus­so­lini delle ori­gini, uscito dalle tem­pe­ste d’acciaio e dalle trin­cee di fango. E nem­meno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fon­dato sul ricorso a una spre­giu­di­ca­tezza ine­dita nella sto­ria della sini­stra ita­liana nell’assalto alle ban­che e alle dili­genze. O il cari­sma pro­prie­ta­rio e geni­tale del Ber­lu­sconi re del video e delle veline final­mente spo­gliate. Il suo sem­bra più il cari­sma vir­tuale – e impal­pa­bile — della ver­ti­gine. Il trauma della velo­cità come meta­fora (e sur­ro­gato) dell’energia e come tec­nica di con­vin­ci­mento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei pro­blemi, così da appa­rirne il solu­tore (e il salvatore).

E’, in fondo, a ben guar­dare, la tec­nica dell’illusionista. Il segreto del pre­stige, inteso come gioco di pre­sti­gio, in cui la rapi­dità del movi­mento e l’uso del diver­sivo – del gesto che disto­glie l’attenzione – sono la chiave del suc­cesso, e per­met­tono a chi sta sul palco di con­qui­stare la dedi­zione del pub­blico pagante. Renzi in que­sto è mae­stro: fa com­pa­rire, e subito dopo scom­pa­rire, la legge elet­to­rale, una volta veri­fi­cato che di lì non si passa, subito sosti­tuita, coni­glio dal cilin­dro, dal Jobs act e dalle sli­des, esi­bendo gli 80 euro in busta paga men­tre scom­pa­iono in un fou­lard viola pezzi di sistema sani­ta­rio e di ser­vizi sociali o interi bloc­chi di patri­mo­nio pub­blico avviati alla pri­va­tiz­za­zione. Dice di aver abo­lito le pro­vince, come pro­messo, e quelle se ne stanno sem­pre lì, intatte sotto il tap­peto por­pora del tavolo, non più elet­tive ma pur sem­pre inte­gre. Pre­para la Gre­cia, ma sem­bra la Ger­ma­nia. Finge un bat­ter di pugni men­tre in realtà batte i tac­chi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pub­blico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel ver­ti­gi­noso movi­mento, scruta sotto il man­tello per cogliere il trucco.

L’odiato intel­let­tuale è odiato per que­sto. Per­ché minac­cia di sve­lare il pre­stige. Di disin­can­tare l’illusione. Nemico con­di­viso di tutti gli spet­ta­tori che, inca­paci di par­te­ci­pare alla solu­zione del pro­blema, pre­fe­ri­scono vedersi rap­pre­sen­tata la mate­ria­liz­za­zione della spe­ranza. La sua filo­so­fia è peri­co­losa, come lo fu l’occhio inge­nuo del bam­bino che rive­lava la nudità del re. Pas­serà pro­ba­bil­mente, come tutte le infa­tua­zioni. Ma intanto sarà dura. Unica con­so­la­zione: la con­sta­ta­zione che oggi, dell’“uomo di mondo” Cal­li­cle – che con­tra­ria­mente all’“insulso” e “inge­nuo” Socrate non inse­guiva le nuvole e le idee -, nes­suno ricorda nep­pure più il nome.

Primi commenti su un documento che conferma ldeologia neoliberista dominante e fa temere ombre ancora più cupe sul nostro futuro. Il manifesto, 9 aprile 2014

Il governo Renzi odia la spesa pub­blica, ama lo stato minimo, il mer­cato, la fles­si­bi­lità e tutto l’armamentario della teo­ria eco­no­mica libe­ri­sta. Ogni misura o inter­vento passa dal taglio alla spesa pub­blica. Volete 80 euro al mese a par­tire da mag­gio, la famosa quat­tor­di­ce­sima? Allora taglio un valore cor­ri­spon­dente di ser­vizi pub­blici. La misura vale 6,6 mld di euro per il 2014, che a regime diven­tano di 32 mld di tagli. Quindi il governo pro­gramma un appro­fon­di­mento della spen­din review, cioè una ulte­riore stretta della spesa pub­blica. Tagli mirati e attenti ai biso­gni dei cit­ta­dini? La spesa sani­ta­ria si riduce? Gli inve­sti­menti dimi­nui­scono? I salari del pub­blico impiego non saranno ade­guati? Gli inca­pienti? Effetti col­la­te­rali. Aspet­tiamo con curio­sità il decreto del 18 aprile e que­sta volta Renzi non potrà elu­dere il tema come ha fatto durante la con­fe­renza stampa.
Nei pros­simi giorni valu­te­remo meglio il Def (docu­mento eco­no­mico e finan­zia­ria), ma il sospetto è quello di un taglio aggiun­tivo di spesa rispetto a quelli già programmati. Se i cal­coli sono cor­retti, i tagli potreb­bero rag­giun­gere i 42 mld di euro. Sotto trac­cia c’è il fiscal com­pact e la ridu­zione di un ven­te­simo del debito pub­blico ecce­dente il 60% del rap­porto debito/Pil. La recente cre­scita del debito è una­tan­tum, legata al paga­mento dei debiti pre­gressi e al con­tri­buto ita­liano al fondo salva stati europeo.
Se il Pil cre­scesse del 2% risol­viamo il pro­blema (Padoan). Pec­cato che la cre­scita, per il 2014, sarà dello 0,8%. L’effetto macroe­co­no­mico delle misure, su cui il governo sta ancora ragio­nando come ha comu­ni­cato il pre­si­dente del Con­si­glio, è di qual­che deci­male, e non potrebbe essere diver­sa­mente. Se con­so­li­diamo l’avanzo pri­ma­rio, cioè una ridu­zione secca della domanda effet­tiva, la spesa pub­blica, una ridu­zione della domanda di ser­vizi pub­blici e di lavoro equi­va­lente, signi­fica ridurre la domanda aggre­gata di non meno di 40–50 mld di euro.
Il defi­cit è coe­rente con il pro­gramma di rien­tro deli­neato dal governo Letta. Per il 2014 il defi­cit sarà del 2,6% e del 2% nel 2015. Nel 2016 sarà rag­giunto il pareg­gio di bilan­cio strut­tu­rale, come impo­sto dall’infelice modi­fica della costi­tu­zione fatta dal Governo Monti. Nel frat­tempo cre­sce la disoc­cu­pa­zione. Ci vuole tempo per vedere gli effetti delle misure del job act. Imma­gino di quanto possa cre­scere il lavoro a tempo deter­mi­nato. La cre­scita è stata del 164%, la più alta a livello euro­peo. In tutta one­stà non vedo molti altri spazi di crescita.

Un appunto. Non c’è trac­cia di poli­tica indu­striale. Il primo job act almeno faceva finta di trat­tarla. Ma la realtà ha supe­rato di molto la fantasia

«». Il manifesto, 8 aprile 2014 (m.p.r.)

Vor­rei invi­tare tutti (opi­nione pub­blica, sog­getti poli­tici, respon­sa­bili isti­tu­zio­nali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota reto­rica domi­nante, dalla poli­tica dello sber­leffo, dalla fasci­na­zione della frase ad effetto. Per guar­dare al merito delle cose. Impres­siona, in effetti, vedere come la discus­sione pub­blica sulle riforme costi­tu­zio­nali si svolga ormai pre­scin­dendo del tutto dai fatti e dal con­te­nuto della riforma pro­po­sta. Alle cri­ti­che non si risponde nel merito, ma ci si limita ad adot­tare una stra­te­gia di dele­git­ti­ma­zione delle per­sone (la pole­mica con­tro il «pro­fes­so­roni» ne rap­pre­senta l’epitome). Par­tiamo allora dai fatti, per poi espri­mere delle valutazioni.

Ini­ziamo dal metodo. Nel nostro ordi­na­mento costi­tu­zio­nale al governo non spet­tano tutti i poteri, bensì solo alcune fon­da­men­tali, ma pur sem­pre defi­nite, fun­zioni. Esso prin­ci­pal­mente è tito­lare — assieme ad altri organi — dell’indirizzo poli­tico che si rea­lizza nel pro­gramma di governo. Tra­di­zio­nal­mente sfugge all’esecutivo la mate­ria costi­tu­zio­nale ed è per que­sto che le ini­zia­tive per l’eventuale revi­sione della costi­tu­zione sono prese dal par­la­mento, che è l’organo a cui spetta il potere di revi­sione. La ragione sostan­ziale che porta a que­sta sepa­ra­zione di com­piti (al governo l’ordinaria gestione del potere, al par­la­mento la straor­di­na­ria manu­ten­zione del testo della costi­tu­zione) dovrebbe essere intui­tiva e accet­tata da ogni per­sona che abbia con­sa­pe­vo­lezza dell’importanza del prin­ci­pio della divi­sione dei poteri: ad evi­tare il rischio che una mag­gio­ranza poli­tica inter­venga impro­pria­mente sulle regole di tutti. È vero che abbiamo assi­stito — anche nel recente pas­sato — ad ini­zia­tive gover­na­tive per la modi­fica della costi­tu­zione, ovvero si pos­sono richia­mare espe­rienze di altri Stati. Non è dun­que un «colpo di stato» (a pro­po­sito di toni ecces­sivi) quello che si è posto in essere con la pre­sen­ta­zione da parte del governo di un dise­gno di legge di revi­sione del bica­me­ra­li­smo per­fetto e del Titolo V. Ciò non toglie però che l’assunzione della respon­sa­bi­lità diretta della revi­sione da parte del governo Renzi evi­den­zia uno squi­li­brio a favore dell’esecutivo e a sca­pito del legislativo.

Ad evi­tare di aggra­vare lo scom­penso si dovrebbe pen­sare di sot­to­porre alla più libera discus­sione il dise­gno del governo, soprat­tutto in sede par­la­men­tare, che — si ripete — è l’organo tito­lare del potere di revi­sione. Invece, si assi­ste alla chiu­sura di ogni spa­zio di dibat­tito: si impone una tem­pi­stica (entro il 25 mag­gio la prima let­tura del senato), si esclude ogni con­fronto con le diverse pro­po­ste pre­sen­tate da gruppi di par­la­men­tari (quella ben più medi­tata pre­sen­tata da 22 sena­tori dello stesso par­tito di Renzi), si pre­an­nun­ciano impro­prie san­zioni poli­ti­che in caso di fal­li­mento del pro­getto gover­na­tivo (far fal­lire le ambi­zioni del lea­der di governo ver­rebbe san­zio­nato con il clas­sico e un po’ inquie­tante «tutti a casa»). Com­por­ta­menti for­mal­mente legali (tutto ciò che non è vie­tato e pos­si­bile), cio­non­di­meno sostan­zial­mente privi di legit­ti­mità (ponen­dosi in con­tra­sto con i prin­cipi di fondo del nostro ordi­na­mento politico).

Per quanto riguarda il metodo, dun­que, può dirsi che esso tende ad imporre una deci­sione, sot­traendo al legit­timo tito­lare del potere di revi­sione — ma anche al libero dibat­tito dell’opinione pub­blica — ogni spa­zio di discus­sione. È pos­si­bile avan­zare delle cri­ti­che sul metodo senza per que­sto essere messi all’indice e tac­ciati di osta­co­lare le riforme? La richie­sta di discu­tere nel merito e nelle sedi appro­priate le riforme costi­tu­zio­nali è una esi­genza sen­tita sola da disprez­zati «intel­let­tuali mili­tanti»? Il fatto — sem­pre richia­mato — che sono trent’anni che si parla di riforme può rap­pre­sen­tare una giu­sti­fi­ca­zione per non discu­tere più nulla pro­prio nel momento in cui si cerca di dare seguito a que­sto dibattito?

Pas­siamo ora al merito. Per quanto riguarda la riforma del senato ho già argo­men­tato sul mani­fe­sto del 25 marzo la mia opi­nione. Ora vor­rei pormi solo la domanda che a me pare essere quella fon­da­men­tale per poter giu­di­care la pro­po­sta avan­zata dal governo. Dopo l’approvazione della riforma avremmo raf­for­zato o inde­bo­lito il sistema par­la­men­tare? Sarebbe infatti assai discu­ti­bile cam­biare per sbi­lan­ciare ulte­rior­mente gli equi­li­bri tra i poteri, a favore del governo e a sca­pito del par­la­mento. Non è allora tanto un’astratta model­li­stica costi­tu­zio­nale che viene in gioco (ovvero la sua ver­sione pro­pa­gan­di­stica: ridu­zione dei costi e odio alla casta), quanto l’effettivo ruolo che si vuole asse­gnare ai distinti poteri. Come scri­vono i costi­tu­zio­na­li­sti, si tratta di ride­fi­nire gli equi­li­bri incri­nati della forma di governo par­la­men­tare ita­liana. Qui scatta l’allarme: secondo alcuni la ridu­zione della seconda camera a organo pri­vato di legit­ti­ma­zione diretta e di fun­zioni di garan­zia, senza un cor­ri­spet­tivo aumento dei poteri dell’altro ramo del par­la­mento, non­ché la con­cen­tra­zione di ulte­riori poteri nelle mani del governo (la «ghi­gliot­tina» per l’approvazione delle leggi), rende que­sta riforma costi­tu­zio­nale temi­bile. È un sospetto infon­dato? Discu­tia­mone. E invece no, non si può fer­mare il treno delle riforme. Non c’è dub­bio che alcuni costi­tu­zio­na­li­sti pos­sono apprez­zare l’impianto del dise­gno di legge gover­na­tivo (ci sarebbe da stu­pirsi se così non fosse), ma forse si dovrebbe dare ascolto anche alle voci dis­sen­zienti. La poli­tica di dele­git­ti­ma­zione delle cri­ti­che e delle per­sone non alli­neate non solo è una caduta di stile, ma anche un’altro argo­mento di pre­oc­cu­pa­zione di una pos­si­bile «svolta auto­ri­ta­ria». Una frase che ha fatto irri­tare molti e ha sca­te­nato rea­zioni allarmate.

Anche in que­sto caso — al di là dei toni ecces­sivi da tutti uti­liz­zati — andiamo alla sostanza. Il rilievo che i modelli demo­cra­tici stiano subendo una tor­sione auto­ri­ta­ria non mi sem­bra molto ori­gi­nale. Sono decenni che si discute di una ridu­zione degli spazi di par­te­ci­pa­zione e di pro­gres­siva con­cen­tra­zione del potere. In Ita­lia, poi, sono vent’anni almeno che si assi­ste ad un gra­duale slit­ta­mento verso forme sem­pre più auto­cra­ti­che di gestione del potere. La vera que­stione è allora: la riforma costi­tu­zio­nale annun­ciata accen­tua o restringe la ten­denza alla ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia? Inde­bo­lire il par­la­mento, aumen­tare i poteri del governo, non sta­bi­lire misure di rie­qui­li­brio e di garan­zia a fronte di una legge elet­to­rale con cui si vuole for­zare la rap­pre­sen­tanza per con­se­guire lo scopo di asse­gnare ad un solo com­pe­ti­tore la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi nell’unica camera poli­tica rima­sta, mi sem­bra riveli la dire­zione di mar­cia. Non è ancora suf­fi­ciente per par­lare di «svolta auto­ri­ta­ria»? In effetti, si potrebbe anche dire che si sta sem­pli­ce­mente pro­se­guendo sulla stessa strada del pas­sato. Sco­prendo così, final­mente, quel è il segno della svolta annunciata.

Giunti a que­sto punto sarebbe vera­mente auspi­ca­bile una seria discus­sione sulle poli­ti­che costi­tu­zio­nali. Dovremmo anzi­tutto aver chiaro però che non si cam­bia la costi­tu­zione solo per ragioni d’immagine, bensì per inver­tire una rotta che ci ha con­dotto ad inde­bo­lire pro­gres­si­va­mente il sistema par­la­men­tare e ad un’eccessiva con­cen­tra­zione ed auto­re­fe­ren­zia­lità dei poteri, non com­pen­sata da una mito­lo­gia della gover­na­bi­lità senza popolo. È pro­prio da quella parte della dot­trina che oggi viene accu­sata di aver bloc­cato per trenta anni il cam­bia­mento costi­tu­zio­nale che sono state avan­zate le pro­po­ste più radi­cali. Per dirne una: per­ché anzi­ché limi­tarci a dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo non pen­siamo ad adot­tare un sistema mono­ca­me­rale eletto a suf­fra­gio uni­ver­sale con sistema proporzionale?

Qual­cuno, lascian­dosi pren­dere da un eccesso pole­mico, ha rite­nuto di poter assi­mi­lare que­sta ipo­tesi all’attuale pro­po­sta di riforma. Forse vale la pena allora spie­gare quel’è la dif­fe­renza abis­sale: in un sistema demo­cra­tico il mono­ca­me­ra­li­smo pre­tende la rinun­cia ad ogni distor­sione della rap­pre­sen­tanza (un sistema elet­to­rale pro­por­zio­nale). Altro che «la sera delle ele­zioni si cono­sce chi governa per i suc­ces­sivi cin­que anni», sarebbe il ritorno alla cen­tra­lità dell’Assemblea dei rap­pre­sen­tanti. Un vero cam­bio di rotta. Chi è dispo­sto a seguire que­sta via «rivoluzionaria»?

Se non si volesse essere così radi­cali e ci si volesse limi­tare a dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo, se inol­tre non si volesse rinun­ciare alla mal­sana idea di adot­tare un sistema elet­to­rale che assi­cura la gover­na­bi­lità sacri­fi­cando la rap­pre­sen­tanza (nella per­versa forma ideata dall’Italicum), si dovrebbe quan­to­meno assi­cu­rare che la seconda camera possa bilan­ciare l’accentramento dei poteri. Costi­tuen­dosi come senato di garan­zia i cui mem­bri non siano espres­sioni delle isti­tu­zioni, bensì rap­pre­sen­tanti scelti in base al prin­ci­pio di pura pro­por­zio­na­lità, con uno sta­tuto che assi­curi un forte peso poli­tico di con­trollo alle minoranze.

Ma è dif­fi­cile, di que­sti tempi, solo adom­brare pos­si­bili sce­nari alter­na­tivi, biso­gne­rebbe far com­pren­dere ai soloni della riforma, che cam­biare una costi­tu­zione non è solo un pro­blema di velo­cità, ma anche di equilibrio.

«Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per la corruzione e gli altri reati tipici dei colletti bianchi”, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, le malversazioni e altre violazioni di tipo economico». Il Fatto quotidiano, 6 aprile 2014
Circolano due balle sesquipedali. La prima, sostenuta da Corriere , Stampa, Foglio, Giornale, Libero e avallata dal premier Renzi e dall’autorevole ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, formatasi su Topolino e Tiramolla, è che da 30 anni non si fanno le riforme per colpa dei terribili veti imposti dai “professoroni” Zagrebelsky, Rodotà & C. La seconda è che il Senato è un ente inutile, dunque tanto vale abolirlo, anzi trasformarlo in una bocciofila per il tempo libero di governatori, sindaci, consiglieri regionali e amichetti ottuagenari del Colle.
Purtroppo per lorsignori, a smentire entrambe le balle in un colpo solo c’è la cosiddetta “riforma della custodia cautelare”, votata da tutti i partiti (tranne M5S, FdI e Lega) alla Camera, emendata dal Senato e ora di nuovo a Montecitorio per l’approvazione definitiva. A sbugiardare chi dice che da 30 anni non si fanno riforme, c’è il fatto che questa è la diciannovesima riforma delle manette dal 1990, cioè dall’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale. A smentire chi dice che il Senato non serve, c’è il fatto che – se fosse già in vigore la riforma Renzusconi – quella legge sarebbe partita dalla Camera e il Senato avrebbe potuto esprimere solo un parere consultivo, che la Camera avrebbe potuto ignorare. Dunque la legge sarebbe già in vigore.
Con questi bei risultati, illustrati – come riferisce Giovanni Bianconi sul Corriere – dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (non una toga rossa, un fanatico giustizialista, un professorone conservatore: Pignatone): “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per la corruzione e gli altri reati tipici dei colletti bianchi”, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, le malversazioni e altre violazioni di tipo economico. Non solo: dalle porte delle galere spalancate per lorsignori passeranno indenni anche i delinquenti comuni.
“Il legislatore – prosegue Pignatone – deve sapere che non si potrà arrestare neppure chi compie delitti di strada, come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in banca col kalashnikov. Potremo applicare la carcerazione preventiva solo a chi ha precedenti condanne definitive, forse, ma agli incensurati no. Mi auguro che il Parlamento ci pensi bene, per non trovarsi costretto a tornare sui propri passi al prossimo allarme sulle città insicure o sulla criminalità diffusa che si fatica a contenere. Spero che deputati e senatori siano consapevoli di quello che stanno facendo, prima delle prevedibili polemiche in cui ci si chiederà perché un presunto rapinatore si trovava libero di colpire ancora, anziché in galera”.
La porcata, infatti, partorita da menti superiori come la pidina Ferranti, il ministro Orlando e i loro degni compari forzisti, prevede tra l’altro la quasi impossibilità di arrestare gli incensurati (tanto lorsignori, a furia di prescrizioni, delinquono a manetta, ma sono sempre incensurati) e soprattutto pretende che i magistrati si trasformino in indovini e in aruspici: quando beccano uno con le mani nel sacco, possono arrestarlo solo se prevedono che, alla fine del processo (una decina di anni dopo), verrà condannato definitivamente a più di 4 anni. Altrimenti niente manette, e neppure i domiciliari.
Il sogno di B., che provò infinite volte a esentare all’arresto i colletti bianchi, dal decreto Biondi dal ‘94 in poi, sta per avverarsi grazie ai berluscopidini. A meno che l’appello di Pignatone non induca la Camera a ripensarci in terza lettura. Oggi, grazie al bicameralismo regalatoci dai padri costituenti (quelli veri, non i cialtroni di adesso), il Parlamento può ancora “pensarci bene”: rimediando alla Camera i guai combinati al Senato da una classe politica dissennata, che per metà non sa quello che fa e per l’altra metà lo sa benissimo. Con il nuovo Senato e la Camera signora e padrona delle leggi, invece, cosa fatta capo avrà: i danni saranno irrimediabili e i cocci saranno tutti nostri. Tanto lorsignori viaggiano blindati e scortati, e di criminali non ne incontrano mai. A parte i loro colleghi, si capisce.
«Il governo non risponde alle critiche sulla riforma elettorale e su quella del Senato e attacca le persone. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. In confronto all’Italicum, la legge truffa del 1953 è un modello di garanzie. La riforma del Senato provocherà pasticci infiniti». Il manifesto, 5 aprile 2014

«Sono uno di quei “pro­fes­sori” che blocca da trent’anni le riforme costi­tu­zio­nali? — sor­ride Ste­fano Rodotà dopo avere appreso il giu­di­zio del mini­stro per le riforme costi­tu­zio­nali Maria Elena Boschi – Credo che la mini­stra mi attri­bui­sca una sen­sa­zione di onni­po­tenza che non cor­ri­sponde alla realtà dei fatti. Mi sem­bra inve­ro­si­mile il fatto che i «pro­fes­sori», da soli, siano riu­sciti a bloc­care le riforme di Craxi, Cos­siga, Ber­lu­sconi o D’Alema. Chiun­que abbia una minima nozione di sto­ria sa che le riforme della bica­me­rale furono fatte cadere da Ber­lu­sconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di ita­liani con un refe­ren­dum. Mi pia­ce­rebbe molto avere avuto la pos­si­bi­lità di eser­ci­tare un potere così radi­cale, ma que­sto non cor­ri­sponde allo stato dei fatti e dimo­stra che una poli­tica inca­pace di effet­tuare riforme oggi cerca di rifu­giarsi in que­sti argomenti».
Anche la mini­stra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha pro­po­sto una riforma del Senato. Ha cam­biato idea?
A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cam­biare idea, ma que­sto rife­ri­mento è del tutto inap­pro­priato per­ché Renzi e Boschi dovreb­bero sapere – e pur­troppo non lo sanno – che la pro­po­sta pre­sen­tata 29 anni fa dalla Sini­stra Indi­pen­dente, con me Gianni Fer­rara e Franco Bas­sa­nini, andava in senso oppo­sto alla loro. Allora ci oppo­ne­vamo al ten­ta­tivo di Craxi di con­cen­trare i poteri del governo, esat­ta­mente come vuole fare oggi Renzi.
In cosa con­si­steva quella riforma?
nten­deva raf­for­zare il par­la­mento e i diritti e aveva uno spi­rito che si ritrova nella sen­tenza della Corte Costi­tu­zio­nale sul «Por­cel­lum» che non garan­ti­sce la rap­pre­sen­tanza. Avan­zammo quella pro­po­sta quando c’era una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale, i depu­tati veni­vano scelti con il voto di pre­fe­renza, i rego­la­menti rico­no­sce­vano un potere alle mino­ranze par­la­men­tari, non c’erano ghi­gliot­tine né limiti agli emen­da­menti. L’ostruzionismo della sini­stra indi­pen­dente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nac­que anche la com­mis­sione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva con­cen­trare il mas­simo potere in una sola camera, raf­for­zan­dolo però con la sua mas­sima rap­pre­sen­tanza. Pro­po­ne­vamo di ridurre a 500 i par­la­men­tari, ma per avere un con­tral­tare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa par­lano. Deno­tano igno­ranza isti­tu­zio­nale. È un fatto grave, oltre che moral­mente una cat­tiva azione.

Il governo, e non solo, sostiene che la sua pro­po­sta sul Senato per­met­terà di rispar­miare 1 miliardo di euro ai cit­ta­dini. Sem­bra una pro­po­sta allettante.
La trovo una con­ces­sione all’antipolitica. Si tratta di un argo­mento che può por­tare in qual­siasi dire­zione. Più che alla logica, risponde alla peg­giore ricerca del con­senso. Baste­rebbe la ridu­zione dei par­la­men­tari e delle retri­bu­zioni per otte­nere que­sto rispar­mio senza rovi­nare gli equi­li­bri costituzionali.

Ritiene che i ren­ziani stiano rea­gendo all’appello che lei ha fir­mato insieme a Gustavo Zagre­bel­sky e altri giu­ri­sti con­tro la «svolta auto­ri­ta­ria» del governo?
Abbiamo rite­nuto di intro­durre con deter­mi­na­zione que­ste argo­men­ta­zioni nel dibat­tito pub­blico. Ma non ci viene data rispo­sta e si attac­cano le per­sone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di pro­po­ste da parte dei «pro­fes­sori» a dimo­stra­zione che sono del tutto alieni dal difen­dere o dal con­ser­vare. Su Il Mani­fe­sto c’è stata la pro­po­sta di Vil­lone o di Azza­riti, ad esem­pio. Vor­rei anche ricor­dare che ave­vamo indi­cato una solu­zione con la mani­fe­sta­zione della «Via Mae­stra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modi­fica voluta dal governo Letta, abbiamo pro­po­sto di modi­fi­care il numero dei par­la­men­tari e rifor­mare il Senato, ma in un modo assai lon­tano dalla pro­po­sta attuale. Chie­de­vamo al governo Letta di ini­ziare subito. Se fosse stato seguito que­sto con­si­glio avremmo già una ridu­zione dei par­la­men­tari e un Senato come camera delle garan­zie che è asso­lu­ta­mente necessaria.
Cosa le rispose Letta?
Mi invitò a Palazzo Chigi, ne par­lammo. Il risul­tato di quella con­ver­sa­zione fu il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo sulle pro­po­ste di riforma. Per quanto cri­ti­ca­bile fosse Letta, non aveva la posi­zione di chi pro­cede come un rullo com­pres­sore. Io non mi voglio fare schiac­ciare e per que­sto alzo la voce.
Da quello che dice ci tro­viamo in una situa­zione peg­giore della «legge truffa» pro­po­sta da Scelba nel 1953…
ispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chia­mare in que­sto modo. Anzi, quella era un modello di garan­zia. Pensi che per con­tra­starla si usava l’argomento che non si poteva met­tere nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente il destino delle isti­tu­zioni. Aggiungo, a bene­fi­cio di chi ci insulta, che quella legge non passò per­chè alcuni pro­fes­sori come Cala­man­drei, Jemolo, Codi­gnola, Parri, si riu­ni­rono nel gruppo «Unità popo­lare» e insieme ad altri la bloc­ca­rono. Oggi, invece, si con­se­gna il destino della demo­cra­zia nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rap­pre­sen­ta­tive delle auto­no­mie locali come in Ger­ma­nia. È più che altro un’esercitazione da stu­denti che crea pasticci infiniti.

Che peso ha il patto del Naza­reno tra Renzi e Berlusconi?
Que­sto patto è stato una scelta infau­sta. Viola il pro­gramma elet­to­rale sul quale il Pd ha rice­vuto milioni di voti.
Ma rispetta le inten­zioni di Renzi…
C’è una bella dif­fe­renza tra un pro­gramma elet­to­rale e le pri­ma­rie di un par­tito, che sono con­sul­ta­zioni impor­tanti ma sono del tutto pri­vate. Quello di Renzi è un altro modo per dele­git­ti­mare il voto e la volontà dei cit­ta­dini. Per legit­ti­mare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Ber­lu­sconi, esclusa dal pro­gramma del Pd.
La vostra bat­ta­glia è dun­que con­tro le geo­me­trie varia­bili delle lar­ghe intese?
Non pen­savo di essere eletto a pre­si­dente della Repub­blica, ma quella can­di­da­tura era per cer­care una mag­gio­ranza diversa dalle lar­ghe intese che sareb­bero state disa­strose. Il fal­li­mento di quelle intese hanno pro­vo­cato gli esiti attuali e hanno can­cel­lato l’impegno di Renzi sul red­dito ai lavo­ra­tori o sulle unioni civili.
Dopo gli appelli orga­niz­ze­rete una mobilitazione?

Vediamo. Non cor­riamo troppo. L’appello era un passo neces­sa­rio e non saranno gli insulti a fer­marci. Le rea­zioni comin­ciano ad emer­gere: ci sono i 22 sena­tori del Pd che hanno pre­sen­tato un’eccellente pro­po­sta. Non voglio pren­dermi meriti, ma credo che espri­mano un minimo di ragionevolezza.

La Repubblica, 4 aprile 2014

L’ALBA DEL RUANDA
di Pietro Veronese

«La prossima settimana sarà di nuovo un periodo difficile», dice Valérie Mukabayire. Sarà la penombra, la luce soffusa, la quiete della stanza dove stiamo parlando da un’ora, ma ho l’impressione che la compostezza di Valérie per un momento si incrini, le parole rallentino e i suoi occhi scuri si facciano lucidi. È solo un momento però. «Dobbiamo lavorare, andare avanti», aggiunge subito dopo una pausa.

La prossima settimana, a partire da lunedì 7 e per tutti i giorni successivi, sarà lutto nazionale in Ruanda. Il paese rivivrà i giorni del genocidio del 1994, quando 800mila, fors’anche un milione di Tutsi ruandesi e di Hutu che si opponevano alla carneficina vennero giustiziati all’arma bianca, a colpi di mazze e di machete, trasformando il paese in un gigantesco carnaio. Nella sostanziale indifferenza del mondo, durò cento giorni, fino ai primi di luglio, quando il Fronte patriottico ruandese entrò a Kigali e pose fine alle stragi. È stato il più grande massacro dalla fine della Seconda guerra mondiale, una delle pagine più atroci della storia dell’umanità: per l’efferatezza degli assassini, e per il mancato soccorso internazionale.

«Il genocidio è un lutto che non si elabora», scrive qui accanto [di seguito n.d.r.] Scholastique Mukasonga, ed è quello che credo di intravedere negli occhi di Valérie. Dei fatti del ‘94 siamo venuti a parlare esplicitamente solo alla fine, ma in Ruanda sono il riferimento implicito in tutto quello che si dice, così come a Murambi, Nyamata, Bisesero, Nyarabuye e altrove il verde smeraldo di uno dei Paesi più belli dell’Africa nasconde sotto un sottile velo di terra (e talvolta neppure quello) le pile di morti.

Valérie Mukabayire dirige la Casa della Pace, un centro che assiste le donne più povere di Kigali dando loro una formazione, un mestiere per aiutarle a farcela da sole. È un progetto molto bello, un piccolo successo che dura da dieci anni, interamente sostenuto da una piccola ong italiana che si chiama Progetto Ruanda. All’inizio, ricorda Valérie, tutte le donne assistite avevano le vite segnate dalla grande strage del ‘94: perché erano rimaste vedove, perché i mariti erano in prigione accusati di genocidio, perché erano giovani orfane che dovevano badare ai fratelli minori, perché erano ragazze-madri vittime di violenze sessuali. Le mogli delle vittime e dei sospetti aguzzini, insieme. «C’erano molti problemi, poi abbiamo scoperto che lavorando le une accanto alle altre la riconciliazione si faceva da sé».

Con gli anni le tensioni si sono stemperate e le donne hanno continuato a venire alla Casa della Pace spinte dalla perdurante povertà, più che dalle ferite aperte del genocidio. La vita è andata avanti. Il passato si è allontanato. È stato a questo punto del racconto che ho commesso l’errore di chiedere a Valérie dove era lei nell’aprile del 1994. È stato allora che la sua voce si è quasi spezzata. Senza spiegare né il dove né il come, mi ha detto che nel genocidio ha perso il marito, entrambi i genitori, tutti i fratelli. Si sono salvati insieme a lei i tre figli, all’epoca piccolissimi, nascosti a rischio della vita da alcuni amici.

Sono passati vent’anni e il Ruanda si è piano piano ricostruito, psicologicamente, e talora letteralmente, sopra un grande cimitero. Kigali è diventata una delle capitali più linde, accoglienti, ordinate dell’Africa, rimessa progressivamente a nuovo, modernizzata. L’economia nazionale, pur restando sostanzialmente agricola, ha continuato a crescere, facendo di questo Paese una delle storie positive più volentieri raccontate dagli economisti dello sviluppo. È piccolo, lontano dal mare, ma ben amministrato, onesto, laborioso, un ambiente attraente per gli investitori tentati dall’Africa ma spaventati da un contesto troppo spesso inaffidabile. Certo, basta spingersi pochi chilometri fuori dalla capitale e ai parcheggi pieni di Suv dei centri commerciali si sostituiscono le schiene curve sul lavoro dei campi, le capanne, le donne chine a maneggiare la zappa. Con le sue mille colline, i terrazzamenti agricoli che evocano in questi tropici africani un paesaggio cinese, il Ruanda rimane un Paese di undici milioni di montanari contadini. Ma si è rimesso meravigliosamente in piedi e va avanti spedito.

A Immaculée Ingabire sono venuto a chiedere le ragioni di un’altra peculiarità del nuovo Ruanda: il potere delle sue donne. A differenza dal resto dell’Africa e di quasi tutto il mondo, il Parlamento, rieletto in settembre, è donna: 50 seggi su 80; molti portafogli ministeriali importanti sono affidati a donne e l’avanzata continua nelle amministrazioni locali, nel business, nelle professioni. Immaculée è una donna formidabile, alta, elegante, piena di autorità, una specie di zar anticorruzione nel ruolo di presidente della sezione ruandese di Transparency International. «Se è una conseguenza del genocidio? Sì e no. Sì, perché all’indomani dei massacri c’era un bisogno estremo di tutte le energie rimaste e gli uomini erano o morti, o in fuga all’estero, o in prigione. Le donne sono state chiamate a riempire quel vuoto e hanno dimostrato di essere all’altezza. Ma anche no, perché l’uguaglianza di genere è sempre statauna bandiera del Fronte patriottico. Dunque, quando il Fronte ha preso il potere, si è aperta una possibilità e le donne ne hanno subito approfittato. All’inizio non è stato facile: c’erano sì e no cento laureate in tutto il Ruanda, anche se molte sono tornate dall’esilio».

Kigali si prepara lentamente alla commemorazione di lunedì. Ai maggiori incroci della capitale compaiono grandi cartelli che annunciano il ventesimo anniversario e proclamano lo slogan delle celebrazioni: «Ricordare, unire, rinnovare». Forse il secondo punto è quello meno realizzato, anche se il parere di Valérie (e il credo ufficiale) è che la riconciliazione nazionale è avvenuta e i ruandesi non sono più né Hutu né Tutsi, ma tutti cittadini allo stesso titolo e senza distinzioni. Davanti a una birra, più di uno straniero residente è pronto a giurare che se solo il potere abbassasse un poco la guardia l’odio tornerebbe a prendere il sopravvento. Un buon motivo per non abbassarla, dunque, e anche se i commentatori internazionali sottolineano in questi giorni l’isolamento internazionale del Ruanda, accusato di destabilizzare la vicina Repubblica democratica del Congo e soprattutto di compiere assassinii politici mirati di esuli all’estero, la politica estera ruandese sembra ispirata a questo semplice principio: meglio soli che morti.

Sarà un caso, ma il mio taccuino ruandese continua a riempirsi di nomi di donne. Ritrovo Yolande Mukagasana, la prima e la più nota testimone del genocidio. Il suo primo libro, La morte non mi ha voluta, del1997,fu tradotto in tutto il mondo. In quelle pagine Yolande ha raccontato come nei primi giorni dell’aprile 1994 le uccisero i tre figli, il marito, fratelli, sorelle, cognati. Lei si salvò nascosta sotto l’acquaio nella cucina di una vicina. Per il decimo anniversario Yolande commemorò il genocidio con un articolo pubblicato sulla prima pagina di Repubblica. Dal 2011, dopo molti anni passati in Belgio, è tornata a vivere a Kigali. Nella sua vecchia casa, quella, mi dice, «dove accadde tutto». Il passato non passa, il lutto del genocidio non si elabora. Eppure Yolande si è fatta con gli anni più luminosa, più serena. Un po’ come il Ruanda.

I MIEI MAUSOLEI DI CARTA
PER CHI NON C’È PIÙ
di Scholastique Mukasonga

IL GENOCIDIO è un lutto che non si elabora. Io dico che la memoria della tragedia debba essere conservata e protetta, contro ogni forma di negazionismo. Noi abbiamo il dovere, la necessità, di non dimenticare nulla: le commemorazioni del ventesimo anniversario del genocidio ruandese si svolgono proprio per questo motivo, e nessun altro.

Allo stesso tempo, il Ruanda non deve rimanere ostaggio del suo spaventoso passato. Chi oggi arriva a Kigali non può che rimanere felicemente stordito dallo straordinario dinamismo della città. Io stessa, ogni volta che torno, stento a riconoscere la capitale che avevo lasciato qualche mese prima. I mattoni della vecchia chiesa dei missionari della Santa Famiglia sembrano essere i soli testimoni, muti ed incongrui, della tragedia che fu.

Ogni volta che ritorno nel mio Paese mi reco in pellegrinaggio a Gitagata, il villaggio dove la mia famiglia fu massacrata nel 1994. Laggiù la foresta ha ricoperto ogni cosa. E nessuno osa abitarci. Ogni volta che arrivo là, mi è sempre più difficile ritrovare il luogo dov’era costruita la nostra casa. Una volta in Ruanda c’erano dei boschi, sacri e intoccabili. Oggi ci sono altri luoghi che consideriamo tabù, resi sacri dalla morte.

Il Ruanda deve riconquistare la sua storia: è stata violentata fino agli anni Cinquanta da antropologi e storici che l’hanno raccontata in termini di guerre tra razze e di invasioni successive.Le tradizioni sono state demonizzate dai missionari e occultate dagli Hutu che le attribuivano solo alla cultura Tutsi. Per fortuna è apparsa una nuova generazione di storici che ha fornito un’altra lettura della nostra storia antica. Che certo non è idilliaca, ma non si basa su pregiudizi razzisti. La verità è che i ruandesi possono riconoscersi in un passato comune, animato dalla stessa cultura.

Sì, è stato il genocidio a rendermi una scrittrice. I miei primi due libri autobiografici li ho scritti al fine di erigere un mausoleo di carta per coloro i cui corpi non saranno mai ritrovati. Oggi, anche se il genocidio fa sempre da sottofondo nei miei libri, sono riuscita ad ampliare l’orizzonte di ciò che scrivo, grazie alla finzione. La donna ha sempre rivestito un ruolo importante nella società tradizionale ruandese. E non c’è dubbio che l’attuale governo favorisca al massimo la sua promozione. In politica siamo infatti andati ben oltre la semplice parità, poiché in parlamento si conta una larga maggioranza di donne. Il loro dinamismo è un’occasione enorme per il Paese.

Quello che vogliamo più di qualsiasi altra cosa è la giustizia. Anzitutto in Francia, che ha accolto numerosi presunti carnefici del genocidio. Un primo processo si è appena concluso. Il verdetto di colpevolezza dà speranza, ma vi sono ancora una trentina di persone accusate di crimini contro l’umanità. Quando verranno giudicate?

Scholastique Mukasonga è l’autrice di “Nostra Signora del Nilo” ( edito da 66thand2nd)

Postilla

Non tutti sanno che le tre etnie che popolavano il Ruanda da secoli (i Tutsi, gli Hutu e i Twa) hanno convissuto senza tensioni fino alla colonizzazione, nè che l’obbligo di dichiarare la propria appartenenza etnica sulla carta d’identità venne imposto dai colonialisti Belgi, e neppure che all’esplodere del massacro dei 100 giorni contribuì la crisi economica, derivante dall’improvviso crollo dei prezzi sul mercato internazionale di quei prodotti (in primo luogo tea) con i quali il colonialismo del Primo mondo aveva sostituito la ricca produzione agricola dell’economia di autoconsumo.

«La crisi infinita fa aumentare il divario tra il nord da una parte, il sud e l’est dall’altra. Le politiche dei Piigs aggravano la situazione: tagli a istruzione e ricerca, nessuna garanzia per chi rimane senza lavoro. La soluzione è inventare un modello sociale continentale, sottraendolo alle nazioni».

Il manifesto, 4 aprile 2014

I wel­fare state nazio­nali in Europa sono attra­ver­sati da più di una crisi, non ridu­ci­bili solo a quella finan­zia­ria. In primo luogo, e forse da più tempo, vi è una crisi di effi­ca­cia e appro­pria­tezza a fronte dei muta­menti avve­nuti negli assetti fami­gliari, demo­gra­fici, di mer­cato del lavoro ed eco­no­mici. Que­sta crisi a sua volta pro­duce ten­sioni tra il biso­gno di inno­vare e modi­fi­care in parte i modelli di wel­fare con­so­li­dati, per ren­derli più ade­guati alle nuove cir­co­stanze, e le resi­stenze che deri­vano non solo da diritti, e tal­volta pri­vi­legi, acqui­siti, ma dal timore che l’innovazione si tra­duca sem­pli­ce­mente in una ridu­zione gene­ra­liz­zata di diritti, senza che ciò pro­duca miglio­ra­menti com­ples­sivi e nep­pure mag­giore equità. Si tratta, per­ciò, anche di una crisi di legit­ti­mità.
La terza crisi è finan­zia­ria, in un con­te­sto in cui i governi nazio­nali hanno poco potere deci­sio­nale. Que­sta terza crisi, infatti, è l’esito di tre feno­meni distinti: a) la ridu­zione delle ricorse a causa della crisi ini­ziata a fine 2009 e tut­tora per­du­rante; b) l’indebolimento della capa­cità dei governi nazio­nali di con­trol­lare il flusso delle risorse a causa della glo­ba­liz­za­zione e di quello che è stato chia­mato foo­tlose capi­ta­lism, il capi­ta­li­smo senza ter­ri­to­rio; per i paesi dell’eurozona, gli squi­li­bri creati da un’unione mone­ta­ria senza unione poli­tica e fiscale e dall’acuirsi delle divi­sioni tra i paesi cosid­detti cre­di­tori e quelli cosid­detti debi­tori. Non vi è dub­bio che la crisi finan­zia­ria acui­sce le prime due, ridu­cendo lo spa­zio per com­pen­sa­zioni e com­pro­messi. Il ruolo di primo piano che tut­ta­via ha assunto nel discorso pub­blico e nelle deci­sioni che infor­mano le poli­ti­che nazio­nali ed euro­pee, rischia di met­tere in ombra le altre due, o di ridurle a sem­plici esiti di una man­canza di risorse, senza, quindi, per­met­tere di affron­tare i pro­blemi da cui ori­gi­nano, indi­pen­den­te­mente dalla carenza di risorse.

Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Euro­pea nel det­tare le regole per affron­tare la crisi ha ulte­rior­mente inde­bo­lito lo spa­zio che hanno le poli­ti­che sociali e la costru­zione di un modello sociale euro­peo nella costru­zione della Unione.

Ovvia­mente, sia l’intensità di cia­scuna di que­ste tre crisi distinte, il grado della loro inter­di­pen­denza, le risorse per affron­tarli variano da paese a paese sulla base non solo della salute delle loro eco­no­mie e del potere nego­ziale che hanno all’interno dell’Unione Euro­pea, ma anche della lun­gi­mi­ranza che hanno avuto nel recente pas­sato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più tempo si sono attrez­zati per rispon­dere all’aumento nella par­te­ci­pa­zione delle donne al mer­cato del lavoro, alla richie­sta di mag­giore egua­glianza tra uomini e donne, ai biso­gni pro­vo­cati dall’invecchiamento, alla neces­sità di non spre­care le pro­prie risorse umane creando con­di­zioni di pari oppor­tu­nità tra i bam­bini per cor­reg­gere le disu­gua­glianze nell’origine fami­gliare, che hanno capito che un mer­cato del lavoro mobile e fles­si­bile aveva biso­gno di raf­for­zare e modi­fi­care le pro­prie reti di pro­te­zione, sono stati colti meno impre­pa­rati dalla crisi, con stru­menti più ade­guati. Anche se in tutti i paesi vi sono ten­sioni attorno a se e come ride­fi­nire gli stru­menti di welfare.

In que­sto con­te­sto, non solo le poli­ti­che di auste­rità, ma il discorso con cui sono state argo­men­tate a livello Ue, il diverso uso delle san­zioni e dei richiami che ven­gono fatti se si sfora il patto di sta­bi­lità piut­to­sto che se non si rea­liz­zano gli obiet­tivi sociali ha for­te­mente inde­bo­lito i wel­fare state già in par­tenza più deboli e più biso­gnosi di riforma, come quello ita­liano, facendo pas­sare l’idea che il wel­fare state sia la causa, se non della crisi tout court, del debito pubblico.

Gli occhi di Bru­xel­les sono tutti per il defi­cit di bilan­cio. Il defi­cit sociale di alcuni paesi, tra cui l’Italia, con i tassi di povertà asso­luta e depri­va­zione che aumen­tano, la disoc­cu­pa­zione che cre­sce, le poli­ti­che di con­ci­lia­zione che non ven­gono nep­pure più nomi­nate – ben­ché visto­sa­mente lon­tani dagli obiet­tivi di Europa 2020 – non pro­duce né richiami, né ripen­sa­menti della poli­tica di austerità

«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».

La Repubblica, 4 aprile 2014

«Ho fiducia nei cittadini di questo Paese. Sono convinto che le liste de “L’Altra Europa con Tsipras” troveranno le adesioni necessarie per partecipare a pieno titolo alle elezioni di maggio. Anzi, lancio un appello: Io, Alexis Tsipras, chiedo agli italiani di andare a firmare per l’unica vera forza politica controcorrente... ».

Con il leader greco di Syriza, candidato alla Presidenza della Commissione Europea, parliamo al telefono mentre si prepara al viaggio palermitano di oggi. Un programma fittissimo che prevede l’omaggio all’albero Falcone e l’incontro con i lavoratori ex Fiat Termini Imerese. Un programma mirato soprattutto a garantire sprint finale alla faticosa raccolta di firme dell’Altra Europa, regione per regione, in ossequio ad una legge parecchio punitiva. Chiacchierata a tutto campo. Su Matteo Renzi, Tsipras non è tranchant: «Sarà giudicato anche dalle sue alleanze politiche in Europa...».

Lei dice: io non sono il candidato dell’Europa del Sud. Mi scusi ma lei chi rappresenta veramente?
«Io non sono il candidato di uno Stato o di una nazione, né di una periferia geografica e neppure rappresento alleanze fra Stati. Io sono un candidato della Sinistra Europea che presenta un programma politico e di priorità programmatiche per l’uscita definitiva e solidale dalla crisi e per la riconquista della democrazia in Europa. Sono il candidato di ogni cittadino europeo che combatte contro l’austerity, indipendentemente dal voto che questo cittadino esprime alle elezioni politiche nazionali e indipendentemente da dove questo cittadino vive».

Italiani, tedeschi, greci o francesi uniti dall’avversione nei confronti del neoliberismo...
«Rappresentiamo tutti quelli che non vogliono assistere al dramma di una generazione perduta a causa dell’austerità. Rappresentiamo le classi e gli interessi sociali, non gli interessi nazionali. La mia candidatura unisce quel che il neoliberismo divide. Siamo una forza politica governativa, non uno spazio di protesta».

Cosa pensa di Matteo Renzi e delle sue riforme del lavoro e costituzionali? Un dialogo con questo Pd sarà possibile?
«Non sono qui in Italia per criticare i vostri rappresentanti politici, tantomeno per commentare la vostra agenda di politica interna. Pensa che possa essere io a suggerire al vostro governo cosa deve fare e come lo deve fare o decidere quali interlocutori debbano scegliere i nostri compagni italiani? Assolutamente no. Le posso dire però che il signor Renzi va giudicato adesso e in futuro per le scelte che farà per il suo Paese e per il segno che esse porteranno. Sarà anche giudicato sulla base delle sue alleanze politiche in Europa».

Nel senso?
«Mi riferisco al percorso che Angela Merkel considera virtuoso per l’Italia, per la Grecia e per tutta la zona Euro. Bisogna sapere che quello è un binario morto».

La Merkel come il diavolo.
«Non uso un approccio teologico con gli avversari politici. Certamente Syriza e Sinistra Europea lottano contro la politica dell’austerità che la Merkel ha imposto a tutti, eccezion fatta forse per il suo Paese. Noi ci battiamo per un’Europa democratica, non per l’Europa tedesca vestita di neoliberismo».

Lei non è di quelli, come i populisti, che vogliono uscire dall’euro. Dopo le elezioni sarà inevitabile il dialogo con gli esponenti del Pse?
«Milioni di cittadini europei credono alla moneta comune, senza il corsetto dell’austerità, senza quelle politiche che allargano sempre di più la distanza tra ricchi e poveri in tutti i Paesi. Con i rappresentanti di questi cittadini possiamo trovare un linguaggio comune».

In Italia i dati sulla disoccupazione giovanile sono agghiaccianti. Si possono garantire nuovi posti di lavoro con nuove ricette?

«Ci sono soluzioni già note dai tempi del New Deal. L’austerità deve finire, bisogna rafforzare la domanda interna, ci vogliono investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel campo della conoscenza. Noi europei non ci siamo indebitati per salvare le banche e poi osservarle da lontano mentre tengono chiusi i rubinetti per l’economia reale. Non abbiamo garanzie di successo ma la voglia di batterci sì, quella ce l’abbiamo ».

Tsipras ma un’altra Europa è possibile?
«La storia dell’umanità è piena di sogni che sono diventati realtà. Queste elezioni sono un inizio potente per rifondare l’Europa».

C'è chi. come Zagrebelsky nell'intervista di Liana Milella, continua con tenacia a esprimere le ragioni della ragione. Ma c'è chi ha venduto la sua faccia a una ditta di demolizioni, e dietro la faccia non ha mai avuto un gran che. E ci sono le teste di paglia che lo seguono, e i caimani che gli indicano la strada.

La Repubblica, 3 aprile 2014

Una definizione della riforma Renzi? «Un annuncio di rischio». È in sintonia con il resto della Costituzione? «L’insieme, sottolineo l’insieme, mi pare configuri, come si usa dire, una fuoriuscita». Il governo avrà troppi poteri? «La questione è piuttosto chi ne avrà troppo pochi o nessuno: le minoranze, la partecipazione, le istanze di controllo». Il Senato sarà ancora degno di questo nome? «I Senati storici erano altra cosa, ma con le parole si può far quel che si vuole». Governatori e sindaci sono degni di starci? «Dipende dai compiti, cosa non chiara. Piuttosto che farne un pasticcio, sarebbe meglio abolirlo del tutto». Tra Renzi e Grasso chi ha ragione? «Francamente, più saggio m’è parso il presidente del Senato». Quanto c’è di Berlusconi nel disegno di Renzi? «Essendo d’accordo, tutto è di tutti e due. Le schermaglie non sono divergenze sui contenuti, ma timori reciproci di mancamenti ai patti o calcoli d’utilità politica contingente». Il professor Gustavo Zagrebelsky spiega a Repubblica le ragioni del suo dissenso.

Lei non è mai stato tenero con chi ha messo o tentato di mettere mano alla Carta. Sono storiche le bacchettate a Berlusconi. Con Renzi non è che si sta superando?
«C’è un disegno istituzionale che cova da lungo tempo e che, oggi, a differenza di allora, viene alla luce del sole. Gli oppositori d’un tempo sono diventati sostenitori. Delle due, l’una: o tacere, con ciò acconsentendo di fatto, o parlare forte. È quanto s’è fatto col documento di Libertà e Giustizia».

Non la imbarazza che Grillo l’abbia firmato?
«Perché dovrebbe? Se, su una certa materia, si condividono le stesse idee… C’è un fondo d’intolleranza, in questa domanda che da molte parti ci è posta. M5S ha aderito all’appello per la difesa della democrazia costituzionale: è un brutto segno? Semmai, il contrario. Poi si vedrà».

È seccato perché Renzi ha detto che non dà retta a professori come lei e Rodotà?
«Non è questione di “dar retta”, ma di ragionare e soppesare gli argomenti. Sarà lecito invitare chi deve prendere le decisioni a considerare le cose “da tutti i lati”?».

E quale sarebbe il «lato» che manca?
«L’antiparlamentarismo. Ora s’abbatte sul Senato, capro espiatorio di mali collettivi. È un sentimento elementare che non s’accontenta di qualcosa ma vuole tutto. “Tutto” significa il demiurgo di turno: fuori i trafficanti della politica, i profittatori, i corrotti, gli incompetenti, i chiacchieroni. Eppure, negli anni trascorsi, non sono mancati gli avvertimenti. Si è chiesta “dissociazione”: per riconciliarsi con i cittadini. Siamo stati accusati di antipolitica, di populismo: noi, che ci preoccupavamo di quel che stava accadendo; loro, che preferivano non vedere. E ora, proprio di questo vento gonfiano le vele. Chi sono allora gli antipolitici, i populisti, i demagoghi?».

Ma è un nostalgico del bicameralismo perfetto?
«Per nulla. Ma per mettere mano a una riforma, bisognerebbe chiarirsene il senso. Qual è la vocazione di tutte le “seconde Camere”? I Senati devono corrispondere a un’esigenza di precauzione. La democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materialie spirituali. È una vecchia storia, alla quale non ci piace pensare. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi, i Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi: dovrebbero essere “conservatori di futuro”».

Il Senato finora non l’avrebbe fatto?
«Non in misura sufficiente. Per questo, non sono un nostalgico. Mi piacerebbe che si discutesse d’un Senato autorevole, elettivo, per il quale valgano rigorose norme d’incompatibilità e d’ineleggibilità, diverso dalla Camera dei deputati, sottratto però all’opportunismo indotto dalla ricerca della rielezione. Una volta, i senatori erano nominati a vita. Oggi, la nomina e la durata vitalizia non sarebbero “repubblicane”. Ma si potrebbe prevedere una durata maggiore, rispetto all’altra Camera (come era originariamente), e il divieto di rielezione e di assunzione di cariche politiche ».

Ciò significherebbe differenziare i poteri delle due Camere?
«Per ciò, si dovrebbe andare oltre il bicameralismo perfetto, non per umiliare ma per valorizzare: eliminare il voto di fiducia, ma prevedere un ruolo importante sugli argomenti “etici”, di politica estera e militare, di politica finanziaria che gravano sul futuro. Altro potrebbe essere il controllo preventivo sulle nomine nei grandi enti dello Stato, sul modello statunitense. Sarebbe uno strumento di lotta alla corruzione e di bonifica nel campo dove alligna il clientelismo. Insomma, ci sarebbe molto di serio da fare».

Il manifesto, 2 aprile 2014

La crisi ita­liana sta pro­du­cendo uno dei feno­meni poli­tici più inquie­tanti, oggi, in Europa: un popu­li­smo di tipo nuovo, viru­lento e nello stesso tempo isti­tu­zio­nale. Tanto più pre­oc­cu­pante per­ché emer­gente non al mar­gine ma nel cen­tro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movi­menti così eti­chet­tati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere ese­cu­tivo, dal Governo stesso), assu­mendo come vet­tore (altro para­dosso) l’unico par­tito che con­ti­nua a defi­nirsi tale.

E che fino a ieri ten­deva a pre­sen­tarsi, a torto o a ragione, come la prin­ci­pale bar­riera con­tro le derive auto­ri­ta­rie e popu­li­sti­che. Mi rife­ri­sco al rozzo Stil novo intro­dotto da Mat­teo Renzi, con la con­vin­zione che non si tratti, solo, di una que­stione di stile. O di comu­ni­ca­zione, come fret­to­lo­sa­mente lo si clas­si­fica. Ma che tutto ciò che si con­suma sotto i nostri occhi alluda a una muta­zione gene­tica del nostro assetto isti­tu­zio­nale e dell’immaginario poli­tico che gli fa da con­torno, in senso, appunto, populista.

Se infatti per popu­li­smo si intende l’evocazione (in ampia misura reto­rica) di un “popolo” al di fuori delle sue isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive e per molti versi con­trap­po­sto alla pro­pria stessa rap­pre­sen­tanza (al corpo dei pro­pri rap­pre­sen­tanti ricon­fi­gu­rati in “casta”), allora non c’è dub­bio che Renzi ne inter­preta una variante par­ti­co­lar­mente viru­lenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha var­cato la porta di palazzo Chigi, lavo­rare per aggi­rare e ten­den­zial­mente liqui­dare ogni media­zione isti­tu­zio­nale (a comin­ciare dal Par­la­mento) per isti­tuire un rap­porto diretto capo-massa.

Le mani­che di cami­cia osten­tate nei palazzi del potere (come fosse il lea­der di un movi­mento di desca­mi­sa­dos anzi­ché pro­ve­nire da una tra­di­zione demo­cri­stiana di lungo corso e da uno dei più for­ma­li­stici pezzi dell’establish­ment quale è stato in que­sti anni il Pd). Il les­sico da ricrea­zione sco­la­stica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricor­date? -, volu­ta­mente sgan­ghe­rato, infor­mal­mente invol­ga­rito, con quello sguardo per­duto lon­tano, nell’occhio delle tele­ca­mere per sem­brare pun­tato sull’intimità delle fami­glie, comun­que oltre i volti pre­oc­cu­pati dei sena­tori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, espli­cita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle mol­te­plici strut­ture di media­zione del rap­porto tra popolo e Stato, che siano le forme con­so­li­date della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (il Par­la­mento in primo luogo), o quelle spe­ri­men­tate della rap­pre­sen­tanza sociale e dei gruppi di inte­resse (sin­da­cati, Con­fin­du­stria, liqui­dati tutti come con­cer­ta­tivi). E di ver­ti­ca­liz­zare quel rap­porto sull’asse per­so­na­liz­zato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.

Ora non c’è dub­bio che in que­sta spe­ri­co­lata ope­ra­zione Renzi può con­tare su un dato sacro­santo di realtà, costi­tuito appunto dalla macro­sco­pica crisi della Rap­pre­sen­tanza. Dei suoi sog­getti e dei suoi isti­tuti, ben visi­bile nei fatti di cro­naca: nell’impotenza mostrata dal Par­la­mento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle ver­go­gnose scene che accom­pa­gna­rono l’elezione del Pre­si­dente della Repub­blica. Nel discre­dito dei par­la­men­tari (quasi tutti), dei con­si­glieri regio­nali, degli ammi­ni­stra­tori pro­vin­ciali e comu­nali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elet­tivi, nes­suno salvo. Per­sino nello sta­tus dei pro­ta­go­ni­sti attuali: nes­suno dei tre lea­der che si spar­ti­scono la scena, da Grillo, a Ber­lu­sconi a Renzi stesso è un “par­la­men­tare”. Ma a dif­fe­renza di chi di quella crisi non ha voluto nep­pur pren­dere atto (la pre­ce­dente mag­gio­ranza Pd, che infatti si è andata a schian­tare senza nep­pure capire per­ché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arro­vel­lano per cer­carne una uscita in avanti (noi della lista per Tsi­pras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quo­tarla alla pro­pria borsa.

E’ il primo che ha scelto con­sa­pe­vol­mente di capi­ta­liz­zare sulla crisi degli ordi­na­menti rap­pre­sen­ta­tivi. Per valo­riz­zare il pro­prio per­so­nale ruolo nel qua­dro di un modello di gestione del potere espli­ci­ta­mente post-democratico. O, dicia­molo pure senza temere di appa­rire retrò, anti-democratico. Fon­dato su una forma estrema di deci­sio­ni­smo, non più nep­pure legit­ti­mata dai con­te­nuti, ma dal metodo. Deci­dere per deci­dere. Deci­dere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza deci­dere, per­ché comun­que, quello che con­terà al fine del con­senso, non sarà un fatto con­creto ma piut­to­sto il rac­conto di un fare (Crozza docet).

Per que­sto hanno ragione, ter­ri­bil­mente ragione, gli autori del docu­mento di Libertà e giu­sti­zia, lad­dove denun­ciano il reale rischio di un auto­ri­ta­ri­smo di tipo nuovo. Basato sullo scon­quasso dell’architettura isti­tu­zio­nale e sulla rot­ta­ma­zione dell’idea stessa di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, fatta con gio­va­ni­li­stica non­cu­ranza (con “stu­den­te­sca spen­sie­ra­tezza”, per usare un’espressione gobet­tiana), nel qua­dro di una par­tita in cui l’azzardo pre­vale sul cal­colo, la velo­cità sul pen­siero. E’ pos­si­bile, come temono (o spe­rano) in molti, che Mat­teo Renzi “vada a sbat­tere”. Che, come il cat­tivo gio­ca­tore di poker costretto a rilan­ciare con­ti­nua­mente la posta ad ogni mano per­duta, alla resa dei conti (all’emergere dell’ice­berg som­merso del fiscal com­pact e delle decine di miliardi da pagare) fac­cia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vici­nanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irre­ver­si­bili) che è desti­nato a fare. Den­tro que­sta for­bice tem­po­rale, si gioca la pos­si­bi­lità di costruire un’alternativa poli­tica, di sini­stra, par­te­ci­pa­tiva, non arresa ai vin­coli euro­pei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaf­fare ita­liano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.

La Repubblica, 2 aprile 2014
La democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?A giudicare da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in un altro momento critico della storia recente.

«Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento », e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società ». Ai cittadini si chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata.

Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da Claudio Tito: «Per governare efficacemente nelXXIsecolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre».

Renzi non è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (Repubblica 29/3).

Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.

Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttivedel mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa».

Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblica di domenica. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essereelettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali.

L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto.

Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo».

Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si riferisca.

Salvare le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo. Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non più nazionalmente (è impossibile) ma per patriottismo costituzionale, come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima che Habermas resuscitasse il concetto.

Manca uno spirito cosmopolita della democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda; non si conquistano «in sequenza ». O si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra.

«Il manifesto, 2 aprile 2014
Il dise­gno di legge costi­tu­zio­nale appro­vato ieri dal Con­si­glio dei mini­stri per il “supe­ra­mento” del bica­me­ra­li­smo per­fetto non ha il solo obiet­tivo che dichiara. Quello che declama è secon­da­rio, stru­men­tale. La sosti­tu­zione del Senato pari­ta­rio con que­sto fan­to­ma­tico assem­bra­mento di pre­si­denti di regione, di due dele­gati di ogni regione, di sin­daci e di “nomi­nati” dal Capo dello stato in numero cor­ri­spon­dente a quello delle regioni non mira solo allo svuo­ta­mento espli­cito di potere di quel ramo del Par­la­mento (lo si potrà ancora chia­mare cosi?) ma a qual­cosa di più rile­vante e inquie­tante.

Anche più che inquie­tante. Non uso a caso un ter­mine di tal tipo. Di fronte abbiamo l’estremismo revi­sio­ni­sta che sfo­cia nell’assolutismo maggioritario. Il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo del pro­getto ren­ziano non è affatto diretto a con­cen­trare in una sola Camera la forza della rap­pre­sen­tanza nazio­nale, come chi scrive pro­pose alla Camere (IX Legi­sla­tura pro­po­sta di legge cost. n. 2452) in rigo­rosa coe­renza con il costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra. Si viveva in ben altro clima, in una sta­gione della sto­ria repub­bli­cana del tutto diversa dall’attuale. Era il 1985, i par­titi c’erano, erano di massa ed erano que­gli stessi dell’Assemblea costi­tuente, il regime elet­to­rale era quello pro­por­zio­nale, gli anti­corpi allo stra­po­tere delle mag­gio­ranza gli erano impli­citi ed inestricabili.

Mira all’opposto del raf­for­za­mento della rap­pre­sen­tanza popo­lare il dise­gno di Renzi, mira ad eli­mi­narne una sede, un organo, una isti­tu­zione. Pri­vato della par­te­ci­pa­zione al potere di indi­rizzo poli­tico, il Senato delle auto­no­mie non eser­ci­terà nean­che una fun­zione legi­sla­tiva di qual­che rilievo. Non è organo par­la­men­tare una assem­blea che non la eser­cita, dispo­nendo solo del potere di emen­da­mento il cui eser­ci­zio non pro­duce effetti di qual­che con­si­stenza. Ma come con­fi­gu­rato, il Senato delle auto­no­mie non può rile­vare come espres­sione di una qual­che forma di democrazia.

A com­porlo non vi saranno rap­pre­sen­tanti della Nazione ma i man­da­tari degli enti regio­nali e comu­nali o per­ché tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali o per­ché scelti da tali tito­lari di organi di enti regio­nali o comu­nali.

Si aggiun­gono ad essi 21 cit­ta­dini nomi­nati dal Pre­si­dente della Repub­blica, che, stante il loro numero cor­ri­spon­dente al numero delle Regioni, potreb­bero imma­gi­narsi come fidu­ciari del Capo dello stato per mediare con quello nazio­nale l’interesse spe­ci­fico degli enti di pro­ve­nienza della mag­gio­ranza dei mem­bri di un tale Senato. La cui mag­gio­ranza rispon­derà agli enti di pro­ve­nienza e i 21 al Pre­si­dente della Repub­blica la cui figura ver­rebbe sfi­gu­rata con qual­che impronta di regia memo­ria. Comun­que né gli uni né gli altri rispon­de­ranno al corpo elet­to­rale, alla imme­diata espres­sione di quel popolo tito­lare unico della sovra­nità dalla quale sol­tanto può deri­vare la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Come si vede dalla ricon­fi­gu­ra­zione ren­ziana del Senato la rap­pre­sen­tanza poli­tica ne esce e la demo­cra­zia è dimezzata.

Come dimez­zata, con­tratta, svuo­tata è la rap­pre­sen­tanza poli­tica con­fi­gu­rata dalla legge elet­to­rale per la Camera dei depu­tati, il ren­zu­sco­num. Il cui obiet­tivo — e lo abbiamo scritto e moti­vato — è la distor­sione della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare e la sua ridu­zione a fun­zione ser­vente del pre­mie­rato asso­luto con ten­sione alla mono­cra­zia.

Sil­vio Ber­lu­sconi ha ragione nel dichia­rare che il dise­gno isti­tu­zio­nale di Mat­teo Renzi è quello incor­po­rato nella legge costi­tu­zio­nale che volle fare appro­vare nel 2005 e che il corpo elet­to­rale respinse nel 2006. Ad opporsi a quel dise­gno con tutte le forze della sini­stra e della demo­cra­zia ita­liana c’era il Par­tito demo­cra­tico. A rea­liz­zare quel dise­gno c’è ora il suo lea­der. È tri­ste ma dove­roso constatarlo.

il manifesto, 1° aprile 2014

Il governo ha appro­vato ieri un dise­gno di legge costi­tu­zio­nale che non ha i numeri per pas­sare al senato. In que­sto senso la for­za­tura è dop­pia. L’esecutivo strappa al legi­sla­tivo il potere di ini­zia­tiva sulla legge che è ter­reno comune di tutte le forze poli­ti­che, mag­gio­ranza e oppo­si­zione. In più la impone alla sua stessa mag­gio­ranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O que­sto o lascio la poli­tica, dice il pre­si­dente del Con­si­glio. Da inten­dersi meglio: o que­sto o le ele­zioni anti­ci­pate.
Chi non vota que­sta riforma del par­la­mento, insi­ste Renzi, blocca il cam­bia­mento. Sul piano della comu­ni­ca­zione sem­plice ha già vinto.

Renzi sta solo rac­co­gliendo i frutti dei difetti reali del bica­me­ra­li­smo ita­liano, dei limiti reali della classe poli­tica almeno dell’ultimo ven­ten­nio, e del vento freddo che sof­fia sulle isti­tu­zioni al quale ha spie­gato le sue vele. Messa così non c’è ana­lisi seria del pro­getto di legge che tenga, per­ché l’argomento che si deve cam­biare e cam­biare pre­sto è più tra­vol­gente di qual­siasi ragio­na­mento. Anche l’osservazione di par­tenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i con­trari che i favo­re­voli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che vote­ranno sulla base delle loro con­vin­zioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?

Molto poco è cam­biato in que­ste tre set­ti­mane, da quanto il Con­si­glio dei mini­stri aveva reso pub­blica la prima bozza. Chie­dendo quei sug­ge­ri­menti che non sono stati accolti. La riforma cam­bia il bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio ita­liano, senza avere il corag­gio di sce­gliere fino in fondo il mono­ca­me­ra­li­smo, ma tra­den­done la pul­sione. Il senato viene quindi con­ser­vato, dopo mille pro­te­ste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qual­cosa da fare. Pro­ce­di­mento rove­sciato: Renzi non è par­tito dalle fun­zioni della camera alta per dise­gnarne la com­po­si­zione, ma si è mosso dai risul­tati che voleva rag­giun­gere — strom­baz­zando quello (tutto da dimo­strare) del rispar­mio eco­no­mico — e ha adat­tato le forme. La con­clu­sione è para­dos­sale al mas­simo: i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno i nuovi sena­tori, ma dovreb­bero sen­tirsi più rap­pre­sen­tati da 150 espo­nenti delle elite poli­ti­che e cul­tu­rali coop­tati nel Palazzo. Il che pone un pro­blema enorme di tra­di­mento del prin­ci­pio della sovra­nità popo­lare. E fa sal­tare ogni garan­zia di equi­li­brio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elet­to­rale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.

Basta ragio­narci un po’ su, fare cal­coli sem­plici — in fondo non potendo noi fre­nare il cam­bia­mento pos­siamo per­met­terci il lusso di giu­di­carlo. La legge elet­to­rale appro­vata dalla camera per­mette a un solo par­tito, in ipo­tesi il Pd, che rag­giunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di par­titi più pic­coli che restano sotto la soglia di sbar­ra­mento del 4,5%, di con­qui­stare al primo turno la mag­gio­ranza asso­luta della camera. Quel par­tito basta a se steso nel voto di fidu­cia al — natu­ral­mente suo — pre­si­dente del Con­si­glio. Il par­la­mento diventa la cin­ghia di tra­smis­sione dell’esecutivo, che in più avrà a dispo­si­zione lo stru­mento nuovo della «tagliola» sui suoi prov­ve­di­menti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a que­sto resta per l’esecutivo lo stru­mento del decreto legge, che la riforma pre­sen­tata ieri da Renzi limita appena un po’, in osse­quio a quanto già sta­bi­lito dalla Corte Costituzionale.

Pas­sando al senato, guar­dando all’appartenenza poli­tica dei sin­daci dei capo­luo­ghi, dei pre­si­denti di regione e dei con­si­glieri regio­nali che vero­si­mil­mente sareb­bero scelti oggi, si può con­clu­dere che ancora il Pd avrebbe i numeri suf­fi­cienti per cam­biare da solo la Costi­tu­zione, per quanto la revi­sione resti di com­pe­tenza bica­me­rale. Per il delitto per­fetto al primo par­tito man­che­reb­bero solo pochi voti, ma potrebbe facil­mente tro­varli all’interno di quel «par­tito del pre­si­dente» che ha resi­stito nel pas­sag­gio di bozza in bozza. Saranno 21 i sena­tori nomi­nati diret­ta­mente dal pre­si­dente della Repub­blica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto deci­sivo quando avulso da qual­siasi legit­ti­ma­zione popo­lare, di primo o di secon­do grado.

Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle isti­tu­zioni. E in quella discus­sione si col­loca, schie­ran­dosi con una linea di pen­siero pre­cisa: quella che da sem­pre indica la solu­zione nel raf­for­za­mento dei poteri dell’esecutivo. Pic­colo pro­blema: è la stessa linea che ha ispi­rato le leggi elet­to­rali mag­gio­ri­ta­rie e con­sen­tito l’indicazione diretta del pre­si­dente del Con­si­glio. I risul­tati li abbiamo cono­sciuti nell’ultimo ven­ten­nio. La riforma del senato aggiun­gerà un sovrap­più di rinunce sul ver­sante par­la­men­tare. Ma che l’intenzione sia quella di col­pire più il sim­bolo che la sostanza lo dimo­strano non solo le novità che la riforma intro­duce ma anche quelle che ha dimen­ti­cato per strada. Due su tutte, che avreb­bero sì inciso nelle inef­fi­cienze del par­la­mento: la sfi­du­cia costrut­tiva, che avrebbe con­sen­tito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di espri­mere una mag­gio­ranza alter­na­tiva per un ese­cu­tivo diverso. E, final­mente, la sot­tra­zione ai depu­tati del potere di deci­dere sui loro stessi titoli di ammis­sione in par­la­mento. È il pri­vi­le­gio che ha con­sen­tito le ripe­tute ele­zioni dell’inelegibile Ber­lu­sconi e che Renzi non tocca. Gli inte­res­sano più gli slo­gan, e le alleanze

Tassare i grandi patrimoni non è sbagliato, ed è in linea con la migliore tradizione degli USA, e non è vereo «che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica».

La Repubblica, 1° aprile 2014

MAN mano che la disuguaglianza cresce di importanza nel dibattito politico americano, cresce anche il rigetto da parte della destra. Qualcuno dichiara che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica. Qualcuno dichiara che è ingiusto, che la gente deve avere il diritto di tenersi quello che guadagna. E qualcuno dichiara che è antiamericano, che da questo lato dell’Atlantico abbiamo sempre celebrato quelli che riescono a diventare ricchi, e che insinuare che certe persone controllano una quota troppo ampia della ricchezza nazionale è in contraddizione con la tradizione americana.

E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».

Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo. La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.

E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».

E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?

Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?

A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale - lo 0,1 per cento più ricco della popolazione - è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti. Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.

Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?

©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Il vero populismo è quello di Renzi, e del codazzo che lo segue: a partire dai direttori della grande stampa d'"opinione unica". Ma Renzi è un frutto, non la radice. Il manifesto, 1° aprile 2014

«O con me o con­tro di me», sapendo che chiun­que, «pro­fes­so­roni» o «benal­tri­sti» oserà con­trad­dirmi dovrà veder­sela con la furia «dei cit­ta­dini, delle fami­glie, di chi ha sem­pre pagato e ora si aspetta che a pagare siano i poli­tici». L’appello al popolo è l’arma ato­mica bran­dita da Mat­teo Renzi con­tro le voci che cri­ti­cano la sua riforma costi­tu­zio­nale appro­vata, all’unanimità, dal con­si­glio dei ministri.

Il ricatto del capo del governo ha dalla pro­pria parte la forza d’urto dei fal­li­menti della classe diri­gente, a comin­ciare da quelle forze inter­me­die, par­titi e sin­da­cati, che si rife­ri­scono alla sini­stra. E dun­que vale la pena pren­dere que­sto toro per le corna, come ha fatto nei giorni scorsi Mau­ri­zio Lan­dini nel corso di una mani­fe­sta­zione a Mar­za­botto. Il segre­ta­rio della Fiom rac­con­tava di essere stato fer­mato per la strada da un auto­mo­bi­li­sta che gli chie­deva di dare una mano a Renzi. Pro­prio a lui che, sia sulle riforme costi­tu­zio­nali che del lavoro, ha soste­nuto posi­zioni con­tra­rie. «Come rispon­diamo? Chie­dendo qual­che tavolo? E con quale forza di rappresentanza?».

Le parole di Lan­dini spie­gano meglio di tanti discorsi a che punto siamo e per­ché Renzi non è un coni­glio uscito dalle pri­ma­rie del Pd, ma un pro­dotto della crisi della poli­tica, della sini­stra, del sin­da­cato. E spie­gano per­ché l’opposizione dei costi­tu­zio­na­li­sti fir­ma­tari dell’appello con­tro la nuova Costi­tu­zione dise­gnata dal governo (tra i quali molte firme del nostro gior­nale) può facil­mente essere bol­lata come una ridotta di par­ruc­coni con­trari al cambiamento.

Osser­vare che una riforma della Costi­tu­zione come quella pre­sen­tata dall’unanime governo, com­bi­nata con una legge elet­to­rale iper­mag­gio­ri­ta­ria, può deter­mi­nare che il solo par­tito di mag­gio­ranza abbia mano libera, è bol­lato come un atten­tato al rifor­mi­smo. Le voci dis­so­nanti, da quelle del pre­si­dente del senato a quelle della sini­stra radi­cale, è denun­ciato dal coro della grande stampa e dai tg come peri­co­loso disfat­ti­smo. Sul sito di repubblica.it, a pro­po­sito del decreto sul lavoro, il 29 marzo si poteva leg­gere la cro­naca sui «i due punti intoc­ca­bili» del governo con la chiosa «così Renzi tenta di met­tere ordine alle scom­po­ste posi­zioni del suo par­tito». Un esem­pio di slit­ta­mento del lin­guag­gio che anno­vera le oppo­si­zioni alle pro­po­ste del segretario-presidente come fuoco amico.

L’onda popu­li­sta che spinge i gior­nali a farsi bol­let­tini dei son­daggi, con gli edi­to­ria­li­sti che vogliono sal­varci dalla brace di Grillo e Casa­leg­gio per frig­gerci sulla padella di Renzi, è cre­sciuta nel paese insieme e pro­por­zio­nal­mente all’arretramento della sini­stra fino all’annullamento, cul­mi­nato con la crisi eco­no­mica, di qua­lun­que visione non di alter­na­tiva, o di “equi­li­bri più avan­zati” come si sarebbe detto nella prima repub­blica, ma dell’idea stessa di una demo­cra­zia costituzionale.

Sembra una farsa, ma è una tragedia.

Il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2014

"Per me nel Sud c’è una sola roba da fare: un unico Sharm El Sheik, dove ci va tutto il mondo in vacanza”. Parola di Oscar Farinetti, patron di Eataly e guru di Matteo Renzi, che così si è espresso ieri nel faccia a faccia con Andrea Scanzi su Reputescion (La3 Tv). Farinetti ha spiegato la sua teoria: “Il Sud è uno dei posti più belli del mondo: facciamo venire tutti i turisti del mondo lì. Aprirei a tutte le multinazionali del mondo affinché vengano a farlo. Concederei loro agevolazioni fiscali bestiali, non farei pagar loro le tasse per 10 anni. L’importante è che assumano tutti italiani, che usino prodotti alimentari italiani, tavoli, sedie italiane… farei enormi agevolazioni fiscali per le startup”. Poi la conclusione: “Il problema per cui non vengono ha un nome semplice: mafia. Hanno paura di quello”.

La ricetta di Farinetti ha suscitato un’ondata di reazioni non proprio affettuose, soprattutto dal Sud. L’idea non è però così nuova. Ci aveva già pensato il ministro Tremonti: “Vendiamo la Sardegna. É un’isola lontana, non serve a nessuno. Diamo 48 ore di preavviso alla popolazione e poi gli diciamo: Siete stati venduti ai tedeschi”. C’è solo un piccolo particolare: non era il Tremonti vero, ma Corrado Guzzanti. Che scherzava. Farinetti, no.

«Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno».

Sbilanciamoci, newsletter n. 318, 1 aprile 2014

Qualche giorno fa, durante il Consiglio Europeo, Matteo Renzi ha ribadito che “l’Italia rispetterà gli impegni europei”, a partire dal tetto del 3% sul rapporto deficit/Pil, pur definendolo “anacronistico”. Allo stesso tempo, avrà probabilmente ripetuto quello che aveva detto pochi giorni prima alla Merkel, ossia che intende sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Fiscal Compact (incassando l’approvazione della cancelliera tedesca a quanto pare). La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. La posizione di Renzi sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che essa si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, come pare che la Merkel – pur facendo qualche piccola concessione nel breve termine – gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Merkel ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack, approvati dal Parlamento Europeo. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita del 1999).

Come ho spiegato più approfonditamente in un recente articolo, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.

Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.

L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.

Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.

Previsioni della Commissione Europea per l’Italia, febbraio 2014
Allo stesso tempo, però, la Commissione stima che l’Italia quest’anno registrerà un deficit strutturale dello 0.6% – quindi significativamente superiore all’obiettivo del +0.2% che l’Italia, in base al Fiscal Compact, dovrebbe centrare entro il 2016. Da cui si comprende perché la Commissione chiede all’Italia – le previsioni della Commissione vanno sempre intese più come indicazioni politiche che come semplici stime – di ridurre ulteriormente il suo deficit, portandolo al 2.2%, entro il 2015, facendo crescere il suo saldo primario (già uno dei più alti al mondo) dal 2.7 al 3.1% del Pil, per mezzo di un’ulteriore manovra di circa 5 miliardi. Altro che “margine”.

E questo sarebbe solo l’inizio. In base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero, infatti, gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact costringerebbero l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno).[1] Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione. E questo ipotizzando delle condizioni economiche future (tasso di crescita, inflazione, ecc.) “al meglio”. Una strada insostenibile non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Come ha scritto Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore:

Se si considera il moltiplicatore fiscale si può dire che per effetto di una tale manovra il Pil scenderà di un altro punto percentuale e che quindi nemmeno la manovra aggiuntiva metterà i conti italiani in ordine. I cittadini saranno estenuati dalla dimensione della manovra e indignati per la sua inefficacia. A quel punto l'azione del governo sarà politicamente insostenibile. In conclusione: o si cambia strategia nei confronti dell'Italia (Marshall Plan, deroghe su debito e spesa per investimenti, intervento della troika) o l'architettura del Fiscal Compact dovrà essere modificata.[2]

Alla luce di ciò, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht. Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? O piuttosto le sue dichiarazioni vanno intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo).

Se fosse veramente così – e ovviamente ce lo auguriamo – Renzi però dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.

[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
[2] Carlo Bastasin, “L’Europa cambi linea”, Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2013

«Mani pulite occasione persa 
per il Paese non per noi». L’Unità, 31 marzo 2014


«Abbiamo lavoratoinsieme per tanti, tantissimi anni, Gerardo era un bravissimo investigatore hadetto tra l’altro Colombo -. Lavoravamo affinché l’articolo 3, secondo cuitutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, da speranza diventi realtà».

Chi èstato per lei, Gerardo D’Ambrosio?
«Un uomoestremamente sensibile ai diritti delle persone, che faceva il suo lavoro conuna grande attenzione e passione. Per me personalmente è stato anche unmaestro, negli anni 70 quando ero appena entrato in magistratura, arrivato aMilano eravamo nello stesso Ufficio Istruzione e succedeva spesso che la sera,prima di tornare a casa, ci fermassimo a rivivere conlui le indagini che aveva fatto. E a imparare, imparare moltissimo».
Nel 2012 D’Ambrosio in un’intervistaall’Unità a proposito della stagione di Mani Pulite disse «abbiamo perso unagrande occasione , quella di sconfiggere la corruzione».

Lei ha lasciato lamagistratura a 60 anni, dichiarando «ho visto riabilitati molti dei corrottiche ho indagato». Avete condiviso questa delusione?
«A muovermi èstata la convinzione forte, fortissima che non è l’accertamento delleresponsabilità individuali delle singole persone lo strumento con cui si potevamarginalizzare la corruzione, in un paese come l’Italia dove la corruzione eraallora altissima. Credo che anche la scelta di Gerardo poi di fare dell’altro,anche se dopo la pensione, sia stata originata da una convinzione analoga.L’azione penale può servire soltanto quando la devianza è marginale. Ma quandoè normale, come era normale, che i rapporti tra privati e pubblicaamministrazione fossero accompagnati dalla corruzione, allora lo strumentogiudiziario diventava uno strumento inadeguato. Tra l’altro avevo ancheproposto, proprio all’inizio di Mani Pulite a luglio del 1992, avevo buttato lìche chi avesse raccontato come erano andate le cose, restituito e si fosseallontanato per un periodo di una certa consistenza dalla vita politica nonandasse in prigione. Insomma questa scelta di Gerardo di dedicarsi invece cheall’applicazione alla creazione delle leggi in Parlamento credo potesse corrispondereall’idea che la soluzione si trovasse in un altro settore, in un altro campo».

Comegiudicava l’esperienza in Parlamento?

«Lui era sempre un corpo estraneo all’interno dellapolitica. Non mi pare sia stato accolto a braccia aperte a livello elettorale,e credo che la sua voce abbia fatto fatica, ma molta molta fatica a farsisentire. Ci sentivamo tre quattro volte l’anno, succedeva che mi parlasse diuna sua iniziativa parlamentare e magari della delusione che aveva incontratonelle risposte».

Cosarimane allora della stagione di Mani Pulite?
«Parlavamo diGerardo, fermiamoci qui. Voglio solo precisare, a proposito di quello che sidiceva prima: non credo che abbiamo perso una grande occasione noi, comemagistrati, era impossibile arrivare a modificare la situazione di devianzacosì massiva attraverso una indagine penale».

D’Ambrosioha lavorato con passione e poi è passato alla politica. Lei dopo aver lasciatola toga ha cercato di muoversi su un altro fronte, quello dell’educazione allalegalità, nelle scuole e con i libri...
«Non voglioparlare di me. Quanto all’impegno di Gerardo, vorrei precisare perché puòessere travisato questo aspetto della passione civile, potrebbe essere magariinterpretato nel senso che allora uno fa il magistrato tenendo un po’ meno inconto le regole della propria professione: sicuramente per Gerardo non è statocosì. In uno Stato di diritto le regole vanno rispettate e se si pensa che nonsiano coerenti con la Costituzione vanno portate davanti alla CorteCostituzionale. Lui era estremamente corretto anche sotto questo profilo».

Ancora ombre nere sui protagonisti dell’assassinio di Aldo Moro, l’evento che rovesciò il senso della storia dell’Italia contemporanea, avviando in Italia (cinque anni dopo il colpo di Stato in Cile) la discesa lungo lo scivolo Craxi-Berlusconi-Renzi.

La Repubblica, 31 marzo 2014

Notizie giornalistiche riaprono i margini d’un terribile caso. Dopo 31 anni il Pci rimette piede nell’area governativa, alquanto diverso ab illo, votando fiducia al governo monocolore Dc, ma desta sospetti Giulio Andreotti (quattro volte premier), archetipo d’un versatile clericalismo reazionario, e circolano aggressivi malumori. Le Camere votano giovedì 16 marzo 1978.

La svolta conflittuale è opera d’Aldo Moro, cattedratico penalista. Quel mattino esce in via Forte Trionfale n. 79, dove l’aspettavano due automobili, 130 blu, Alfetta bianca e i cinque della scorta. In via Fani era appostato un commando delle imperversanti Brigate Rosse: la scorta tamquam non sit; li abbattono come sagome al bersaglio e lo sequestrano. L’iconografia indica un signore gentile, diverso dalla fauna politica democristiana: porta sul viso un sommesso taedium vitae, congenitamente triste, stanco, annoiato; così appare nelle fotografie 18 marzo e 20 aprile, mandate dai sequestratori.

L’occulta “Prigione del popolo” ospita un processo: capo d’accusa avere servito lo Stato Imperialista delle Multinazionali (i terroristi recitano dogmi rudimentali); tortuosamente abile nel labirinto verbale, tiene in scacco gl’inquisitori. Nel partito aveva sostenuto che gl’innocenti non siano sacrificabili al rigorismo statolatrico; e lettere ai confrères contemplano uno scambio con guerriglieri detenuti: ipotesi estrema, intanto guadagna tempo confidando nelle ricerche. Qualche parola, sfuggita alla censura, suona come riferimento topografico (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, ed. 1983, 175s.). Non è un ago nel pagliaio: Joseph Fouché, ministro della polizia napoleonica, troverebbe il bandolo a colpo d’occhio; e l’omologo Francesco Cossiga vantava singolari abilità tecnocratiche. Dev’essersene dimenticato. In mano sua al Viminale comanda la P2, nel cui disegno va stroncata l’apertura al Pci: l’apparato dà spettacolo senza l’ombra d’un piano intelligente; omissioni, sviste, passi malaccorti; davvero lo cercano? Nell’immaginario collettivo le BR assurgono a potente ente metafisico.

Sincronicamente vanno in scena orribili pantomime. Vedendosi perso, sperava ancora uno scambio. Sul teorema umanitario sostenuto illo tempore chiama testimoni due eminenti democristiani: vero, risponde Luigi Gui; Paolo Emilio Taviani nega, duramente rimbeccato. Stavolta squadra i conti, fuori dei denti. Quel boss ribatte: «Non entro in polemica con le BR»; tanto vale dire che sia succubo dei terroristi, in preda a ignobile paura. Antonello Trombadori, comunista da salotto, e Indro Montanelli gl’intonano un requiem: non esiste più, moralmente morto; riposi in pace (ivi, 68-76, 97).

Che lo Stato dovesse raccogliere la sfida terrorista, l’aveva predicato subito Ugo La Malfa, e nel clamore mediatico qualche mistificatore coinvolgeva la futura vedova attribuendole massime matronali; non lo barattino (ivi, 47 ss.). L’ineguale partita prende cadenze d’inferno. Da 40 giorni abita un cunicolo largo 90 cm e lungo 3 metri: vi macina pensieri e scrive (anche un memoriale), riuscendo a non impazzire; era impresa enorme. Martedì 25 aprile, festa della Liberazione, gli statolatri gonfiano l’ugola: non è più lui, irriconoscibile, testimoniano 50 “vecchi amici”; al posto loro, anche lui sosterrebbe la linea dura, ciarla Flaminio Piccoli (ivi, 102-8). Stando al sicuro, scherniscono l’uomo in spaventoso pericolo. E resiste alla delusione quando Paolo VI implora un rilascio senza corrispettivo (le Br chiedevano 13 detenuti, contropartita impossibile). Questo passo gli salverebbe la vita se i guerriglieri avessero l’organo pensante. Il senso salta agli occhi. Sinora hanno vinto contro lo Stato guadagnando un capitale d’immagine: l’atto pietoso lo moltiplicherebbe; libero, A. M. pone problemi insolubili; ucciderlo è favore alla clique reazionaria.

E non significa niente che là dentro (nella balena democristiana) sia il più pulito? Lo stile Andreotti risplende quando Craxi propone un modico atto umanitario: niente vieta che se ne parli, ma il governo non ammetterà la minima deroga alle norme (l’afferma uno spregiudicatissimo illegalista, partner d’accordi mafiosi), né dimentica il lutto delle famiglie colpite dall’attentato in via Fani; morto chi lo scortava, muoia anche lui. Bel teorema cannibalesco. Il morituro tocca l’argomento con mano lieve nella lettera 4 aprile a Benigno Zaccagnini: la squadra era impari al compito; l’avesse adempiuto, «non sarei qui».

Basterebbe poco a deviare le serie causali giovedì 16 marzo, h. 8.55, ma l’agguato riesce, altrettanto la fuga. Gli restano 55 giorni d’agonia: vilipeso dalla platea, non piange né inveisce, nemmeno parlando d’Andreotti. Nel cunicolo e attraverso i ritagli, scopre una diabolica giostra del potere. L’ultima lettera alla moglie contiene addii e istruzioni sul funerale. Dio sa cos’avverrebbe se, essendosi improvvisamente svegliata qualche fibra cerebrale, martedì 7 le BR lo liberassero raccomandando cautela, perché esiste un fronte statale mortuario. Sabato 13 quanti Tartufi fingono cordoglio in San Giovanni. Vincono P2, Andreotti, Cossiga (s’è guadagnato una funesta carriera). Il Pci sbaglia partita. L’affarista emergente d’Arcore mette piede nell’etere, futuro Re Lanterna.

Corrono fili neri nella storia italiana tra i due secoli: degli oligarchi simulavano rigore etico, genuflessi davanti all’entità mistica “Stato” (da queste parti pochi sanno cosa sia); così liquidano l’innovatore: 36 anni dopo dei giudici devono stabilire se e come lo Stato coesistesse transigente con temibili antagonisti criminali; puntuale, l’oligarchia tenta d’allungare le mani nel giudizio e oppone dei segreti. Meno visibile, ha ancora voce determinante l’ormai vecchio Re Lanterna, tre volte premier, egemone d’un ventennio, negromante dei media, smisuratamente ricco.

Intervista al presidente di Palazzo Madama che contesta la riforma proposta da Renzi.Resti un’assemblea di eletti: non dia la fiducia, ma si occupi di leggi costituzionali e etiche. La democrazia viene prima del portafoglio. Le parole del Presidente del Senato non è rivolto solo al caopetto, ma a tutti quelli vhe condividono la responsabilità di decidere.

La Repubblica, 30 marzo 2014

Sindaci e governatori nel nuovo Senato? «Ci sarebbe una sovrapposizione di poteri diversi ». Chi dovrebbe scegliere i futuri senatori? «Anche la gente». Il nome? «Sempre Senato». I rapporti tra Montecitorio e Palazzo Madama? «No al bicameralismo perfetto». La fiducia? «Solo alla Camera». L’obiettivo istituzionale? «La stabilità e la rappresentatività indicata dalla Corte costituzionale ».

Nel suo studio le foto sono soprattutto quelle della vita da magistrato, anche se spicca l’ultima con Papa Francesco. Lui, il presidente del Senato Pietro Grasso, ragiona solo da politico. Quando gli si dice che un accreditato gossip lo descrive come il futuro capo dello Stato, con aria visibilmente seccata, replica: «Non scherziamo. Io penso a fare bene il mio lavoro, e da presidente parlo della riforma del Senato, nel mio pieno ruolo istituzionale e super partes». E come si sente come probabile ultimo presidente di questo Senato? «Da fuori mi vedono come l’ultimo imperatore, io mi sento l’ultimo dei mohicani...».

Renzi è stato netto, ha detto «se il Senato non va a casa, vado a casa io». Domani esce il suo testo. Se vestisse i suoi panni che farebbe? «Quello che sta facendo lui, lavorando con tutte le mie forze per superare il bicameralismo perfetto, diminuire il numero dei parlamentari, semplificare l’iter legislativo». Ma da qui come la vede? Abolire il Senato è davvero necessario e indispensabile? «Aldilà delle semplificazioni mediatiche nessuno parla di abolire il Senato, ma di superare il bicameralismo attuale. L’urgenza è prima istituzionale che economica: dobbiamo accelerare il processo legislativo, senza indebolire la democrazia ».

Che aria ha avvertito nei suoi incontri con la gente, ritengono il Senato un’inutile fonte di sprechi? Un duplicato della Camera? Una perdita di tempo? Un residuo del passato? «Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta». E sarebbe? «Affidare a una sola camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato».

Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto? «Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini...». Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi... «Non è la stessa proposta, perché io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane ».

Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perché è contrario? «Perché ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ». Quindi un fifty-fifty? «Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso».

Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze. «Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni». E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perché gli eletti, proprio come quelli di illustri che siano? adesso, dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi? «Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità, solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».

Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa? «Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, né di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera». Di quali leggi dovrebbe occuparsi? «Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona». Solo questo? «Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi.

Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa». Prevede anche i senatori a vita o cittadini «L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».

Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile? «Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».

Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma? «Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato». Ne è davvero convinto o s’illude? «Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità, si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni».

Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile? «Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni». Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede? «Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum». Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perché? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma? «Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».

Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato? «Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».

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