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« L’estromissione di ogni voce dis­sen­ziente è un vul­nus irre­pa­ra­bile che incrina l’intero pro­cesso par­la­men­tare».

Il manifesto, 13 giugno 2014

La rimo­zione dei sena­tori Mario Mauro e Cor­ra­dino Mineo dalla Com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali sol­leva tre ordini di pro­blemi giu­ri­dici. Si tratta, in primo luogo, di veri­fi­care la cor­ret­tezza dell’interpretazione del Rego­la­mento del Senato. In secondo luogo, di valu­tare la con­for­mità a Costi­tu­zione della deci­sione assunta. In terzo luogo, di con­si­de­rare gli effetti di tale deci­sone sul sistema poli­tico complessivo.

Per quanto riguarda il primo aspetto può dubi­tarsi che l’articolo 31 del Rego­la­mento possa legit­ti­mare l’estromissione di un com­po­nente per­ma­nente desi­gnato in base a quanto sta­bi­lito in via gene­rale dal pre­ce­dente arti­colo 21. Quest’ultimo, infatti, chia­ri­sce che spetta a cia­scun gruppo comu­ni­care alla pre­si­denza del Senato i pro­pri rap­pre­sen­tanti nelle com­mis­sioni e che que­ste sono rin­no­vate «dopo il primo bien­nio». Sem­bre­rebbe dun­que che l’indicazione dei gruppi debba essere tenuta ferma per almeno un bien­nio, anche per garan­tire una certa con­ti­nuità nei lavori. In que­sto qua­dro si col­loca l’articolo 31 che pre­vede invece la pos­si­bi­lità di «sosti­tu­zione» (non di «desti­tu­zione»), anche in via tran­si­to­ria, dei rap­pre­sen­tanti asse­gnati alle commissioni.

La ratio della norma, non­ché i pre­ce­denti, chia­ri­scono che — pro­prio a garan­zia della con­ti­nuità dei lavori delle com­mis­sioni e della pos­si­bi­lità di far acqui­sire “ulte­riori” com­pe­tenze in casi par­ti­co­lari — la sosti­tu­zione opera essen­zial­mente in due casi. Qua­lora un com­po­nente desi­gnato assume diversi ruoli (ad esem­pio diventa mini­stro o viene eletto al par­la­mento euro­peo), non potendo più garan­tire l’impegno neces­sa­rio per svol­gere al meglio il suo inca­rico, ovvero qua­lora, per casi par­ti­co­lari, si ritenga che un diverso com­po­nente del mede­simo gruppo par­la­men­tare possa for­nire un con­tri­buto “aggiun­tivo” e più con­forme alla mate­ria da deci­dere rispetto al mem­bro “sostituito”.

Que­sta dispo­si­zione del Rego­la­mento del senato, dun­que, è nata per esten­dere le com­pe­tenze e la fun­zio­na­lità delle com­mis­sioni, non come stru­mento disci­pli­nare nei con­fronti dei dis­sen­zienti. D’altronde, può dubi­tarsi che la “sosti­tu­zione” si possa otte­nere senza il con­senso dell’interessato. Com’è avve­nuto nei casi di Mauro e Mineo.

Si è asse­gnato in tal modo un potere asso­luto di disporre dei sin­goli par­la­men­tari agli organi diret­tivi dei gruppi, venendo a ledere i diritti dei sin­goli sena­tori. Non solo quelli defi­niti dai Rego­la­menti par­la­men­tari, ma anche quelli diret­ta­mente dedu­ci­bili dal testo della Costituzione.

In par­ti­co­lare, sul secondo aspetto, c’è da chie­dersi cosa rimanga del libero man­dato (arti­colo 67) se l’attività poli­tica del par­la­men­tare, con una deci­sione estem­po­ra­nea e puni­tiva del gruppo di appar­te­nenza, può essere impe­dita, osta­co­lando irri­me­dia­bil­mente l’esercizio delle sue essen­ziali fun­zioni. L’estromissione da una com­mis­sione non può essere giu­sti­fi­cata da una pre­sunta indi­sci­plina nei con­fronti della linea di un gruppo, ovvero di una mag­gio­ranza poli­tica. I par­la­men­tari, secondo Costi­tu­zione, rap­pre­sen­tano la nazione e — tanto più in mate­ria costi­tu­zio­nale — non sono vin­co­lati alla disci­plina di par­tito.

L’argomentazione del veto («nes­suno ha diritto di veto»), ovvero quella del voto (il suc­cesso elet­to­rale con­se­guito alle euro­pee) che si pro­pon­gono per giu­sti­fi­care l’estromissione dei dis­sen­zienti non hanno ovvia­mente alcun pre­gio costi­tu­zio­nale. Qui si discute di libertà di man­dato e del cor­retto fun­zio­na­mento delle isti­tu­zioni par­la­men­tari, le regole che chiun­que deve rispet­tare, in ogni caso, di fronte ad ogni pos­si­bile dis­senso poli­tico, quale che sia stato il risul­tato elet­to­rale. È la libera dina­mica poli­tica, i modi di for­ma­zione della volontà demo­cra­tica che si pon­gono in gioco.

Per quanto riguarda infine i riflessi sul sistema poli­tico com­ples­sivo ci si può limi­tare a ricor­dare che le logi­che par­la­men­tari negli ordi­na­menti demo­cra­tici devono essere impron­tate al con­fronto. Era Carl Sch­mitt che, nel disprezzo del carat­tere plu­ra­li­stico dell’ordinamento demo­cra­tico, affer­mava non ci si potesse fer­mare dinanzi «al tea­tro della divi­sione», con­si­de­rando in fondo un bene che la mag­gio­ranza deci­desse per la mino­ranza, poi­ché, in fondo, è un «assioma demo­cra­tico» quello che sta­bi­li­sce l’assorbimento delle voci dis­sen­zienti nell’unica volontà espressa nella deci­sione della mag­gio­ranza. Com’è noto, Hans Kel­sen aveva una diversa idea di demo­cra­zia, secondo la quale solo coin­vol­gendo le mino­ranze entro il pro­cesso di deci­sone col­let­tiva la volontà par­la­men­tare può assu­mere una sua legit­ti­ma­zione demo­cra­tica. Più impor­tante della deci­sone stessa è il modo con cui si decide e l’estromissione di ogni voce dis­sen­ziente è un vul­nus irre­pa­ra­bile che incrina l’intero pro­cesso par­la­men­tare. Un dibat­tito del secolo scorso. Siamo ancora lì.

Il manifesto, 13 giugno 2014

Andia­moci piano con la libertà di coscienza, un bene pre­zioso da eser­ci­tare con mode­ra­zione, senza biso­gno di sban­die­rarlo per que­stioni minori come la riforma costi­tu­zio­nale. E se un sena­tore pro­prio insi­ste a voler espri­mere la sua cri­tica sul pro­getto del nuovo senato, addi­rit­tura pre­ten­dendo il diritto di voto, allora delle due l’una: o «eser­cita la sua libertà di coscienza in aula» (dove un voto in più o in meno non conta), come con­si­glia Anna Finoc­chiaro, pre­si­dente della Com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali (alias por­ta­voce della mini­stra Boschi), oppure sarà sosti­tuito da un ren­ziano doc.

E così, secondo le leggi della nuova monar­chia (anti­co­sti­tu­zio­nale), l’incompatibile sena­tore Mineo è stato epu­rato e al suo posto imme­dia­ta­mente nomi­nato il capo-gruppo Zanda, pro­prio quello che a ogni for­za­tura ber­lu­sco­niana sban­die­rava l’articolo 67 della Costi­tu­zione sul non vin­colo di man­dato. Ma la mal­de­stra operazione-pulizia si è pre­sto tra­sfor­mata in un boo­me­rang, e da uno i ribelli sono diven­tati quat­tor­dici, tutti auto­so­spesi dal gruppo par­la­men­tare del Pd.

Con una simile osten­ta­zione di arro­ganza, il presidente-segretario ha voluto met­tere in chiaro che se in par­la­mento e nel suo par­tito qual­cuno ancora insi­ste per emen­dare il sal­vi­fico pro­getto di riforma che tutto il mondo ci invi­dia, allora scatta il «renzismo-stalinismo» (copy­right di Mineo), anche a costo di pro­ce­dere a colpi di risi­cata mag­gio­ranza, con un solo voto di dif­fe­renza in com­mis­sione. Al grido di «non ci fer­miamo» (Boschi) e sotto la ban­diera del «no al diritto di veto» (Renzi), sven­tola orgo­gliosa l’idea di que­sti neo-unti del «conta il voto degli elet­tori», di fronte al quale il par­la­mento è un resi­duato che va rapi­da­mente neu­tra­liz­zato in forza del ple­bi­scito elet­to­rale (che, in ogni caso, né ha eletto Renzi, né era con­vo­cato sulle riforme costituzionali).

Al coro degli yesmen del Pd (tra i quali molti ex alfieri della «ditta» ber­sa­niana) si sono unite voci gril­line come quella del vice­pre­si­dente della camera, Di Maio, coe­ren­te­mente plau­dente («se un mem­bro del gruppo vota in dis­senso rischiando il sabo­tag­gio con il suo voto, è giu­sto pren­dere prov­ve­di­menti»). Lim­pida sin­tesi dove il «dis­senso» diventa «sabo­tag­gio», così come il «voto» diventa «veto» se non sei con­forme alla mag­gio­ranza di par­tito. È in que­sto modo che fun­ziona la nuova poli­tica dei rot­ta­ma­tori. Anche se poi Grillo tenta una mal­de­stra difesa di Mineo tanto per dare una botta a Renzi (senza nem­meno avver­tire il povero Di Maio). Del resto che Renzi e Grillo siano più con­cor­renti che avver­sari lo abbiamo visto molto chia­ra­mente nella com­pe­ti­zione elet­to­rale con quella corsa for­sen­nata a chi era più «anti» (anti-tasse, anti-sindacati, anti-partiti …). Sem­mai biso­gna dire che la pra­tica delle espul­sioni, dopo quella dello strea­ming, Renzi l’ha copiata pro­prio dall’ex comico.

Par­tite malis­simo, que­ste riforme costi­tu­zio­nali stanno pro­se­guendo nel modo peg­giore. Già aver deciso di pro­porre come governo la riforma della Costi­tu­zione, anzi­ché lasciarla alla sua sede natu­rale, il par­la­mento, ha espo­sto la falange ren­ziana a una cri­tica larga e bla­so­nata. Ma se all’inizio si trat­tava solo di insul­tare «gufi» e «pro­fes­so­roni» ora siamo arri­vati alle espul­sioni dei sena­tori. In fin dei conti può anche capi­tare che il potere logori per­sino chi ne ha troppo.

«La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto»: ma saeà mai possibie con questi parlamentari?

La Repubblica, 12 giugno 2014 (m.p.r.)

Che altro giudizio si può dare, sulla norma che reintroduce la responsabilità civile «diretta» dei magistrati, inasprendo le sanzioni per gli errori commessi nell’esercizio della funzione? Un emendamento della Lega, ricalcato dal testo di un disegno di legge che l’allora Pdl provò più volte ad imporre nella passata legislatura, ora improvvisamente agganciato all’iter della legge europea 2013-bis e inopinatamente approvato dalla Camera. Contro il parere del governo e della maggioranza. Ma a scrutinio segreto, e dunque con il contributo fattivo di almeno 50 franchi tiratori che al riparo dell’urna hanno deciso di votare insieme al centrodestra e di scompaginare il fronte del centrosinistra.

Fioccano le solite accuse incrociate e le rituali pratiche auto-assolutorie. Renzi parla di una «tempesta in un bicchier d’acqua». Un pezzo di Pd lancia strali contro i grillini, «colpevoli » di essersi astenuti e dunque di aver teso una misteriosa «trappola» alla maggioranza. Un altro pezzo di Pd, più dissennato ma meno ipocrita, rivendica orgogliosamente il voto in nome di un «garantismo» ormai assolutamente imprescindibile (benché, nello specifico, totalmente incomprensibile). Per quanto logori e sbandati, i manipoli berlusconiani in servizio permanente effettivo hanno almeno il coraggio di rivelare pubblicamente quello che appare chiaro a chiunque abbia il buon senso di vedere e di capire: «L’indipendenza della magistratura non può continuare a coincidere con la totale mancanza di responsabilità della stessa per gli errori commessi nell’esercizio del suo strapotere».
Dunque, di questo si tratta: al culmine della nuova Tangentopoli 2.0 che i pubblici ministeri stanno faticosamente disvelando, la politica consuma una sua simbolica «vendetta » ai danni della magistratura. Non importa che il merito di quella norma sia palesemente incostituzionale, come denunciano il Csm e l’Anm. Non importa nemmeno che quell’emendamento arrivi al traguardo finale della conversione in legge. È anzi molto probabile che questo non accada, visto che lo stesso presidente del Consiglio (pur con un surreale cortocircuito logico, vista la sua strenua battaglia contro il «bicameralismo perfetto») annuncia adesso «al Senato rimedieremo».
Quello che importa, ancora una volta, è il «segnale» che si vuole lanciare. Quello che importa è che lo «strapotere» delle Procure (come recita appunto la propaganda forzaleghista) venga tamponato o almeno influenzato. Quello che importa è che i magistrati sentano tutta la pressione, chiaramente intimidatoria, di un Palazzo che non intende farsi processare da nessuno. Quello che importa, alla vigilia di un Consiglio dei ministri che si spera domani possa prendere finalmente per le corna il tema della lotta alla corruzione, è che a una giurisdizione così pervicacemente ostinata a scavare nel malaffare arrivi anche un altro messaggio: «Attenti a ciò che fate, sappiamo come rimettervi in riga».
Il presidente della Repubblica Napolitano fa opportunamente sentire la sua voce, a sostegno dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Ma neanche questo basta a spiegare il cupio dissolvi che ancora una volta attraversa il Partito democratico, capace di farsi del male da solo persino su una questione pacifica come la difesa della legalità e la guerra alle mazzette. I magistrati hanno commesso e commettono molti errori. L’uso a volte eccessivo della carcerazione preventiva, un filtro non sempre rigoroso nella discovery degli atti, una gestione non sempre lineare delle inchieste. I problemi non mancano, e perfino la Procura più seria e più efficiente d’Italia, quella di Milano, non ne è risultata del tutto esente. Per questo, nessuno auspica o sogna una Repubblica delle Manette, dove i pm siano depositari incontrastati dei destini dei leader politici o tenutari indisturbati delle «vite degli altri». Una riforma organica della giustizia, che affronti «anche» il tema della governance del Csm e dell’autodisciplina sanzionatoria del potere giudiziario, è opportuna.
Ma appunto: la chiave sta tutta in quell’«anche». Oggi la priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare o condizionare il lavoro dei magistrati con un «colpo di mano» che non esiste in nessun’altra democrazia occidentale. E non è nemmeno istituire l’ennesima Commissione che, dal ministero della Giustizia, monitori i risultati raggiunti fino ad oggi nella lotta alla corruzione (con il paradosso ulteriore di affidarne la guida proprio all’ex Guardasigilli Paola Severino, chiamata a giudicare gli effetti della riforma palesemente insufficiente da lei stessa firmata nel 2012).
La priorità assoluta è ripristinare lo Stato di diritto, rafforzando sul serio l’azione del Commissario anti-corruzione Cantone (che non a caso si auto-rappresenta come «potere monco», vista la scarsità di mezzi e di strumenti normativi di cui dispone). È riformare l’istituto della prescrizione, che snaturato dalle leggi ad personam di Berlusconi «inghiotte» il 35% dei reati commessi ogni anno, corruzione compresa (come denuncia il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti). È introdurre una volta per tutte il reato di autoriciclaggio, che determinerebbe di fatto l’imprescrittibilità dei reati più gravi contro la Pubblica Amministrazione. È ri-potenziare il reato di falso in bilancio, depenalizzato pro domo sua dall’ex Cavaliere. Non c’è altra emergenza, in un Paese stordito e disgustato dai miasmi che spurgano dal ventre molle della Padania felix e dalla testa marcia delle Fiamme Gialle. Domani Renzi ha l’occasione per trasmettere al Paese la volontà di questo «scatto morale ». Un altro rinvio, stavolta, sarebbe davvero imperdonabile. Tanto imperdonabile da risultare, alla fine, addirittura sospetto.

La priorità assoluta nel Paese non è certo intralciare il lavoro dei magistrati con un “colpo di mano” La priorità è ripristinare lo Stato di diritto

«Il nuovo sistema europeo di contabilizzazione prevede di inserire nei dati nazionali anche stime del fatturato prodotto da traffico di sostanze stupefacenti, prostituzione e contrabbando». Se questa è l'economia: un trucco contabile e «il rapporto debito/Pil subirebbe una riduzione di 1,32 – 2,6: nell’ipotesi massima si raggiungerebbe senza alcuno sforzo economico e politico metà dell’obiettivo richiesto dal

fiscal compactLavoce,info, 10 giugno 2014 (m.p.r)

La contabilizzazione dell'economia illegale.Nella letteratura economica, l’economia illegale viene considerata una componente non osservata. L’aggregato (non-observed economy) si riferisce a quelle attività economiche che devono essere incluse nella stima del Pil, ma che non sono registrate nelle indagini statistiche presso le imprese, o nei dati fiscali e amministrativi, in quanto non osservabili in modo diretto. Rappresentano una parte consistente del Pil ed è importante quantificarne le dimensioni. Soprattutto per la funzione che il Pil ha come base per gli indicatori di stabilità finanziaria. Sulla base delle definizioni internazionali contenute nel Sistema europeo dei conti nazionali del 1995 e nell’Handbook for measurement of the non-observed economy dell’Ocse del 2002, l’economia non osservata deriva, oltre che da attività illegali, anche dal sommerso e dalla produzione del settore informale e dai limiti del sistema statistico. (1)

In linea generale, all’interno della non-observed economy è possibile distinguere tre componenti:
1) l’economia sommersa o sommerso economico (underground o hidden o shadow economy) che riguarda le attività che sono produttive e legali, ma non conformi alle norme amministrative, e per questo, deliberatamente nascoste alle autorità pubbliche al fine di evitare il pagamento delle imposte o di conformarsi della normativa; il “sommerso statistico” invece fa riferimento alle inefficienze del sistema di raccolta dei dati;

2) l’economia criminale o le attività illegali è classificata dalla Scn 1993 in due categorie: la produzione di beni e servizi la cui produzione, vendita o semplice possesso è vietato dalla legge; e le attività di produzione che di solito sono legali, ma che diventano illegali se effettuate da produttori non autorizzati. Entrambi i tipi di produzione sono considerati attività economiche a condizione che esista una domanda di mercato effettivo e ci sia il consenso tra le parti; (2)

3) l’economia (o attività) informale include le attività produttive legali svolte da piccole unità produttive (piccola scala, basso livello di organizzazione, scarsa o nulla distinzione tra capitale e lavoro, rapporti di lavoro occasionali basati su relazioni personali o familiari in contrapposizione ai contratti formali – Istat, 2008) che ne rendono difficile o impossibile l’osservazione statistica ma che, non essendo finalizzate all’evasione fiscale o contributiva, non possono essere comprese nell’economia sommersa.

L’Istat ha sistematizzato in un quadro analitico le diverse componenti della non-observed economy:

Fino ad oggi, in sede europea, si era convenuto di escludere l’economia illegale dalla contabilità nazionale in quanto la disomogeneità (alcune attività sono illegali in alcuni paesi ma legali in altri) e l’incertezza delle stime rendevano poco confrontabili i dati dei vari paesi. Solo pochi paesi dell’Ocse (Estonia, Lituania, Polonia, Slovacchia) comprendevano stime esplicite delle attività illecite nei loro dati relativi al Pil, introdotte in via sperimentale per uno o due anni. Ora, a partire da settembre 2014, gli Stati membri adotteranno il nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali – Sec 2010 – in sostituzione del Sec 95. Il nuovo sistema, definito nel Regolamento Ue (549/2013) pubblicato il 26 giugno 2013, presenta alcune importanti differenze rispetto al precedente.

I Conti con il Sec 2010. Come riportato dall’Istat, sono quattro le principali novità del nuovo Sec: 1) la capitalizzazione delle spese in ricerca e sviluppo; 2) la riclassificazione da consumi intermedi a investimenti della spesa per armamenti sostenuta dalle amministrazioni pubbliche; 3) una nuova metodologia di stima degli scambi con l’estero di merci da sottoporre a lavorazione (processing), per i quali si registra il valore del solo servizio di trasformazione e non più quello dei beni scambiati; 4) la verifica del perimetro delle amministrazioni pubbliche sulla base degli aggiustamenti metodologici introdotti dal Sec 2010.

A queste novità ne va aggiunta un’altra che rende omogenei gli standard di calcolo già esistenti tra i paesi UE e che riguarda l’inserimento nei conti delle attività illegali frutto di un consenso reciproco, in ottemperanza al principio di esaustività, già introdotto dal Sec 95: le stime devono comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico, seguendo le linee guida stabilite da Eurostat. Tutti i paesi dunque inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) del traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol).
Ora, l’economia illegale rappresenta una percentuale consistente di transazioni in Italia, circa l’11 per cento del Pil secondo alcune stime.(3) La componente relativa al traffico di stupefacenti, in particolare, costituirebbe per la criminalità organizzata il business principale, con un fatturato annuo di circa 60 miliardi di euro. (4) Stime più prudenti forniscono un ricavo complessivo nel 2010 pari a circa 24 miliardi di euro. (5) Decisamente più contenute (11 miliardi nel 2008-2009) le cifre indicate dal Progetto Pon Sicurezza 2007-2013, che valuta il fatturato della prostituzione in 7,5 miliardi (2004-2009) e quello del contrabbando di sigarette in 841 milioni (2009-2011).
Se dunque in termini di tassi di crescita le innovazioni introdotte non dovrebbero produrre aumenti importanti delle percentuali, è in termini di stock che si registreranno gli effetti più rilevanti, soprattutto sui principali indicatori di stabilità finanziaria dei diversi paesi dell’UE. Secondo Eurostat, per l’Italia sarà tra l’1 e il 2 per cento – dipendendo molto dalla metodologia di stima. I paesi per i quali si prevede che l’impatto sia maggiore (Svezia e Finlandia) sono quelli che investono maggiori risorse in ricerca e sviluppo, come si può rilevare dalla tabella 4.

Tabella 1 – Stime provvisorie dell’impatto sul Pil dei cambiamenti metodologici

Fonte: Eurostat – The new ESA 2010

Se applichiamo le stime di crescita di Eurostat ai dati del Pil italiano 2013, otteniamo risultati molto importanti per i rapporti debito/Pil e deficit/Pil nel 2013. Il rapporto debito/Pil subirebbe una riduzione di 1,32 – 2,6: nell’ipotesi massima si raggiungerebbe senza alcuno sforzo economico e politico metà dell’obiettivo richiesto dal fiscal compact. Il rapporto deficit/Pil, invece, diminuirebbe di 0,03 – 0,05 punti, con una maggiore disponibilità di risorse da spendere tra i 15 ed i 31 miliardi secondo i dati del 2013. Si tratta dunque di un’innovazione contabile con effetti reali rilevanti. Che potrebbero essere ancora maggiori se alcune di queste attività illegali, come la vendita di droghe leggere o la prostituzione, venissero legalizzate, grazie alle tasse incassate e alle minori spese da effettuare per il contrasto.

Tabelle 2 – 3 - Stime previsionali per l’Italia 2013

Fonte: Eurostat – ns elaborazione (dati in miliardi)


Fonte: Eurostat – ns elaborazione (dati in miliardi)

Nell’attesa di capire come si possa riuscire in brevissimo tempo a costruire e applicare metodi di rilevazione e di calcolo omogenei e credibili – rispetto a una materia che finora, per ragioni di visibilità mediatica, è stata spesso contraddistinta da improvvisazioni, ripetizione automatica di stime mai metodologicamente controllate – una strada semplice e immediata che la nuova metodologia ci consegna per far aumentare contabilmente il Pil c’è: investire in ricerca e sviluppo.

Tabella 4 – Spesa lorda in ricerca e sviluppo in percentuale sul Pil

Fonte: Eurostat

(1) L’Handbook interviene con la definizione sia di un framework concettuale per la misura del Pil e sia di un framework analitico per la misurazione dell’economia non osservata.
(2) Secondo l’Scn 1993 le attività illegali devono essere incluse nel sistema di contabilità nazionale, sottolineando che “nonostante le evidenti difficoltà pratiche per ottenere dati sulla produzione illegale, tale attività è inclusa nella produzione nazionale” (Scn 1993: 6,30). L’Scn 1993 opera una netta distinzione tra le operazioni di comune accordo tra l’acquirente e il venditore (ad esempio, la vendita di droga, il traffico di merci rubate o la prostituzione), che sono inclusi nelle attività di produzione, e di altre attività dove l’accordo manca (ad esempio, l’estorsione o il furto), che sono escluse. Il Scn 1993 suggerisce che le azioni illegali per le quali non esiste un accordo possono essere interpretate come una forma estrema di esternalità, senza alcun valore aggiunto nei conti nazionali. Così è la mancanza di consenso tra le parti, piuttosto che l’illegalità a rappresentare il criterio di esclusione dalle attività di produzione (Oecd 2002).
(3) Ardizzi G., Petraglia C., Piacenza M. and Turati G. (2012), Measuring the underground economy with the currency demand approach: a reinterpretation of the methodology, with an application to Italy, Banca d’Italia, Temi di Discussione (Working Papers) Number 864.
(4) Sos Impresa 2009
(5) Fabi, F., Ricci, R. e Rossi, C. in Rey G., Rossi C. e Zuliani A. (2011) Il mercato delle droghe – Dimensione protagonisti, politiche, Marsilio

«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».

Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul sup­ple­mento che l’Unità ha dedi­cato a Enrico Ber­lin­guer nel tren­ten­nale della morte. Do atto al quo­ti­diano un tempo “comu­ni­sta” di aver ope­rato un’apertura con­si­de­re­vole per­ché, come è ovvio, era impli­cito che avrei par­lato anche dello scon­tro che, come gruppo de il mani­fe­sto, avemmo con l’allora segre­ta­rio del Pci quando fu decre­tata la nostra radia­zione dal par­tito. Tempi oggi cam­biati rispetto a quelli in cui lo stesso gior­nale era arri­vato a pub­bli­care un arti­colo, a noi rivolto, inti­to­lato «Chi vi paga?», in cui si espri­meva il sospetto che si trat­tasse della Con­fa­gri­col­tori. (Chissà per­ché pro­prio la Confagricoltori).

E tut­ta­via, come mi è capi­tato in que­sti ultimi tempi di ripe­tere, quasi quasi rim­piango quelli pur duris­simi della nostra radia­zione: per­ché lo scon­tro aspris­simo pro­dusse un trauma in tutto il par­tito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una rifles­sione in tutta l’opinione pub­blica della sinistra.

Oggi si può dire qual­siasi cosa che, vista la povertà del dibat­tito poli­tico, non suscita, non dico pas­sioni, ma nem­meno inte­resse. (Stento a defi­nirla “libertà d’espressione”).

Que­sto sta infatti acca­dendo con l’amplissimo fio­ri­le­gio di pub­bli­ca­zioni dedi­cate alla memo­ria di Enrico Ber­lin­guer: che susci­tano, come è giu­sto e natu­rale, grandi emo­zioni e nostal­gie — soprat­tutto quando si rive­dono le imma­gini strug­genti del dolore pro­fondo e sin­cero di un intero popolo al suo fune­rale — ma non con­tri­bui­scono affatto a chia­rire il pro­filo poli­tico di Ber­lin­guer. Un gio­vane nato negli ultimi decenni potrà desu­merne che si trat­tava solo di un uomo one­sto capace di susci­tare affetto e con­senso. Certo non è poco di que­sti tempi, ma pochis­simo per far capire dav­vero chi era.

Per­ché Ber­lin­guer è stato un diri­gente per nulla privo di spi­goli, che non ha con­cesso nulla alla ricerca di un con­senso faci­lone, non par­liamo delle sue capa­cità comu­ni­ca­tive: era il con­tra­rio dello sho­w­man. E che ha ope­rato scelte spesso con­tra­state e non solo dall’esterno del Pci.

Bana­liz­zarlo è la peg­gior sorte che gli si potesse riser­vare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pub­bli­ca­zione di un numero spe­ciale a lui dedi­cato di “Cri­tica Mar­xi­sta”, dove, se non sba­glio, fu solo Ser­gio Gara­vini a ricor­dare espli­ci­ta­mente que­sti contrasti.)

Non un’operazione inno­cente: serve a far cre­dere che anche quanto si fa oggi sia in defi­ni­tiva in con­ti­nuità con il suo pen­siero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bac­chet­tone, un po’ troppo anco­rato al pas­sato, lento nel per­ce­pire quanto aveva invece colto Bet­tino Craxi: che il mondo era cam­biato e per essere con­tem­po­ra­nei biso­gnava spo­sare la moder­nità senza agget­tivi che il sistema proponeva.

(Per­sino il più quo­tato can­di­dato al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo con il suo “Tutti”, per­corre la stessa strada: ama Ber­lin­guer fino ad iden­ti­fi­carsi con lui, ma lo rende una figura pate­tica, un vec­chio buon nonno).

Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»

Il nostro giu­di­zio su Ber­lin­guer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più posi­tivo. Al momento della radia­zione i punti del con­tra­sto furono impor­tanti. In breve:la sua sor­dità rispetto ai movi­menti emer­genti, peg­gio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova gene­ra­zione che aveva cap­tato la valenza delle nuove con­trad­di­zioni del capi­ta­li­smo; l’insufficienza di un sistema tutto fon­dato sulla demo­cra­zia dele­gata e la neces­sità di intrec­ciarla con nuovi orga­ni­smi di rap­pre­sen­tanza diretta; la cri­tica al comu­ni­smo sovie­tico e alla coe­si­stenza fra le due grandi potenze mon­diali intesa come stru­mento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, com­pa­gno lar­ga­mente e così ingiu­sta­mente dimen­ti­cato, a capire assai di più, e lo ripetè, ina­scol­tato, fin quando non fu defi­ni­ti­va­mente zit­tito dalla malat­tia. In un arti­colo su “Rina­scita” era per­sino arri­vato ad invo­care mag­giore plu­ra­li­smo, in con­tro­ten­denza con la rigida difesa dell’unanimismo invo­cato in nome di un’unità del par­tito già lar­ga­mente fittizia).

Poi venne il com­pro­messo sto­rico, obiet­tivo di lungo periodo, e il governo di unità nazio­nale come pas­sag­gio verso quella meta. Un’ipotesi che ridu­ceva il ben più com­plesso pro­blema del rap­porto col mondo cat­to­lico a quello con la Demo­cra­zia Cri­stiana. Per Gram­sci si era trat­tato della que­stione con­ta­dina, per Togliatti della que­stione demo­cra­tica per arri­vare più tardi alla com­pren­sione che una reli­gio­sità dav­vero sen­tita poteva con­tri­buire a supe­rare l’identificazione bor­ghese di libertà con indi­vi­dua­li­smo (vedi le tesi del 9° Con­gresso del Pci). Stra­na­mente pro­prio Ber­lin­guer, che cercò più di ogni altro un avvi­ci­na­mento alla Dc, aveva sem­pre mani­fe­stato incom­pren­sione per il ben diverso tra­va­glio di un mondo cat­to­lico che non si iden­ti­fi­cava affatto con il par­tito e che, dopo aver emar­gi­nato Dos­setti, aveva assunto il ruolo di pila­stro del neo­ca­pi­ta­li­smo ita­liano. Fu un rim­pro­vero che avan­zammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne con­se­guenze in ter­mini di ini­zia­tiva poli­tica, la crisi pro­fonda della gio­ventù cat­to­lica per effetto di quella scelta e che portò alle dimis­sioni di ben due pre­si­denti della Giac e molti ade­renti alla Fuci a con­fluire via via nel Pci.

Non sono pochi né di poco conto, dun­que, i dis­sensi che ci hanno oppo­sto. E però c’è poi quanto accadde a par­tire dalla fine dei ’70. Su que­sto non fummo tutti con­cordi e il dibat­tito pro­se­guì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivi­sta del Mani­fe­sto”, quella che ripren­demmo a pub­bli­care gra­zie all’incontro con gli ex ingra­iani che nel 1969 non ave­vano seguito la nostra scelta e al rein­con­tro fra tutti noi mani­fe­stini, fra cui il rap­porto si era incri­nato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la reda­zione del giornale.

Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu defi­nita, per­ché prese corpo con un discorso di Enrico Ber­lin­guer ad un Comi­tato cen­trale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il ter­re­moto dell’Irpinia; e dopo che nelle ele­zioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla poli­tica dell’unità nazio­nale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il par­tito stesso ne era uscito fatal­mente dete­rio­rato per effetto della pro­gres­siva iden­ti­fi­ca­zione con il sistema dei poteri locali.

La svolta, di nuovo molto sche­ma­ti­ca­mente, con­si­stette soprattutto:
- nell’abbandono del com­pro­messo sto­rico e nella pro­po­sta di alternativa;
la aperta pole­mica con la linea adot­tata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della dire­zione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai can­celli della Fiat a riaf­fer­mare il dovere di rap­pre­sen­tanza della classe ope­raia del Pci, e dun­que la pro­po­sta di refe­ren­dum sulla scala mobile azzop­pata dall’accordo detto di San Valen­tino fra sin­da­cato e governo Craxi;
- la rot­tura con l’Urss brez­ne­viana, certo fatal­mente tar­diva ma che con quella frase «è ces­sata la spinta pro­pul­siva della rivo­lu­zione di otto­bre» voleva dire una cosa suc­ces­si­va­mente negata: che era comun­que bene che quella rivo­lu­zione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo soste­gno al movi­mento paci­fi­sta, che si accom­pa­gnò al suo discorso sulla pos­si­bi­lità per l’Europa di una terza via, dun­que di un auto­no­mia dai due modelli, così come pur fra molte incer­tezze emer­geva anche nel dibat­tito della sini­stra social­de­mo­cra­tica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire mona­cale rinun­cia ai pia­ceri della vita (come fu inter­pre­tata), né cedi­mento alle richie­ste padro­nali di “auste­rity”, ma assun­zione del moder­nis­simo pro­blema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla cor­ru­zione, che fu in realtà la denun­cia di una ormai gra­vis­sima crisi della democrazia.

Molti, anche fra le nostre fila, Ros­sana per esem­pio, di que­sto pas­sag­gio det­tero un giu­di­zio più severo, quelli del Pdup vi fon­da­rono invece il rein­con­tro con Ber­lin­guer, nella fase della più pro­fonda aggres­sione dell’anticomunismo cra­xiano. Fu lui stesso a pro­porci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro con­gresso a Milano, forse anche per­ché pur essendo noi un pic­colo par­tito ave­vamo qual­che migliaio di qua­dri capaci che pote­vano aiu­tarlo a rom­pere l’isolamento in cui si era tro­vato nel suo stesso par­tito. Noi accet­tammo: non si tratta di un rien­tro – disse Magri al Con­gresso in cui venne presa la deci­sine — ma un rein­con­tro, una tappa del pro­cesso che ave­vamo ipo­tiz­zato fin dalla nascita de “Il Mani­fe­sto”: aprire una dia­let­tica fra movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale e nuovi movimenti.

Credo sia stato giu­sto farlo, anche se la improv­visa scom­parsa del segre­ta­rio del Pci tagliò le ali a quella pro­spet­tiva. Altri com­pa­gni, la mag­gio­ranza della reda­zione del gior­nale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritro­vammo non era forse più riformabile.

“E’ morto un buon comu­ni­sta” – inti­tolò il giorno dopo la morte di Ber­lin­guer il mani­fe­sto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo edi­to­riale del 12 giu­gno che la sua morte «era una tra­ge­dia poli­tica», per via «dei grandi rischi che la demo­cra­zia ita­liana sta cor­rendo». Il titolo diceva: «Caduto in bat­ta­glia», il rico­no­sci­mento della durezza dello scon­tro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impe­gnato, uno scon­tro in cui, «lui che, per sua natura così pru­dente, ha tro­vato accenti estremi per espri­mere i suoi con­vin­ci­menti e susci­tare ener­gie capaci di rove­sciare l’andamento delle cose». Fino a riven­di­care orgo­glio­sa­mente “la diver­sità” dei comu­ni­sti: non per super­bia o arro­ganza, ma per sot­to­li­neare che quel che li distin­gueva era un di più di impe­gno, di mora­lità, di dispo­si­zione al sacri­fi­cio, in nome della lotta per una società non sem­pli­ce­mente “aggiu­stata”, ma radi­cal­mente diversa.

Delle frasi pro­nun­ciate in que­gli ultimi anni da Enrico vor­rei ricor­darne soprat­tutto una, che oggi mi pare essen­ziale: «Non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento, se si sman­tella quello che vi è alle spalle».

Per finire, la memo­ria di una bat­tuta di Lucio: «Pen­sate la sfiga dei comu­ni­sti, muo­iono tutti – Gram­sci, Togliatti, Ber­lin­guer, Andro­pov – pro­prio quando diven­tano più intelligenti».

In Laguna i drammi s'intrecciano. Lotta contro il minacciato Canale Contorta, discussione sullo scandalo Mose-Orsoni. Felice Casson dice cose sagge sul Mose ma non comprende che a Ca' Farsetti bisogna cambiare tutto e subito.

Il manifesto, 8 giugno2014

NO GRANDI NAVI BLOCCATI I CROCIERISTI
di Ernesto Milanesi

La rete da can­tiere «sigilla» la Marit­tima. Il peo­ple mover s’inceppa al Tron­chetto e viag­gia a vuoto. La caro­vana dei cro­cie­ri­sti per quat­tro ore resta bloc­cata. Con le sagome delle «città gal­leg­gianti» affi­date alla pro­te­zione delle forze dell’ordine.

In un migliaio hanno sfi­dato la mas­sima calura river­be­rata da asfalto e cemento, pur di dar fiato alla Vene­zia che si spec­chia nella laguna e oggi nell’edizione numero 40 della Voga­longa con 1.800 imbar­ca­zioni iscritte. Qui, da sem­pre, si rispetta l’equilibrio fra terra e mare, acqua dolce e salata, idrau­lica della Sere­nis­sima e flussi invi­si­bili. Qui si voga, non solo in gon­dola sul Canal Grande, e si impara a non tur­bare la «grande bel­lezza» che resi­ste da secoli. Ma l’estate 2014 di Vene­zia è un mare di guano: il muni­ci­pio senza sin­daco, con il cen­tro­si­ni­stra diviso su come girare pagina; la Bien­nale di Archi­tet­tura inau­gu­rata con la noti­zia di 35 arre­sti più un cen­ti­naio di inda­gati per lo scan­dalo Mose che fa il giro del globo; la car­to­lina del busi­ness turi­stico che fatica ad andare in porto.

La Grande Opera da 5 miliardi (tan­genti, con­cus­sioni e «sti­pendi paral­leli» incor­po­rati) ha nutrito i can­ni­bali di «Vene­zia Nuova», delle imprese fuori mer­cato e dei poli­tici sus­si­diari al sistema della con­ces­sione unica. Le Grandi Navi rap­pre­sen­tano l’altra fac­cia della stessa meda­glia: lo stu­pro della città-pesce con lo stra­scico di lobby, mono­poli e affari. Così in piaz­zale Roma si sro­tola l’enorme stri­scione che era stato issato sul cam­pa­nile di piazza San Marco: tor­nano pro­ta­go­ni­sti comi­tati, cen­tri sociali, ambien­ta­li­sti e sem­plici cit­ta­dini. Alle 14 si para­liz­zano il ter­mi­nal, il ponte della libertà e i tra­sporti: parte solo il cor­teo che resti­tui­sce musica, cori e bandiere.

«Que­sta è l’ennesima lotta a cui sono chia­mati tutti coloro che al di la delle parole nei fatti com­bat­tono la piog­gia di abusi che si com­pie quo­ti­dia­na­mente in que­sta città: dal malaf­fare intorno al Mose fino alla gestione del Porto» com­menta Camilla Sei­bezzi, con­si­gliera comu­nale della lista In Comune. La mani­fe­sta­zione scol­lina verso la rotonda all’ingresso della Marit­tima: #tut­ti­giu­per­terra. Per ore non si pas­serà più attra­verso la rete dei corpi. I «mostri del mare» aspet­te­ranno cro­cie­ri­sti con armi e baga­gli, abban­do­nati al loro destino. Poli­zia, finan­zieri, vigili con­trol­lano con discre­zione. Qual­che auto­mo­bi­li­sta scal­pita e qual­che turi­sta prova a farsi largo bru­sca­mente, ma il blocco viene soste­nuto dalla «dele­ga­zione» che ha appena para­liz­zato la mono­ro­taia che col­lega piaz­zale Roma al Tronchetto.

Con­fusi fra i mani­fe­stanti, il sena­tore M5S Gio­vanni Endrizzi e il sere­nis­simo auto­no­mi­sta Franco Roc­chetta (arre­stato il 2 aprile con altri 24 “indi­pen­den­ti­sti veneti” accu­sati di ter­ro­ri­smo) men­tre una mezza doz­zina di Raixe Venete regge lo stri­scione e i ban­die­roni con il leone alato. Poco lon­tano la dele­ga­zione di Rifon­da­zione con il con­si­gliere regio­nale Piero Pet­tenò e quello comu­nale Seba­stiano Bon­zio. Ad asse­diare la Marit­tima anche i Comi­tati Opzione Zero della Riviera del Brenta minac­ciata dalle solite colate di cemento e Legam­biente che ha pro­dotto elo­quenti dos­sier sul “modello veneto” for­mato affari & poli­tica. Beppe Cac­cia, con la testa pro­tetta dall’elegante panama, esi­bi­sce l’interrogazione pre­sen­tata a Ca’ Far­setti il 9 novem­bre scorso. Si legge testual­mente: «Vi è il con­creto rischio che — in caso di appro­va­zione dello scavo del canale Con­torta Sant’Angelo — la rea­liz­za­zione di tale opera per un valore com­preso tra i 200 e 350 milioni di euro sia affi­data senza alcuna tra­spa­rente pro­ce­dura ad evi­denza pub­blica al Con­sor­zio Vene­zia Nuova». A bene­fi­cio della rotta delle Grandi Navi, il pre­si­dente del Porto Paolo Costa (ex sin­daco e ret­tore, ex euro­par­la­men­tare Pd e com­mis­sa­rio per la super-base Usa a Vicenza) conta di “allar­gare” l’attuale canale 4x2 metri fino a 200x10. E insieme al Magi­strato alle Acque si sarebbe affi­dato a Pro­tecno Srl, società di Noventa Pado­vana, e alla cop­pia di inge­gneri Daniele Rinaldo (già diret­tore in vari can­tieri del Cvn) e Maria Teresa Brotto (ex ad di The­tis arre­stata il 4 giugno).

Poco dopo le 18, il blocco si con­clude con il sound system che accom­pa­gna le ban­diere No Grandi Navi di nuovo in piaz­zale Roma. Davanti ai can­celli del porto turi­stico restano i falò che fuori sta­gione ricor­dano un po’ la Befana della sus­si­dia­rietà. Sul pelo dell’acqua Vene­zia si sente final­mente un po’ più libera dal cap­pio delle cric­che, pronta a scac­ciare l’incubo dei “Tir del mare” con il varo della nuova festa del popolo del remo.

CASSON: “MOSE UN GRAVE DISASTRO POLITICO PRIMA CHE GIUDIZIARIO”

La gra­vità poli­tica di quello che è suc­cesso riguardo al Mose è ben peg­giore dei fatti rile­vanti da un punto di vista giu­di­zia­rio”. Felice Cas­son, cele­bre magi­strato vene­ziano, oggi sena­tore del Pd, è con­vinto che la lunga vicenda del Mose avrà nuovi svi­luppi anche al di là dell’inchiesta.

Per vent’anni i magi­strati sono sem­brati gli unici in grado di cam­biare l’Italia e invece a sca­denza rego­lare ci tro­viamo di fronte agli stessi feno­meni. Come se ne esce?
Ho sem­pre detto che la magi­stra­tura non può risol­vere pro­blemi sociali, eco­no­mici e poli­tici come il ter­ro­ri­smo, la piega della cri­mi­na­lità orga­niz­zata, i cri­mini ambien­tali e la cor­ru­zione. Avere dele­gato que­sta mis­sione sal­vi­fica solo nelle mani dei magi­strati è stato un errore. Per que­sto a distanza di vent’anni si ritro­vano le stesse per­sone al cen­tro dei traf­fici cor­rut­tivi. Sono sem­pre stati lì: la cor­ru­zione è dila­gata, è solo cam­biata gra­zie a mec­ca­ni­smi sem­pre più sofisticati.

Cosa si può fare sia dal punto di vista nor­ma­tivo che sul piano etico e politico?
Se aves­simo affron­tato il tema nei decenni scorsi al posto di elu­derlo ora avremmo for­mato gene­ra­zioni edu­cate al rispetto della lega­lità e dell’etica sociale. L’educazione è fon­da­men­tale, non pro­duce risul­tati imme­diati ma è un inve­sti­mento sul futuro. Non si può sca­ri­care tutto sui magi­strati, ma nep­pure solo sulla scuola, sulla poli­tica o sul volon­ta­riato. Ognuno deve fare la pro­pria parte.

Per Renzi il pro­blema non sono le leggi ma i ladri. Così non si rischia di sci­vo­lare su un piano pre­po­li­tico, è dav­vero e solo una que­stione morale più che politica?
Il ruolo della parte nor­ma­tiva è impor­tante. Ad esem­pio credo che la legge Seve­rino sia lar­ga­mente insuf­fi­ciente e che vada rivi­sta. E quello che sta­vamo facendo in com­mis­sione giu­sti­zia al Senato ma ci siamo dovuti fer­mare dato che il governo ha annun­ciato la pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge.

Ieri Renzi ha annun­ciato prov­ve­di­menti nel giro di poche set­ti­mane eppure da più parti si aspet­ta­vano inter­venti più rapidi. Come spiega i ritardi e come giu­dica que­sti annunci?
Qui si va pro­prio al nodo poli­tico della que­stione. Con­di­vido il fatto che non si indulga alla ten­ta­zione dei con­ti­nui spot. Ma Renzi ha il pro­blema di con­vin­cere la sua mag­gio­ranza che in tema di giu­sti­zia quasi sem­pre si spacca. Ncd vota con Forza Ita­lia e Lega e le riforme pas­sano solo con l’appoggio di Sel e M5S. Parlo delle leggi ber­lu­sco­niane da rifare come il falso in bilancio.

Il governo ha anche il pro­blema di rea­liz­zare le opere, belle o brutte che siano. Un New deal ita­liano è molto com­pli­cato se la spesa pub­blica fini­sce in corruzione.
Biso­gna valu­tare opera per opera. Sul Mose credo sia neces­sa­ria una valu­ta­zione scien­ti­fica che non c’è mai stata: tor­nare indie­tro è dif­fi­cile, i lavori sono stati già fatti all’86%, ma la manu­ten­zione da sola costa 25–25 milioni all’anno. Una rifles­sione è necessaria.

Come vive il fatto che in que­ste inchie­ste siano coin­volti anche per­so­naggi vicini al Pd?
Molto male. Incon­tro cit­ta­dini arrab­biati. Biso­gne­rebbe comin­ciare ad appli­care con rigore le regole che si è dato il Pd, per esem­pio dare un limite al rin­novo dei man­dati e farla finita con i doppi incarichi.

A Vene­zia si deve tor­nare al più pre­sto alle urne?
Il sin­daco farà le sue scelte ma ora la mag­gio­ranza deve assu­mersi la respon­sa­bi­lità di tute­lare i vene­ziani. Biso­gna appro­vare il bilan­cio e garan­tire i ser­vizi sociali. La for­mula conta poco e anche la data delle elezioni.

Si parla già del pros­simo sin­daco, qual­cuno ha fatto il suo nome o quello dell’assessore all’ambiente Gian­franco Bet­tin, che ne pensa?
Deci­de­ranno le pri­ma­rie, ci sono già 5 o 6 can­di­dati. Io non sono fra loro. A me piace il mio lavoro in Senato.

Un titolo fuorviante, che è anche la rivelazione di in problema, che non si chiama Barbara Spinelli, ma rapporto tra società e partiti, "buoni" o "cattivi che siano.

Il manifesto, 8 giugno 2014. con postilla

Sinistre. La capolista siederà nel Gue a Strasburgo. Escluso il giovane candidato di Sel Marco Furfaro. La notizia arriva da Parigi alla fine dell’assemblea. Che le chiedeva un confronto

A oltre dieci giorni dal voto, dopo uno psi­co­dramma che stava con­su­mando una comu­nità poli­tica da un milione di voti, Bar­bara Spi­nelli decide: sie­derà a Stra­sburgo, a dif­fe­renza di quanto pro­messo in cam­pa­gna elet­to­rale. Ieri, con una mail arri­vata da Parigi giu­sto al ter­mine di un’assemblea romana della lista — alla quale non aveva par­te­ci­pato ma dove era stata dura­mente con­te­stato l’annuncio di una sua scelta in soli­ta­ria — ha messo la parola fine quan­to­meno alla sua tor­men­tata rifles­sione: «Il mio col­le­gio natu­rale, la mia città è Roma. È qui che ho rice­vuto il mag­gior numero di voti. A Sud non ero capo­li­sta ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti ver­rei per­ce­pita come «para­ca­du­tata» dall’alto. Mi assumo l’intera respon­sa­bi­lità di quest’opzione, che mi pare la più giu­sta, nella piena con­sa­pe­vo­lezza dei prezzi e dei sacri­fici che essa comporterà» [la lettera è qui su eddyburg- n.d.r.].

Quello che com­porta è l’elezione di Eleo­nora Forenza, Prc. E l’esclusione del gio­vane Marco Fur­faro, di Sel, che non è un com­pli­mento per un par­tito che sulla scom­messa della lista Tsi­pras si sta gio­cando la tenuta interna. «Sono certa che i tanti elet­tori di Sel», scrive Spi­nelli, «appro­ve­ranno e comun­que accet­te­ranno una scelta che è stata molto sof­ferta», «conto non solo sulla loro fedeltà alla lista ma sulla loro par­te­ci­pa­zione immu­tata al pro­getto ini­ziale, che ha come pro­spet­tiva un’aggregazione di forze alter­na­tiva all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese».

Quello che suc­ce­derà dav­vero lo si vedrà nelle pros­sime ore. Certo è che la deci­sione arriva ’a pre­scin­dere’ dalla lunga e tra­va­gliata discus­sione che si era con­su­mata nella gior­nata di ieri alla Sala Umberto, dove si erano riu­niti i comi­tati della lista Tsi­pras per discu­tere delle pros­sime mosse. Una discus­sione duris­sima, segnata dall’assenza di Spi­nelli — da dieci giorni riti­rata a casa sua a Parigi, con pochi con­tatti con i ’garanti’ della lista, che pur aven­dole chie­sto di accet­tare il seg­gio hanno con­te­stato la sua rifles­sione soli­ta­ria, «uni­la­te­rale», aveva detto Marco Revelli. E va anche detto che men­tre a Roma dal palco sfi­lava lo «Psico-Tsipras», come titola Huf­fing­ton Post, in tutt’altra atmo­sfera alla festa del quo­ti­dianoRepub­blica, a Napoli, Cur­zio Mal­tese, anche lui eletto (in forza della rinun­cia di Moni Ova­dia), anche lui assente dal dibat­tito romano, già anti­ci­pava la scelta.

Dibat­tito duro. La pla­tea si divide fra chi chiede a Spi­nelli di restare a qual­siasi costo, chi — di più, soprat­tutto i gio­vani — «non capi­sce per­ché lei non voglia discu­terne con noi», Luca Spa­don, già por­ta­voce di Link, «inne­scando una disu­ma­niz­za­zione in rap­pre­sen­tanti di par­titi di due ragazzi in prima fila nelle lotte con­tro la pre­ca­rietà e per l’università. Al pros­simo passo dob­biamo arri­varci tutti assieme». «La poli­tica in cui tutto rimane sot­tin­teso è vec­chia poli­tica», spiega Jacopo Argilli. La que­stione gene­ra­zio­nale a metà assem­blea esplode, dal palco i ragazzi attac­cando: «Non si è auto­re­voli solo se si hanno più di 65 anni e una cat­te­dra». Ma non è nean­che un derby giovani-vecchi, negli inter­venti rim­balza il tema del «pren­dersi cura» di una crea­tura poli­tica nascente.

Lei sa «che molti sono delusi: il pro­po­sito espresso all’inizio di non andare al Par­la­mento euro­peo sarebbe disat­teso, e que­sto equi­var­rebbe a una sorta di tra­di­mento. Non sento tut­ta­via di aver tra­dito una pro­messa. I patti si per­fe­zio­nano per volontà di almeno due parti e gli elet­tori il patto non l’hanno accet­tato, accor­dan­domi oltre 78mila pre­fe­renze», e crede anzi con il suo ripen­sa­mento di «pro­teg­gere la lista» dalle «logi­che di parte. Pro­prio le divi­sioni iden­ti­ta­rie che si sono create sul mio nome mi indu­cono a pen­sare che la mia pre­senza a Bru­xel­les garan­ti­rebbe al meglio la voca­zione, che va asso­lu­ta­mente sal­va­guar­data, del pro­getto — inclu­sivo, sopra le parti — che si sta costruendo».
Sono rispo­ste che non rispon­dono alle domande poste dal palco romano, né potrebbe essere diver­sa­mente: Spi­nelli non le ha ascol­tate.

La lista Tsi­pras va avanti, pros­simo appun­ta­mento un’assemblea nazio­nale il 19 luglio. Ma inu­tile nascon­dere che la scelta di Spi­nelli apre pro­blemi almeno quanti vor­rebbe chiu­derne. L’esclusione di Fur­faro non pia­cerà a molti dei ragazzi che hanno ani­mato i comitati.

E quell’allusione a una forza «alter­na­tiva al cen­tro­si­ni­stra» suona come un mes­sag­gio a Sel, che pure scom­met­tendo sulla lista Tsi­pras non ha chiuso con l’idea di un ancora pos­si­bile centrosinistra.

Intanto il costi­tu­zio­na­li­sta Ste­fano Rodotà a Roma bene­dice la lista e chiede di andare avanti sulla strada uni­ta­ria: non divi­dere «l’Altra Europa» dall’«Altra Ita­lia», «rico­struire una cul­tura poli­tica non astratta ma inner­vata nel lavoro sociale. Ma un primo tratto, straor­di­na­rio, è stato fatto. Io, per quello che posso, pro­verò a starci den­tro», annun­cia. «Dob­biamo costruire una coa­li­zione sociale», spiega il giu­ri­sta, e ne snoc­ciola una bozza di pro­gramma: cam­biare l’art.81, ovvero il pareg­gio in bilan­cio in Costi­tu­zione; via l’art.8 della legge Sac­coni, ovvero le dero­ghe ai con­tratti nazio­nali; oppo­si­zione «a una riforma costi­tu­zio­nale che por­terà a una nuova divi­sione fra cit­ta­dini e isti­tu­zioni»; «rico­stru­zione morale» della cul­tura della sini­stra, che è «incom­pa­ti­bile con le intese lar­ghe, strette, corte o qual­siasi esse siano». È lo slan­cio che in molti aspet­ta­vano da mesi. Dal palco arriva anche il sì di Fran­ce­sco Cam­pa­nella, ex M5S, a testi­mo­nianza che la com­pa­gnia si potrebbe allar­gare. Ma la par­tenza è amara.

postilla
Ho già scritto che ho condiviso la scelta di Barbara Spinelli di accettare, forte della massa di preferenze che ha avuto e delle insistenti pressioni da parte di molti, l'impegno di parlamentare europeo. Penso che la scelta del collegio da preferire come rappresentante al Parlamento europeo spettasse esclusivamente a lei, e rientrasse nelle prerogative (e nelle responsabilità) dell'eletto e dei suoi rapporti con gli elettori. Non ritengo che sulla scelta di Spinelli abbia pesato l'appartenenza partitica del subentrante. Per questo giudico fuorviante l'articolo di Preziosi.
Ma il problema c'è, ed è emerso più volte nel corso della campagna elettorale e dopo. E' costituito dalla dissimetria, nel corpo dei candidati e degli elettori della lista, di due condizioni soggettive: quelli appartenenti a comitati, gruppi e associazioni della società civile e quelli iscritti ai due partiti che avevano aderito in quanto tali alla lista.
A mio parere la presenza dei partiti in quanto tali ha provocato vantaggi da un lato ( senza le loro organizzazioni non si sarebbe raccolto il numero di firme necessario raggiungere in ogni regione per poter essere ammessi al confronto elettorale), danni dall'altro (oltretutto mi risulta personalmente che molti potenziali elettori non abbiano votato la lista per pregiudiziali verso l'uno o l'altro partito (o per entrambi). Occorre proseguire il ragionamento sulla questione. A me sembra che tra i requisiti positivi dell'iniziativa sia stata quella di rivolgersi ai cittadini in quanto espressione di azioni che andavano nella direzione proposta dai promotori della lista e chiaramente espressa nei suoi programmi. E penso che per il futuro bisogna pensare a un soggetto politico che non sia una federazione di forze, ma un'unica formazione: dotata di un insieme condiviso di principi, valori, priorità (una ideologia), da un programma, e una organizzazione. Se queste condizioni saranno realizzate si potrà chiedere agli iscritti a PRC e a SEL (e anche di altre formazioni) di aderire utisinguli, senza sventolare nelle manifestazioni della nuova formazione politica le loro bandiere. Hic Rhodus hic salta (e.s.)

La lettera con la quale la promotrice della lista europeista critica italiana ringrazia e spiega perche e come prosegurà la sua battaglia. 7 giugno 2014, con postilla

Cari tutti, cari elettori, cari candidati e garanti della Lista “L’Altra Europa con Tsipras”,

ho molto meditato quel che dovevo fare, in considerazione della domanda sempre più insistente che veniva dagli elettori e da un gran numero di candidati, e ritorno sulle mie decisioni: accetterò l’elezione al Parlamento europeo, dove andrò nel gruppo GUE-Sinistra Europea, ripromettendomi di garantire la fedeltà al primo manifesto della Lista italiana «L’Altra Europa con Tsipras» e ai 10 punti di programma che abbiamo proposto agli elettori. Sin dalla conferenza stampa del 26 maggio avevo lasciato in sospeso la mia decisione: e non solo perché sorpresa dalla quantità di preferenze ma anche in considerazione del fatto che la situazione politico-elettorale stava precipitosamente cambiando.

La linea maestra alla quale intendo attenermi è di operare nel Parlamento europeo – e anche nella comunicazione scritta, come rappresentante degli elettori europei – per una politica di lotta vera all’ideologia dell’austerità e della cosiddetta «precarietà espansiva», alla corruzione e alle minacce mafiose in Italia; per i diritti dei cittadini; per la realizzazione di un'Europa federale dotata di poteri autentici e democratici: quell'Europa che sinora, gestita dai soli governi in un micidiale equilibrio di forze tra potenti e impotenti, è mancata ai suoi compiti. Il Parlamento in cui intendo entrare dovrà, su spinta della nostra Lista e delle pressioni che essa eserciterà in Europa e in Italia, essere costituente. Dovrà lottare accanitamente contro lo svuotamento delle democrazie e delle nostre Costituzioni, a cominciare da quelle italiane e dal vuoto democratico che si è creato in un’Unione che non merita, oggi, il nome che ha.

Mi ha convinto a cambiare opinione anche la lettera di Alexis Tsipras. La domanda che mi rivolge di accettare il risultato delle elezioni è per me decisiva e – ne sono certa – lo sarà per la Lista nel suo complesso. Alle innumerevoli sollecitazioni ricevute dall'interno (garanti, elettori, comitati, candidati) si aggiungono infine sollecitazioni dall’esterno (deputati del GUE e non solo).

So che molti sono delusi: il proposito espresso all’inizio di non andare al Parlamento europeo sarebbe disatteso, e questo equivarrebbe a una sorta di tradimento. Non sento tuttavia di aver tradito una promessa. I patti si perfezionano per volontà di almeno due parti e gli elettori il patto non l'hanno accettato, accordandomi oltre 78.000 preferenze. Mi sono resa conto, il giorno in cui abbiamo conosciuto i risultati, che sono veramente molti coloro che mi hanno scelto neppure sapendo quel che avevo annunciato: anche loro si sentirebbero traditi se non tenessi conto della loro volontà. Inoltre, come garante della Lista, ho il dovere di proteggerla: le logiche di parte non possono comprometterne la natura originaria. Proprio le divisioni identitarie che si sono create sul mio nome mi inducono a pensare che la mia presenza a Bruxelles garantirebbe al meglio la vocazione, che va assolutamente salvaguardata, del progetto – inclusivo, sopra le parti – che si sta costruendo.

Per quanto riguarda la scelta che sono chiamata ufficialmente a compiere, annuncio che essa sarà in favore del Collegio Centro: è il mio collegio naturale, la mia città è Roma. È qui che ho ricevuto il maggior numero di voti. A Sud non ero capolista ma seconda dopo Ermanno Rea, e da molti verrei percepita come «paracadutata» dall’alto. Mi assumo l’intera responsabilità di quest’opzione, che mi pare la più giusta, nella piena consapevolezza dei prezzi e dei sacrifici che essa comporterà.

La mia più grande gratitudine va a Marco Furfaro [che le sarebbe subentrato per la circoscrizione Centro - n.d.r.] per la generosità che ha messo nella campagna e che spero dedicherà ancora all’avventura Tsipras. Sono certa che gli elettori delle più diverse tendenze, battutisi con forza per la nostra Lista, approveranno e comunque accetteranno una scelta che è stata molto sofferta, visti i costi che saranno sopportati dal candidato del Centro designato come il primo dei non eletti. Conto non solo sulla loro fedeltà alla Lista ma sulla loro partecipazione immutata al progetto iniziale, che ha come prospettiva un’aggregazione di forze (di sinistra, di delusi dalla presente democrazia rappresentativa, di emigrati nell’astensione) alternativa all’odierno centro-sinistra e alle grandi intese.

Augurando a tutti voi e noi il proseguimento di una battaglia unitaria e inclusiva al massimo, vi saluto con grande affetto e gratitudine,

Barbara Spinelli

postilla.
Ero tra quelli che le hanno chiesto di sciogliere la sua riserva, di rinunciare a ritornare alla sua vita precedente e di assumere il suo impegno di parlamentare europeo. Ora le ho risposto così:
«Sono contento per noi e per l’Europa. Hai fatto la cosa giusta. Spero che questo tuo nuovo impegno non faccia perdere ai tuoi lettori i tuoi interventi così lucidi e chiari. Il cambiamento necessario deve cominciare dalle menti, e tu hai il dono di aiutare a comprendere." Trovate i suoi numerosi scritti su eddyburg digitando "Barbara Spinelli" nella finestra in alto, accanto alla piccola lente d'ingrandimento
Certi scritti è meglio pubblicarli tardi che mai. Questo, per esempio, che ci ricorda perché dobbiamo cambiare: nella nostra città, in Europa, nel mondo.

www.cadoinpiedi, 24 gennaio 2014
“Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto. La sfida del futuro? Non limitarci a osservare il corso degli eventi ed eliminare le istituzioni che perseguono il “tutto per noi stessi, niente per gli altri”.

Noam Chomsky, il maggior linguista vivente, l’autore del capolavoro Il linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri, 2010), a 86 anni ha mantenuto una lucidità di pensiero che non lascia spazio a dubbi e illusioni. “Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto Chomsky.

LA DEMOCRAZIA E’ SCOMPARSA

Chomsky ha ricordato che “secondo uno studio della Oxfam, l’Ong umanitaria britannica, 85 persone nel mondo hanno la ricchezza posseduta da 3,5 miliardi di individui. Questo era l’obiettivo del neoliberismo” di cui parla come di “un grande attacco alle popolazioni mondiali, il più grande da 40 anni a questa parte”.

In Italia “la democrazia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori” spiega il linguista di Filadelfia, che vive vicino a Boston ed è a Roma con la raccolta di testi inediti in Italia su oltre 40 anni di lotte e pensiero I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie). Sono saggi politici dal 1970-2013 dove i principali accusati dello sfruttamento politico e delle guerre, dal Vietnam alla Serbia e all’Iraq, restano gli Stati Uniti e la società dominata dalle multinazionali.

L’EUROPA E’ AL COLLASSO

In generale “le democrazie europee sono al collasso totale indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere perchè sono decise – sottolinea Chomsky – da banchieri e dirigenti non eletti che stanno seduti a Bruxelles. Questa rotta porta alla distruzione delle democrazie e le conseguenze sono le dittature”. “Mario Draghi – continua – ha detto che il contratto sociale è morto.
Ciò che conta oggi è la quantità di ricchezza riversata nelle tasche dei banchieri per arricchirli. Quello che capita alla gente normale ha valore zero. Questo è accaduto anche negli Stati Uniti ma non in modo così spettacolare come in Europa. Il 70% della popolazione non ha nessun modo di incidere sulle politiche adottate dalle amministrazioni”. E da chi è composto questo 70%? “Da quelli che occupano posizioni inferiori sulla scala del reddito. Quell’1% che sta nella parte superiore ottiene a livello politico ciò che desidera. Questa è la plutocrazia”.

INFORMARSI SOLO SUI BLOG E’ SBAGLIATO

Da sempre punto di riferimento per la sinistra internazionale, Chomsky nei suoi saggi invita a riflettere sulla manipolazione dell’opinione pubblica. Dei new media dice: “Hanno portato ad una maggior vivacità di opinioni rispetto ai media ortodossi” ma un effetto negativo è “la tendenza a sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta perchè quasi automaticamente le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute” ha sottolineato. “Se uno si informa solo sui blog le prospettive saranno molto più ristrette”. Inoltre, la proliferazione di informazioni ha avuto, secondo il linguista, come “contraltare la riduzione del livello dei reportage”.

GLI INTELLETTUALI HANNO LE LORO COLPE

Tra i pensatori più autorevoli del nostro tempo, Chomsky non risparmia critiche agli intellettuali che, spiega, “hanno tutte le responsabilità degli altri esseri umani: cercare di incentivare il bene comune e del resto del mondo”. La sfida del futuro è “non limitarci a osservare il corso degli eventi” e per farlo, conclude, “bisogna eliminare la struttura di quelle istituzioni che perseguono il ‘tutto per noi stessi, niente per gli altri’, non colpire il singolo perchè verrà semplicemente buttato fuori dal sistema”.

«La Nuova Venezia, 6 giugno 2014

Vent'anni fa la reazione a Tangentopoli fu forte e generò, fra l'altro, una buona legge sugli appalti, la legge Merloni del 1994, che restituiva trasparenza ai lavori pubblici e all'edilizia, fonti di corruzione diffusa, anche a livello locale.

Durò poco purtroppo. Il ’94 segna sul calendario la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche e l'inizio di continue modifiche peggiorative, fino allo stravolgimento, di quelle norme fondamentali accusate di essere “troppo rigide”, ovviamente. Dopo anni e anni di assuefazione alle “cricche”, quale sarà la reazione oggi a scandali di proporzioni gigantesche come quelli di Expo 2015 e del Mose?
Credo che sia del tutto frustrante gettare la croce addosso alla “casta” e/o alla “burocrazia” e che sia invece fondamentale dedicare ogni tempo parlamentare utile a un pacchetto di misure - repressive ma ancor più preventive - contro la corruzione e alla riforma della giustizia. Sulle quali si gioca, assai più che su una discutibilissima e sempre più impantanata “riforma” del Senato, la credibilità, “la faccia” del governo guidato da Matteo Renzi. E non è per niente facile.
Lo scasso della legge Merloni sugli appalti e quello di talune norme essenziali sui processi è stato compiuto o tentato da ministri, a cominciare da Alfano, presenti nell'attuale governo. Mentre la maggioranza “per le riforme” è sostenuta da Berlusconi che porta talune gravissime responsabilità: la legge-obiettivo del 2001 che sintetizzava il peggio del Mose rendendo “normali” tutti gli aggiramenti della concorrenza fra le imprese (“protette” e, di fatto, oligopolistiche) ed estendendo il manto di una onnipotente Protezione Civile. Dopo i grandi appalti assegnati in forma “discrezionale”, pure quelli fino a 500mila euro furono espletati “a trattativa semplificata”, senza una vera gara pubblica, favorendo il diffondersi della corruzione a livello locale. Tanto più che il racket, in cerca di occasioni per “ripulire” i grandi profitti criminali, era risalito al Nord e si infilava nella fase attuativa delle opere pubbliche, nei subappalti. Nel solo Veneto esse valevano nel 2009 ben 7,3 miliardi. Nel 2011 l'inascoltata Autorità di vigilanza sui pubblici contratti (Anpc) denunciò che, in tutta Italia, il 28 per cento degli appalti (per 28 miliardi di euro) era stato assegnato così.
Poco prima che esplodesse la “bomba” di Expo 2015, il ministro Maurizio Lupi ha proposto, significativamente, di far rientrare quella Autorità all'interno del suo Ministero delle Infrastrutture. Invece abbiamo più che mai bisogno di Autorità “terze”, neutrali, attrezzate, che prevengano e svelino quella selva di intrallazzi, di tangenti pagate a esponenti di ogni partito, di sovraccosti (del 40 per cento) scaricati sui soliti contribuenti. Matteo Renzi ha preso di petto spesso le Soprintendenze responsabili, a suo avviso, di bloccare questo o quel lavoro, ha attaccato in blocco la burocrazia all'insegna della “semplificazione”, dello “Sblocca-Italia”.
Ma i controlli strategici, preventivi, degli organismi di tutela devono esserci. Eccome. L'ultimo Rapporto dell’Unione europea sulla corruzione reclama misure molto più incisive della legge Severino del 2012: rendere meno brevi le prescrizioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, colpire l'autoriciclaggio e altro ancora. Secondo “Trasparency International”, i processi estinti per prescrizione sono da noi sul 10-11 per cento contro lo 0,1-2 per cento appena della Ue. Prescrizione breve e giustizia lenta lasciano impuniti tanti amministratori pubblici, politici, imprenditori delinquenti e incoraggiano altri a rubare. Non a caso dal Mose emergono anche nomi già noti alle cronache giudiziarie. Su questi “buchi neri” si deve concentrare l'azione del governo Renzi. Questi sì che allontanano gli investitori stranieri dall'Italia. E non si chiedano miracoli al pur bravo Raffaele Cantone. Ci vogliono norme chiare, mezzi adeguati, uomini preparati e volontà politica di uscire davvero da questa mortifera palude.

Adesso comprendiamo meglio perché chi comanda vuole mettere la museruola a chi protesta contro le grandi opere inutili e dannose, e pretende di superare con le deroghe le procedure di garanzia. Ma vedrai che la lezione non verrà compresa da chi decide.

Corriere della sera, 5 giugno 2014
«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta

L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.

C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.

C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?

C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».

E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.

C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.

C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.

E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.

E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».

Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.

L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...

Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!

L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

Alla fine, sarà il Consiglio europeo o il neo-eletto Parlamento a decidere sul prossimo presidente della Commissione? Con un ruolo di co-decisione del Parlamento, anche nell’Unione si affermerebbe in modo più corretto il circuito vitale proprio delle democrazie: voto, parlamento, governo.

Lavoce.info, 4 giugno 2014 (m.p.r.)

Il Parlamento e la scelta del Presidente della Commissione.La campagna elettorale ha visto, come sappiamo, più candidati alla presidenza della Commissione, designati dai principali partiti al livello europeo. Per la prima volta in trentacinque anni l’elettore è stato invitato a scegliere non solo tra partiti, ma tra candidati non nazionali e tra programmi. E tutti i candidati hanno dichiarato che il nuovo Parlamentoeletto avrebbe preteso di indicare il candidato alla presidenza formando, se necessario, una maggioranza anche trasversale tra i diversi gruppi politici.

Si trattava e si tratta di una pretesa che ha indubbiamente un aggancio nel Trattato di Lisbona, ove si stabilisce che il presidente della Commissione sia designato tenendo conto dell’esito elettorale. Ma nel Trattato la proposta è pur sempre affidata al Consiglio europeo, il quale sinora ha esercitato un ruolo preponderante, che il Parlamento europeo si limitava poi a ratificare con il suo voto. Lisbona non ha modificato radicalmente questa procedura. Vi è dunque un margine di ambiguità nel ruolo rispettivo del Consiglio e del Parlamento, un margine che il Parlamento intende utilizzare a proprio vantaggio, mentre il Consiglio tende naturalmente a conservare la preminenza.
Poiché tra i due partiti maggiori, i popolari hanno ottenuto un’esigua maggioranza relativa rispetto ai socialisti, in base alle intese pregresse il Parlamento sembra incline a votare il candidato Jean-Claude Juncker. Angela Merkel non ha perso occasione nei mesi scorsi per stigmatizzare le pretese di Strasburgo, ma ora ha dichiarato la disponibilità a votare il lussemburghese: una mossa intelligente, perché in tal modo potrebbe accreditarsi la vittoria di Juncker. La forza politica dell’impostazione della campagna elettorale dei partiti europei si è imposta persino a livello del governo tedesco. La radicale opposizione di David Cameron potrebbe non essere sufficiente a sbarrare la strada a Juncker, perché il potere di veto in questo caso è caduto. Bello sarebbe che il governo italiano dichiarasse sin d’ora l’intento di votare per quel candidato che ottenga la maggioranza nel Parlamento Europeo.
Una aspirazione giustificata? Tra gli osservatori, anche filoeuropei, c’è chi si scandalizza per la pretesa del Parlamento. Ma vi è anche chi, come Jürgen Habermas, ha preso posizione a favore di Strasburgo. C’è chi ha osservato che così si trasformerebbe l’Unione in una repubblica parlamentare tradizionale. Ma chi afferma questo sembra dimenticare che una “seconda Camera”, che rappresenta gli Stati, entro l’Unione già c’è ed è costituita appunto dai due Consigli, europeo e dei ministri. Come in ogni struttura federale, una Camera rappresenta il popolo (i cittadini europei), l’altra gli Stati.
Certo, la procedura dei Trattati si presta ad ambiguità e presa alla lettera favorisce la seconda e non la prima. Ma, dopo anni di quasi esclusiva attività del Consiglio, non certo coronata da successi, si sta facendo strada l’esigenza di democratizzare le istituzioni europee. Non si tratterebbe di “larghe intese” nell’accezione nazionale se popolari e socialisti votassero insieme per il presidente della Commissione, perché la più cruciale linea divisoria è quella tra filoeuropei e antieuropei e la maggioranza del Parlamento neoeletto è schierata sul primo fronte. D’altra parte, non va dimenticato che la storia ha conosciuto importantissimi precedenti di istituzioni che si sono radicate stabilmente solo dopo aver consolidato il proprio ruolo nei confronti delle istituzioni coeve. E l’Unione è indubbiamente una struttura istituzionale tuttora in via di formazione.
Il peso del Parlamento europeo è cresciuto in questi anni, ma i Trattati tuttora lo escludono dalle decisioni relative alle proprie risorse, alla programmazione pluriennale, alla fiscalità, alla politica sociale, all’armonizzazione legislativa, alla sicurezza, insomma alle materie più importanti. Con l’esercizio da parte del Parlamento europeo di un ruolo rafforzato di codecisione con il Consiglio nella scelta del Presidente della Commissione, anche a costo di uno scontro politico-istituzionale con lo stesso Consiglio europeo, il circuito vitale proprio delle democrazie – voto, parlamento, governo – s’instaurerebbe all’interno dell’Unione in modo finalmente più corretto.

Berlusconi invitava a non pagare le tasse, il suo emulo a non rispettare le leggi. Scrive ai sindaci: non vi fate frenare da pretese di tutela, via lacci e laccioli, avanzino ruspe e cemento. Tutti d'accordo? Chi tace acconsente, poi piangerete per le conseguenze. Il manifesto, 3 giugno 2004

Dal senato ai cantieri, è tutta «L’ottimismo è il pro­fumo della vita», ripe­teva anni fa Tonino Guerra in un tor­men­tone pub­bli­ci­ta­rio (com­mis­sio­nato, guarda caso, da quell’Oscar Fari­netti desti­nato a diven­tare uomo sim­bolo del ren­zi­smo). E oggi, seconda set­ti­mana dell’era post 40,8%, di otti­mi­smo se ne annusa parec­chio ai ver­tici della poli­tica. Il pre­si­dente Napo­li­tano infila un ral­le­gra­mento die­tro una feli­ci­ta­zione. Dopo essersi com­pia­ciuto per l’esito elet­to­rale, ieri ha testi­mo­niato di aver scorto ai bordi della parata del 2 giu­gno «una folla che non avevo mai visto, una grande sere­nità, un popolo sor­ri­dente e fidu­cioso». Si trat­tava di «un popolo in cui si è raf­for­zato e si raf­forza il sen­ti­mento nazio­nale». Merito anche que­sto delle elezioni?

Mat­teo Renzi, tra due ali di folla, ha appro­fit­tato della festa della Repub­blica per dif­fon­dere la sua let­tera ai sin­daci d’Italia: «Caro sin­daco, l’Italia riparte. I segnali di fidu­cia tut­ta­via, non bastano. Pos­siamo e dob­biamo fare di più». La richie­sta ai primi cit­ta­dini — «sono stato sin­daco anche io» — è di segna­lare a palazzo Chigi, se non diret­ta­mente al pre­si­dente del Con­si­glio (l’indirizzo essendo matteo@​governo.​it), «una caserma bloc­cata, un immo­bile abban­do­nato, un can­tiere fermo, un pro­ce­di­mento ammi­ni­stra­tivo da acce­le­rare». Entro il 15 giu­gno, così che il governo possa prov­ve­dere con il pac­chetto «Sblocca Ita­lia». Segue esem­pio dei «bloc­chi» che si intende for­zare: «La man­canza di un parere, un diniego incom­pren­si­bile di una sovrin­ten­denza, le lun­gag­gini pro­ce­du­rali». Dun­que non si parla di risorse, ma di pro­ce­dure. E non siamo lon­ta­nis­simi da quei «piani» ber­lu­sco­niani che pro­prio auto­riz­za­zioni, vin­coli e con­trolli pun­ta­vano a rimuo­vere. Solo che sta­volta non si tratta più delle pic­cole opere pri­vate, ma delle grandi e pub­bli­che. «Caro sin­daco (e non più «caro col­lega» come nella pre­ce­dente let­tera di marzo, ndr), nes­suna riforma sarà cre­di­bile se non diamo per primi noi il segnale che la musica è cam­biata davvero».

«Riforma», per lo più coniu­gata al plu­rale, è parola che sotto il nuovo governo fini­sce col com­pren­dere tutto: dalle grandi stra­te­gie di poli­tica eco­no­mica ita­liana ed euro­pea ai pic­coli sconti fiscali, dall’asta delle auto blu alla riscrit­tura di 45 arti­coli della Costi­tu­zione, dalla nuova legge elet­to­rale alle annun­ciate novità per la pub­blica ammi­ni­stra­zione. Ma le «riforme» per eccel­lenza sono quella costi­tu­zio­nale e quella elet­to­rale. Le uni­che due per le quali ci sia una sca­denza: «Entro l’estate». È vero, l’ultimatum è stato più volte spo­stato. E non si tratta di pas­saggi deci­sivi: la legge costi­tu­zio­nale è solo alla prima let­tura su quat­tro, la legge elet­to­rale alla seconda ma di certo dovrà tor­nare al senato. Le soglie sot­to­scritte da Renzi e Ber­lu­sconi due mesi fa, e da Renzi difese con­tro tutte le cri­ti­che (risale ad allora, e alla rispo­sta a un appello pub­bli­cato su que­ste pagine, l’invenzione del ter­mine «pro­fes­so­roni»), non vanno più bene. Non per­ché si siano fatti strada i dubbi dei costi­tu­zio­na­li­sti (ripe­tuti ieri da Rodotà, Car­las­sare, Azza­riti, Zagre­bel­sky alla mani­fe­sta­zione di Libertà e Giu­sti­zia a Modena) che vedono nell’Italicum la replica del Por­cel­lum. Ma per­ché i risul­tati delle euro­pee hanno rime­sco­lato le con­ve­nienze. Dun­que si fa strada l’innalzamento della soglia per la vit­to­ria al primo turno (dal 37,5% a oltre il 40%) e il livel­la­mento di tutte le altre soglie al 4% come sug­ge­ri­sce da tempo anche Roberto D’Alimonte, primo ispi­ra­tore dell’Italicum. Una legge, cioè, dise­gnata smac­ca­ta­mente sulle indi­ca­zioni dall’ultimo test elet­to­rale; quando pro­prio la recente sor­presa se non il rispetto delle forme dovreb­bero sug­ge­rire pru­denza. Quanto alla riforma costi­tu­zio­nale, che viene prima, pro­prio que­sta per Renzi dovrebbe essere la «set­ti­mana deci­siva». Quella cioè in cui si comin­ce­ranno a votare gli emen­da­menti in com­mis­sione al senato. La rela­trice Finoc­chiaro pre­sen­terà una pro­po­sta di media­zione sulla com­po­si­zione della nuova camera alta. Il modello è l’elezione indi­retta del senato fran­cese, ma l’elettorato pas­sivo qui da noi sarebbe limi­tato ai con­si­glieri comu­nali e regio­nali (in Fran­cia è uni­ver­sale). Più che i limiti ogget­tivi, però, saranno le intese poli­ti­che a segnare il destino del dise­gno di legge gover­na­tivo. Se Ber­lu­sconi, come pare, deci­derà di restare nel patto, Renzi ha ragione di essere ottimista.

«Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro - senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico».

CNS ecologia politica, n.4, giugno 2014

L’affermazione delle destre xenofobe e antieuropee nelle recenti elezioni europee non era inaspettata, ma ha superato le previsioni e ha coinvolto anche paesi della “vecchia” Europa come la Francia e la Gran Bretagna , e in parte l’Italia. Questo “xunami” politico è frutto della grave crisi sociale ed economica, che ha investito l’Europa negli ultimi 10-15 anni. Ma è frutto anche delle politiche di austerità con cui i governi hanno affrontato la crisi, scaricandola sui più deboli e aprendo così la strada alle forze politiche pronte a strumentalizzare il disagio economico e sociale delle classi colpite dalla crisi e dalle politiche di austerità – quella parte maggioritaria di popolazione impoverita e priva di futuro. La crisi e l’austerità hanno infatti creato una divaricazione abissale tra “ricchi” e “poveri”, usata da alcune forze politiche per “convincere” i più poveri a sostenere gli interessi dei più ricchi.

Questo breve resoconto dei risultati i elettorali e delle loro cause coglie bene, mi pare, la traiettoria da correggere, per evitare altri danni. Ma per farlo, occorre avere uno sguardo lungo capace di esprimere un nuovo orizzonte, che vada oltre il sogno di Ventotene e risponda alle aspettative di oggi, che sono assai diverse. Il sogno di allora era la pace in Europa, dopo secoli di guerre, la carneficina delle due guerre mondiali del Novecento e lo stermino degli ebrei nei campi di concentramento. Il sogno di oggi è un’Europa accogliente, dove la diversità è fonte di arricchimento reciproco, non una minaccia; un’Europa capace di una crescita sociale oltre che economica, che assicuri un buona qualità della vita; un’Europa dove non si muoia più né di lavoro né di inquinamento; un’Europa dove le persone contano e possono decidere della loro vita partecipando alle scelte che le riguardano.

Senza un orizzonte che dia una speranza di futuro – senza una nuova Ventotene -, sarà difficile mobilitare gli europei su obiettivi importanti quali un New Deal europeo per l’occupazione o la ristrutturazione del debito pubblico. Nell’ultimo numero di questa rivista, avevamo pubblicato un articolo/manifesto sui beni comuni e le comunità (Avallone, Parascandolo, Torre, Ricoveri), un tema che è oggi al centro delle lotte e dell’analisi sociale in tutto il mondo. Il paradigma dei beni comuni e delle comunità esprime un orizzonte alternativo e una speranza di futuro per uscire dalla crisi del sistema dominante, quello della società dei consumi di massa e dell’egemonia politica e culturale dell’Occidente. Forse questo paradigma potrebbe essere utile per avviare il discorso su un’altra Europa, capace di rispondere alle istanze delle popolazioni impoverite e di restituire all’Europa un ruolo positivo nei confronti di tutti i Sud del mondo.

«Alle spalle dei movimenti per i beni comuni comincia ad affermarsi l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e di senso che attraversa la nostra civiltà».

Left, 31 maggio 2014

Non c’è angolo del nostro paese in cui non sia attivo un comitato, un gruppo di cittadini, una associazione di volontariato e che non abbia issato la bandiera dei beni comuni. Giusto tre anni fa (referendum dell’11 giugno 2011, 26 milioni al voto) fu mobilitazione generale per l’“acqua bene comune”. Poi vennero gli studenti e i ricercatori universitari che si arrampicarono sulla Torre di Pisa, sui tetti delle università e dei musei al grido “cultura bene comune” per rivendicare l’accesso ai saperi, ai codici informatici, a internet. Persino un grande sindacato di lavoratori dipendenti, la Fiom, usò l’eretico slogan “Lavoro bene comune”. Da sempre i movimenti ambientalisti tentano di praticare il concetto caro ai giuristi come Maddalena e Rodotà, agli urbanisti come Salzano e Magnaghi, agli storici come Settis e Bevilacqua secondo cui il suolo, il paesaggio, le città, il “territorio” sono da considerarsi proprietà collettive.

Teatri, ex caserme, beni demaniali abbandonati sono diventati simbolo della inettitudine tanto degli apparati statali, quanto dell’imprenditoria privata di prendersi cura del patrimonio culturale. Medici, epidemiologi, psicanalisti ci spiegano come la salute dipenda da condizioni socio-ambientali che determinano la qualità generale della vita. Sempre più spesso contadini e consumatori hanno stretto alleanze creative (mercatini biologici, gruppi di acquisto solidali, orti urbani) nel tentativo di controllare le filiere produttive del cibo. Incominciano a diffondersi esperienze di cooperative che si sostituiscono a gestioni fallimentari di aziende private anche in settori industriali. La mutualità viene riscoperta nella diffusione del nuovo welfare di prossimità autogestito. Più recentemente, dopo la grande truffa della crisi del debito messa in scena dalle banche, sono iniziate campagne popolari per chiedere alle amministrazioni pubbliche un audit dei loro debiti e per mettere sotto controllo pubblico le istituzioni finanziarie di interesse generale a cominciare dalla Cassa Depositi e Prestiti. Anche il denaro, così come ogni altro strumento finanziario, infatti, è un bene comune costitutivo della sovranità popolare.

Facile comprendere la ragione della forza persuasiva che è alla base di questi variegati movimenti: il disastroso fallimento delle privatizzazioni (un colossale processo di espropriazione in atto non solo in Italia); dalle banche ai treni, dai beni demaniali alla telefonia, dai servizi pubblici locali ai fondi pensioni assicurativi. La grande ubriacatura neoliberista - il privato è bello e arricchisce tutti - si è finalmente esaurita. Persino negli ambienti accademici sono sempre più frequenti i casi di pentimento e ripensamento. Grande merito va agli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, che con i suoi studi sulle common pool resources ha dimostrato che le gestioni comunitarie di alcuni beni naturali consentono una loro più lunga preservazione e una più equa distribuzione degli usufrutti. Storici come David Harvey hanno dimostrato che la vera “tragedia dei beni comuni”, all’inizio della rivoluzione industriale, è stata la loro recinzione (proprietà esclusiva) e la distruzione delle economie di sussistenza. Esattamente ciò che sta ora accadendo in Africa con il fenomeno dell’accaparramento delle terre fertili (land grabbing) in Cina e in India con l’espulsione forzata dalle campagne di milioni di contadini.

Insomma, alle spalle dei movimenti per i beni comuni non vi sono solo micro buone pratiche di cittadini virtuosi, asceti francescani e fricchettoni new age, ma comincia ad affermarsi un pensiero che ha l’ambizione di dare una risposta all’altezza della crisi sistemica, strutturale, di valori e persino di senso che attraversa la nostra declinante civiltà. “I beni comuni – ha scritto David Bollier, uno dei teorici di punta del Commons Movement – sono un paradigma socio-economico-politico-culturale, un modo di vivere il mondo”. Un modo di soddisfare i bisogni quotidiani creando forme di gestione partecipate che generano legami sociali solidali, fiduciari, cooperativi; sottraendo alla disponibilità del mercato quei beni e i servizi (res extra commercium) che la collettività considera indispensabili e funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali delle persone, al buon vivere di ciascuno e di tutti (res communes omnia). I beni comuni costituiscono quel tessuto primario che consente la rigenerazione della vita: the life’s support system, direbbero gli ecologi.

“I beni comuni - scrive Carlo Donolo - vanno presi sul serio”, non solo perché “si nascondono un po’ dovunque”, ma perché “produttori di comunalità”. Si potrebbe dire molto semplicemente che i beni comuni sono un repertorio di modalità di socializzazione della ricchezza.

Di fronte alla sua diffusione, diventa inevitabile la domanda se attorno al concetto di beni comuni non possa costituirsi una vasta comunità politica. Se i beni comuni prospettano un ordine sociale, economico, giuridico e persino simbolico decisamente alternativo a quello esistente, è allora plausibile attendersi una loro irruzione sulla scena politica. Già ci sono stati tentativi – invero alquanto maldestri – di rinchiudere i movimenti dei beni comuni in un quadro organizzativo di tipo partitico tradizionale. Ricordo la nascita di Alba (Alleanza per il lavoro, beni comuni e ambiente) e ora la stessa Lista Tsipras che intendono, almeno in parte, richiamarsi alla cittadinanza attiva. Anche il Movimento di Grillo, nella misura in cui afferma di voler essere un megafono delle proteste, si presenta come naturale espressione dei movimenti. Lo stesso Pd di Renzi è nato sotto lo slogan “L’Italia bene comune”. Ma il processo di presa di coscienza politica dei movimenti per i beni comuni non si presenta così lineare e la loro inclusione nei sistemi politici della rappresentanza non è affatto scontata.

Per loro natura i movimenti per i beni comuni sono fortemente territorializzati, nemici di qualsiasi forma di gestione centralizzata, gerarchica e patriarcale del potere. Il loro ideale – come dicono i latinoamericani – è una società che si sappia auto-organizzare dal basso, de bajo. Per intenderci, i loro riferimenti sono le “giunte del buongoverno” zapatiste nei territori liberati del Chiapas o le comunità agricole brasiliane dei Sem Tera o le Transition Tows del nord d’Europa. La gestione condivisa dei beni comuni genera capacitazione (empowerment), forma cittadinanza attiva, corresponsabilizza, abbassa e orizzontalizza il potere, lo rende permeabile e diffuso, inclusivo e non discriminante delle donne. Il processo di riconoscimento, rivendicazione e gestione comunitaria dei beni comuni mira ad una democrazia sostanziale e progressiva.

Un incontro tra la politica e i movimenti per i beni comuni potrà avvenire quindi solo se e quando cambierà il contesto di riferimento – il dominio della ragione economica mercantile - dentro cui si è attualmente impantanata la tradizionale azione della politica rappresentativa. Nel frattempo dovremmo attenderci una loro presenza sempre più numerosa e inaspettata nelle elezioni locali dei comuni, attraverso la formazione delle liste locali di cittadinanza. Da questo livello basico potranno sorgere collegamenti e confederazioni delle autonomie. Una rete dei Comuni per i beni comuni era già stata tentata dall’amministrazione di Napoli. Da tempo agiscono associazioni come la Rete dei comuni virtuosi e la Rete dei comuni solidali. Dalla Val di Susa a Messina la rigenerazione della politica passa dai territori.
«Barbara Spinelli ci ripensa: potrebbe accettare di andare nel parlamento che porta il nome di Altiero. A Roma la lista apre un "processo comune", e il leader Tsipras chiede di dire no a presidenti non indicati dagli elettori».

Il manifesto, 1 giugno 2014, con postilla

«E poi che fac­ciamo?» era la domanda più fre­quente in cam­pa­gna elet­to­rale, giura Mas­simo Torelli, uno degli uomini-macchina della lista Tsi­pras. E così ieri, dopo il risul­tato acciuf­fato per un sof­fio (il 4,03 per cento ovvero 1.108.457 voti) i 73 can­di­dati si sono riu­niti a Roma a porte chiuse per abboz­zare una prima rispo­sta. Cia­scuno, stra­vo­tato o poco votato che sia stato, con il suo teso­retto di voti deci­sivi e indi­spen­sa­bili, visto che l’asticella è stata supe­rata per meno di 8mila schede. Dibat­tito fitto, inter­ven­gono pra­ti­ca­mente tutti sull’onda dell’entusiasmo di una cam­pa­gna elet­to­rale ine­dita, la sini­stra ita­liana tutta insieme (o quasi) con la cit­ta­di­nanza attiva e alcuni intel­let­tuali. «Erano anni che aspet­tavo di farmi que­sta chiac­chie­rata tutti insieme», attacca mezzo com­mosso il romano San­dro Medici. Tema dun­que come tra­sfor­mare del car­tello elet­to­rale in una ’cosa’ comune, se non già in una ’casa’. Per ora la defi­ni­zione più in voga è «un pro­cesso». «Abbiamo messo insieme le migliori intel­li­genze del paese, ma adesso apriamo le porte della nostra orga­niz­za­zione» (Guido Viale).

Ma è una scelta deli­cata per i par­titi che fanno parte della com­pa­gnia. In que­ste ore Sel affronta una discus­sione interna che esclude l’adesione a una «costi­tuente» di sini­stra, almeno per ora. Dall’altra parte Fabio Amato, Prc, invece spinge per «un sog­getto poli­tico alter­na­tivo al cen­tro­si­ni­stra e alle lar­ghe intese» (Paolo Fer­rero, il suo segre­ta­rio, pro­pone «una Syriza ita­liana» già «in vista delle ele­zioni»). Raf­faella Bolini (Arci) chiede invece «un pro­cesso che vada avanti in maniera natu­rale e oriz­zon­tale», che intanto parta dal fatto che i tre eletti a Stra­sburgo saranno «eletti della lista, non dei par­titi o delle cul­ture di provenienza».

Ma intorno pro­prio a que­sti tre nomi gira buona parte del futuro della scom­messa. Uno degli eletti è scat­tato nel col­le­gio nord-ovest, dove il capo­li­sta Moni Ova­dia ha già annun­ciato che rinun­cerà a favore del gior­na­li­sta Cur­zio Mal­tese (che è già al lavoro e già imma­gina un gior­nale online della lista). Gli altri due sono scat­tati al cen­tro e al sud, capo­li­sta Bar­bara Spi­nelli, che però dall’inizio — per­sino prima della com­po­si­zione delle liste — ha annunciato,la sua inten­zione di non sedere nell’europarlamento. Al suo posto suben­tre­reb­bero due gio­vani com­bat­tenti, già cam­pioni di pre­fe­renze: Marco Fur­faro (classe 1980) di Sel, e Eleo­nora Forenza (classe 1976), Prc. Quindi per una for­tu­nata casua­lità la «terna» — «la troika», è la bat­tuta che cir­cola — sarebbe com­po­sta da un nome della società civile e da uno per cia­scuno dei due par­titi ade­renti alla lista.

La novità è che Bar­bara Spi­nelli ora potrebbe ripen­sarci e accet­tare di sedere nell’europarlamento. In un’intervista pub­bli­cata oggi su quo­ti­diano greco Avgy, vicino a Syriza, spiega all’intervistatore Argi­ris Pana­go­pou­los, a sua volta can­di­dato nella lista ita­liana: «Ancora non ho deciso, ricevo pres­sioni dai molti elet­tori, ho ancora dei dubbi. Di sicuro daremo bat­ta­glia a tutti i livelli a fianco di Tsi­pras nella Sini­stra euro­pea». Nodo deli­cato, peg­gio se affron­tato alla fine di una cam­pa­gna elet­to­rale in cui si è soste­nuto il con­tra­rio, non senza qual­che dif­fi­coltà. Nelle scorse set­ti­mane Tsi­pras ha chie­sto a Spi­nelli di restare in par­la­mento. E se ne capi­sce il motivo: la figlia di Altiero Spi­nelli è un valore aggiunto per le file della sini­stra euro­pea, e per Tsi­pras in que­sti giorni già impe­gnato a tes­sere la tela delle rela­zioni con le altre forze euro­par­la­men­tari. A Altiero è dedi­cata la monu­men­tale ala prin­ci­pale del palazzo di Bru­xel­les. L’elezione di Bar­bara ha già sca­te­nato la curio­sità dei media e dei par­la­men­tari non ita­liani. C’è chi le offre un ruolo di pre­sti­gio. Per que­sto il comi­tato dei garanti della lista «le ha chie­sto di accet­tare l’incarico», spiega Viale.

E però que­sto ’cam­bio di verso’, fatto ora, fini­rebbe per met­tere a rischio il deli­cato equi­li­bro fra par­titi e cit­ta­di­nanza. Spi­nelli dovrebbe sce­gliere se favo­rire il can­di­dato di Sel o quella del Prc; con le ine­vi­ta­bili riper­cus­sioni nei par­titi, soprat­tutto in Sel, dove l’area scet­tica sul futuro della Tsi­pras (e sbi­lan­ciata verso il dia­logo con Renzi) rice­ve­rebbe un assist pro­prio dalla lista. D’altro canto è molto dif­fi­cile imma­gi­nare un futuro per la lista senza Sel, per lo meno un futuro che non sia la rie­di­zione di film già visti a sini­stra. «La scelta è di Bar­bara», ripe­tono tutti i can­di­dati, a cui «Bar­bara» ha inviato una mail in cui spiega le ragioni di que­sta «ulte­riore rifles­sione». Ma le con­se­guenze andreb­bero ben oltre i nomi degli euro­par­la­men­tari. Il dos­sier è stato affi­dato a socio­logo Marco Revelli, por­ta­voce della lista, la deci­sione arri­verà forse già domani.

Intanto la road map del «pro­cesso» comin­cia a pren­dere forma: la pros­sima set­ti­mana si riu­ni­scono i comi­tati, entro l’estate l’assemblea nazio­nale. Ma la pat­tu­glia ita­liana dovrà andare pre­sto a sedersi sui pro­pri euro­scranni: Tsi­pras sta già dando bat­ta­glia con­tro le lar­ghe intese avver­tendo il par­la­mento di «non appro­vare pre­si­denti che non abbiano par­te­ci­pato alla com­pe­ti­zione elet­to­rale», in caso con­tra­rio «le ele­zioni che diven­te­reb­bero una pan­to­mima». Mar­tedì Nichi Ven­dola volerà a Bru­xel­les per incon­trare Tsi­pras, ma anche l’ex can­di­dato Pse Mar­tin Schultz e i neo­par­la­men­tari verdi.

Postilla
Un problema per chi voglia costituire una nuova formazione politica (che cioè possa realizzare una sintesi tra le molteplici esigenze settoriali e locali che danno anima al variegato arcipelago dei movimenti), tagliando i ponti con le logiche della vecchia partitocrazia. Ls presenza nella lista Tsipras di due partiti ha provocato qualche danno, ma senza di essa non si arebbero raggiunte le firme necessarie per partecipare alle elezioni. Che fare? la discussione e la ricerca sono aperte. Ne parleremo anche su eddyburg.

Il komeinista della rottamazione del Belpaese , dopo aver inseguito e superato D’Alema nel recupero del supremo evasore fiscale, segue le orme di quest'ultimo con rafforzata capacità distruttiva.

Corriere della Sera, 2 giugno 2014, con postilla

La fase due della rottamazione di Matteo Renzi è rivolta a 360 gradi dentro e fuori il Paese. L’Europa, quella attuale, quella che «ci dice tutto di come un pescatore dell’Adriatico deve fare il suo mestiere» è anche quella dei «tecnocrati», che «girano la faccia dall’altra parte quando un bambino muore» nel canale di Sicilia, in quelli che sono anche mari europei, ma evidentemente più per la tipologia delle lenze e le tecniche di pesca, che per i principi morali, quelli «latitano», accusa e insieme ironizza il capo del governo.

Ma accanto a questo tipo di Ue c’è anche una questione interna, con altri due tipi di potere da riformare. Quello politico, la classe che «per anni è stata campione mondiale di alibi, quella che non si è mai presa una responsabilità», quella che il giorno dopo le elezioni «non avevano mai perso». E quello meno appariscente, che in parte era seduto ieri mattina all’Auditorium di Santa Chiara, nel centro storico di Trento, che lo applaudiva, ma che ha avuto un attimo di sussulto quando il premier l’ha messa giù senza perifrasi, perché «dopo le riforme del Senato e della legge elettorale» ci occuperemo anche «della classe dirigente di questo Paese, che per anni ci ha fatto la morale».

Al Festival dell’Economia Renzi arriva in jeans sdruciti, scoloriti, come gli capita sempre più spesso. In prima fila ex ministri come Fabrizio Saccomanni, l’ad di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, un simbolo della sinistra come Franco Marini (in realtà la fila è la settima). L’economista Tito Boeri gli gira una serie lunga di domande, Enrico Mentana sviluppa i temi di Boeri e conduce l’intervista pubblica. Alla fine, proprio Marchionne dirà: «Mi è piaciuto, è l’unica agenda che in questo momento ha l’Italia e anche l’Europa, condivido tutto».

Agenda dice Marchionne, quasi un manifesto dicono in sala, sicuramente c’è un elogio del ruolo migliore della politica, una rivendicazione impostata su parametri a tratti drammatici. Se negli Stati Uniti, in Asia, in Giappone, spiega Renzi, «hanno tutti dato una risposta alla crisi economica, risposte diverse ma efficaci, qui in Europa ancora cerchiamo la formula giusta». Conseguenza: delle raccomandazioni in arrivo dalla Ue «terremo conto, ma non sono il problema, non ho timori», come non è un problema il nome del futuro vertice dell’Unione, piuttosto «la Ue ha bisogno di cambiare linea economica o la politica torna a fare il suo mestiere e riprende il suo potere di indirizzo sulla burocrazia o non ci salviamo».

Una politica diversa a Bruxelles come a Roma. Se lì manca fra gli altri «una politica estera», qui da noi occorre una «rivoluzione pacifica del buon senso», che può significare tante cose, tutte finora difficilissime. Per esempio occorre smetterla di fare calcoli e cominciare a pensare che «il risultato elettorale dimostra che possiamo andare verso due schieramenti, che mettono la residenza al 40%». Occorre cambiare mentalità, che ci sia «uno che abbia responsabilità, il ballottaggio serve a dire questo, a dire chiaramente chi ha vinto e che deve fare delle cose che se non gli riescono, anche per colpe non sue, gli verranno attribuite». Occorre ancora diminuire il numero dei politici, anche con un Senato senza compensi, perché viceversa i posti si moltiplicano, «i politici sono come le ciliege, uno tira l’altro».

Uno schema che ha anche ricadute personali: «Siamo i teorici della rottamazione, un governo di 30enni o 40enni, fra dieci anni dovremo noi essere rottamati, andare a fare un altro lavoro, perché così accade negli altri Paesi».

Se questo è il manifesto dei prossimi anni ci sono anche altri tabù della sinistra da abbattere: dopo i magistrati, dopo la Costituzione che non è la più bella del mondo («lo sapete che per i padri costituenti il bicameralismo perfetto fu un ripiego?»), dopo i sindacati da snobbare, entrano nel mirino le Soprintendenze, mentre annuncia un provvedimento che chiamerà sblocca Italia: anche i custodi del bello del Paese impediscono gli investimenti, bloccano il Paese. Una volta, poco tempo fa, erano uno dei feticci della sinistra. E invece ora «faremo entro luglio un provvedimento che si chiamerà sblocca Italia, chiederemo ai sindaci di dirci tutte le opere bloccate dalla mancanza di concerto, dai vincoli e dai divieti delleSoprintendenze. La regia sarà a Palazzo Chigi, vi abbineremo il massimo dell’open government, trasparenza assoluta, dobbiamo essere più trasparenti degli anglosassoni».

E figuriamoci se in questo schema le polemiche sulla Rai, la minaccia di uno sciopero di fronte ai tagli chiesti dal governo, trovano il capo del governo in posizione di difesa: «Abbiamo dato alla Rai due chance, vendere Rai Way o riorganizzare le sedi regionali, non mi sembra tanto. Se poi uno dei luoghi più politicizzati del Paese, dove ancora c’è chi scambia la carriera con la vicinanza ad un partito, luogo dal quale io voglio stare il più lontano possibile, se vogliono fare lo sciopero lo facciano, è umiliante, poi faremo due conti sulle sedi regionali, siamo l’azionista, a me piace la Rai dei professionisti, con una governance sganciata dalle ansie dei partiti, non una polemica incredibile fatta dal sindacato interno».

L’unico argomento che non si può aggredire è quello del fisco: «La riforma l’ho un po’ bloccata io, è un tema molto complesso. Abbiamo 271 forme di deducibilità, dobbiamo tornare ad essere un Paese come gli altri, dove si pagano le tasse una volta l’anno. Ma ci vorrà del tempo».

postilla
Avevamo già sentito proclamare “via lacci e lacciuoli” ai tempi di Benito Craxi (e di Lucio Libertini). Avevamo già sentito dichiarare dall’ex premier fedifrago Berlusconi, in difesa della proprietà privata degli immobiliaristi grandi e piccoli, che “ciascuno è padrone a casa sua”. Conoscendo l’ideologia di Matteo Renzi non dubitavamo che
giunto al potere, avrebbe proposto, di abolire quelle poche regole che ancora ostacolano la distruzione del Belpaese, come ha fatto a Trento. Ciò che vivamente ci colpisce e ci addolora è che tanti italiani perbene lo applaudiscano. A cominciare da molti di quelli che militano nel suo stesso partito. Ci auguriamo che la resistenza al rottamatore dei patrimoni comuni si consolidi e si accresca.

Nel sessantottesimo compleanno della nostra Repubblica, mentre nuove monarchie ci minacciano, riflettiamo sul simbolo: la ruota dentata, la quercia, l'ulivo, la stella.

Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2014

Oggi è la festa della Repubblica: il due giugno di 68 anni fa i nostri nonni scelsero di non avere più un re. E un anno e mezzo dopo la Costituzione disse una volta per tutte che «la sovranità appartiene al popolo»: cioè ad ognuno di noi, non importa quanto sia piccolo o povero. La nuova Italia repubblicana aveva bisogno di un emblema: quello che oggi vedete sulle vostre pagelle scolastiche e sullo stendardo del Presidente, sulle targhe poste all'ingresso dei musei e sulle fascette delle bottiglie di vino. Esso fu scelto attraverso due successivi concorsi, che selezionarono il disegno dell'artista Paolo Paschetto. E un decreto del primo presidente della Repubblica, stabilì: «L'emblema dello Stato, approvato dall'Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale "Repubblica italiana"».

La stella è il più antico simbolo dell'Italia: i Greci vedevano sorgere dalla parte del nostro paese, al loro occidente, la stella della sera, cioè il pianeta Venere, e chiamavano l'Italia Esperia, cioè la terra del tramonto. E così lo 'stellone' è stato sempre raffigurato sulle figure dell'Italia: e ci dovremmo ricordare che Venere è anche la stella del mattino. Dell'inizio, oltre che della fine.

La ruota dentata d'acciaio è l'ingranaggio di una macchina: e rappresenta il lavoro, su cui la Repubblica è fondata. Perché solo il lavoro ci fa eguali, liberi e forti. Il ramo di quercia significa la forza e la fermezza dello Stato e del popolo italiano: e ci ricorda come dovremmo essere. L'ulivo è simbolo di una Repubblica pacifica, una Repubblica che «ripudia la guerra»: e che speriamo ripudi anche le spese per i bombardieri.

Nei secoli passati gli stemmi e gli emblemi delle nazioni diventavano vere opere d'arte, scolpite e dipinte da grandi artisti: oggi non succede più, e forse il nostro stemma non è proprio bellissimo. Ma sbaglia chi, ciclicamente, lo vorrebbe cambiare: perché si è ormai avverata la profezia del presidente della Costituente, Umberto Terracini, che disse saggiamente: «Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro». E soprattutto perché ancora non ne abbiamo attuato il programma: quando la nostra Repubblica sarà davvero forte e pacifica, davvero fondata sul lavoro, beh, allora magari ne riparleremo.

«

La recente vit­to­ria di Syriza in Gre­cia offre un forte bar­lume di spe­ranza per il futuro della demo­cra­zia eco­no­mica e sociale in Europa. Però, allo stesso tempo, la cre­scita del nazio­na­li­smo di destra, con i suoi sen­ti­menti raz­zi­sti e anti­se­mi­titi, minac­cia gli ideali di un’Europa plu­rale e demo­cra­tica. Quei rac­conti media­tici che rap­pre­sen­tano in maniera scor­retta l’importanza del cre­scente sup­porto elet­to­rale per Syriza come la nascita dell’«estremismo» di sini­stra vanno con­tra­stati dura­mente.

Non vi è alcuna asim­me­tria con­tem­po­ra­nea tra i cosid­detti «estre­mi­smi» di destra e sini­stra. I ten­ta­tivi di smi­nuire le richie­ste di giu­sti­zia eco­no­mica in Gre­cia e Spa­gna (dove Pode­mos ha gua­da­gnato l’8% dei voti) e di eti­chet­tarle come «popu­li­ste», «anti-Europee» o «euro-scettiche», non com­prende la loro ampiezza e impor­tanza. Que­ste vit­to­rie della sini­stra radi­cale non pos­sono essere com­pa­rate con la nascita del Fronte Nazio­nale in Fran­cia, dell’Ukip in Inghil­terra, o con il raf­for­za­mento dei par­titi anti­se­miti in Gre­cia e Unghe­ria o con il popu­li­smo anti-immigranti in Bel­gio e Danimarca.

La cre­scita della destra «euro-scettica» risponde alle poli­ti­che di auste­rità e ai cam­bia­menti demo­gra­fici con delle piat­ta­forme chia­ra­mente raz­zi­ste. Men­tre la cre­scita della sini­stra offre una cri­tica chiara e un’alternativa ben for­mu­lata alle dise­gua­glianze sociali ed eco­no­mi­che pro­dotte dalle poli­ti­che di auste­rità. Per impe­dire che la vio­lenza e la dispe­ra­zione si dif­fon­dano ulte­rior­mente, l’Unione Euro­pea ha biso­gno di nuove alleanze attra­verso i con­fini nazio­nali e di una rior­ga­niz­za­zione delle pro­prie isti­tu­zioni, al fine di rag­giun­gere una più ampia ugua­glianza eco­no­mica.

Si dovrebbe lan­ciare un dibat­tito pub­blico serio per discu­tere il futuro dell’Unione, il ruolo della soli­da­rietà e della giu­sti­zia sociale e il signi­fi­cato dell’idea di Europa. Ma il suc­cesso di un dibat­tito pub­blico demo­cra­tico dipende dalla verità e dalla tra­spa­renza delle rap­pre­sen­ta­zioni media­ti­che dei movi­menti poli­tici e delle loro riven­di­ca­zioni. In que­sto senso, chie­diamo atten­zione per le dif­fe­renze tra le varie forme di oppo­si­zione poli­tica all’austerità, tra chi vuole più egua­glianza e chi vuole più disu­gua­glianza. Solo così è pos­si­bile vedere in maniera più chiara quanto sia dav­vero in gioco il futuro della democrazia.

Etienne Bali­bar, Joanna Bourke, Wendy Brown, Judith Butler, Dru­cilla Cor­nell, Simon Crit­chley, Jodi Dean, Costas Dou­zi­nas, Eric Fas­sin, Engin Isen, Chan­tal Mouffe, Jean-Luc Nancy, Toni Negri, Micael Lowy, San­dro Mez­za­dra, Bruce Rob­bins, Jac­que­line Rose, Eleni Vari­kas, Hay­den White, Sla­voj Zize

«Inter­rom­pere l'espe­rienza lista Tsipras un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, nella produzione cul­tu­rale, nell’elaborazione poli­tica, nella prassi nei movi­menti, il com­pito che ci spetta.».

Ilmanifesto, 31 maggio 2014

Il voto di dome­nica, richiama innan­zi­tutto una let­tura euro­pea che non si pre­sta a giu­dizi sem­pli­fi­cati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Fran­cia si è trat­tato di un vero ter­re­moto; nel con­tempo, pur mar­cando inquie­tanti suc­cessi, le destre anti­eu­ro­pei­ste non tra­vol­gono i rap­porti di forza nel par­la­mento euro­peo, ove aumenta di con­si­stenza l’area di un euro­pei­smo cri­tico da sini­stra attorno a Tsi­pras. I popo­lari, pur restando primi, indie­treg­giano e non poco, la stessa cosa fanno i social­de­mo­cra­tici, sep­pure in misura minore.

Nel con­tempo per la prima volta dal 1979 la per­cen­tuale dei votanti non è scesa, se non di un deci­male, atte­stan­dosi sul 43%. In Ita­lia è invece dimi­nuita for­te­mente, del 7,7%, scen­dendo sotto il 60% per la prima volta in una ele­zione di carat­tere generale.

La strada delle lar­ghe intese sul modello tede­sco con­ti­nua a essere la più pro­ba­bile in quel di Stra­sburgo, anche se le figure di rife­ri­mento pos­sono cam­biare. Né Junc­ker né Schulz escono dalla con­tesa in grande salute ed è pos­si­bile che il ruolo di pre­si­dente della com­mis­sione possa andare ad altri. Mat­teo Renzi pro­getta di chie­dere il posto per qual­cuno dei suoi, in subor­dine di aspi­rare alla carica di mini­stro degli esteri, in sosti­tu­zione della scialba Ash­ton, o di avere il ricco por­ta­fo­glio dell’Agricoltura. Insomma il par­tito di Renzi si pre­para a con­tare di più in Europa, al di là del pros­simo seme­stre ita­liano. Men­tre il duo­po­lio Fran­cia – Ger­ma­nia su cui si era fon­data tutta la costru­zione poli­tica, eco­no­mica e isti­tu­zio­nale euro­pea da Maa­stri­cht in poi è tra­volto dal disa­stro francese.

Que­sti cam­bia­menti e nello stesso tempo il per­du­rare e il con­fer­marsi di vec­chie ten­denze, pro­du­cono un effetto di spiaz­za­mento anche nei giu­dizi di intel­let­tuali da sem­pre attenti alla dimen­sione euro­pea (si parva licet com­po­nere magnis). Ulrich Beck pro­clama la fine dell’austerità. E’ vero che la Mer­kel appare più sola nel con­te­sto euro­peo; soprat­tutto la Bce nella sua immi­nente riu­nione dei primi di giu­gno si appre­sta ad abbas­sare verso lo zero i già bas­sis­simi tassi di inte­resse e di ren­derli nega­tivi per osta­co­lare i depo­siti delle ban­che presso l’istituto di Fran­co­forte che ini­bi­scono il cre­dito alle imprese e alle per­sone; dun­que che qual­che misura con­tro la defla­zione e la reces­sione verrà presa.

Ma risulta dif­fi­cile pen­sare che una teo­ria come quella dell’austerità espan­siva, fal­si­fi­cata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere supe­rata per auto­ri­forma, senza che com­paia a con­tra­starla una teo­ria almeno di uguale forza e capa­cità di attra­zione. Que­sta c’è, ma per ora vive solo nei pro­grammi che hanno por­tato all’affermazione le liste che face­vano rife­ri­mento a Tsi­pras e poco più. Quello che è vero, e le con­se­guenze sono ancora peg­giori, è che le teo­rie del rigore rivi­vono nella dimen­sione della pre­ca­rietà espan­siva, ovvero delle deva­stanti misure strut­tu­rali che pre­ca­riz­zano defi­ni­ti­va­mente il lavoro, su cui il nostro governo si è par­ti­co­lar­mente distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Tou­raine, prima invoca un sus­sulto repub­bli­cano in Fran­cia per con­te­nere l’ondata popu­li­sta dei Le Pen, poi con­si­glia di dare più poteri al primo mini­stro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scom­bic­che­rata com­pa­gine di Hol­lande, il che pro­vo­che­rebbe esat­ta­mente l’effetto oppo­sto se è vera la sua ana­lisi di una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” fra il Fn e gli strati popolari.

In que­sto qua­dro assume una impor­tanza deci­siva l’affermazione di liste che fanno rife­ri­mento a Tsi­pras o che chie­dono di fare gruppo assieme — come “Pode­mos” la for­ma­zione elet­to­rale che trae ori­gine dal movi­mento degli indi­gna­dos spa­gnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 depu­tati) – e natu­ral­mente il risul­tato di Syriza che lo con­ferma primo par­tito in Gre­cia. E’ dall’insieme di que­ste forze che biso­gna ripar­tire per met­tere seria­mente in crisi le poli­ti­che di auste­rità, evi­tare la loro cama­leon­tica ripro­po­si­zione e inver­tire la rotta verso poli­ti­che anti­ci­cli­che, soli­dali e occupazionali.

La vicenda ita­liana è con­tras­se­gnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vec­chia Dc aveva toc­cato in un lon­tano pas­sato e dalla scon­fitta secca del M5Stelle che cede soprat­tutto voti all’astensione. Chi aveva pen­sato a un neo­bi­po­la­ri­smo Renzi-Grillo deve rive­dere le sue ana­lisi. Ver­rebbe da dire che dal bipar­ti­ti­smo imper­fetto di cui par­lava lo sto­rico Gior­gio Galli, basato sul duo­po­lio Dc-Pci (con la con­ven­tio ad exclu­den­dum nei con­fronti di quest’ultimo) si stia pas­sando a un mono­par­ti­ti­smo imper­fetto, fon­dato sul Pd e su un sistema di par­titi il mag­giore dei quali non rag­giunge che la metà dei suoi voti.

In que­sto qua­dro è evi­dente che l’espressione stessa cen­tro­si­ni­stra, con o senza trat­tino, ha perso ogni signi­fi­cato. Almeno per quanto riguarda il governo nazio­nale. Vel­troni non ha torto di gon­go­lare, anche se il par­tito a voca­zione mag­gio­ri­ta­ria che lui aveva pen­sato, man­dando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e ria­prendo la strada a Ber­lu­sconi, si rea­lizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un par­tito unico con il Pd, finge di non accor­gersi di pre­di­care una sem­plice confluenza.

Il quo­rum de “L’altra Europa con Tsi­pras” ha inter­rotto la serie dei fal­li­menti elet­to­rali a sini­stra. E’ vero che è un risul­tato risi­cato e che il numero di voti con­qui­stati non fa la somma delle orga­niz­za­zioni che hanno dato il loro appog­gio alla lista. Ma que­sto segnala per l’appunto la per­dita di con­sensi di que­sti micro par­titi e la scelta vin­cente di dare vita a una lista di cit­ta­di­nanza.

Inter­rom­pere que­sta espe­rienza sarebbe un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Lo sarebbe anche per la demo­cra­zia ita­liana che vedrebbe ulte­rior­mente ristretta le pos­si­bi­lità di espres­sione e rap­pre­sen­tanza poli­tica, aprendo a nuove derive neoau­to­ri­ta­rie. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, sul piano della pro­du­zione cul­tu­rale e dell’elaborazione poli­tica, come su quello della prassi nei movi­menti è il com­pito che ci spetta.
Il filosofo lancia l’allarme: «Si mostra troppo disprezzo verso gli elettori Nessuno dei capi di governo sembra in grado di dare risposte all’avanzata populista». Intervista di Nils Minkmar.

La Repubblica, 31 maggio 2014

CON trattative e giochi di potere sul prossimo presidente della Commissione i leader europei si mostrano incapaci di liberarsi dalla logica del potere e di dare all’Europa le nuove risposte che la situazione del dopo-voto esige. Ecco il j’accuse di Jürgen Habermas.

Signor Habermas, come giudica i negoziati in corso dopo l’ultimo vertice dei leader Ue?
«Come una nuova prova che in questo circolo dei capi dell’esecutivo pare che nessun leader e nessuna leader sia capace di liberarsi dalla routine del poker del potere quotidiano e di porsi davanti a una situazione che esige nuove risposte».

Perché secondo Lei Cameron e Orbàn hanno detto no a Juncker?
«Per gli altri leader quelle prevedibili obiezioni dei due sono state probabilmente un pretesto benvenuto. Angela Merkel, per mesi, si è schierata contro i candidati capolista. Ma questi sono stati effettivamente nominati (Juncker e Schulz tra gli altri, ndr) e ciò ha scatenato l’escalation di democrazia che pare che lei tema. Anche per questo l’Europa istituzionale è entrata di prepotenza nella realtà della volontà popolare polarizzata dei suoi cittadini. Per la prima volta il Parlamento europeo ha una vera legittimità — proprio perché i nemici dell’Europa hanno ottenuto voti e seggi, per scuotere e svegliare i sonnolenti europeisti — e così vengono separati i caproni dalle pecore. Mi chiedo da che parte stia un gruppo parlamentare del Ppe che non osa nemmeno appoggiare compatto il suo candidato Juncker. In Germania la Cdu si fa bella con l’immagine di partito europeista, ma la sua famiglia nell’Europarlamento sembra non volerne sapere di escludere dai suoi ranghi gente come Orbàn e Berlusconi».

Merkel poche ore fa ha chiesto Juncker. Lo si può imporre contro la volontà di Regno Unito e Ungheria?«La situazione ha due volti, uno politico e uno di diritto. Per la prima volta si sono svolte elezioni europee che almeno a metà meritano di essere chiamate elezioni. Da una parte abbiamo la chiara alternativa tra Juncker e Schulz, dall’altra abbiamo quella tra gli integrazionisti e i fautori di uno scioglimento delle istituzioni europee. Perciò, ben cosciente, il Presidio dell’Europarlamento ha dichiarato che il Consiglio europeo deve considerare in modo vincolante il risultato del voto. E come hanno risposto i nostri capi di governo? Chiudendo le paratie stagne della nave, per difendere il loro potere autoconferitosi contro la rabbia popolare, presunta irrazionale. Se davvero proporranno un’altra persona rispetto ai due candidati principali, ciò colpirà al cuore il progetto europeo. E non sarebbe più possibile conquistare i cittadini alla partecipazione a nuove elezioni europei. Gli altri leader potrebbero chiedere l’uscita dalla Ue dei paesi ostruzionisti».

A fronte del successo degli euroscettici e antieuropei, quale Commissione serve, per quale politica europea?
«Certo non è abituale che ben più del dieci per cento dei deputati eletti in un Parlamento vogliano abrogarlo o ridurre i suoi poteri. Ma questa anomalia rifletta solo la realtà: ci troviamo in un processo controverso di sviluppo costituzionale. Trovo sia un bene che gli avversari dell’Europa abbiamo trovato un Foro dove possono dire in faccia alle élites politiche che è necessario alla fine decidersi a coinvolgere i popoli nel processo di unificazione. Il populismo di destra impone un cambiamento di parametri: dall’elitarismo in uso finora ad un sistema di partecipazione dei cittadini. Ciò può solo essere positivo per il Parlamento europeo e per quel che riguarda la sua influenza sul processo legislativo europeo. Altro è il discorso per quanto concerne le conseguenze di questi risultati a livello nazionale nei singoli paesi membri della Ue. In questo senso, in alcuni Stati può crearsi il pericolo che i partiti politici si lascino intimidire, e scelgano la linea del tentativo di adeguarsi a idee dei populisti, come fa la Csu da noi in Baviera».

Come giudica l’angoscia per il successo del Front National in Francia?
«Qui tocchiamo un punto nevralgico. Domenica sera mi ha colto il pensiero scioccante che il progetto europeo potrebbe fallire non solo a medio termine a causa delle crescenti disuguaglianze economiche nell’eurozona, bensì anche a breve termine per le conseguenze di politica interna di una destabilizzazione della Repubblica francese, cioè del paese che si sente sempre più nell’ombra della Germania. In ogni caso si è data l’impressione che il governo tedesco, dall’inizio della crisi nell’ottobre 2008, si sia comportato in modo non cooperativo e che non tratti più a pari dignità il suo partner di gran lunga più importante. Presumibilmente soltanto una svolta politica in Euro- pa, quella che ci si aspettava da Hollande, potrebbe ristabilire l’equilibrio, evitando che in Europa una ulteriore costruzione della comunità della valuta unica e un suo sviluppo come Euro-unione politica diventi impossibile, in un percorso non democraticamente legittimato. Io capisco il riflesso difensivo del Consiglio europeo contro le proposte di Juncker (che vanno nella direzione dell’unione politica, ndr), lo vedo anche come sintomo di insicurezza. Angela Merkel, la patrona dei paesi donatori, vuole richiudere al più presto la finestra di un possibile cambiamento politico che si è aperta con l’aria fresca delle elezioni europee».

In che misura la disuguaglianza tra i due paesi leader è conseguenza anche della politica tedesca?
«Dopo la riunificazione è cambiata la mentalità nella Repubblica federale. La Germania si sente di nuovo Stato nazionale normale, e il nostro governo si comporta di conseguenza. In questo modo l’Unione europea, proprio attraverso la sua crisi peggiore, ha perduto la voce tedesca cui era abituata, la voce che chiedeva con insistenza più integrazione. Ma quella voce europeista tedesca è necessaria oggi più che mai. Invece di imporre un corso politico ai membri più deboli dell’unione monetaria, il governo tedesco avrebbe dovuto mettere in conto l’assunzione di proprie responsabilità in anticipo, come fu con Adenauer, Schmidt e Kohl. Invece, insensibile agli osceni disuguali destini di crisi, la Germania ha persino profittato della crisi. Questo comportamento non solidale deve rivolgersi contro di noi. Dobbiamo smetterla a dispiegare una posizione semiegemonica in cui la Bundesrepublik si spinge di nuovo in vecchi ruoli e stili tedeschi. O i risultati elettorali negli altri paesi devono lasciarci indifferenti?».

I socialdemocratici sono con Schulz e per una politica europea come quella che lei auspica. Prevede tensioni nella Grosse Koalition?«Spero che Sigmar Gabriel (vicecancelliere e leader dell’Spd, ndr) abbia la statura di capire che la pace nella coalizione è un gran bene, ma non da difendere a ogni costo. Ci sono anche altri europeisti nel governo, sebbene pochi. Gabriel è l’unico in cui vedo un senso di consapevolezza della piccola finestra di apertura storica apertasi col voto di domenica, l’unico che sappia guardare a Parigi. Dovrebbe essere consapevole del fatto che Merkel sappia quanto si fa presto a richiudere quella finestra temporale».

© Frankfurter Allgemeine

In edicola martedì prossimo a 2 €. Un libro da leggere, una riflessione da proseguire, molti insegnamenti da riprendere

Il manifesto, 31 maggio 2014, con postilla

Novanta sono gli anni dell’Unità, novanta le pagine dell’inserto spe­ciale che sarà in edi­cola mar­tedì pros­simo, ma l’anniversario tondo in que­sto caso è un’altro: i 30 anni dalla morte di Enrico Ber­lin­guer (11 giu­gno 1984 a Padova). L’inserto è stato pre­sen­tato ieri mat­tina alla camera dei depu­tati, nella sala del gruppo Pd che è dedi­cata pro­prio alla memo­ria di Ber­lin­guer. È in grande for­mato, bianco e nero con l’aggiunta del rosso, ed è pieno di foto­gra­fie dall’archivio del gior­nale che con­sen­tono (data l’assenza di dida­sca­lie) agli amanti del genere di diver­tirsi a rico­no­scere luo­ghi e per­sone attorno al segre­ta­rio.

L’introduzione è affi­data ad Alfredo Rei­chlin che riflette sull’attualità di Ber­lin­guer, del resto roz­za­mente ma ine­qui­vo­ca­bil­mente pro­vata dal ten­ta­tivo di Casa­leg­gio di acqui­sirlo alla cam­pa­gna elet­to­rale gril­lina. Anche nell’inserto si ragiona sul lungo ten­ta­tivo di spo­li­ti­ciz­zare Ber­li­guer, inchio­dan­dolo a quella famosa inter­vi­sta a Scal­fari sulla que­stione morale (lo fa ad esem­pio il pezzo di Luciana Castel­lina).
Nei loro inter­venti Vel­troni (recente autore di un docu­men­ta­rio sul segre­ta­rio) e D’Alema con­cor­dano sul fatto che la vera fine del Pci non fu la Bolo­gnina, ma il fune­rale romano di piazza San Gio­vanni. D’Alema per­ché ricorda come si fosse ormai esau­rita la stra­te­gia ber­lin­gue­riana del com­pro­messo sto­rico. Vel­troni per­ché attri­bui­sce a Ber­lin­guer — il cui comu­ni­smo, sostiene, «aveva il senso di una grande uto­pia di ugua­glianza e giu­sti­zia» — la capa­cità di allun­gare la vita a un Pci che aveva già perso nel ’56 l’occasione di tra­sfor­marsi in un par­tito social­de­mo­cra­tico di tipo occi­den­tale.
Ma nell’inserto, dav­vero molto ricco, c’è tanto altro. C’è anche chi il Pci lo sciolse sul serio, Occhetto, che pole­mizza con i com­pa­gni che a poste­riori hanno dato ragione a Craxi. Non c’è Fas­sino, in effetti. Pazienza. Ci sono Napo­li­tano, Tor­to­rella, Gotor, Pic­colo, Sardo, Bodrato, Mar­telli, Car­niti, Scola, Bar­ba­gallo, Vacca, Fra­sca Polara e tanti altri.
postilla
Leggeremo il libro, e magari lo commenteremo. Ma vogliamo dire subito che l'«esaurimento della strategia berlingueriana del compromesso storico», come avrebbero scritto i socialdemocratici D'Alema e Veltroni, iniziò quando molto autorevoli dirigenti del Pci ridussero la strategia del compromesso storico alla tattica dell'accordo con la DC "senza se e senza ma". Intanto suggeriamo di leggere i tre famosi articoli pubblicati nel 1973 da Rinascita. Il Cile, l'Italia e il compromesso storico

La Repubblica, 31 maggio 2014

Possiamo dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.

La Corte di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.

Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.

Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.
Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.
Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine
"May '68 and its afterlives", un saggio dello storico statunitense Kritin Ross per University Of Chicago Press. Il manifesto, 29 maggio 2014

È abba­stanza dif­fusa un’interpretazione del Ses­san­totto come moder­niz­za­zione del capi­ta­li­smo: que­sto sarebbe il suo merito o al con­tra­rio il suo pec­cato ori­gi­nale. Da un Ses­san­totto certo un po’ per­ver­tito qual­cuno fa discen­dere per­fino il ber­lu­sco­ni­smo, con la sua cari­ca­tura di libertà ses­suale e oltrag­gio alle isti­tu­zioni. Il libro di Kri­stin Ross May ’68 and its after­li­ves (Uni­ver­sity of Chi­cago Press) con­si­dera que­ste inte­pre­ta­zioni come il pro­dotto di una revi­sione sto­rica, pro­dotta dalla «tra­di­zione dei vin­ci­tori», come avrebbe detto Wal­ter Ben­ja­min. La vit­to­ria del neo­ca­pi­ta­li­smo è pro­iet­tata all’indietro nel tempo, tor­cendo in suo favore la con­si­stenza del pas­sato, ridu­cendo il Ses­san­totto a un suo prologo.

L’evento inde­ciso, in cui la plu­ra­lità dei pos­si­bili in sospeso ancora si apriva a esiti diver­genti, viene ridotto uni­vo­ca­mente alla visione neo­li­be­ri­sta: l’esito deter­mi­nato di un con­flitto sociale, che vede il pre­va­lere del capi­tale, viene ri-esposto come legge sto­rica. Le «comuni» anta­go­ni­ste del Mag­gio diven­tano poco a poco astra­zioni, uto­pie, poi sono defi­nite vel­lei­ta­rie, mino­ri­ta­rie, infine mai esi­stite; come è avve­nuto per la Comune ed altre brecce di libertà.

Ross pro­pone una «let­tura a con­trap­pelo» di que­sto revi­sio­ni­smo sto­rico. La sua non è una cro­naca del Mag­gio, ma un’analisi del modo in cui è stato rap­pre­sen­tato, prima dai suoi attori e poi dai suoi inter­preti pre­sunti. Risa­lendo con il recu­pero di docu­menti e testi­mo­nianze fino al cuore inde­ciso dell’evento, Ross rin­trac­cia gli ele­menti irri­du­ci­bili al con­cetto di moder­niz­za­zione ed ad esso anta­go­ni­sti: la ricerca di rela­zioni sociali comuni, costi­tuive di un noi che rifiuta ogni prin­ci­pio gerar­chico e rap­porto di padro­nanza; la cri­tica della sepa­ra­zione spa­ziale della città in set­tori estra­niati, distrug­gendo i vec­chi quar­tieri popo­lari; la cri­tica della par­ti­zione del sen­si­bile.

Ross riprende quest’ultimo ter­mine dal filo­sofo fran­cese Jac­ques Ran­cière. Esso indica una netta con­trap­po­si­zione tra poli­zia (uno stato gerar­chi­ca­mente ordi­nato) e vera demo­cra­zia e segnala la divi­sione tra chi ha cit­ta­di­nanza e chi è respinto al di fuori di essa (i «senza parte»). La par­ti­zione del sen­si­bile non riguarda solo i ruoli eco­no­mici, ma il sim­bo­lico, il quo­ti­diano, lo psi­chico, le rela­zioni per­so­nali e sen­ti­men­tali, lo spa­zio urbano: si decide ciò che «può essere oggetto di per­ce­zione e ciò che non lo è», «ciò che può essere visto», o inteso, e ciò che è espulso dalla parola e dall’immagine. Nel Ses­san­totto «l’apertura poli­tica all’alterità ha per­messo… di rom­pere con quest’ordine, di scon­vol­gere… i ruoli asse­ganti dalla poli­zia, di ren­dere visi­bile ciò che non lo era», cri­ti­cando in primo luogo la sepa­ra­zione tra lavoro manuale e lavoro intel­let­tuale e pro­po­nendo invece una costante ibri­da­zione delle ete­ro­ge­neità sociali.

Quanto alla cri­tica della sepa­ra­zione urbana, essa fu pro­ba­bil­mente il con­tri­buto più spe­ci­fico dei situa­zio­ni­sti alle gior­nate di Mag­gio: essi rifiu­ta­rono l’idea che lo spa­zio dovesse essere com­par­ti­men­tato e diviso secondo le stesse linee delle gerar­chie sociali. L’urbanesimo neo­ca­pi­ta­li­sta divide i set­tori sociali invece di unirli e sta­bi­li­sce i con­fini con­creti dell’estraniazione, sta­bi­lendo una cor­ri­spon­denza tra l’articolazione dello spa­zio e quella del domi­nio. Nella con­fu­sione e nella tra­sgres­sione degli ordini estra­niati e della sepa­ra­zione, si con­cre­tiz­zava il pia­cere e il desi­de­rio di vivere da parte dei mili­tanti del Mag­gio: «Il pia­cere di vio­lare la com­par­ti­men­ta­zione, fisica o sociale, è pro­por­zio­nale alla durezza della segre­ga­zione sociale urbana dell’epoca; i dia­lo­ghi intrec­ciati a dispetto di tale segre­ga­zione vei­co­lano un sen­ti­mento di tra­sfor­ma­zione urgente». Que­sto pia­cere sov­ver­sivo di vivere oltre l’ordine sim­bo­lico del capi­tale, abbat­tendo le bar­riere dello spa­zio e del tempo domi­nati, lasciando emer­gere un nuovo spa­zio sociale, è stato poi rein­ter­pre­tato come «edo­ni­smo» dai can­tori della modernizzazione.

Altro deci­sivo ele­mento di distor­sione dell’evento è per Ross il così detto «gene­ra­zio­ni­smo», ben descritto da una cita­zione di Hoc­quen­ghem (si tratta di una let­tera aperta ai vec­chi com­pa­gni pas­sati «da Mao al Rotary Club»): «Si diviene una “gene­ra­zione” quando ci si ritrae come una lumaca nella con­chi­glia o il pen­tito nella sua cella: il fal­li­mento di un sogno, la stra­ti­fi­ca­zione dei ran­cori, il resi­duo di un’antica insur­re­zione, si chia­mano “gene­ra­zione”». Il gene­ra­zio­ni­smo dis­solve in un dato bio­lo­gico il con­flitto dei pos­si­bili e lo spazio-tempo impre­ve­di­bile dell’evento, il ritmo dello svi­luppo sto­rico è ridotto – come diceva Man­n­heim — a legge posi­ti­vi­sta della «durata di vita». L’essere per l’inizio, da cui balza il tempo-ora del pre­sente, ponendo in discus­sione ogni pre­ce­dente media­zione e scan­sione del tempo, viene così risolto in «fase della vita», desti­nata a pas­sare. La lotta e il con­flitto tra chi ha parte e chi è «senza parte», si ridu­cono a una ine­vi­ta­bile lace­ra­zione tra padri e figli, e in una altret­tanto ine­vi­ta­bile, suc­ces­siva, conciliazione.

D’altra parte, anche l’idea che il Mag­gio sia stato un tumulto effi­mero e improv­viso è con­te­stata da Ross. L’evento è il cul­mine di una durata lunga del con­flitto sto­rico; la brec­cia è solo l’atto finale di una lenta ero­sione del muro del domi­nio, che comin­cia in Fran­cia con la guerra d’Algeria.

Una rivo­lu­zione pas­siva ha distorto l’ultimo ten­ta­tivo nove­cen­te­sco di scuo­tere l’ordine del capi­tale. Lo scio­pero gene­rale, che portò nei giorni di Mag­gio al col­lasso del governo gol­li­sta, è certo uno dei dati più impor­tanti della memo­ria col­let­tiva che Ross cerca di resti­tuirci: per pochi giorni milioni di per­sone com­pi­rono l’esperienza che vivere senza il peso del potere sulle spalle è dif­fi­cile e possibile
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