«Sono arrivate nel cuore del potere. Grazie a curriculum eccellenti e alla legge che riserva loro delle quote. Ma per le donne è iniziato un percorso di uguaglianza o stiamo andando verso una polarizzazione tra chi è ai vertici e chi, nella fascia media, vede vacillare diritti acquisiti»?
La Repubblica, 1 luglio 2014 (m.p.r.)
Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.
L'Europa e cascato in pieno nella trappola dell'ignoranza e della difesa degli
interessi USA. «Disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare». Sbilanciamoci.info newsletter 133, 1 luglio 2014
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica
L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali.
Il manifesto, 1 luglio 2014
Lista Tsipras. Per passare dalle parole ai fatti, l’Altra Europa deve mettersi alla prova nei gruppi di lavoro locali, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali, anche grazie alla nostra presenza nel parlamento europeo. Il modello dovrebbe essere quello dei beni comuni. L'Europa deve essere: democratica, federale, solidale, ecologica, inclusiva e pacifica

Domani Renzi inaugurerà il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Nonostante i giri di parole, è un’Europa che non cambia. Noi vogliamo un’altra Europa: democratica, federalista, solidale, ecologica, inclusiva, pacifica.
Democratica, cioè con una vera Costituzione, con un governo sovranazionale a base parlamentare, autonomo dai poteri dell’alta finanza, che definisca le politiche economiche, sociali, ambientali e culturali. Ma la democrazia riguarda anche i singoli paesi.
Dobbiamo preservare l’impianto della Costituzione italiana e fermare l’erosione della democrazia da tempo in corso. Inoltre, alla democrazia rappresentativa occorre affiancare, in tutto il continente, nuove forme di democrazia partecipativa di prossimità, che è ciò che trasforma risorse e servizi in beni comuni.
Federale, non significa un aggregato di Stati, ma una rivalutazione radicale delle autonomie locali; dei Comuni o delle unioni di piccoli Comuni: le istituzioni più vicine ai cittadini, dove è meno difficile dar vita a forme di democrazia partecipativa.
Solidale: i paesi dell’Unione devono condividere costi e benefici del cammino comune: non solo moneta, ma debiti, tassi di interesse, fisco, investimenti pubblici. Altre forme di solidarietà devono riguardare anche tutti gli altri paesi del mondo, a partire da quelli rimasti ai margini dei benefici, ma non dei costi, dello sviluppo industriale. Ma solidarietà vuol dire soprattutto giustizia sociale in ogni paese; redistribuzione del lavoro, del potere contrattuale, del reddito, degli oneri fiscali, dell’istruzione, dei presidi sanitari, dei diritti. Senza escludere il rispetto di tutto il vivente e della natura.
Ecologica vuol dire fare i conti non solo con la natura prodotta dall’evoluzione geologica e biologica del pianeta, ma anche con quella “seconda natura” in cui siamo ormai tutti immersi, prodotta dalla rivoluzione industriale, dai materiali sintetici, dalla proliferazione di prodotti e rifiuti – solidi, liquidi e gassosi — generati dalla “civiltà” dei consumi. Occorre ritrovare un equilibrio fra mondo naturale e mondo artificiale che impedisca a questo di soffocare quello. Purtroppo l’Unione europea si sta progressivamente disimpegnando dalle politiche ambientali, mentre manomissione e inquinamento di ogni singolo territorio non fanno che aumentare.
Inclusiva: l’Europa non deve più essere governata come una “fortezza” assediata da una “armata” di profughi e migranti in cerca della propria sopravvivenza. In un’Europa solidale ci deve essere posto per tutti. Emarginazione, clandestinità, discriminazione razziale – sia quella su basi biologiche o culturali, che quella sempre più diffusa contro i poveri – sono calamite di nuove miserie che si riproducono in una spirale senza sbocchi. L’accoglienza consente invece un diverso rapporto con le popolazioni e con le istituzioni dei paesi di origine di profughi e migranti; riconoscere loro diritti e rappresentanza può facilitare la composizione dei conflitti che ne determinano l’esodo e una circolazione di persone, di competenze e di relazioni che possono arricchire sia i paesi di origine che quelli di arrivo. Ma l’inclusione riguarda ogni forma di diversità – che messe tutte insieme costituiscono ormai una vera maggioranza sociale – che, prima di mettere sotto accusa idee e comportamenti altrui, interpellano innanzitutto le nostre concezioni e il nostro stile di vita. Questo vale in particolare nei confronti della cultura e del potere patriarcale che continua a dominare la vita economica e sociale in tutta l’Europa e particolarmente nel nostro paese.
Pacifica: non basta garantire la pace all’interno se ai confini imperversano conflitti sanguinari. L’Europa deve avere un ruolo attivo nella composizione dei conflitti altrui; specie quelli prodotti dai propri interessi, come la corsa al petrolio o l’esportazione di armi. Nei confronti delle attività economiche che alimentano quei conflitti occorre poi progettare una vera riconversione ecologica.
L’articolazione ulteriore di questi concetti non può procedere però per logiche interne, ma solo mettendoli alla prova nei territori o in specifici ambiti settoriali. La lista L’altra Europa con Tsipras ha finora raccolto solo una piccola parte di quel fervore di lotte, di iniziative, di progettualità alternative che contraddistingue da anni il nostro paese. Ma è con queste realtà che ora occorre confrontarsi e prendere iniziative comuni, organizzandosi a livello locale per gruppi di lavoro o per commissioni tematiche, promuovendo collegamenti nazionali e internazionali (grazie anche alla nostra presenza nel parlamento europeo e nel Gue), ma soprattutto andando a cercare quegli interlocutori, singoli o già organizzati, che non sono stati coinvolti dalla nostra mobilitazione elettorale, per promuovere con loro confronti e iniziative comuni su un piano di assoluta parità. Tutti possono arricchire, con iniziative condivise, un programma che si deve fare pratica politica quotidiana.
Ma questo programma si deve anche consolidare sul piano culturale. Intorno al progetto della lista L’altra Europa si è raccolto in pochi mesi il meglio dell’intelligenza italiana. I nomi sono tantissimi. A tutti dobbiamo offrire un terreno di confronto con le nostre pratiche per dare al progetto, nella più assoluta libertà di ciascuno, un respiro indispensabile a promuovere una rifondazione su nuove basi di una cultura della democrazia e della solidarietà da contrapporre a quella imperante della competitività. Abbiamo due modelli dalle grandi potenzialità: la Costituente dei beni comuni, che ha visto il meglio della dottrina giuridica italiana sostenere alcune lotte come l’occupazione del Teatro Valle, il Municipio dei Beni comuni di Pisa e altre iniziative analoghe; e la costituzione dell’azienda speciale Acqua Bene Comune di Napoli, prima traduzione pratica degli obiettivi dei referendum del 2011.
Questo approccio aperto a ogni sorta di nuovi apporti ha certo bisogno di strumenti di coordinamento e di comunicazione migliori, evitando però strutture pesanti e difficili da ridimensionare. Ma bisognerebbe evitare di concentrarsi su uno spettro che si aggira nel nostro dibattito interno: il “nuovo soggetto politico” (o “soggetto politico nuovo”); o la “costituente della sinistra”; o, senza tante mediazioni, il “nuovo partito”.
Perché il termine soggetto politico, mentre sembra esaltare l’iniziativa e l’autonomia di un agire comune, finisce spesso, invece, per rinchiuderlo in qualcosa di solido, di sostanziale, di autosufficiente e rischia di distogliere il dibattito e l’agire dall’impegno a sviluppare nella pratica quotidiana il tema dell’Europa che vogliamo, dell’Italia che vogliamo, della società che vogliamo. Non sto parlando del “sol dell’avvenire”, ma, più modestamente, di una visione del futuro che vede conflitto e partecipazione, variamente intrecciati tra loro, come componenti permanenti di una dinamica sociale in cui a ogni generazione tocca fare i conti con le acquisizioni e le sconfitte di quella precedente.
Il rischio è quello di un dibattito confinato al tema di come costruire il nuovo soggetto, o il nuovo partito, o la nuova sinistra, sottintendendo che il come trasformare i rapporti sociali con la nostra pratica quotidiana ne discenda automaticamente; o comunque sia una questione del “dopo”. Trascurando, per di più, la dimensione europea e internazionale in cui la lista L’altra Europa ha voluto collocare fin dall’inizio la propria iniziativa.
«». Altraeconomia.it
È naturale che scatti l’odio per “gli intellettuali”: come scriveva Isaac Asimov, «l’anti intellettualismo è un tarlo nutrito dall’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza vale quanto l’altrui conoscenza». Se avessimo badato di meno alla visibilità -quella mediatica, quella politica/elettorale- ci saremmo una volta di più accorti di quanto falsa è la logica delle “grandi opere” (farci uscire dalla crisi, renderci competitivi, dare lavoro). E avremmo avuto di fronte gli occhi l’evidenza: le “grandi opere” servono a dare appalti ai “grandi amici”, contando sul “percolato” economico dell’operazione. Va da sè che i professionisti della confusione si guardano bene ora, dopo le vicende Expo, Mose (e tutte le altre del passato, e quelle che arriveranno) dal chiedere scusa, dal dire almeno “abbiamo sbagliato”. Si guardano bene dall’affrontare con spirito critico la complessità dell’evidenza.
«L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può essere, ma qui si entra nel campo della politica: se non si ha forza di far sentire la propria voce e capacità di mobilitare il popolo su obiettivi condivisi non c’è tecnicalità che possa supplire al vuoto».
Il manifesto, 1 luglio 2014
Vorrei avanzare alcune perplessità in merito al referendum sull’equilibrio di bilancio. Viene presentato -anche da questo giornale- come un modo per opporsi al Fiscal compact. A me non sembra. Si vogliono infatti abrogare solo le disposizioni contenute nella legge 243 del 2012 che dettano ulteriori limitazioni rispetto a quelle definite in sede europea e recepite nel nostro ordinamento “a livello costituzionale”. Non tocca (ne potrebbe mediante lo strumento de referendum) i principi introdotti nel 2012 in costituzione.
Né le altre parti della legge di attuazione che definiscono il sistema dei vincoli per il conseguimento dell’equilibrio. Scopo del referendum è, in effetti, quello di continuare a rispettare gli obblighi europei in materia di bilancio pubblico, ma si richiede che ciò avvenga in modo corretto, senza eccessive rigidità. In linea con la battaglia del Governo in Europa, la proposta è quella di una maggiore moderazione nell’applicazione di misure che – nel rispetto dei trattati e degli accordi europei di rientro del debito – permettano un’ “austerità flessibile”.
Vi è un argomento che potrebbe farsi valere per smentire -almeno in parte- la prospettiva moderata che ho richiamato. L’istituto del referendum contiene in sé un “plusvalore di senso” che tende a trascendere il significato letterale del quesito su cui si è chiamati a votare. Così è stato per il nucleare ovvero per l’acqua. Se la portata dell’abrogazione in fondo era assai limitata e riguardava solo una normativa di contorno, l’esito positivo del responso popolare ha assunto una portata generale: contro ogni politica filonucleare (per l’acqua la vicenda post referendum è più complicata).
Ciò è vero, ma è anche da tener presente che allora era chiara la posta in gioco e univoco lo spirito dei proponenti. Nel nostro caso non è così. Tra gli stessi promotori operano più che legittimamente e con il massimo della coerenza esponenti che si ripromettono di far valere semplicemente un equilibrio flessibile entro le compatibilità date in sede europea. Una eventuale vittoria referendaria sarà legittimamente figlia di un liberalismo dal volto umano, rischiando di fornire una definitiva legittimazione democratica alle attuali politiche europee. Forse un aiuto a Francia e Italia nella dialettica con la Germania, ma nulla di più. È questo ciò che si vuole?
Per senso di realismo (meglio poco che niente) può anche accettarsi una simile prospettiva, ma deve essere chiaro che in tal modo si rinuncia a cambiare l’orizzonte delle compatibilità economiche e politiche. Un’altra Europa e un’altra Italia -se vogliamo dare un senso profondo alle parole- possono nascere solo se si è in grado di ridiscutere i trattati e i vincoli economici, solo se si è in grado di proporre una strategia in cui si affermi la centralità dei diritti delle persone, solo se -in Italia- si riesce ad modificare il principio di equilibrio imposto nel 2012 da un superficiale e irruento legislatore che ha distorto gli equilibri costituzionali con la modifica dell’articolo 81.
Si comprende la sensibilità della sinistra radicale al referendum. È tramite questo strumento di partecipazione che si sono ottenute la più significative vittorie politiche e costituzionali. Il referendum del 2006 che ha sconfitto il tentativo di riscrivere in senso autoritario la nostra costituzione; quello del 2011 che ha visto affermarsi un’altra idea di sviluppo con la vittoria dell’acqua bene comune. Ma non credo che questo possa indurre a sostenere ogni richiesta al di là del merito. Anche perché temo che il rischio di deludere le aspettative sia più vicino di quanto non possa sembrare.
Ritengo infatti che i quesiti proposti siano ad alto rischio di inammissibilità. Temo cioè che non possano passare il vaglio della Consulta. Sono diverse le ragioni che mi inducono a formulare questa previsione. Alla luce della giurisprudenza costituzionale ritengo che si sia correttamente provveduto a disinnescare il rischio di una pronuncia di inammissibilità per violazione di un obbligo europeo (ed in effetti i quesiti non pongono in discussione alcun vincolo comunitario), più difficile convincere la Corte costituzionale che le norme che si vogliono abrogare non rientrino tra quelle tributarie e di bilancio che sono espressamente escluse dal referendum (soprattutto dopo l’allargamento concettuale definito con la sentenza n. 2 del 1994) ovvero che la legge 234 del 2012 che si sottopone a referendum non rientri tra quelle escluse dal referendum perché “a forza passiva peculiare”. In quest’ultimo caso la giurisprudenza costituzionale (secondo quanto deciso – in modo un po’ generico, in verità — dalla sentenza 16 del 1978) sembrerebbe voler escludere tutte quelle leggi approvate con un procedimento speciale. E la legge di attuazione dell’articolo 81 deve essere approvata con maggioranza qualificata.
Bisogna allora arrendersi al Fiscal compact? Non credo. Ci sono altri strumenti di partecipazione previsti dal nostro ordinamento costituzionale. L’iniziativa legislativa popolare è uno di questi. Essa potrebbe anche affiancarsi al referendum richiesto per segnalare una rotta diversa in grado di imprimere un reale cambiamento nelle politiche economiche e di rispetto dei diritti costituzionali. È possibile anche immaginare la presentazione di una legge costituzionale assieme ad una ordinaria d’iniziativa popolare che riescano l’una ad “aggredire” il principio dell’equilibrio finanziario posto in costituzione l’altra a interpretare in modo conforme al sistema costituzionale (all’obbligo costituzionale di assicurare i diritti fondamentali) i vincoli di bilancio “di natura permanente” che l’Europa ci impone. C’è dunque la possibilità di proporre un cambiamento anziché subire o cercare di arginare quello che proviene dalle attuali culture dominanti.
L’iniziativa popolare è uno strumento debole? Può ben essere, ma qui si entra nel campo della politica: se non si ha la forza di far sentire la propria voce e la capacità di utilizzare questi strumenti per mobilitare il popolo di sinistra su obiettivi largamente condivisi non c’è tecnicalità che possa supplire al vuoto.
Non mancano le proposte per arginare la corruzione 2.0. Ma gli ordini che vengono dall'alto, sotto la maschera del vocìo giustizialista, e sempre la stessa: andare avanti, murare, murare, murare!
Il manifesto, 28 giugno 2014
In tema di grandi opere, la corruzione è di sistema ed è stata favorita, quasi ricercata, dalle semplificazioni normative e procedurali: un processo di modifiche legislative e smantellamento di verifiche e controlli, avviatosi negli anni novanta con la TAV, proseguito con le leggi “speciali” – quali MOSE e, di recente, EXPO-, e messo a regime nel 2001 con la Legge Obiettivo per le Infrastrutture Strategiche. Logica che i Berluscones – abilissimi nel trasformare i problemi in affari – riproponevano poi in tutta la legislazione cosiddetta d’emergenza con il plauso prolungato del centro-sinistra: Rifiuti, Depurazione, Energia, Grande Commercio, fino alla Sanità.
Si istituzionalizzavano così megaentità speciali, spesso non pubbliche, che dovevano gestire in toto i grandi lavori, in luogo dei precedenti enti appaltanti e gestori,messi a punto con la legge Merloni nel post-Tangentopoli, per cui almeno erano sempre chiare le responsabilità e le competenze delle istituzioni territoriali e di quelle centrali. Adesso la megaopera veniva affidata in gestione ad un concessionario unico (EXPO, Venezia Nuova, Stretto di Messina, SITAV, ecc.), talora a prevalenza pubblica, talora privata, ma che diventava una sorta di “consumatore collettivo istituzionalizzato”, mirato a reperire e canalizzare le risorse – pubbliche e non – per le opere. A fronte di quanto stava al vincitore del megappalto, il Contraente Generale (cordata di grandi imprese il cui capofila era deciso di volta in volta dalle modalità di lottizzazione geopolitica delle opere, nell’ambito della ventina di nomi che monopolizzano appalti e spesso politiche di settore (Impregilo,Coop di costruzione, Astaldi, ecc.) e che a suo tempo avevano spinto per la TAV e poi per la messa a sistema del modello con la Legge Obiettivo. Attorno all’intreccio Concessionaria/General Contractor si formava un più ampio sistema di interessi speculativi, finanziari e imprenditoriali, che vedeva questa volta al centro gli istituti bancari e finanziari che “dovevano assicurare al Concessionario flussi di cassa rapidi”, anticipando l’erogazione di soldi pubblici, ovvero permettendo alle parti private di costruire le modalità di “project financing” o pseudo-tali, con cui dovevano anticipare risorse “da ripagarsi nel tempo” quasi sempre con “la garanzia di ripianamento” da parte dello stato.. La Legge Obiettivo, e le altre leggi speciali, peraltro escluderebbero “aumenti e varianti in corso d’opera”, salvo ammettere deroghe per “operazioni imprevedibili e emergenziali emerse in fase esecutiva”. Così è invalso il sistema di accaparrarsi gli appalti con ribassi incredibili, salvo far lievitare i costi, anche oltre i massimi prevedibili, una volta firmato il contratto.In realtà non si è semplificato nulla, ma sicuramente favorito, se non promosso, i processi corruttivi.
Le “grandi concentrazioni” imprenditoriali–finanziarie, paradossalmente all’indomani di “Mani Pulite”, si trovavano in effetti a fare i conti con sistemi politici e decisionali, indeboliti e semplificati. Indeboliti dalla drastica caduta della militanza e dalla forte riduzione delle risorse disponibili, semplificati dall’avvento dei “Partiti del Leader”, metamorfosi che da Forza Italia investiva via via tutti gli altri e – adesso – con Renzi anche il PD, che a detta di suoi stessi militanti “assomiglia sempre più al PSI di Craxi”, ai tempi in cui Giorgio Bocca scriveva “all’unico socialista che pensa con la testa sua”.
Come le carte delle vicende EXPO e MOSE ben dimostrano, basta accordarsi con pochi decisori determinanti e tutto il sistema risulta “integrato”. Con processi facilitati dall’accresciuto peso che organizzazioni da sempre “collaterali ma pesanti” nelle decisioni politiche – vedi la Massoneria – hanno riassunto nell’attualità. Peraltro il sistema lobbistico delle grandi opere trovava anche “più raffinati” meccanismi di cattura del sistema politico: sorreggeva direttamente o integrava le cordate dei leader emergenti nei vari partiti,spesso arrivando ad assumere parenti o sodali del decisore importante. Nel giro delle Grandi Opere abbiamo moltissimi di questi casi. Che creano attorno ad esse quella nuvola di imprese – molte delle quali sono solo nomi e passacarte, “accaparra” risorse, che oggi Ivan Cicconi, attento osservatore dall’interno del sistema dei Grandi Appalti, stima abbiano superato la dimensione di più di ventimila società.
Per sovrammercato, parliamo quasi sempre di opere inutili, non scaturenti da alcuna programmazione né da analisi mirate; ma “già decise dalle istituzioni rappresentative”,ovvero da una politica spesso controllata.
A Firenze proprio sulla TAV casca l’asino … renziano. Il Passante dell’Alta Velocità sotto il centro storico è un progetto devastante- oggi bloccato dalla magistratura- di super tunnel e megastazione. Per quest’ultima si decide addirittura di non effettuare alcuna valutazione ambientale: “se si fa la VIA non si fa più il sottoattraversamento” sancì l’allora ministro delle infrastrutture Matteoli salutato con favore dal centro-sinistra.
Renzi si opponeva a tutto questo. Fino a quando, diventato sindaco di Firenze, decideva di scalare dapprima il partito e poi il governo. Per questa operazione aveva bisogno di integrarsi, non di avversare, i grandi interessi lobbistici ruotanti attorno alla AV di Firenze e più in generale alle grandi opere. Dopo un lungo silenzio, eccolo vestito da ultrà: oggi invoca la ripresa dei lavori del supertunnel fiorentino. E di fronte ai clamorosi scandali EXPO e MOSE si affanna a urlare da pseudogiustizialista per coprire l’omissione dell’unica cosa da fare: annullare i contratti e interrompere i flussi di denaro. Vanno infatti proprio bloccati gli appalti: ci vorrebbe una moratoria e una revisione drastica del programma Grandi Opere. Insieme alla cancellazione della legge Obiettivo e delle altre leggi speciali di berlusconiana memoria. Invece “ i lavori non si fermano!”.
Pensiamo che il lavoro che attende lo stimato Raffaele Cantone sia piuttosto problematico: sinceri auguri.
Ogni lasciata è persa! Come si fa a giudicare male papà Gianni che coglie una bella opportunità per la sua giovane figlia. La comunità, il bene comune: partiamo da chi ci è più vicino, meglio se da noi stessi..
La Repubblica, 29 giugno 2014 (m.p.r.)
Pescara. Veronica Teodoro, 19 anni, è l’assessore più giovane d’Italia nei comuni oltre centomila abitanti. Ed è stata scelta da suo padre. «Quando papà Gianni me l’ha chiesto, mi è venuto un colpo… La mia migliore amica ancora non ci crede. Al telefono mi ha detto: mi stai prendendo in giro, vero?». Occorreva inserire una quarta donna nella giunta del nuovo sindaco di Pescara Marco Alessandrini, Pd, figlio del giudice Emilio ucciso da Prima Linea nel 1979. Una donna che fosse però “espressione” della lista civica “Teodoro”, formazione centrista con più di mille voti alle ultime elezioni e due consiglieri comunali eletti: Piernicola Teodoro e Massimiliano Pignoli (anche loro parenti della famiglia Teodoro).
Così papà Gianni — un passato tra Forza Italia e la Margherita — quando si è trovato di fronte al divieto di entrare lui in giunta e contemporaneamente all’obbligo di dover indicare una donna, ha proposto la figlia. E il sindaco Alessandrini ha detto sì, anche per evitare una crisi di maggioranza ancora prima di cominciare ad amministrare questa città di 123mila abitanti. E così da tre giorni, Veronica, studentessa di giurisprudenza a Bologna con tre esami all’attivo, due mesi di volontariato alla Croce Rossa e «nessuna esperienza politica», precisa lei stessa, è il nuovo assessore al Patrimonio comunale e alle Politiche giovanili. Non solo: «Anche all’associazionismo sociale, ai rapporti con il mondo del volontariato, all’Agenda21 e al marketing territoriale », sottolinea ancora lei. E come tutti gli altri assessori del Comune di Pescara riceverà un compenso di oltre 2mila euro al mese.
Quanto tempo ha avuto a disposizione per decidere?
«Papà mi ha dato solo due ore».
Come, papà? Non glielo ha chiesto il sindaco?
«No, è stato mio padre a chiamarmi. Qualche giorno fa mi ha detto: c’è questa opportunità, sappi che potrebbe non essere facile… Io senza pensarci troppo ho detto sì. Poi mi hanno chiamato tutti. Mio zio Piernicola che è consigliere comunale a Pescara. E anche l’altro mio zio Maurizio che diversi anni fa è stato assessore regionale. Anche il mio fidanzato e mia madre erano sorpresi. Penso proprio che adesso la mia vita cambierà».
Si è già pentita?
«Per niente, voglio dimostrare di essere all’altezza del ruolo che mi è stato assegnato ».
Pensa di meritarlo?
«Ha scelto mio padre, è vero, ma alla fine il sindaco Alessandrini poteva anche dire di no. È lui che mi ha nominato e mi ha indicato come sua collaboratrice. Si fida di me, anche se mi conosce poc. Devo ricambiare questa fiducia».
Lei è in carica da due giorni. Ha già preso possesso del suo ufficio? Ha parlato con i suoi nuovi collaboratori?
«No, non so neanche quale sarà il mio ufficio. So solo che avrò dei segretari che mi aiuteranno nel lavoro di tutti i giorni».
Lei ha la delega al patrimonio comunale. Ha idea di quanti e quali siano i beni pubblici di cui dispone il Comune di Pescara?
«Sinceramente no, ma avrò modo e tempo di valorizzarli e metterli ancora di più al servizio dei cittadini».
Che opinione ha della politica?
«Non sono mai stata una di quelle che sputa addosso ai politici... Anzi, li ammiro, perché gestire un piccolo comune o una città come Pescara non è facile. Ci vuole coraggio e impegno».
Occorre anche competenza, però.
«Nel mio caso sono troppo giovane, mi serve solo tempo. Ho voglia di lavorare e impegnarmi».
La sua nomina ha scatenato molte polemiche.
«Sono dispiaciuta soprattutto per i commenti di alcuni miei compagni di classe sui social network. Forse sono state le critiche che mi hanno ferito di più. Papà, però, dice che questo purtroppo rientra nelle difficoltà della strada che ho deciso di intraprendere».
Lascerà l’università?
«No, ma dovrò trovare una facoltà più vicina. Voglio diventare magistrato oppure avvocato. Spero di riuscirci conciliando tutto».
«È partita l’operazione: “salvate le grandi opere”. Mettete pure in galera i corrotti, ma non mettete in discussione i cantieri».
Il manifesto, 28 giugno 2014
Per bonificare il terreno dalla mala pianta della corruzione basterebbe un semplice articolo di legge che dicesse: “E’ fatto divieto a qualunque impresa che ha rapporti con la pubblica amministrazione (concessioni, appalti, ecc.) di elargire denaro a chiunque e a qualsiasi titolo (contributi, sponsorizzazioni, ecc.)”. Mi verrebbe voglia di proporre a Confindustria e Governo una campagna del tipo pubblicità progresso: “Liberiamo le imprese dal pizzo ai politici”. Ma so che non la accetterebbero mai perché il fenomeno della nuova corruzione – contrariamente a quanto si affannano a dire i commentatori di regime - ha poco a che fare con la teoria antropologica delle “mele marce”.
«Si procederà a un azzeramento del codice ripartendo da un testo di 200 articoli, contro gli attuali 600, oltre che a alleggerire si pensa a più trasparenza e chiarezza».
Corriere della sera, 26 giugno 2014, postilla
postilla
La rivisitazione delle norme sugli appalti che Nencini sta coordinando sembra voglia rispondere - sotto la spinta degli scandali esplosi di recente - a recepire direttive emanate in sede europea, a razionalizzare il sistema degli appalti, anche introducendo elementi di maggiore trasparenza, infine a semplificare il sistema normativo . Non è ancora noto in che modo questi obiettivi saranno perseguiti. L’ideologia di Matteo Renzi è nota, e quindi l’attesa non può che essere trepida.
». Il manifesto, 28 giugno 2014
L’avvertenza, cordiale ma ferma, è che della politica politicante non vuole parlare. La sente, spiega, «come cosa lontana, faccio delle riflessioni, le scrivo, le rileggo e capisco che sono profondamente inattuali». Ma Fausto Bertinotti è la primo volto che viene in mente al combinato disposto delle parole ’sinistra’ e ’scissione’, ’centrosinistra’. Presidente della camera dal 2006 al 2008, poi leader della sinistra arcobaleno azzerata dalla vocazione maggioritaria. Ma prima segretario dal ’94 di Rifondazione comunista, quasi per imposizione del fondatore Armando Cossutta. Quel partito da lì ha infilato una serie di scissioni a destra e sinistra (anche Cossutta nel ’98 lo lasciò), fra sostegno e rotture con i governi di centrosinistra. Fino alla scissione della scissione, quella dei nostri giorni fra due uomini che gli sono stati vicinissimi: Nichi Vendola, a sua volta scissionista e fondatore di Sel; e Gennaro Migliore, ora vicino al Pd renzista. Una storia, e le scelte che hanno portato tutta la ’sinistra sinistra’ fino a qui — non in condizioni smaglianti — è storia di un’intera comunità. Lo incontriamo al quarto piano di un bel palazzo della Camera, sede di una fondazione — Cercare ancora — che a settembre traslocherà. Tempi duri. E non solo a causa spending review.
Presidente Bertinotti, lei sostiene ormai da anni che la sinistra non esiste più. Allora perché la sinistra continua a dividersi?
Questa divisione già dimostra che non c’è più. Quando c’era si chiamava ’scissione’. Si poteva persino evocare, lo fece Gramsci nel ’21, ’spirito di scissione’. C’è scissione se c’è, lo dico con Togliatti, ’rinnovamento nella continuità’, l’idea che da un albero può spezzarsi un un ramo e rimettere radici. Ma se non c’è continuità non c’è neanche rinnovamento, e allora la divisione è un esodo, una fuoriuscita. La storia della sinistra e del movimento operaio in Europa si è chiusa in tre cicli: la sconfitta del 900, riassunta nel crollo del Muro di Berlino; il Dopoguerra delle costituzioni democratiche, dei partiti e dei sindacati di massa, che termina con la sconfitta degli anni 80. Di qui, siamo al terzo ciclo, quei partiti si candidano a governare la modernizzazione. È il centrosinistra, una condizione ambigua e anfibia di cui in parte circola ancora l’eredità. Muore sepolto dalla nascita del capitalismo finanziario e dell’Europa reale, una tenaglia ne cancella le ultime tracce. E i partiti eredi completano la loro mutazione genetica. Erano i partiti dell’alternativa di società, diventano i partiti dell’alternanza di governo.
Renzi rappresenta il compimento di un ciclo o una ripartenza?
Renzi è un fenomeno importante. A sinistra abbiamo un tic, non accettare che i nostri avversari siano forti. Ricordiamo un vecchio carosello con Ernesto Calindri e Franco Volpi: si vedeva un aereo che volava, era la modernità, Volpi scuoteva la testa e diceva: ’el dura minga’. Renzi avvia una nuova fase: l’egemonia di una cultura postmoderna e postdemocratica, una gigantesca costruzione ideologica che copre come una coltre una realtà sfrangiata e devastata. Renzi è il portatore naturale della politica funzionale di questo nuovo ciclo, quello della governabilità come elemento totalizzante. La sua Weltanschauung è ’vincere e governare’, contro chi e per fare cosa non importa. Siamo alla morte delle famiglie politiche europee. I socialisti perdono ovunque. E invece Renzi che socialista non è — lasciamo stare la scelta governativa di aderire al Pse — non essendo socialista vince. Perché sceglie la trasversalità. È coevo a questo tempo, quello che ha sostituito lo scontro fra destra e sinistra con quello fra l’alto e il basso che noi imperfettamente chiamiamo populismo. E perché Renzi è fortissimo? Perché la sua trasversalità fonda il populismo dall’alto. È un Giano bifronte: per un lato populista, per l’altro è neobonapartista, cioè usa il populismo per plasmare il governo dall’alto. L’esito è neautoritario: un governo che si presume così, asettico, obbligato nelle scelte e privo di alternative, ’naturale’.
Eppure Renzi si presenta come un uomo di sinistra. E così viene percepito da molti suoi elettori.
No, non è vero. Persino la sua retorica è accuratamente trasversale, tanto che può permettersi alcune citazioni di sinistra. Il caso più clamoroso è l’adesione al Pse: i vecchi del Pd hanno disputato per anni se aderire o no. Era una discussione ridicola, caricaturale, ma le vecchie famiglie ancora confliggevano. Spazzate via queste famiglie, lui può aderire al Pse senza subirne il ricasco definitorio. Renzi non diventa socialista, è il partito socialista europeo che diventa renziano. La sua è un’uscita dalla storia socialista per presa d’atto della sua conclusione. Così restaura le feste dell’Unità: nessuno può accusarlo di essere comunista. Né democristiano. È trasversale.
Questa trasversalità assorbe tutto il campo della politica? A suo parere non c’è spazio per altro?
Alfredo Reichlin gli ha offerto la formula ’partito della nazione’. Ma, lo dico con rispetto, è una citazione del mondo antico. Il suo è il ’ partito del governo’. Non al governo, né di governo. La sua è una vocazione totalitaria in sintonia con questo capitalismo totalitario che ha l’ambizione di conquistare tutti al principio della competitività.
Lei, negli anni 90, è stato il fondatore, poi anche l’affondatore, dell’idea di una sinistra del centrosinistra. Non c’è più una sinistra che possa ambire a una dialettica con questa ’trasversalità’?
No, se resta nel recinto. Quel tentativo di mescolarsi è stato sconfitto. Allora c’erano due sinistre che si misuravano con la globalizzazione, con due idee opposte. Per capirci: governabilità contro altermondialismo. Era l’ultimo stadio della storia di quella sinistra, e la Rifondazione comunista era l’ultima ipotesi revisionistica. Fallita per la sconfitta e la mutazione genetica, e per il cambiamento radicale della scena prodotto dal capitalismo finanziario globale.
Posto che i vincitori hanno sempre le loro colpe, quali sono le colpe degli sconfitti, le vostre?
Le occasioni mancate. In Italia — e sto sulle ultime, non parto dall’XI congresso del Pci come farebbe Pietro Ingrao — sono almeno tre: lo scioglimento del Pci poteva essere diverso, qualche recriminazione di Occhetto che chiedeva innovazione nella tradizione aveva nuclei di verità; lì una comunità si smembra. Seconda occasione mancata, il movimento altermondialista, nel 2000 — 2001. Lì c’è il primo smacco del centrosinistra: all’avvio della globalizzazione e alla nascita dell’Europa di Maastricht neanche il tentativo timido ma interessante di Jospin viene sostenuto. Il centrosinistra italiano è tra i responsabile dell’uccisione di quel tentativo. E noi, poco dopo, e cioè all’avvento del movimento altermondialista, manchiamo l’ultima occasione, quella di devolvere ciò che era rimasto della sinistra di alternativa in quel movimento.
Lei era già il teorico del partito a rete. Sta dicendo che avrebbe dovuto fare di più, sciogliersi?
Avremo dovuto capire che il mondo dei partiti tradizionali era finito. E buttarci nel nuovo emergente orizzonte anticapitalista.
Rinunciando definitivamente all’idea repubblicana di una moderna democrazia dei partiti?
Avremmo dovuto reinventarci. I partiti attuali sono organizzazioni di ceto politico all’americana, che vive la stagione elettorale per la sola rappresentanza nelle istituzioni. E quelli così fatti, qualunque sia la loro collocazione, sono interni a un sistema neoautoritario in cui il governo è tutto. Persino Grillo che ha avuto la giusta intuizione che il sistema politico si abbatte e non si riforma, oggi viene catturato dalla logica di governo, per essere presentabile e per far parte del gioco politico .
Il sistema si abbatte da destra, nel caso di Grillo.
No, dal basso. Grillo è un sistema autoritario che tuttavia dà voce al conflitto dal basso. Così il Front di Le Pen e le formazioni populiste che intercettano il conflitto fra popolo e élite. La sinistra non c’è se non nasce da questo conflitto. Quella che pensa di rinascere nel recinto prenda atto che il recinto soffoca.
Nonostante i suoi certificati di morte, lei resta vicino alla sinistra che ci prova. Oggi a Tsipras, ieri a Ingroia. Lei è garantista: perché sosteneva un giustizialista?
Non avevo nessuna fascinazione per Ingroia, e non credo per niente a queste strade. Tuttavia se i miei parenti ci riprovano non mi metto contro. Li voto affettuosamente.
Così anche la lista Tsipras?
Qui ho un elemento in più. Tsipras mi intriga non per la nostra vicenda italiana ma perché indica una ricostruzione su scala europea invece che dalle prigioni nazionali.
Tsipras non corrisponde al suo modello: non è ’fuori dal recinto’. È un politico capace di aprire confronti con la socialdemocrazia.Mi prende su una corda scoperta, le similitudini con una certa Riforndazione sono evidenti. Ma c’è una differenza: da dove viene Syriza? Nessuno mi dica che viene dalle formazioni precedenti alla grande rivolta. Il Synaspimos, da cui viene parte di questo gruppo dirigente, guadagnava a fatica il 2 per cento. Syriza ora veleggia verso il 40. Non mi si dica che c’è una parentela.
Il Synaspismos è uno dei padri, uno dei partiti della coalizione della sinistra radicale greca.
Anagraficamente sì, ma Syriza è la dimostrazione che la sinistra può nascere solo dalla rivolta, non dalle costole dei vecchi partiti.
Torno ai suoi ’parenti’ e alle loro divisioni. Sia Vendola che Migliore sono suoi allievi, il primo anche erede di una leadership, la sua, con tratti di personalismo. Oggi si separano, ma restano entrambi convinti della possibilità di una sinistra del centrosinistra. Come spiega la distanza dal maestro?
Non direi maestro, direi che abbiamo condiviso una stessa comunità. Conosco due modelli di leadership politica: una che figlia per discendenza diretta, quando un allievo assume tutto di un maestro, atteggiamenti fisici inclusi; e una che figlia orizzontalmente, penso a Ingrao, Magri, Rossanda, i miei maestri. Si parva licet, nel caso di Nichi e Gennaro riconosco il tratto della mia direzione e qualche scampolo di me. Ma politicamente sono molto diversi. Quanto al resto, con un gruppo di amici psicoanalisti lacaniani sto lavorando a capire perché a sinistra si producono conflitti mortali diversamente dalle altre storie politiche. I socialisti e i democristiani fanno scelte opposte ma restano affratellati. Noi deflagriamo. Quando avrò una risposta le dirò meglio.
Se il treno della rivolta non passa, da noi non ci sarà più sinistra?
Ne passerà un altro. Intendiamoci, per me rivolta è rottura: Occupy Wall Street, indignados, Grecia. Anche le primavere arabe: forme di lotta dal basso senza partito e senza leader che costruiscono nuove istituzioni, al di là dell’esito. L’altro fondamento è la coalizione sociale, le tessiture extramercantili di conflitti, autonomia, autogestione, autogoverno. Il riferimento è a fine 800 inizi 900: atelier parigini, Iww negli Stati uniti. Forme di contestazione fuori dalla tradizione organizzata. Oggi in Italia i No Tav ma anche il Cinema America e il Teatro Valle di Roma, le 160 aziende autogestite, i 200 scioperanti della Maserati. Rivolta è ciò che dal basso promuove conflitto contro le élite e si manifesta come irruzione di energia e di forza.
È una rivolta nonviolenta?
Lo spero, dipenderà dalla reazione delle classi dirigenti. Io credo che ci siano le condizioni culturali perché possa esserlo. La rivolta non è per forza maieutica della sinistra. Ma è il punto di rottura necessario. Come nel ’48, e in quella cosa straordinaria e magica che fu la Comune di Parigi.
Lei per primo guidò la sinistra radicale nelle primarie. Niente più primarie ormai?
Le primarie avevano un senso finché era ipotizzabile la riformabilità della sinistra politica. Oggi sono funzionali all’ordine nuovo neoautoritario del partito del governo. La verità è che noi che eravamo avversi al riformismo siamo stati gli ultimi a lavorare per salvarlo. E invece l’hanno ucciso. E si sono suicidati.
LLa Repubblica, 27 giugno 2014
Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.
Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale.
Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.
«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea».
Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da giovedì 3 luglio a martedì 30 settembre. È questo il tempo a disposizione del comitato promotore dei quattro referendum «Stop all’austerità, sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo» per raccogliere 500 mila firme e convocare una consultazione popolare sul Fiscal compact, il «pilota automatico» che obbligherà l’Italia a tagliare il debito pubblico dal 133% al 60% a partire dal 2016 fino al 2036.
Composto da economisti, giuristi e sindacalisti di diverso orientamento culturale e politico, dall’ex viceministro Pdl dell’Economia, Mario Baldassarri, al sindacalista Cgil Danilo Barbi, dagli economisti Riccardo Realfonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pennacchi e Paolo De Ioanna, ieri alla presentazione dell’iniziativa alla Camera dei deputati il comitato si è mostrato fiducioso sulla possibilità di scalare una vetta impegnativa in breve tempo. Un giurista come Giulio Salerno ritiene che i quattro quesiti referendari su alcune disposizioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il principio di equilibrio del bilancio pubblico introdotto dalla legge costituzionale n°1 del 2012), possano essere giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale.
Il referendum si rivolge ad una legge ordinaria di attuazione della Costituzione e non comporterà la violazione degli obblighi contratti dal nostro paese in sede europea o in un trattato internazionale, fattispecie che non potrebbero essere oggetto di una consultazione referendaria. Secondo Giulio Salerno, pur essendo stato votato dalla maggioranza assoluta dei membri delle Camere, il pareggio di bilancio non può essere considerato una norma «rinforzata e organica». In più, non tutte le parti del pilastro dell’austerità finanziaria sono costituzionalmente vincolate. È anzi possibile abrogare i punti che non incidono direttamente sulla definizione del bilancio dello Stato.
I quattro «Sì» richiesti potrebbero modificare l’applicazione «ottusa» del principio dell’equilibrio di bilancio, eliminando alcune gravi storture introdotte dal parlamento italiano. Si vuole così eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea. Il referendum abroga la disposizione che prevede la corrispondenza tra il principio costituzionale di bilancio e il considdetto «obiettivo a medio termine» stabilito in Europa, una norma che non è imposta dal Fiscal compact. Vincendo il referendum, l’Italia potrebbe ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie, un’azione oggi vietata. Infine, verrebbe abrogata l’attivazione automatica del meccanismo che impone tasse o tagli alla spesa pubblica in caso di non raggiungimento dell’obiettivo di bilancio, deciso dai trattati internazionali e non dall’Unione europea.
Al di là dei tecnicismi, il significato del referendum è politico. Vuole rompere l’embargo intellettuale e la paralisi politica creata dal commissariamento della politica economica da parte delle larghe intese e raccogliere un consenso diffuso sul fatto che i trattati europei vanno cambiati, non semplicemente applicati. Secondo l’economista Riccardo Realfonzo, la prospettiva indicata dal presidente del Consiglio Renzi, quella dell’«austerità flessibile», è inadeguata: «Va incontro ai Paesi in difficoltà senza però cambiare realmente il disastro prodotto dalle politiche ispirate all’”austerità espansiva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui moltiplicatori fiscali. È scientificamente provato ormai che, ad esempio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pubblica implica una perdita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole attenuare l’austerità invocando la flessibilità dei trattati, ma in realtà si è impegnato a raggiungere gli stessi obiettivi di lungo periodo stabiliti nei trattati. Per questo oggi abbiamo bisogno di una spinta dal basso per esercitare una pressione sul governo italiano e quelli europei. Bisogna dare un segnale forte».
Ad oggi hanno aderito alla campagna referendaria Sel e alcuni esponenti del partito Democratico. Per l’ex vice-ministro dell’economia Stefano Fassina (Pd), il referendum è l’unica strada «per salvare l’Europa» anche se il «Parlamento non è ancora consapevole della drammaticità della questione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sensazione di essere consapevole». Al referendum sarebbe interessato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gennaro Migliore, passato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta retorica sull’austerità – ha detto Giulio Marcon (Sel) – ma sulle scelte politiche non si fa un passo avanti. I trattati vanno cambiati, il referendum ci offre uno strumento per rilanciare il dibattito».
«Il sistema orchestrato dagli indagati ha anche alterato profondamente le regole della concorrenza ed ha inquinato sensibilmente il settore della ricostruzione privata».
Corriere della sera, 26 Giugno, 2014 (mpr)
«Come mai non c’è una voce dissontante tra i grandi media che plaudono a Renzi? La crisi ha avviato una torsione oligarchica che si riflette nel sistema dell’informazione.deplorevole stato dell’informazione politica, tra le principali concause del disastro italiano».
Il manifesto, 26 giugno 2014
Non credo di essere il solo a provare nausea per l’ossessivo martellamento sulle «riforme». Un incubo. In passato abbiamo denunciato l’abuso di questo nobile lemma del lessico politico, e l’ironia che ne ribaltava il senso. Sullo sfondo della globalizzazione neoliberista, «riforme» erano i colpi inferti alle conquiste sociali e operaie, dalle pensioni alle tutele del lavoro, al carattere pubblico di sanità, scuola e università. Non avevamo ancora visto nulla. Non avevamo immaginato che cosa sarebbe stato il mantra delle riforme al tempo del renzismo trionfante. Non c’è giornale né telegiornale che non gli dedichi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da settimane tengono banco quelle del pubblico impiego e del Senato: la precarizzazione del primo e il ridimensionamento del secondo, trasformato in una docile Camera degli amministratori.
Prendersela con i giornalisti, si sa, non serve a molto. La corporazione reagisce nel nome della sacra libertà di stampa, che peraltro da noi non scoppia di salute. E si trincera dietro un brillante argomento: se c’è un problema, perché prendersela con chi si limita a parlarne? Peccato che le cose non siano tanto semplici. E che tra raccontare e fare – o tra fare e tacere – non corra tutta questa distanza quando ci si muove sulla scena pubblica.
L’anno scorso questo giornale condusse, solitario, una campagna contro il sistema mediatico, impegnato ad avallare la menzogna secondo cui la crisi sarebbe di per sé causa di povertà e disoccupazione. Come se fosse inevitabile affrontarla per mezzo delle misure deflattive che, ovviamente, l’hanno alimentata, e non fosse nemmeno immaginabile aggredirla redistribuendo risorse (quindi imponendo misure drastiche di equità fiscale) e rilanciando la domanda effettiva di beni e servizi. Da ultimo lo ha ammesso persino il presidente della Bce, puntando il dito sull’austerity e sulla miopia dei vertici comunitari, prigionieri della teologia monetarista. Ma nemmeno questo servirà. I tagli alla spesa resteranno il piatto forte della politica economica. Chi vive di stipendio continuerà a rischiare di perderlo e se lo vedrà mangiare dal «rigore». E la vulgata ammannita al popolo rimarrà quella del «risanamento» e dei sacrifici «necessari per i nostri figli».
Adesso, qui da noi, si è aggiunta la grande narrazione delle riforme. Per non farci mai mancare niente. Da quando «il premier Renzi» ha conquistato il Pd e palazzo Chigi e ha sbancato alle elezioni di maggio, non ci si salva più. Il racconto delle sue gesta e dei suoi progetti occupa invariabilmente gran parte dei notiziari, come al tempo del duce. Ed è come una bomba a grappolo, che dissemina veleni.
Intanto, è un racconto incomprensibile. Si dice che l’una forza politica o sindacale difende la proposta del governo mentre l’altra auspica una modifica. Ma come in un teatrino di marionette, quasi si trattasse di gusti personali. Nessuno che si azzardi a chiarire la vera posta in gioco, quali conseguenze comporti, poniamo, la non-elettività dei senatori o la facoltà di spostare di decine di chilometri, senza uno straccio di motivazione, la sede di servizio nel pubblico impiego. Quel che conta è avallare la grande diceria del cambiamento. Il governo trasforma, «cambia verso»: questo importa, e guai al disfattista che eccepisce.
Poi la retorica delle riforme assorbe, di fatto, ogni analisi del quadro economico-sociale, che evapora dinanzi al «grande cantiere» riformista. Sembra che tutto, letteralmente, ne dipenda, col risultato di oscurare tutti i problemi di un paese sempre più affannato e spaventato. Si salva, per forza di cose, il discorso sulla corruzione, troppo ingombrante per metterlo a tacere. Ma sul resto – la chiusura delle fabbriche; i contraccolpi sociali e morali della disoccupazione; la povertà delle famiglie; il degrado delle scuole, delle università, degli ospedali pubblici, delle biblioteche, del territorio – il più stretto silenzio.
Ora, la questione del funzionamento perverso di quella che ci ostiniamo a chiamare «informazione» è davvero troppo delicata e seria perché non la si torni a porre. Come mai funziona così? Come mai non c’è di fatto voce dissonante tra i maggiori organi dell’informazione scritta o parlata? La spiegazione classica – che i principali media sono per tradizione governativi – non basta, perché questo fenomeno, con queste caratteristiche totalitarie, è tutto sommato recente. Non basta nemmeno evocare la questione proprietaria, che pure va tenuta presente. I maggiori media privati, in linea di principio indipendenti, sono in mano a grandi capitalisti, certo poco interessati a un’opinione pubblica informata e potenzialmente critica. Resta che ancora dieci anni fa il coro non era unanime. Si scontravano letture diverse, fondate su diverse attribuzioni di responsabilità. Allora cos’è successo poi, perché oggi ci ritroviamo in questa situazione?
Azzardo schematicamente una spiegazione come prima ipotesi. Forse proprio la crisi ha cambiato le cose, rivelandosi, anche da questo punto di vista, un processo costituente. Dal 2007 sono in corso in tutto l’Occidente trasformazioni strutturali della dinamica produttiva che vengono modificando, a cascata, la composizione sociale e i rapporti di classe, i sistemi politici, gli assetti di potere in seno alle classi dirigenti, l’intero quadro delle relazioni internazionali.
Oggi non serve più informare e orientare l’opinione pubblica nel conflitto sociale di massa, come avveniva al tempo della prima Repubblica, sullo sfondo di uno scenario politico realmente pluralista, e ancora, benché sempre meno, sino a pochi anni addietro. Serve, al contrario, disinformare per disorientare, in modo da oscurare il processo di costituzione del nuovo americanismo e da lasciare mano libera all’azione distruttiva dei governi e dei poteri sovranazionali che dettano loro l’agenda. Serve privare il grosso della popolazione degli strumenti di decifrazione dei processi in corso e, soprattutto, prevenire la formazione di pensieri critici.
Violando la Costituzione, il governo Renzi prosegue nella politica oltranzista iniziata dai peggiori governi DC. Andreotti prosegue con la ministra Pinotti: l'Italia testa di lancia degli USA nell'area che s'affaccia sul Mediterraneo .
Il manifesto, 24 giugno 2014
Questo «modello di difesa» è passato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sempre sotto comando Usa (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in parlamento. Tantomeno lo sarà ora: la ministra della Difesa — ha deciso il Consiglio supremo presieduto da Napolitano — invierà le linee guida ai presidenti delle commissioni Esteri e Difesa dei due rami del parlamento, «affinché ne possano eventualmente venire valutazioni e suggerimenti utili alla definizione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».
Resta dunque immutato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discussione. Compito delle forze armate — si ribadisce nelle linee guida — è non tanto la difesa del territorio nazionale, oggi molto meno soggetto a minacce militari tradizionali, quanto la difesa degli «interessi nazionali», soprattutto gli «interessi vitali», in particolare la «sicurezza economica». Sicurezza che consiste nella «possibilità di usufruire degli spazi e delle risorse comuni globali senza limitazioni», con «particolare riferimento a quelle energetiche». A tal fine l’Italia dovrà operare nel «vicinato orientale e meridionale dell’Unione europea, fino ai paesi del cosiddetto vicinato esteso» (compreso il Golfo Persico). Per la salvaguardia degli «interessi vitali» — si chiarisce — «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le energie disponibili e ad ogni mezzo necessario, compreso l’uso della forza o la minaccia del suo impiego».
Nel prossimo futuro le Forze armate saranno chiamate a operare per il conseguimento di obiettivi sempre più complessi, poiché «rischi e minacce si svilupperanno all’interno di estese e frammentate aree geografiche, sia vicine sia lontane dal territorio nazionale». Riferendosi in particolare a Iraq, Libia e Siria, il Consiglio supremo sottolinea che «ogni Stato fallito diviene inevitabilmente un polo di accumulazione e di diffusione globale dell’estremismo e dell’illegalità». Ignorando che il «fallimento» di questi e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demoliti con la guerra dalla Nato, con l’attiva partecipazione delle Forze armate italiane. Secondo le linee guida, esse devono essere sempre più trasformate in «uno strumento con ampio spettro di capacità, integrabile in dispositivi multinazionali», da impiegare «in ogni fase di un conflitto e per un protratto periodo di tempo».
Le risorse economiche da destinare a tale scopo, stabilisce il Consiglio supremo di difesa, «non dovranno scendere al di sotto di livelli minimi invalicabili» (che diverranno sempre più alti) poiché — si sottolinea nelle linee guida — «lo strumento militare rappresenta per il paese una assicurazione e una garanzia per il suo stesso futuro». A tal fine si preannuncia una legge di bilancio quinquennale per i maggiori investimenti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo caccia F-35), così da fornire «l’indispensabile stabilità di risorse».
Occorre inoltre «spingere l’industria a muoversi secondo traiettorie tecnologiche e industriali che possano rispondere alle esigenze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bellica, puntando sull’innovazione tecnologica, «resa necessaria dall’esigenza di un continuo adeguamento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere continuamente ammodernati. È necessario allo stesso tempo non solo un migliore addestramento dei militari, ma un generale elevamento dello «status del personale militare», attraverso adeguamenti giuridici e normativi.
Poiché nasce dalla «esigenza di tutelare i legittimi interessi vitali della comunità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere considerata un tema di interesse essenzialmente dei militari, quanto della comunità tutta». La ministra Pinotti invita quindi tutti gli italiani a inviare «eventuali suggerimenti» alla casella di posta elettronica librobianco@difesa.it. Speriamo che i lettori del manifesto lo facciano in tanti.
I gattopardi veneziani. Tutto venga cambiato perché tutto rimanga come prima. Pur di restare in sella.
La Nuova Venezia 3 giugno 2014
«L'Istat ha elaborato da qualche anno il BES o Benessere Equo Sostenibile, un tentativo di misurare il benessere delle persone e non la ricchezza materiale prodotta. Al contrario, dall’UE il PIL continua a essere l’elemento di riferimento per capire se e quanto i diversi Stati membri si comportano bene».
Sbilanciamoci!, 23 maggio 2014 (m.p.r.)
L’Istat ha comunicato che dal prossimo anno anche attività illegali quali il traffico di droga o la prostituzione andranno a formare il PIL, ovvero la ricchezza prodotta nel Paese. Tra le prime reazioni, alcuni segnalano che anche la criminalità genera un suo – cospicuo – giro d’affari, e che se bisogna rappresentare correttamente la situazione vanno quindi considerate anche tali poste. Altri insistono sul fatto che è comunque per lo meno difficile valutare con esattezza la dimensione di tali attività, al di là delle stime fatte dalle autorità preposte al loro contrasto.
Il punto di fondo è però forse un altro. Può anche avere senso, in una certa misura, inserire le attività criminali nel computo del PIL. Quello che non ha senso, e il paradosso oggi in discussione ne è unicamente l’ultimo e più evidente esempio, è prendere il PIL a riferimento unico dello stato di un dato Paese, del suo benessere, e porre la crescita del PIL come unico obiettivo delle politiche economiche.
E’ da mezzo secolo almeno che sappiamo, riprendendo le parole di un famoso discorso di Robert Kennedy, che «il PIL misura tutto, tranne ciò per cui vale la pena di vivere»: misura le armi ma non l’amicizia, sale in caso di incidenti ma non se siamo più felici, aumenta in caso di terremoti, calamità o disastri naturali.
Lo stesso Istat ha elaborato da qualche anno il BES o Benessere Equo Sostenibile, un tentativo di misurare il benessere delle persone e non la ricchezza materiale prodotta. Il problema è che tale indice non è utilizzato nelle statistiche ufficiali, non entra nei parametri nazionali o europei.
Al contrario, dall’UE il PIL continua a essere l’elemento di riferimento per capire se e quanto i diversi Stati membri si comportano bene, se e quanto devono continuare ad applicare le devastanti politiche di austerità. L’Italia in particolare, con il Fiscal Compact, è chiamata a ridurre drasticamente il proprio rapporto debito / PIL nei prossimi anni. Le possibilità per riuscire a mantenere gli impegni presi sono poche: ridurre il debito conseguendo enormi avanzi di bilancio, ma più di tanto da questo punto di vista non si può fare; sperare in una ripresa dell’inflazione che trscini il PIL al rialzo, ma l’UE è sull’orlo della deflazione.
Unica altra strada: fare aumentare il PIL a ritmi sostenuti, in modo che cali il rapporto debito / PIL. Il problema è che l’Italia si trova ancora in recessione, ed è diffcile che torni a crescere ai ritmi richiesti. A meno che, ed è l’interessante novità in arrivo, non si trovino dei nuovi aggregati che permettano di fare salire il PIL, o meglio di “drogare” la crescita del PIL. In senso letterale: inserendo le attività illegali. Finalmente un settore che non conosce crisi, e che potrebbe riportare l’Italia a crescere come richiesto dai vincoli europei. E allora, da domani, ci raccomandiamo: drogatevi di più. E’ l’Europa che ce lo chiede.
Sullo stesso argomento si veda su questo sito Metti sesso,droga e contrabbando nel calcolo del Pil
«Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale».
Sbilanciamoci!,3 giugno 2014 (m.p.r.)
La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946. Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate? E’ una contraddizione ormai insopportabile.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.
I nostri movimenti vogliono celebrare degnamente il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”
Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (la difesa della patria è sacro dovere del cittadino») che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.
La difesa civile, non armata e non violenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
Il disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.
Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che ripudia la guerra»(art. 11).
La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Non violenza, e si concluderà dopo 6 mesi.
Mentre chi patisce il disagio e la sofferenza provocati dal neoliberismo e vuole combatterlo continua a dividersi e a cincischiare, il Mostro lavora indefesso. WikiLeaks ci dice come.
L’Espresso, 19 giugno 2014
Si chiama Tisa (Trade in Services Agreement) il documento che l'Espresso è in grado di rivelare grazie all'organizzazione di Assange. Un trattato internazionale di lobby e governi per liberalizzare i servizi: dai dati personali alla sanità passando per le assicurazioni. Sarebbe la vittoria definitiva della finanza sulla politicaUn trattato internazionale che potrebbe avere enormi conseguenze per lavoratori e cittadini italiani e, in generale, per miliardi di persone nel mondo, privatizzando ancora di più servizi fondamentali, come banche, sanità, trasporti, istruzione, su pressione di grandi lobby e multinazionali. Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione.
L'Espresso è in grado di rivelare parte dei contenuti del trattato grazie a WikiLeaks, l'organizzazione di Julian Assange, che lo pubblica in esclusiva con il nostro giornale e con un team di media internazionali, tra cui il quotidiano tedesco “Sueddeutsche Zeitung”. Una pubblicazione che avviene proprio in occasione dell'anniversario dei due anni che Julian Assange ha finora trascorso da recluso nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, come ricorda l'organizzazione .
GUARDA IL DOCUMENTO IN ESCLUSIVA
Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E' un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell'economia dei paesi sviluppati, come l'Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70 per cento del prodotto interno lordo globale. Solo negli Stati Uniti rappresenta il 75 per cento dell'economia e genera l'80 per cento dei posti di lavoro del settore privato. L'ultimo trattato analogo è stato il Gats del 1995.
A sedere al tavolo delle trattative del Tisa sono i paesi che hanno i mercati del settore servizi più grandi del mondo: Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, i 28 paesi dell'Unione Europea, più Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Israele, Turchia, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Perù, Paraguay, Cile, Colombia, Messico e Costa Rica. Con interessi in ballo giganteschi: gli appetiti di grandi multinazionali e lobby sono enormi.
La più aggressiva è la “Coalition of Services Industries”, lobby americana che porta avanti un'agenda di privatizzazione dei servizi, dove Stati e governi sono semplicemente visti come un intralcio al business: «Dobbiamo supportare la capacità delle aziende di competere in modo giusto e secondo fattori basati sul mercato, non sui governi», scrive la Coalition of Services Industries nei suoi comunicati a favore del Tisa, documenti che sono tra i pochissimi disponibili per avere un'idea delle manovre in corso.
Bozze del trattato, informazioni precise sulle trattative non ce ne sono. Per questo il documento che oggi l'Espresso può rivelare, pubblicato da WikiLeaks, è importante. Per la prima volta dall'inizio delle trattative Tisa viene reso pubblico il testo delle negoziazioni in corso sulla finanza: servizi bancari, prodotti finanziari, assicurazioni. Il testo risale al 14 aprile scorso, data dell'ultimo incontro negoziale – il prossimo è previsto a giorni: dal 23 al 27 giugno – ed è un draft che rivela le richieste delle parti che stanno trattando, mettendo in evidenza le divergenze tra i vari paesi, come Stati Uniti e Unione Europea, e quindi rivelando le diverse ambizioni e agende nazionali.
Segretezza. A colpire subito è la prima pagina del file, che spiega come il documento debba restare segreto anche se può essere discusso utilizzando canali non protetti: «Questo documento deve essere protetto dalla rivelazione non autorizzata, ma può essere inviato per posta, trasmesso per email non secretata o per fax, discusso su linee telefoniche non sicure e archiviato su computer non riservati. Deve essere conservato in un edificio, stanza o contenitore chiusi o protetti». E il documento potrà essere desecretato «dopo cinque anni dall'entrata in vigore del Tisa e, se non entrerà in vigore, cinque anni dopo la chiusura delle trattative».
Pare difficile credere che, nonostante la crisi senza precedenti che ha travolto l'intera economia mondiale, distruggendo imprese, cancellando milioni di posti di lavoro e, purtroppo, anche tante vite umane, le nuove regole finanziarie mondiali vengano decise in totale segretezza. Ma una spiegazione c'è: Tisa è l'eredità del “Doha Round”, la serie di negoziati iniziati a Doha, Qatar, nel 2001, e condotti all'interno dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), per la globalizzazione e la liberalizzazione dell'economia, che ha scatenato proteste massicce in tutto il mondo e che è fallito nel 2011, dopo dieci anni di trattative che hanno visto contrapposti il mondo sviluppato, Stati Uniti, Giappone Unione Europea, e quello in via di sviluppo, India, Cina, America Latina.
Con il fallimento del Doha Round, gli Stati Uniti e i paesi che spingono per globalizzazione e liberalizzazioni, hanno spostato le trattative in un angolo buio (impossibile definirlo semplicemente discreto, vista la segretezza che avvolge le negoziazioni e il testo dell'accordo), lontano dall'Organizzazione mondiale del Commercio, per sfuggire alle piazze che esplodevano in massicce, e a volte minacciose e violente, proteste no global. Il risultato è il Tisa, di cui nessuno parla e di cui pochissimi sanno. Eppure questo accordo condizionerà le vite di miliardi di persone.
Cosa prevede il Tisa? Impossibile capirlo con certezza fino a quando l'intera bozza dell'accordo non sarà disponibile, ma il draft sui servizi finanziari rivelato oggi da WikiLeaks rivela un trend chiarissimo. «Il più grande pericolo del Tisa è che fermerà i tentativi dei governi di rafforzare le regole nel settore finanziario», spiega Jane Kelsey, professoressa di legge dell'Università di Auckland, Nuova Zelanda, nota per il suo approccio critico alla globalizzazione. «Il Tisa è promosso dagli stessi governi che hanno creato nel Wto il modello finanziario di deregulation che ha fallito e che è stato accusato di avere aiutato ad alimentare la crisi economica globale», sottolinea Kelsey. «Un esempio di quello che emerge da questa bozza filtrata all'esterno dimostra che i governi che aderiranno al Tisa rimarranno vincolati ed amplieranno i loro attuali livelli di deregolamentazione della finanza e delle liberalizzazioni, perderanno il diritto di conservare i dati finanziari sul loro territorio, si troveranno sotto pressione affinché approvino prodotti finanziari potenzialmente tossici e si troveranno ad affrontare azioni legali se prenderanno misure precauzionali per prevenire un'altra crisi».
Il tesoro dei dati. L'articolo undici del testo fatto filtrare da WikiLeaks non lascia dubbi su come i dati delle transazioni finanziarie siano al centro delle mire e delle agende dei Paesi che trattano il Tisa. Nel testo, Unione Europea, Stati Uniti e Panama, noto paradiso fiscale, portano avanti proposte diverse. L'Europa richiede che «nessun paese parte delle trattative adotti misure che impediscano il trasferimento o l'esame delle informazioni finanziarie, incluso il trasferimento di dati con mezzi elettronici, da e verso il territorio del paese in questione». L'Unione europea precisa che, nonostante questa condizione, il diritto da parte di uno Stato che aderisce al Tisa di proteggere i dati personali e la privacy rimarrà intatto «a condizione che tale diritto non venga usato per aggirare quanto prevede questo accordo». Panama, invece, mette le mani avanti e chiede di specificare che « un paese parte dell'accordo non sia tenuto a fornire o a permettere l'accesso a informazioni correlate agli affari finanziari e ai conti di un cliente individuale di un'istituzione finanziaria o di un fornitore cross-border di servizi finanziari». Gli Stati Uniti, invece, sono netti: i paesi che aderiscono all'accordo permetteranno al fornitore del servizio finanziario di trasferire dentro e fuori dal loro territorio, in forma elettronica o in altri modi, i dati. Punto. Nessuna precisazione sulla privacy, da parte degli Stati Uniti.
Quello che colpisce di questo articolo del Tisa sui dati è che risulta in discussione proprio mentre nel mondo infuria il dibattito sui programmi di sorveglianza di massa della Nsainnescato da Edward Snowden, programmi che permettono agli Stati Uniti di accedere a qualsiasi dato: da quelli delle comunicazioni a quelli finanziari. Ma mentre la Nsa li acquisisce illegalmente, nel corso di operazioni segrete d'intelligence e quindi la loro utilizzabilità in sede ufficiale e di contenziosi è limitata, con il Tisa tutto sarà perfettamente autorizzato e alla luce del sole.
In altre parole, il Tisa rende manifesto che la stessa Europa - che ufficialmente ha aperto un'indagine sullo scandalo Nsa in sede di 'Commissione sulle libertà civili, la giustizia e gli affari interni' del Parlamento Europeo (Libe) - sta contemporaneamente e disinvoltamente trattando con gli Stati Uniti la cessione della sovranità sui nostri dati finanziari per ragioni di business. E sui dati, i lobbisti americani della 'Coalition of services industries', che spingono per il Tisa, non sembrano avere dubbi: «Con il progresso nella tecnologia dell'informazione e delle comunicazioni, sempre più servizi potranno essere forniti all'utente per via elettronica e quindi le restrizioni sul libero flusso di dati rappresentano una barriera al commercio dei servizi in generale».
Fino a che punto può arrivare il Tisa? Davvero arriverà a investire servizi fondamentali come l'istruzione e la sanità? L'Espresso ha contattato 'Public Services International', (Psi) una federazione globale di sindacati che rappresentano 20 milioni di lavoratori nei servizi pubblici di 150 paesi del mondo. L'italiana Rosa Pavanelli, prima donna alla guida del Psi dopo una vita alla Cgil, non sembra avere dubbi che le negoziazioni del Tisa mirano a investire tutti i servizi, non solo quelli finanziari, quindi anche «sanità, istruzione e tutto il discorso della trasmissione dei dati». E per l'Italia chi sta trattando? «L'Italia, come la maggior parte dei paesi europei, ha delegato alla Commissione europea», spiega sottolineando la «grande segretezza intorno al Tisa». Daniel Bertossa, che per Public Services International sta cercando di seguire e analizzare le trattative, racconta a l'Espresso che, anche se nessuno lo ha reso noto, «per ragioni tecniche che hanno a che fare con il Wto, noi sappiamo che il Tisa punta a investire tutti i servizi e i paesi che stanno negoziando sono molto espliciti sul fatto che vogliono occuparsi di tutti i servizi». Perfino quelli nel settore militare che «sempre più fa ricorso al privato», spiega Bertossa, sottolineando quanto sia problematica la riservatezza intorno ai lavori del trattato e il fatto che sia condotto al di fuori del Wto, che,«pur con tutti i suoi problemi, perlomeno permette a tutti i paesi di partecipare alle negoziazioni e rende pubblico il testo delle trattative». Invece, per sapere qualcosa del Tisa c'è voluta WikiLeaks. Ai signori del mercato, stavolta, è andata male.
«Palmiro Togliatti e Giovanni XXIII: le convergenze fra il discorso del leader del Pci a Bergamo sul destino dell'uomo e l'enciclica del papa «Pacem in terris» analizzate da Francesco Mores e Riccardo Terzi».
Il manifesto, 18 giugno 2014
«Ecosinistre/.L'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre» e diventa possibile solo se un'altra politica riprende il comando».
Altraeconomia.info, 13 giugno 2014
Martedì scorso Alexis Tsipras ha incontrato a Francoforte Mario Draghi. Il leader del primo partito di Grecia discute con uno dei responsabili delle politiche europee che hanno distrutto il paese. Ma potremmo anche dire che il candidato a presiedere un cambio di rotta della Commissione europea discute con l'unico potente d'Europa che sta cambiando (almeno un po') politica. È un segno di quanto sia confusa l'Europa del dopovoto, con equilibri politici incerti in Parlamento e nessun accordo sulla scelta di chi guiderà la Commissione.
È un peccato che l'italiano - nell'incontro a Francoforte - sieda dietro la scrivania del banchiere e non su un 27% di voti di sinistra. Ma per ora accontentiamoci. Non è poco un banchiere centrale che guarda da vicino che cosa si muove fuori del perimetro della «grande coalizione» di Atene e Bruxelles. È uno sguardo che dobbiamo avere anche noi. In quell'area, a Bruxelles, c'è la Sinistra europea di Tsipras e il gruppo dei Verdi, messi a confronto nel numero scorso di «Sbilanciamo l'Europa» sulla base dei consensi ottenuti e dei programmi di lavoro. In queste pagine chiediamo ad alcuni protagonisti italiani della sinistra, dell'ambientalismo, dei movimenti, di misurarsi con quell'orizzonte e con le possibilità di un lavoro comune.
Le risposte che abbiamo ricevuto nel nostro Forum delineano un quadro poco incoraggiante. Le forze che potrebbero contrastare la «grande coalizione» sono frammentate in Europa e molto esili in Italia. Sulle divisioni pesano schieramenti e ideologie, culture politiche e appartenenze nazionali. Anche in Italia l'agenda politica è ancora cucita su misura dell'identità politica di ciascuna organizzazione, anziché sugli spazi e sulle alleanze possibili. L'autoreferenzialità prevale sulle convergenze, l'interesse immediato sull'orizzonte più lungo. Per non parlare di comportamenti concreti che sono spesso scoraggianti. Eppure l'agenda politica del cambiamento in Europa non può fare a meno delle «ecosinistre». Disoccupazione di massa, disuguaglianze record e cambiamento climatico possono trovare una soluzione solo se un'altra politica riprende il comando, e mette fine al trentennio liberista. Sinistra e ambientalismo hanno bisogno l'una dell'altra per costruire l'alternativa al mercato che fa da solo. Entrambe hanno bisogno di una cultura pacifista, unico argine ai conflitti che tornano a esplodere alle porte dell'Europa: in Ucraina, in Turchia, in Bosnia e in tutto il mondo arabo.
L'altra convergenza necessaria è quella tra l'«alto» dei palazzi e il «basso» di una società in sofferenza come mai prima. Impoverimento, mancanza di prospettive, individualismo sono alla radice del populismo del M5s in Italia e della reazione nazionalista in nord Europa. Solo un'altra politica potrebbe ridurre una distanza incolmabile. Solo una democrazia praticata offre un antidoto all'antipolitica, un terreno di convergenza per i movimenti, di ricomposizione per la società, di dialogo tra le culture politiche. Se si parlano Tsipras e Draghi, perché non un confronto stabile su un'agenda comune tra i gruppi europei lasciati fuori dalla «grande coalizione»? I nostri destini sono sempre più legati a Bruxelles, e così Sbilanciamoci! e il manifesto continueranno a proporre ai lettori queste pagine di approfondimento. Ci servono strumenti per capire e energie per evitare il peggio: Sbilanciamoci! invita tutti alla scuola estiva dell'Università di Urbino per capire «L'economia com'è e come può cambiare».
Analisi convincente del rischio socialnazionalista del PMR, e proposta per evitarlo: «Comincerei dal programma, dieci, dodici punti, perché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove» .
Il manifesto, 17 giugno 2014, postilla
Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo, berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla
Il dato più rilevante di questa breve ma intensissima fase storica resta, senza ombra di dubbio, l’affermazione elettorale (soprattutto in termini percentuali) di Matteo Renzi. Il giovane leader è arrivato a questa affermazione, come non mi stanco di ripetere, senza nessuna delle tradizionali investiture “democratiche” in uso nel sistema politico italiano dal 1945 in poi. Renzi ha iniziato la sua conquista del potere arrivando con le primarie dell’8 dicembre 2013, d’un balzo solo, alla segreteria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al governo, con mezzi (e forzature) parlamentari, anche in questo caso fondamentalmente fuori della consuetudine e ampiamente discutibili.
Tutto ciò, però, ha ricevuto subito dopo il consenso, che suona approvativo, di un numero (percentualmente) impensabile di elettori fino a qualsiasi consultazione precedente. Questo cursus e queste coincidenze andrebbero interpretati meglio di quanto finora non sia stato fatto.
Mettendo insieme i due fattori, si spiega perché le avanzate più consistenti si siano verificate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emilia, Umbria). Insomma, il vecchio elettorato, invece di sciogliersi nell’astensionismo, si consolida presumibilmente intorno al 23–24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17–18%, più o meno quanto valgono nei rispettivi partiti quelli che ne sono fin dalle loro origini i “padroni” (Berlusconi e Grillo), così come Renzi innegabilmente lo è diventato del suo dopo questo successo elettorale.
E cioè: non solo Renzi è diventato extra legem segretario del proprio partito, e poi, subito dopo, con modalità alquanto discutibili, Presidente del Consiglio: ma, vincendo con un risultato indubitabile le elezioni, ha posto le premesse (di cui già si scorgono gli svolgimenti) perché le gare interne a quella formazione politica e in quell’area di governo in cui ha scelto di correre fossero rapidamente e per sempre liquidate.
Cercare di capire perché abbia scelto di correre in questa formazione e non in una delle altre in cui, verosimilmente, considerando il suo profilo politico-culturale, avrebbe potuto tranquillamente farlo, sarebbe un altro interessante discorso, che però si potrebbe affrontare solo con una migliore conoscenza dei fattori in causa. Com’è riuscito a farlo?
La risposta a questa domanda sarebbe essenziale per impiantare il “che fare”, di cui, con un minimo di chiarezza, avremmo bisogno. Io avanzo due ipotesi, strettamente collegate fra loro.
La prima è che Renzi non smette di promettere urbi et orbi di avere in mano (oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la differenza fra il “certo” e il “probabile” non è mai avvertibile nel suo eloquio sommario) gli strumenti per far fronte alla crisi economico-sociale del paese: da questo punto di vista non risparmia le rassicurazioni e, come anticipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.
La seconda, meno visibile ma più profonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Berlusconi, ma in questo momento più credibilmente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di tenuta democratica del paese, — lo scarso funzionamento degli organismi rappresentativi, il degrado dei vecchi partiti e del vecchio ceto politico, la corruzione dilagante, ecc., — per dire: con i miei metodi, che vanno e promettono di andare sempre di più nella direzione di un radicale superamento dell’antiquato, ormai inservibile macinino democratico, si andrà avanti molto meglio. Così lui trasforma la sfiducia e talvolta la rabbia nei confronti della “democrazia”, che è un dato reale, diffuso ovunque in questo paese, in un formidabile strumento di consenso. Lui è già di per sé un politico post-democratico: basta che lo dica o anche si limiti a farlo capire, per suscitare un moto di simpatia anche da parte di quelli che sono stati educati ad un rispetto sacrale nei confronti della democrazia.
Il gioco per ora funziona benissimo, anche perché tutta la macchina dei media è schierata come un sol uomo dietro questa prospettiva (e anche questo sarebbe da interpretare meglio e da capire).
Ma veniamo alla pratica spicciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono: l’obiettivo principale, comunque chiarissimo, consiste nell’assoggettare al nuovo meccanismo di potere quanto, politicamente e strutturalmente, gli può risultare incongruo o resistente. Per cui facile previsione: il pubblico, anzi il Pubblico, nella sua accezione più vasta, e cioè burocrazia, magistratura, scuola, università, sanità, beni culturali, sovrintendenze, ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua propria autonomia nel concerto generale degli organi dello Stato, verrà sottoposto ad un attacco senza esclusione di colpi. Non a caso, anche in questo caso, organi di stampa e media sono impegnati in una vibrante campagna di moralizzazione per cogliere e sanzionare le colpe dei “sistemati”: guadagnano troppo, lavorano poco, sono lenti, rallentano, si oppongono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovviamente, questo sia anche vero non toglie rilevanza la fatto che l’obiettivo della campagna non sia far funzionare meglio il sistema, ma assoggettarlo del tutto al comando del Sovrano.
Ho seguito con grande attenzione, — ma forse un po’ troppo da lontano, le vicende della lista Tsipras, la cui affermazione, pur con molti limiti, dimostra che un punto di partenza ancora esiste. Ho polemizzato con Barbara Spinelli prima del voto, perché essa, in un’intervista al manifesto (14 maggio) additava nei grillini il punto di riferimento fondamentale post votum della nuova esperienza («ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre»). La posizione, profondamente erronea, è stata portata avanti fino a un momento prima che il Movimento 5 Stelle siglasse l’accordo con gli xenofobi e parafascisti di Nigel Farage. La scelta della Spinelli di andare a Bruxelles in barba alle dichiarazioni precedenti, chiude un po’ malinconicamente la questione, e ne riapre una grande come una casa. Ora, infatti, sappiamo con assoluta chiarezza che Grillo e il grillismo sono avversari nostri non meno, e forse più, di Matteo Renzi (il che non esclude, che fra i grillini ce ne siano molti per bene e con cui si può combinare qualcosa insieme). E allora?
Hic Rhodus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affrontare questo problema, meglio dedicarsi alle parole crociate. Quando la definisco, provvisoriamente, una seria, decente, ben radicata formazione di sinistra, non intendo la spontanea convergenza di una serie di formazioni spontanee, come in fondo è stata, — e per la parte migliore che ha rappresentato e rappresenta, — la lista Tsipras. Sono l’unico appena professore, certo, di sicuro non professorone, che ha avuto contatti diretti con la realtà vivente dei Comitati (gli altri, sovente, ne hanno parlato per sentito dire). Sono stato coordinatore per molti anni della “Rete dei Comitati per la difesa del territorio”. Insieme con altre preziose esperienze, ne ho ricavato questo convincimento: nessuna realtà politica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comitati sprigionano; ma nessun insieme di Comitati, — una Rete, ad esempio, — potrà mai da sè, e spontaneamente, mettere in piedi una realtà politica generale. Questo soggetto politico una volta si chiamava partito. Possiamo cambiargli nome. Ma la sostanza è quella.
Detto così, può sembrare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lampada di Aladino. Faccio una proposta. Da dove si comincia per cominciare la costruzione di una realtà politica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futuribile, dagli spezzoni residui del grande disastro o da quelli, più immaginati che reali, della rete in via di costruzione? Io comincerei dal programma. Dieci, dodici punti che spieghino perché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove. Aspettare che la riforma renziana della politica, dello stato e dell’economia vada avanti è profondamente autolesionistico. Chi non ci sta, lo dica ed esca allo scoperto. E lavori perché le idee, se non le membra, tutte le membra, emergano finalmente dal guazzabuglio universale. Non so se la proposta abbia un senso. Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta che di fare una cosa semplicissima e alla portata di tutti: pensare.
il manifesto, 15 giugno 2014
<Imperversano le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà. La realtà superando la fantasia, si attendono sorprese. È un déjà vu, il gioco di società che disegna il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova modernizzazione. Se al Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria dello Stato?
Non accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del ministro Trabucchi? Si assiste perplessi alla marea provando repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché. Perché, tra i paesi europei «avanzati», la corruzione abbia eletto domicilio proprio in Italia. E perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di radicamento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef. E questo ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della «prima Repubblica», un’intera genìa di malfattori. La quale invece non ha soltanto continuato imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la corruzione è sistema? Al punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, antisistemica onestà?
C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una scoperta dell’ultim’ora. La corruzione è un reato contro la collettività, una ferita ai suoi beni materiali e immateriali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo immemore – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pulviscolare, di privati e di particolari. Nella quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche sparuta cerchia intellettuale. Si capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne benefici. Se per un verso (in pubblico) si storce il naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune. Si faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo. Controllare è indispensabile, ma non ci si illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del filibustiere. Ma proprio in una società siffatta la politica è il cuore del problema. Non perché sia necessariamente l’epicentro della corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni. Anche se non va di moda dirlo, la corruzione sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico. Il cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla politica soltanto – in primis dal legislatore – può muovere il riscatto.
E perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo asseconda, ne deriva inevitabile un disastro. Il rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto. Anche da questo punto di vista la storia italiana offre un quadro desolante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti. E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori pubblici. Ciò nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere. In un paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia. E un pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui le cose parvero andare altrimenti. Si può leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo paese. Per non dire al suo carattere nazionale. Gramsci lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una «riforma intellettuale e morale» per l’avvento di una democrazia integrale. E davvero, fino agli anni Settanta, i comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come impegno volto a far prevalere un’idea. Come una professione in senso weberiano – un «saper fare» fatto di competenza, disinteresse e senso di responsabilità – consacrata alla trasformazione della società. Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate.
In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto. Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine. Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era acquisito. Sta di fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione. Per questo non regge all’implosione della «prima Repubblica» né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita. Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete della nuova modernità italiota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi – scontate le debite, ininfluenti eccezioni – il politico è un tecnico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza. Un esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del ruolo a funzioni esecutive o esornative. Sindaci, presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano. Capi di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati. Sullo sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di modificarlo.
Questo significa essere corrotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni per intrattenere rapporti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre irreprensibili desiderata. Se è così, non c’è da stupirsi che dopo Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio. Né vi è ragione di confidare – retoriche a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spallata rigeneratrice. Non che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante. Ma contraddizioni serie attraversano il “popolo”. Il risentimento qualunquistico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i corrotti. Per l’altro, è incline a comprendere e a giustificare. A concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo. Anche per questo il “popolo” rifugge come la peste il politico utopista e visionario, l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco mascalzoni