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Ecco i nuovi padroni, ecco il Mercato: è il finanzcapitalismo, baby. Lui è globale, noi ci guardiamo piangere da un recinto all’altro.

La Repubblica, 19 maggio 2014
La Borsa tricolore è stata per quarant’anni una riserva di caccia con due soli protagonisti: i salotti buoni — un groviglio di patti di sindacato e partecipazioni incrociate tra banche e famiglie incaricato di gestire gli affari dei soliti noti — e le aziende di Stato. Oggi il vento è cambiato. Gli ex-poteri forti, fiaccati dallo sfarinamento delle dinastie industriali, dai prestiti in sofferenza e dalla crisi, sono a corto di quattrini. E in virtù dell’aurea legge (“Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto”) coniata da Enrico Cuccia, il deus ex machina di questo mondo, il listino milanese ha trovato il suo nuovo padrone: i grandi fondi esteri. Un universo magmatico a molti volti — tra cui quello delle mitiche Scottish Widows, i fondi delle parrocchie presbiteriane e i gestori dei risparmi dei professori dell’Illinois — che in un mese, con un uno-due violento quanto inatteso, ha spazzato via i cocci del capitalismo di relazione tricolore e ha messo ko all’assemblea dell’Eni e di Finmeccanica il Tesoro italiano.

La Waterloo dei salotti buoni ha una data e un luogo preciso: l’assemblea di Telecom Italia a Rozzano, 16 aprile 2014. Il copione, lo stesso degli ultimi sette anni, era in teoria già scritto:

Telco - la holding partecipata da Generali, Mediobanca e Intesa San Paolo, uno degli ultimi residuati dei salotti buoni - avrebbe voluto nominare con il 22,8% del capitale un nuovo cda a sua immagine e somiglianza. Facendo ratificare al mercato le decisioni prese nelle segrete stanze del miglio quadrato attorno a Piazzetta Cuccia. Non è andata così. Alla conta dei voti, è arrivata la sorpresa: i grandi investitori internazionali hanno battuto i vecchi padroni di Piazza Affari, nominando tre loro rappresentanti in consiglio.

Un eccezione? No, la nuova regola. La presenza dei fondi nelle assemblee delle società italiane è raddoppiata in due anni dall’11,6% al 21,6% del capitale rappresentato, dice uno studio della Fondazione Bruno Visentini. Oggi con 200 miliardi di investimenti hanno in portafoglio il 38% di Piazza Affari. Sono loro il primo azionista delle Generali (all’ultima assemblea avevano il 15,2%), di Unicredit e Intesa Sanpaolo con quote attorno al 30% e di molte altre blue chip. E dopo anni vissuti da minoranza silenziosa hanno iniziato a far sentire la loro voce nella foresta pietrificata della finanza tricolore. Ne ha dovuto prendere atto, obtorto collo, anche il governo Renzi. Palazzo Chigi e il Tesoro hanno passato giornate a limare i nuovi requisiti di onorabilità da proporre alle assemblee di Eni, Finmeccanica ed Enel. Convinti di farli approvare senza problemi. Anche loro hanno fatto i conti senza l’oste. Quando il rappresentante di via XX settembre ha messo ai voti il piano all’assemblea Eni, i grandi fondi esteri — allergici alle intrusioni dello Stato — si sono messi di traverso e la norma non è passata. Confermando così che l’Italia ha perso il controllo della maggiore (e più strategica) impresa nazionale. Lo stesso è accaduto in Finmeccanica.

L’identikit dei nuovi padroni di Piazza Affari è un’immagine insieme semplice e complessa. Semplice perché sono i gestori di quella valanga di liquidità ammucchiata negli ultimi anni (o pompata dalle banche centrali) che muove gli equilibri geopolitici del mondo, spostando masse enormi di denaro dalle star-up di Internet ai laboratori biotech, dai derivati ai titoli di stato, dai dollari all’euro, magari affondando - salvo poi reinnamorarsene in questi mesi - i paesi in odore di crisi. Complessa perché in questo mare magnum ci sono mille realtà finanziarie diverse: fondi a lungo termine, attivisti, hedge che muovono quattrini ai ritmi frenetici dei millesimi di secondo dettati dai programmi computerizzati del listini.

Speculatori? Tutt’altro, dicono loro. «Il 50% dei nostri sottoscrittori sono famiglie, tra cui migliaia di italiani, magari con solo 10mila euro da investire. Non mi pare che questi siano i fantomatici raider di cui si parla», è il mantra di Andrea Viganò, country head del fondo Blackrock, il colosso Usa che gestisce 4.300 miliardi di patrimonio (il doppio del Pil tricolore, 10 volte il valore dell’intero listino tricolore) e che negli ultimi mesi si è messo in tasca il 6% di Intesa e Unicredit, il 5% di Bpm, il 3,7% di Mps oltre a quote importanti in Generali, Fiat, Atlantia e Mediaset.

Il loro sbarco in Italia coincide, non a casa, con l’implosione del sistema dei salotti buoni. Mediobanca, fiutato il vento, ha da tempo iniziato a smontare il suo reticolo di partecipazioni per concentrarsi sul core business della banca d’affari, In pochi mesi si sono sciolti come neve al sole patti di sindacato storici e inossidabili come quelli di Pirelli, Rcs e Benetton. Oggi a questo piccolo mondo antico — che non a caso ha messo in vendita 4 miliardi delle sue quote incrociate — è venuto a mancare il collante che lo teneva unito: i soldi (spesso degli altri). «Le vecchie famiglie non li hanno. Le banche di riferimento nemmeno. Il meccanismo del do ut des, delle operazioni gestite chiamando a raccolta un gruppo ristretto di amici si è inceppato. Le aziende per crescere o per non morire sono costrette a cercarli dove ci sono: dal mercato e dai fondi», spiega Dario Trevisan, il legale milanese che da anni rappresenta i nuovi poteri forti di Piazza Affari alle assemblee delle aziende quotate. Trevisan non è un Agnelli né un Berlusconi. Eppure si è presentato all’assemblea di Generali con il 15% dei voti, in quella di Telecom con il 27% e all’Eni con il 30%, più dello Stato. «E’ un bene? Sì - sostiene lui- . I fondi non sposano interessi e non hanno miopi visioni locali».

Il rischio, dicono i critici, è che i grandi fondi seguano logiche finanziare di breve respiro. «Mi sento di dire che non è così — assicura Valerio Battista, ad di quella Prysmian che uscendo da Pirelli è diventata la prima grande public-company italiana gestita dai grandi investitori istituzionali — : la maggioranza di quelli che stanno sbarcando ora sul mercato italiano è gente seria che investe sul lungo termine. Gente che non ha paura di mettere soldi su un buon progetto. Il loro problema è la remunerazione del capitale, non la diluizione delle quote». «In America il boom pluridecennale dell’hi-tech e delle biotecnologie è stato sostenuto proprio dai loro soldi. Il mercato su questo fronte è molto più efficiente di banche e famiglie», dice Umberto Mosetti, uno dei massimi esperti italiani di corporate governance che con il fondo Amber ha combattuto con successe alcune battaglie tra cui quelle contro la gestione Besnier in Parmalat. Qualcuno, dopo il voto all’Eni, vede a rischio l’italianità del Belpaese Spa. «Rischio che non esiste - dice il “mercatista” Mosetti - visto che il totem della difesa dell’identità delle nostre aziende è stato utilizzato finora per arricchire singole persone e non nell’interesse della nazione».

Nessuno, per ora, pare aver intenzione di alzare barricate. Anche perché lo Tsunami dei fondi internazionali è stato uno dei fattori chiave per riportare lo spread italiano sotto quota 200. L’importante, dice l’esperienza del passato, è non sottovalutarne l’umoralità. Come arrivano, spesso vanno.. Alla stessa velocità. E se vogliono colpire duro, anche Vedove scozzesi, preti presbiteriani & Co. sono in grado di far male a chiunque: hanno fatto saltare i vertici di Hewlett Packard, costretto un colosso come Apple a rivedere la sua politica di dividendi, tagliato lo stipendio a un nume tutelare della pubblicità come Martin Sorrell. Il 30% di loro ha votato contro le super-buste paga dei manager italiani nell’ultima tornata di assemblee. Chi ha orecchi per intendere, intenda. La loro battaglia, nello stivale, è solo all’inizio.

«Domenica 25 si vota per il futuro dell'Ue. Tra euroscettici ed europeisti neoliberali, esiste una terza via: la proposta di un progetto europeo che offra un'alternativa al modello egemone, in preda a una gramsciana «crisi organica». Syriza può essere il collante dell'antagonismo».

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Le prossime elezioni europee dovrebbero essere considerate l'occasione per una competizione agonistica sul futuro dell'Unione. Una competizione, che oggi è assolutamente fondamentale. Molti a sinistra cominciano a dubitare che si possa realizzare, all'interno dell'attuale costruzione europea, un'alternativa al modello neoliberale di globalizzazione. E l'Unione europea è sempre più percepita come un progetto intrinsecamente neoliberale che non può essere riformato. In tal senso, appare inutile provare a trasformare le sue istituzioni, e l'unica strada possibile è quella dell'uscita.

Ma questa visione pessimistica deriva indubbiamente dal fatto che tutti i tentativi di contrastare le regole neoliberali dominanti vengano sistematicamente presentati come la mera espressione di attacchi anti-europei contro l'esistenza stessa dell'Unione. Non può certo sorprendere che un numero crescente di cittadini, privati della possibilità di avanzare legittime critiche alle politiche neoliberali, sia diventato euroscettico. Essi credono che il progetto europeo sia proprio la causa della condizione di emergenza che stiamo vivendo e temono che una maggiore integrazione comunitaria porti soltanto al rafforzamento dell'egemonia neoliberale.

Questa posizione minaccia la sopravvivenza del progetto europeo e l'unico modo per arrestare la sua diffusione consiste nel creare le condizioni per una contestazione democratica all'interno dell'Unione europea. Dal mio punto di vista, alla base della disaffezione nei confronti della Ue vi è la mancanza di un progetto che favorisca una forte identificazione tra i suoi cittadini e fornisca un obiettivo per mobilitare democraticamente le loro passioni politiche. La Ue è formata da consumatori, non da cittadini: è stata costruita essenzialmente intorno a un mercato comune e non ha mai creato una volontà comune. Nessuna sorpresa, quindi, se in tempi di crisi economica e di politiche di austerità più di qualcuno inizi a mettere in dubbio la sua utilità, dimenticando che l'Unione europea ha contribuito in modo decisivo alla pacificazione del continente. Ciò che serve in questa congiuntura è rafforzare il consenso popolare nei confronti dell'Unione grazie all'elaborazione di un progetto socio-politico finalizzato ad offrire un'alternativa al modello neoliberale che ha prevalso negli ultimi decenni: quel modello è ora in crisi, ma un altro ancora non esiste. Si potrebbe dire, sulle orme di Gramsci, che stiamo assistendo a una «crisi organica» in cui il vecchio modello non può più durare, mentre il nuovo modello non è ancora nato.

Purtroppo la sinistra non è in grado di trarre vantaggi da questa situazione, perché ha accettato per troppo tempo l'idea che alla globalizzazione neoliberale non vi sia alternativa. In molti paesi, i governi di centro-sinistra hanno giocato un ruolo fondamentale nel processo di deregolamentazione e privatizzazione che ha contribuito a consolidare l'egemonia neoliberale. E non si può negare che le istituzioni europee abbiano la loro parte di responsabilità nella crisi attuale. È un errore, però, concepire questa crisi come una crisi del progetto europeo. Si tratta piuttosto di una crisi della sua incarnazione neoliberale, ed è per questo che i tentativi di risolverla somministrando una dose ancora più forte di politiche neoliberali non può avere alcun successo. Per combattere il dilagare di sentimenti anti-europei e fermare la crescita dei partiti della destra populista che eccitano tali sentimenti, è urgente offrire ai cittadini europei un progetto politico che possa dar loro la speranza di un futuro diverso, più democratico.

Fortunatamente in molti paesi d'Europa sono nati partiti che si pongono a sinistra delle socialdemocrazie e che sfidano il loro centrismo. Organizzati nel Partito della Sinistra europea, lavorano per un'alternativa all'egemonia neoliberale e hanno deciso di lanciare un'offensiva a livello continentale. Così, in occasione del quarto Congresso che si è tenuto a Madrid dal 13 al 15 dicembre 2013, hanno scelto di candidare il leader di Syriza in Grecia, Alexis Tsipras, alla presidenza della Commissione europea con l'obiettivo di proporre un altro modello per l'Unione. Syriza è una coalizione di partiti e movimenti sociali, e da questo connubio può istituirsi lo spazio per mobilitare la vasta costellazione di forze sociali che si oppongono alle attuali politiche della Ue. In molti paesi i movimenti sociali hanno risposto positivamente all'appello del Partito della Sinistra europea a sostegno della candidatura di Tsipras, e sono ora impegnati a organizzare la loro partecipazione alla campagna politica. In Italia, per esempio, hanno dato vita a una Lista Tsipras per sostenere il programma che Tsipras ha presentato accettando la sua candidatura alle elezioni europee. Si tratta di uno sviluppo molto promettente, perché soltanto sulla base di una sinergia a livello europeo tra partiti della sinistra e movimenti sociali è possibile costruire una soggettività in grado di portare a una trasformazione radicale dell'attuale ordine neoliberale.

«Dai social forum agli Indignados, la protesta si è spostata nelle piazze. Ma i movimenti soffrono la mancanza di un coordinamento europeo». Non solo di questo soffrono, ma ne riparleremo: la discussione è già aperta.

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Le elezioni europee saranno le prime ad avere luogo nel pieno della Grande Recessione. I sondaggi - inclusi quelli promossi dalla Commissione Europea per mezzo di Eurobarometer - mostrano chiaramente gli effetti che la crisi finanziaria ha avuto sulla fiducia dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni europee. Fiducia che ha subìto un calo drammatico, passando dal 57% della primavera del 2007 al 31% dell'autunno dell'anno scorso.

La crescente sfiducia nell'Ue va di pari passo con un aumento drammatico nella percentuale di cittadini nei quali l'Ue suscita un'immagine negativa, che è addirittura raddoppiata (dal 15 al 28%), mentre la percentuale di coloro nei quali suscita un'immagine positiva è crollata (passando dal 52 al 31%). Nel frattempo, la porzione della popolazione che si dichiara ottimista nei confronti degli sviluppi futuri dell'Ue è scesa da 2/3 alla metà del totale, mentre la porzione che si dichiara pessimista ha raggiunto i 2/3 del totale in Portogallo, Grecia e Cipro. I sondaggi ci rivelano anche quanto il tracollo di legittimità politica delle istituzioni sia legato alla crisi finanziaria e in particolare alle politiche di austerità. La metà degli intervistati (e i 2/3 in Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro) pone la disoccupazione in cima alle proprie preoccupazioni, seguita dalla situazione economica. Solo il 14% considera il debito pubblico un problema. Il calo di fiducia va di paro passo col mutato giudizio nei confronti della situazione economica nazionale, che registra un aumento significativo nella percentuale - pari quasi al 100% nei paesi del Sud Europa - di coloro che la considerano totalmente negativa. È in rapido aumento anche la percentuale di intervistati (2/3) che ritiene di non avere voce in capitolo in merito alle decisioni prese dall'Ue; percentuale che aumenta drammaticamente (fino a 4/5) nei paesi dell'Est e del Sud Europa.

L'impatto degenerativo dell'«Europa del mercato» in termini di benessere economico e dell'«Europeizzazione dall'alto» in termini di consenso politico è oggetto di dibattitto tra i movimenti sin dai tempi del primo Forum Social Europeo, tenutosi a Firenze nel 2002. La speranza di riuscire a contribuire alla creazione di un'Europa più giusta e inclusiva è però andata in frantumi nel corso di quel decennio, in cui la crisi finanziaria ha dimostrato sia il radicamento delle idee neoliberiste all'interno delle istituzioni Ue che la l'incapacità di queste ultime di tenere fede alle loro promesse. La crisi finanziaria globale ha infatti accentuato gli effetti divergenti della moneta unica in termini di disuguaglianze territoriali. L'assenza di investimenti finalizzati al miglioramento delle loro infrastrutture socioeconomiche ha reso le periferie dell'Ue non solo più vulnerabili alla crisi, ma anche più dipendenti. Le politiche monetarie (del tutto insufficienti) messe in atto in seguito alla crisi finanziaria hanno dimostrato l'influenza dell'ideologia neoliberista sull'Ue in generale, e sulla Bce in particolare. L'illusione della federazione, e del riconoscimento dei diritti degli stati più deboli, è svanita di fronte alle pesanti conditionalities imposte ai paesi più colpiti dalla crisi economica, che sono stati costretti a sacrificare quel poco di sovranità nazionale rimasta in cambio di aiuti materiali. Questi mutamenti nelle istituzioni dell'Ue si riflettono nell'atteggiamento assunto dai movimenti progressisti nei loro confronti.

Laddove all'inizio del millennio il lavoro dei movimenti per la giustizia globale si era concentrato sull'elaborazione di una visione critica dell'Europa, oggi le proteste anti- austerity sembrano improntate alla difesa di ciò che è rimasto delle sovranità nazionali, perlomeno nelle economie più deboli. L'europeismo critico esiste ancora, ma la fiducia nella riformabilità delle istituzioni europee, e nella possibilità di influenzare le politiche europee per mezzo delle attività di lobbying e di consultazione, è stata messa a dura prova. Alla base di molte delle proteste anti- austerity, infatti, soggiace l'idea che la democrazia rappresentativa sia stata irrimediabilmente corrotta dall'intreccio tra potere economico e politico. Il fatto che le istituzioni sono considerate non-rappresentative si riflette negli studi che indicano che coloro che partecipano alle proteste hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni democratiche, a tutti i livelli territoriali.

Se compariamo, per esempio, le risposte date al questionario sottoposto ai partecipanti del Forum Sociale Europeo del 2002 con quelle date allo stesso questionario dieci anni dopo, in occasione del forum Firenze 10+10, notiamo un calo drammatico nella percentuale di coloro che dichiarano di avere fiducia nei parlamenti, nei partiti e nei sindacati nazionale, ma anche nell'Ue e nelle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, notiamo un aumento nella percentuale di persone che ritengono che, per raggiungere gli obiettivi del movimento, sia necessario aumentare i poteri dei governi nazionali. Questa sembra essere una reazione diffusa all'usurpamento di sovranità nazionale prodotto dalla crisi, in particolare nei paesi della periferia europea. Le modalità di mobilitazione e di azione dei movimenti anti- austerity riflettono questo cambiamento. I contro-summit e i Forum sociali europei sono stati rimpiazzati dalle occupazioni delle piazze pubbliche, in cui gli occupanti puntano a ricostruire i processi democratici - dal basso e a livello locale. Le acampadas degli indignados e dei movimenti Occupy possono essere considerate una forma di politica prefigurativa, orientata a incarnare i processi democratici in prima persona piuttosto che a relazionarsi con un sistema considerato ormai incapace di implementare la democrazia. Se compariamo i forum sociali con le più recenti proteste contro le politiche di austerità, possiamo cogliere delle similitudini nella critica della visione neoliberista della democrazia rappresentativa, ma anche delle differenze. In particolare, le tensioni nel rapporto con i partiti politici (e le istituzioni democratiche in generale), che erano già presenti nei forum, nelle ondate successive di protesta si sono fortemente radicalizzate, caratterizzandosi per un rifiuto diffuso di stringere alleanze con i partiti e persino con le associazioni politiche, considerati strumenti (corrotti) di dominio. Parallelamente, se è vero che gli appelli per un'altra Europa sono ancora udibili, le crescenti disuguaglianze territoriali, e l'asimmetria degli impatti della crisi globale, rendono più difficile il coordinamento a livello europeo. I tentativi di stringere alleanze di movimento a livello transnazionale rimangono sporadici e soffrono della mancanza di eventi catalizzatori, quali summit anti-Ue e Forum sociali europei.

Il nuovo contesto politico ci costringe a ripensare molte delle strategie per lo sviluppo democratico delle istituzioni dell'Ue e pone l'accento sulla necessità di elaborare una strategia di lotta multilivello se vogliamo incidere su un piano istituzionale che si è dimostrato sempre più impermeabile alle forme di pressione sperimentate in passato.

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Il manifesto, 18 maggio 2014 (m.p.r.)

Nel giorno in cui Beppe Grillo ha con­qui­stato i pal­co­sce­nici media­tici tanto odiati con qual­che bat­tuta a effetto su Hitler, Sta­lin, Schulz e Angela Mer­kel, men­tre Sil­vio Ber­lu­sconi gli con­ten­deva invano la «mar­cia su Roma», la piazza romana dei movi­menti è apparsa, al con­fronto, un’oasi di tran­quil­lità e buon­senso. Non sfon­derà per que­sto gli schermi e le prime pagine dei gior­nali, eppure è stata l’unica, nel lin­guag­gio sopra le righe della cam­pa­gna elet­to­rale, ad avan­zare richie­ste pre­cise e porre le domande giu­ste ai palazzi sem­pre più chiusi e auto­cen­trati della poli­tica: che ne sarà del refe­ren­dum sull’acqua pub­blica e i beni comuni con la nuova ondata di pri­va­tiz­za­zioni alle porte? Cosa acca­drà alle migliaia di per­sone costrette gio­co­forza a occu­pare una casa una volta che sarà appro­vato l’articolo 5 della legge Lupi che proi­bi­sce loro di allac­ciare l’acqua e l’energia elet­trica? Su cosa pun­terà le sue risorse il governo Renzi, sulle tri­vel­la­zioni petro­li­fere o sulle ener­gie rin­no­va­bili? È pos­si­bile una poli­tica dei rifiuti che non con­tem­pli sem­pre e solo inceneritori?

Que­stioni con­crete, ambien­tali e sociali, che inci­dono diret­ta­mente sulle vite delle per­sone e coin­vol­gono ter­ri­tori già deva­stati da decenni di incu­ria e spe­cu­la­zioni, ma fuori da un’agenda poli­tica che ormai da anni non tiene conto degli umori delle piazze e delle richie­ste dei movi­menti, per­sino le più ragio­ne­voli. Anche la mani­fe­sta­zione di ieri rischia di rima­nere ina­scol­tata. Nella migliore delle ipo­tesi, sarà con­se­gnata al fol­klore media­tico dei cor­tei paci­fici e colo­rati, lo spec­chio rove­sciato di quello dello scorso 12 aprile, che ha con­qui­stato gli onori delle cro­na­che per gli scon­tri nelle vie della Dolce vita e una ragazza cal­pe­stata come uno zai­netto senza per que­sto che, ancora una volta, si discu­tes­sero le que­stioni che poneva: ancora una volta la casa, e poi le grandi opere e lo sfrut­ta­mento del lavoro, que­stione cen­trale oggi in Ita­lia e in Europa.

C’è poi una que­stione più gene­rale: l’austerità che sta stran­go­lando il sud del con­ti­nente. Su que­sto le forze poli­ti­che che si oppon­gono ad essa hanno l’obbligo di dimo­strare che fanno sul serio. È que­sto il loro com­pito prin­ci­pale ed è su que­sto ter­reno che si gioca il loro consenso.

«Bell'ambiente. La molteplicità dell’opposizione sociale: lotte ambientali, teatri occupati, studenti, centri sociali, Cobas, Usb e la Fiom, il diritto all’abitare. ma è necessario un salto di qua­lità nella costru­zione di una rete tra i movi­menti che si bat­tono per i beni comuni utile a raf­for­zare anche le sin­gole ver­tenze sui territori».

Il manifesto, 18 maggio 2014
Ogni giorno ti sve­gli e sai che tro­ve­rai degli osta­coli, che dovrai oltre­pas­sare i limiti e dovrai esporti. Sono le scritte che appa­iono in alcuni video dif­fusi in rete dal tea­tro Valle occu­pato per lan­ciare la mani­fe­sta­zione per i beni comuni e con­tro le pri­va­tiz­za­zioni e le grandi opere che ieri ha visto sfi­lare decine di migliaia di per­sone (50 mila per gli orga­niz­za­tori) da piazza Repub­blica a piazza Navona a Roma.

Nei video si vede una nuo­ta­trice, una pal­la­vo­li­sta, un ten­ni­sta e un cor­ri­dore impe­gnati a bat­tersi con­tro gli osta­coli al diritto alla città e al tra­sporto, all’accesso ai beni comuni e alla cul­tura, agli spazi pub­blici in dismis­sione e da rige­ne­rare per esi­genze abi­ta­tive. «Il movi­mento fa bene» è il titolo di una cam­pa­gna che ieri ha spinto molte per­sone a sfi­lare in tenuta da podista.

La nuo­ta­trice invita ad immer­gersi nella città tuf­fan­dosi in una fon­tana. Con que­sto vuole invi­tare a man­te­nere il diritto al dis­senso e a non temere il mini­stro degli interni Alfano vuole chiu­dere il cen­tro di Roma alle mani­fe­sta­zioni per «evi­tare sac­cheggi» che non ci sono mai stati. In un altro video la pal­la­vo­li­sta schiac­cia la palla con­tro uno sten­dardo dell’Expo 2015 a Milano e segna un punto con­tro il sistema dei grandi eventi, e delle grandi opere che deva­stano i ter­ri­tori, assor­bono milioni di euro in un modello di svi­luppo che non redi­stri­bui­sce ric­chezza e ampli­fica il sistema della cor­ru­zione. Il ten­ni­sta lan­cia la sua palla con­tro il muro inva­li­ca­bile di una caserma, molte delle quali ver­ranno dismesse, e chiede che siano usate come «patri­mo­nio comune», affi­date cioè ai comi­tati e ai movi­menti che si stanno auto-organizzando in tutto il paese per gestire edi­fici, casali, ter­ri­tori, isole come Pove­glia a Vene­zia e la sua laguna con­tro il pas­sag­gio di quei mostri gal­leg­gianti che sono le navi crociere.

Dalla Sici­lia con il movi­mento No Muos alla Valle di Susa con i No Tav, dalle reti cam­pane di «Stop Bio­ci­dio» alla cam­pa­gna con­tro il par­te­na­riato trans-atlantico per il com­mer­cio e gli inve­sti­menti (Ttip ) dalla lista «L’Altra Europa con Tsi­pras» al Forum dell’Acqua pub­blica pas­sando per la Fiom, l’Unione Sin­da­cale di Base, i Cobas e gli stu­denti di Link e dell’Uds, ieri a Roma è sfi­lato un cor­teo gio­ioso e colo­rato che ha mostrato la com­plessa arti­co­la­zione delle que­stioni sociali, ambien­tali, abi­ta­tive o eco­no­mi­che attorno alle quali si è rior­ga­niz­zata l’opposizione sociale nel nostro paese. Dal palco improv­vi­sato su un camion per i comizi finali gli orga­niz­za­tori della mani­fe­sta­zione hanno più volte invi­tato ad un «salto di qua­lità nella costru­zione di una rete tra i movi­menti che si bat­tono per i beni comuni utile a raf­for­zare anche le sin­gole ver­tenze sui territori».

Una richie­sta che nasce dall’esigenza di non restare iso­lati in un con­te­sto dove il dibat­tito pub­blico è ancora sal­da­mente ispi­rato dai para­me­tri della cosid­detta «auste­rità espan­siva»: il pareg­gio di bilan­cio; i tagli alla spesa pub­blica per finan­ziare uno sten­tato rilan­cio dei con­sumi; il taglio del debito pub­blico anche attra­verso dismis­sioni e privatizzazioni.

In que­ste con­di­zioni, come ha ricor­dato Luca Fagiano del coor­di­na­mento romano di lotta della Casa, lo spa­zio per il dis­senso, come per un modello alter­na­tivo di società o svi­luppo, viene can­cel­lato insieme ad ogni pos­si­bi­lità di media­zione. Sgom­beri vio­lenti, divieti a mani­fe­stare, l’attacco ven­di­ca­tivo alle occu­pa­zioni delle case rap­pre­sen­tato dall’articolo 5 del «piano Lupi» sull’emergenza abi­ta­tiva sul quale il governo chie­derà la fidu­cia alla Camera lunedì pros­simo, l’espropriazione dei beni comuni e cul­tu­rali non sem­brano offrire spa­zio per il pos­si­bile. Con­tro que­sta ten­denza ieri è stata ricon­fer­mata l’esigenza di auto-organizzazione su base locale e nazio­nale tanto più viva quanto più avanza l’impoverimento di ampie fasce della popo­la­zione, sot­to­po­ste a per­dita del lavoro, del red­dito, della pos­si­bi­lità di accesso ai ser­vizi, ai danni ambientali.

«È stata una grande mani­fe­sta­zione molto par­te­ci­pata — ha detto Paolo Car­setti del movi­mento per l’acqua — decine di realtà sono scese in piazza per riba­dire il rifiuto alle pri­va­tiz­za­zioni, nono­stante i divieti della pre­fet­tura ad alcuni pas­saggi sim­bo­lici come quello in via Goito sotto la Cassa Depo­siti e Pre­stiti o in via XX set­tem­bre al mini­stero dell’Economia su dik­tat del mini­stro Alfano». Con­ti­nua ad essere molto sen­tita la pole­mica sui numeri iden­ti­fi­ca­tive delle forze dell’ordine in ser­vi­zio. Si è par­lato in que­sti giorni di fan­to­ma­ti­che micro-camere indos­sate dagli agenti in piazza, oppure dai loro capo­squa­dra, per iden­ti­fi­care pre­sunti mani­fe­stanti vio­lenti. Dopo un’accurata ricerca, svolta da parec­chi mani­fe­stanti, nes­suno le ha tro­vate addosso agli agenti schie­rati in gran numero per bloc­care tutti gli accessi a Piazza Vene­zia, come in tutto il cen­tro sto­rico di Roma dove sono spun­tate decine di camio­nette, anche con gli idranti, fino a piazza Navona.

In com­penso sono state notate le 350 pet­to­rine indos­sate da altret­tanti mani­fe­stanti. Sono state dif­fuse dal tea­tro Valle e dall’Angelo Mai in cor­teo nello spez­zone «uni­ted com­mo­ners of europe rise up!» com­po­sto anche da stu­denti e pre­cari. Cia­scuna aveva stam­pato il nome di un musi­ci­sta, di un filo­sofo, di un arti­sta o un attore con il quale essere iden­ti­fi­cati. Da Mary­lin Mon­roe a Chri­sto, da David Bowie fino a Nino Man­fredi, un popolo di per­so­naggi è sfi­lato ieri a Roma chie­dendo di essere iden­ti­fi­cato per il valore sin­go­lare che cia­scuno possiede.

Un minuto di silen­zio è stato osser­vato in piazza Navona in memo­ria di Nicola Dar­cante, un ope­raio dell’Ilva di Taranto di 38 anni, padre di due bam­bini, morto per un tumore alla gola. Insieme a lui sono stati ricor­dati i 100 mina­tori morti in Tur­chia e le lotte con­tro il governo Erdo­gan e l’attivista zapa­ti­sta Galeano ucciso dall’esercito mes­si­cano pochi giorni fa. Il movi­mento della casa tor­nerà a Mon­te­ci­to­rio alle 16 di lunedì ancora una volta per pro­te­stare con­tro l’approvazione del «piano Lupi»

Generosi e intelligenti sforzi per rimediare, almeno in parte, all'inaudito oscuramento mediatico subìto dalla lista "L'altra Europa con Tsipras.

Il Fatto quotidiano online, 18 maggio 2014

Non è un mistero per nessuno che la Lista L’Altra Europa con Tsipras abbia subito un oscuramento mediatico inaudito. Ma anziché gridare allo scandalo, un gruppo di geniali professionisti milanesi si è messo all’opera e, gratuitamente, con passione, divertimento e senso della sfida, ha realizzato quattro video inventati e realizzati in poco più di una settimana: attori, attrici, regista, fonico, truccatrice, autori…e la voce fuori campo di Moni Ovadia.

Gli argomenti, giocati con ironia e con un rovesciamento finale, sono la disoccupazione, il disastro scolastico, il crescente ricorso alle mense dei poveri e l’erosione dell’assistenza sanitaria per i più deboli. Non sono argomenti scelti a caso, perché figurano tra i maggiori parametri utilizzati dagli specialisti per stabilire quando ci si trova di fronte a una crisi umanitaria. La novità inaudita dell’Europa delle tecnocrazie – dapprima in Grecia, e sempre più anche in Italia – è che lo scenario di bisogno e abbandono che si era soliti collocare nel cosiddetto Terzo mondo, sempre più ci riguarda e ci interroga. E non in conseguenza di sciagure naturali, epidemie o guerre civili, ma di politiche economiche scientemente decise e imposte da un potere sovranazionale cui i governi democratici si assoggettano.

Tra i parametri con cui – secondo i dati elaborati due anni fa da Amnesty International – si stabilisce che un paese fronteggia una crisi umanitaria, vi è la crescita percentuale del numero di persone “autoctone” che chiedono pacchi viveri e necessitano di rivolgersi alle mense pubbliche per mangiare; la crescita percentuale delle persone che si rivolgono ai presidi sanitari delle Ong per gli immigrati (è il caso delle strutture di Emergency, soprattutto nel sud d’Italia, alle quali chiedono assistenza sempre più italiani che non riescono a pagare il ticket delle prestazioni mediche e dei medicinali); la crescita percentuale della disoccupazione giovanile e delle persone che perdono l’impiego e non riescono più ad accedere a un’occupazione stabile; il decadimento crescente dell’istruzione pubblica, in qualità e strutture.

I primi tre video sono su YouTube, con nomi provvisori: quelli definitivi saranno decisi dal web. Il quarto video è in fase di lavorazione e uscirà a breve.

Per ora li trovate in fondo al post di Daniela Padoan, qui.
«Il populismo è il confine estremo della democrazia rappresentativa. Quando il populismo diventa potere di governo si corre il rischio di un’uscita dalla democrazia e dall’ordine costituzionale. Il populismo mette a rischio l’uguaglianza formale che le regole costituzionali hanno il compito di proteggere».

Micromega, 16 maggio 2014

In questo articolo, Nadia Urbinati riprende alcune tesi che sono elaborate in maniera più estesa e analitica nelle sue due più recenti monografie, Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e libertà (2014) e Democrazia in diretta: le nuove sfide della rappresentanza (2013).

Il populismo è un concetto molto impreciso, usato per descrivere situazioni politiche diverse tra loro e movimenti politici che perseguono obiettivi diversi, per esempio forme di partecipazione spontanea o partiti organizzati al fine di conquistare la maggioranza di un parlamento democratico. Per alcuni il populismo è solidaristico e inclusivo, per altri discriminatorio e insofferente verso i diritti individuali e le minoranze. Per alcuni esso mette a rischio le democrazie costituite, per altri esso inaugura nuove possibilità per la democrazia. Vi sono scienziati sociali che hanno sostenuto che il populismo ha aperto la strada a forme dittatoriali e scienziati sociali che sostengono che esso agevola la transizione democratica in paesi post-coloniali in quanto esprime le esigenze dei molti di vedere attuata una certa distribuzione della ricchezza e della proprietà della terra, precondizione senza la quale la democrazia non decolla. In quest’ultima accezione, il populismo ha ricevuto buona accoglienza nei paesi del continente americano. In America Latina, ilcaudillo che guida le masse di campesinos verso il governo del paese è una figura centrale nella storia della formazione tanto di movimenti populisti che di transizioni verso regimi democratici. Sempre dall’America, questa volta statunitense, viene l’altra esperienza che ha contribuito a leggere il populismo come espressione di democrazia: l’esempio del People’s Party di fine Ottocento che Michael Kazin ha anni fa rubricato come caso esemplare di riappropriazione della politica da parte del popolo americano (un processo già iniziato nel Settecento con il Great Awakening). Ma il populismo (e in Europa soprattutto) è anche identificato con movimenti non democratici e anti-democratici: il fascismo che emerse in Italia come mobilitazione populista per diventare regime anti-democratico; il più recente movimento etnocentrico della Lega Nord; e infine, i movimenti fascio-populisti che si stanno organizzando e mobilitando in queste settimane per conquistare seggi nel nuovo Parlamento europeo.

L’ambiguità del termine è confermata anche dai contributi precedentemente pubblicati su Micromega e rispetto ai quali propongo questa riflessione: John McCormick (Sulla distinzione tra democrazia e populismo) propone di leggere il populismo come “grido di dolore” della democrazia rappresentativa, un grido che può mobilitare tanto la destra quanto la sinistra (tornerò su questa immagine durkheimiana più avanti); Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli (Sulla democrazia machiavelliana di McCormick: perché il populismo può essere democratico) sostengono che la distinzione più convincente per comprendere il ruolo del populismo nelle democrazie moderne è tra populismi solidaristici e populismi razzisti; quando e se solidaristici, i populismi possono avere “potenzialità” democratiche. Come rendere conto dell’ambiguità nell’uso di un termine tra l’altro così frequentemente usato, il fatto cioè che il populismo possa rappresentare tutto e il contrario di tutto?

Il termine populismo designa un fenomeno complesso e ambiguo. Più che un regime, esso è un determinato stile politico o un insieme di tropi e figure retoriche che possono emergere all’interno di governi democratici rappresentativi. La prima distinzione da fare quindi è tra movimento popolare e potere ovvero governo populista. È Occupy Wall Street un movimento populista o un movimento popolare di protesta? La risposta a questa domanda è sintomatica di questa distinzione. Alla fine del presente contributo emergerà perché Occupy Wall Street non è stato un movimento populista e perché il populismo è altra cosa dalla partecipazione democratica nelle forme e nelle procedure stabilite da una costituzione: libere elezioni a suffragio universale con voto segreto per eleggere rappresentanti, libertà di stampa, parole e associazione al fine di partecipare alla costruzione di opzioni politiche, conta dei voti secondo regola di maggioranza e quindi riconoscimento della minoranza (opposizione) come essenziale al gioco democratico (che non è né unanimità né consenso senza libera espressione del dissenso, di qualunque dissenso anche su questioni che la maggioranza ritiene buone e giuste).

Ora, dato il contesto di democrazia rappresentativa e costituzionale, è prevedibile che il tema del contendere è proprio la rappresentazione del popolo (l’ideologia del popolo) nella sua unità politica sovrana; per il populismo il popolo è definito sempre contro un’altra parte che al popolo appartiene formalmente ma non socialmente in quanto detentrice di un potere economico che è in eccesso rispetto a quello degli ordinari cittadini (la soglia che designa l’eccesso è un oggetto stesso del contendere, intraducibile in norma certa). “Popolo” e “grandi”, ci ricorda McCormick, è la classica e mai superata contrapposizione repubblicana che sta alla radice del populismo, e che McCormick rende come tensione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Dunque, il populismo non è il popolo ma una sua rappresentazione coniata o promossa da un leader o un partito-leader. Il populismo quindi può essere più di un semplice movimento politico dei molti se i suoi leader riescono a conquistare il potere dello Stato. Come anche McCormick mette in luce, il populismo è impaziente con le regole e le procedure di una democrazia rappresentativa parlamentare perché impaziente con la formalità del diritto: l’eguaglianza politica e per legge ovvero la libertà nel diritto sono categorie che il populismo contesta nel nome di una eguaglianza sostanziale. L’obiettivo polemico del populismo è una lettura giuridica e costituzionale della democrazia, quella appunto che sta alla base del sistema rappresentativo.

Come si è visto con l’approvazione della nuova costituzione ungherese (11 marzo 2013), l’aspetto inquietante del populismo emerge qualora esso abbia l’opportunità di passare da movimento (politico o di opinione) a potere di governo. Infatti, l’esito delle decisioni di un governo populista sarà verosimilmente quello di piegare lo Stato agli interessi del “popolo”, ovvero della sua parte maggioritaria contro quell’altra parte che è minoranza (sia essa economica o culturale o religiosa o etnica). Si potrebbe obiettare che essere contro la minoranza economica non è la stessa cosa che essere contro la minoranza religiosa o civile; si tratta però di un’obiezione debole perché chi ha il potere di decidere chi sia minoranza buona o cattiva ha un potere che è esorbitante e quindi insicuro per tutti. Il populismo ha impazienza verso i principi della democrazia costituzionale, a partire dai diritti individuali (e che proteggono tutte minoranze, anche quelle che possono nascere all’interno del gruppo maggioritario), alla divisione dei poteri e al sistema pluripartitico: insomma a quel che è la democrazia rappresentativa.

Come si intuisce, l’ideologia del “popolo” è centrale. Se per democrazia noi intendiamo il governo del popolo e per popolo intendiamo la volontà politica di “un gruppo sufficientemente esteso” di persone che sono unite da qualcosa di “sostanziale” – reddito, religione, cultura, ecc. – possiamo pensare, con McCormick, che il populismo sia la forma più completa di democrazia, in quanto esso è attento appunto a rappresentare il popolo nella sua totalità, come massa unita da un’equivalenza valoriale che, anche se non interpreta esattamente tutte le sue parti, le unisce in un’omogeneità superiore alle parti stesse (questa è l’idea di populismo come processo di costruzione dell’unità egemonica del popolo che ci ha proposto Ernesto Laclau). Ora, in questo caso, la qualità del populismo dipende da “che cosa” viene usato come termine di equivalenza che unisce le varie componenti di un popolo: se è la condizione economica dei meno abbienti, allora il populismo prenderà l’aspetto di una politica di giustizia sociale e di lotta per l’eguaglianza, mentre se è l’identità culturale, etnica e religiosa a costruire l’egemonia popolare, allora sarà più probabile che il potere populista prenda forme inquietanti di nazionalismo e razzismo. Ecco allora che la distinzione di McCormick e quella di Del Savio e Mameli si sovrappongono: gli uni e gli altri proponendo un’interpretazione di populismo che si identifica con la parte meno negativa di quel che può unificare una massa. Ma con quale criterio viene deciso il “buono” e il “cattivo” populismo se è il contesto a dettare la definizione? Ovvero come uscire dal contingentismo se la dimensione sociologica prende il sopravvento su quella giuridica e delle procedure?

Come si può intuire, la differenza tra le due possibilità – populismo di destra o di sinistra, populismo solidaristico e esclusionario – è soltanto ideologica: dipende cioè dalla narrativa o retorica che viene adottata. Dipende per esempio dal fatto che la destra europea razzista e populista oppure la sinistra europea solidarista e populista abbiano o non abbiano leader capaci; e dipende poi, secondo Del Savio e Mameli, dalle decisione prese dai governi o, come nel caso europeo, dall’Unione Europea, poiché se queste decisioni sono punitive per i molti c’è da aspettarsi che questi ultimi si mobilitino in forme populiste e giustamente reclamino politiche di giustizia sociale. La prima delle due possibilità è connaturata alla lotta politica nelle democrazie elettorali e soprattutto alla politica plebiscitaria con la quale i leader sono incoronati dalle masse. La seconda è decisamente priva di evidenza: non è per nulla scontato che una politica inegualitaria generi politiche populiste di sinistra. Come insegna la storia antica e recente, i pochi che dovrebbero pagare di più in proporzione a quel che pagano i molti, non se ne stanno con le mani in mano e dovendo cercare il consenso della maggioranza a politiche che sono in effetti contro gli interessi della maggioranza, non tardano a creare delle ideologie populiste che unificano il discorso e le masse intorno a temi altrettanto populisti ma capaci di neutralizzare le politiche redistributive: useranno, per esempio, il classico argomento della lotta contro gli immigrati, i comunisti e gli zingari (facendo delle minorante capri espiatori di problemi la cui causa è economica). Insomma dire che il populismo dipende dal contesto nel quale si sviluppa, e che quindi può essere di destra o di sinistra, non aiuta a capire che cosa esso sia né a giudicarlo alla luce di criteri normativi democratici.

Il populismo nasce all’interno della cornice della democrazia costituzionale, un’arena politica fondata sulle elezioni, il pluripartitismo e la regola di maggioranza (ovvero la libertà di poter propagandare le proprie idee senza rischio della propria sicurezza e per conquistare consenso). Il populismo può sorgere solo in questa cornice di libertà politica e civile, non dove non c’è democrazia (a meno che non si voglia rubricare come populista tutto quel che accade nell’universo politico, quindi anche i movimenti di rivolta, le rivoluzioni e le ribellioni). Proprio per evitare il rischio onnivoro che un termine impreciso contiene, quel che si dovrebbe tentare di fare è capire: a) se, una volta acquistato il potere di prendere decisioni, la maggioranza populista rispetterà le regole che le hanno permesso di vincere ovvero se vorrà accettare il rischio di perdere; b) se si asterrà dall’usare il sistema statale per favorire la sua parte contro l’opposizione sconfitta così da crearsi le condizioni per una rielezione assicurata; c) se non gestirà le nomine delle cariche dello Stato favorendo solo la sua parte; d) se non riscriverà la costituzione allo scopo di restare al potere più a lungo; e) se non userà il potere fuori dalle regole e contro i limiti stabiliti dalla costituzione. Siccome il populismo è critico della democrazia costituzionale e rappresentativa, mettere in conto che potrebbe operare in modo non legittimo è quanto meno doveroso.

Quindi delle due l’una: o il governo retto da una maggioranza populista non opererà contro le regole costituzionali e allora questo non sarà altro che un nuovo governo, un caso cioè di normalità o politica ordinaria; oppure il governo populista cambierà la connotazione del regime costituzionale, dando luogo a una dittatura o una forma autocratica di regime. In questo secondo caso, chiamarlo populismo sarebbe inappropriato, perché si tratterebbe di una dittatura o autocrazia. L’uso delle regole da parte di un partito populista che ha conquistato la maggioranza è un elemento di giudizio molto importante proprio perché il populismo (di destra o di sinistra, solidaristico o esclusionario) si afferma criticando la struttura del sistema politico rappresentativo e costituzionale. Come ha scritto Benjamin Arditi, esso è la periferia estrema del regime democratico, oltre la quale c’è un altro regime, quello per esempio dittatoriale. Ecco dunque un importante tassello interpretativo: il populismo è un possibile modo di essere della politica praticata in una democrazia rappresentativa, un modo di interpretare il “popolo”, di unificare le varie esigenze interne a un popolo plurale intorno a un tema comune: questa è l’azione di un movimento populista che opera e continua a operare dentro le regole democratiche.

Ma se questa interpretazione ha un senso, allora non è per nulla chiaro come facciamo a distinguere questo processo di normalità politica da altri processi e movimenti peculiari alla normale dialettica politica democratica. Un esempio: anche i partiti socialisti e comunisti occidentali del Secondo dopo guerra conducevano una politica di unificazione dei vari interessi esistenti nel popolo per unirli intorno a un interesse comune: questa fu, per esempio, la politica dell’alleanza nazionale lanciata da Palmiro Togliatti (e che ha ispirato Laclau nella sua teorizzazione della costruzione egemonica populista); eppure sarebbe sbagliato sostenere che il Partito Comunista fosse un partito populista. Evidentemente questo processo politico di unificazione del popolo non è sufficiente a denotare il populismo, a meno che tutta la politica democratica non sia intesa come populista (questa è l’identificazione che propone Laclau, per il quale infatti populismo, politica e democrazia diventano una sola cosa). Ma questa equivalenza di termini è fallace proprio perché azzera le differenze nell’intento di spiegarle. Quindi identificare il populismo con la normalità della lotta ideologica in una democrazia non aggiunge nulla alla nostra conoscenza e non ci dice ancora che cosa sia il populismo.

Il populismo deve essere qualche cosa di diverso dalla politica democratica e dalla democrazia (ovvero dalla pratica ideologica normale di unificazione degli interessi di un popolo) e quindi dalla costruzione del consenso politico in vista di conquistare la maggioranza. A meno che non usiamo la parola populismo per descrivere la realtà effettuale, ma in questo caso tutto può essere incluso: populismi di destra o di sinistra, solidaristi o identitario, e così via. Se vogliamo elevarci dal discorso ideologico e cercare di capire un fenomeno politico allora dobbiamo cercare per quanto è possibile di estrarre dalle varie esperienze quelle specificità e costanti che ci consentono di dare un senso alla categoria “populismo”. Partendo da questa premessa ho cercato altrove di distinguere tra movimento popolare e populismo e per fare questo ho cercato di individuare alcune coordinate di orientamento (relative al populismo come potere, ovvero che aspira allo Stato): unificazione del popolo sotto un leader; trasformazione ideologica del conflitto in polarizzazione e quindi semplificazione della pluralità di interessi in opposizione binaria (“noi”/”loro”); e poi, quando e se il partito populista diventa partito di governo, se usa le risorse dello Stato per avvantaggiare la propria parte a danno dell’opposizione, quindi violando la divisione dei poteri (messa a repentaglio dell’autonomia del giudiziario) e dei diritti di libertà.

Si può quindi sostenere che il populismo vada oltre la “potenzialità democratica” dei movimenti. Tutti i movimenti possono o non possono avere potenzialità democratiche, e in questo senso il concetto di “potenzialità” è troppo lasco. Altrettanto insoddisfacente è appellarsi alla famosa espressione che Durkheim usò per il socialismo, ovvero il populismo come “grido di dolore” delle società democratiche rappresentative. In quanto “grido di dolore” il populismo non ci dice nulla su quale sia la ragione del dolore, né ci consegna una diagnosi, quindi non ci dice quale debba essere il movimento per correggere quel dolore. Il “grido” è un’indicazione della sofferenza, niente altro. E infatti, vi è una componente di dolore (come insoddisfazione e scontento) nel moto socialista come in quello populista, eppure sarebbe improprio dire che socialismo e populismo sono uguali in quanto gridi di dolore. A chi spetta la diagnostica e la cura? Diagnostica e cura mettono in moto competenze e azioni che sono esterne al “grido di dolore” e rispetto alle quali il popolo gioca il ruolo non dell’attore ma del paziente che consente ai leader di fare la diagnosi e di intraprendere la cura. Allora, perché criticare la democrazia elettorale di espropriare il popolo della sua voce se lo stesso appello al popolo del populismo lascia tanta latitudine di delega ai leader o ai tecnici dell’ideologia sulla diagnosi e la cura? Se il popolo grida, esso ha comunque bisogno di qualcuno che interpreti le sue grida. Per questo, viene il dubbio che la differenza tra populismi non sia altro che una differenza tra leader e le loro rispettive ideologie. È lo stesso McCormick che alimenta questo dubbio quando ci ricorda con buoni argomenti che la storia delle democrazie ha registrato demagoghi amici del popolo e demagoghi tiranni: dunque, la differenza tra populismo buono e populismo cattivo sta nella leadership, nel capo che rappresenta il “grido di dolore” del popolo paziente.

Abbiamo aggiunto così un importante tassello alla nostra conoscenza del fenomeno populista: il bisogno di un leader che unifichi o dia il senso ideologico di ciò che unisce il popolo. Senza questa leadership, senza l’apice cesarista (quella che ho altrove chiamato correzione mono-archica della democrazia) il movimento populista resta un movimento popolare come ce ne sono, e giustamente, tanti in un regime democratico: Occupy Wall Street o il movimento degli “indignados” sono casi di movimenti popolari di denuncia e di protesta ma non movimenti populisti. Occupy Wall Street rifiutò anzi ogni rappresentanza per mezzo di un leader e volle essere solo un’espressione di critica pubblica nel nome di un valore, quello dell’eguaglianza, che le società democratiche pretendono di incorporare. Chiamare questo tipo di movimenti “populisti” è sbagliato per la semplice ragione che, in questo caso, tutto sarebbe populista in democrazia. E allora che senso avrebbe usare il termine? Il fatto è che il populismo non presume solo e semplicemente l’esistenza di una massa di poveri o disoccupati; non basta il “grido di dolore” per denotarlo; esso presuppone un leader, e una macchina che produca un’ideologia che dia a quel grido un’unità rappresentativa finalizzata a uno scopo: la conquista del consenso per raggiungere il governo e prendere decisioni.

Vediamo dunque di capire perché il populismo è molto di più di un movimento popolare e perché ha senso temerlo. A questo fine torniamo al “grido di dolore” di un popolo che soffre. Dice McCormick: “Durkheim disse una volta che il socialismo è il grido di dolore della società moderna. Il populismo è ilgrido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo”. Ecco dunque: il populismo non ha come punto fondante questioni di redistribuzione economica o di giustizia sociale, ma questioni di gestione del potere politico: è dunque una contestazione radicale alla democrazia rappresentativa in vista di una gestione diretta del governo da parte del popolo. Il quale se è economicamente oppresso dai pochi è perché non prende decisioni direttamente ma attraverso quei pochi che elegge. Quindi: il populismo si manifesta quando il popolo come entità sovrana c’è già e chiede che la sua autorità sia esercitata in maniera non indiretta. Per McCormick dunque populismo si identifica con la democrazia diretta (ovvero assemblea aperta a tutti i cittadini; lotteria per selezionare i magistrati; tribunali composti da cittadini comuni) in un contesto in cui questa non c’è più. Siccome nel nostro tempo questa forma di governo non può essere attuata come nell’Atene classica, è stata adottata la rappresentanza la quale, come Carl Schmitt e poi Bernard Manin hanno sostenuto (entrambi seguendo Montesquieu), è sinonimo di governo “aristocratico” o “oligarchico” ovvero dei pochi, in quanto fondato sulle elezioni. In sostanza, ci dice McCormick, in una democrazia rappresentativa è fatale che sorga il populismo: il quale “è l’altra faccia della medaglia della normalità politica nelle repubbliche elettorali”. Ecco che siamo tornati a quanto sosteneva anche Laclau: il populismo si indentifica con la politica e con la democrazia nei governi rappresentativi. Delle due l’una: o la politica è ordinaria routine (politica dei pochi con il consenso dei molti) oppure è l’opposto e cioè populista (politica dei molti contri i pochi, con o senza il loro consenso visto che i molti hanno la maggioranza comunque).

Ora, se la politica ordinaria opera secondo le norme formali (che garantiscono “l’uguaglianza politica formale” senza doverla tradurre in “eguaglianza socio-economica”), il sistema non ha scossoni. Ma quando la questione economica si fa pressante (il “grido di dolore”), allora l’uguaglianza formale (come la democrazia rappresentativa che si regge su di essa) mostra i suoi limiti. A questo punto, al popolo non resta che impossessarsi del potere per riportare equilibrio tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Ciò che non è chiaro – e McCormick non aiuta a chiarire – è come si possa giungere a questo riequilibrio senza decisioni che limitano l’uguaglianza formale, ovvero senza violare i principi costituzionali e usare mezzi eccezionali per giungere alla realizzazione del fine desiderato (uguaglianza sostanziale). Ma a questo punto, la democrazia populista sarebbe un’uscita dalla democrazia costituzionale: mezzi e fini si separerebbero e con lo scopo di raggiungere il fine buono (uguaglianza sostanziale) il mezzo (violazione della legge) viene ad essere giustificato. Che sia Marx o Schmitt l’ispiratore di questa visione, è evidente che il populismo diventa a questo punto esterno alla democrazia costituzionale; non una forma politica interna alla democrazia, ma una trasformazione del regime da sistema nel quale gli attori politici prendono decisioni con la regola di maggioranza a sistema che dichiara essere il governo della maggioranza contro la minoranza (per ragioni “buone” come l’eguaglianza sostanziale). Il confine della democrazia è a questo punto oltrepassato.

In conclusione, possiamo dire che o il populismo non è altro che un movimento politico popolare, sacrosanto movimento di protesta (Del Savio e Mameli), per cui non è chiaro perché chiamarlo populismo; oppure è più di un movimento (McCormick) e in effetti una estrema tensione della democrazia rappresentativa verso una soluzione che rischia un’uscita dall’ordine costituzionale.

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Il manifesto, 17 maggio 2014

La pro­vo­ca­zione arriva a freddo e prende di mira il sim­bolo dell’innovazione tec­no­lo­gica, la Apple. L’iPod, l’iPhone e l’iPad non sareb­bero mai stati pro­dotti senza i soldi che lo stato ame­ri­cano ha inve­stito nei pro­getti di Ricerca e Svi­luppo dagli anni Cin­quanta fino a ieri, quando l’applicazione basata sull’intelligenza arti­fi­ciale Siri è uscita dai labo­ra­tori ed è diven­tata una società e un pro­dotto che Steve Jobs ha com­prato per una cifra irri­so­ria rispetto agli inve­sti­menti sta­tali desti­nati al suo svi­luppo. Poche pagine dopo, un altro colosso della Rete, Goo­gle, è preso di mira. L’algoritmo Page Rank, svi­lup­pato alla Stan­ford Uni­ver­sity e diven­tato lo stru­mento per far diven­tare Goo­gle la potenza impren­di­to­riale nota a tutti, è stato finan­ziato dal Pen­ta­gono. Stesso discorso per le nano­tec­no­lo­gie, disci­plina di ricerca che da sem­pre ha usu­fruito di gene­rosi finan­zia­menti sta­tali. Se il campo di osser­va­zione cam­bia e dalla com­pu­ter science si passa alle bio­tec­no­lo­gie non ci sono molte varia­zioni nel mood analitico.

La map­pa­tura del Genoma umano non sarebbe infatti stata imma­gi­na­bile, negli Stati Uniti, senza l’intervento del Natio­nal Insti­tute of Health (Nih), che oltre a finan­ziare il pro­getto di ricerca di base con­ti­nua a inve­stire cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per la ricerca appli­cata allo svi­luppo dei cosid­detti «far­maci orfani», desti­nati alla cura di malat­tie rare, che coin­vol­gono risi­bili mino­ranze della popo­la­zione, ma che sono ven­duti dalle mul­ti­na­zio­nali far­ma­ceu­ti­che a prezzi stra­to­sfe­rici. Allo stesso tempo è pro­prio il Nih che ormai «innova» far­maci con­so­li­dati, basan­dosi però sulle cono­scenze che ven­gono dalla geno­mica. Infine, un altro set­tore rite­nuto «stra­te­gico» nello svi­luppo eco­no­mico, le ener­gie rin­no­va­bili, non riu­scirà a decol­lare se lo Stato non con­ti­nuerà ad inve­stire nella ricerca, come testi­mo­niano i pro­getti pub­blici di svi­luppo in Cina e in Brasile.

Produttore di futuro

È que­sto il punto di par­tenza di un volume intel­li­gen­te­mente pro­vo­ca­to­rio e meri­to­ria­mente tra­dotto da Fabio Galim­berti per la casa edi­trice Laterza. A scri­verlo è Mariana Maz­zu­cato, eco­no­mi­sta ita­liana, natu­ra­liz­zata ame­ri­cana (i suoi geni­tori erano «cer­velli in fuga» negli anni Cin­quanta) e attual­mente docente, in Inghil­terra, presso l’University of Sus­sex. Lo stato inno­va­tore (pp. 378, euro 18), que­sto il titolo, pre­senta una tesi con­tro­cor­rente rispetto l’ideologia domi­nante neo­li­be­ri­sta. Per l’autrice, lo Stato è un sog­getto poli­tico fon­da­men­tale nel favo­rire lo svi­luppo eco­no­mico, per­ché è il luogo dove ven­gono defi­nite le norme che non solo rego­lano, ma pro­du­cono il mer­cato. Svolge cioè un ruolo per­for­ma­tivo dei com­por­ta­men­tii fun­zio­nali allo svi­luppo capitalistico.

È que­sto il con­te­sto dove, teo­ri­ca­mente, Karl Polany incon­tra Lord Key­nes, Joseph Shum­pe­ter e, ma l’autrice non ne fa mai men­zione, anche il Michel Fou­cault sto­rico dell’ordoliberismo austriaco e della bio­po­li­tica. Marina Maz­zu­cato non è però inte­res­sata alle genea­lo­gie teo­ri­che delle sue tesi. Il suo obiet­tivo è far emer­gere ciò che rimane in ombra nella discus­sione pub­blica segnata dall’egemonia libe­ri­sta, cioè che gran parte delle tec­no­lo­gie svi­lup­pate al pro­cesso eco­no­mico sono «effetti» degli inve­sti­menti dello Stato, in epoca moderna, nel campo della for­ma­zione e della ricerca scien­ti­fica. Inve­sti­menti che non sem­pre pre­fi­gu­rano imme­diate rica­dute pro­dut­tive e eco­no­mi­che. Quel che si deve infatti chie­dere allo Stato è una vision del pre­sente e del futuro senza asfic­citi e algidi vin­coli di bilancio.

Si inve­ste in ricerca e for­ma­zione per­ché, nei tempi lun­ghi, l’intero «eco­si­stema» se ne avvan­tag­gerà, gra­zie alla pre­senza di un ele­vato numero di ricer­ca­tori, di forza-lavoro qua­li­fi­cata e dalla tra­du­zione ope­ra­tiva (la ricerca appli­cata) di cono­scenze svi­lup­pate in anni e anni di lavoro in qual­che labo­ra­to­rio senza l’ansia e l’incubo di doversi spo­stare da un mece­nate all’altro nella spe­ranza di rac­co­gliere i fondi neces­sari per andare avanti nelle ricerche.

In nome dello statalismo

Nell’esporre la sua tesi Mariana Maz­zu­cato non nasconde dun­que la sua pro­pen­sione «sta­ta­li­sta» per quanto riguarda il neces­sa­rio inter­ven­ti­smo pub­blico nella for­ma­zione e nella ricerca scien­ti­fica. Non è quindi un caso che si applica con con­vin­cente con­vin­zione alla demo­li­zione di un altro mito che ha accom­pa­gnato lo svi­luppo della com­pu­ter science e della new eco­nomy. Imprese come Goo­gle, Face­book, Intel, Apple non sono diven­tate quel che sono – cioè imprese glo­bali fon­da­men­tali nello svi­luppo capi­ta­li­stico – gra­zie a intra­pren­denti e spe­ri­co­lati ven­ture capi­ta­list: il capi­tale di rischio, scrive l’autrice, più che favo­rire l’innovazione, la ral­len­tano, anzi la met­tono in peri­colo. Chi inve­ste in una start-up, infatti, non è inte­res­sato a finan­ziare l’innovazione tec­no­lo­gica, bensì a far cre­scere quel poco un impresa per poi col­lo­carla in borsa o ven­derla a un’altra società per ripa­gare l’investimento ini­ziale con l’aggiunta di una per­cen­tuale (gene­ral­mente molto alta) di profitti.

Lo Stato inno­va­tore è una miniera di infor­ma­zioni per quanto riguarda la rico­stru­zione delle for­tune di Apple, di Goo­gle e delle altre imprese sim­bolo della new eco­nomy. L’esisto è una con­tro­sto­ria dello svi­luppo tec­no­lo­gico e eco­no­mico degli ultimi cinquant’anni. Da que­sto punto di vista, Mariana Maz­zu­cato fa sue molte delle ana­lisi che hanno indi­vi­duato nel Pen­ta­gono la fonte eco­no­mica e finan­zia­ria dell’innovazione tec­no­lo­gica. Non solo i pro­getti per la costru­zione di una rete di comu­ni­ca­zione che potesse «soprav­vi­vere» a un attacco nucleare è stata finan­ziata dai mili­tari attra­verso il Darpa (Defense Advan­ced Research Pro­jects Agency ), ma è stato sem­pre il Pen­ta­gono, assieme al Mini­stero del com­mer­cio, che ha defi­nito le regole affin­ché i risul­tati delle ricer­che potes­sero essere dif­fuse sull’insieme delle atti­vità pro­dut­tive sta­tu­ni­tensi. Inter­net è nata così. Ma que­sta è sto­ria nota.

Il pre­gio del volume sta sem­mai nel riper­cor­rere tutti i pas­saggi che hanno por­tato ai suc­ces­sivi pro­grammi di ricerca degli anni Set­tanta e Ottanta (il Gps, le nano­ten­co­lo­gie, gli schermi lcd, il fin­ger work, cioè gli schermi tat­tili) senza i quali non ci sareb­bero stati l’iPod, l’iPhone e l’iPad.

Il sole che ride

Il famoso motto di Steve Jobs (stay hun­gry, stay foo­lish) usato per indi­care la con­di­zione neces­sa­ria per il suc­cesso impren­di­to­riale nasconde l’ipocrisia di chi è stato sfa­mato gra­zie al fatto che ha sfrut­tato, certo crea­ti­va­mente, la crea­ti­vità mani­fe­sta­tasi nei labo­ra­tori di ricerca e nelle uni­ver­sità lau­ta­mente finan­ziati dallo Stato attra­verso il Pen­ta­gono o il pro­gramma Atp dell’Istituto nazio­nale per le norme e la tec­no­lo­gia o dai pro­getti rela­tivi all’innovazione per quanto riguarda le pic­cole e medie imprese.

Eguale rile­vanza infor­ma­tiva è data allo svi­luppo delle ener­gie rin­no­va­bili. In que­sto caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costi­tuire una agen­zia fede­rale appo­sita (l’Arpa-e) che dovrebbe svol­gere nelle ener­gie rin­no­va­bili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella com­pu­ter science e dal Nih nelle bio­tec­no­lo­gie. Tut­ta­via, la strada migliore è quella trat­teg­giata da Cina e Bra­sile. In Cina lo stato ha inve­stito e sta inve­stendo cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per favo­rire la ricerca e lo svi­luppo di ener­gia rin­no­va­bile attra­verso l’eolico, il foto­vol­taico e il solare. In Bra­sile, invece, le ban­che per lo svi­luppo defi­ni­scono e finan­ziano pro­grammi che con­sen­tano al paese lati­noa­me­ri­cano non solo di essere, nel futuro, indi­pen­dente dal punto di vista ener­ge­tico, ma di ven­dere l’energia pulita pro­dotta. Cina e il Bra­sile sono diven­tati paesi all’avanguardia della green-economy, come la Ger­ma­nia, men­tre gli Stati Uniti hanno perso ter­reno prezioso.

Nel Nove­cento la Ricerca scien­ti­fica sta­tu­ni­tense è stata pre­va­len­te­mente finan­ziata dallo Stato, anche se l’autrice non nasconde che gran parte dei risul­tati con­se­guiti sono stati poi acqui­siti dalle imprese pri­vate e usati per inno­vare i pro­dotti e i pro­cessi lavo­ra­tivi. Inol­tre, negli Usa, lo Stato ha defi­nito norme, defi­nito i pro­cessi e le pro­ce­dure affin­ché le cono­scenze tec­ni­che scien­ti­fi­che potes­sero essere socia­liz­zate, favo­rendo così la cre­scita di nuovi mer­cati, facendo leva, ad esem­pio, sulle norme della pro­prietà intel­let­tuale. Da qui il pen­dolo sta­tu­ni­tense che oscilla dalla scelta a favore del public domain alla pos­si­bi­lità con­cessa alle uni­ver­sità di poter bre­vet­tare le sco­perte scien­ti­fi­che avve­nute all’interno di pro­getti di ricerca finan­ziati dallo Stato.

Governance di sistema

Mariana Maz­zu­cato non è una eco­no­mi­sta radi­cale anti­ca­pi­ta­li­sta. La ten­sione pole­mica pre­sente nel volume è sem­mai rivolta con­tro l’ideologia neo­li­be­ri­sta, che vede nel mer­cato il deus ex machina dell’innovazione. Il capi­tale di rischio non rischia, afferma l’autrice, vuole vin­cere in par­tite facili, dove certo c’è incer­tezza, ma il rischio è minimo. Un atteg­gia­mento paras­si­ta­rio che lo Stato ha per troppo tempo favo­rito e incen­ti­vato. Per l’autrice, l’intervento sta­tale va sal­va­guar­dato per­ché è il solo sog­getto poli­tico che può creare un «eco­si­stema sim­bio­tico» tra pub­blico e pri­vato. Lo stato tut­ta­via deve creare le con­di­zioni affin­ché si mani­fe­sti al meglio l’indispensabile seren­di­pity che favo­ri­sce l’innovazione e la ricerca scien­ti­fica. Per fare que­sto, vanno messe in campo misure che, ad esem­pio, recu­pe­rino parte dei finan­zia­menti sta­tali attra­verso un arti­co­lato sistema di gover­nance della cono­scenza. Può dun­que essere isti­tuita una gol­den share sui diritti di pro­prietà intel­let­tuale, in maniera tale che una parte delle royal­ties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure va attuata una riforma fiscale che sco­raggi l’elusione nel paga­mento delle tasse da parte di imprese che si sono avvan­tag­giate dalla ricer­che scien­ti­fi­che finan­ziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle bio­tec­no­lo­gie, che sta­bi­li­scono le loro sedi nei para­disi fiscali o in regioni tax free. Tutto ciò per con­ti­nuare, anzi aumen­tare gli inve­sti­menti in ricerca e sviluppo

Il capi­ta­li­smo può dun­que essere sal­vato con un rin­no­vato pro­ta­go­ni­smo dello Stato, senza il quale è desti­nato a implo­dere nelle sue con­trad­di­zioni. Per­ché una delle regole auree del neo­li­bie­ri­smo («socia­liz­za­zione dei costi e pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti») ha por­tato il capi­ta­li­smo sul ciclo del bur­rone. Solo con lo pre­senza di uno Stato che inve­ste molto e che crei le con­di­zioni per un eco­si­stema sim­bio­tico tra pub­blico e pri­vato, chiosa alla fine l’autrice, è pos­si­bile pen­sare non solo alla sua soprav­vi­venza, ma a un suo dura­turo svi­luppo. Con­clu­sioni mode­ste, si può dire, per un libro che invece ha una sua potenza ana­li­tica che fun­ziona come un salu­tare anti­doto a quel neo­li­be­ri­smo che con la sua crisi sta impo­ve­rendo la mag­gio­ranza della popolazione

Mentre i massmedia continuano a oscurare l'unica lista schiettamente europeista che vuole tutelare e promuovere i beni comuni, a partire dal lavoro e dall'ambiente, prosegue la campagna elettorale dei rosso-verdi italiani Lunedì il candidato alla presidenza della Commissione europea, Alexis Tsipras, sarà a Milano, Torino. E Bologna per il gran finale. L'attesa per il voto amministrativo in Grecia. L'appello della cultura. Il manifesto, 17 maggio 2014

Sarà a Milano a mez­zo­giorno, poi arri­verà a Torino e infine appro­derà a Bolo­gna per il comi­zio della sera, dalle 21 in piazza Mag­giore. Ale­xis Tsi­pras, lea­der della greca Syriza e can­di­dato pre­si­dente della Com­mis­sione della lista L’Altra Europa torna in Ita­lia lunedì 19 per il rush finale della cam­pa­gna elet­to­rale. Nel capo­luogo lom­bardo sarà all’università per un incon­tro con gli stu­denti, in quello pie­mon­tese nel pome­rig­gio farà una pas­seg­giata dalla sta­zione di Porta Nuova fino all’appuntamento di un’iniziativa pub­blica a Palazzo Nuovo.

Ker­messe di musica con Nicola Pio­vani, attori e ’sor­prese’ invece nella serata di Bolo­gna, con­dotta da Moni Ova­dia — che è anche can­di­dato — e la gio­vane autrice sati­rica Fran­ce­sca For­na­rio (suoi due spas­sosi spot per la cam­pa­gna elet­to­rale della lista). A quell’ora saranno noti i risul­tati del primo turno delle ammi­ni­stra­tive gre­che, che si svol­gono dome­nica 18. Un risul­tato cru­ciale per la corsa verso il voto anti­ci­pato ad Atene, ma anche un (auspi­ca­bile) tram­po­lino per le euro­pee del 25 mag­gio. Per l’occasione Bolo­gna cam­bia topo­no­ma­stica, almeno nelle indi­ca­zioni degli orga­niz­za­tori: «Largo al red­dito di cit­ta­di­nanza» e «Largo all’Europa sociale», «Via l’Austerity», «Via il Fiscal Com­pact», così saranno ribat­tez­zate altret­tante vie intorno a piazza Mag­giore, che ovvia­mente sarà «Piazza dell’Altra Europa».

Intanto ieri a Roma è stato pre­sen­tato l’appello di molti autori del mondo della cul­tura a soste­gno della lista per Tsi­pras. Un’iniziativa ana­loga la scorsa set­ti­mana era stata pre­sen­tata in Gre­cia. «Siamo con­vinti che tra le disu­gua­glianze sociali c’è anche l’accesso ai saperi e alla cono­scenza», scri­vono a Tsi­pras, «È anche in que­sto senso che alcune forze intel­let­tuali e poli­ti­che si bat­tono per un’altra Europa», «un’Europa legata alle neces­sità e allo svi­luppo dei popoli, che rico­no­sca i diritti dei lavo­ra­tori della cul­tura, che difenda e sostenga i luo­ghi della pro­du­zione e dif­fu­sione cul­tu­rale, che con­si­deri la cul­tura, la cono­scenza e la ricerca come bene pub­blico e diritto ina­lie­na­bile». «Serve che la sini­stra metta que­sti temi al cen­tro della sua inter­pre­ta­zione della realtà», che lavori «per un nuovo uma­ne­simo che si opponga ai pro­cesso distrut­tivi che rischiamo di per­cor­rere» dopo gli anni di Ber­lu­sconi che «hanno costruito un senso comune cui nem­meno una parte rile­vante della sini­stra (o meglio del centro-sinistra) si è sottratta».

Pro­muove l’appello il regi­sta Citto Maselli. Tra gli altri ade­ri­scono il pit­tore Enzo Api­cella, il musi­ci­sta Piero Arcan­geli, il pro­fes­sor Mino Argen­tieri, l’urbanista Paolo Ber­dini, lo sto­rico Piero Bevi­lac­qua, il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Fer­rara, l’attrice e autrice Sabina Guz­zanti, la sto­rica Fran­ce­sca Koch, lo scrit­tore Felice Lau­da­dio. E anche Lucio Mani­sco, Ivano Mare­scotti, Paolo Pie­tran­geli, Anto­nio Vene­ziano, Edoardo Sal­zano e lo scrit­tore Ermanno Rea (che è anche candidato).

Ma tra i mol­tis­simi fir­ma­tari spicca il nome di Andrea Camil­leri, ’padre’ del popo­lare Com­mis­sa­rio Mon­tal­bano. Lo scrit­tore era stato fra i primi a pro­muo­vere la lista per Tsi­pras, ma poi non aveva accet­tato - con qual­che pole­mica - di far parte del comi­tato dei garanti. Ora torna della par­tita. A tutti loro Tsi­pras si rivol­gerà lunedì sera dal palco di Bologna

Daniela Preziosi ntervista Barbara Spinelli: «giusto imporre il voto su Genovese, rischiavamo di essere complici dei rinvii del Pd. Su molti temi siamo vicini al M5S. Ma senza alleati nel parlamento europeo loro si condannano al limbo della testimonianza». «La provocazione del bikini? Si è trasformata in sberleffo che ha oscurato il progetto».

Il manifesto, 16 maggio 2014

«I fermi di ieri a Bru­xel­les sono una cosa grave. Non c’era stata alcun tipo di vio­lenza da parte dei mani­fe­stanti. Mi torna in mente il rap­porto della JP Mor­gan del 2013, dove si sostiene che le Costi­tu­zioni più influen­zate dall’antifascismo vanno sman­tel­late per­ché difen­dono diritti troppo avan­zati, com­preso il diritto di pro­te­sta. La poli­zia di Bru­xel­les si è già ade­guata?». La prima tele­fo­nata con Bar­bara Spi­nelli, capo­li­sta di L’Altra Europa con Tsi­pras, è al mat­tino men­tre da Bru­xel­les arri­vano le noti­zie di 249 fer­mati fra i mani­fe­stanti con­tro il sum­mit delle Con­fin­du­strie. Fra loro un altro can­di­dato, Luca Casa­rini. Pro­viamo a scher­zare: era per cose come que­ste che qual­cuno dei pro­mo­tori della lista non voleva Casa­rini? La rispo­sta è seria: «Sta­vano solo mani­fe­stando. Comun­que le con­danne per disob­be­dienza civile non sono un motivo di esclu­dere qual­cuno dalle nostre liste». Nel pome­rig­gio, per for­tuna, saranno tutti rilasciati.

Il can­di­dato del Pse Mar­tin Schulz dichiara a Repub­blica: «Se vince la destra ci saranno altri cin­que anni di auste­rità». Se vince il Pse l’austerità sarà cancellata?
Que­sta dichia­ra­zione è una vera beffa agli elet­tori. Gli anni di auste­rità li abbiamo avuti gra­zie alle intese fra socia­li­sti e popo­lari. In Ger­ma­nia l’accordo sulla Grande Coa­li­zione è stato nego­ziato fra Angela Mer­kel e Schulz, per la parte euro­pea. Il risul­tato è stato che la Spd ha rinun­ciato a ogni cri­tica dell’austerità, all’idea del piano Mar­shall che pure aveva difeso in cam­pa­gna elet­to­rale e ha ’dimen­ti­cato’ gli euro­bond. Insomma sull’Europa ha ceduto su tutto. Le parole di Schulz non cor­ri­spon­dono a quello che i social­de­mo­cra­tici hanno fatto negli anni di crisi.

Schulz non esclude lar­ghe intese future con il Ppe. Dice: «Prima del voto non è il tempo di par­lare di accordi».
Que­sto non è leale verso l’elettorato. In realtà si pre­para alle lar­ghe intese senza dirlo. Schulz sa bene che se il Pse diventa il primo gruppo e se lui vuol fare il pre­si­dente della Com­mis­sione avrà biso­gno dell’appoggio del Ppe.

Invece voi cosa farete? Farete pesare i vostri voti, even­tual­mente, nell’elezione di Schulz? E innan­zi­tutto: quando dico ‘voi’ dico la ‘Sini­stra europea’?
Non è detto che il futuro gruppo si iden­ti­fi­chi tutto con il Gue. Si è impe­gnato comun­que a «stare con Tsi­pras», cioè a non entrare in altri gruppi. In ogni caso peserà molto per­ché, quale che sia il risul­tato ita­liano, è una for­ma­zione che aumen­terà note­vol­mente. In Fran­cia, Spa­gna, Ger­ma­nia la sini­stra non socia­li­sta è in aumento.

Tsi­pras dice: «Saremo la terza forza».
È pos­si­bile. Spero che la lista per Tsi­pras abbia la forza e l’indipendenza di giu­di­zio per aprire un dia­logo con i 5 stelle e deci­dere su punti spe­ci­fici poli­ti­che con­cor­date. Ci sono molte cose in comune. Per esem­pio l’idea della con­fe­renza che riduca e comu­ni­ta­rizzi il debito è una nostra idea che il M5S ha fatto pro­pria. Ora Tsi­pras ha appro­vato il ‘New Deal 4 Europe’ dei fede­ra­li­sti: è un’iniziativa cit­ta­dina che sta rac­co­gliendo firme in tutta l’Unione per un grande piano comune di inve­sti­mento. Sarebbe inte­res­sante sapere cosa nel pensa il M5S.

Per la verità Grillo sem­bra più inte­res­sato alla cam­pa­gna for­sen­nata con­tro il Pd.
Ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili, e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre. M5S potrebbe svol­gere un ruolo molto impor­tante. Mi chiedo però cosa faranno i suoi eletti, nel par­la­mento euro­peo. Se non si alleano con altri dovranno entrare nel gruppo dei non iscritti, una sorta di gruppo misto. Saranno con­dan­nati ad un ruolo di testi­mo­nianza. A un limbo.

In Ita­lia però siete in com­pe­ti­zione con loro. L’ultimo scon­tro è di ieri, alla camera, fra Sel che fa ostru­zio­ni­smo con­tro il decreto Poletti e il M5S che ci ripensa per anti­ci­pare il voto sull’arresto di Genovese.
Il decreto Poletti sarebbe pas­sato comun­que, l’ostruzionismo era ormai sim­bo­lico. Con­di­vido la linea del M5S: il voto su Geno­vese era l’emergenza. È stato giu­sto met­tere il Pd di fronte alle sue respon­sa­bi­lità e costrin­gerlo a votare sull’arresto. Il reato di cui è accu­sato Geno­vese è gra­vis­simo. Si rischiava di essere com­plici di una stra­te­gia del rin­vio, acca­rez­zata nel Pd.

Renzi ha tagliato il nodo impo­nendo il voto subito.
Ma è stato pos­si­bile solo gra­zie alle pres­sioni di M5S.

Torno al voto. Tsi­pras è ancora poco conosciuto.
Cer­chiamo in tutti i modi di spie­gare per­ché la Gre­cia è un caso para­dig­ma­tico, e che Tsi­pras sta inven­tando un modo di fare sini­stra total­mente nuovo. Ma è una strada in salita

Le tv non vi aiutano.
Spesso ci boi­cot­tano addi­rit­tura. Rispetto a noi hanno più spa­zio sia Fra­telli d’Italia sia la Lega. Un po’ per­ché nes­suno vuole più avere a che fare con le sini­stre radi­cali. Ma soprat­tutto per­ché il nostro poten­ziale elet­to­rato porta via voti al Pd.

Per que­sto avete preso anche ini­zia­tive pro­vo­ca­to­rie, come quella del bikini?
Non è una stra­te­gia della lista. È una mossa pro­vo­ca­to­ria nata all’interno del gruppo comu­ni­ca­zione, dan­nosa per il nostro pro­getto e per molti can­di­dati: per giorni lo sber­leffo ha oscu­rato il pro­gramma. Non so dirle per­ché sia nata; so solo che si tende a tra­sfor­marla in un’offensiva ideo­lo­gica con­tro il fem­mi­ni­smo, e anche con­tro la mia can­di­da­tura. Per quanto mi riguarda, con­si­dero la dia­triba del tutto assurda: non ho mai fatto parte né del movi­mento «Se non ora quando», né di altri movi­menti femministi.

Renzi dice che le euro­pee non deb­bono essere un refe­ren­dum sul suo governo.
Renzi ha una sin­go­lare poli­tica sull’Europa. Attri­bui­sce tutti i suoi mali alla ‘buro­cra­zia’ di Bru­xel­les. Ma è una vec­chia stra­te­gia, risale ai tempi della That­cher: è un alibi die­tro il quale si nascon­dono i governi, che invece sono i veri ese­cu­tori delle poli­ti­che euro­pee. Non esi­ste la Fede­ra­zione euro­pea, pur­troppo. Se esi­stesse, l’Europa sarebbe più soli­dale. Ma la respon­sa­bi­lità delle poli­ti­che è dei governi. Quindi è ine­vi­ta­bile che nel voto euro­peo si parli dei governi.

Lei fer­me­rebbe l’Expo di Milano, come dice Grillo, o la farebbe andare avanti per dimo­strare di avere uno stato più forte dei ladroni, come dice Renzi?
È dif­fi­cile fer­mare le mac­chine ora. Ini­zia­tive di que­sto genere in una crisi così pro­fonda è meglio non farle. In Ita­lia poi tutte le grandi opere sono infil­trate dalle mafie: non siamo di fronte a una nuova Tan­gen­to­poli, ma alla pro­se­cu­zione di quella dei primi anni 90.

Lo scan­dalo favo­rirà Grillo nelle urne?
Direi di sì. Potrebbe anche favo­rire noi, che diciamo cose ana­lo­ghe su cor­ru­zione e mafia.

C’è chi sospetta del tem­pi­smo dei pm.
In Ita­lia la cor­ru­zione c’è da lungo tempo. Ogni tanto ci sono degli arre­sti. Sic­come siamo una demo­cra­zia con con­ti­nue ele­zioni dob­biamo dire che ogni volta il tem­pi­smo è sba­gliato? Allora deci­diamo che la magi­stra­tura non fac­cia più niente. Un modo per evi­tare gli arre­sti in cam­pa­gna elet­to­rale c’è: la poli­tica e le classi diri­genti evi­tino la cor­ru­zione prima che inter­venga la magi­stra­tura. In demo­cra­zia non c’è un momento buono per un arre­sto: c’è nei regimi auto­ri­tari dove la giu­sti­zia è al ser­vi­zio della politica.

Un'ulteriore stretta di vite del Finanzcapitalismo contro gli abitanti del pianeta Terra. Il TTIP (Tran­sa­tlan­tic Trade and Invest­ment Part­ner­ship), l'accordo intercommerciale, in discussione tra Usa e Ue, comporterà l'istituzione di un tribunale che tutela solo i privati nelle dispute tra investitore estero e Stato.

Il manifesto, 16 maggio 2014

Dopo il disa­stro di Fuku­shima, la Ger­ma­nia decide di uscire dal nucleare. Pochi mesi dopo, basan­dosi su un accordo inter­na­zio­nale sugli inve­sti­menti in ambito ener­ge­tico, il colosso dell’energia Vat­ten­fall chiede allo stato tede­sco una com­pen­sa­zione di 3,5 miliardi di euro. L’anno prima la Phi­lip Mor­ris cita l’Australia, soste­nendo che la nuova legge pen­sata per limi­tare il con­sumo di siga­rette deprime il valore dei suoi inve­sti­menti nel Paese e ne “com­pro­mette irra­gio­ne­vol­mente il pieno uso e godimento”.

Ben­ve­nuti nel mondo delle dispute tra inve­sti­tore e Stato, o Investor-State Dispute Set­tle­ment (Isds). Sem­pli­fi­cando, una sorta di tri­bu­nale in cui le imprese pri­vate pos­sono diret­ta­mente citare in giu­di­zio gli Stati, quando que­sti doves­sero intro­durre delle legi­sla­zioni con impatti nega­tivi sugli inve­sti­menti rea­liz­zati e per­sino sui poten­ziali pro­fitti futuri. Legi­sla­zioni in ambito ambien­tale, del diritto del lavoro, della tutela dei con­su­ma­tori, sulla sicu­rezza e chi più ne ha più ne metta.

Tali «tri­bu­nali» sono parte inte­grante di diversi accordi com­mer­ciali o sugli inve­sti­menti, come nel caso del Nafta, siglato tra Canada, Usa e Mes­sico. È così che la sta­tu­ni­tense Metal­clad si è vista rico­no­scere un rim­borso di oltre 15 milioni di dol­lari quando un Comune mes­si­cano ha revo­cato l’autorizzazione a costruire una disca­rica di rifiuti peri­co­losi sul pro­prio ter­ri­to­rio; o ancora che la Lone Pine Resour­ces ha chie­sto 250 milioni di dol­lari al Canada a causa della mora­to­ria appro­vata dal Que­bec sulle atti­vità di frac­king — una pra­tica di estra­zione di petro­lio dalle rocce con enormi rischi ambientali.

Tutto que­sto potrebbe diven­tare la norma nei pros­simi anni anche in Ita­lia e in tutta Europa, se pas­sasse il Ttip o Tran­sa­tlan­tic Trade and Invest­ment Part­ner­ship in discus­sione tra Ue e Usa. Se da una parte già si mol­ti­pli­cano studi e ricer­che che magni­fi­cano i pre­sunti van­taggi di una com­pleta libe­ra­liz­za­zione di com­mer­cio e inve­sti­menti, dall’altra fino a oggi i con­te­nuti dell’accordo fil­trano dalla Com­mis­sione euro­pea e dai governi con il con­ta­gocce. Quello che sem­bra però con­fer­mato è che uno dei pila­stri del Ttip dovrebbe essere pro­prio l’istituzione di un mec­ca­ni­smo di riso­lu­zione delle dispute tra inve­sti­tori e Stati.

Tra­la­sciando i pur enormi poten­ziali impatti di tale accordo in ogni atti­vità imma­gi­na­bile, per quale motivo gli inve­sti­tori esteri che si sen­tis­sero pena­liz­zati non dovreb­bero rivol­gersi ai tri­bu­nali esi­stenti tanto in Usa quanto in Ue, come un qual­siasi cit­ta­dino o impresa locale? Secondo la Com­mis­sione «alcuni inve­sti­tori potreb­bero pen­sare che i tri­bu­nali nazio­nali sono pre­ve­nuti». Fa pia­cere sapere che la Com­mis­sione si pre­oc­cupa per quello che alcuni inve­sti­tori esteri potreb­bero pen­sare più che dei cit­ta­dini che dovrebbe rap­pre­sen­tare. Tenendo poi conto che un sin­golo non può rivol­gersi a tali tri­bu­nali nel caso in cui fosse dan­neg­giato dal com­por­ta­mento di un inve­sti­tore estero, che giu­sti­zia è quella in cui uni­ca­mente una delle due parti può inten­tare causa all’altra? Ancora prima, nel momento in cui si san­ci­sce un diverso trat­ta­mento tra imprese locali e inve­sti­tori esteri, ha ancora senso affer­mare che «la legge è uguale per tutti»?

Con tali mec­ca­ni­smi si rischia di minare le stesse fon­da­menta della sovra­nità demo­cra­tica. Non vi è appello pos­si­bile, così come non c’è nes­suna tra­spa­renza sulle deci­sioni di tre «esperti» che si riu­ni­scono e deci­dono a porte chiuse, nel nome della «con­fi­den­zia­lità com­mer­ciale», ma che di fatto pos­sono influen­zare, pesan­te­mente, le legi­sla­zioni di Stati sovrani.

Spesso non è nem­meno neces­sa­rio arri­vare a giu­di­zio: la sem­plice minac­cia di una disputa basta a bloc­care o inde­bo­lire una nuova legi­sla­zione. In parte per il costo di tali pro­ce­di­menti, in parte per il rischio di dovere poi pagare multe che pos­sono arri­vare a miliardi di euro, ma anche per un altro aspetto: un governo che dovesse incor­rere in diverse dispute dimo­stre­rebbe di essere poco incline agli inve­sti­menti inter­na­zio­nali. In un mondo che ha fatto della com­pe­ti­ti­vità il pro­prio faro e che si è lan­ciato in una corsa verso il fondo in mate­ria ambien­tale, sociale, fiscale, sui diritti del lavoro pur di attrarre i capi­tali esteri, l’introduzione di leggi «ecces­sive» e l’essere citato in giu­di­zio in un Investor-State Dispute Set­tle­ment diven­tano mac­chie inaccettabili.

O forse, al con­tra­rio, è sem­pli­ce­mente inac­cet­ta­bile un mondo in cui la tutela dei pro­fitti delle imprese ha defi­ni­ti­va­mente il soprav­vento sui diritti delle per­sone. Come sostiene la cam­pa­gna pro­mossa anche in Ita­lia da decine di orga­niz­za­zioni — http:// stop -ttip -ita lia .net -, a essere inac­cet­ta­bile è il Ttip nel suo insieme. E non è pro­ba­bil­mente neces­sa­rio il giu­di­zio di un tri­bu­nale inter­na­zio­nale per capire da che parte stare

«Per la prima volta i candidati in pectore alla guida dell'eurocommissione si sfidano in un dibattito televisivo continentale. Un format da definire meglio ma che va sulla strada giusta. Tra i temi toccati, l'austerità, la crisi ucraina, il caso Snowden, l'intreccio tra mafia e politica in Italia e la stretta sull'aborto in Spagna». Il manifesto, 16 maggio 2014

La verde Ska Kel­ler la migliore, il demo­cri­stiano Jean-Claude Junc­ker il peg­giore. Il primo, sto­rico, dibat­tito in diretta tele­vi­siva fra can­di­dati alla pre­si­denza della Com­mis­sione Ue fini­sce con una chiara vin­ci­trice – la gio­vane e bril­lante euro­de­pu­tata tede­sca – e un chiaro scon­fitto – il vete­rano ex pre­mier del Lus­sem­burgo. Buona la per­for­mance di Ale­xis Tsi­pras della Sini­stra euro­pea, al di sotto delle attese l’esperto social­de­mo­cra­tico Mar­tin Schulz e il libe­rale Guy Verhof­stadt: troppo com­pas­sato il primo, ecces­si­va­mente esa­gi­tato il secondo.

Nell’aula dell’Europarlamento tra­sfor­mata in stu­dio tele­vi­sivo è andato in scena un evento a suo modo epo­cale: mai prima d’ora una discus­sione poli­tica aveva riguar­dato con­tem­po­ra­nea­mente tutti i cit­ta­dini dei 28 Paesi dell’Ue. Con­du­zione affi­data all’italiana Monica Mag­gioni (diret­trice di Rai­news), for­mat tipico di que­sto genere di dibat­titi: domanda uguale per tutti e ciclo di rispo­ste brevi, con tre jolly da gio­carsi per even­tuali repli­che. Ormai ci siamo abi­tuati, ma l’impressione è che gli inter­venti con­cessi ai can­di­dati siano stati troppo brevi: 1 minuto a rispo­sta e 30 secondi per pos­si­bili repli­che appa­iono fran­ca­mente poco. Dif­fi­cil­mente si rie­sce ad arti­co­lare qual­cosa che vada oltre uno slo­gan o un’allusione: e manca per­sino il tempo per pole­miz­zare davvero.

Nono­stante la rigi­dità del for­mato, sono comun­que emerse le dif­fe­renze. Il demo­cri­stiano Junc­ker (Ppe, in Ita­lia sono Forza Ita­lia e il Nuovo cen­tro­de­stra) ha difeso l’austerità con­tro la quale si sono invece sca­gliati, con pari vee­menza, sia la verde Kel­ler che Tsi­pras. Schulz e Verhof­stadt hanno assunto posi­zioni inter­me­die: la disci­plina di bilan­cio è neces­sa­ria, ma l’eccesso di rigore può fare danni. Punti di vista diversi sulla crisi ucraina, con Junc­ker e Tsi­pras agli anti­podi: il primo a insi­stere sull’inasprimento delle san­zioni con­tro il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin e il secondo a denun­ciare lo scan­dalo della pre­senza di neo­na­zi­sti nel nuovo governo di Kiev. Una­ni­mità fra i can­di­dati in un solo caso: tutti pen­sano che il pros­simo capo della Com­mis­sione debba essere uno di loro, e non qual­cuno che venga «con­ce­pito» nelle segrete stanze del Con­si­glio dei capi di stato e governo (come sem­bre­rebbe pre­fe­rire invece la can­cel­liera tede­sca Angela Merkel).

All’ecologista Kel­ler va il merito di avere citato il nego­ziato sul Ttip, il trat­tato di libero scam­bio Ue-Usa che mette a repen­ta­glio i diritti di lavo­ra­tori e con­su­ma­tori, e le pro­te­ste con­tro di esso, com­prese quelle di ieri a Bru­xel­les. Tsi­pras ha cer­ta­mente colto nel segno nel citare, nel corso del dibat­tito, sia lo scan­dalo del ten­ta­tivo di contro-riforma dell’aborto in Spa­gna sia, a pro­po­sito del tema cor­ru­zione, gli intrecci tra mafia e poli­tica in Ita­lia. Il momento migliore di Verhof­stadt è stato nel pas­sag­gio sulla vicenda di Edward Sno­w­den, che per il lea­der libe­rale dimo­stra la neces­sità di difen­dere meglio la pri­vacy dei cit­ta­dini euro­pei, men­tre a Schulz è man­cato un colpo ad effetto. Il social­de­mo­cra­tico, che molti vedono come pre­si­dente in pec­tore, è apparso troppo com­pas­sato, quasi si sen­tisse in dovere di assu­mere una posa «isti­tu­zio­nale». Kel­ler e Tsi­pras deci­sa­mente i più sciolti.

Il dibat­tito visto sugli schermi di Rai­news 24 risul­tava cer­ta­mente appe­san­tito della tra­du­zione simul­ta­nea, che, peral­tro, non sem­pre è apparsa impec­ca­bile. E tut­ta­via, non c’era alter­na­tiva: per ren­dere l’appuntamento frui­bile a un pub­blico vasto non poteva essere tra­smesso in lin­gua ori­gi­nale (pos­si­bi­lità riser­vata a chi lo vedeva in strea­ming). Pur con molti limiti (com­presi per­so­na­liz­za­zione e spet­ta­co­la­riz­za­zione), il primo pre­si­den­tial debate della sto­ria della Ue va con­si­de­rato un passo nella dire­zione giu­sta: quella della crea­zione di un’opinione pub­blica euro­pea che rie­sca a con­tra­stare il pre­do­mi­nio dei governi nazio­nali nella deter­mi­na­zione del destino poli­tico dell’Unione europea.

La cronaca della protesta da New York a Milano e la lotta per portare la paga oraria a 15 dollari, di Antonio Sciotto e Joseph Giles.

Il manifesto, 15 maggio 2014

“IL CONTRATTO NON E' UN MENU'”
Antonio Sciotto

«Siamo noi il Quarto stato. Io vivo con 650 euro al mese ma allo scio­pero non rinun­cio». Giu­seppe Augello, dele­gato mila­nese di McDonald’s è carico, pronto per incro­ciare le brac­cia insieme a tutti i suoi col­le­ghi che nel mondo frig­gono panini e bat­tono scon­trini alla cassa. Cap­pel­lino e uni­forme di ordi­nanza, i ragazzi degli archi dorati si pre­pa­rano a cor­tei, volan­ti­naggi e flash mob per riven­di­care salari più alti, il diritto a un lavoro full time e ritmi umani.

Giu­seppe è Rsa Fil­cams Cgil da cin­que anni, da quando cioè ha comin­ciato a lavo­rare per la mul­ti­na­zio­nale del panino: da allora, McDonald’s lo ha spe­dito prima a Ber­gamo e poi in ben due locali desti­nati alla chiu­sura, pur di costrin­gerlo ad andar­sene («per­ché io rompo e metto i paletti»), ma lui ha resi­stito. Giu­seppe ha citato l’azienda davanti al giu­dice, per con­te­stare un appren­di­stato lungo tre anni ma senza for­ma­zione (il recente decreto Poletti sug­ge­ri­sce qual­cosa?): McDo ha accet­tato di con­ci­liare, ha dovuto assu­merlo a tempo inde­ter­mi­nato e pagar­gli tutti gli arretrati. Giu­seppe è solo un esem­pio, parla di un mondo di lavo­ra­tori che non si arrende. Per oggi la IUF (Inter­na­tio­nal Union Food, sin­da­cato glo­bale della risto­ra­zione) ha indetto una gior­nata di ini­zia­tiva mon­diale, la #Fast­Food­Glo­bal, a cui l’Italia ade­ri­sce – con lo scio­pero di domani, che in realtà riu­ni­sce tutti i lavo­ra­tori del turismo.

«Il nostro con­tratto non è un menù», dice il volan­tino dei mila­nesi in scio­pero. «Su Milano e in tante altre città por­te­remo i lavo­ra­tori in cor­teo», annun­cia Gior­gio Orto­lani della Fil­cams. In effetti la mobi­li­ta­zione ita­liana è stata indetta da Cgil, Cisl e Uil soprat­tutto per il con­tratto: per­ché la Fipe-Confcommercio – cui ade­ri­sce McDonald’s, con i suoi 16 mila dipen­denti – ha disdetto il con­tratto nazio­nale, lan­ciando una sfida senza pre­ce­denti al sindacato. Il gesto della Fipe è dav­vero «rivo­lu­zio­na­rio», visto che l’associazione che riu­ni­sce grossi mar­chi come Auto­grill, MyChef, Che­fEx­press, vor­rebbe ideal­mente pas­sare al supe­ra­mento del con­tratto nazio­nale, per appli­care dei rego­la­menti azien­dali uni­la­te­rali. Abbat­tendo gli scatti di anzia­nità, i per­messi retri­buiti, le mag­gio­ra­zioni per not­turni e festivi, la quat­tor­di­ce­sima. «La disdetta ci era stata comu­ni­cata a par­tire dal primo mag­gio 2014 – spiega Cri­stian Sesena, segre­ta­rio nazio­nale Fil­cams Cgil – Poi hanno deciso di pro­ro­garla al 31 dicem­bre: forse adesso vogliono sedersi a un tavolo».

A minac­ciare i prin­ci­pali isti­tuti con­trat­tuali, anche se non hanno scelto di disdet­tare il con­tratto, anche gli alber­ga­tori ade­renti a Con­fin­du­stria e Confesercenti. Una situa­zione – quella di un con­tratto che non si rie­sce a rin­no­vare ormai da un anno (se si eccet­tuano Fede­ral­ber­ghi e Faita cam­peggi, unici ad aver fir­mato) – che mette gli addetti ancora più in crisi, se già non bastas­sero con­di­zioni di lavoro spesso pre­ca­rie e al con­fine con la povertà.

Sesena di recente è stato a New York, dove ha par­te­ci­pato al sum­mit indetto dalla IUF per orga­niz­zare le mobi­li­ta­zioni: «Il fatto posi­tivo è che stiamo cer­cando di uscire dal loca­li­smo – spiega – McDonald’s ha un’organizzazione del lavoro simile in tutto il mondo, che si ripete un po’ nei 33 paesi che hanno ade­rito alla pro­te­sta. E uguali sono i metodi di for­ma­zione. È impor­tante creare un coor­di­na­mento delle lotte glo­bali: che però non deve essere fatto solo di azioni estem­po­ra­nee, per gua­da­gnare visi­bi­lità, pure fon­da­men­tale. Serve una stra­te­gia sindacale». Negli Usa, ad esem­pio, si chiede il rad­dop­pio della paga ora­ria: da 7,25 dol­lari a 15 (tenendo conto che non è un netto: i lavo­ra­tori con que­sta cifra devono pagarci anche l’assicurazione sani­ta­ria). Ecco il senso della cam­pa­gna #fightfor15.

In Ita­lia, sep­pure il tema del red­dito sia impor­tante – non solo sul piano del con­tratto nazio­nale, ma anche sulla obbli­ga­to­rietà di fatto del part time – la ver­tenza va anche su altri temi: «Si deve par­lare di orari, di con­ci­lia­zione vita-lavoro, di tutela delle donne e delle mamme – dice Sesena – Non dimen­ti­cando che McDonald’s non ha mai voluto sedersi per discu­tere un integrativo». A Milano, tra l’altro, si parla anche di Expo: come lavo­re­ranno nel 2015 gli addetti di risto­ranti e alber­ghi se non avranno un contratto?

Quindi ecco le cam­pa­gne che la Fil­cams Cgil ha lan­ciato per gli addetti dei fast food, spesso gio­vani e un po’ a digiuno di cono­scenze sin­da­cali, inter­cet­ta­bili però sui social net­work: la cam­pa­gna «Fac­cia a fac­cia con la realtà» è diven­tata un blog (www​.fast​ge​ne​ra​tion​.it) dove i lavo­ra­tori si rac­con­tano (su Twit­ter l’hashtag è #fast­ge­ne­ra­tion).


#FIGHTFOR15
Joseph Giles
Gli hash­tag girano da giorni sui social net­work: #Fast­food­glo­bal, #fightfor15, ma que­sta volta la mobi­li­ta­zione non sarà solo riser­vata ai con­sueti «atti­vi­sti da tastiera», ma si svol­gerà per le strade di 150 città. Una pro­te­sta glo­bale, mon­diale, dei lavo­ra­tori sim­boli delle odierne società, ovvero i lavo­ra­tori delle catene dei fast food. Si tratta — secondo gli orga­niz­za­tori — della più grande pro­te­sta con­tro l’industria ali­men­tare della sto­ria; 33 paesi, dagli Usa all’Argentina, dall’Italia alle Filip­pine, dal Bra­sile al Marocco, dal Giap­pone al Malawi. I pro­ta­go­ni­sti sono i fast food wor­kers, sot­to­messi alla con­tem­po­ra­nea catena di mon­tag­gio, carat­te­riz­zata dai ritmi ver­ti­gi­nosi, con poche pause, pochi diritti e sti­pendi da fame.
Eppure le aziende che sfrut­tano i lavo­ra­tori fanno i miliardi. I panini, gli ham­bur­ger, gli snack, vanno a ruba, hanno disin­te­grato eco­no­mie ali­men­tari locali, spe­cie nei paesi in cui i fast food sono una recente sco­perta per­messa dalla glo­ba­liz­za­zione. E più di tutto fanno lauti pro­fitti per­ché i lavo­ra­tori sono mal pagati e quel che è peg­gio ricat­tati da rego­la­menti interni che non pre­ve­dono orga­niz­za­zioni sin­da­cali e pos­si­bi­lità di riven­di­ca­zioni. Negli Stati Uniti le avvi­sa­glie erano in atto da tempo; e oggi è giunto il momento mon­diale, al ter­mine di un per­corso orga­niz­za­tivo che ha saputo con­so­li­dare tutti i lavo­ra­tori con poche e sem­plici parole d’ordine.
Ci sarà anche l’Italia: «Nel nostro paese, le con­di­zioni di lavoro all’interno dei fast food non sono buone e non esi­ste con­trat­ta­zione inte­gra­tiva», ha affer­mato Cri­stian Sesena, che per la Fil­cams Cgil nazio­nale ha par­te­ci­pato all’incontro orga­niz­za­tivo di New York e orga­niz­zato dallo Iuf, l’International Union of Food, Agri­cul­tu­ral, Hotel, Restau­rant, Cate­ring, Tobacco and Allied Wor­kers’ Asso­cia­tio­nism. «Già da un paio di anni, in con­trap­po­si­zione a quanto pub­bli­ciz­zato da molti famosi mar­chi inter­na­zio­nali, come Fil­cams abbiamo avviato un per­corso per cer­care di met­tere in risalto la reale situa­zione dei lavo­ra­tori, per la mag­gior parte gio­vani, a part time obbli­ga­to­rio, con una paga minima ora­ria infe­riore agli 8 euro lordi», spiega, men­tre «negli Usa si com­batte per otte­nere una paga ora­ria di 15 dol­lari» (da cui l’hashtag #fightfor15 ndr).
Uno dei prin­ci­pali obiet­tivi della pro­te­sta, sia per le richie­ste di aumenti sala­riali, sia per il diritto di for­mare sin­da­cati, è senza dub­bio la McDo­nalds, par­ti­co­lar­mente pre­oc­cu­pata dall’azione mon­diale, tanto da man­dare una let­tera ai pro­pri dipen­denti e inter­cet­tata alcuni giorni fa dal Wall Street Jour­nal, nella quale si chie­deva di moni­to­rare quanto acca­drà oggi. «Le per­sone ora si orga­niz­zano, è tempo di cam­biare» ha rac­con­tato all’Afp Eli­za­beth Rene, lavo­ra­trice di 24 anni di un McDonald.
Oggi par­te­ci­perà al suo terzo scio­pero in due anni. «Stiamo affron­tando le stesse sfide, ci tro­viamo di fronte gli stessi pro­blemi, le stesse lotte. Con­ti­nue­remo fino a rag­giun­gere il nostro obiet­tivo», ha dichia­rato l’italiano Mas­simo Fra­tini, coor­di­na­tore per lo Iuf, che rap­pre­senta 396 sin­da­cati e 12 milioni di lavo­ra­tori per un totale di 126 paesi.

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«Regole giu­ri­di­che per gli appalti. La legge appro­vata nel 1994 che prese il nome dall’allora mini­stro Mer­loni era un prov­ve­di­mento rigo­roso e si trat­tava solo di spe­ri­men­tarla e miglio­rarla. Si scelse la strada oppo­sta. Fu subito accu­sata di rigi­dità e fu variata, emen­data e stra­volta: oggi siamo alla sua quarta ste­sura».

Il manifesto, 15 maggio 2014

Quando Fri­ge­rio e Gre­ganti erano più gio­vani di 20 anni, sulla spinta dell’indignazione dell’opinione pub­blica furono rico­struite le regole giu­ri­di­che per gli appalti. La legge appro­vata nel 1994 che prese il nome dall’allora mini­stro Mer­loni era un prov­ve­di­mento rigo­roso e si trat­tava solo di spe­ri­men­tarla e –sem­mai– miglio­rarla. Si scelse la strada oppo­sta. Fu subito accu­sata di rigi­dità e fu variata, emen­data e stra­volta: oggi siamo alla sua quarta ste­sura. A svin­co­lare dalla legge l’aggiudicazione dei grandi appalti ci pensò il secondo governo Berlusconi.

Appro­vando nel 2001 la «legge obiet­tivo» che con il con­vinto soste­gno del mondo delle mag­giori imprese for­niva sem­pli­fi­ca­zioni per i grandi appalti. Ancora peg­gio fecero nel 2002 i decreti attua­tivi e fu pos­si­bile così spe­ri­men­tare la mac­china della Pro­te­zione civile di Guido Ber­to­laso. Tutti i grandi appalti veni­vano aggiu­di­cati con un sistema pale­se­mente discre­zio­nale: lo scan­dalo che seguì aveva dun­que radici salde nella man­canza di regole. Ma anche il set­tore degli appalti minori è rima­sto indenne. Da anni i comuni ita­liani pos­sono appal­tare a trat­ta­tiva sem­pli­fi­cata — senza una vera gara di evi­denza pub­blica — lavori di importo fino a 500 mila euro. Nel 2011, l’Autorità di vigi­lanza sui con­tratti pub­blici, Avpc, denun­ciava ina­scol­tata che il 28% degli appalti pub­blici per un valore di 28 miliardi veniva appal­tato senza gara. I grandi lavori hanno bene­fi­ciato di un ter­reno legi­sla­tivo spe­ciale men­tre quelli minori sono stati lasciati nella discrezionalità.

Come mera­vi­gliarsi dun­que dell’esplodere dell’ennesimo scan­dalo? Le radici stanno nell’assenza di regole: la poli­tica affa­ri­stica tiene sotto con­trollo le imprese e le rube­rie sono all’ordine del giorno, come denun­ciano la Corte dei Conti e la Tra­spa­rency Inter­na­tio­nal. Ha dun­que ragione Livio Pepino che sulle pagine del mani­fe­sto di ieri affer­mava che «non siamo di fronte ad una cor­ru­zione nel sistema ma ad una ben più grave cor­ru­zione del sistema». La vera tra­ge­dia che stiamo vivendo sta però nel dif­fe­rente atteg­gia­mento del legi­sla­tore e dei mezzi di comu­ni­ca­zione. Se vent’anni fa ci fu un inne­ga­bile scatto di dignità isti­tu­zio­nale, oggi siamo den­tro ad un inau­dito attacco alla «buro­cra­zia» rea di ogni colpa.

Due giorni fa a Milano a discu­tere del futuro di Expo 2015 c’era il mini­stro per le infra­strut­ture Mau­ri­zio Lupi. Non è sol­tanto la pre­senza del suo nome nelle inter­cet­ta­zioni della cricca dell’Expo a susci­tare pre­oc­cu­pa­zione (come noto egli ha smen­tito ogni legame con i dete­nuti) quanto un gra­vis­simo annun­cio reso pub­blico nell’audizione da lui tenuta l’11 marzo scorso presso la com­mis­sione ambiente della Camera dei Depu­tati. In quella sede ha infatti espresso il parere di scio­gliere l’Autorità di vigi­lanza sui lavori pub­blici e ripor­tare tutte le com­pe­tenze presso il mini­stero da lui diretto.

L’attacco è stato moti­vato dalla neces­sità di «snel­lire e sbu­ro­cra­tiz­zare». La realtà è diversa. L’Avcp – che pure ha un diri­gente coin­volto nell’affare Expo e non è immune da cri­ti­che– aveva negli anni scorsi denun­ciato alla Magi­stra­tura inqui­rente molti appalti sospetti. I casi più cla­mo­rosi hanno riguar­dato l’appalto per la sede dell’Agenzia spa­ziale ita­liana (l’ex pre­si­dente Sag­gese è in car­cere per tan­genti) e l’ispezione com­piuta sull’appalto della Pede­mon­tana lom­barda, opera tanto cara al sistema di potere sma­sche­rato dall’inchiesta Expo. Troppo per i nostri libe­ri­sti. Così, forse anche per la pre­senza presso il suo mini­stero in qua­lità di Capo di Gabi­netto di Gia­como Aiello che era stato capo dell’ufficio legi­sla­tivo della Pro­te­zione civile di Ber­to­laso, Lupi vuole scio­gliere quell’organismo indipendente.

La dram­ma­tica crisi di lega­lità che viviamo deriva dalla man­canza di orga­ni­smi terzi indi­pen­denti dalla poli­tica e auto­re­voli sotto il pro­filo morale, delle com­pe­tenze e della libertà di movi­mento. E invece il governo per­se­gue la demo­li­zione del resi­duo di lega­lità e di senso dello Stato che ancora non è stata spaz­zata via dal ven­ten­nio ber­lu­sco­niano. Oltre a Lupi, anche il primo mini­stro Renzi sem­bra osses­sio­nato dalla volontà di demo­lire quanto resta delle fun­zioni pub­bli­che, dalle Soprin­ten­denze fino alla Magi­stra­tura.

L’immagine dell’Italia infranta dell’Expo 2015 non si salva solo con la pre­senza di uomini del livello di Raf­faele Can­tone. Si recu­pera riscri­vendo regole rigo­rose per gli appalti pub­blici e resti­tuendo dignità e auto­no­mia alle fun­zioni pub­bli­che mor­ti­fi­cate da venti anni. Nella migliore sto­ria degli appalti pub­blici — che pure esi­ste — c’è sem­pre stata una ten­sione cul­tu­rale nel per­se­guire un futuro migliore. A furia di sem­pli­fi­care e di affret­tarsi senza senso si con­se­gna defi­ni­ti­va­mente il paese allo stra­po­tere del peg­giore affa­ri­smo poli­tico e imprenditoriale.

«Il PNR (Programma nazionale di riforme) propone un set di obiettivi da raggiungere riguardo temi rispetto ai quali i cittadini sono molto più sensibili: occupazione, povertà, istruzione terziaria e abbandoni scolastici, spesa in ricerca e sviluppo, emissioni, efficienza energetica ed energie rinnovabili. Si tratta della strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, in arte "Europa2020"».

Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2014 (m.p.r.)

Nell’ambito della nuova procedura di bilancio armonizzata a livello europeo (il cosiddetto “Semestre Europeo di coordinamento della politica economica”) ad aprile gli Stati Membri devono presentare alla Commissione Europea il Def (Documento di Economia e Finanza) che si compone di tre sezioni: il Programma di stabilità, l’Analisi della finanza pubblica, e il Programma nazionale di Riforme (PNR).

Il Programma di Stabilità offre il quadro macroeconomico e stima l’impatto degli interventi previsti dal governo rispetto ai vincoli del patto di stabilità e alla finanza pubblica in generale. Il PNR presenta le misure che il governo intende introdurre, risponde alle osservazioni presentate dalla Commissione nell’Annual Growth Survey (il documento di partenza del “Semestre europeo”) e lo stato di avanzamento verso gli obiettivi di qualità della crescita fissati dalla strategia Europa 2020.

Quando l’Europa, in particolare la DG ECFIN, ci bacchetta, lo fa rispetto agli indicatori definiti dal Patto di Stabilità e Crescita, sostanzialmente gli ormai arcinoti parametri di Maastricht, il rapporto Debito/Pil e il rapporto Deficit/Pil. Se non rispettiamo gli obiettivi rispettivamente del 60% e del 3% è anche possibile incorrere in procedure d’infrazione per deficit eccessivo, dove il controllo da parte della Commissione diventa più stringente ed in casi estremi si può arrivare a delle penali (che tuttavia ad oggi non sono mai state inflitte a nessun paese). Più recentemente si viene bacchettati anche rispetto ad una lunga lista di indicatori di possibili squilibri macroeconomici (trattati nel PNR) e che possono attivare le cosiddette Macroeconomic Imbalance Procedures (MIP) al fine di correggerle.
Ma, come detto, il PNR propone anche un set di obiettivi da raggiungere riguardo temi di non minore importanza e probabilmente rispetto ai quali i cittadini sono molto più sensibili: occupazione, povertà, istruzione terziaria e abbandoni scolastici, spesa in ricerca e sviluppo, emissioni, efficienza energetica ed energie rinnovabili. Si tratta della strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva (smart, sustainable and inclusive growth), in arte Europa2020, perché fissa obiettivi quantitativi da raggiungere al 2020. La strategia arriva nel 2015 al giro di boa e la Commissione si appresta a rivederla.

Ma che cos’è Europa 2020? Nel 2010, alla scadenza della precedente Strategia di Lisbona per la crescita e il lavoro, i governi dell’Unione hanno definito delle linee d’azione perché gli obiettivi di medio periodo della politica economica non siano limitati alla sola crescita economica ma estesi ad alcuni elementi fondamentali che caratterizzino il modello europeo. Nell’idea della Commissione si vuole “accrescere la competitività dell’Unione mantenendo il modello di economia sociale di mercato e migliorando l’uso efficiente delle risorse”.

Si tratta di 8 indicatori per i quali sono stati fissati degli obiettivi da raggiungere entro il 2020 tanto per l'Unione nel suo insieme, come per i singoli stati membri. L’inclusività della crescita è data da maggiore occupazione e partecipazione all’istruzione (più laureati e meno abbandoni prima del diploma) nonché dalla riduzione del cosiddetto rischio di povertà, ovvero non solo redditi bassi ma anche l’appartenenza a famiglie senza lavoro e l’impossibilità di potersi permettere beni o attività essenziali, la grave deprivazione. L’intelligenza della crescita sta nell’obiettivo di portate la spesa per ricerca e sviluppo al 3% del Pil. La sostenibilità sta nella riduzione delle emissioni e nella crescita dell’efficienza energetica e dell’uso delle energie rinnovabili. Il dettaglio della strategia è presentato nella tavola 1. È da notare che gli obiettivi non sono gli stessi per tutti i paesi: esiste un obiettivo generale europeo, e poi ogni paese si è dato degli obiettivi alla propria portata.

Tavola1. Europa2020 - Gli obiettivi Italiani ed europei al 2020
Target IT
Target UE
Spesa in Ricerca e Sviluppo in % PIL
1,53
3
Quota di 30-34enni con istruzione terziaria
26%
40%
Abbandoni scolastici
16%
10%
Tasso occupazione 20-64enni
75%
75%
Riduzione della popolazione a rischio povertào esclusione rispetto al 2005
(-2.2 milioni)
-20 milioni
Riduzione delle emissioni gas serra rispetto al 1990
20%
20%
Quota di energia rinnovabile sul consumo finale interno lordo
17%
20%
Efficienza energetica (riduzione dei consumi di energia)
20%
20%
I pro.

Con Europa2020 l’Europa si è dotata di un percorso di medio periodo da seguire in modo da realizzare, in qualche maniera, un’idea di Europa. Questo è stato fatto attraverso un accordo politico tra i 27 governi che si sono impegnati a rispettarne la realizzazione. Gli obiettivi politici di ampio respiro (crescita intelligente, inclusiva e sostenibile) sono stati declinati in indicatori misurabili, quindi monitorabili e con obiettivi numerici ben definiti, rendendo i governi “accountable” di fronte ai cittadini e alla Commissione. Il fatto che siano pochi rende chiare le prorità e facilmente comunicabile la strategia nel suo complesso. In più tali obiettivi sono inseriti all’interno del semestre europeo per cui ogni governo si impegna a fornirne il monitoraggio annuale e a dichiarare, proprio con il PNR, in che maniera si propone di raggiungere gli obiettivi. Tra i pro, è da notare anche il fatto che la strategia si inserisce in un dibattito che sta avendo molta risonanza su scala internazionale, sulla necessità di misurare il progresso delle società, e il benessere dei cittadini, attraverso misure che vadano “oltre il Pil”. In Italia la concretizzazione di questo movimento è l’iniziativa CNEL-Istat per la misurazione del BES, il Benessere Equo e Sostenibile (si veda www.misuredelbenessere.it). Europa2020 non è il migliore set di indicatori di misurazione del progresso di una società, ma è la formale presa di coscienza da parte delle istituzioni europee che la crescita del Pil da sola non basta e che deve necessariamente essere dotata di caratteristiche qualitative che la rendano più giusta e sostenibile.

I contra e le proposte di riforma.

Un’analisi critica della genesi ed attuazione della strategia può fare riferimento alle diverse fasi dell’intero processo:
1. la definizione degli obiettivi e degli indicatori proposti è criticabile tanto nel metodo, mettendo in discussione la legittimità politica di una decisione di medio periodo presa a porte chiuse dal Consiglio europeo, come nel merito: sono stati inclusi tutti gli elementi rilevanti? sono misurati nella maniera più opportuna?;
2. il tipo di procedure che sono attivate per il monitoraggio dei risultati e l’opportunità di avere processi di infrazione anche su obiettivi esterni al Patto di Stabilità;
3. infine sul processo di comunicazione da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali che estenda il controllo sui governi anche all’opinione pubblica.

Iniziamo dalla questione della scelta degli obiettivi. È chiaro che la definizione di accordi intergovernativi sia nelle competenze dell’Unione, ma quando si tratta di definire obiettivi strategici di lungo periodo sarebbe opportuno ascoltare fasce più ampie della cittadinanza, al di fuori dei ministeri nazionali e della tecnocrazia europea. La crisi della rappresentanza democratica degli eletti è messa in discussione da tutti i fronti, e in tutti i paesi, e ancor di più lo è quella della dirigenza ministeriale e della Commissione Europea. Non a caso la Commissione cerca in tutte le occasioni di aprire consultazioni pubbliche sulle principali direttive proprio per supplire il suo evidente deficit democratico. Europa2020 è frutto di un accordo a porte chiuse che elude da qualsiasi reale legittimità democratica. La sua riforma dovrà necessariamente fare in modo (e sembra che questo sarà fatto nei prossimi mesi) di tenere conto delle opinioni e delle priorità dettate dalla società civile e delle parti sociali europee.

Entrando nel merito degli obiettivi e degli indicatori si aprirebbero discussione che non trovano spazio per essere approfonditi in questa sede: c’è chi propone di introdurre indicatori di qualità del lavoro, e non solo di occupazione, o di competenze, e non solo di livello di istruzione; chi vorrebbe una misura del reddito mediano delle famiglie o indicatori di salute mentale della popolazione; sul fronte ambientale c’è chi, come il Commissario all’ambiente Potocnik, vuole introdurre misure della quantità di materia (e non solo di energia) usata dal sistema produttivo. In termini più generali si richiama spesso al problema di definire tutti obiettivi di risultato e non di input. Ad esempio utilizzando anziché la spesa per la ricerca come misura della “smartness”, il numero di innovazioni introdotte. Infine, affinché si potesse raggiungere un accordo, ogni paese ha potuto fissare obiettivi propri con il risultato che a volte si tratta di obiettivi poco ambiziosi (come il caso della spesa per la ricerca in Italia per la quale si punta all’1,53 anziché al 3% del Pil). Il risultato paradossale è che anche qualora tutti i paesi raggiungessero i propri obiettivi, l’Unione non raggiungerebbe quelli europei.

Come detto il monitoraggio degli indicatori di Europa2020 avviene nell’ambito del cosiddetto Semestre Europeo assieme a diverse altre procedure di monitoraggio. Quello che abbiamo imparato a vedere è che rispetto agli obiettivi che l’Europa si è data, quelli macroeconomici hanno completamente eclissato quelli sociali, anche quando questi sono stati presentati come indicatori di qualità della crescita. Sebbene attraverso la crisi l’occupazione crollasse e la povertà e l’esclusione sociale esplodessero, questi segnali non hanno mai dato adito, da parte della Commissione, di alcuna richiesta d’azione per invertire tali tendenze che le politiche d’austerità, attente ossessivamente al 3% di deficit, hanno chiaramente aggravato.

A questo si potrà controbattere dicendo che le questioni sociali non ricadono nelle dirette competenze dell’Unione Europea, ma lo stesso è vero per gli squilibri macroeconomici, sui quali invece la Commissione non esita a dare indicazioni. Di fatto, nel PNR, il Governo si impegna a rispondere alle osservazioni della Commissione rispetto agli squilibri macroeconomici, mentre non presenta alcun impegno riguardo i ritardi nel raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020: non solo lo spazio dedicato alla strategia è minimo e relegato in fondo al documento, ma l’analisi dei dati è seguita solo dalla presentazione di quanto fatto in passato sui diversi temi, mentre nulla è detto su cosa il Governo si propone di fare in futuro. Infine, è significativo come nel documento di partenza del semestre europeo, l’Annual growth survey, Europa 2020 non abbia alcun ruolo: insomma la strategia di lungo periodo per l’Unione non è presa in considerazione all’inizio del percorso, poi compare per un attimo in un documento, il PNR che ha pochissima risonanza, e poi torna nel dimenticatoio. Se si crede che Europa2020 sia realmente la strategia che l’Europa deve seguire, allora i processi decisionali e di monitoraggio devono essere profondamente rivisti per garantirne la centralità.

Chiudiamo con la questione della diffusione.

Nel nostro Paese, e non solo, la strategia Europa2020 appare nota solo agli addetti ai lavori. In Italia il 9 aprile, dopo la pubblicazione del DEF, tutti i giornali vi hanno dedicato almeno una notizia, se non molte pagine; in alcuni casi si è citato il PNR; nessuno mi risulta abbia parlato di Europa 2020 e mostrato gli effetti delle misure presentate dal Governo sui nostri 8 indicatori presentati dal Governo. Una ricerca di news su Google, l’11 aprile, mostra una differenza nel numero di uscite tra Governo+DEF, e Governo+”Europa 2020” da 44900 a 138. È naturale e giusto il grande interesse della stampa per il DEF e le misure in esso contenute, ma nella attuale organizzazione dei documenti del semestre è inevitabile che Europa2020 scompaia.

Se esiste la volontà politica di darsi una strategia di sostenibilità e inclusione sociale nel medio periodo è essenziale che questa sia promossa ed entri a far parte del dibattito pubblico. La revisione di medio termine della Strategia deve quindi prevedere anche l’avvio di una campagna di comunicazione che coinvolga non solo le istituzioni ma anche la società civile sull’esempio di quanto fatto dalle Nazioni Unite in occasione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: la Millennium Campaign lavorava per diffondere i risultati dei percorsi di avvicinamento agli obiettivi cercando di coinvolgere istituzioni, media e società civile nell’attività di monitoraggio e di pressione sui governi. Quando i vincoli al raggiungimento degli obiettivi sono politici, come in questo caso dove non si incorre nel rischio di procedure di infrazione, è solo la pressione da parte cittadinanza a poter rendere tali vincoli realmente efficaci.

La presidenza italiana.

La revisione di Europa2020 avverrà nel prossimo anno a partire da ora: entro fine 2014, proprio durante il semestre di presidenza italiano, avverrà la consultazione dei cittadini e delle parti sociali, nella prima metà del 2015 avverrà invece la trattativa istituzionale. Il Governo italiano può quindi giocare un ruolo cruciale nella promozione di un dibattito europeo che dovrebbe rilanciare il modello economico e sociale europeo. Nell’ambito delle attività della presidenza, ad ottobre si terrà a Bruxelles una nuova conferenza “Beyond GDP” (dopo quella molto influente del 2007) che speriamo possa riportare il nostro governo su posizioni avanzate rispetto al modello di sviluppo che l’Europa sceglierà. Le recenti dichiarazioni del primo ministro Renzi riguardo a “crescita e occupazione come valori costitutivi dell’Unione”, sebbene comprensibili per far fronte al quadro di solo rigore in cui ci troviamo, non tengono conto delle imprescindibili garanzie di equità e sostenibilità [1].

[1] Di fatto tornando indietro ai principi della Strategia di Lisbona.

«Non c’è solo la povertà economica a rendere problematico il presente e il futuro di molti bambini in Italia. Esiste anche una più subdola povertà educativa. Un piano di

Save the Children per migliorare l’offerta di servizi e la partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative». Lavoce.info, 13 maggio 2014 (m.p.r)

Un indice per la povertà educativa. In Italia, i minori a rischio di povertà economica e di esclusione sono il 34 per cento di bambini e adolescenti, una delle percentuali più elevate dell’Unione europea. (1) Oltre a quella economica c’è però anche una povertà meno visibile, ma ancora più insidiosa, perché capace di lasciare segni profondi, a volte non rimediabili nel futuro educativo, lavorativo, emotivo e sociale dei giovani: la povertà educativa. Per povertà educativa si intende la privazione della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare liberamente capacità, talenti e aspirazioni nei primi stadi del processo vitale, periodo in cui il capitale umano è più malleabile e recettivo.

Un’analisi della situazione in Italia, basata su una raccolta dettagliata, e in parte nuova, di dati e indicatori su vari aspetti della povertà educativa si può trovare nel rapporto di Save the Children, dal titolo “illuminante” di La lampada di Aladino. Molti indicatori mostrano una situazione allarmante. Sul piano dei risultati cognitivi, il 17 per cento dei giovani non consegue il diploma superiore e lascia prematuramente ogni percorso di formazione. I risultati dei test Pisa per gli alunni quindicenni sono inoltre tra i più bassi dei paesi Ocse, nonostante qualche recente miglioramento. Al di là dei risultati cognitivi, ci sono altri indicatori che mostrano un rapporto debole o inesistente con la cultura e lo sport. Quasi il 90 per cento dei giovani tra i tre e i diciassette anni guarda la Tv tutti i giorni, ma solo uno su due ha letto un libro e uno su quattro non ha mai fatto attività fisica, mentre circa il 60 per cento dei bambini non ha mai visitato un museo.
Per documentare questa situazione e mostrarne la distribuzione territoriale, è stato costruito il primo e sperimentale indice di povertà educativa (Ipe): è costituito da indicatori sulla copertura dei nidi e servizi integrativi pubblici, classi a tempo pieno nella scuola primaria e secondaria, istituzioni scolastiche con servizi mensa, scuole con certificato di abilità agibilità, aule connesse a internet, dispersione scolastica, bambini che sono andati a teatro, concerti, che hanno visitato musei o monumenti o siti archeologici, bambini che praticano sport, che utilizzano internet e che hanno letto libri.

Tabella 1 – Indice di povertà educativa per Regione

La tabella ci mostra che tra le prime tre Regioni ci sono il Friuli, la Lombardia e l’Emilia Romagna, mentre tra le ultime la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia. Il ranking conferma che nelle Regioni dove vive il più alto numero di bambini in povertà economica ci sono anche i livelli più alti di povertà educativa sia in termini di offerta di servizi che di partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative.

Piano d'azione concreto. Come migliorare la situazione? Sono molte le cose che si possono fare e il rapporto di Save the Children le indica seguendo gli elementi della storia della lampada di Aladino, ma costituiscono obiettivi realizzabili. Il primo passo è “strofina l’anello: promuovi la conoscenza e la ricerca”. Significa raccogliere dati e indicatori più dettagliati sulla situazione educativa dei bambini, completare l’anagrafe scolastica e valutare gli interventi. Il secondo passo è “segui la luce”: è necessario iniziare da azioni basilari, come rifinanziare il piano nidi varato nel 2007 ma interrotto nel 2010, soprattutto nelle aree dove quasi non ne esistono, formare in modo continuo i docenti, intervenire contro la dispersione scolastica, pianificare per l’edilizia scolastica. Le ultime due mosse sono “strofina la lampada” e “libera il genio nei quartieri difficili”.

Proprio agli ultimi due punti, si lega il nuovo piano di Save the Children per contrastare il fenomeno: inizia da quest’anno e si chiama appunto “Illuminiamo il futuro”. Il programma prevede la creazione di centri (Punti luce) dove i bambini possono giocare e avere accesso ad attività educative e sportive. Nei Punti luce, creati nelle zone più difficili e prive di servizi del paese, bambini e ragazzi potranno attivare una loro dote educativa, che si concretizza in un piano individuale di supporto per libri, attività sportive, musicali e culturali. (2) Il programma non solo ha un forte obiettivo di advocacy e può essere un passo importante per dare visibilità a un fenomeno che sta compromettendo il futuro dei giovani. Ma dà anche l’avvio a esperienze e attività concrete per combattere la povertà educativa. In questo percorso, sono fondamentali gli interventi a supporto di tutte le istituzioni che hanno in carico l’informazione, l’istruzione, la cura dei minori.
(“La lampada di Aladino” Save the Children Italia, Roma, maggio 2014. L’articolo è pubblicato anche su ingenere.it)
(1) EU Survey on Income and Living Conditions 2013
(2) Per i dettagli del programma, si veda www.savethechildren.it

«Corruzione. La sentenza definitiva per Dell’Utri, dopo quelle di Berlusconi e Previti, chiude il cerchio ma non interrompe la continuità tra ventennio berlusconiano e nuova fase politica, siglata dalla sintonia tra il governo Renzi e il capo di Forza Italia».

Il manifesto, 15 maggio 2014

Lo stu­pore, il mera­vi­gliarsi sono, secondo la grande tra­di­zione del pen­siero filo­so­fico occi­den­tale, gli ele­menti fon­da­tivi di una seria rifles­sione sul senso degli acca­di­menti. Nei giorni scorsi si è veri­fi­cato un acca­di­mento di note­vole rile­vanza per la com­pren­sione di un non tra­scu­ra­bile spac­cato della sto­ria d’Italia: la con­ferma della con­danna defi­ni­tiva di Mar­cello Dell’Utri per con­corso esterno in asso­cia­zione mafiosa. Non mi sem­bra che stu­pore e meraviglia abbiano eser­ci­tato alcuna fun­zione nei com­menti tanto della pub­bli­ci­stica che del ceto poli­tico main­stream.
Anzi, per­sino la noti­zia in sé ha rapi­da­mente assunto l’aspetto di una scon­tata nor­ma­lità. Ed è pro­prio la a-normale nor­ma­lità in cui viviamo, un tempo sospeso da circa un ven­ten­nio, il pro­blema di fondo che carat­te­rizza la ormai lunga deca­denza italiana.

La sen­tenza defi­ni­tiva su Dell’Utri mette il sigillo finale ad una vicenda la cui sostanza e con­torni erano già chiari da molti anni. Ora però è un dato incon­tro­ver­ti­bile che l’operazione Berlusconi-Dell’Utri-Previti del 1994 aveva come fine quello di assi­cu­rarsi un rap­porto biu­ni­voco e fun­zio­nale tra sfera cri­mi­nale e sfera poli­tica. Da que­sto punto di vista l’operazione può con­si­de­rarsi per­fet­ta­mente riu­scita. L’operazione è col­let­tiva, ma il suo cen­tro è Ber­lu­sconi. Pre­viti cor­rompe per Ber­lu­sconi e con i soldi di Ber­lu­sconi. Dell’Utri è tra­mite e garante dell’accordo Ber­lu­sconi mafia. Ber­lu­sconi pro­pone Pre­viti come guar­da­si­gilli. Solo la decisa oppo­si­zione di Scal­faro fece sì che il cor­rut­tore fosse dirot­tato alla difesa. Non è una domanda ille­git­tima chie­dersi se Gior­gio Napo­li­tano, visto il teo­riz­zato cini­smo dei mezzi in vista di un buon fine (sta­bi­lità, riforme…), visto che allora Ber­lu­sconi si tro­vava in con­di­zioni di assai mag­giore legit­ti­mità rispetto ad oggi, si sarebbe com­por­tato come Luigi Scalfaro.

Nel momento attuale il bene­fi­cia­rio prin­cipe di quel tipo di «discesa in poli­tica» si pro­pone ancora come «padre della patria». A di là dell’evidente for­za­tura pro­pa­gan­di­stica c’è un aspetto di verità in quell’affermazione. Il pro­getto di un’Italia dav­vero nuova, inner­vata dalla ten­sione costante verso forme sem­pre più avan­zate di demo­cra­zia e con­tem­po­ra­nea­mente con­sa­pe­vole fino in fondo di quel prin­ci­pio libe­rale di civi­liz­za­zione della poli­tica che con­si­ste nella teo­ria e nella pra­tica della limi­ta­zione del potere, ha, con tutta evi­denza, ben altri padri. Sono i Cala­man­drei, i De Gasperi, i Togliatti la cui rifles­sione nasce dalla neces­sità di una rot­tura netta sia con anti­che e nega­tive costanti della sto­ria ita­liana, sia con le radici cul­tu­rale e sociali del fasci­smo. Poi vi è l’Italia giunta allo «ultimo gra­dino di degra­da­zione e decom­po­si­zione dello spi­rito pub­blico nazio­nale» (P. Bevi­lac­qua, il mani­fe­sto, 9 mag­gio). Di que­sta patria i Ber­lu­sconi, i Dell’Utri, i Pre­viti pos­sono, a buon diritto, con­si­de­rarsi, padri.

Il fatto inquie­tante è che i padri di que­sta seconda patria, sep­pure, in modi diversi, alla fine del loro ciclo, hanno molte pos­si­bi­lità di entrare nel pan­theon mate­riale della patria che si sta attual­mente dise­gnando. Per ragioni di lungo periodo e per pre­cise scelte con­tin­genti. Scelte che sono state fatte in tutta libertà, scelte tra alter­na­tive diverse non giu­sti­fi­cate da nes­sun stato di necessità.
Le ragioni dei vent’anni ber­lu­sco­niani affon­dano pro­fon­da­mente nelle sfera sociale e in quella poli­tica ita­liane. Non c’è stata nes­suna inva­sione degli Hyk­sos. Se ne esce solo con lo spi­rito che aveva ani­mato i primi padri della patria: una rot­tura netta sostan­ziata da una vera ana­lisi del feno­meno. Le scelte con­tin­genti di cui s’è detto con­fer­mano, invece, la per­si­stenza delle lun­ghe continuità.

In que­sto momento, ad esem­pio, leggo un lan­cio di agen­zia. Renzi pro­clama: «Fer­miamo i delin­quenti». Leggo anche un titolo sull’home page di Repub­blica. Intima il diret­tore: «Poli­tica, affari, ille­ga­lità. Renzi deve fare puli­zia». Lode­vole pro­po­sito, lode­vole invito. Intanto Renzi dovrà eser­ci­tare, però, tutta sua arte reto­rica nell’impossibile ten­ta­tivo di spie­gare una con­trad­di­zione non com­po­ni­bile. In «pro­fonda sin­to­nia» con il delin­quente prin­cipe, con il grande cor­rut­tore, si accinge, infatti, a cam­biare aspetti strut­tu­rali del pano­rama isti­tu­zio­nale ita­liano. Una con­ti­nuità evi­dente per metodo ed obiet­tivi con alcune delle logi­che prin­ci­pali che hanno carat­te­riz­zato il ciclo aperto agli inizi degli anni Ottanta e rive­la­tosi con chia­rezza in età berlusconiana.

Sul piano del metodo poli­tico il periodo in que­stione rap­pre­senta il livello estremo, quello più basso e degra­dato, del trionfo della «ragion cinica». Nel 1983 un filo­sofo tede­sco, Peter Slo­ter­dijk, ha scritto un impor­tante libro di Cri­tica della ragion cinica. La data non è casuale; seb­bene la ragion cinica sia una costante anche della ragion poli­tica, nel secondo dopo­guerra comin­ciò a diven­tare ele­mento domi­nante di misti­fi­ca­zione in coin­ci­denza con l’apertura dell’attuale ciclo di accu­mu­la­zione. Slo­ter­dijk ha argo­men­tato con rigore il mec­ca­ni­smo tra­mite cui il cini­smo dei mezzi giu­sti­fi­cato con la nobiltà dei fini altro non sia che un masche­ra­mento ideo­lo­gico. Il cini­smo dei mezzi ha come esito ine­vi­ta­bile il cini­smo dei fini.

Nel caso dello «spet­ta­colo disa­stroso» ita­liano (cito l’espressione da un gior­nale libe­rale sviz­zero) non c’è nep­pure più biso­gno dell’ideologia come masche­ra­mento. «Non lo sanno, ma lo stanno facendo», diceva Marx a pro­po­sito della «falsa coscienza». Que­sti padri della patria lo fanno e sanno cosa stanno facendo. Non c’è più biso­gno nep­pure di un fine alto per giu­sti­fi­care il cini­smo dei mezzi. Il fine è aper­ta­mente altret­tanto cinico: un sistema elet­to­rale che garan­ti­sca gli attuali equi­li­bri economico-sociali. Che garan­ti­sca una com­pe­ti­zione senza vera lotta poli­tica, una com­pe­ti­zione gio­cata mediante un rap­porto di riva­lità mime­tica con l’avversario.

Se que­sta è poli­tica…. potremmo chie­derci para­fra­sando Primo Levi. Cer­ta­mente que­sta è la poli­tica, risponde in coro il con­sesso dei nuovi padri della patria. Dob­biamo augu­rarci che siano molti coloro che in que­sta patria non si rico­no­scono. Ed ope­rare con un’altra poli­tica per un’altra patria.

Nella partita sul futuro dell'isola la palla passa alle Istituzioni. Commento e scheda dell'isola di Roberta de Rossi, cronaca dell'asta e presentazione dell'acquirente Luigi Brugnaro di Vera Mantegoli.

La Nuova Venezia, 14 maggio 2014 con postilla


Il COMUNE FARA' VALERE IL DIRITTO DI PRELAZIONE
Roberta De Rossi
«Gli scenari sono due: o il Demanio riterrà congruo il prezzo di 513 mila euro per vendere Poveglia o annullerà l'asta. Nel primo caso il Comune eserciterà il diritto di prelazione: i soldi li troveremo di sicuro, è certo. Se, invece, il Demanio preferirà annullare l'asta, abbiamo formalizzato al ministero la richiesta di trasferimento gratuito al Comune dell'isola nell'ambito del federalismo demaniale, anche se stante le molte difficoltà che il direttore regionale Soragni ci sta facendo per il trasferimento degli altri beni, la soluzione migliore è la prelazione». Così il sindaco Orsoni s'impegna a togliere l'isola dalle mani di Luigi Brugnaro per mantenerla pubblica, in qualche modo rimediando al pericoloso scivolone di non averla inserita da subito nella partita dei beni del federalismo demaniale, consegnandola così all'asta pubblica di ieri, alla quale la mobilitazione dei cittadini ha certamente fatto cambiare senso.
Dunque, Poveglia al Comune: ma per farne cosa? «Voglio tranquillizzare tutte le migliaia di cittadini dell'associazione per Poveglia: il Comune farà tutto il possibile perché l'isola segua il programma da loro immaginato. Troveremo il modo di lavorare assieme, magari dando loro la concessione per la gestione: la Certosa insegna che l'abbiamo già fatto con successo». Non ci sono vincoli che vietino al Comune di acquisire l'isola (caduti a fine 2013 i veti della Finanziaria), anche se il Patto di stabilità impone, per comprare Poveglia, di tagliare 513 mila euro altrove. D'altra parte, la partita federalismo è lenta e "litigiosa". «Ad aprile, abbiamo inserito Poveglia tra i beni chiesti al Demanio», osserva il vicedirettore generale Luigi Bassetto, «ci sono questioni in sospeso, perché il ministero rivendica per sé il possesso di beni parzialmente in uso allo Stato, come Palazzo Ducale, mentre noi riteniamo che questo non impedisca il trasferimento della parte restante. Un altro aspetto è legato ai beni che abbiamo già valorizzato con i privati, come Punta della Dogana, e che ora il ministero vorrebbe togliere dalla partita. Infine, il confronto per quei beni per i quali non prevediamo un recupero culturale, come la Celestia, destinata a social housing».

POVEGLIA, NESSUNO RILANCIA
Vera Mantengoli
Nessun vincitore e nessun vinto, almeno fino a ora. L'apertura delle buste ieri ha confermato, come anticipato dalla Nuova, che l'anonimo concorrente era il presidente di Umana Luigi Brugnaro che ieri si è aggiudicato l'asta on line per acquistare Poveglia. Ma 1'ultima parola spetterà alla Commissione di Congruità del demanio che dovrà verificare se la somma proposta, 513 mila euro, corrisponda all'effettivo valore dell'isola. La cifra raccolta fino all'ultimo minuto dall'Associazione Poveglia non è bastata a raggiungere la base dell'asta di 513 mila euro, nonostante abbiano partecipato alla colletta quasi 4000 cittadini. Il rilancio tanto atteso a colpi di mille euro è andato quindi in bianco, senza che l'imprenditore veneziano aumentasse la proposta.

Il Comune ha fatto sapere che se l'asta verrà aggiudicata a Brugnaro eserciterà il diritto di prelazione. Se invece verrà annullata perché la somma non è ritenuta sufficiente, allora proverà la strada del fiscalismo demaniale. Insomma, le carte sono state scoperte, ma i giocatori stanno ancora studiando la prossima mossa, inclusa l'Associazione Poveglia che sta aspettando dei segnali per capire che ruolo potrà svolgere nei prossimi mesi.

Asta. La sfida tra Associazione Poveglia e Brugnaro si è giocata sulla possibilità di rilanciare la somma proposta lo scorso 7 maggio. La prima manche si era conclusa con un 513 mila a 160 mila euro. Ieri i riflettori erano puntati su come si sarebbe svolto il secondo incontro. Fino a ieri non era infatti sicuro che il concorrente in gara fosse Luigi Brugnaro, nonostante molti indizi lo dessero per candidato sicuro.

L'associazione. Ieri mattina il direttivo dell'Associazione Poveglia si incontra in quello che è diventato il quartier generale degli iscritti, il Bar Palanca della Giudecca, il locale di Andrea Barina, uno dei soci della prima ora che il 3 aprile scorso lanciò l'idea di acquistare l'isola per non darla in mano ai privati. L'appuntamento è alle 11 sul sito del demanio. La sera prima una quarantina di soci si è incontrata per fare il punto, riconoscendo di non raggiungere la base d'asta. La strategia migliore è quella di rimanere fermi e di sperare che il concorrente non rilanci in modo che la somma rimasta sia così esigua da annullare l'asta. L'ipotesi peggiore è invece che Brugnaro voglia l'isola a tutti i costi e pur di averla sia disposto a proporre qualche milione di euro, cosa che non succede. Dalle 11 alle 12, tempo minimo per rilanciare, gli occhi sono puntati sul monitor fino a quando appare la scritta che dichiara la fine della vendita. La stanchezza accumulata dal direttivo dell'Associazione Poveglia nel corso di un mese di intenso lavoro, trova sfogo in un'acclamazione di gioia generale. L'ipotesi della vendita dell'isola sembra scongiurata. In quell'istante il demanio rende pubblico il nome del concorrente come "amministratore delegato di Umana Spa".

Brugnaro. Il volto di chi nei giorni scorsi per legge non poteva essere reso noto ora ha un nome. Luigi Brugnaro. La somma dell'imprenditore viene confermata come migliore proposta. Non appena la notizia si diffonde lo staff del patron dell'Umana convoca i giornalisti a una conferenza stampa all'Urban Space di Marghera, per spiegare le sue motivazioni e intenzioni. Brugnaro dichiara di non voler costruire alberghi e di essere disposto a incontrare l'Associazione Poveglia per vedere i progetti elaborati dai gruppi di studio, ma anche le idee di altre associazioni che hanno altre proposte. Durante l'incontro attaccherà duramente i giornalisti colpevoli di aver giudicato negativo il possibile ingresso di un privato e di non aver capito quanti soldi ci vogliono se si vuole restaurare Poveglia.


ABBANDONATA DA 46 ANNI C'ERA IL GERIATRICO
Roberta De Rossi
Tutti da decenni la vogliono, sinora l'ha avuta solo il degrado. La storia "recente" di abbandono di Poveglia ha inizio nel 1968, quando chiuse l'allora ospedale geriatrico: per anni lo Stato trattò con il Touring Club - che voleva farne un villaggio - trovando infine un partner nel Club Mediteranée, che evidentemente avrebbe spostato l'equilibrio verso quel turismo di lusso che è stato il marchio di gran parte delle conversioni delle isole della laguna. Nel 1985 si arrivò ad un'asta demaniale: Poveglia fu messa in vendita per appena 100 milioni di lire. Ma non se ne fece nulla. Nel 1997 sembrava cosa fatta: un progetto di turismo giovanile del Cts con la sponsorizzazione nientemeno che di Bill Gates. Restava da rispolverare il problema della cessione dal Demanio al Comune: un buco nell'acqua anche quella volta.

Sette ettari all' altezza di Malamocco, di Poveglia si hanno notizie storiche fin dall'anno 1000: l' isola - oggi pericolante negli immobili - ha un campanile del Cinquecento, numerosi edifici, alcune costruzioni rurali, due ville neogotiche, un patrimonio naturalistico prezioso (anche se vittima anch'esso del degrado): è stata la più importante stazione marittima sanitaria dell' Alto Adriatico e in seguito un ospedale geriatrico, fino all'abbandono nel 1968.
(Roberta De Rossi)


postilla
Se il comune volesse ottenere che l'isola di Poveglia rimanesse nelle mani della collettività non avrebbe neppure bisogno di "tagliare 513 mila € altrove". Potrebbe aprire una trattativa con i suoi elettori, i cittadini che hanno già raccolto 420.000 € e sono certamente disposti a raggiungere la cifra equivalente a quella offerta dall'imprenditore (uno dei "poteri medio-forti") di Venezia e a sottoscrivere un impegno ad assicurare una gestione dell'isola e dei suoi manufatti concordata e sorvegliata dalle istituzioni pubbliche competenti, nell'interesse degli abitanti di oggi e di domani.

«Siamo di fronte alla crisi siste­mica di un modello che, per poter pro­se­guire, è neces­si­tato ad aggre­dire i diritti sociali e del lavoro e ad impos­ses­sarsi dei beni comuni. Il Forum dei movimenti per l’acqua torna in piazza contro le politiche europee fondate su fiscal compact, pareggio di bilancio, svendita del patrimonio pubblico».

Il manifesto, 13 maggio 2014 (m.p.r.)
Tre anni fa, nel giu­gno 2011, la mag­gio­ranza asso­luta del popolo ita­liano votò un refe­ren­dum per dire che l’acqua e i beni comuni, essen­ziali alla vita delle per­sone e garan­zia di diritti uni­ver­sali, dove­vano essere sot­tratti alle regole del mer­cato e ricon­se­gnati alla gestione par­te­ci­pa­tiva delle comu­nità locali. Si è trat­tato di una cesura sto­rica con­tro la favola, da decenni impe­rante, del pen­siero unico del mer­cato e della pro­messa di ric­chezza pro­dotta dal suo libero dispiegarsi.

Venne allora decre­tata la fine del con­senso all’ideologia del “pri­vato è bello”, men­tre la miriade di con­flit­tua­lità sociali aperte sulla difesa dei beni comuni e dei ter­ri­tori sug­gerì la pos­si­bi­lità e l’urgenza di un altro modello sociale. Fu allora che, com­plice la crisi, arti­fi­cial­mente costruita attorno alla trap­pola del debito pub­blico — in realtà una crisi del sistema ban­ca­rio, sca­ri­cata sugli Stati e fatta pagare ai cit­ta­dini — venne pro­po­sto, con rin­no­vata forza e fero­cia, il para­digma del “pri­vato” che, anche se non più bello, va comun­que accet­tato come “obbli­ga­to­rio e ineluttabile”. L’obiettivo, tut­tora in campo, è la con­se­gna della società, della vita delle per­sone e della natura ai grandi capi­tali accu­mu­la­tisi in trent’anni di spe­cu­la­zioni finan­zia­rie, che, per uscire dal cir­colo vizioso di bolle che pre­pa­rano altre bolle, neces­si­tano di inve­sti­menti su asset nuovi e alta­mente pro­fit­te­voli, beni comuni in primis.

Ed è esat­ta­mente nella faci­li­ta­zione del rag­giun­gi­mento di que­sto obiet­tivo che si col­loca la stra­te­gia delle élite politico-finanziarie al comando dell’Unione euro­pea e l’azione com­pul­siva del governo Renzi: pri­va­tiz­za­zione di tutti i beni pub­blici, siano essi patri­mo­nio o ser­vizi, dere­go­la­men­ta­zione totale delle con­di­zioni di lavoro, messa a valo­riz­za­zione finan­zia­ria del ter­ri­to­rio e della natura, piena libertà di movi­mento per i capi­tali finan­ziari e messa a dispo­si­zione degli stessi della ric­chezza sociale e delle risorse a dispo­si­zione. In attesa che, con il Par­te­na­riato Tran­sa­tlan­tico sul Com­mer­cio e gli Inve­sti­menti (Ttip), in piena e segreta nego­zia­zione fra Ue e Usa, si crei la più grande area di libero scam­bio del pia­neta rea­liz­zando l’utopia delle mul­ti­na­zio­nali. Che tutto que­sto neces­siti di una dra­stica ridu­zione della demo­cra­zia, appare evi­dente da diversi fat­tori di stretta attua­lità: le pro­po­ste di riforme isti­tu­zio­nali e di una nuova legge elet­to­rale, tese all’azzeramento di ogni ruolo dell’attività par­la­men­tare e al raf­for­za­mento auto­ri­ta­rio dei poteri degli ese­cu­tivi; l’attacco defi­ni­tivo alla fun­zione pub­blica e sociale degli enti locali, con l’obbligo, sotto la scure del patto di sta­bi­lità, della messa sul mer­cato di patri­mo­nio, ser­vizi e ter­ri­to­rio; la repres­sione messa in campo con­tro i movi­menti sociali, dalle assurde accuse di ter­ro­ri­smo per gli atti­vi­sti No Tav alla scon­si­de­rata gestione dell’ordine pub­blico nelle piazze di Roma e Torino.

Siamo di fronte alla crisi siste­mica di un modello che, per poter pro­se­guire, è neces­si­tato ad aggre­dire i diritti sociali e del lavoro e ad impos­ses­sarsi dei beni comuni. Le con­se­guenze di que­sta per­se­ve­ranza nelle poli­ti­che di auste­rità sono più che evi­denti: un dram­ma­tico impo­ve­ri­mento di ampie fasce della popo­la­zione, sot­to­po­ste a per­dita del lavoro, del red­dito, della pos­si­bi­lità di accesso ai ser­vizi, ai danni ambien­tali e ai con­se­guenti impatti sulla salute, con pre­oc­cu­panti segnali di dif­fu­sione di dispe­ra­zione indi­vi­duale e sociale.

Ma a tutto que­sto è giunto il momento di dire basta. In que­sti anni, den­tro le con­flit­tua­lità aperte in que­sto paese, sono matu­rate espe­rienze di lotta mol­te­plici e varie­gate, tutte acco­mu­nate da un comune sen­tire: non vi sarà alcuna uscita dalla crisi che non passi attra­verso una mobi­li­ta­zione sociale dif­fusa per la riap­pro­pria­zione sociale dei beni comuni, della gestione dei ter­ri­tori, della ric­chezza sociale pro­dotta, di una nuova demo­cra­zia partecipativa. Sono espe­rienze che, men­tre pro­du­cono impor­tan­tis­sime resi­stenze sui temi dell’acqua, dei beni comuni e della difesa del ter­ri­to­rio, dell’autodeterminazione ali­men­tare, del diritto all’istruzione, alla salute e all’abitare, del con­tra­sto alla pre­ca­rietà della vita e alla mer­ci­fi­ca­zione della società, pre­fi­gu­rano la pos­si­bi­lità di una radi­cale inver­sione di rotta e la costru­zione di un altro modello sociale e di democrazia.

Gra­zie ad una pro­po­sta avan­zata dal Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua, tutte que­ste espe­rienze si sono incon­trate, si sono rico­no­sciute e hanno giu­di­cato maturo il tempo di pren­dere parola, per ria­prire lo spa­zio pub­blico della spe­ranza e dell’alternativa, pro­muo­vendo tutte assieme una mani­fe­sta­zione nazio­nale a Roma per sabato 17 mag­gio. Un appun­ta­mento col­let­tivo — radi­cale nei con­te­nuti, paci­fico, colo­rato e par­te­ci­pa­tivo nelle pra­ti­che — che chiama le donne e gli uomini di que­sto paese a dire, tutte e tutti assieme, come non vi sia alcuna uscita pos­si­bile dalla crisi, per­se­guendo le poli­ti­che di auste­rità dell’Unione euro­pea e del governo Renzi, fatte di Fiscal Com­pact, patto di sta­bi­lità, pareg­gio di bilan­cio, sven­dita del patri­mo­nio pub­blico e dei ter­ri­tori, pre­ca­riz­za­zione e privatizzazioni.

Una grande alleanza sociale dal basso, aperta e inclu­siva, per riap­pro­priarsi della pos­si­bi­lità di un futuro diverso, e per affer­mare come, tra la Borsa e la vita, abbiamo scelto la vita. Con l’allegria di chi vede l’orizzonte, con la deter­mi­na­zione di chi cono­sce l’insopportabilità del presente.

«Che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari. Oggi in Europa servono programmi pubblici finalizzati a precisi obiettivi tecnologici soprattutto nel campo dell'ambiente e della salute». Sbilanciamoci. infonewsletter n. 328, 12 maggio 2014 (m.p.r.)

Per una trentina d'anni, fino alla crisi del 2008, di politiche industriali e tecnologiche non si poteva parlare: erano brutte parole per tutta la gente per bene, inclusa la sinistra moderata e riformista, e non solo in Italia. Il mantra era – ed in buona parte è ancora – «la magìa del mercato», come la definì quel grande economista che era Ronald Reagan; una «magìa» che alimentava la retorica del «lasciar fare» e del «perché la politica dovrebbe saperne di più delle imprese?»

È il momento di spiegare invece che le politiche tecnologiche sono state cruciali, almeno dalla seconda guerra mondiale in poi, nella generazione della maggior parte delle innovazioni di cui oggi godiamo (o soffriamo) e che le politiche tecnologiche ed industriali sono sempre state cruciali nei processi di industrializzazione soprattutto nei paesi ritardatari – e si ricordi che due secoli fa anche Usa e Germania erano ritardatari rispetto all'Inghilterra.

Innanzi tutto, che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Ne voglio dare una definizione molto ampia: sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari.

Partiamo dall'innovazione tecnologica. Come mostra il bel libro di Marianna Mazzucato Lo stato innovatore, di imminente pubblicazione per Laterza, senza le innovazioni generate nei grandi programmi pubblici di ricerca (come il Cern per la fisica) e nei programmi militari e spaziali oggi non avremmo internet, il microprocessore, il web, l'iPad e così via. Senza i grandi programmi pubblici del National Institute of Health negli Usa non avremmo nemmeno i (pochi) farmaci innovativi che le grandi imprese farmaceutiche ci offrono a carissimo prezzo. Come ironizzava il compianto Keith Pavitt, la leadership Usa è stata alimentata dalle paranoie americane del comunismo e del cancro.

Guardando al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno oggi in Europa sono massicci programmi pubblici focalizzati, mission-oriented, cioè finalizzati a precisi obiettivi tecnologici – come nel passato sono stati mandare un uomo sulla luna o un grappolo di missili inter-continentali sull'Unione Sovietica – soprattutto nel campo delle tecnologie verdi e della sostenibilità ambientale, della medicina e della salute sociale più in generale. Invece buona parte del discorso politico mitologizza i garage degli Steve Jobs e Bill Gates senza considerare le fonti (pubbliche) della tecnologia che questi imprenditori hanno messo assieme. D'altro lato, invece, finanziamo mission altrui e pure fallimentari come i cacciabombardieri F-35 che, come sostiene un rapporto della Rand Corporation di qualche anno fa, «non combatte, non vira, non vola».

Perché servono anche politiche industriali ? La risposta è che in molte circostanze, specialmente nei paesi ritardatari – o in quelli, come l'Italia di oggi, che perdono terreno rispetto ai paesi più avanzati – le imprese private non hanno né le capacità organizzative, né gli incentivi di profitto per operare in aree magari molto promettenti dal punto di vista delle potenzialità innovative e di mercato, ma nelle quali esse hanno uno svantaggio comparato ed assoluto rispetto alla concorrenza internazionale.

Se due economie, una high tech e una dell'età della pietra, cominciano ad interagire, sicuramente gli operatori economici nella seconda avranno un incentivo a produrre e commerciare beni ad «alta intensità di pietre», ma la società nel suo complesso progredirebbe molto di più se si imparasse l'high tech, anche se si è meno efficienti dell'altro paese. Le politiche industriali comprendono tutte le misure appropriate all'accumulazione di conoscenze e capacità produttive nelle tecnologie più dinamiche e più promettenti. Alla fine dell'Ottocento si trattava della chimica e dell'elettromeccanica; oggi delle tecnologie dell'informazione, della bioingegneria, delle tecnologie ambientali. In effetti le politiche industriali sono state un ingrediente fondamentale nell'industrializzazione dagli Stati Uniti alla Germania, al Giappone, alla Corea, alla Cina (ne discutiamo in dettaglio nel volume curato da Cimoli, Dosi e Stiglitz, Industrial Policies and Development, Oxford, University Press). Incidentalmente gli Usa sono il paese che oggi ne pratica di più, senza parlarne.

Che cosa si fa oggi in Europa, e in particolare in Italia? Per lungo tempo, possiamo dire, sono state fatte politiche anti-industriali. È una storia antica, che comincia almeno dal rifiuto del governo italiano di sostenere lo sviluppo dei calcolatori Olivetti (quasi sicuramente su pressione americana) all'inizio degli anni sessanta. Continua con la dissennata politicizzazione e finanziarizzazione della Montedison, e poi la con la sua dissoluzione, che ha portato anche alla liquidazione di fatto di un piccolo gioiello nella farmaceutica come Farmitalia. Ha il momento cruciale nella liquidazione con "spezzatino" delle imprese a partecipazione statale, per ottenere nella crisi del 1993 entrate straordinarie: «pochi soldi, maledetti e subito». Con quale conseguenza? Una delle prime cose che hanno fatto i privati è stato chiudere le attività di ricerca e sviluppo (come in Telecom), o liquidare addirittura la produzione (come in Italtel). Tutto questo si è accompagnato per quasi un trentennio alla mitologia del "piccolo è bello", con il risultato di un quasi azzeramento della partecipazione italiana all'oligopolio internazionale della chimica, dell'acciaio, della farmaceutica, dell'elettronica, delle telecomunicazioni, del software e così via.

Che cosa fare? In Italia molte cose sono difficili da fare perché ormai i buoi sono scappati dalle stalle, ma è ancora possibile favorire l'emergere di attori tecnologicamente forti, italiani o quanto meno europei. E, per farlo, spesso è necessario l'intervento diretto dello Stato, per esempio via Cassa Depositi e Prestiti, che già un po' fa di queste cose, ma senza una strategia industriale seria, quasi con la paura di disturbare la "magìa" del mercato. Tante cose si possono fare a livello europeo, a condizione di abbandonare la frenesia mercatista. Un esempio recente per tutti: c'è qualcuno che crede che il governo americano starebbe a guardare se Alstom e Siemens si mettessero assieme e tentassero di acquisire General Electric, invece di quest'ultima che tenta di scalare Alstom?

Poi ci sono alcune cose che non bisogna assolutamente fare. Tra queste l'accordo di libero scambio transatlantico, che rappresenta essenzialmente una folle cessione di sovranità della politica, nazionale ed europea e l'assolutizzazione degli interessi degli investitori privati, indipendentemente dall'utilità sociale degli investimenti stessi.

«Ci sentiamo dentro a un assurdo paradosso: dovremmo svenarci per poter comprare un bene demaniale, cioè statale, cioè nostro. I veneziani, quelli nati qui e quelli che lo sono diventati, adesso vogliono contare davvero». La

Repubblica, 13 maggio 2014 (m.p.r.)

Venezia. Alle 17.35 la Costa Fascinosa occupa il canale della Giudecca davanti alla Palanca (bar, osteria e soprattutto quartier generale dell’associazione “Poveglia per tutti”) e oscura come in un’eclissi totale la Salute e il campanile di San Marco. «Ecco, questa è la Venezia che non vogliamo più». È nata in questa osteria, a marzo, la prima protesta che forse riuscirà a cambiare la città di San Marco. «Non vogliamo – dicono Andrea Barina e Lorenzo Pesola, fra le guide dell’associazione – che un’isola che è sempre stata “nostra” diventi proprietà privata, aperta a pochi ricchi e chiusa a tutti gli altri. Con la nostra protesta abbiamo toccato un nervo scoperto. I veneziani sono saturi di un certo tipo di turismo e non vogliono più una città assuefatta e rassegnata».

Si deciderà oggi – forse – il destino di un’isola bellissima, famosa «per la fertilità della terra e la salubrità dell’aria». C’è infatti la seconda puntata di un’asta assurda, che potrebbe mettere nelle mani di Mister 513 (così viene chiamato l’ignoto imprenditore che dopo la prima asta risulta in testa con un’offerta di 513 mila euro) un vero gioiello: sette ettari di terreno ed edifici storici, sia pure cadenti, con un volume di 42 mila metri cubi. Con mezzo milione di euro, nel centro storico veneziano, compri un appartamento di 60 metri quadri. Con la stessa cifra puoi diventare padrone di mezzo ettaro di vigneto nel Barolo o mezzo ettaro di meleto in Alto Adige. «Ci sentiamo dentro a un assurdo paradosso: dovremmo svenarci per poter comprare un bene demaniale, cioè statale, cioè nostro ». L’asta si riaprirà alle 11. «Finora abbiamo raccolto 400 mila euro e nella notte ci potrebbero essere sorprese. Ma abbiamo un forte dubbio: anche se superassimo i 513 mila euro, sarebbe giusto rilanciare? Mister 513 potrebbe farlo a sua volta, diventando così padrone di Poveglia. Se non c’è rilancio, il demanio potrebbe ritenere incongrua l’offerta e fermare tutto. Potrebbero intervenire le istituzioni, Comune in testa. Finalmente si potrebbe discutere di Venezia e del suo futuro, smettendo di vendere a pezzi e bocconi un patrimonio costruito nei secoli».
Tanti dubbi in testa, una sola certezza. «Anche se perdiamo l’asta, non sarà la fine ma un nuovo inizio. I veneziani, quelli nati qui e quelli che lo sono diventati, adesso vogliono contare davvero». Non a caso la protesta è nata alla Giovecca. «Siamo l’unico pezzo di città – raccontano Barina e Pesola – dove gli abitanti sono in aumento. Qui cerchiamo di vivere in modo normale e il canale della Giovecca è il nostro “Mar Rosso” che ci divide e ci protegge dal turismo delle comitive e del mordi e fuggi. Ci siamo ribellati perché Poveglia è davvero nel nostro Dna».
Nella luce del tramonto l’isola mette in mostra tutti i suoi colori. «Nei primi anni ’70 è stato chiuso l’ospedale geriatrico, costruito lì per l’aria buona e nel 1978 se n’è andato anche l’ultimo custode. L’isola è diventata il nostro fuori porta. Ci sono decine di barchini, il sabato e alla domenica. Si va a fare la grigliata, si va passeggiare con i bambini nei sentieri ormai nascosti dalla selva. Per decenni un pezzo dell’isola ha sfamato centinaia di famiglie che andavano là a coltivare un orto. Per questo, quando sulla Nuova Venezia abbiamo letto che il nostro posto era in vendita, ci siamo organizzati. Novantanove euro a testa, per partecipare all’asta. Soldi sono arrivati anche da mezzo mondo. Gli iscritti a Poveglia per tutti sono 3.500 e solo la metà sono veneziani».
Troppe isole, fino ad oggi, sono diventati l’isola che non c’è. «Se parti in barca da San Marco e vai verso Poveglia, trovi San Clemente, isola ex manicomio. Nel 2003 è stato costruito un mega hotel di lusso, fallito due anni fa. A Sacca Sessola (ex sanatorio) si sta costruendo un resort di lusso che però ancora non riesce ad essere inaugurato. Le Grazie sono state comprate nel 2007 per costruire anche qui appartamenti per ricchi. Altri 60 appartamenti sono previsti a Santo Spirito ma i lavori sono fermi a metà. Fra fallimenti e difficoltà una sola cosa è sicura: in tutte queste isole c’è il divieto di accesso. Non sono più isole veneziane». Poveglia non deve diventare un’altra isola proibita. «Abbiamo messo al lavoro architetti e ingegneri e soprattutto abbiamo raccolto le idee dei cittadini. Se l’isola diventerà nostra cioè di tutti, potremo fare subito un restauro del verde. Torneranno gli orti. Ci sarà posto – queste alcune proposte già ricevute – per una scuola di vela tradizionale, per una piccola cantieristica, per congressi… L’isola dovrà tornare alla vita. Nei secoli scorsi lì c’era una Pieve con mille persone. Ora è rimasto solo il campanile, fra l’altro bellissimo. Siamo veneziani, e non siamo certo contrari al turismo di chi ha soldi. Ma non è possibile che un solo ricco compri un’isola al prezzo di un piccolo appartamento. E poi chiuda i cancelli in faccia a un’intera comunità»

«». Ecco le proposte concrete per uscire dalla crisi promuovendo il lavoro attraverso un forte intervento pubblico liberato dai "lacci e lacciuoli" del Mercato. Sbilanciamoci. info

La retorica dei governi insiste sulla ripresa. Ma la realtà dell'Europa è la stagnazione dei paesi «forti» e la depressione nella «periferia». Germania a parte, la crescita del Pil nel 2014 sarà sotto l'1% nei maggiori paesi dell'eurozona, l'Italia retrocessa allo 0,5%, la Grecia sempre sottozero.

Il senso di quello che sta succedendo ce lo dà l'industria: rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione; Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso; gravi perdite si contano in Francia, Olanda, Finlandia e Irlanda. Questa distruzione di capacità produttiva in mezza Europa – il risvolto del successo tedesco – mette in discussione le fondamenta dell'integrazione europea più della crisi del debito o del salvataggio di qualche banca. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?

Se si vuole evitare questo deserto, è indispensabile un ritorno della politica industriale, che è stata essenziale nel novecento per la crescita dell'Europa e che trent'anni di neoliberismo hanno messo al bando in nome dell'efficienza del mercato. A mezza bocca l'ha capito anche Bruxelles, che parla di "Industrial Compact". In Francia il ministro Montebourg si sforza di limitare le delocalizzazioni e sostenere, con capitali pubblici e soci stranieri, imprese come la Peugeot. Ma le proposte più innovative pensano a una politica industriale a livello europeo, con risorse comuni investite soprattutto nei paesi in difficoltà. In questa direzione vanno le iniziative della Dgb, la confederazione sindacale tedesca e la versione un po' annacquata proposta dalla Confederazione europea dei sindacati.

Guarda più avanti la proposta di Sbilanciamoci! e EuroMemorandum di una ricostruzione della capacità produttiva a scala europea. Si potrebbe investire il 2% del Pil europeo per dieci anni in nuove produzioni – pubbliche e private – in tre settori prioritari: la conversione ecologica dell'economia, con abbattimento delle emissioni, energie rinnovabili e risparmio energetico; le tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni; il sistema della salute, dell'assistenza e del welfare. Tre quarti degli investimenti potrebbero andare nella «periferia», il resto nelle regioni arretrate dei paesi del «centro». I fondi potrebbero venire dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate – una tassazione europea dei profitti, della ricchezza o delle transazioni finanziarie. A deliberare il piano il Parlamento europeo; a decidere su quali progetti spenderli un'Agenzia europea per gli investimenti dove non siedono banchieri, ma si raccolgono competenze economiche, organizzative, sociali e ambientali. A realizzare gli investimenti, imprese o soggetti pubblici locali, con uno stretto monitoraggio.

Un programma di questo tipo darebbe uno stimolo alla domanda e ci farebbe uscire dalla depressione. Porterebbe a nuove attività e posti di lavoro nei settori e nei luoghi «giusti». E ridarebbe un ruolo all'azione pubblica, rovesciando trent'anni di privatizzazioni che non hanno prodotto né sviluppo, né efficienza. Proprio qui sta il problema: si può davvero tornare a un forte intervento pubblico nell'economia? Fabrizio Barca, in queste pagine, sceglie ancora il mercato rispetto a una pubblica amministrazione incapace. Ma è sicuramente possibile avere un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti. Organizzare lo sviluppo senza collusioni e corruzione. E, soprattutto, trovare una risposta più giusta alla domanda su che cosa produciamo, come, e per chi.

postilla

Le proposte di Sbilanciamoci sostanzialmente coincidono conquelle della lista ”L’Altra Europa con Tsipras”. Si tratta, in definitiva, difar esprimere la domanda di lavoro (quindi la produzione) non dal mercato, comepropone Fabrizio Barca, ma da una domanda che nasce dalla società e dai suoidisegni più urgenti ed è espressa dal potere pubblico. Si tratta, quindi, diuna ripresa del new deal rooseveltiano dei primi anni 30 e del “piano dellavoro” proposto dalla CGL di Giuseppe di Vittorio nel 1946. Questa propostatrova maggiore forza argomentativa se si ricorda che la decadenzadell’industria italiana iniziò proprio quando, a partire dagli anni 70 delsecolo scorso, l’industria “avanzata” italiana, a partire dalla Fiat e dallaPirelli, dirottò il suo interesse dalla produzione industriale (che avrebberichiesto investimenti nella ricerca e nell’innovazione) preferendo i fruttuosipascoli delle rendite immobiliari e finanziarie. Le risorse necessarie per realizzareun rinnovato news deal si possono trovare dunque proprio restituendo alpubblico la ricchezza affluita alle rendite; oltre, naturalmente, riducendopesantemente le spese per gli armamenti.

Il manifesto, 11 maggio 2014


TRENTAMILA SENZA PAURA
di Maurizio Pagliassotti

Pro­ba­bil­mente quello di ieri pome­rig­gio è stato il cor­teo Notav più mas­sic­cio di sem­pre, per dare un’idea i par­te­ci­panti sono stati almeno il dop­pio rispetto la recente mani­fe­sta­zione per il primo mag­gio. Torino ha dimo­strato il suo soste­gno morale e poli­tico nei con­fronti dei quat­tro mili­tanti incar­ce­rati, lo ha fatto senza paura, nono­stante un clima di inti­mi­da­zione molto pesante che ha accom­pa­gnato i dimo­stranti, non meno di tren­ta­mila per­sone, lungo tutto il per­corso. Alle due del pome­rig­gio, ora­rio di con­cen­tra­mento in piazza Adriano la città appare deserta, avvolta in un col­tre di paura data dalla sce­no­gra­fia da action movie, che pre­vede uno spie­ga­mento di forze dell’ordine buono per i check point dell’Iraq ma non per la civile mani­fe­sta­zione annun­ciata. Così, cir­con­dati da un accam­pa­mento mili­tare ambu­lante, i Notav hanno ini­ziato il loro cam­mino verso Piazza Castello, il cuore di Torino. Ser­rande abbas­sate, silen­zio spet­trale, vec­chine affac­ciate dai bal­coni con facce scon­volte dalla paura ma incu­rio­site, ogni incro­cio pre­si­diato da cara­bi­nieri e poli­zia in assetto anti som­mossa. Scudi alzati, caschi e manganelli.

Alle tre del pome­rig­gio la gior­nata per i Notav appare com­pli­cata per­ché Torino, meda­glio d’oro per la Resi­stenza, si mostra nella sua fac­cia più gelida e indif­fe­rente. Appa­ren­te­mente il cor­teo non sem­bra nem­meno troppo cor­poso ma, cam­min facendo, la folla si ingrossa fino a diven­tare un fiume. La sfi­lata dei Notav davanti alla Sta­zione di Porta Susa, blin­da­tis­sima oltre ogni buon senso, dura un’ora. Apre come al solito la banda della Val Susa e alcuni rap­pre­sen­tanti delle isti­tu­zioni locali; poi un fiume umano com­patto, che va dai gio­va­nis­simi agli anzia­nis­simi di ogni estra­zione sociale. Ci sono accenti che testi­mo­niano pro­ve­nienze varie: romani, mila­nesi, veneti, napo­le­tani. Ma soprat­tutto si è aggiunta una massa inat­tesa di tori­nesi. Un popolo che ha come unica riven­di­ca­zione il diritto al dis­senso senza che que­sto debba essere tra­sfor­mato, come sta acca­dendo nel caso dei quat­tro gio­vani incar­ce­rati, nell’accusa di «atten­tato con fina­lità ter­ro­ri­sti­che». E, per tutto il pome­rig­gio, ad essere in secondo piamo è pro­prio il Tav, il can­tiere, lo spreco di denaro, la ‘ndran­gheta, gli appalti. L’unico pen­siero dei mani­fe­stanti è rivolto alla libertà di dis­senso messa sotto attacco.

Il fiume umano supera la sta­zione di Porta Susa e l’annessa caserma volante espo­sta in bella evi­denza, e imbocca via Cer­naia, la via dello shop­ping tori­nese. Qui si mani­fe­sta la chiave di volta di tutto il pome­rig­gio, per­ché i tori­nesi ter­ro­riz­zati dai mezzi di comu­ni­ca­zione sull’arrivo delle orde bar­ba­ri­che si ren­dono conto che peri­colo non c’è, e quindi la vita riprende nor­mal­mente. Negozi aperti, ser­rande rial­zate, signore e signori a spasso che né soli­da­riz­zano, né si ter­ro­riz­zano. Sem­pli­ce­mente vedono una mani­fe­sta­zione sì mas­sic­cia, ma nor­male. E fatta sor­pren­den­te­mente da per­sone nor­mali, nem­meno un ter­ro­ri­sta. Una mani­fe­sta­zione come tante altre che in que­sti anni hanno costel­lato la vita del movimento.

Lo stri­scione por­tato dai ragazzi dei cen­tro sociali di Torino recita: «Siamo tutti col­pe­voli di resi­stere. Libertà per i Notav». Un con­cetto ripreso da Nico­letta Dosio, tra le fon­da­trici del movi­mento oltre venti anni fa che dice: «Siamo qua per riven­di­care il diritto al dis­senso, alle libertà demo­cra­ti­che sono messe in crisi da un atteg­gia­mento per­se­cu­to­rio verso chi prova a disco­starsi dal pen­siero unico. Oggi la nostra paura va ben al di là della costru­zione del Tav, per­ché ci ren­diamo conto che qual­siasi forma di diver­sità di pen­siero potrebbe rice­vere lo stesso trat­ta­mento riser­vato ai quat­tro ragazzi accu­sati di terrorismo».

Pre­sente anche il magi­strato Livio Pepino: «Una grande mani­fe­sta­zione che dimo­stra come il movi­mento Notav sia paci­fico, di fronte a cui la mili­ta­riz­za­zione della città è stata ecces­siva. Un movi­mento che chiede dalle isti­tu­zioni un’apertura al dia­logo. La rispo­sta, pur­troppo, con­ti­nua ad essere la mili­ta­riz­za­zione, come dimo­stra quanto acca­duto oggi. Oggi abbiamo avuto una grande lezione di civiltà e capa­cità di stare insieme, che con­ti­nua dimo­strare quanto la repres­sione dura e pura non serva a nulla».

Atteso dagli orga­niz­za­tori del Salone del Libro lo scrit­tore Erri de Luca ha pre­fe­rito pren­dere parte al cor­teo dei Notav. Le sue parole: «Pre­fe­ri­sco par­te­ci­pare alla pro­te­sta in mezzo ai cit­ta­dini che soli­da­riz­zano verso quat­tro ragazzi accu­sati di ter­ro­ri­smo per­ché avreb­bero incen­diato un com­pres­sore». L’arrivo nella cen­trale piazza Castello ha quan­ti­fi­cato la por­tata della mani­fe­sta­zione per­ché tutta la spia­nata è stata riem­pita, ed una note­vole parte del cor­teo non è nem­meno riu­scita ad entrare. La Que­stura ha quan­ti­fi­cato tutto que­sto in due­mila per­sone, poco più di una riu­nione di con­do­mi­nio ben riuscita.

Inspie­ga­bil­mente gli unici momenti di ten­sione si sono avuti durante i comizi con­clu­sivi, quando una colonna di poli­ziotti in assetto anti som­mossa si è avvi­ci­nata velo­ce­mente alla piazza ricolma di per­sone pas­sando da una via late­rale e fer­man­dosi solo pochi metri prima di rag­giun­gere il cuore della folla, che stava ascol­tando paci­fi­ca­mente gli inter­venti. Alcuni momenti di ten­sione per la mano­vra appa­ren­te­mente inspie­ga­bile, e poi un ordine di die­tro­front ha spento gli animi bollenti.

Ora, dopo il suc­cesso di que­sta mani­fe­sta­zione popo­lare, la palla passa allo Stato. Con­ti­nuare ad usare la mano infles­si­bile della repres­sione o costruire un per­corso comune che metta da parte ogni forma di estremismo.

TORINO CITTà APERTA
di Marco Revelli

Torino città chiusa. Blin­data. Ser­rata in un dispo­si­tivo mili­tare sof­fo­cante, che aveva sigil­lato die­tro un muro di armati ogni strada late­rale, ogni svin­colo, ogni piazza. Il movi­mento No Tav l’ha aperta «come una sca­tola di tonno», con la pro­pria forza tran­quilla. Un cor­teo immenso, sor­ri­dente, ami­che­vole è pene­trato al suo interno scio­glien­dola e con­qui­stan­dola alle pro­prie ragioni. Tra­sci­nando con sé gli spet­ta­tori. Mostrando un volto che la Valle già cono­sceva – le fami­glie con i bam­bini in testa, la banda che suona le musi­che delle sagre mesco­late a quelle par­ti­giane, gli anziani con i nipoti, i gruppi di paese e di fra­zione -, ma che la città in parte igno­rava, acce­cata da un’informazione tos­sica, che ogni volta mani­pola e nasconde.

Il monu­men­tale tri­bu­nale vuoto, asso­lu­ta­mente vuoto, cir­con­dato dai blin­dati e dalle grate di ferro anco­rate col cemento al suolo come la zona rossa di Genova nel 2001 - quasi lì den­tro ci fosse l’oggetto del desi­de­rio della folla che gli sfi­lava accanto -, è il sim­bolo dell’ottusità del potere. Della sua inca­pa­cità di capire e pen­sare, come accade, appunto, a ogni potere, quando perde la ragione del pro­prio agire, e resta appeso al pro­prio appa­rato della forza senza giu­sti­zia (che si rivela, appunto, violenza).

Guar­dando quella folla mul­ti­co­lore, che sfi­lava serena, a volto sco­perto, davanti ai cor­doni cupi, cata­fratti, chiusi die­tro i pro­pri scudi, che sigil­la­vano il per­corso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, cara­bi­nieri, poli­zia, guar­dia di finanza) era dif­fi­cile imma­gi­nare come sui primi fosse pos­si­bile disten­dere l’ombra fosca del ter­ro­ri­smo e sui secondi appic­ci­care l’etichetta della lega­lità. Ai primi la vio­lenza, agli altri la giu­sti­zia. Piut­to­sto, ver­rebbe da dire, il contrario.

Il Movi­mento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una sem­plice mar­cia ha strap­pato di mano ai pro­pri nemici ogni ele­mento di cre­di­bi­lità per soste­nere l’assurda teo­ria – ma sarebbe meglio chia­marlo teo­rema – che tenta di ricon­fi­gu­rare le azioni di pro­te­sta di quella popo­la­zione sotto il segno cruento dell’accusa di ter­ro­ri­smo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argo­menti di chi, per soste­nere una causa razio­nal­mente inso­ste­ni­bile, è costretto a ridurla a que­stione di ordine pub­blico, in cui, come è noto, chi ha il man­ga­nello dalla parte del manico decide.

Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta con­tro un mate­riale resi­stente e intel­li­gente che sarà dav­vero dif­fi­cile ignorare.

Le tre parole che hanno aperto la strada alla distruzione dello Stato: «secessione, federalismo, lotta contro la giustizia». il Rottamatore fiorentino è al colpo finale e proclama: "entrerò nella burocrazia (che è il corpo fisico dello Stato, ndr) con la ruspa”».

Il Fatto quotidiano, 11 maggio 2014

Ricordate la frase così spesso usata “non ti puoi fare giustizia da solo”? Sono poche parole che spiegano, anche se non c’è un costituzionalista in sala, che cosa è lo Stato. C’è una parola opposta e simmetrica: vendetta. Significa che qualunque gesto tu compia in proprio per far valere da solo un diritto negato o punire un’offesa, una ferita, un dolore deliberatamente inflitto, o presunta ingiustizia o la morte, stai violando il più sacro dei patti. Ti stai appropriando di un compito dello Stato. O meglio, neghi che lo Stato esista. E se non esiste, accetti il peso e il rischio di fare da solo. Per tanto tempo abbiamo detto che soltanto la malavita o un furore malato inducevano ad accamparsi fuori dello Stato e contro lo Stato.

Dunque la vasta città del crimine organizzato da un lato e i villaggi dei crimini folli dall’altro. Per tutti gli altri il patto è la Costituzione. Ti dice fino ai dettagli in che Stato vivi, che cosa lo Stato, in ogni istante, è pronto a fare per te. E dove sono stati tracciati i limiti della pur vasta libertà che questo patto prevede per ognuno, individuo o gruppo. Ecco perché, a partire dagli anni Novanta, c’è stato un movimento di cittadini deciso a difendere la Costituzione, contro “bicamerali” di ogni tipo, formali e informali, legali e di fatto. Le cosiddette “riforme”, proposte sempre più spesso a parti fondamentali della carta, hanno rivelato che lo Stato era in pericolo.

TRE PAROLE hanno cominciato ad animare il paesaggio e a mettere in movimento parti staccate dall’idea unitaria di Stato che in qualche modo la gran parte di noi condivideva. Le tre parole sono secessione, federalismo, lotta contro la giustizia. La secessione ha rappresentato subito una dichiarazione aperta di disprezzo per lo Stato, un reclamo di separatismo fondato su una presunta convenienza. Lo Stato si è assegnato un compito tollerante e noncurante. In realtà ha diviso e contrapposto gruppi di interessi (ricordate la grande truffa delle quote latte?) e ha aperto un lungo percorso di malgoverno locale e nazionale (fino ad avere un ministro dell’Interno secessionista).
Il federalismo, privo di una cultura giuridica e pratica e di una legge fondamentale sui diritti civili dei cittadini, che vengono abbandonati ai poteri locali di un improvvisato “Stato federale” ha disarticolato le strutture dello Stato, arricchito ceti e clan politici che hanno fatto in tempo a prendere possesso di questi nuovi poteri e a diventare controparti che spostano quote di ricchezza del Paese senza che sia stato mai definito il come e il quando, e sotto quale controllo.

Intanto, fin dall’inizio di questa potente rivoluzione strisciante di negazione dello Stato, si è formata una contrapposizione durissima al potere giudiziario. Una tale contrapposizione nega giudici, codici, autonomie e sentenze. Nega soprattutto l’indipendenza – inviolabile, nello Stato democratico – del sistema giudiziario e lavora alla sottomissione anche personale dei giudici. Ma una battaglia così estrema e così aperta non tanto al potere quanto al lavoro dei giudici e quindi alla loro esistenza, ha una sua causa che fa da perno a tutte le vicende e avventure dello Stato italiano: la corruzione.

DA MALE antico, come la tubercolosi, che costringeva a continue verifiche, la corruzione italiana si è trasformata in routine che sale dal basso degli infiniti “piccoli” abusi, considerati “necessari”. E piove dall’alto di immense vicende che diventano persino oggetto di ammirazione tanto sono grandi gli impossessamenti privati di parti della ricchezza comune. Come ci dimostrano eventi anche recentissimi in cui infatti da un lato ti meravigliano le dimensioni del furto, dall’altra ti annoia la ripetizione infinita, a un certo punto ti accorgi che la corruzione in Italia svuota lo Stato come una anemia profonda che toglie ogni difesa immunitaria.

Il Parlamento, che avrebbe potuto essere l’ultimo presidio di difesa dello Stato, ha ceduto su tutto alla volontà e ai capricci dei più svariati esecutivi, con leggi indecenti, con voti di fiducia ridicoli e con silenzi paurosi. E allora si è levato un vento furioso, detto “antipolitica” che vuole punire tutto, risalendo ai conti e alle responsabilità di questa e di ogni altra generazione politica. Entra in campo con furore e tensione la parola “vendetta”. Ma la vendetta, sia negli stadi sia in politica, non vuole tener conto dello Stato, non lo conosce e non lo riconosce. Nessuna obiezione a lasciarlo morire, da parte degli invasori di campo delle partite controllate in nome di interessi loschi, o in Parlamento, in nome di nuovi gruppi politici portatori, ci dicono, di un mondo nuovo e febbrile disposto ad amputare tutto pur di fare pulizia del prima, che è tutto corrotto.

INTANTO RENZI, titolare del nuovo esecutivo senza nostalgie e senza scrupoli, disprezza il Parlamento, immagina solo dipendenti obbedienti, e promette “entrerò nella burocrazia (che è il corpo fisico dello Stato, ndr) con la ruspa”. Uno dei corpi burocratici più esposti e più in vista del nostro vivere in comune, la polizia, viene spinto alla cieca contro gravi pericoli fisici che nessun politico ha voluto affrontare e trasformare in confronto politico. Questo corpo, lasciato solo, ha mostrato, alcune volte, la tendenza a vendicarsi su individui isolati che sono stati identificati (di nuovo, alla cieca) come il pericolo, e che vengono sacrificati a un dio della sicurezza, al fondo di un burrone di solitudine. Lo Stato, come una navicella spaziale frantumata, parla con voci incoerenti da punti diversi e scollegati dello spazio. Non è in grado di assicurare giustizia, di garantire equità, di provvedere ordinata continuità, di fabbricare lavoro. Ecco, noi siamo fermi qui, alla voce “corruzione”, alla voce “solitudine”, alla voce “vendetta”.

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