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«Sono arrivate nel cuore del potere. Grazie a curriculum eccellenti e alla legge che riserva loro delle quote. Ma per le donne è iniziato un percorso di uguaglianza o stiamo andando verso una polarizzazione tra chi è ai vertici e chi, nella fascia media, vede vacillare diritti acquisiti»?

La Repubblica, 1 luglio 2014 (m.p.r.)

Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.

Era soltanto la scorsa estate, quando a Cernobbio l’ex premier Enrico Letta sobbalzava davanti ad una platea di grisaglie grigie. «In questa sala siamo tutti uomini, è insopportabile...». Dov’è l’altra metà? La risposta è arrivata pochi mesi dopo. Mentre la legge Mosca-Golfo imponeva tra mille malumori sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi tra pubblico e privato) il nuovo premier Renzi ha preso abilmente il potere e il pallottoliere insieme, lanciando appunto la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Con ministeri anche “pesanti”: agli Esteri Federica Mogherini, alla Difesa Roberta Pinotti. E proprio Pinotti tra due giorni in un convegno organizzato da “Valore D”, racconterà la sua storia umana e politica, ma anche il lavoro prezioso e spesso nascosto delle donne dell’esercito, dalle comandanti alle soldatesse.

Adesso è dunque il tempo di riflettere, come spiega l’economista Daniela De Boca. Per capire se davvero qualcosa muterà nel sistema del potere, aprendo un vero cammino di parità, o se il gioco resterà congelato ai vertici della piramide. «Il cambiamento c’è, ed è il frutto di una pressione fortissima da parte del mondo femminile, quote comprese. Che là dove sono state applicate bene, in Norvegia ad esempio, hanno scardinato la misoginia dei vertici. Ma in Italia quello che vedo invece è il rischio di una polarizzazione: nella fascia alta le donne conquistano ruoli forti, un tempo maschili. Nella fascia media, nella vita di tutti i giorni le donne invece stanno peggio. Diritti che sembravano acquisiti, i congedi per maternità, la parità salariale sono oggi fortemente intaccati».
Dunque cautela. Però le nomine ci sono state, non poche e tutte insieme. Ad aprile scorso un gruppo di qualificatissime manager, scienziate e imprenditrici conquistano i Cda delle più grandi aziende di Stato: Emma Marcegaglia all’Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Eni, ma anche Catia Bastioli a Terna, Rossella Orlandi a capo dell’Agenzia delle Entrate.
E Maria Angela Zappia, ambasciatrice italiana alla Nato a Bruxelles. I titoli parlano naturalmente di “valanga rosa”. Lo spoil system di Renzi impone ancora nomi femminili. Il messaggio è chiaro: l’argine è caduto. Ma Luisa Todini, a capo del consiglio di amministrazione di Poste, una figlia adolescente, da anni alla testa dell’azienda di costruzioni di famiglia, invita a guardare le cose dal lato giusto. «In queste nomine hanno contato i curriculum e le esperienze, non le quote. Vengo da una famiglia modesta, che si è fatta da sé, dove mia madre lavorava ed era naturale che anche le donne lavorassero. Mi sono mossa in ambiti fortemente maschili, ma oggi invece sono entrata in una azienda, le Poste, dove la pink revolution è in atto già da tempo».
Certo, aggiunge Todini, «le quote servono, seppure modo transitorio, noi abbiamo vent’anni di ritardo sul fronte dell’occupazione femminile, dunque una spinta è ancora necessaria, perché tutto questo abbia una vera ricaduta sul processo di parità». Un processo favorito oggi «anche da una nuova generazione di mariti, padri e compagni non più nemici della carriera delle loro partner...». I numeri però raccontano un’Italia ancora profondamente “asimmetrica”: l’occupazione femminile è al 49,9% contro il 70% di quella maschile, gli stipendi restano più bassi del 15%.
Alessia Mosca, parlamentare Pd, insieme a Lella Golfo (oggi presidente della Fondazione Bellisario) ha scritto la legge 120 del 2011, le famose quote rosa nei Cda. Una legge che scadrà tra sette anni. «Perché a quel punto ci renderemo conto se è stata un’operazione di maquillage o se ha davvero ha inciso nella vita reale delle donne. Il cambiamento per ora è soltanto nella parte “apicale” della piramide, e non basta un gruppo di top manager donne per contaminare in modo positivo una situazione ancora arretrata. Ma è un inizio, la rottura di un meccanismo inerziale sempre uguale a se stesso». E duro a morire se si ascolta la testimonianza di una giovane manager, Valentina Saffiotti, 36 anni, direttore della Comunicazione di AstraZeneca, che racconta di essere dovuta fuggire a Bruxelles, per essere valutata soltanto per i suoi meriti, senza più il pregiudizio dell’essere femmina. «A 30 anni le aziende ti guardano con sospetto, perché potresti decidere di diventare madre. E nelle piccole e medie realtà è ancora peggio. E infatti dico sempre: non sono a favore delle quote rosa, ma contro le quote azzurre...».
Catia Bastioli, neo presidente di “Terna” (infrastrutture elettriche) scienziata manager, ex Montedison, in prima linea sulla bioeconomia, punta tutto sul merito. «Attenzione, le quote possono essere una trappola, e così gli slogan. Oggi il nostro paese ha unicamente bisogno di merito, al di là dei generi e l’Italia è spesso più avanti di come viene raccontata. Le donne — dice Bastioli — hanno già un posto forte nelle aziende, con quella visione più ampia delle cose che le rende preziose ovunque. Ma perché possano fare carriera è fondamentale la conciliazione. Proprio io che ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca vedo quanta concentrazione ci vuole: e senza supporti da parte dello Stato, asili, welfare, come si possono portare avanti una famiglia e una carriera?». Ed è infatti l’amaro bivio davanti al quale si trovano brillantissime e determinate studentesse, e che spesso si traduce in un rinvio sine die della maternità. Ma Barbara Saba, vicepresidente di “Valore D”, direttore generale della Fondazione Johnson and Johnson, è invece ottimista. «Più donne ci sono nella politica, nel business, nella ricerca, più donne ancora saliranno sull’ascensore sociale. Il cambiamento è epocale anche se non ancora visibile. Ma per ognuna di noi che ce l’ha fatta è fondamentale la restituzione: aiutare cioè le più giovani a sviluppare i loro talenti. Solo così possiamo sperare che l’ascensore non si fermi».

L'Europa e cascato in pieno nella trappola dell'ignoranza e della difesa degli

interessi USA. «Disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare». Sbilanciamoci.info newsletter 133, 1 luglio 2014

Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica

L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.

Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.

Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.

L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.

È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.

L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.

È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.

Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali.

Il manifesto, 1 luglio 2014

Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali, anche grazie alla nostra presenza nel parlamento europeo. Il modello dovrebbe essere quello dei beni comuni. L'Europa deve essere: democratica, federale, solidale, ecologica, inclusiva e pacifica

Domani Renzi inau­gu­rerà il seme­stre di pre­si­denza ita­liana dell’Unione euro­pea. Nono­stante i giri di parole, è un’Europa che non cam­bia. Noi vogliamo un’altra Europa: demo­cra­tica, fede­ra­li­sta, soli­dale, eco­lo­gica, inclu­siva, pacifica.

Demo­cra­tica, cioè con una vera Costi­tu­zione, con un governo sovra­na­zio­nale a base par­la­men­tare, auto­nomo dai poteri dell’alta finanza, che defi­ni­sca le poli­ti­che eco­no­mi­che, sociali, ambien­tali e cul­tu­rali. Ma la demo­cra­zia riguarda anche i sin­goli paesi.

Dob­biamo pre­ser­vare l’impianto della Costi­tu­zione ita­liana e fer­mare l’erosione della demo­cra­zia da tempo in corso. Inol­tre, alla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva occorre affian­care, in tutto il con­ti­nente, nuove forme di demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva di pros­si­mità, che è ciò che tra­sforma risorse e ser­vizi in beni comuni.

Fede­rale, non signi­fica un aggre­gato di Stati, ma una riva­lu­ta­zione radi­cale delle auto­no­mie locali; dei Comuni o delle unioni di pic­coli Comuni: le isti­tu­zioni più vicine ai cit­ta­dini, dove è meno dif­fi­cile dar vita a forme di demo­cra­zia partecipativa.

Soli­dale: i paesi dell’Unione devono con­di­vi­dere costi e bene­fici del cam­mino comune: non solo moneta, ma debiti, tassi di inte­resse, fisco, inve­sti­menti pub­blici. Altre forme di soli­da­rietà devono riguar­dare anche tutti gli altri paesi del mondo, a par­tire da quelli rima­sti ai mar­gini dei bene­fici, ma non dei costi, dello svi­luppo indu­striale. Ma soli­da­rietà vuol dire soprat­tutto giu­sti­zia sociale in ogni paese; redi­stri­bu­zione del lavoro, del potere con­trat­tuale, del red­dito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei pre­sidi sani­tari, dei diritti. Senza esclu­dere il rispetto di tutto il vivente e della natura.

Eco­lo­gica vuol dire fare i conti non solo con la natura pro­dotta dall’evoluzione geo­lo­gica e bio­lo­gica del pia­neta, ma anche con quella “seconda natura” in cui siamo ormai tutti immersi, pro­dotta dalla rivo­lu­zione indu­striale, dai mate­riali sin­te­tici, dalla pro­li­fe­ra­zione di pro­dotti e rifiuti – solidi, liquidi e gas­sosi — gene­rati dalla “civiltà” dei con­sumi. Occorre ritro­vare un equi­li­brio fra mondo natu­rale e mondo arti­fi­ciale che impe­di­sca a que­sto di sof­fo­care quello. Pur­troppo l’Unione euro­pea si sta pro­gres­si­va­mente disim­pe­gnando dalle poli­ti­che ambien­tali, men­tre mano­mis­sione e inqui­na­mento di ogni sin­golo ter­ri­to­rio non fanno che aumentare.

Inclu­siva: l’Europa non deve più essere gover­nata come una “for­tezza” asse­diata da una “armata” di pro­fu­ghi e migranti in cerca della pro­pria soprav­vi­venza. In un’Europa soli­dale ci deve essere posto per tutti. Emar­gi­na­zione, clan­de­sti­nità, discri­mi­na­zione raz­ziale – sia quella su basi bio­lo­gi­che o cul­tu­rali, che quella sem­pre più dif­fusa con­tro i poveri – sono cala­mite di nuove mise­rie che si ripro­du­cono in una spi­rale senza sboc­chi. L’accoglienza con­sente invece un diverso rap­porto con le popo­la­zioni e con le isti­tu­zioni dei paesi di ori­gine di pro­fu­ghi e migranti; rico­no­scere loro diritti e rap­pre­sen­tanza può faci­li­tare la com­po­si­zione dei con­flitti che ne deter­mi­nano l’esodo e una cir­co­la­zione di per­sone, di com­pe­tenze e di rela­zioni che pos­sono arric­chire sia i paesi di ori­gine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione riguarda ogni forma di diver­sità – che messe tutte insieme costi­tui­scono ormai una vera mag­gio­ranza sociale – che, prima di met­tere sotto accusa idee e com­por­ta­menti altrui, inter­pel­lano innan­zi­tutto le nostre con­ce­zioni e il nostro stile di vita. Que­sto vale in par­ti­co­lare nei con­fronti della cul­tura e del potere patriar­cale che con­ti­nua a domi­nare la vita eco­no­mica e sociale in tutta l’Europa e par­ti­co­lar­mente nel nostro paese.

Paci­fica: non basta garan­tire la pace all’interno se ai con­fini imper­ver­sano con­flitti san­gui­nari. L’Europa deve avere un ruolo attivo nella com­po­si­zione dei con­flitti altrui; spe­cie quelli pro­dotti dai pro­pri inte­ressi, come la corsa al petro­lio o l’esportazione di armi. Nei con­fronti delle atti­vità eco­no­mi­che che ali­men­tano quei con­flitti occorre poi pro­get­tare una vera ricon­ver­sione ecologica.

L’articolazione ulte­riore di que­sti con­cetti non può pro­ce­dere però per logi­che interne, ma solo met­ten­doli alla prova nei ter­ri­tori o in spe­ci­fici ambiti set­to­riali. La lista L’altra Europa con Tsi­pras ha finora rac­colto solo una pic­cola parte di quel fer­vore di lotte, di ini­zia­tive, di pro­get­tua­lità alter­na­tive che con­trad­di­stin­gue da anni il nostro paese. Ma è con que­ste realtà che ora occorre con­fron­tarsi e pren­dere ini­zia­tive comuni, orga­niz­zan­dosi a livello locale per gruppi di lavoro o per com­mis­sioni tema­ti­che, pro­muo­vendo col­le­ga­menti nazio­nali e inter­na­zio­nali (gra­zie anche alla nostra pre­senza nel par­la­mento euro­peo e nel Gue), ma soprat­tutto andando a cer­care que­gli inter­lo­cu­tori, sin­goli o già orga­niz­zati, che non sono stati coin­volti dalla nostra mobi­li­ta­zione elet­to­rale, per pro­muo­vere con loro con­fronti e ini­zia­tive comuni su un piano di asso­luta parità. Tutti pos­sono arric­chire, con ini­zia­tive con­di­vise, un pro­gramma che si deve fare pra­tica poli­tica quotidiana.

Ma que­sto pro­gramma si deve anche con­so­li­dare sul piano cul­tu­rale. Intorno al pro­getto della lista L’altra Europa si è rac­colto in pochi mesi il meglio dell’intelligenza ita­liana. I nomi sono tan­tis­simi. A tutti dob­biamo offrire un ter­reno di con­fronto con le nostre pra­ti­che per dare al pro­getto, nella più asso­luta libertà di cia­scuno, un respiro indi­spen­sa­bile a pro­muo­vere una rifon­da­zione su nuove basi di una cul­tura della demo­cra­zia e della soli­da­rietà da con­trap­porre a quella impe­rante della com­pe­ti­ti­vità. Abbiamo due modelli dalle grandi poten­zia­lità: la Costi­tuente dei beni comuni, che ha visto il meglio della dot­trina giu­ri­dica ita­liana soste­nere alcune lotte come l’occupazione del Tea­tro Valle, il Muni­ci­pio dei Beni comuni di Pisa e altre ini­zia­tive ana­lo­ghe; e la costi­tu­zione dell’azienda spe­ciale Acqua Bene Comune di Napoli, prima tra­du­zione pra­tica degli obiet­tivi dei refe­ren­dum del 2011.

Que­sto approc­cio aperto a ogni sorta di nuovi apporti ha certo biso­gno di stru­menti di coor­di­na­mento e di comu­ni­ca­zione migliori, evi­tando però strut­ture pesanti e dif­fi­cili da ridi­men­sio­nare. Ma biso­gne­rebbe evi­tare di con­cen­trarsi su uno spet­tro che si aggira nel nostro dibat­tito interno: il “nuovo sog­getto poli­tico” (o “sog­getto poli­tico nuovo”); o la “costi­tuente della sini­stra”; o, senza tante media­zioni, il “nuovo partito”.

Per­ché il ter­mine sog­getto poli­tico, men­tre sem­bra esal­tare l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, fini­sce spesso, invece, per rin­chiu­derlo in qual­cosa di solido, di sostan­ziale, di auto­suf­fi­ciente e rischia di disto­gliere il dibat­tito e l’agire dall’impegno a svi­lup­pare nella pra­tica quo­ti­diana il tema dell’Europa che vogliamo, dell’Italia che vogliamo, della società che vogliamo. Non sto par­lando del “sol dell’avvenire”, ma, più mode­sta­mente, di una visione del futuro che vede con­flitto e par­te­ci­pa­zione, varia­mente intrec­ciati tra loro, come com­po­nenti per­ma­nenti di una dina­mica sociale in cui a ogni gene­ra­zione tocca fare i conti con le acqui­si­zioni e le scon­fitte di quella precedente.

Il rischio è quello di un dibat­tito con­fi­nato al tema di come costruire il nuovo sog­getto, o il nuovo par­tito, o la nuova sini­stra, sot­tin­ten­dendo che il come tra­sfor­mare i rap­porti sociali con la nostra pra­tica quo­ti­diana ne discenda auto­ma­ti­ca­mente; o comun­que sia una que­stione del “dopo”. Tra­scu­rando, per di più, la dimen­sione euro­pea e inter­na­zio­nale in cui la lista L’altra Europa ha voluto col­lo­care fin dall’inizio la pro­pria iniziativa.

«». Altraeconomia.it

«Chiama le cose come le vedi, e al diavolo tutto il resto» (Ernest Hemingway). Che cosa succede se nel misurare il valore di qualcosa prevale la visibilità, al posto dell’evidenza? Tolto il punto di domanda, rimangono la televisione e quel che resta del servizio pubblico, rimane il precariato di chi lavora nel mondo della cultura e dell’informazione, e ovviamente rimangono i miliardari di Internet, che -imperterriti- continuano ad arricchirsi -esentasse o quasi- sfruttando il lavoro altrui. 32 milioni di italiani, la maggior parte di noi, partecipa ogni giorno a questo luogo -che chiamiamo Rete-, al quale chiunque può accedere per dare voce alle proprie opinioni; luogo democratico per eccellenza, salvo poi diventare arena di violenza incontenibile, diffamazione, delinquenza mediatica.
Pochi sinora ne sono stati chiamati a rispondere, sotto il profilo della contro informazione e della legge.
L’evidenza è che la società non si cambia coi “mi piace” e con i clic, ma scendendo -metaforicamente, e non-, in piazza. Un’altra evidenza è che se anche sei capace di riempire le piazze, invadere le televisioni, i giornali e le chiacchiere al bar, se poi non hai nulla di intelligente da dire è solo tempo perso. Ma questo, ha, ovviamente, una sua logica, dove i mezzi sono coerenti col fine. Da un lato, affogare ogni conflitto in una marea di parole, talk show, polemiche, commenti on line, per relegare le evidenze a ruolo marginale, di contesto. Dall’altro, dare voce alle varie categorie di professionisti della confusione: ci sono i provocatori di mestiere, ci sono i minimizzatori -per i quali i problemi sono dipinti sempre con toni troppo drammatici-, ci sono i “saggi” realisti, ci sono i catastrofisti, ci sono i sedicenti fact checker che nel cercare l’errore nel dito fanno distogliere lo sguardo dall’evidenza della luna.
E poi ci sono i professionisti della visibilità, armati di urla e aggressioni: perché continuiamo a tollerarli, perché accettiamo che ci rovinino l’umore, che ci facciano montare la rabbia ad arte?
La responsabilità sta in chi invita certi personaggi in tv, in chi li intervista sui giornali, in chi riporta i loro tweet o post. È la responsabilità di chi ci fa perdere tempo prezioso. La maggior parte di queste persone crede che tutti possano fare tutto: competenze, formazione ed esperienza non contano. Confondono il potere (quello di cittadinanza, o quello, temporaneo e non scontato, dato loro da un’elezione) con potenzialità, la loro. Questo potere senza potenzialità li ha convinti di essere migliori, che i loro pensieri -ammesso che siano davvero loro- siano giusti. E per questo si sentono in diritto di dire e fare tutto quello che pensano.

È naturale che scatti l’odio per “gli intellettuali”: come scriveva Isaac Asimov, «l’anti intellettualismo è un tarlo nutrito dall’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza vale quanto l’altrui conoscenza». Se avessimo badato di meno alla visibilità -quella mediatica, quella politica/elettorale- ci saremmo una volta di più accorti di quanto falsa è la logica delle “grandi opere” (farci uscire dalla crisi, renderci competitivi, dare lavoro). E avremmo avuto di fronte gli occhi l’evidenza: le “grandi opere” servono a dare appalti ai “grandi amici”, contando sul “percolato” economico dell’operazione. Va da sè che i professionisti della confusione si guardano bene ora, dopo le vicende Expo, Mose (e tutte le altre del passato, e quelle che arriveranno) dal chiedere scusa, dal dire almeno “abbiamo sbagliato”. Si guardano bene dall’affrontare con spirito critico la complessità dell’evidenza.

Il compito di chi fa informazione -quindi il nostro, se continuerete a seguirci e sostenerci- è proprio osservare con spirito critico e raccontare la realtà. Ce lo insegna la biodiversità, termine coniato nel 1992 da Edward Wilson, uno dei più importanti biologi viventi (“La diversità della vita”, 1992): non si possono leggere la realtà, i rapporti sociali e quelli di potere, attraverso schemi preconcetti o, peggio, strumentali. La biodiversità è ridondanza, ambiguità, eccezione, a volte contraddizione.
È la bellezza della dispersione contro l’ipocrisia della compattezza, dell’identità, dell’omologazione. ---

«L’iniziativa popo­lare è uno stru­mento debole? Può essere, ma qui si entra nel campo della poli­tica: se non si ha forza di far sen­tire la pro­pria voce e capa­cità di mobi­li­tare il popolo su obiet­tivi con­di­visi non c’è tec­ni­ca­lità che possa sup­plire al vuoto».

Il manifesto, 1 luglio 2014

Vor­rei avan­zare alcune per­ples­sità in merito al refe­ren­dum sull’equilibrio di bilan­cio. Viene pre­sen­tato -anche da que­sto gior­nale- come un modo per opporsi al Fiscal com­pact. A me non sem­bra. Si vogliono infatti abro­gare solo le dispo­si­zioni con­te­nute nella legge 243 del 2012 che det­tano ulte­riori limi­ta­zioni rispetto a quelle defi­nite in sede euro­pea e rece­pite nel nostro ordi­na­mento “a livello costi­tu­zio­nale”. Non tocca (ne potrebbe mediante lo stru­mento de refe­ren­dum) i prin­cipi intro­dotti nel 2012 in costituzione.

Né le altre parti della legge di attua­zione che defi­ni­scono il sistema dei vin­coli per il con­se­gui­mento dell’equilibrio. Scopo del refe­ren­dum è, in effetti, quello di con­ti­nuare a rispet­tare gli obbli­ghi euro­pei in mate­ria di bilan­cio pub­blico, ma si richiede che ciò avvenga in modo cor­retto, senza ecces­sive rigi­dità. In linea con la bat­ta­glia del Governo in Europa, la pro­po­sta è quella di una mag­giore mode­ra­zione nell’applicazione di misure che – nel rispetto dei trat­tati e degli accordi euro­pei di rien­tro del debito – per­met­tano un’ “auste­rità flessibile”.

Vi è un argo­mento che potrebbe farsi valere per smen­tire -almeno in parte- la pro­spet­tiva mode­rata che ho richia­mato. L’istituto del refe­ren­dum con­tiene in sé un “plu­sva­lore di senso” che tende a tra­scen­dere il signi­fi­cato let­te­rale del que­sito su cui si è chia­mati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la por­tata dell’abrogazione in fondo era assai limi­tata e riguar­dava solo una nor­ma­tiva di con­torno, l’esito posi­tivo del responso popo­lare ha assunto una por­tata gene­rale: con­tro ogni poli­tica filo­nu­cleare (per l’acqua la vicenda post refe­ren­dum è più complicata).

Ciò è vero, ma è anche da tener pre­sente che allora era chiara la posta in gioco e uni­voco lo spi­rito dei pro­po­nenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi pro­mo­tori ope­rano più che legit­ti­ma­mente e con il mas­simo della coe­renza espo­nenti che si ripro­met­tono di far valere sem­pli­ce­mente un equi­li­brio fles­si­bile entro le com­pa­ti­bi­lità date in sede euro­pea. Una even­tuale vit­to­ria refe­ren­da­ria sarà legit­ti­ma­mente figlia di un libe­ra­li­smo dal volto umano, rischiando di for­nire una defi­ni­tiva legit­ti­ma­zione demo­cra­tica alle attuali poli­ti­che euro­pee. Forse un aiuto a Fran­cia e Ita­lia nella dia­let­tica con la Ger­ma­nia, ma nulla di più. È que­sto ciò che si vuole?

Per senso di rea­li­smo (meglio poco che niente) può anche accet­tarsi una simile pro­spet­tiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinun­cia a cam­biare l’orizzonte delle com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che e poli­ti­che. Un’altra Europa e un’altra Ita­lia -se vogliamo dare un senso pro­fondo alle parole- pos­sono nascere solo se si è in grado di ridi­scu­tere i trat­tati e i vin­coli eco­no­mici, solo se si è in grado di pro­porre una stra­te­gia in cui si affermi la cen­tra­lità dei diritti delle per­sone, solo se -in Ita­lia- si rie­sce ad modi­fi­care il prin­ci­pio di equi­li­brio impo­sto nel 2012 da un super­fi­ciale e irruento legi­sla­tore che ha distorto gli equi­li­bri costi­tu­zio­nali con la modi­fica dell’articolo 81.

Si com­prende la sen­si­bi­lità della sini­stra radi­cale al refe­ren­dum. È tra­mite que­sto stru­mento di par­te­ci­pa­zione che si sono otte­nute la più signi­fi­ca­tive vit­to­rie poli­ti­che e costi­tu­zio­nali. Il refe­ren­dum del 2006 che ha scon­fitto il ten­ta­tivo di riscri­vere in senso auto­ri­ta­rio la nostra costi­tu­zione; quello del 2011 che ha visto affer­marsi un’altra idea di svi­luppo con la vit­to­ria dell’acqua bene comune. Ma non credo che que­sto possa indurre a soste­nere ogni richie­sta al di là del merito. Anche per­ché temo che il rischio di delu­dere le aspet­ta­tive sia più vicino di quanto non possa sembrare.

Ritengo infatti che i que­siti pro­po­sti siano ad alto rischio di inam­mis­si­bi­lità. Temo cioè che non pos­sano pas­sare il vaglio della Con­sulta. Sono diverse le ragioni che mi indu­cono a for­mu­lare que­sta pre­vi­sione. Alla luce della giu­ri­spru­denza costi­tu­zio­nale ritengo che si sia cor­ret­ta­mente prov­ve­duto a disin­ne­scare il rischio di una pro­nun­cia di inam­mis­si­bi­lità per vio­la­zione di un obbligo euro­peo (ed in effetti i que­siti non pon­gono in discus­sione alcun vin­colo comu­ni­ta­rio), più dif­fi­cile con­vin­cere la Corte costi­tu­zio­nale che le norme che si vogliono abro­gare non rien­trino tra quelle tri­bu­ta­rie e di bilan­cio che sono espres­sa­mente escluse dal refe­ren­dum (soprat­tutto dopo l’allargamento con­cet­tuale defi­nito con la sen­tenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sot­to­pone a refe­ren­dum non rien­tri tra quelle escluse dal refe­ren­dum per­ché “a forza pas­siva pecu­liare”. In quest’ultimo caso la giu­ri­spru­denza costi­tu­zio­nale (secondo quanto deciso – in modo un po’ gene­rico, in verità — dalla sen­tenza 16 del 1978) sem­bre­rebbe voler esclu­dere tutte quelle leggi appro­vate con un pro­ce­di­mento spe­ciale. E la legge di attua­zione dell’articolo 81 deve essere appro­vata con mag­gio­ranza qualificata.

Biso­gna allora arren­dersi al Fiscal com­pact? Non credo. Ci sono altri stru­menti di par­te­ci­pa­zione pre­vi­sti dal nostro ordi­na­mento costi­tu­zio­nale. L’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare è uno di que­sti. Essa potrebbe anche affian­carsi al refe­ren­dum richie­sto per segna­lare una rotta diversa in grado di impri­mere un reale cam­bia­mento nelle poli­ti­che eco­no­mi­che e di rispetto dei diritti costi­tu­zio­nali. È pos­si­bile anche imma­gi­nare la pre­sen­ta­zione di una legge costi­tu­zio­nale assieme ad una ordi­na­ria d’iniziativa popo­lare che rie­scano l’una ad “aggre­dire” il prin­ci­pio dell’equilibrio finan­zia­rio posto in costi­tu­zione l’altra a inter­pre­tare in modo con­forme al sistema costi­tu­zio­nale (all’obbligo costi­tu­zio­nale di assi­cu­rare i diritti fon­da­men­tali) i vin­coli di bilan­cio “di natura per­ma­nente” che l’Europa ci impone. C’è dun­que la pos­si­bi­lità di pro­porre un cam­bia­mento anzi­ché subire o cer­care di argi­nare quello che pro­viene dalle attuali cul­ture dominanti.

L’iniziativa popo­lare è uno stru­mento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo della poli­tica: se non si ha la forza di far sen­tire la pro­pria voce e la capa­cità di uti­liz­zare que­sti stru­menti per mobi­li­tare il popolo di sini­stra su obiet­tivi lar­ga­mente con­di­visi non c’è tec­ni­ca­lità che possa sup­plire al vuoto.

Non mancano le proposte per arginare la corruzione 2.0. Ma gli ordini che vengono dall'alto, sotto la maschera del vocìo giustizialista, e sempre la stessa: andare avanti, murare, murare, murare!

Il manifesto, 28 giugno 2014

In tema di grandi opere, la corruzione è di sistema ed è stata favorita, quasi ricercata, dalle semplificazioni normative e procedurali: un processo di modifiche legislative e smantellamento di verifiche e controlli, avviatosi negli anni novanta con la TAV, proseguito con le leggi “speciali” – quali MOSE e, di recente, EXPO-, e messo a regime nel 2001 con la Legge Obiettivo per le Infrastrutture Strategiche. Logica che i Berluscones – abilissimi nel trasformare i problemi in affari – riproponevano poi in tutta la legislazione cosiddetta d’emergenza con il plauso prolungato del centro-sinistra: Rifiuti, Depurazione, Energia, Grande Commercio, fino alla Sanità.

Si istituzionalizzavano così megaentità speciali, spesso non pubbliche, che dovevano gestire in toto i grandi lavori, in luogo dei precedenti enti appaltanti e gestori,messi a punto con la legge Merloni nel post-Tangentopoli, per cui almeno erano sempre chiare le responsabilità e le competenze delle istituzioni territoriali e di quelle centrali. Adesso la megaopera veniva affidata in gestione ad un concessionario unico (EXPO, Venezia Nuova, Stretto di Messina, SITAV, ecc.), talora a prevalenza pubblica, talora privata, ma che diventava una sorta di “consumatore collettivo istituzionalizzato”, mirato a reperire e canalizzare le risorse – pubbliche e non – per le opere. A fronte di quanto stava al vincitore del megappalto, il Contraente Generale (cordata di grandi imprese il cui capofila era deciso di volta in volta dalle modalità di lottizzazione geopolitica delle opere, nell’ambito della ventina di nomi che monopolizzano appalti e spesso politiche di settore (Impregilo,Coop di costruzione, Astaldi, ecc.) e che a suo tempo avevano spinto per la TAV e poi per la messa a sistema del modello con la Legge Obiettivo. Attorno all’intreccio Concessionaria/General Contractor si formava un più ampio sistema di interessi speculativi, finanziari e imprenditoriali, che vedeva questa volta al centro gli istituti bancari e finanziari che “dovevano assicurare al Concessionario flussi di cassa rapidi”, anticipando l’erogazione di soldi pubblici, ovvero permettendo alle parti private di costruire le modalità di “project financing” o pseudo-tali, con cui dovevano anticipare risorse “da ripagarsi nel tempo” quasi sempre con “la garanzia di ripianamento” da parte dello stato.. La Legge Obiettivo, e le altre leggi speciali, peraltro escluderebbero “aumenti e varianti in corso d’opera”, salvo ammettere deroghe per “operazioni imprevedibili e emergenziali emerse in fase esecutiva”. Così è invalso il sistema di accaparrarsi gli appalti con ribassi incredibili, salvo far lievitare i costi, anche oltre i massimi prevedibili, una volta firmato il contratto.In realtà non si è semplificato nulla, ma sicuramente favorito, se non promosso, i processi corruttivi.

Le “grandi concentrazioni” imprenditoriali–finanziarie, paradossalmente all’indomani di “Mani Pulite”, si trovavano in effetti a fare i conti con sistemi politici e decisionali, indeboliti e semplificati. Indeboliti dalla drastica caduta della militanza e dalla forte riduzione delle risorse disponibili, semplificati dall’avvento dei “Partiti del Leader”, metamorfosi che da Forza Italia investiva via via tutti gli altri e – adesso – con Renzi anche il PD, che a detta di suoi stessi militanti “assomiglia sempre più al PSI di Craxi”, ai tempi in cui Giorgio Bocca scriveva “all’unico socialista che pensa con la testa sua”.

Come le carte delle vicende EXPO e MOSE ben dimostrano, basta accordarsi con pochi decisori determinanti e tutto il sistema risulta “integrato”. Con processi facilitati dall’accresciuto peso che organizzazioni da sempre “collaterali ma pesanti” nelle decisioni politiche – vedi la Massoneria – hanno riassunto nell’attualità. Peraltro il sistema lobbistico delle grandi opere trovava anche “più raffinati” meccanismi di cattura del sistema politico: sorreggeva direttamente o integrava le cordate dei leader emergenti nei vari partiti,spesso arrivando ad assumere parenti o sodali del decisore importante. Nel giro delle Grandi Opere abbiamo moltissimi di questi casi. Che creano attorno ad esse quella nuvola di imprese – molte delle quali sono solo nomi e passacarte, “accaparra” risorse, che oggi Ivan Cicconi, attento osservatore dall’interno del sistema dei Grandi Appalti, stima abbiano superato la dimensione di più di ventimila società.

Per sovrammercato, parliamo quasi sempre di opere inutili, non scaturenti da alcuna programmazione né da analisi mirate; ma “già decise dalle istituzioni rappresentative”,ovvero da una politica spesso controllata.

A Firenze proprio sulla TAV casca l’asino … renziano. Il Passante dell’Alta Velocità sotto il centro storico è un progetto devastante- oggi bloccato dalla magistratura- di super tunnel e megastazione. Per quest’ultima si decide addirittura di non effettuare alcuna valutazione ambientale: “se si fa la VIA non si fa più il sottoattraversamento” sancì l’allora ministro delle infrastrutture Matteoli salutato con favore dal centro-sinistra.

Renzi si opponeva a tutto questo. Fino a quando, diventato sindaco di Firenze, decideva di scalare dapprima il partito e poi il governo. Per questa operazione aveva bisogno di integrarsi, non di avversare, i grandi interessi lobbistici ruotanti attorno alla AV di Firenze e più in generale alle grandi opere. Dopo un lungo silenzio, eccolo vestito da ultrà: oggi invoca la ripresa dei lavori del supertunnel fiorentino. E di fronte ai clamorosi scandali EXPO e MOSE si affanna a urlare da pseudogiustizialista per coprire l’omissione dell’unica cosa da fare: annullare i contratti e interrompere i flussi di denaro. Vanno infatti proprio bloccati gli appalti: ci vorrebbe una moratoria e una revisione drastica del programma Grandi Opere. Insieme alla cancellazione della legge Obiettivo e delle altre leggi speciali di berlusconiana memoria. Invece “ i lavori non si fermano!”.

Pensiamo che il lavoro che attende lo stimato Raffaele Cantone sia piuttosto problematico: sinceri auguri.

Ogni lasciata è persa! Come si fa a giudicare male papà Gianni che coglie una bella opportunità per la sua giovane figlia. La comunità, il bene comune: partiamo da chi ci è più vicino, meglio se da noi stessi..

La Repubblica, 29 giugno 2014 (m.p.r.)

Pescara. Veronica Teodoro, 19 anni, è l’assessore più giovane d’Italia nei comuni oltre centomila abitanti. Ed è stata scelta da suo padre. «Quando papà Gianni me l’ha chiesto, mi è venuto un colpo… La mia migliore amica ancora non ci crede. Al telefono mi ha detto: mi stai prendendo in giro, vero?». Occorreva inserire una quarta donna nella giunta del nuovo sindaco di Pescara Marco Alessandrini, Pd, figlio del giudice Emilio ucciso da Prima Linea nel 1979. Una donna che fosse però “espressione” della lista civica “Teodoro”, formazione centrista con più di mille voti alle ultime elezioni e due consiglieri comunali eletti: Piernicola Teodoro e Massimiliano Pignoli (anche loro parenti della famiglia Teodoro).

Così papà Gianni — un passato tra Forza Italia e la Margherita — quando si è trovato di fronte al divieto di entrare lui in giunta e contemporaneamente all’obbligo di dover indicare una donna, ha proposto la figlia. E il sindaco Alessandrini ha detto sì, anche per evitare una crisi di maggioranza ancora prima di cominciare ad amministrare questa città di 123mila abitanti. E così da tre giorni, Veronica, studentessa di giurisprudenza a Bologna con tre esami all’attivo, due mesi di volontariato alla Croce Rossa e «nessuna esperienza politica», precisa lei stessa, è il nuovo assessore al Patrimonio comunale e alle Politiche giovanili. Non solo: «Anche all’associazionismo sociale, ai rapporti con il mondo del volontariato, all’Agenda21 e al marketing territoriale », sottolinea ancora lei. E come tutti gli altri assessori del Comune di Pescara riceverà un compenso di oltre 2mila euro al mese.

Quanto tempo ha avuto a disposizione per decidere?
«Papà mi ha dato solo due ore».
Come, papà? Non glielo ha chiesto il sindaco?
«No, è stato mio padre a chiamarmi. Qualche giorno fa mi ha detto: c’è questa opportunità, sappi che potrebbe non essere facile… Io senza pensarci troppo ho detto sì. Poi mi hanno chiamato tutti. Mio zio Piernicola che è consigliere comunale a Pescara. E anche l’altro mio zio Maurizio che diversi anni fa è stato assessore regionale. Anche il mio fidanzato e mia madre erano sorpresi. Penso proprio che adesso la mia vita cambierà».
Si è già pentita?
«Per niente, voglio dimostrare di essere all’altezza del ruolo che mi è stato assegnato ».
Pensa di meritarlo?
«Ha scelto mio padre, è vero, ma alla fine il sindaco Alessandrini poteva anche dire di no. È lui che mi ha nominato e mi ha indicato come sua collaboratrice. Si fida di me, anche se mi conosce poc. Devo ricambiare questa fiducia».
Lei è in carica da due giorni. Ha già preso possesso del suo ufficio? Ha parlato con i suoi nuovi collaboratori?
«No, non so neanche quale sarà il mio ufficio. So solo che avrò dei segretari che mi aiuteranno nel lavoro di tutti i giorni».
Lei ha la delega al patrimonio comunale. Ha idea di quanti e quali siano i beni pubblici di cui dispone il Comune di Pescara?
«Sinceramente no, ma avrò modo e tempo di valorizzarli e metterli ancora di più al servizio dei cittadini».
Che opinione ha della politica?
«Non sono mai stata una di quelle che sputa addosso ai politici... Anzi, li ammiro, perché gestire un piccolo comune o una città come Pescara non è facile. Ci vuole coraggio e impegno».
Occorre anche competenza, però.
«Nel mio caso sono troppo giovane, mi serve solo tempo. Ho voglia di lavorare e impegnarmi».
La sua nomina ha scatenato molte polemiche.
«Sono dispiaciuta soprattutto per i commenti di alcuni miei compagni di classe sui social network. Forse sono state le critiche che mi hanno ferito di più. Papà, però, dice che questo purtroppo rientra nelle difficoltà della strada che ho deciso di intraprendere».
Lascerà l’università?
«No, ma dovrò trovare una facoltà più vicina. Voglio diventare magistrato oppure avvocato. Spero di riuscirci conciliando tutto».

«È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri».

Il manifesto, 28 giugno 2014

Per bonificare il terreno dalla mala pianta della corruzione basterebbe un semplice articolo di legge che dicesse: “E’ fatto divieto a qualunque impresa che ha rapporti con la pubblica amministrazione (concessioni, appalti, ecc.) di elargire denaro a chiunque e a qualsiasi titolo (contributi, sponsorizzazioni, ecc.)”. Mi verrebbe voglia di proporre a Confindustria e Governo una campagna del tipo pubblicità progresso: “Liberiamo le imprese dal pizzo ai politici”. Ma so che non la accetterebbero mai perché il fenomeno della nuova corruzione – contrariamente a quanto si affannano a dire i commentatori di regime - ha poco a che fare con la teoria antropologica delle “mele marce”.

La “Corruzione 2.0” è consustanziale al sistema di finanziarizzazione delle opere pubbliche. Qui non si tratta di fare i conti con il lato oscuro, egoista e un po’ cleptomane dell’animo umano, ma con un sistema politico-economico (volgarmente chiamato affari&politica) strutturalmente radicato che prescinde dai singoli addebiti di rilevanza penale in cui sono incappati alcuni noti personaggi. È in atto un miserabile tentativo di separare il destino delle “grandi opere” da quello giudiziario delle aziende che le hanno progettate e costruite; da quello degli apparati tecnici pubblici preposti alla approvazione, controllo e collaudo; da quello dei decisori politici corrotti.
È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri. Sono sicuro che tra un po’ di tempo i vari capitani delle cordate delle grandi imprese che stanno costruendo il Mose, l’Expo, il Tav, decine di nuove autostrade, grandi poli ospedalieri, rigasificatori, carceri e via dicendo saranno trattati come vittime, costretti a corrompere per realizzare opere di interesse economico generale. La strada del fare, spendere, costruire deve essere spianata. Alcuni tra gli stessi inquisitori si sono preoccupati di indicare ai legislatori il modo per non incorrere più in “incidenti” giudiziari. Il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha dichiarato: “Gli unici strumenti contro la corruzione sono la semplificazione delle procedure e l’individuazione delle competenze. Se un cittadino deve bussare cento porte è inevitabile che qualcuna resti chiusa finché qualcuno non viene a suggerirti di oliarla”.
Oltre al danno la beffa! Come se il Mose o altre infrastrutture del genere avessero potuto superare l’esame di una seria valutazione tecnica (strutturale oltre che ambientale) se prima non fossero state avuotate le competenze degli apparati tecnico scientifici dello stato (Cnr e università compresi) e senza azzerare le capacità di giudizio autonomo dei decisori politici. Che ciò avvenga con la corruzione diretta o con il finanziamento delle campagne elettorali, dei giornali di partito, delle società sportive o delle parrocchie… poco importa. L’attenzione mediatica sullo scandalo delle tangenti mette in secondo piano la mostruosità ancora più grande della realizzazione di opere inutili e dannose, che servono solo a chi le fa e che sottraggono risorse pubbliche ad altri interventi più necessari. Ricordiamoli ancora: trasporti pubblici locali, strutture sanitarie di prossimità, assetto idrogeologico, recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente, beni culturali, servizio idrico integrato.
Per questi motivi la priorità ora è fermare le opere sospettate di irregolarità, revocare le autorizzazioni, annullare i contratti, le concessioni e gli affidamenti dei lavori per poterne verificare la affidabilità tecnica oltre che economica. In nome di un elementare principio di precauzione. Ma non basta ancora. È necessario impedire che questo modo di fare, spendere, costruire proceda come e più di prima. Bisognerebbe abrogare la “legge obiettivo” Lunardi-Berlusconi (2001) e vietare i Project Financing. Lo “Sblocca Italia” annunciato da Renzi, in questo quadro normativo colabrodo e in questo quadro politico corrotto, si presenta come la più irragionevole e arrogante sfida al buon governo.

«Si procederà a un azzeramento del codice ripartendo da un testo di 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che a alleggerire si pensa a più trasparenza e chiarezza».

Corriere della sera, 26 giugno 2014, postilla

La scadenza è fissata entro la fine di luglio. Per quella data il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Riccardo Nencini, conta di riscrivere il nuovo codice degli appalti e di farlo approdare in consiglio dei Ministri. Ieri si è incontrato con Raffaele Cantone, neo presidente Autorità Nazionale Anticorruzione, per condividere l’elaborazione di un sistema di qualificazione e certificazione delle imprese basato su criteri di omogeneità e trasparenza. Nencini suggerisce il concetto di «sinergie» con Cantone, ma il vero obiettivo del governo è archiviare una volta per tutte un modello di affidamento degli appalti e delle concessioni ormai pieno di falle. Basti la recente inchiesta sui cantieri per l’Expo 2015. Motivo per cui i lavori del tavolo tecnico istituito dal viceministro sono a buon punto. «Abbiamo già incontrato i gruppi parlamentari e si procederà con un azzeramento del codice ripartendo da un testo con circa 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che all’alleggerimento si pensa a più trasparenza e chiarezza delle norme».

Nel dettaglio si tratterà di due decreti legislativi che supereranno il vecchio sistema. Il primo provvedimento recepisce la direttiva Europea in materia di appalti e gare, l’altro decreto è destinato a raccogliere le misure che serviranno, per esempio, a ridurre il numero delle stazioni appaltanti, semplificare e snellire gli oneri documentali, migliorare le condizioni di accesso al mercato per le piccole e medie imprese. Nencini rivendica le novità in materia di revisione della certificazione delle imprese, evitando penalizzazioni per le imprese giovani e innovative. Per scongiurare gli effetti patologici dei comitati Nimby (Not in my backyard) e No Tav il nuovo ordinamento prevederà la partecipazione delle popolazioni dei territori interessati nel processo decisionale, mutuandolo dalla legislazione francese. Previsto, infine, un quadro di regole chiare e trasparenti per i lobbisti, a cominciare da un registro con l’elenco ufficiale degli iscritti.

postilla
La rivisitazione delle norme sugli appalti che Nencini sta coordinando sembra voglia rispondere - sotto la spinta degli scandali esplosi di recente - a recepire direttive emanate in sede europea, a razionalizzare il sistema degli appalti, anche introducendo elementi di maggiore trasparenza, infine a semplificare il sistema normativo . Non è ancora noto in che modo questi obiettivi saranno perseguiti. L’ideologia di Matteo Renzi è nota, e quindi l’attesa non può che essere trepida.

Se si volesse fare sul serio (e non disfare ridacchiando) occorrerebbe con assoluta priorità: eliminare il ricorso alle procedure derogatorie e trovare criteri idonei per selezionare i componenti delle commissioni di gara e gli esperti che partecipano alle decisioni riguardanti l’andamento dei lavori (i direttori dei lavori, i responsabili del procedimento le commissioni di collaudo).
Quest’ultimo aspetto sembra particolarmente importante perché qualsiasi magistrato non può che verificare la regolarità formale degli atti. Quindi se collaudatori e direttori dei lavori si esprimono favorevolmente ad esempio – su riserve del tutto infondate difficile, se non impossibile, garantire la correttezza complessiva dell’appalto.
Infine, una domanda sorge spontanea. Come mai un governo/legislatore, che privilegia la fretta sovra ogni altra cosa, non ha pensato di approvare ex novo, nel suo testo originario, la legge Merloni del 1994? Una legge ottima, che aveva funzionato bene prima che i legislatori dei governi di Berlusconi e della “larghe intese” l’avessero svuotata (vedi in proposito l’articolo di Vittorio Emiliani su La Nuova Venezia)

». Il manifesto, 28 giugno 2014

L’avvertenza, cor­diale ma ferma, è che della poli­tica poli­ti­cante non vuole par­lare. La sente, spiega, «come cosa lon­tana, fac­cio delle rifles­sioni, le scrivo, le rileggo e capi­sco che sono pro­fon­da­mente inat­tuali». Ma Fau­sto Ber­ti­notti è la primo volto che viene in mente al com­bi­nato dispo­sto delle parole ’sini­stra’ e ’scis­sione’, ’cen­tro­si­ni­stra’. Pre­si­dente della camera dal 2006 al 2008, poi lea­der della sini­stra arco­ba­leno azze­rata dalla voca­zione mag­gio­ri­ta­ria. Ma prima segre­ta­rio dal ’94 di Rifon­da­zione comu­ni­sta, quasi per impo­si­zione del fon­da­tore Armando Cos­sutta. Quel par­tito da lì ha infi­lato una serie di scis­sioni a destra e sini­stra (anche Cos­sutta nel ’98 lo lasciò), fra soste­gno e rot­ture con i governi di cen­tro­si­ni­stra. Fino alla scis­sione della scis­sione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vici­nis­simi: Nichi Ven­dola, a sua volta scis­sio­ni­sta e fon­da­tore di Sel; e Gen­naro Migliore, ora vicino al Pd ren­zi­sta. Una sto­ria, e le scelte che hanno por­tato tutta la ’sini­stra sini­stra’ fino a qui — non in con­di­zioni sma­glianti — è sto­ria di un’intera comu­nità. Lo incon­triamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fon­da­zione — Cer­care ancora — che a set­tem­bre tra­slo­cherà. Tempi duri. E non solo a causa spen­ding review.

Pre­si­dente Ber­ti­notti, lei sostiene ormai da anni che la sini­stra non esi­ste più. Allora per­ché la sini­stra con­ti­nua a dividersi?
Que­sta divi­sione già dimo­stra che non c’è più. Quando c’era si chia­mava ’scis­sione’. Si poteva per­sino evo­care, lo fece Gram­sci nel ’21, ’spi­rito di scis­sione’. C’è scis­sione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rin­no­va­mento nella con­ti­nuità’, l’idea che da un albero può spez­zarsi un un ramo e rimet­tere radici. Ma se non c’è con­ti­nuità non c’è nean­che rin­no­va­mento, e allora la divi­sione è un esodo, una fuo­riu­scita. La sto­ria della sini­stra e del movi­mento ope­raio in Europa si è chiusa in tre cicli: la scon­fitta del 900, rias­sunta nel crollo del Muro di Ber­lino; il Dopo­guerra delle costi­tu­zioni demo­cra­ti­che, dei par­titi e dei sin­da­cati di massa, che ter­mina con la scon­fitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei par­titi si can­di­dano a gover­nare la moder­niz­za­zione. È il cen­tro­si­ni­stra, una con­di­zione ambi­gua e anfi­bia di cui in parte cir­cola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e dell’Europa reale, una tena­glia ne can­cella le ultime tracce. E i par­titi eredi com­ple­tano la loro muta­zione gene­tica. Erano i par­titi dell’alternativa di società, diven­tano i par­titi dell’alternanza di governo.

Renzi rap­pre­senta il com­pi­mento di un ciclo o una ripartenza?

Renzi è un feno­meno impor­tante. A sini­stra abbiamo un tic, non accet­tare che i nostri avver­sari siano forti. Ricor­diamo un vec­chio caro­sello con Erne­sto Calin­dri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la moder­nità, Volpi scuo­teva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cul­tura post­mo­derna e post­de­mo­cra­tica, una gigan­te­sca costru­zione ideo­lo­gica che copre come una col­tre una realtà sfran­giata e deva­stata. Renzi è il por­ta­tore natu­rale della poli­tica fun­zio­nale di que­sto nuovo ciclo, quello della gover­na­bi­lità come ele­mento tota­liz­zante. La sua Welt­an­schauung è ’vin­cere e gover­nare’, con­tro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle fami­glie poli­ti­che euro­pee. I socia­li­sti per­dono ovun­que. E invece Renzi che socia­li­sta non è — lasciamo stare la scelta gover­na­tiva di ade­rire al Pse — non essendo socia­li­sta vince. Per­ché sce­glie la tra­sver­sa­lità. È coevo a que­sto tempo, quello che ha sosti­tuito lo scon­tro fra destra e sini­stra con quello fra l’alto e il basso che noi imper­fet­ta­mente chia­miamo popu­li­smo. E per­ché Renzi è for­tis­simo? Per­ché la sua tra­sver­sa­lità fonda il popu­li­smo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato popu­li­sta, per l’altro è neo­bo­na­par­ti­sta, cioè usa il popu­li­smo per pla­smare il governo dall’alto. L’esito è neau­to­ri­ta­rio: un governo che si pre­sume così, aset­tico, obbli­gato nelle scelte e privo di alter­na­tive, ’naturale’.

Eppure Renzi si pre­senta come un uomo di sini­stra. E così viene per­ce­pito da molti suoi elettori.
No, non è vero. Per­sino la sua reto­rica è accu­ra­ta­mente tra­sver­sale, tanto che può per­met­tersi alcune cita­zioni di sini­stra. Il caso più cla­mo­roso è l’adesione al Pse: i vec­chi del Pd hanno dispu­tato per anni se ade­rire o no. Era una discus­sione ridi­cola, cari­ca­tu­rale, ma le vec­chie fami­glie ancora con­flig­ge­vano. Spaz­zate via que­ste fami­glie, lui può ade­rire al Pse senza subirne il rica­sco defi­ni­to­rio. Renzi non diventa socia­li­sta, è il par­tito socia­li­sta euro­peo che diventa ren­ziano. La sua è un’uscita dalla sto­ria socia­li­sta per presa d’atto della sua con­clu­sione. Così restaura le feste dell’Unità: nes­suno può accu­sarlo di essere comu­ni­sta. Né demo­cri­stiano. È trasversale.

Que­sta tra­sver­sa­lità assorbe tutto il campo della poli­tica? A suo parere non c’è spa­zio per altro?
Alfredo Rei­chlin gli ha offerto la for­mula ’par­tito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una cita­zione del mondo antico. Il suo è il ’ par­tito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una voca­zione tota­li­ta­ria in sin­to­nia con que­sto capi­ta­li­smo tota­li­ta­rio che ha l’ambizione di con­qui­stare tutti al prin­ci­pio della competitività.

Lei, negli anni 90, è stato il fon­da­tore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sini­stra del cen­tro­si­ni­stra. Non c’è più una sini­stra che possa ambire a una dia­let­tica con que­sta ’trasversalità’?
No, se resta nel recinto. Quel ten­ta­tivo di mesco­larsi è stato scon­fitto. Allora c’erano due sini­stre che si misu­ra­vano con la glo­ba­liz­za­zione, con due idee oppo­ste. Per capirci: gover­na­bi­lità con­tro alter­mon­dia­li­smo. Era l’ultimo sta­dio della sto­ria di quella sini­stra, e la Rifon­da­zione comu­ni­sta era l’ultima ipo­tesi revi­sio­ni­stica. Fal­lita per la scon­fitta e la muta­zione gene­tica, e per il cam­bia­mento radi­cale della scena pro­dotto dal capi­ta­li­smo finan­zia­rio globale.

Posto che i vin­ci­tori hanno sem­pre le loro colpe, quali sono le colpe degli scon­fitti, le vostre?
Le occa­sioni man­cate. In Ita­lia — e sto sulle ultime, non parto dall’XI con­gresso del Pci come farebbe Pie­tro Ingrao — sono almeno tre: lo scio­gli­mento del Pci poteva essere diverso, qual­che recri­mi­na­zione di Occhetto che chie­deva inno­va­zione nella tra­di­zione aveva nuclei di verità; lì una comu­nità si smem­bra. Seconda occa­sione man­cata, il movi­mento alter­mon­dia­li­sta, nel 2000 — 2001. Lì c’è il primo smacco del cen­tro­si­ni­stra: all’avvio della glo­ba­liz­za­zione e alla nascita dell’Europa di Maa­stri­cht nean­che il ten­ta­tivo timido ma inte­res­sante di Jospin viene soste­nuto. Il cen­tro­si­ni­stra ita­liano è tra i respon­sa­bile dell’uccisione di quel ten­ta­tivo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movi­mento alter­mon­dia­li­sta, man­chiamo l’ultima occa­sione, quella di devol­vere ciò che era rima­sto della sini­stra di alter­na­tiva in quel movimento.

Lei era già il teo­rico del par­tito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?
Avremo dovuto capire che il mondo dei par­titi tra­di­zio­nali era finito. E but­tarci nel nuovo emer­gente oriz­zonte anticapitalista.

Rinun­ciando defi­ni­ti­va­mente all’idea repub­bli­cana di una moderna demo­cra­zia dei partiti?
Avremmo dovuto rein­ven­tarci. I par­titi attuali sono orga­niz­za­zioni di ceto poli­tico all’americana, che vive la sta­gione elet­to­rale per la sola rap­pre­sen­tanza nelle isti­tu­zioni. E quelli così fatti, qua­lun­que sia la loro col­lo­ca­zione, sono interni a un sistema neoau­to­ri­ta­rio in cui il governo è tutto. Per­sino Grillo che ha avuto la giu­sta intui­zione che il sistema poli­tico si abbatte e non si riforma, oggi viene cat­tu­rato dalla logica di governo, per essere pre­sen­ta­bile e per far parte del gioco politico .

Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.
No, dal basso. Grillo è un sistema auto­ri­ta­rio che tut­ta­via dà voce al con­flitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le for­ma­zioni popu­li­ste che inter­cet­tano il con­flitto fra popolo e élite. La sini­stra non c’è se non nasce da que­sto con­flitto. Quella che pensa di rina­scere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.

Nono­stante i suoi cer­ti­fi­cati di morte, lei resta vicino alla sini­stra che ci prova. Oggi a Tsi­pras, ieri a Ingroia. Lei è garan­ti­sta: per­ché soste­neva un giustizialista?
Non avevo nes­suna fasci­na­zione per Ingroia, e non credo per niente a que­ste strade. Tut­ta­via se i miei parenti ci ripro­vano non mi metto con­tro. Li voto affettuosamente.

Così anche la lista Tsipras?
Qui ho un ele­mento in più. Tsi­pras mi intriga non per la nostra vicenda ita­liana ma per­ché indica una rico­stru­zione su scala euro­pea invece che dalle pri­gioni nazionali.

Tsi­pras non cor­ri­sponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un poli­tico capace di aprire con­fronti con la socialdemocrazia.Mi prende su una corda sco­perta, le simi­li­tu­dini con una certa Riforn­da­zione sono evi­denti. Ma c’è una dif­fe­renza: da dove viene Syriza? Nes­suno mi dica che viene dalle for­ma­zioni pre­ce­denti alla grande rivolta. Il Syna­spi­mos, da cui viene parte di que­sto gruppo diri­gente, gua­da­gnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleg­gia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.

Il Syna­spi­smos è uno dei padri, uno dei par­titi della coa­li­zione della sini­stra radi­cale greca.
Ana­gra­fi­ca­mente sì, ma Syriza è la dimo­stra­zione che la sini­stra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vec­chi partiti.

Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divi­sioni. Sia Ven­dola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una lea­der­ship, la sua, con tratti di per­so­na­li­smo. Oggi si sepa­rano, ma restano entrambi con­vinti della pos­si­bi­lità di una sini­stra del cen­tro­si­ni­stra. Come spiega la distanza dal maestro?
Non direi mae­stro, direi che abbiamo con­di­viso una stessa comu­nità. Cono­sco due modelli di lea­der­ship poli­tica: una che figlia per discen­denza diretta, quando un allievo assume tutto di un mae­stro, atteg­gia­menti fisici inclusi; e una che figlia oriz­zon­tal­mente, penso a Ingrao, Magri, Ros­sanda, i miei mae­stri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gen­naro rico­no­sco il tratto della mia dire­zione e qual­che scam­polo di me. Ma poli­ti­ca­mente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psi­coa­na­li­sti laca­niani sto lavo­rando a capire per­ché a sini­stra si pro­du­cono con­flitti mor­tali diver­sa­mente dalle altre sto­rie poli­ti­che. I socia­li­sti e i demo­cri­stiani fanno scelte oppo­ste ma restano affra­tel­lati. Noi defla­griamo. Quando avrò una rispo­sta le dirò meglio.

Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?
Ne pas­serà un altro. Inten­dia­moci, per me rivolta è rot­tura: Occupy Wall Street, indi­gna­dos, Gre­cia. Anche le pri­ma­vere arabe: forme di lotta dal basso senza par­tito e senza lea­der che costrui­scono nuove isti­tu­zioni, al di là dell’esito. L’altro fon­da­mento è la coa­li­zione sociale, le tes­si­ture extra­mer­can­tili di con­flitti, auto­no­mia, auto­ge­stione, auto­go­verno. Il rife­ri­mento è a fine 800 inizi 900: ate­lier pari­gini, Iww negli Stati uniti. Forme di con­te­sta­zione fuori dalla tra­di­zione orga­niz­zata. Oggi in Ita­lia i No Tav ma anche il Cinema Ame­rica e il Tea­tro Valle di Roma, le 160 aziende auto­ge­stite, i 200 scio­pe­ranti della Mase­rati. Rivolta è ciò che dal basso pro­muove con­flitto con­tro le élite e si mani­fe­sta come irru­zione di ener­gia e di forza.

È una rivolta nonviolenta?
Lo spero, dipen­derà dalla rea­zione delle classi diri­genti. Io credo che ci siano le con­di­zioni cul­tu­rali per­ché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieu­tica della sini­stra. Ma è il punto di rot­tura neces­sa­rio. Come nel ’48, e in quella cosa straor­di­na­ria e magica che fu la Comune di Parigi.

Lei per primo guidò la sini­stra radi­cale nelle pri­ma­rie. Niente più pri­ma­rie ormai?
Le pri­ma­rie ave­vano un senso fin­ché era ipo­tiz­za­bile la rifor­ma­bi­lità della sini­stra poli­tica. Oggi sono fun­zio­nali all’ordine nuovo neoau­to­ri­ta­rio del par­tito del governo. La verità è che noi che era­vamo avversi al rifor­mi­smo siamo stati gli ultimi a lavo­rare per sal­varlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.

LLa Repubblica, 27 giugno 2014

I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura (non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui?

Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.

Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale.

Ciò sembra convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale, visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia, enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice; quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso che nel primo caso.

Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.

«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea».

Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da gio­vedì 3 luglio a mar­tedì 30 set­tem­bre. È que­sto il tempo a dispo­si­zione del comi­tato pro­mo­tore dei quat­tro refe­ren­dum «Stop all’austerità, sì alla cre­scita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo svi­luppo» per rac­co­gliere 500 mila firme e con­vo­care una con­sul­ta­zione popo­lare sul Fiscal com­pact, il «pilota auto­ma­tico» che obbli­gherà l’Italia a tagliare il debito pub­blico dal 133% al 60% a par­tire dal 2016 fino al 2036.

Com­po­sto da eco­no­mi­sti, giu­ri­sti e sin­da­ca­li­sti di diverso orien­ta­mento cul­tu­rale e poli­tico, dall’ex vice­mi­ni­stro Pdl dell’Economia, Mario Bal­das­sarri, al sin­da­ca­li­sta Cgil Danilo Barbi, dagli eco­no­mi­sti Ric­cardo Real­fonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pen­nac­chi e Paolo De Ioanna, ieri alla pre­sen­ta­zione dell’iniziativa alla Camera dei depu­tati il comi­tato si è mostrato fidu­cioso sulla pos­si­bi­lità di sca­lare una vetta impe­gna­tiva in breve tempo. Un giu­ri­sta come Giu­lio Salerno ritiene che i quat­tro que­siti refe­ren­dari su alcune dispo­si­zioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il prin­ci­pio di equi­li­brio del bilan­cio pub­blico intro­dotto dalla legge costi­tu­zio­nale n°1 del 2012), pos­sano essere giu­di­cati ammis­si­bili dalla Corte Costituzionale.

Il refe­ren­dum si rivolge ad una legge ordi­na­ria di attua­zione della Costi­tu­zione e non com­por­terà la vio­la­zione degli obbli­ghi con­tratti dal nostro paese in sede euro­pea o in un trat­tato inter­na­zio­nale, fat­ti­spe­cie che non potreb­bero essere oggetto di una con­sul­ta­zione refe­ren­da­ria. Secondo Giu­lio Salerno, pur essendo stato votato dalla mag­gio­ranza asso­luta dei mem­bri delle Camere, il pareg­gio di bilan­cio non può essere con­si­de­rato una norma «rin­for­zata e orga­nica». In più, non tutte le parti del pila­stro dell’austerità finan­zia­ria sono costi­tu­zio­nal­mente vin­co­late. È anzi pos­si­bile abro­gare i punti che non inci­dono diret­ta­mente sulla defi­ni­zione del bilan­cio dello Stato.

Que­sto aspetto è stato stu­diato nell’ultimo anno in una serie di incon­tri e di pub­bli­ca­zioni curate dall’associazione «Viag­gia­tori in movi­mento». Creata dall’economista Gustavo Piga, a que­sta asso­cia­zione par­te­ci­pano anche poli­tici della prima e della seconda Repub­blica quali Mario Segni, Gior­gio La Malfa, Enzo Carra e Paolo Cirino Pomi­cino, oltre che Bruno Tabacci e Cesare Salvi. Una volta com­po­sto il comi­tato pro­mo­tore, e otte­nuto l’impegno della Cgil a rac­co­gliere le firme durante l’estate, si è pre­ci­sata la rispo­sta all’insidioso argo­mento sull’ammissibilità del refe­ren­dum anti-austerity. Tranne il rife­ri­mento ai para­me­tri giu­ri­dici euro­pei, la legge 243 del 2012 non accenna al trat­tato inter­na­zio­nale costi­tu­tivo del Fiscal com­pact. Quest’ultimo non riguarda l’Unione euro­pea, ma gli stati che hanno ade­rito alla moneta unica. Il comi­tato pro­mo­tore ritiene così di avere aggi­rato i divieti per l’iniziativa referendaria.

I quat­tro «Sì» richie­sti potreb­bero modi­fi­care l’applicazione «ottusa» del prin­ci­pio dell’equilibrio di bilan­cio, eli­mi­nando alcune gravi stor­ture intro­dotte dal par­la­mento ita­liano. Si vuole così eli­mi­nare le dispo­si­zioni che obbli­gano governo e par­la­mento a fis­sare obiet­tivi di bilan­cio più gra­vosi di quelli defi­niti in sede euro­pea. Il refe­ren­dum abroga la dispo­si­zione che pre­vede la cor­ri­spon­denza tra il prin­ci­pio costi­tu­zio­nale di bilan­cio e il con­sid­detto «obiet­tivo a medio ter­mine» sta­bi­lito in Europa, una norma che non è impo­sta dal Fiscal com­pact. Vin­cendo il refe­ren­dum, l’Italia potrebbe ricor­rere all’indebitamento per rea­liz­zare ope­ra­zioni finan­zia­rie, un’azione oggi vie­tata. Infine, ver­rebbe abro­gata l’attivazione auto­ma­tica del mec­ca­ni­smo che impone tasse o tagli alla spesa pub­blica in caso di non rag­giun­gi­mento dell’obiettivo di bilan­cio, deciso dai trat­tati inter­na­zio­nali e non dall’Unione europea.

Al di là dei tec­ni­ci­smi, il signi­fi­cato del refe­ren­dum è poli­tico. Vuole rom­pere l’embargo intel­let­tuale e la para­lisi poli­tica creata dal com­mis­sa­ria­mento della poli­tica eco­no­mica da parte delle lar­ghe intese e rac­co­gliere un con­senso dif­fuso sul fatto che i trat­tati euro­pei vanno cam­biati, non sem­pli­ce­mente appli­cati. Secondo l’economista Ric­cardo Real­fonzo, la pro­spet­tiva indi­cata dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi, quella dell’«austerità fles­si­bile», è ina­de­guata: «Va incon­tro ai Paesi in dif­fi­coltà senza però cam­biare real­mente il disa­stro pro­dotto dalle poli­ti­che ispi­rate all’”austerità espan­siva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui mol­ti­pli­ca­tori fiscali. È scien­ti­fi­ca­mente pro­vato ormai che, ad esem­pio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pub­blica implica una per­dita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole atte­nuare l’austerità invo­cando la fles­si­bi­lità dei trat­tati, ma in realtà si è impe­gnato a rag­giun­gere gli stessi obiet­tivi di lungo periodo sta­bi­liti nei trat­tati. Per que­sto oggi abbiamo biso­gno di una spinta dal basso per eser­ci­tare una pres­sione sul governo ita­liano e quelli euro­pei. Biso­gna dare un segnale forte».

Ad oggi hanno ade­rito alla cam­pa­gna refe­ren­da­ria Sel e alcuni espo­nenti del par­tito Demo­cra­tico. Per l’ex vice-ministro dell’economia Ste­fano Fas­sina (Pd), il refe­ren­dum è l’unica strada «per sal­vare l’Europa» anche se il «Par­la­mento non è ancora con­sa­pe­vole della dram­ma­ti­cità della que­stione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sen­sa­zione di essere con­sa­pe­vole». Al refe­ren­dum sarebbe inte­res­sato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gen­naro Migliore, pas­sato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta reto­rica sull’austerità – ha detto Giu­lio Mar­con (Sel) – ma sulle scelte poli­ti­che non si fa un passo avanti. I trat­tati vanno cam­biati, il refe­ren­dum ci offre uno stru­mento per rilan­ciare il dibattito».

«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».

Corriere della sera, 26 Giugno, 2014 (mpr)

L’Aquila — Gli incontri avvenivano al Casinò di Venezia, una o due volte al mese. Lì l’imprenditore cinquantacinquenne di origini casertane Alfonso Di Tella, da anni trapiantato in Abruzzo, discuteva con Aldo Nobis, fratello di Salvatore Nobis detto «Scintilla» per la particolare abilità nel far saltare in aria negozi e uffici di chi si rifiutava di pagare il «pizzo» ai Casalesi, «braccio armato ed affiliato del sodalizio di Michele Zagaria» oggi rinchiuso al «carcere duro»; oppure con Raffaele Parente, imprenditore imparentato con esponenti di spicco del clan campano, sfuggito a un agguato di camorra. In più di un’occasione, gli investigatori della Guardia di finanza hanno visto Nobis consegnare fiches dal valore di migliaia di euro alla fidanzata rumena di Di Tella, che le riponeva nella borsetta.

Situazioni e circostanze che hanno convinto i magistrati della Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, guidata dal procuratore Fausto Cardella, a ritenere Di Tella uno dei tentacoli imprenditoriali dei Casalesi allungatosi sulla ricostruzione del dopo-terremoto in Abruzzo. Il meccanismo è lo stesso accertato in un’altra recente indagine, condotta dalla polizia, sulla ristrutturazione delle chiese danneggiate dal sisma: infilarsi nella riparazione degli edifici privati, pagata con sovvenzioni pubbliche ma affidata senza gare e senza alcun controllo. In questo modo un paio di ditte aquilane si sono assicurati i lavori su una decina di immobili (per un valore complessivo di altrettanti milioni), successivamente sub-appaltati a Di Tella il quale si occupava di recuperare manodopera a basso costo, di origine straniera e campana; gli stessi operai erano poi costretti a restituire a Di Tella una quota degli stipendi, realizzando — secondo gli inquirenti — un’estorsione in piena regola, aggravata dal favoreggiamento della camorra. Di qui l’arresto eseguito ieri di Di Tella, suo fratello Cipriano e suo figlio Domenico, oltre a quattro imprenditori aquilani, accusati di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», ciò che normalmente viene definita «caporalato».
Gli operai venivano reclutati in Campania e trasportati all’inizio di ogni settimana all’Aquila, alloggiati in camerate da venti posti con i letti a castello, e regolarmente pagati dalle imprese aquilane per cui risultavano assunti. Solo che poi una parte dei salari, in particolare le quote relative al Tfr e alla cassa mutua edile, venivano riversate dagli stessi lavoratori a Di Tella. Una sorta di «pizzo» preteso dall’imprenditore amico dei Casalesi che teneva una contabilità parallela per ciascun operaio, grazie alle copie delle buste paga che gli imprenditori locali gli consegnavano di mese in mese.
Sono alcune frasi pronunciate dallo stesso Di Tella nelle conversazioni intercettate dalla Finanza a confermare il modus operandi stigmatizzato così dal giudice che ha ordinato gli arresti: «Il sistema orchestrato dagli indagati, oltre a creare un intero settore economico nel quale è riscontrabile un pesante sfruttamento dei lavoratori, ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata». Inoltre, «attraverso l’opera dei Di Tella, il clan casalese di Michele Zagaria si presenta sul territorio di riferimento come soggetto in grado di garantire concrete e rapide opportunità di lavoro».
Parlando con un amico, Di Tella spiega i rapporti con la manodopera costretta a versargli una quota dello stipendio: «Gli operai miei tutti quanti lo sanno! Quello che è il vostro è il vostro, ma quello che è mio è mio! Non me ne fotte proprio!... A luglio arriva la cassa edile: me la date!... Chi si lamenta se ne può pure andare». In un’altra intercettazione Di Tella spiega che gli operai erano tenuti a versargli la quota dovuta non appena ricevevano l’accredito sul conto corrente, prelevando subito i contanti: «Ti trovi? Tu 1.100 euro per giovedì li prendi a me... al bancomat...»; le indagini condotte dal pubblico ministero David Mancini e dalle Fiamme gialle hanno accertato che quel giorno l’operaio indicato dall’imprenditore ha fatto un prelievo corrispondente alla cifra indicata e ritrovata sulla contabilità parallela di Di Tella. Il quale poi andava ad incontrare personaggi contigui ai Casalesi al Casinò di Venezia, indicato dal pentito di camorra Raffele Piccolo come uno dei luoghi «utilizzati per riciclare denaro proveniente dall estorsioni, tramite il cambio di assegni».
Per il procuratore nazionale antimafia Roberti, l’indagine aquilana è «una nuova dimostrazione esemplare di come talune imprese legate ai Casalesi riescono a infiltrarsi in alcune aree attraverso l’imprenditoria apparentemente pulita. La vera forza delle mafie sta fuori dalle mafie, nella zona grigia che le circonda».

«Come mai non c’è una voce dissontante tra i grandi media che plaudono a Renzi? La crisi ha avviato una torsione oligarchica che si riflette nel sistema dell’informazione.deplo­re­vole stato dell’informazione poli­tica, tra le prin­ci­pali con­cause del disa­stro italiano».

Il manifesto, 26 giugno 2014

Non credo di essere il solo a pro­vare nau­sea per l’ossessivo mar­tel­la­mento sulle «riforme». Un incubo. In pas­sato abbiamo denun­ciato l’abuso di que­sto nobile lemma del les­sico poli­tico, e l’ironia che ne ribal­tava il senso. Sullo sfondo della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, «riforme» erano i colpi inferti alle con­qui­ste sociali e ope­raie, dalle pen­sioni alle tutele del lavoro, al carat­tere pub­blico di sanità, scuola e uni­ver­sità. Non ave­vamo ancora visto nulla. Non ave­vamo imma­gi­nato che cosa sarebbe stato il man­tra delle riforme al tempo del ren­zi­smo trion­fante. Non c’è gior­nale né tele­gior­nale che non gli dedi­chi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da set­ti­mane ten­gono banco quelle del pub­blico impiego e del Senato: la pre­ca­riz­za­zione del primo e il ridi­men­sio­na­mento del secondo, tra­sfor­mato in una docile Camera degli ammi­ni­stra­tori.

Nel merito di entrambe ci sarebbe molto da dire. Il governo stra­parla di cre­scita e occu­pa­zione, ma intanto minac­cia i dipen­denti pub­blici – notori nababbi fan­nul­loni – con misure che scon­vol­ge­ranno let­te­ral­mente la vita di milioni di fami­glie, soprat­tutto se il lavo­ra­tore in que­stione è una donna con figli. Quanto al Senato, il dise­gno è stato demo­lito dai più impor­tanti costi­tu­zio­na­li­sti, che hanno mostrato come esso miri, in siner­gia con la nuova legge elet­to­rale, a costi­tu­zio­na­liz­zare la pri­ma­zia dell’esecutivo quale pro­dut­tore di norme. Cioè a rove­sciare l’ispirazione anti-autoritaria della Carta del ’48. Ma non è della sostanza delle riforme che vor­rei par­lare, bensì del deplo­re­vole stato dell’informazione poli­tica, tra le prin­ci­pali con­cause – credo – del disa­stro italiano.

Pren­der­sela con i gior­na­li­sti, si sa, non serve a molto. La cor­po­ra­zione rea­gi­sce nel nome della sacra libertà di stampa, che peral­tro da noi non scop­pia di salute. E si trin­cera die­tro un bril­lante argo­mento: se c’è un pro­blema, per­ché pren­der­sela con chi si limita a par­larne? Pec­cato che le cose non siano tanto sem­plici. E che tra rac­con­tare e fare – o tra fare e tacere – non corra tutta que­sta distanza quando ci si muove sulla scena pubblica.

L’anno scorso que­sto gior­nale con­dusse, soli­ta­rio, una cam­pa­gna con­tro il sistema media­tico, impe­gnato ad aval­lare la men­zo­gna secondo cui la crisi sarebbe di per sé causa di povertà e disoc­cu­pa­zione. Come se fosse ine­vi­ta­bile affron­tarla per mezzo delle misure deflat­tive che, ovvia­mente, l’hanno ali­men­tata, e non fosse nem­meno imma­gi­na­bile aggre­dirla redi­stri­buendo risorse (quindi impo­nendo misure dra­sti­che di equità fiscale) e rilan­ciando la domanda effet­tiva di beni e ser­vizi. Da ultimo lo ha ammesso per­sino il pre­si­dente della Bce, pun­tando il dito sull’austerity e sulla mio­pia dei ver­tici comu­ni­tari, pri­gio­nieri della teo­lo­gia mone­ta­ri­sta. Ma nem­meno que­sto ser­virà. I tagli alla spesa reste­ranno il piatto forte della poli­tica eco­no­mica. Chi vive di sti­pen­dio con­ti­nuerà a rischiare di per­derlo e se lo vedrà man­giare dal «rigore». E la vul­gata amman­nita al popolo rimarrà quella del «risa­na­mento» e dei sacri­fici «neces­sari per i nostri figli».

Adesso, qui da noi, si è aggiunta la grande nar­ra­zione delle riforme. Per non farci mai man­care niente. Da quando «il pre­mier Renzi» ha con­qui­stato il Pd e palazzo Chigi e ha sban­cato alle ele­zioni di mag­gio, non ci si salva più. Il rac­conto delle sue gesta e dei suoi pro­getti occupa inva­ria­bil­mente gran parte dei noti­ziari, come al tempo del duce. Ed è come una bomba a grap­polo, che dis­se­mina veleni.

Intanto, è un rac­conto incom­pren­si­bile. Si dice che l’una forza poli­tica o sin­da­cale difende la pro­po­sta del governo men­tre l’altra auspica una modi­fica. Ma come in un tea­trino di mario­nette, quasi si trat­tasse di gusti per­so­nali. Nes­suno che si azzardi a chia­rire la vera posta in gioco, quali con­se­guenze com­porti, poniamo, la non-elettività dei sena­tori o la facoltà di spo­stare di decine di chi­lo­me­tri, senza uno strac­cio di moti­va­zione, la sede di ser­vi­zio nel pub­blico impiego. Quel che conta è aval­lare la grande dice­ria del cam­bia­mento. Il governo tra­sforma, «cam­bia verso»: que­sto importa, e guai al disfat­ti­sta che eccepisce.

Poi la reto­rica delle riforme assorbe, di fatto, ogni ana­lisi del qua­dro economico-sociale, che eva­pora dinanzi al «grande can­tiere» rifor­mi­sta. Sem­bra che tutto, let­te­ral­mente, ne dipenda, col risul­tato di oscu­rare tutti i pro­blemi di un paese sem­pre più affan­nato e spa­ven­tato. Si salva, per forza di cose, il discorso sulla cor­ru­zione, troppo ingom­brante per met­terlo a tacere. Ma sul resto – la chiu­sura delle fab­bri­che; i con­trac­colpi sociali e morali della disoc­cu­pa­zione; la povertà delle fami­glie; il degrado delle scuole, delle uni­ver­sità, degli ospe­dali pub­blici, delle biblio­te­che, del ter­ri­to­rio – il più stretto silenzio.

Ora, la que­stione del fun­zio­na­mento per­verso di quella che ci osti­niamo a chia­mare «infor­ma­zione» è dav­vero troppo deli­cata e seria per­ché non la si torni a porre. Come mai fun­ziona così? Come mai non c’è di fatto voce dis­so­nante tra i mag­giori organi dell’informazione scritta o par­lata? La spie­ga­zione clas­sica – che i prin­ci­pali media sono per tra­di­zione gover­na­tivi – non basta, per­ché que­sto feno­meno, con que­ste carat­te­ri­sti­che tota­li­ta­rie, è tutto som­mato recente. Non basta nem­meno evo­care la que­stione pro­prie­ta­ria, che pure va tenuta pre­sente. I mag­giori media pri­vati, in linea di prin­ci­pio indi­pen­denti, sono in mano a grandi capi­ta­li­sti, certo poco inte­res­sati a un’opinione pub­blica infor­mata e poten­zial­mente cri­tica. Resta che ancora dieci anni fa il coro non era una­nime. Si scon­tra­vano let­ture diverse, fon­date su diverse attri­bu­zioni di respon­sa­bi­lità. Allora cos’è suc­cesso poi, per­ché oggi ci ritro­viamo in que­sta situazione?

Azzardo sche­ma­ti­ca­mente una spie­ga­zione come prima ipo­tesi. Forse pro­prio la crisi ha cam­biato le cose, rive­lan­dosi, anche da que­sto punto di vista, un pro­cesso costi­tuente. Dal 2007 sono in corso in tutto l’Occidente tra­sfor­ma­zioni strut­tu­rali della dina­mica pro­dut­tiva che ven­gono modi­fi­cando, a cascata, la com­po­si­zione sociale e i rap­porti di classe, i sistemi poli­tici, gli assetti di potere in seno alle classi diri­genti, l’intero qua­dro delle rela­zioni inter­na­zio­nali.

Viene gene­ra­liz­zan­dosi – soprat­tutto nella peri­fe­ria – il modello della cre­scita senza occu­pa­zione, che tende a sem­pli­fi­care la strut­tura sociale nel senso della pola­riz­za­zione pre­co­niz­zata dal vec­chio Marx. I corpi inter­medi vedono fatal­mente ero­dersi i pro­pri resi­duali mar­gini di mano­vra. La sfera poli­tica subi­sce duri con­trac­colpi, come mostra, non sol­tanto in Ita­lia, il degra­darsi del bipo­la­ri­smo a puro masche­ra­mento di un grande cen­tro con­ser­va­tore che «riforma» instan­ca­bil­mente lo stato di cose al solo scopo di con­so­li­darlo. In una parola, le demo­cra­zie euro­pee si ven­gono alli­neando al modello ame­ri­cano, met­tendo fuori gioco, forse defi­ni­ti­va­mente, l’idea sov­ver­siva adom­brata dai nostri Costi­tuenti, quella di una demo­cra­zia par­te­ci­pata, fon­data sulla sovra­nità della classe lavo­ra­trice. Si tratta di una ten­den­ziale tor­sione oli­gar­chica delle dina­mi­che di con­trollo e di governo, nella quale sem­bra di poter cogliere la rispo­sta difen­siva e aggres­siva del capi­ta­li­smo alla crisi sto­rica della pro­pria espan­si­vità. In que­sto con­te­sto non sor­prende la meta­mor­fosi in atto nel sistema infor­ma­tivo: il suo modo di ope­rare e soprat­tutto la sua nuova sostan­ziale univocità.

Oggi non serve più infor­mare e orien­tare l’opinione pub­blica nel con­flitto sociale di massa, come avve­niva al tempo della prima Repub­blica, sullo sfondo di uno sce­na­rio poli­tico real­mente plu­ra­li­sta, e ancora, ben­ché sem­pre meno, sino a pochi anni addie­tro. Serve, al con­tra­rio, disin­for­mare per diso­rien­tare, in modo da oscu­rare il pro­cesso di costi­tu­zione del nuovo ame­ri­ca­ni­smo e da lasciare mano libera all’azione distrut­tiva dei governi e dei poteri sovra­na­zio­nali che det­tano loro l’agenda. Serve pri­vare il grosso della popo­la­zione degli stru­menti di deci­fra­zione dei pro­cessi in corso e, soprat­tutto, pre­ve­nire la for­ma­zione di pen­sieri cri­tici.

Per que­sto non deve mera­vi­gliare la sostan­ziale omo­ge­neità del sistema media­tico, intento a rap­pre­sen­tare la scena poli­tica sulla base di un qua­dro inter­pre­ta­tivo ampia­mente con­di­viso. Gli accenti diver­gono natu­ral­mente, ma ormai sol­tanto sui det­ta­gli. Men­tre sui fon­da­men­tali si impon­gono i tabù, le auto-evidenze, le nuove orto­dos­sie. Ovvia­mente tutto que­sto non avviene nel vuoto né nel silen­zio, ma, in appa­renza, den­tro un finto pieno. Si parla, si stra­parla, addi­rit­tura si annega nei talk-show. Lo spa­zio pub­blico è satu­rato da chiac­chiere fini a se stesse che dimo­strano bril­lan­te­mente che non c’è pro­prio null’altro di cui par­lare e, soprat­tutto, nient’altro da dire. Magari, di que­sto passo, la «gente» finirà con lo stan­carsi, qual­che testata chiu­derà, qual­che cen­ti­naio di gior­na­li­sti andrà a casa. Pazienza. Anzi, tanto meglio. O c’è qual­cuno che rim­piange i tempi in cui si cre­deva ancora nelle ideo­lo­gie, se non addi­rit­tura nell’esistenza di classi in con­flitto tra loro?

Violando la Costituzione, il governo Renzi prosegue nella politica oltranzista iniziata dai peggiori governi DC. Andreotti prosegue con la ministra Pinotti: l'Italia testa di lancia degli USA nell'area che s'affaccia sul Mediterraneo .

Il manifesto, 24 giugno 2014

Dopo aver rice­vuto l’imprimatur del Con­si­glio supremo di difesa, con­vo­cato dal pre­si­dente Napo­li­tano, la mini­stra Pinotti ha pub­bli­cato le linee guida del futuro «Libro bianco per la sicu­rezza inter­na­zio­nale e la difesa», che trac­cerà «la stra­te­gia evo­lu­tiva delle Forze armate sull’orizzonte dei pros­simi 15 anni». Stra­te­gia che, come indi­cano le linee guida, con­ti­nuerà a seguire il solco aperto nel 1991, subito dopo che la Repub­blica ita­liana aveva com­bat­tuto nel Golfo, sotto comando Usa, la sua prima guerra. Sulla fal­sa­riga del rio­rien­ta­mento stra­te­gico del Pen­ta­gono, il mini­stero della difesa del governo Andreotti annun­ciò un «nuovo modello di difesa». Vio­lando la Costi­tu­zione, esso sta­bi­liva che com­pito delle Forze armate è «la tutela degli inte­ressi nazio­nali, nell’accezione più vasta di tali ter­mini, ovun­que sia neces­sa­rio» e defi­niva l’Italia «ele­mento cen­trale dell’area che si estende dallo Stretto di Gibil­terra al Mar Nero, col­le­gan­dosi, attra­verso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico».

Que­sto «modello di difesa» è pas­sato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sem­pre sotto comando Usa (Jugo­sla­via, Afgha­ni­stan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in par­la­mento. Tan­to­meno lo sarà ora: la mini­stra della Difesa — ha deciso il Con­si­glio supremo pre­sie­duto da Napo­li­tano — invierà le linee guida ai pre­si­denti delle com­mis­sioni Esteri e Difesa dei due rami del par­la­mento, «affin­ché ne pos­sano even­tual­mente venire valu­ta­zioni e sug­ge­ri­menti utili alla defi­ni­zione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».

Resta dun­que immu­tato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discus­sione. Com­pito delle forze armate — si riba­di­sce nelle linee guida — è non tanto la difesa del ter­ri­to­rio nazio­nale, oggi molto meno sog­getto a minacce mili­tari tra­di­zio­nali, quanto la difesa degli «inte­ressi nazio­nali», soprat­tutto gli «inte­ressi vitali», in par­ti­co­lare la «sicu­rezza eco­no­mica». Sicu­rezza che con­si­ste nella «pos­si­bi­lità di usu­fruire degli spazi e delle risorse comuni glo­bali senza limi­ta­zioni», con «par­ti­co­lare rife­ri­mento a quelle ener­ge­ti­che». A tal fine l’Italia dovrà ope­rare nel «vici­nato orien­tale e meri­dio­nale dell’Unione euro­pea, fino ai paesi del cosid­detto vici­nato esteso» (com­preso il Golfo Per­sico). Per la sal­va­guar­dia degli «inte­ressi vitali» — si chia­ri­sce — «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le ener­gie dispo­ni­bili e ad ogni mezzo neces­sa­rio, com­preso l’uso della forza o la minac­cia del suo impiego».

Nel pros­simo futuro le Forze armate saranno chia­mate a ope­rare per il con­se­gui­mento di obiet­tivi sem­pre più com­plessi, poi­ché «rischi e minacce si svi­lup­pe­ranno all’interno di estese e fram­men­tate aree geo­gra­fi­che, sia vicine sia lon­tane dal ter­ri­to­rio nazio­nale». Rife­ren­dosi in par­ti­co­lare a Iraq, Libia e Siria, il Con­si­glio supremo sot­to­li­nea che «ogni Stato fal­lito diviene ine­vi­ta­bil­mente un polo di accu­mu­la­zione e di dif­fu­sione glo­bale dell’estremismo e dell’illegalità». Igno­rando che il «fal­li­mento» di que­sti e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demo­liti con la guerra dalla Nato, con l’attiva par­te­ci­pa­zione delle Forze armate ita­liane. Secondo le linee guida, esse devono essere sem­pre più tra­sfor­mate in «uno stru­mento con ampio spet­tro di capa­cità, inte­gra­bile in dispo­si­tivi mul­ti­na­zio­nali», da impie­gare «in ogni fase di un con­flitto e per un pro­tratto periodo di tempo».
Le risorse eco­no­mi­che da desti­nare a tale scopo, sta­bi­li­sce il Con­si­glio supremo di difesa, «non dovranno scen­dere al di sotto di livelli minimi inva­li­ca­bili» (che diver­ranno sem­pre più alti) poi­ché — si sot­to­li­nea nelle linee guida — «lo stru­mento mili­tare rap­pre­senta per il paese una assi­cu­ra­zione e una garan­zia per il suo stesso futuro». A tal fine si pre­an­nun­cia una legge di bilan­cio quin­quen­nale per i mag­giori inve­sti­menti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo cac­cia F-35), così da for­nire «l’indispensabile sta­bi­lità di risorse».

Occorre inol­tre «spin­gere l’industria a muo­versi secondo tra­iet­to­rie tec­no­lo­gi­che e indu­striali che pos­sano rispon­dere alle esi­genze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bel­lica, pun­tando sull’innovazione tec­no­lo­gica, «resa neces­sa­ria dall’esigenza di un con­ti­nuo ade­gua­mento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere con­ti­nua­mente ammo­der­nati. È neces­sa­rio allo stesso tempo non solo un migliore adde­stra­mento dei mili­tari, ma un gene­rale ele­va­mento dello «sta­tus del per­so­nale mili­tare», attra­verso ade­gua­menti giu­ri­dici e normativi.

Poi­ché nasce dalla «esi­genza di tute­lare i legit­timi inte­ressi vitali della comu­nità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere con­si­de­rata un tema di inte­resse essen­zial­mente dei mili­tari, quanto della comu­nità tutta». La mini­stra Pinotti invita quindi tutti gli ita­liani a inviare «even­tuali sug­ge­ri­menti» alla casella di posta elet­tro­nica librobianco@​difesa.​it. Spe­riamo che i let­tori del mani­fe­sto lo fac­ciano in tanti.

I gattopardi veneziani. Tutto venga cambiato perché tutto rimanga come prima. Pur di restare in sella.

La Nuova Venezia 3 giugno 2014

Appello degli ex assessori Simionato, Maggioni, Bergamo, Ferrazzi e Bettin al commissario: «Pronti a dare un contributo»
Appello al commissario che prenderà le redini del Comune di Venezia: «Non fermi i cantieri in città». Un coro di richieste arriva dagli ex assessori della giunta di Giorgio Orsoni, rimasti senza deleghe al ritorno alla libertà del primo cittadino dimissionario, dopo i domiciliari. Un appello in linea con quello di Ance, Confindustria e Ava per non fermare la città.
Tutti sono pronti, a partire dall’ex vicesindaco con delega al bilancio, Sandro Simionato a presentarsi davanti al commissario, che dovrebbe essere nominato dal ministero dell’Interno già domani per informarlo della situazione dei conti, anzitutto. «L’ho detto dal primo momento: questa amministrazione si chiude in modo traumatico, ma ha agito sempre con correttezza e trasparenza e la città non merita ulteriori scossoni negativi. Quindi, massima disponibilità ad informare il commissario a partire dalle nostre analisi sul bilancio 2014, per ridurre i tagli dopo la mancata vendita del Casinò».
Tanti progetti sono finanziati e appaltati e attendono l’ultimo ok finale. «Siamo disponibili a dare il nostro contributo negli interessi della città», dicono gli ex assessori. «Le vicende giudiziarie hanno oscurato la valenza del lavoro fatto da questa amministrazione con un impegno che ha mosso tutti, dal sindaco all’ultimo dei consiglieri», dice Alessandro Maggioni, ex responsabile dei Lavori Pubblici. «E l’amarezza più forte è quella di aver lavorato per la città e non vedere tutti i frutti», aggiunge Ugo Bergamo. «Non ho più incarichi pubblici», insiste Maggioni, «ma sono a disposizione, come tutti gli altri assessori, a dialogare con il commissario per informarlo sui cantieri aperti.
Mi riferisco al macroprogetto dei lavori in centro a Mestre, tra via Poerio e Riviera XX Settembre, ma anche altri interventi attesi da cittadini e comitati». Il grande cantiere del Marzenego ha finanziamenti certi (4 milioni dallo Stato) e appalti assegnati (o quasi visto che per il secondo lotto sono in corso verifiche). E bisogna decidere se aprire o meno l’ultimo tratto di fiume interrato alla fine della Riviera.
«Io ho il rammarico di non vedere andare in porto l’accordo per la riqualificazione della stazione e pure il Pat che io volevo firmare entro fine mese e che ora potrà firmare il commissario o ancora il Palacinema del Lido. Tanti progetti che devono andare avanti. Se il commissario lo riterrà necessario, io sono disponibile a spiegargli le priorità del settore di mia competenza», aggiunge Andrea Ferrazzi, ex responsabile di Urbanistica.
«Il commissario ci sentirà, è una prassi consolidata e io sono pronto a dare il mio contributo: ricordo che c’è il tram da portare fino a Marghera e Venezia, la ciclabile sul Ponte della libertà, il secondo lotto della Vallenari bis, il Piano del traffico che è in itinere, la sistemazione dei pontili Actv , la sistemazione dei piazzali Cialdini e Favretti». Portare in porto questi cantieri sarebbe un modo, fa capire Bergamo, per riconfermare la serietà della giunta Orsoni, nonostante «il fango in cui siamo stati trascinati tutti, consiglio compreso, senza alcuna responsabilità».
Pensa al Parco della Laguna e alla riconversione di Porto Marghera Gianfranco Bettin, ex dell’Ambiente: «Spero che nessuno si azzardi a fermare i processi già avviati. Anch’io sono disponibile a fare la mia parte. Un ruolo fondamentale lo avranno i direttori dei vari settori. Io mi affido anche a loro, alla loro serietà e competenza». Bettin ribadisce il disappunto per come è finita malamente l’esperienza di giunta. «I venti giorni di tempo per le dimissioni del sindaco servivano proprio per organizzare un passaggio di consegne ordinato. Tutto cancellato da un colpo di testa irrazionale». Quello di Orsoni.

«L'Istat ha elaborato da qualche anno il BES o Benessere Equo Sostenibile, un tentativo di misurare il benessere delle persone e non la ricchezza materiale prodotta. Al contrario, dall’UE il PIL continua a essere l’elemento di riferimento per capire se e quanto i diversi Stati membri si comportano bene».

Sbilanciamoci!, 23 maggio 2014 (m.p.r.)

L’Istat ha comunicato che dal prossimo anno anche attività illegali quali il traffico di droga o la prostituzione andranno a formare il PIL, ovvero la ricchezza prodotta nel Paese. Tra le prime reazioni, alcuni segnalano che anche la criminalità genera un suo – cospicuo – giro d’affari, e che se bisogna rappresentare correttamente la situazione vanno quindi considerate anche tali poste. Altri insistono sul fatto che è comunque per lo meno difficile valutare con esattezza la dimensione di tali attività, al di là delle stime fatte dalle autorità preposte al loro contrasto.

Il punto di fondo è però forse un altro. Può anche avere senso, in una certa misura, inserire le attività criminali nel computo del PIL. Quello che non ha senso, e il paradosso oggi in discussione ne è unicamente l’ultimo e più evidente esempio, è prendere il PIL a riferimento unico dello stato di un dato Paese, del suo benessere, e porre la crescita del PIL come unico obiettivo delle politiche economiche.

E’ da mezzo secolo almeno che sappiamo, riprendendo le parole di un famoso discorso di Robert Kennedy, che «il PIL misura tutto, tranne ciò per cui vale la pena di vivere»: misura le armi ma non l’amicizia, sale in caso di incidenti ma non se siamo più felici, aumenta in caso di terremoti, calamità o disastri naturali.

Lo stesso Istat ha elaborato da qualche anno il BES o Benessere Equo Sostenibile, un tentativo di misurare il benessere delle persone e non la ricchezza materiale prodotta. Il problema è che tale indice non è utilizzato nelle statistiche ufficiali, non entra nei parametri nazionali o europei.

Al contrario, dall’UE il PIL continua a essere l’elemento di riferimento per capire se e quanto i diversi Stati membri si comportano bene, se e quanto devono continuare ad applicare le devastanti politiche di austerità. L’Italia in particolare, con il Fiscal Compact, è chiamata a ridurre drasticamente il proprio rapporto debito / PIL nei prossimi anni. Le possibilità per riuscire a mantenere gli impegni presi sono poche: ridurre il debito conseguendo enormi avanzi di bilancio, ma più di tanto da questo punto di vista non si può fare; sperare in una ripresa dell’inflazione che trscini il PIL al rialzo, ma l’UE è sull’orlo della deflazione.

Unica altra strada: fare aumentare il PIL a ritmi sostenuti, in modo che cali il rapporto debito / PIL. Il problema è che l’Italia si trova ancora in recessione, ed è diffcile che torni a crescere ai ritmi richiesti. A meno che, ed è l’interessante novità in arrivo, non si trovino dei nuovi aggregati che permettano di fare salire il PIL, o meglio di “drogare” la crescita del PIL. In senso letterale: inserendo le attività illegali. Finalmente un settore che non conosce crisi, e che potrebbe riportare l’Italia a crescere come richiesto dai vincoli europei. E allora, da domani, ci raccomandiamo: drogatevi di più. E’ l’Europa che ce lo chiede.

Sullo stesso argomento si veda su questo sito Metti sesso,droga e contrabbando nel calcolo del Pil

«Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale».

Sbilanciamoci!,3 giugno 2014 (m.p.r.)

La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946. Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate? E’ una contraddizione ormai insopportabile.

Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.

I nostri movimenti vogliono celebrare degnamente il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”

Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (la difesa della patria è sacro dovere del cittadino») che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.

La difesa civile, non armata e non violenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.

Il disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.

Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.

Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che ripudia la guerra»(art. 11).

La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Non violenza, e si concluderà dopo 6 mesi.

Mentre chi patisce il disagio e la sofferenza provocati dal neoliberismo e vuole combatterlo continua a dividersi e a cincischiare, il Mostro lavora indefesso. WikiLeaks ci dice come.

L’Espresso, 19 giugno 2014

Si chiama Tisa (Trade in Services Agreement) il documento che l'Espresso è in grado di rivelare grazie all'organizzazione di Assange. Un trattato internazionale di lobby e governi per liberalizzare i servizi: dai dati personali alla sanità passando per le assicurazioni. Sarebbe la vittoria definitiva della finanza sulla politicaUn trattato internazionale che potrebbe avere enormi conseguenze per lavoratori e cittadini italiani e, in generale, per miliardi di persone nel mondo, privatizzando ancora di più servizi fondamentali, come banche, sanità, trasporti, istruzione, su pressione di grandi lobby e multinazionali. Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione.

L'Espresso è in grado di rivelare parte dei contenuti del trattato grazie a WikiLeaks, l'organizzazione di Julian Assange, che lo pubblica in esclusiva con il nostro giornale e con un team di media internazionali, tra cui il quotidiano tedesco “Sueddeutsche Zeitung”. Una pubblicazione che avviene proprio in occasione dell'anniversario dei due anni che Julian Assange ha finora trascorso da recluso nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, come ricorda l'organizzazione .

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Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E' un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell'economia dei paesi sviluppati, come l'Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70 per cento del prodotto interno lordo globale. Solo negli Stati Uniti rappresenta il 75 per cento dell'economia e genera l'80 per cento dei posti di lavoro del settore privato. L'ultimo trattato analogo è stato il Gats del 1995.

A sedere al tavolo delle trattative del Tisa sono i paesi che hanno i mercati del settore servizi più grandi del mondo: Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, i 28 paesi dell'Unione Europea, più Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Israele, Turchia, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Perù, Paraguay, Cile, Colombia, Messico e Costa Rica. Con interessi in ballo giganteschi: gli appetiti di grandi multinazionali e lobby sono enormi.

La più aggressiva è la “Coalition of Services Industries”, lobby americana che porta avanti un'agenda di privatizzazione dei servizi, dove Stati e governi sono semplicemente visti come un intralcio al business: «Dobbiamo supportare la capacità delle aziende di competere in modo giusto e secondo fattori basati sul mercato, non sui governi», scrive la Coalition of Services Industries nei suoi comunicati a favore del Tisa, documenti che sono tra i pochissimi disponibili per avere un'idea delle manovre in corso.

Bozze del trattato, informazioni precise sulle trattative non ce ne sono. Per questo il documento che oggi l'Espresso può rivelare, pubblicato da WikiLeaks, è importante. Per la prima volta dall'inizio delle trattative Tisa viene reso pubblico il testo delle negoziazioni in corso sulla finanza: servizi bancari, prodotti finanziari, assicurazioni. Il testo risale al 14 aprile scorso, data dell'ultimo incontro negoziale – il prossimo è previsto a giorni: dal 23 al 27 giugno – ed è un draft che rivela le richieste delle parti che stanno trattando, mettendo in evidenza le divergenze tra i vari paesi, come Stati Uniti e Unione Europea, e quindi rivelando le diverse ambizioni e agende nazionali.
Segretezza. A colpire subito è la prima pagina del file, che spiega come il documento debba restare segreto anche se può essere discusso utilizzando canali non protetti: «Questo documento deve essere protetto dalla rivelazione non autorizzata, ma può essere inviato per posta, trasmesso per email non secretata o per fax, discusso su linee telefoniche non sicure e archiviato su computer non riservati. Deve essere conservato in un edificio, stanza o contenitore chiusi o protetti». E il documento potrà essere desecretato «dopo cinque anni dall'entrata in vigore del Tisa e, se non entrerà in vigore, cinque anni dopo la chiusura delle trattative».

Pare difficile credere che, nonostante la crisi senza precedenti che ha travolto l'intera economia mondiale, distruggendo imprese, cancellando milioni di posti di lavoro e, purtroppo, anche tante vite umane, le nuove regole finanziarie mondiali vengano decise in totale segretezza. Ma una spiegazione c'è: Tisa è l'eredità del “Doha Round”, la serie di negoziati iniziati a Doha, Qatar, nel 2001, e condotti all'interno dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), per la globalizzazione e la liberalizzazione dell'economia, che ha scatenato proteste massicce in tutto il mondo e che è fallito nel 2011, dopo dieci anni di trattative che hanno visto contrapposti il mondo sviluppato, Stati Uniti, Giappone Unione Europea, e quello in via di sviluppo, India, Cina, America Latina.

Con il fallimento del Doha Round, gli Stati Uniti e i paesi che spingono per globalizzazione e liberalizzazioni, hanno spostato le trattative in un angolo buio (impossibile definirlo semplicemente discreto, vista la segretezza che avvolge le negoziazioni e il testo dell'accordo), lontano dall'Organizzazione mondiale del Commercio, per sfuggire alle piazze che esplodevano in massicce, e a volte minacciose e violente, proteste no global. Il risultato è il Tisa, di cui nessuno parla e di cui pochissimi sanno. Eppure questo accordo condizionerà le vite di miliardi di persone.

Cosa prevede il Tisa? Impossibile capirlo con certezza fino a quando l'intera bozza dell'accordo non sarà disponibile, ma il draft sui servizi finanziari rivelato oggi da WikiLeaks rivela un trend chiarissimo. «Il più grande pericolo del Tisa è che fermerà i tentativi dei governi di rafforzare le regole nel settore finanziario», spiega Jane Kelsey, professoressa di legge dell'Università di Auckland, Nuova Zelanda, nota per il suo approccio critico alla globalizzazione. «Il Tisa è promosso dagli stessi governi che hanno creato nel Wto il modello finanziario di deregulation che ha fallito e che è stato accusato di avere aiutato ad alimentare la crisi economica globale», sottolinea Kelsey. «Un esempio di quello che emerge da questa bozza filtrata all'esterno dimostra che i governi che aderiranno al Tisa rimarranno vincolati ed amplieranno i loro attuali livelli di deregolamentazione della finanza e delle liberalizzazioni, perderanno il diritto di conservare i dati finanziari sul loro territorio, si troveranno sotto pressione affinché approvino prodotti finanziari potenzialmente tossici e si troveranno ad affrontare azioni legali se prenderanno misure precauzionali per prevenire un'altra crisi».

Il tesoro dei dati. L'articolo undici del testo fatto filtrare da WikiLeaks non lascia dubbi su come i dati delle transazioni finanziarie siano al centro delle mire e delle agende dei Paesi che trattano il Tisa. Nel testo, Unione Europea, Stati Uniti e Panama, noto paradiso fiscale, portano avanti proposte diverse. L'Europa richiede che «nessun paese parte delle trattative adotti misure che impediscano il trasferimento o l'esame delle informazioni finanziarie, incluso il trasferimento di dati con mezzi elettronici, da e verso il territorio del paese in questione». L'Unione europea precisa che, nonostante questa condizione, il diritto da parte di uno Stato che aderisce al Tisa di proteggere i dati personali e la privacy rimarrà intatto «a condizione che tale diritto non venga usato per aggirare quanto prevede questo accordo». Panama, invece, mette le mani avanti e chiede di specificare che « un paese parte dell'accordo non sia tenuto a fornire o a permettere l'accesso a informazioni correlate agli affari finanziari e ai conti di un cliente individuale di un'istituzione finanziaria o di un fornitore cross-border di servizi finanziari». Gli Stati Uniti, invece, sono netti: i paesi che aderiscono all'accordo permetteranno al fornitore del servizio finanziario di trasferire dentro e fuori dal loro territorio, in forma elettronica o in altri modi, i dati. Punto. Nessuna precisazione sulla privacy, da parte degli Stati Uniti.

Quello che colpisce di questo articolo del Tisa sui dati è che risulta in discussione proprio mentre nel mondo infuria il dibattito sui programmi di sorveglianza di massa della Nsainnescato da Edward Snowden, programmi che permettono agli Stati Uniti di accedere a qualsiasi dato: da quelli delle comunicazioni a quelli finanziari. Ma mentre la Nsa li acquisisce illegalmente, nel corso di operazioni segrete d'intelligence e quindi la loro utilizzabilità in sede ufficiale e di contenziosi è limitata, con il Tisa tutto sarà perfettamente autorizzato e alla luce del sole.

In altre parole, il Tisa rende manifesto che la stessa Europa - che ufficialmente ha aperto un'indagine sullo scandalo Nsa in sede di 'Commissione sulle libertà civili, la giustizia e gli affari interni' del Parlamento Europeo (Libe) - sta contemporaneamente e disinvoltamente trattando con gli Stati Uniti la cessione della sovranità sui nostri dati finanziari per ragioni di business. E sui dati, i lobbisti americani della 'Coalition of services industries', che spingono per il Tisa, non sembrano avere dubbi: «Con il progresso nella tecnologia dell'informazione e delle comunicazioni, sempre più servizi potranno essere forniti all'utente per via elettronica e quindi le restrizioni sul libero flusso di dati rappresentano una barriera al commercio dei servizi in generale».

Fino a che punto può arrivare il Tisa? Davvero arriverà a investire servizi fondamentali come l'istruzione e la sanità? L'Espresso ha contattato 'Public Services International', (Psi) una federazione globale di sindacati che rappresentano 20 milioni di lavoratori nei servizi pubblici di 150 paesi del mondo. L'italiana Rosa Pavanelli, prima donna alla guida del Psi dopo una vita alla Cgil, non sembra avere dubbi che le negoziazioni del Tisa mirano a investire tutti i servizi, non solo quelli finanziari, quindi anche «sanità, istruzione e tutto il discorso della trasmissione dei dati». E per l'Italia chi sta trattando? «L'Italia, come la maggior parte dei paesi europei, ha delegato alla Commissione europea», spiega sottolineando la «grande segretezza intorno al Tisa». Daniel Bertossa, che per Public Services International sta cercando di seguire e analizzare le trattative, racconta a l'Espresso che, anche se nessuno lo ha reso noto, «per ragioni tecniche che hanno a che fare con il Wto, noi sappiamo che il Tisa punta a investire tutti i servizi e i paesi che stanno negoziando sono molto espliciti sul fatto che vogliono occuparsi di tutti i servizi». Perfino quelli nel settore militare che «sempre più fa ricorso al privato», spiega Bertossa, sottolineando quanto sia problematica la riservatezza intorno ai lavori del trattato e il fatto che sia condotto al di fuori del Wto, che,«pur con tutti i suoi problemi, perlomeno permette a tutti i paesi di partecipare alle negoziazioni e rende pubblico il testo delle trattative». Invece, per sapere qualcosa del Tisa c'è voluta WikiLeaks. Ai signori del mercato, stavolta, è andata male.

«Palmiro Togliatti e Giovanni XXIII: le convergenze fra il discorso del leader del Pci a Bergamo sul destino dell'uomo e l'enciclica del papa «Pacem in terris» analizzate da Francesco Mores e Riccardo Terzi».

Il manifesto, 18 giugno 2014

Pro­nun­ciato a Ber­gamo il 20 marzo 1963 e pub­bli­cato su Rina­scita con un titolo ambi­zioso quanto gli obiet­tivi che si pro­po­neva, Il destino dell’uomo è uno dei discorsi più impor­tanti di Pal­miro Togliatti. Non si trat­tava sola­mente di comi­zio da cam­pa­gna elet­to­rale (si sarebbe votato di lì a un mese), ma di una con­fe­renza pro­gram­ma­tica densa di rife­ri­menti cul­tu­rali. L’espressione di una con­ce­zione alta della poli­tica, della quale ci resti­tui­scono una foto­gra­fia gli atti del semi­na­rio tenuto presso la biblio­teca Giu­seppe Di Vit­to­rio (Togliatti e Papa Gio­vanni, a cura di Fran­ce­sco Mores e Ric­cardo Terzi, Ediesse).

La sezione sto­rio­gra­fica for­ni­sce alcuni ele­menti di con­te­sto neces­sari per inqua­drare il discorso del lea­der comu­ni­sta, a cui seguirà l’11 aprile la pro­mul­ga­zione dell’enciclica Pacem in ter­ris. A lungo i due testi sono stati letti in dia­logo tra loro, imma­gi­nando che Togliatti fosse a cono­scenza dell’imminente pub­bli­ca­zione del docu­mento papale (pro­ba­bil­mente in virtù del suo con­tatto con don Giu­seppe De Luca, grande figura intel­let­tuale di que­gli anni). Mores mette in discus­sione que­sta ipo­tesi facendo appello alla cro­no­lo­gia (De Luca era morto l’anno pre­ce­dente) e alla sostan­ziale assenza di prove a soste­gno del pre­sunto pas­sag­gio di noti­zie. Eppure, non c’è dub­bio che tra le due figure fosse in corso un effet­tivo rap­porto siner­gico, «indi­retto e pro­prio per que­sto molto più stretto e pro­fondo».
Siamo nell’Italia del centro-sinistra, con il Pci impe­gnato a influen­zare il pro­cesso rifor­mi­stico, ma soprat­tutto siamo nell’età del Con­ci­lio, delle deco­lo­niz­za­zione e di quella disten­sione tra i due bloc­chi che aveva tro­vato in Gio­vanni XXIII un pro­ta­go­ni­sta di primo piano, come in occa­sione della crisi mis­si­li­stica cubana dell’ottobre 1962. Non a caso dun­que la scelta di Ber­gamo, la città di Ron­calli, dalla quale man­dare al mondo cat­to­lico un invito alla col­la­bo­ra­zione con­tro il rischio dello ster­mi­nio ato­mico.
La poli­tica ita­liana, con la Dc da incal­zare da sini­stra, rima­neva il punto cen­trale della tat­tica comu­ni­sta, ma la stra­te­gia guar­dava più lon­tano: a un incon­tro da rag­giun­gere «non nell’immediato», «non sulla base di un com­pro­messo tra le due ideo­lo­gie», ma in una pro­spet­tiva di lungo corso verso un nuovo uma­ne­simo con­di­viso.
Giu­seppe Vacca ricorda che il dia­logo tra cat­to­lici e comu­ni­sti aveva alla spalle una lunga sto­ria: la Costi­tuente, l’apertura del «par­tito nuovo» ai cat­to­lici, l’intesa nel movi­mento dei Par­ti­giani della pace. Con uno scarto rispetto all’elaborazione di Gram­sci, Togliatti era dispo­sto non sola­mente a rico­no­scere la legit­ti­mità sto­rica del fatto reli­gioso, ma per­fino la sua uti­lità ai fini della lotta poli­tica (X Con­gresso, dicem­bre 1962). Dall’altra parte, Gio­vanni XXIII revi­sio­nava il tra­di­zio­nale anti­co­mu­ni­smo cat­to­lico, un pro­cesso che avrebbe por­tato al rico­no­sci­mento della dignità dell’ateismo nella costi­tu­zione con­ci­liare Gau­dium et spes.
Nella Pacem in ter­ris il papa aveva rico­no­sciuto la cele­bre distin­zione tra l’«errore» (il comu­ni­smo) e l’«errante», con il quale ricer­care dei punti di con­ver­genza. In par­ti­co­lare, si era rivolto «agli uomini di buona volontà» per scon­giu­rare l’esito cata­stro­fico di una nuova guerra, di cui denun­ciava l’irrazionalità. Certo, come ricorda Mores, l’appello di Togliatti alla ragione (con­tro la guerra) non può essere com­ple­ta­mente sovrap­po­sto alla «retta ragione» a cui si rife­riva il papa, quella del magi­stero in grado di divi­dere ciò che è giu­sto da ciò che non lo è. E tut­ta­via, è pro­prio una nuova razio­na­lità l’obiettivo che i due anda­vano per­se­guendo (non una revi­sione dell’illuminismo come invece sostiene Vacca).
Nella rifles­sione del lea­der comu­ni­sta alla classe si affian­cava un altro sog­getto del dive­nire sto­rico: il genere umano. In quella del papa, la Chiesa usciva dall’assedio dalla seco­la­riz­za­zione per impe­gnarsi nel cam­bia­mento insieme alle altre forze cul­tu­rali e sociali. Ecco allora che dalla let­tura in paral­lelo del discorso Ber­gamo e della Pace in ter­ris emerge la ric­chezza di quella straor­di­na­ria sta­gione politico-culturale.
I suoi limiti sareb­bero emersi con l’inizio della «dia­spora poli­tica» dei cre­denti negli anni ’70. Nel discorso di Ber­gamo, in cui Togliatti aveva colto nella fine dell’«Età di Costan­tino» il vero punto di svolta del Vati­cano II, man­cava la per­ce­zione che lo sgan­cia­mento della fede dall’identità poli­tica avrebbe con­dotto alla crisi del cat­to­li­ce­simo poli­tico ita­liano: un lento disfa­ci­mento tutt’altro che auspi­cato dalla diri­genza comu­ni­sta.
Più in gene­rale, la ricerca di nuovo uma­ne­simo si scon­trava con una società attra­ver­sata da un pro­fondo pro­cesso di seco­la­riz­za­zione che restrin­geva gli spazi per un pro­filo ideo­lo­gico tra­di­zio­nal­mente mar­xi­sta o reli­gioso. Stava pren­dendo forma la glo­ba­liz­za­zione con­su­mi­sta: la rifles­sione sul destino dell’uomo nell’età nucleare non è stata sola­mente il ter­reno di incon­tro tre due cul­ture, ma anche un primo ten­ta­tivo di risposta.

«Ecosinistre/.L'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre» e diventa possibile solo se un'altra politica riprende il comando».

Altraeconomia.info, 13 giugno 2014
Martedì scorso Alexis Tsipras ha incontrato a Francoforte Mario Draghi. Il leader del primo partito di Grecia discute con uno dei responsabili delle politiche europee che hanno distrutto il paese. Ma potremmo anche dire che il candidato a presiedere un cambio di rotta della Commissione europea discute con l'unico potente d'Europa che sta cambiando (almeno un po') politica. È un segno di quanto sia confusa l'Europa del dopovoto, con equilibri politici incerti in Parlamento e nessun accordo sulla scelta di chi guiderà la Commissione.

È un peccato che l'italiano - nell'incontro a Francoforte - sieda dietro la scrivania del banchiere e non su un 27% di voti di sinistra. Ma per ora accontentiamoci. Non è poco un banchiere centrale che guarda da vicino che cosa si muove fuori del perimetro della «grande coalizione» di Atene e Bruxelles. È uno sguardo che dobbiamo avere anche noi. In quell'area, a Bruxelles, c'è la Sinistra europea di Tsipras e il gruppo dei Verdi, messi a confronto nel numero scorso di «Sbilanciamo l'Europa» sulla base dei consensi ottenuti e dei programmi di lavoro. In queste pagine chiediamo ad alcuni protagonisti italiani della sinistra, dell'ambientalismo, dei movimenti, di misurarsi con quell'orizzonte e con le possibilità di un lavoro comune.

Le risposte che abbiamo ricevuto nel nostro Forum delineano un quadro poco incoraggiante. Le forze che potrebbero contrastare la «grande coalizione» sono frammentate in Europa e molto esili in Italia. Sulle divisioni pesano schieramenti e ideologie, culture politiche e appartenenze nazionali. Anche in Italia l'agenda politica è ancora cucita su misura dell'identità politica di ciascuna organizzazione, anziché sugli spazi e sulle alleanze possibili. L'autoreferenzialità prevale sulle convergenze, l'interesse immediato sull'orizzonte più lungo. Per non parlare di comportamenti concreti che sono spesso scoraggianti. Eppure l'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre». Disoccupazione di massa, disuguaglianze record e cambiamento climatico possono trovare una soluzione solo se un'altra politica riprende il comando, e mette fine al trentennio liberista. Sinistra e ambientalismo hanno bisogno l'una dell'altra per costruire l'alternativa al mercato che fa da solo. Entrambe hanno bisogno di una cultura pacifista, unico argine ai conflitti che tornano a esplodere alle porte dell'Europa: in Ucraina, in Turchia, in Bosnia e in tutto il mondo arabo.

L'altra convergenza necessaria è quella tra l'«alto» dei palazzi e il «basso» di una società in sofferenza come mai prima. Impoverimento, mancanza di prospettive, individualismo sono alla radice del populismo del M5s in Italia e della reazione nazionalista in nord Europa. Solo un'altra politica potrebbe ridurre una distanza incolmabile. Solo una democrazia praticata offre un antidoto all'antipolitica, un terreno di convergenza per i movimenti, di ricomposizione per la società, di dialogo tra le culture politiche. Se si parlano Tsipras e Draghi, perché non un confronto stabile su un'agenda comune tra i gruppi europei lasciati fuori dalla «grande coalizione»? I nostri destini sono sempre più legati a Bruxelles, e così Sbilanciamoci! e il manifesto continueranno a proporre ai lettori queste pagine di approfondimento. Ci servono strumenti per capire e energie per evitare il peggio: Sbilanciamoci! invita tutti alla scuola estiva dell'Università di Urbino per capire «L'economia com'è e come può cambiare».

Analisi convincente del rischio socialnazionalista del PMR, e proposta per evitarlo: «Comin­ce­rei dal pro­gramma, dieci, dodici punti, per­ché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove» .

Il manifesto, 17 giugno 2014, postilla

Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo, berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla

Il dato più rile­vante di que­sta breve ma inten­sis­sima fase sto­rica resta, senza ombra di dub­bio, l’affermazione elet­to­rale (soprat­tutto in ter­mini per­cen­tuali) di Mat­teo Renzi. Il gio­vane lea­der è arri­vato a que­sta affer­ma­zione, come non mi stanco di ripe­tere, senza nes­suna delle tra­di­zio­nali inve­sti­ture “demo­cra­ti­che” in uso nel sistema poli­tico ita­liano dal 1945 in poi. Renzi ha ini­ziato la sua con­qui­sta del potere arri­vando con le pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013, d’un balzo solo, alla segre­te­ria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al governo, con mezzi (e for­za­ture) par­la­men­tari, anche in que­sto caso fon­da­men­tal­mente fuori della con­sue­tu­dine e ampia­mente discutibili.

Tutto ciò, però, ha rice­vuto subito dopo il con­senso, che suona appro­va­tivo, di un numero (per­cen­tual­mente) impen­sa­bile di elet­tori fino a qual­siasi con­sul­ta­zione pre­ce­dente. Que­sto cur­sus e que­ste coin­ci­denze andreb­bero inter­pre­tati meglio di quanto finora non sia stato fatto.

Un’ipotesi pos­si­bile (del resto tutt’altro che sor­pren­dente): Renzi “carica” di aspet­ta­tive il vec­chio elet­to­rato “demo­cra­tico”, fino a pro­spet­tar­gli la con­creta pos­si­bi­lità di una vit­to­ria, con­si­de­rata gene­ral­mente fino a quel momento del tutto irrag­giun­gi­bile (que­sta por­zione più tra­di­zio­nale dell’elettorato Pd pensa: «almeno una volta voglio vin­cere»); e vi aggiunge un quo­ziente piut­to­sto ele­vato di elet­tori pro­ve­nienti da altre aree (centro-destra, gril­lini, cen­tro democratico…).

Met­tendo insieme i due fat­tori, si spiega per­ché le avan­zate più con­si­stenti si siano veri­fi­cate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emi­lia, Umbria). Insomma, il vec­chio elet­to­rato, invece di scio­gliersi nell’astensionismo, si con­so­lida pre­su­mi­bil­mente intorno al 23–24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17–18%, più o meno quanto val­gono nei rispet­tivi par­titi quelli che ne sono fin dalle loro ori­gini i “padroni” (Ber­lu­sconi e Grillo), così come Renzi inne­ga­bil­mente lo è diven­tato del suo dopo que­sto suc­cesso elet­to­rale.

Dun­que il con­flitto poli­tico in Ita­lia diventa sem­pre di più, non solo come ho scritto altre volte, una gara tal­volta molto acca­nita, ma non fra “avver­sari” bensì fra “con­cor­renti”, data la cre­scente omo­ge­neità dei loro com­por­ta­menti e delle loro parole, ma più esat­ta­mente fra “con­cor­renti” che sono i veri e pro­pri “padroni” dei par­titi che si sono tro­vati, con moda­lità diverse, a guidare.

E cioè: non solo Renzi è diven­tato extra legem segre­ta­rio del pro­prio par­tito, e poi, subito dopo, con moda­lità alquanto discu­ti­bili, Pre­si­dente del Con­si­glio: ma, vin­cendo con un risul­tato indu­bi­ta­bile le ele­zioni, ha posto le pre­messe (di cui già si scor­gono gli svol­gi­menti) per­ché le gare interne a quella for­ma­zione poli­tica e in quell’area di governo in cui ha scelto di cor­rere fos­sero rapi­da­mente e per sem­pre liquidate.

Cer­care di capire per­ché abbia scelto di cor­rere in que­sta for­ma­zione e non in una delle altre in cui, vero­si­mil­mente, con­si­de­rando il suo pro­filo politico-culturale, avrebbe potuto tran­quil­la­mente farlo, sarebbe un altro inte­res­sante discorso, che però si potrebbe affron­tare solo con una migliore cono­scenza dei fat­tori in causa. Com’è riu­scito a farlo?

La rispo­sta a que­sta domanda sarebbe essen­ziale per impian­tare il “che fare”, di cui, con un minimo di chia­rezza, avremmo biso­gno. Io avanzo due ipo­tesi, stret­ta­mente col­le­gate fra loro.
La prima è che Renzi non smette di pro­met­tere urbi et orbi di avere in mano (oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la dif­fe­renza fra il “certo” e il “pro­ba­bile” non è mai avver­ti­bile nel suo elo­quio som­ma­rio) gli stru­menti per far fronte alla crisi economico-sociale del paese: da que­sto punto di vista non rispar­mia le ras­si­cu­ra­zioni e, come anti­cipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.

La seconda, meno visi­bile ma più pro­fonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Ber­lu­sconi, ma in que­sto momento più cre­di­bil­mente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di tenuta demo­cra­tica del paese, — lo scarso fun­zio­na­mento degli orga­ni­smi rap­pre­sen­ta­tivi, il degrado dei vec­chi par­titi e del vec­chio ceto poli­tico, la cor­ru­zione dila­gante, ecc., — per dire: con i miei metodi, che vanno e pro­met­tono di andare sem­pre di più nella dire­zione di un radi­cale supe­ra­mento dell’antiquato, ormai inser­vi­bile maci­nino demo­cra­tico, si andrà avanti molto meglio. Così lui tra­sforma la sfi­du­cia e tal­volta la rab­bia nei con­fronti della “demo­cra­zia”, che è un dato reale, dif­fuso ovun­que in que­sto paese, in un for­mi­da­bile stru­mento di con­senso. Lui è già di per sé un poli­tico post-democratico: basta che lo dica o anche si limiti a farlo capire, per susci­tare un moto di sim­pa­tia anche da parte di quelli che sono stati edu­cati ad un rispetto sacrale nei con­fronti della democrazia.

Il gioco per ora fun­ziona benis­simo, anche per­ché tutta la mac­china dei media è schie­rata come un sol uomo die­tro que­sta pro­spet­tiva (e anche que­sto sarebbe da inter­pre­tare meglio e da capire).

Del resto, non è la prima volta, in Ita­lia e altrove, che un’investitura di tipo auto­ri­ta­rio s’impone regi­strando un con­senso ple­bi­sci­ta­rio di massa. Quando lui ipo­tizza e pro­pu­gna, al posto di un one­sto, magari medio­cre, par­tito di centro-sinistra, che rap­pre­senta una parte per armo­niz­zarla con il tutto (ovvero, per armo­niz­zarla con il tutto, restando però a rap­pre­sen­tare quella parte), il cosid­detto Par­tito della Nazione, a nes­suno viene in mente che un obiet­tivo e una defi­ni­zione di tale natura avreb­bero potuto con­farsi anche al Par­tito Nazio­nale Fasci­sta o al Par­tito (appunto) Nazio­nal­so­cia­li­sta. Certo, non è la stessa cosa, ma ogni qual­volta si evoca la Nazione (con la maiu­scola, per giunta), sarebbe d’obbligo che i pre­ce­denti ven­gano alla mente.

Ma veniamo alla pra­tica spic­ciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono: l’obiettivo prin­ci­pale, comun­que chia­ris­simo, con­si­ste nell’assoggettare al nuovo mec­ca­ni­smo di potere quanto, poli­ti­ca­mente e strut­tu­ral­mente, gli può risul­tare incon­gruo o resi­stente. Per cui facile pre­vi­sione: il pub­blico, anzi il Pub­blico, nella sua acce­zione più vasta, e cioè buro­cra­zia, magi­stra­tura, scuola, uni­ver­sità, sanità, beni cul­tu­rali, sovrin­ten­denze, ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua pro­pria auto­no­mia nel con­certo gene­rale degli organi dello Stato, verrà sot­to­po­sto ad un attacco senza esclu­sione di colpi. Non a caso, anche in que­sto caso, organi di stampa e media sono impe­gnati in una vibrante cam­pa­gna di mora­liz­za­zione per cogliere e san­zio­nare le colpe dei “siste­mati”: gua­da­gnano troppo, lavo­rano poco, sono lenti, ral­len­tano, si oppon­gono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovvia­mente, que­sto sia anche vero non toglie rile­vanza la fatto che l’obiettivo della cam­pa­gna non sia far fun­zio­nare meglio il sistema, ma assog­get­tarlo del tutto al comando del Sovrano.

Ho seguito con grande atten­zione, — ma forse un po’ troppo da lon­tano, le vicende della lista Tsi­pras, la cui affer­ma­zione, pur con molti limiti, dimo­stra che un punto di par­tenza ancora esi­ste. Ho pole­miz­zato con Bar­bara Spi­nelli prima del voto, per­ché essa, in un’intervista al mani­fe­sto (14 mag­gio) addi­tava nei gril­lini il punto di rife­ri­mento fon­da­men­tale post votum della nuova espe­rienza («ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre»). La posi­zione, pro­fon­da­mente erro­nea, è stata por­tata avanti fino a un momento prima che il Movi­mento 5 Stelle siglasse l’accordo con gli xeno­fobi e para­fa­sci­sti di Nigel Farage. La scelta della Spi­nelli di andare a Bru­xel­les in barba alle dichia­ra­zioni pre­ce­denti, chiude un po’ malin­co­ni­ca­mente la que­stione, e ne ria­pre una grande come una casa. Ora, infatti, sap­piamo con asso­luta chia­rezza che Grillo e il gril­li­smo sono avver­sari nostri non meno, e forse più, di Mat­teo Renzi (il che non esclude, che fra i gril­lini ce ne siano molti per bene e con cui si può com­bi­nare qual­cosa insieme). E allora?

In Italia, altra grande anomalia nazionale, — non esiste, e dopo la definitiva (ripeto: definitiva) uscita di scena in questo senso del Pd non esiste più, una decente formazione di centro-sinistra, — magari la più moderata che si possa immaginare, la meno virulenta, ben radicata formazione di estrema sinistra. Non esiste neanche, — si potrebbe dire così, — una seria, decente, responsabile formazione di sinistra. Per questo berlusconismo, grillismo e ora renzismo hanno dilagato e dilagano.

Hic Rho­dus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affron­tare que­sto pro­blema, meglio dedi­carsi alle parole cro­ciate. Quando la defi­ni­sco, prov­vi­so­ria­mente, una seria, decente, ben radi­cata for­ma­zione di sini­stra, non intendo la spon­ta­nea con­ver­genza di una serie di for­ma­zioni spon­ta­nee, come in fondo è stata, — e per la parte migliore che ha rap­pre­sen­tato e rap­pre­senta, — la lista Tsi­pras. Sono l’unico appena pro­fes­sore, certo, di sicuro non pro­fes­so­rone, che ha avuto con­tatti diretti con la realtà vivente dei Comi­tati (gli altri, sovente, ne hanno par­lato per sen­tito dire). Sono stato coor­di­na­tore per molti anni della “Rete dei Comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio”. Insieme con altre pre­ziose espe­rienze, ne ho rica­vato que­sto con­vin­ci­mento: nes­suna realtà poli­tica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comi­tati spri­gio­nano; ma nes­sun insieme di Comi­tati, — una Rete, ad esem­pio, — potrà mai da sè, e spon­ta­nea­mente, met­tere in piedi una realtà poli­tica gene­rale. Que­sto sog­getto poli­tico una volta si chia­mava par­tito. Pos­siamo cam­biar­gli nome. Ma la sostanza è quella.

Detto così, può sem­brare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lam­pada di Ala­dino. Fac­cio una pro­po­sta. Da dove si comin­cia per comin­ciare la costru­zione di una realtà poli­tica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futu­ri­bile, dagli spez­zoni resi­dui del grande disa­stro o da quelli, più imma­gi­nati che reali, della rete in via di costru­zione? Io comin­ce­rei dal pro­gramma. Dieci, dodici punti che spie­ghino per­ché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove. Aspet­tare che la riforma ren­ziana della poli­tica, dello stato e dell’economia vada avanti è pro­fon­da­mente auto­le­sio­ni­stico. Chi non ci sta, lo dica ed esca allo sco­perto. E lavori per­ché le idee, se non le mem­bra, tutte le mem­bra, emer­gano final­mente dal guaz­za­bu­glio uni­ver­sale. Non so se la pro­po­sta abbia un senso. Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta che di fare una cosa sem­pli­cis­sima e alla por­tata di tutti: pensare.

postilla
Concordo pienamente sull'analisi del renzismo. Definisco ormai il suo partito non più Partito Democratico, ma Partito Matteo Renzi (e, per l'acronimo che ne deriva, mi dispiace che si chiami Matteo e non, che so, Nicola o Nestore). Mi domando anch'io, come AAR, perchè l'ex sindaco di Firenze abbia scelto come formazione politica di cui impadronirsi l'estremo residuo del PCI. Condivido la convinzione di AAR che «nes­suna realtà poli­tica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comi­tati spri­gio­nano; ma che nes­sun insieme di Comi­tati,potrà mai da sè, e spon­ta­nea­mente, met­tere in piedi una realtà poli­tica gene­rale»
Credo che per trasformare in un "soggetto politico", capace di competere con gli altri, un pulviscolo di mille proteste e mille proposte, mille disagi e mille speranze, occorre compiere una grande sintesi . Raggiungerla significa significa avere costruito un'ideologia condivisa, una strategia chiara, una tattica adeguata, un programma convincente. Si può cominciare dal programma (quello della lista L'altra Europa mi sembra un primo utile contributo). Emily Dickinson ha scritto: «Per fare un prato basta un filo d’erba e un’ape / Un filo d’erba e un’ape /E un sogno /Il sogno può bastare /Se le api sono poche. Magari, in politica, insieme al sogno ci vuole subito un programma.

il manifesto, 15 giugno 2014

<Imper­ver­sano le notizie-shock sul dila­gare della cor­ru­zione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccel­lente lo tsu­nami tra­vol­gerà. La realtà supe­rando la fan­ta­sia, si atten­dono sor­prese. È un déjà vu, il gioco di società che dise­gna il ritratto più fedele della società ita­liana ai tempi della nuova moder­niz­za­zione. Se al Vimi­nale è stato il capo di un’associazione a delin­quere e ai ver­tici della Guar­dia di finanza i garanti di un gigan­te­sco sistema di tan­genti, non potrebbe darsi che tra i regi­sti di una mega-frode fiscale spun­tino un mini­stro delle Finanze, un giu­dice della Corte dei conti, un alto diri­gente della Ragio­ne­ria dello Stato?

Non accadde già ai tempi del gene­rale Giu­dice o con lo scan­dalo delle banane del mini­stro Tra­buc­chi? Si assi­ste per­plessi alla marea pro­vando repul­sione, incre­du­lità, indi­gna­zione. Dopo­di­ché capita di chie­dersi per­ché. Per­ché, tra i paesi euro­pei «avan­zati», la cor­ru­zione abbia eletto domi­ci­lio pro­prio in Ita­lia. E per­ché con que­ste dimen­sioni, que­sta potenza, que­sta incoer­ci­bile forza di radi­ca­mento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del mira­co­loso bonus Irpef. E que­sto ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spaz­zato via, col per­so­nale poli­tico della «prima Repub­blica», un’intera genìa di mal­fat­tori. La quale invece non ha sol­tanto con­ti­nuato imper­ter­rita, ma ha evi­den­te­mente figliato, si è mol­ti­pli­cata e ha pure raf­fi­nato le pro­prie com­pe­tenze cri­mi­nose. Insomma per­ché in Ita­lia la cor­ru­zione è sistema? Al punto che il sistema sele­ziona i cor­rotti e discri­mina gli one­sti, met­ten­doli in con­di­zione di non nuo­cere con la pro­pria improv­vida, ana­cro­ni­stica, anti­si­ste­mica onestà?

C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una sco­perta dell’ultim’ora. La cor­ru­zione è un reato con­tro la col­let­ti­vità, una ferita ai suoi beni mate­riali e imma­te­riali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo imme­more – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pul­vi­sco­lare, di pri­vati e di par­ti­co­lari. Nella quale la pas­sione civile non ha messo radici, fatta ecce­zione per qual­che spa­ruta cer­chia intel­let­tuale. Si capi­sce che qui la cor­ru­zione sia tol­le­rata e per­sino ben vista, anche da chi ha sol­tanto da per­dere non potendo pra­ti­carla in prima per­sona né trarne bene­fici. Se per un verso (in pub­blico) si storce il naso, per l’altro (in pri­vato) si è pronti ad ammi­rare e magari, potendo, a emu­lare chi la fa franca e su que­sta ambi­gua virtù costrui­sce for­tune. Si fac­cia quindi atten­zione alla dia­let­tica del con­trollo, che quanto più è severo, tanto più gra­ti­fica chi rie­sca a vio­larlo. Con­trol­lare è indi­spen­sa­bile, ma non ci si illuda: non ci sarà con­trollo che tenga fin­ché somma virtù sarà la valen­tia del fili­bu­stiere. Ma pro­prio in una società sif­fatta la poli­tica è il cuore del pro­blema. Non per­ché sia neces­sa­ria­mente l’epicentro della cor­ru­zione, come si ama ripe­tere nei salotti buoni e nelle reda­zioni. Anche se non va di moda dirlo, la cor­ru­zione sgorga spesso dalla benea­mata società civile: per­vade i mondi dell’impresa, del cre­dito e dell’informazione, il pri­vato non meno che il pub­blico. Il cuore del pro­blema è la poli­tica per­ché, tale essendo il costume, dalla poli­tica sol­tanto – in pri­mis dal legi­sla­tore – può muo­vere il riscatto.

E per­ché quindi, dove invece la poli­tica non si distin­gue dal costume e quindi lo asse­conda, ne deriva ine­vi­ta­bile un disa­stro. Il rove­scia­mento dei valori ne trae vigore e i com­por­ta­menti anti-sociali, già legit­ti­mati dal sen­tire comune, ne risul­tano lega­liz­zati, di nome o di fatto. Anche da que­sto punto di vista la sto­ria ita­liana offre un qua­dro deso­lante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della mala­vita, alla cor­ru­zione dila­gante nel regime fasci­sta, la cui denun­cia costò la vita a Mat­teotti. E si pensi, nella sto­ria della Repub­blica, alla folta teo­ria degli scan­dali demo­cri­stiani e socia­li­sti, con al cen­tro il sistema delle par­te­ci­pa­zioni sta­tali, le casse di rispar­mio, la manna dei lavori pub­blici. Ciò nono­stante, que­sta sto­ria non è la notte delle vac­che nere. In un pae­sag­gio pres­so­ché uni­forme c’è stata una felice ano­ma­lia. E un pur breve tempo – tra gli anni Ses­santa e Set­tanta del secolo scorso – in cui le cose par­vero andare altri­menti. Si può leg­gere la sto­ria del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una pre­ziosa dis­so­nanza: del vet­tore di un’etica civile laica e di una cul­tura poli­tica nuove, per molti versi estra­nee alle tra­di­zioni di que­sto paese. Per non dire al suo carat­tere nazio­nale. Gram­sci lo dice a chiare let­tere: il moderno prin­cipe è il cata­liz­za­tore di una «riforma intel­let­tuale e morale» per l’avvento di una demo­cra­zia inte­grale. E dav­vero, fino agli anni Set­tanta, i comu­ni­sti ita­liani per­lo­più lo furono, con­ce­pendo e pra­ti­cando la poli­tica come impe­gno volto a far pre­va­lere un’idea. Come una pro­fes­sione in senso webe­riano – un «saper fare» fatto di com­pe­tenza, disin­te­resse e senso di respon­sa­bi­lità – con­sa­crata alla tra­sfor­ma­zione della società. Poi, nel corso degli anni Set­tanta, le belle ban­diere furono ammainate.

In que­sti giorni ricor­diamo l’ultimo grande segre­ta­rio del Pci scom­parso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Ber­lin­guer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abba­stanza forte che durante una prima lunga fase della sua segre­te­ria il par­tito cam­biò volto. Si buro­cra­tizzò e divenne il par­tito degli ammi­ni­stra­tori, seco­la­riz­zan­dosi nel senso meno nobile del ter­mine. Rimango dell’idea che anche di que­sto, che per lui fu un dramma, Ber­lin­guer morì. Quando – avver­tita la neces­sità di alzare il tiro con­tro l’arroganza dei padroni e le discri­mi­na­zioni di genere, con­tro l’acquiescenza all’imperialismo ame­ri­cano e, appunto, il dila­gare della cor­ru­zione – sco­prì che la bat­ta­glia era da com­bat­tersi già den­tro il par­tito, e che nem­meno qui il buon esito era acqui­sito. Sta di fatto che, morto Ber­lin­guer, il Pci si nor­ma­lizza e, ancor prima di chiu­dere i bat­tenti, cessa di essere una con­trad­di­zione. Per que­sto non regge all’implosione della «prima Repub­blica» né, tanto meno, si mostra capace di gui­dare una rina­scita. Anzi viene tra­volto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Ber­lu­sconi, cam­pione di mora­lità, si fac­cia, dopo Tan­gen­to­poli, inter­prete della nuova moder­nità ita­liota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa poli­tica oggi in Ita­lia? E per­ché e come? Nella migliore delle ipo­tesi – scon­tate le debite, inin­fluenti ecce­zioni – il poli­tico è un tec­nico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che cono­sce soprat­tutto e ha a cuore la rete di rela­zioni che gli ha per­messo di acqui­sire posi­zioni e influenza. Un esperto nella pra­tica del potere che vive tut­ta­via senza patemi il depe­rire del ruolo a fun­zioni ese­cu­tive o esor­na­tive. Sin­daci, pre­si­denti di regione, asses­sori si bar­ca­me­nano nei vin­coli posti dall’esecutivo, le cui deci­sioni i par­la­men­tari rati­fi­cano. Capi di governo e mini­stri si atten­gono alle diret­tive euro­pee e dei mer­cati. Sullo sfondo, un sistema di par­titi che vivono per ripro­dursi senza nem­meno più ven­ti­lare l’ipotesi di sot­to­porre a cri­tica que­sto stato di cose e di modificarlo.

Que­sto signi­fica essere cor­rotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capi­sce che la cor­ru­zione si svi­luppa molto più facil­mente quando la fina­lità del fare poli­tica è fare poli­tica: restare nel giro, par­te­ci­pare ai riti del potere, riti­rare i divi­dendi dello sta­tus, uti­liz­zare le isti­tu­zioni per intrat­te­nere rap­porti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di tro­vare inter­lo­cu­tori isti­tu­zio­nali com­pren­sivi e dispo­ni­bili a esau­dire i suoi non sem­pre irre­pren­si­bili desi­de­rata. Se è così, non c’è da stu­pirsi che dopo Tan­gen­to­poli le cose non siano cam­biate affatto, se non in peg­gio. Né vi è ragione di con­fi­dare – reto­ri­che a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spal­lata rige­ne­ra­trice. Non che le masse si iden­ti­fi­chino entu­sia­ste con il governo in carica, come pre­tende la fan­fara di gior­nali e tv. Il 25 mag­gio e ancora il 9 giu­gno hanno vinto sopra tutti la disaf­fe­zione, l’astensionismo, il vaffa stri­sciante. Ma con­trad­di­zioni serie attra­ver­sano il “popolo”. Il risen­ti­mento qua­lun­qui­stico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stig­ma­tizza que­sti com­por­ta­menti e invoca la gogna per i cor­rotti. Per l’altro, è incline a com­pren­dere e a giu­sti­fi­care. A con­ce­dere atte­nuanti alla pro­pria parte (sem­pre meno cor­rotta delle altre) e a taci­ta­mente invi­diare il cor­rotto baciato dal suc­cesso. Anche per que­sto il “popolo” rifugge come la peste il poli­tico uto­pi­sta e visio­na­rio, l’ideologo idea­li­sta, il cat­tivo mae­stro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, pro­prio per­ché senza idee e un poco mascalzoni

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