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Tre articoli (di Gaetano Azzariti, Andrea Fabozzi, Vincenzo Accattatis) illustrano e commentano l'ulteriore passo della discesa verso la fine della democrazia in Italia. Ma possono ancora essere fermati. La loro pasticcionaggine è il primo alleato di chi vuole contrastarli, ma non è certo sufficiente.

Il manifesto, 9 agosto 2014


UNDELITTO, TANTI AUTORI
di Gaetano Azzariti

Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato.

Un’infinita tri­stezza. È que­sto il sen­ti­mento che pre­vale nel momento in cui si assi­ste alla vota­zione del Senato sulla modi­fica della Costi­tu­zione. Domani ripren­de­remo la lotta per evi­tare il peg­gio: per­ché la legge costi­tu­zio­nale con­cluda il suo iter dovranno pas­sare ancora molti mesi e altri pas­saggi par­la­men­tari ci aspet­tano, poi - nel caso - il refe­ren­dum oppo­si­tivo. Dun­que, nulla è ancora per­duto. Salvo, forse, l’onore.

In pochi giorni il Senato non ha appro­vato una riforma costi­tu­zio­nale (buona o cat­tiva che si possa rite­nere), bensì ha distrutto il Par­la­mento sotto gli occhi degli ita­liani. Nes­suno dei pro­ta­go­ni­sti è stato esente da colpe. Si è assi­stito a una sorta di omi­ci­dio seriale, cia­scuno ha inferto la sua pugna­lata. Alcuni con mag­gior vigore, altri con imper­do­na­bile incon­sa­pe­vo­lezza, altri ancora non tro­vando altre vie d’uscita.

Il mag­gior respon­sa­bile è cer­ta­mente stato il Governo che ha diretto l’intera ope­ra­zione, senza lasciare nes­suno spa­zio all’autonomia del Par­la­mento. Le pro­gres­sive impo­si­zioni e l’ininterrotta inva­si­vità dell’azione del Governo in ogni pas­sag­gio par­la­men­tare hanno annul­lato di fatto il ruolo costi­tu­zio­nale del Senato. Non s’è trat­tato solo dell’anomalia della pre­sen­ta­zione di un dise­gno di legge gover­na­tivo in una mate­ria tra­di­zio­nal­mente non di sua competenza.

Ma anche nell’aver costretto la Com­mis­sione - in modo poco tra­spa­rente - a porre que­sto come testo base nono­stante la discus­sione avesse fatto emer­gere altre mag­gio­ranze. E poi, ancora, nell’aver voluto con­trol­lare tutto il lavoro dei rela­tori - è la pre­si­dente della Com­mis­sione che ha rico­no­sciuto che il Governo ha “vistato” gli emen­da­menti pre­sen­tati appunto dai rela­tori - con buona pace dell’autonomia del man­dato par­la­men­tare e del rispetto della divi­sione dei poteri.

Non solo i rela­tori, ma ogni sena­tore ha dovuto con­fron­tarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà gover­na­tiva, e molti si sono pie­gati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimo­strato come un certo numero degli attuali sena­tori non ten­gano in nes­sun conto non solo la Costi­tu­zione, ma nep­pure la respon­sa­bi­lità poli­tica, di cui cia­scuno di loro dovrebbe essere tito­lare dinanzi al corpo elettorale.

I pochis­simi voti segreti con­cessi su que­stioni del tutto mar­gi­nali hanno for­nito la prova di quanto fos­sero con­di­zio­nati e insin­ceri i voti palesi. È stato così pos­si­bile evi­den­ziare l’esteso numero dei rap­pre­sen­tanti della nazione che hanno votato con la mag­gio­ranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati mag­giori dei rispet­tivi par­titi. Una lace­ra­zione costi­tu­zio­nal­mente insop­por­ta­bile. Se non si garan­ti­sce (o non si eser­cita) la libertà di coscienza sui temi costi­tu­zio­nali il prin­ci­pio del libero man­dato serve vera­mente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vin­co­lare i rap­pre­sen­tanti alla disci­plina di par­tito. Ancora un colpo all’autonomia del Par­la­mento inferto - più che dal Governo o dai par­titi - da que­gli stessi sena­tori che non si sono voluti opporre pale­se­mente a ciò che pure non condividevano.

S’è discusso e pole­miz­zato sulla con­du­zione dei lavori, sull’interpretazione dei rego­la­menti e dei pre­ce­denti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è man­cato è la con­sa­pe­vo­lezza che si stesse discu­tendo di una riforma pro­fonda del nostro assetto dei poteri e degli equi­li­bri com­ples­sivi defi­niti dalla Costi­tu­zione. Se si fosse par­titi da que­sto assunto non si sarebbe potuto accet­tare, in nes­sun caso, un anda­mento che ha sostan­zial­mente impe­dito ogni seria discus­sione su tutti i punti della revi­sione pro­po­sta. Non si sarebbe dovuto assi­stere allo spet­ta­colo sur­reale che ha visto prima esau­rire nella rissa e nel caos il tempo della discus­sione, per poi pro­ce­dere a un’interminabile serie di vota­zioni, con un’Assemblea muta e irri­fles­siva che mec­ca­ni­ca­mente respin­geva ogni emen­da­mento dei sena­tori di oppo­si­zione e appro­vava la riforma defi­nita dagli accordi con il Governo. Spetta al pre­si­dente di assem­blea diri­gere i lavori garan­tendo la discussione.

Non credo possa affer­marsi che ciò sia avve­nuto. Anche in que­sto caso per il con­corso di molti. Per­sino dell’opposizione, la quale ha dovuto uti­liz­zare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evi­den­te­mente, osta­cola una discus­sione razio­nale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accet­tare nes­suna for­za­tura sui tempi, nes­suna inter­pre­ta­zione rego­la­men­tare restrit­tiva dei diritti delle oppo­si­zioni, nes­suna uti­liz­za­zione esten­siva dei pre­ce­denti. Si doveva invece ricer­care il dia­logo, la tra­spa­renza, il con­corso di tutti i rap­pre­sen­tanti della nazione. Era com­pito di tutti creare un clima “costi­tu­zio­nale”, ido­neo alla riforma. Nes­suno lo ha ricer­cato. E temo non sia solo una que­stione di tem­pe­ra­tura, ma - ahimè - di cul­tura costi­tu­zio­nale che non c’è.

La con­clu­sione di ieri ha san­cito la dis­sol­venza del Par­la­mento. La dele­git­ti­ma­zione dell’organo tito­lare del potere di revi­sione della Costi­tu­zione è alla fine stata san­zio­nata dagli stessi suoi com­po­nenti. Il rifiuto di par­te­ci­pare al voto con­clu­sivo da parte di tutti gli oppo­si­tori rende palese che non si può pro­se­guire su que­sta strada. Vedo esul­tare la mag­gio­ranza acce­cata dal suc­cesso di un giorno, mi aspetto qual­che rozza bat­tuta rivolta alla oppo­si­zione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cor­tina dell’irrisione, qual­cuno si fermi per pen­sare a come rime­diare. La Costi­tu­zione non può essere impo­sta da una mag­gio­ranza poli­tica senza una discus­sione e con­tro l’autonomia del Parlamento.


FESTAALLA COSTITUZIONE. MA È SOLO L’INIZIO
diAndrea Fabozzi,

Senato. Primo sì del parlamento: la riforma governativa perde molti voti e resta sotto la soglia dei 2/3: il referendum non sarà una concessione di Renzi. Alla maggioranza del Nazareno mancano 50 voti e il testo è pieno di «bachi» che richiedono modifiche

I gril­lini sfi­lano in riga sotto il naso di Anna Finoc­chiaro, pian­tata di guar­dia al cen­tro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non par­te­ci­pare al voto sulla riforma costi­tu­zio­nale. I leghi­sti si sor­bi­scono tutto il dibat­tito, ma vanno via alla fine per per­met­tere a Cal­de­roli di distin­guersi: il rela­tore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è con­tro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono cari­cati il peso dell’ostruzionismo, i non con­vinti del Pd, i fron­di­sti di Forza Ita­lia. Così la riforma «sto­rica» del senato chiude il primo giro senza nes­sun voto con­tra­rio. Ma con tanti voti favo­re­voli in meno.

L’ultima e più impor­tante di due­mila e tre­cento vota­zioni ferma i SIa quota 183, più vicina alla soglia minima indi­spen­sa­bile per una legge costi­tu­zio­nale (161) che a quella di sicu­rezza per evi­tare il refe­ren­dum (214), quando arri­verà la quarta let­tura. Alla mag­gio­ranza del patto ri-costituente man­cano una cin­quan­tina di voti: i «dis­si­denti» annun­ciati si con­fer­mano — 19 ber­lu­sco­niani e 16 demo­cra­tici — in più si con­tano una quin­di­cina di assenti, nume­rosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha pro­messo la gra­ziosa rinun­cia alla mag­gio­ranza dei due terzi, per per­met­tere il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo. Il tabel­lone del senato dice che quella mag­gio­ranza non ce l’ha.

Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evi­denti rima­sti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei depu­tati, lasciano pre­ve­dere qual­che modi­fica alla camera; la legge dun­que dovrà tor­nare al senato. La pausa di rifles­sione impo­sta dall’articolo 138 della Costi­tu­zione e il refe­ren­dum finale faranno il resto: della riforma si par­lerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Naza­reno dovrà dare prova di resi­stenza, sem­pre che non venga allar­gato anche al resto dei dos­sier (più) urgenti. Un’eventuale cam­pa­gna per il no al refe­ren­dum par­ti­rebbe in salita, ma potrebbe insi­stere sull’immunità (impo­po­lare e non abo­lita) e sul voto diretto (più gra­dito, ma can­cel­lato). «Il governo — pre­vede la capo­gruppo di Sel Lore­dana De Petris — si aspetta un ple­bi­scito ma non è detto che vada così».

Nel frat­tempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma ren­ziana, tra que­sto autunno e la pros­sima pri­ma­vera gli ita­liani eleg­ge­ranno la gran parte dei con­si­gli regio­nali e molti sin­daci, senza sapere se stanno con­tem­po­ra­nea­mente sele­zio­nando i futuri sena­tori. Lo pre­vede il testo appro­vato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in con­di­zione di acce­dere «con ugua­glianza» alle cari­che elet­tive. Le dispo­si­zioni tran­si­to­rie potreb­bero essere cor­rette, eli­mi­nando la lot­te­ria della prima volta per una vera ele­zione di secondo grado, ma per farlo biso­gne­rebbe rin­viare di cin­que anni la tanto accla­mata tra­sfor­ma­zione del senato. È que­sta una delle tante incon­gruenze pra­ti­che che ori­gi­nano nella tra­sfor­ma­zione dei con­si­glieri regio­nali e dei sin­daci in legi­sla­tori, il pastic­cio dell’immunità è solo quella più evidente.

Un’altra incon­gruenza è quella che denun­cia il sena­tore Chiti, il più espo­sto dei 16 «dis­si­denti» Pd. Lungi dal «rap­pre­sen­tare le isti­tu­zioni ter­ri­to­riali», i senatori-consiglieri saranno sele­zio­nati dai capi par­tito e nel nuovo senato repli­che­ranno la divi­sione in gruppi (anche se la riforma elude il pro­blema, non pre­ve­dendo la pro­por­zio­na­lità di rap­pre­sen­tanza nelle com­mis­sioni). Infatti un emen­da­mento che avrebbe obbli­gato tutti i rap­pre­sen­tanti di un ter­ri­to­rio a votare allo stesso modo — un po’ come nel Bun­de­srat tede­sco — è stato respinto dalla mag­gio­ranza. Anche su que­sto tema però molto è rin­viato al futuro: appro­vata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere — con il vec­chio o magari con il nuovo regime par­la­men­tare — a dover scri­vere le regole per le ele­zioni di secondo grado.

Magari anche que­sti «det­ta­gli» suc­ces­sivi saranno affi­dati a un patto a due; visto che come da rias­sunto del capo­gruppo di Forza Ita­lia Romani «que­sta riforma porta le firme di Renzi e Ber­lu­sconi» — niente male per il più solenne degli atti par­la­men­tari. C’è per esem­pio una porta soc­chiusa per il refe­ren­dum pro­po­si­tivo, che viene solo nomi­nato nella nuova Carta ma che potrebbe essere svi­lup­pato, con legge costi­tu­zio­nale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Cal­de­roli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna mate­ria» può suo­nare pre­oc­cu­pante. Altre però sono le pre­oc­cu­pa­zioni imme­diate. Alla camera, in autunno, si ripar­tirà dal ten­ta­tivo di cor­reg­gere il mec­ca­ni­smo di ele­zione del pre­si­dente della Repub­blica, che al momento è nella dispo­ni­bi­lità della mag­gio­ranza dopo le prime otto vota­zioni. E assieme al Qui­ri­nale, per il primo par­tito, c’è un altro omag­gio: la pos­si­bi­lità di indi­care 8 giu­dici della Corte Costi­tu­zio­nale, su 15.

GOVERNABILITÀ»,
QUANDO LA FORZAPREVALE SUL DIRITTO

di Vincenzo Accattatis

Il Senato in era ren­ziana. Patti miste­riosi. Ela­bo­ra­zione di una costi­tu­zione ille­git­tima che ovvia­mente pro­duce poli­ti­che ille­git­time (Gustavo Zagre­bel­sky, «La costi­tu­zione e il governo stile exe­cu­tive», la Repub­blica di mer­co­ledì). Fase di deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione, di distru­zione dei valori, a livello nazio­nale e inter­na­zio­nale. La forza che suben­tra al diritto. Forza più pro­pa­ganda. Mani­po­la­zione della pub­blica opi­nione. Costi­tu­zione mate­riale che si con­trap­pone a quella for­male. Un par­la­mento eletto inco­sti­tu­zio­nal­mente che pre­tende «rifor­mare» la Costi­tu­zione. Non riforma, ma «capo­vol­gi­mento della Costi­tu­zione» pen­sata per durare, per infre­nare il potere che deborda.

Camere sotto sferza come vec­chio ron­zino. Tutto in vista del pre­si­den­zia­li­smo, di là da venire ma già di fatto lar­ga­mente esi­stente: capo dello Stato eletto per la seconda volta da un par­la­mento di nomi­nati plau­dente, ancora in carica che dà a Renzi le diret­tive di governo come le dava a Monti, a Letta.

Sto­ria dell’antiparlamentarismo ita­liano che si lega alla sto­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto. Una lunga sto­ria «nefasta».L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni ma l’llusione «di un governo dalle mani libere» è pari­mente nefa­sta. Il bona­par­ti­smo ita­liano di ieri e di oggi. Un’oligarchia al potere. Chi tira i fili sta die­tro le quinte.

Da «libero par­la­mento» a «libero governo». Gover­na­bi­lità come nuovo volto dell’autoritarismo. Le oppo­si­zioni come intral­cio. L’esecutivo che «educa» il par­la­mento. I deboli soc­com­bono, le mino­ranze sono schiac­ciate. Il Pd «par­tito degli ita­liani» o «della nazione».

Zagre­bel­sky man­tiene la sua ana­lisi sul piano costi­tu­zio­nale ita­liano, ma essa vale anche come ana­lisi di livello mon­diale: la forza che pre­vale sul diritto, la nor­ma­tiva inter­na­zio­nale che diviene carta strac­cia, obli­te­rata da Israele che nel nome di Sion bom­barda la stri­scia di Gaza. Le ter­ri­fi­canti imma­gini di Gaza sono davanti agli occhi di tutti gli euro­pei. Grandi mani­fe­sta­zione a Parigi, a Lon­dra, in altre capi­tali euro­pee. Gaza, «una pri­gione a cielo aperto», un sim­bolo per tutti noi?

L’Unione euro­pea san­ziona il «cat­tivo Putin» ma non Israele. Due pesi e due misure? L’Unione euro­pea può ancora par­lare, cre­di­bil­mente, di difesa dei diritti dell’uomo? Israele «vince la bat­ta­glia ma perde la guerra». «Gaza e il futuro di Israele» (The Eco­no­mist del 2.8.2014, in tutta coper­tina). Cor­reg­ge­rei: Gaza e il futuro dell’Europa, del pre­teso «mondo libero» che si dice impe­gnato a difen­dere i diritti dell’uomo.

«Riducendo l’elezione diretta dei parlamentari a una sola Camera e lasciando ai partiti la discrezionalità nella selezione dei candidati, la legittimità della classe politica viene intaccata».

La Repubblica, 10 agosto 2014
CON la riforma costituzionale approvata ieri, anche il Senato italiano, come le Camere alte francesi tedesche e olandesi, diventa un organo ad elezione indiretta: non saranno più i cittadini ad eleggere i senatori ma saranno i consiglieri regionali e delle grandi città a nominare i loro rappresentanti a Palazzo Madama. Con questo passaggio il Senato si uniforma ad uno standard europeo nella sua composizione e modalità di elezione.

Va invece nella direzione opposta quanto alla nuova attribuzione di funzioni e poteri. In Francia, infatti, il Senato, anche in virtù di un processo di selezione che prevede una vera e propria elezione dei senatori da parte di collegi elettorali molto ampi, da un minimo di 227 elettorali ad un massimo di 720, ha conquistato maggiore incidenza nel processo legislativo. In Germania, la riforma costituzionale del 2006 ha ridefinito le funzioni tra le due camere al fine di evitare lo stallo provocato dalle diverse maggioranze, per risolvere il quale bisognava convocare un comitato di conciliazione: ha affidato più poteri ai Lander in modo che i loro rappresentanti in Senato non siano più sollecitati a fare ostruzionismo sulle norme federali che in qualche misura potrebbero investire le competenze dei Lander stessi. In sostanza, per lasciare al Bundestag più incisività nella sua azione legislativa sono state aumentate le sfere di autonomia e le capacità di intervento dei vari Lander. La maggiore efficienza decisionale è compensata da un approfondimento dell’impianto federale.

Se quindi mettiamo a confronto la nuova architettura istituzionale approvata (in prima lettura) ieri con le recenti evoluzioni in altri paesi europei, vediamo che la composizione e le funzioni del nuovo Senato portano entrambe ad incrementare l’accentramento e la verticalizzazione dei poteri nell’assemblea parlamentare nazionale. Le regioni hanno perso ambiti di intervento e Palazzo Madama non può più “interferire” nel processo legislativo oltre un certo limite. In tal modo il nostro sistema istituzionale diventa un unicum, in quanto l’esautoramento delle prerogative di un ramo del parlamento non è compensato da un ampliamento di poteri, vuoi di controllo o di iniziativa da parte di altri “poteri dello Stato”.

In questo quadro diventa quindi molto più importante di prima la ridefinizione della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto Italicum). È ben più rilevante perché, una volta sottratta ai cittadini la possibilità di eleggere i senatori, non si può ridurre la loro capacità di scelta anche per quanto riguarda i deputati. E le liste bloccate sono esattamente una coartazione di questa capacità. Il rimedio invocato da alcuni per ridare voce ai cittadini ed eliminare il “parlamento di nominati” consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e clientelismo. Meglio evitare quel ritorno al passato.

L’unica, vera, alternativa virtuosa allo stato dei fatti (e degli accordi), e cioè l’uninominale, preferibilmente a doppio turno come in Francia, scardinerebbe l’impianto proporzionale e premiale della riforma. Ma Berlusconi non vuole. E allora, visto che l’altro giorno il patto del Nazareno è stato saldamente imbullonato, ci terremo un sistema elettorale in cui i cittadini non hanno piena potestà di scelta dei loro rappresentanti nemmeno per la Camera dei Deputati.

Questo è l’esito imprevisto e problematico della riforma del Senato: riducendo l’elezione diretta dei parlamentari ad una sola camera e lasciando ai partiti totale discrezionalità nella selezione dei candidati, senza introdurre regole vincolanti per tutti come, ad esempio, le primarie, la legittimità della classe politica viene ulteriormente intaccata. In tempi di antipolitica l’Italicum non è il sistema migliore che sipossa congegnare.

«Le cose vanno meglio nei paesi in cui sono state messe in campo stra­te­gie effi­caci di riforma. Dove quelle stra­te­gie sono man­cate, vanno peg­gio; così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strom­baz­zate riforme isti­tu­zio­nali non importa niente al mer­cato, all’Europa, non­ché ovvia­mente agli italiani».

Il manifesto, 8 agosto 2014

Vale più un senato non elet­tivo o una rica­duta del paese nella reces­sione? La poli­tica di imma­gine cara a Renzi riceve dai dati Istat un sonoro schiaffo, dopo le figu­racce della riti­rata sulla riforma - che già non poteva dirsi epo­cale -della PA, e della fal­lita pro­messa di allar­gare la pla­tea per gli 80 euro in busta paga.

Come si poteva pre­ve­dere, non sono bastati quasi 8000 emen­da­menti a fer­mare i rifor­ma­tori a ogni costo. E va ancora ricor­dato che que­sta prima let­tura del senato è decisiva. Se la camera appro­vasse il testo senato così com’è, la prima deli­be­ra­zione delle due richie­ste dall’art. 138 si chiu­de­rebbe, e nes­suna modi­fica potrebbe più essere intro­dotta in seconda deli­be­ra­zione. I numeri della camera met­tono il governo al riparo da sor­prese. Poco importa se sono costruiti in mas­sima parte pro­prio sui mec­ca­ni­smi dichia­rati inco­sti­tu­zio­nali con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale. Pd e M5S nelle ele­zioni del 2013 hanno avuto rispet­ti­va­mente il 25,43% e il 25,56% dei voti, ma otten­gono 292 e 108 depu­tati (archi­vio ele­zioni interno). Prova evi­dente che non doveva essere que­sto par­la­mento a rifor­mare la costi­tu­zione vio­lata dalla legge elet­to­rale che ne deter­mina i numeri.

Certo il pre­si­dente Grasso ha dato una mano, aprendo la strada all’uso esten­sivo del “can­guro” e alla mor­dac­chia del con­tin­gen­ta­mento dei tempi. Non con­vin­cono il richiamo al rego­la­mento e alla prassi. Il valore di una inter­pre­ta­zione o di un pre­ce­dente dipende non solo dalla mera sovrap­po­ni­bi­lità degli ele­menti di fatto, ma anche — e tal­volta soprat­tutto — dal con­te­sto. E non c’è dub­bio che la situa­zione oggi data non si fosse mai veri­fi­cata prima. Una pro­po­sta di riforma total­mente inte­stata al governo, posta espli­ci­ta­mente a con­di­zione della soprav­vi­venza dello stesso e della legi­sla­tura, tesa a smi­nuire deci­si­va­mente il peso poli­tico e i poteri for­mali dell’istituzione par­la­mento cui lo stesso governo dovrebbe essere sot­to­po­sto per la fidu­cia, il con­trollo, la vigi­lanza, volta a dare una tor­sione for­te­mente mag­gio­ri­ta­ria e cen­trata sull’esecutivo al sistema nel suo com­plesso. Che peso pote­vano mai avere pre­ce­denti e prassi in una situa­zione mai prima veri­fi­ca­tasi, radi­cal­mente diversa e nuova? E dun­que si può con­clu­dere che senza scan­dalo le norme rego­la­men­tari sul voto segreto avreb­bero potuto essere lette più esten­si­va­mente, e al con­tra­rio le prassi sul can­guro e sul con­tin­gen­ta­mento più restrittivamente.

Le poche modi­fi­che intro­dotte in aula o sono lif­ting di poca sostanza, come per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare o il refe­ren­dum, o aggiun­gono ambi­guità e apo­rie a un testo già pes­simo. Per­ché gover­na­tori, con­si­glieri regio­nali e sin­daci dovreb­bero poter legi­fe­rare sulla fami­glia o su temi di bio­e­tica, morte e vita? Ne avranno mai fatto oggetto di cam­pa­gna elet­to­rale? Hanno un man­dato? Per non par­lare della par­te­ci­pa­zione alla revi­sione costi­tu­zio­nale, e della ben nota que­stione dell’immunità-impunità.

Nel merito, la que­stione senato mac­chia inde­le­bil­mente una riforma che per altro verso con­tiene punti anche apprez­za­bili. È un’ovvietà la sop­pres­sione del Cnel, ripe­tu­ta­mente pro­po­sta nel corso degli anni. E la intro­du­zione nel titolo V di una clau­sola di supre­ma­zia mirata all’unità della Repub­blica e all’interesse nazio­nale cor­regge uno dei più gravi errori fatti dal cen­tro­si­ni­stra nel 2001, con la can­cel­la­zione dell’interesse nazio­nale richia­mato nella Carta del 1948. Bene anche la sem­pli­fi­ca­zione delle pote­stà legi­sla­tive, pur poten­dosi fare di più e meglio.

Ma il metodo offende. Per­ché apre su costi­tu­zioni deboli, non da tutti rico­no­sciute come carta fon­da­men­tale della con­vi­venza civile. Nel 1983, la com­mis­sione Bozzi non si avviò fin­ché non ci fu la firma di Napo­li­tano per il Pci. La pro­po­sta della com­mis­sione D’Alema morì con l’attacco di Ber­lu­sconi nell’aula della camera (28 gen­naio e 27 mag­gio 1998) al testo, che pure Fi aveva con­tri­buito a scri­vere. Poi nel 2001 il primo cat­tivo pre­ce­dente, con il cen­tro­si­ni­stra che forzò sulla riforma del titolo V, spe­rando che il quasi-federalismo in esso con­te­nuto potesse rigua­da­gnare con­sensi al Nord. Sap­piamo come finì. Il cen­tro­de­stra resti­tuì il colpo nel 2005, con la grande riforma della devo­lu­tion e del primo mini­stro asso­luto che il popolo ita­liano rifiutò nel refe­ren­dum del 25 giu­gno 2006. Ora ci risiamo, con Ber­lu­sconi mira­co­lato da Renzi e dal patto del Naza­reno, e una mag­gio­ranza spu­ria che riduce al silen­zio l’opposizione. Un pes­simo via­tico. Men­tre bastava man­te­nere il senato elet­tivo per evi­tare ogni problema.

Almeno ser­visse a qual­cosa. Ma per gli ultimi dati Istat siamo di nuovo in reces­sione. La poli­tica dell’immagine non ha spo­stato di un mil­li­me­tro i dati reali della crisi. Dra­ghi dice alla Bce che vanno meglio i paesi in cui sono state messe in campo stra­te­gie effi­caci di riforma. Al con­tra­rio, quelle stra­te­gie sono man­cate nei paesi che vanno peg­gio. Così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strom­baz­zate riforme isti­tu­zio­nali non importa niente al mer­cato, all’Europa, non­ché ovvia­mente agli italiani.

Que­sto è un paese di grandi affa­bu­la­tori. Prima Ber­lu­sconi, ora Renzi, in van­tag­gio per­ché ha la metà degli anni, parec­chi vizi in meno, e tutti i capelli. Ma per entrambi il pro­blema è stato ed è che le favole devono pur finire, prima o poi. E il rischio è che poi vis­sero tutti infe­lici e scontenti.

Corriere della Sera, 7 agosto 2014

Povero Palazzo Madama. La Camera Alta della Repubblica ridotta a un retrobottega di Montecitorio. Il senatore del Regno Benedetto Croce riuscì a parlare in quell’aula rossa persino ai tempi del fascismo, nel maggio 1929, contro il Concordato tra lo Stato e la Chiesa. «Un certo canagliume senatorio e un certo canagliume giornalistico - scrisse il filosofo nel 1947 - m’interrompevano con sconce invettive, e io li lasciavo sfogare, e poi ripetevo il mio detto finché la vinsi». Mussolini, irato, reagì con durezza e con villania: «Accanto agli imboscati della guerra vi possono essere gli imboscati della storia, i quali, non potendo per ragioni diverse e forse anche per la loro impotenza creatrice, produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obbiettività e qualche volta senza pudore».

Con le dovute diversità di tempo, politiche e sociali, è parso di sentire le stesse umilianti invettive interrompere chi ha osato manifestare ora al Senato il proprio dissenso: non si deve far perdere tempo - è la parola d’ordine - al governo fautore e presentatore della riforma della Costituzione. (Una prerogativa riservata, tra l’altro, al Parlamento).

Le urla da stadio non sono accettabili e non servono le marce di protesta al colle più alto. Ma la discussione, anche la più aspra, è il sale della democrazia. L’ostruzionismo, come ha scritto la costituzionalista Lorenza Carlassare, «non è un insulto, ma uno degli strumenti classici di ogni democrazia che sia davvero tale». E Stefano Rodotà si è espresso così: «Non si può reagire con un “mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo”. Serve una competenza tecnica. Che non c’è stata. La qualità dei costituenti, voglio essere generoso, è molto molto bassa».

Se si pensa a chi furono i protagonisti della Costituzione del 1947, Luigi Einaudi, Moro, Terracini, Dossetti, Concetto Marchesi, La Pira, Togliatti, Lussu, Calamandrei, viene un po’ di malinconia. Il linguaggio usato dai giovani governanti contro chi dissente è corrivo e stizzoso, tra l’oratorio parrocchiale e il festino goliardico: i professoroni, i gufi brontoloni, i gufi indovini, come dichiara il presidente del Consiglio. Insieme con gli insulti che spuntano puntuali contro chi cerca di usare il cervello e ricordano «il culturame» di Scelba, gli «intellettuali dei miei stivali» di Craxi.

Il Senato diventa dunque una Camera delle corporazioni non più eletta dai cittadini: cessa il ping-pong tra Palazzo Madama e Montecitorio, come ha commentato festosa una ministra. Cento senatori anziché 315, di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica, 21 sindaci, 74 consiglieri regionali. Come faranno poi a funzionare gli enti locali da cui provengono non si sa: forse si tratta di una nomina premio per la buona prova data in non poche Regioni dove la corruzione ha trionfato, dal Piemonte alla Lombardia al Veneto al Lazio all’Abruzzo alla Campania alla Calabria alla Sicilia.

Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, col ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie? Il contingentamento dei tempi, la cancellazione degli emendamenti, i troppi no al voto segreto, la sostituzione militaresca, all’interno di una commissione parlamentare, di un senatore dissenziente dalle decisioni del gruppo di appartenenza, violando l’articolo 67 della Costituzione e l’articolo 31 del regolamento del Senato, non sono stati segni di libertà in un dibattito che non dovrebbe avere alcun limite. Non sarebbe stato più serio che fosse un’Assemblea costituente a discutere e approvare le riforme utili?

Il governo Renzi ha ottenuto la fiducia di un Parlamento eletto con una legge, il «Porcellum», dichiarata illegittima dalla Consulta. Il ministero è quindi di emergenza e dovrebbe operare a termine in attesa del ripristino della legalità costituzionale. Si impanca, invece, febbrilmente, proprio nella riforma della Costituzione. I maggiori costituzionalisti hanno dato, inascoltati, un giudizio severamente negativo al progetto: ora sono ridotti all’osso i giornali che ospitano le loro opinioni. «Basta col culto del “discussionismo”», ha detto Renzi.

Il governo delle larghe intese non demorde. Il segreto patto d’acciaio del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, un vincolo globale utile a entrambi, rende tutto più anomalo e fuori dalle regole di una democrazia. Siamo approdati davvero a una post democrazia senza controllo. La società, passiva, impotente, depressa, preoccupata, impoverita, segue quel che accade spesso allibita. L’economia è piatta, il Paese è in recessione, la stima dell’Istat è di un -0,2% del Pil, il viso del ministro Padoan sembra uno specchio abbrunato. Non pare proprio che sia questo il tempo fertile e adatto per certe riforme strutturali di uno Stato.

La riforma del Senato si propone di dare all’Europa un segno che l’Italia si sta rinnovando, che è davvero sulla giusta via come la Spagna? All’Europa, sembra chiaro, interessano piuttosto la quantità del nostro debito pubblico, il Fisco, il lavoro, la corruzione e le mafie, la politica economica, la limpidezza del fare più che riforme istituzionali malfatte. I tedeschi, i francesi, gli olandesi, gli spagnoli colti non si appassionano alla fine del bicameralismo, alla caduta del Senato. Di Palazzo Madama sanno probabilmente che alla fine del Cinquecento vi abitava il Caravaggio, ospite del cardinal Del Monte, e che lì vicino, nelle chiese di San Luigi dei Francesi e di Sant’Agostino, il gran pittore dipinse proprio in quegli anni alcuni dei suoi capolavori.

Lo “stato d’eccezione” che giustifica spostamenti negli equilibri tra i diversi poteri e rende accetto, quasi senza battere ciglio, che un parlamento eletto incostituzionalmente metta mano, addirittura, alla modifica della Costituzione». E l'obiettivo è chiaro: tornare indietro rispetto alla democrazia liberale e assoggettare al Sovrano il potere legislativo.

La Repubblica, 6 agosto 2014

Del Senato della nuova era, tutto il dicibile è stato detto e ridetto. Ora non si tratta più d’idee, ma di numeri, di patti misteriosi che “tengono” o “non tengono”, di “aperture” o “chiusure”, cioè di strategie politiche. Interessa, invece, lo sfondo: ciò che crediamo di comprendere della nostra crisi e delle sue forme. Che valore hanno il tanto pervicace impegno per “le riforme” costituzionali e l’altrettanto pervicace impegno contro? Pro e contra, innovatori e conservatori. I pro accusano i contra di non voler assumersi le responsabilità del cambiamento che il momento richiede e di difendere rendite di posizione dissimulandole come difesa della Costituzione. I contra, a loro volta, accusano i pro di coltivare la vacua ideologia del nuovo e del fare a ogni costo, in realtà servendo interessi ai quali ostica è la democrazia. Le ragioni della divisione sono profonde, spiegano l’asprezza del contrasto e giustificano le preoccupazioni.

Le costituzioni sono al servizio della legittimità della politica e una costituzione illegittima non può che produrre politiche a loro volta illegittime. Ma, la legittimità divisa è un concetto contraddittorio che porta in sé la radice della dissoluzione. La funzione delle costituzioni è conferire accettazione diffusa alle istituzioni e alle politiche che su di esse si fondano. La Costituzione che nascerà dalle condizioni presenti - se nascerà - sarà figlia di una legittimazione dimezzata e svolgerà solo a metà la sua funzione legittimante e, per l’altra metà, svolgerà una funzione delegittimante. Lo stesso è per la Costituzione ora vigente ma contestata - se sarà questa a sopravvivere ai riformatori -. In ogni caso, possiamo aspettarci un periodo di vita politica instabile e “de-costituzionalizzata”, cioè determinata più dai rapporti di forza e dalle convenienze che non dal rispetto d’un patrimonio di principi e regole del vivere comune.
In parte è già così. Il processo è in corso da tempo. Ciò che una volta avrebbe creato scandalo, oggi è quasi generalmente accettato. Che cosa, se non questo, significano i discorsi circa la “costituzione materiale” o “di fatto” che si è sovrapposta a quella ufficialmente in vigore, o circa lo “stato d’eccezione” che giustifica spostamenti negli equilibri tra i diversi poteri e rende accetto, quasi senza battere ciglio, che un parlamento eletto incostituzionalmente metta mano, addirittura, alla modifica della Costituzione? Sono state create le condizioni del regno della necessità, dove, di fatto, si afferma la forza, e la debolezza soccombe senza lo scudo del diritto. L’incostituzionalità, oggi, è routine.
Latente, c’è un conflitto profondo che si manifesta per ora su singoli punti, importanti ma secondari. Il declassamento del Senato è uno di questi. Il disegno generale che unifica i punti sparsi s’è mostrato, inaspettatamente, durante il dibattito sulla riforma, quando una senatrice della maggioranza, per invitare l’opposizione a “volare alto” e a non perdersi nei dettagli, ha chiarito il punto: si tratta, secondo noi (noi, i riformatori), di un passo necessario per giungere a rovesciare il rapporto tra il Parlamento e il Governo e fare del primo l’esecutore fedele delle decisioni del secondo. Non che, da tempo, non sia in atto la tendenza a ridurre le Camere a registratori di decisioni dell’esecutivo. Ma, ora si tratta di costituzionalizzare

la sudditanza: dal libero Parlamento della vecchia e stantia tradizione democratica, al libero Governo dell’epoca in cui “executive” è sinonimo di successo (anche sui treni ad alta velocità, dove non c’è una classe “legislative”). Ricordiamo un presidente del Consiglio dire, qualche tempo fa, essere venuto il momento, per gli esecutivi, di “educare” i parlamenti.
Se questo è l’obiettivo, si tratta non di riforma ma di capovolgimento della Costituzione. La legge elettorale che “la sera stessa delle elezioni” deve incoronare il capo del Governo, oggi anche capo del “suo” partito, nella carenza di garanzie e contrappesi istituzionali e di democrazia interna ai partiti, e nell’abbondanza, invece, di corse e rincorse al conformismo; l’elezione di nominati; gli sbarramenti vari, molto alti: tutto ciò concorre all’obiettivo. La maggioranza deve essere prona, l’opposizione spuntata, le Camere sotto la sferza come vecchi ronzini ai quali si detta addirittura l’andatura (il “timing”) e il percorso (la “road map”). Il presidente del Consiglio usa un linguaggio sprezzante nei confronti di chi non ci sta (“ce ne faremo una ragione”; “asfalteremo”; “piaccia o non piaccia”, “porteremo a casa”, ecc.). La qualità del linguaggio è un segno spesso più eloquente di tanti discorsi programmatici. È la soglia dalla quale ci si può affacciare per vedere senza schermi l’animo altrui. Il ministro per le riforme, a completamento dei segnali rivolti a chi deve intendere, ha ammesso che, in un secondo momento si aprirà la questione del presidenzialismo, che da tempo cova sotto la cenere.
Esiste allora un problema di democrazia? Non ci si crede, perché è difficile prendere sul serio queste pulsioni, incarnate nell’attuale compagine di governo che, attraverso il suo capo, si sforza visibilmente d’apparire accattivante. Ma, le regole costituzionali sono fatte per valere nel tempo. Possiamo sapere chi verrà dopo? E che dire se queste tendenze si saldassero a interessi e disegni di pochi potenti, a danno dei molti impotenti?
I nostri riformatori che così parlano e agiscono, ne siano consapevoli o no, potranno essere un giorno ascritti alla storia dell’antiparlamentarismo, una lunga e nefasta storia iniziata negli ultimi decenni dell’Ottocento e proseguita nel tempo della Repubblica. Già subito, nel 1948, dopo le elezioni del 18 aprile, si sostenne, quattro mesi dopo la sua entrata in vigore, che la Costituzione era morta e sepolta sotto la valanga di voti che aveva consegnato il Paese alla Dc. La Costituzione “consociativa”, avente cioè nel Parlamento il suo luogo d’elezione, era superata - si disse - da una costituzione materiale il cui fulcro era il governo e il suo partito. De Gasperi, com’è noto, non aderì, anche perché non considerò mai la Dc partito “suo”, nel senso odierno. La “legge truffa” (poca cosa rispetto a certe attuali proposte in materia elettorale) fallì. Le maggioranze furono di coalizione, le coalizioni avevano il loro fulcro in Parlamento e la Costituzione resse all’urto.
Da allora, però, non si è cessato d’immaginare, progettare e perfino tramare contro l’odiato consociativismo, attribuito come peccato originale a una Costituzione che, in verità, è soltanto un’onesta, per quanto sempre perfettibile, costituzione non di una oligarchia ma della democrazia pluralista. Sotto la pressione delle crisi che viviamo, quelle proposte sono ritornate d’attualità, rivestendosi - ora come allora - di efficientismo e di colore patriottico, “nazionale”. La vocazione totalizzante è una caratteristica comune a tutte le forme di antiparlamentarismo, una vocazione lampante quando il capo d’un partito vuole essere l’incarnazione del “partito degli italiani” (versione Berlusconi) o del “partito della nazione” (versione Renzi).
L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni: la corruzione, l’affarismo, l’opportunismo, l’inefficienza, la paralisi decisionale, l’incompetenza, il “cretinismo parlamentare” (Marx-Engels, 1852), i “ludi cartacei” (Mussolini, 1926). Chi potrebbe negarle e chi non saprebbe aggiungerne altre? La storia è antica, ma l’illusione di un governo dalle mani libere e perciò stesso benefico, altrettanto. In una società segnata da tante profonde fratture, la nostra, possono bastare l’attivismo, il giovanilismo, il futurismo ottimistico sempre ostentato e regolarmente smentito, gli annunci e le promesse quasi sempre rimangiate, il nascondimento delle prove che ci dobbiamo preparare ad affrontare? Quale natura dimostrerebbe a breve il preteso governo dalle mani libere? O un qualche populismo o un qualche autoritarismo, oppure l’uno e l’altro insieme. Inevitabilmente, ciò sarebbe la dissimulazione del vero volto di un potere che lo sostiene da dietro le quinte: il volto di un’oligarchia oggi nobilitata dall’avallo europeo (“ce lo chiede l’Europa”, ma quale tra le diverse, possibili Europe?).
Ancora una volta, pare d’essere di fronte all’eterno dilemma: oligarchia dalle maniere sbrigative o democrazia dall’andatura pesante. Coloro i quali, nonostante tutto, preferiscono vivere nella seconda, devono assumersene responsabilmente il peso, sapendo che gli egoismi di parte, l’indisponibilità ai compromessi, il frazionismo infinito non fanno che portare acqua al mulino dei loro nemici; che la corruzione dilagante è un’alleata preziosa d’un senso comune che invoca le maniere spicce, e che solo nella politica della giustizia sociale e dell’uguaglianza - ciò che la Costituzione chiama “solidarietà” - si trovano gli antidoti alla chiusura oligarchica del potere.


I numerosi segni di deriva autoritaria rendono di nuovo attuali le parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro alta­mente. Amico della realtà, nemico delle illu­sioni, ame­rei meglio vedere la libertà sop­pressa che vederla fal­sata e vedere ingan­nato il paese e l’Europa» .

Il manifesto, 5 agosto 2014

C’è un fatto, acca­duto in que­sti giorni e appa­ren­te­mente secon­da­rio, che mette a nudo l’anomalia della situa­zione poli­tica e isti­tu­zio­nale del paese e delle ini­zia­tive che la accom­pa­gnano, a par­tire dalla «riforma» costi­tu­zio­nale e da quella della legge elet­to­rale. È la man­cata ele­zione, da parte del par­la­mento in seduta comune, dei com­po­nenti di sua spet­tanza del Con­si­glio supe­riore della magi­stra­tura, con la con­se­guente pro­roga senza limiti pre­de­ter­mi­nati del Con­si­glio sca­duto (della cui inte­gra­zione si ripar­lerà, forse, a settembre).

Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elet­tivo (per esem­pio il par­la­mento) resta in carica, ancor­ché sca­duto, per­ché non sono state indette nuove ele­zioni: lo dico som­mes­sa­mente, spe­rando che l’affermazione venga con­si­de­rata un para­dosso e non un’idea utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra sto­ria costi­tu­zio­nale (salvo un remoto e diverso pre­ce­dente) e — si noti — l’elezione non è stata nep­pure tentata.

La paren­tesi di rap­pre­sen­ta­ti­vità di un organo di rile­vanza costi­tu­zio­nale non è cosa da poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e stru­men­tal­mente — tratto argo­menti a con­ferma della neces­sità di cam­biare le regole. È vero esat­ta­mente il con­tra­rio! In tutte le pre­ce­denti con­si­lia­ture, anche nei momenti di più aspra con­flit­tua­lità poli­tica, l’elezione dei com­po­nenti di spet­tanza del par­la­mento è avve­nuta nei ter­mini (e spesso con l’indicazione di giu­ri­sti di prim’ordine). È, dun­que, evi­dente che il difetto non sta nelle regole (rima­ste inal­te­rate) ma nelle forze poli­ti­che e, in par­ti­co­lare, nella mag­gio­ranza par­la­men­tare, all’apparenza inca­pace e disin­te­res­sata a pro­muo­vere con­fronto e con­ver­genze. Ma è solo un’apparenza, ché non si tratta di ina­de­gua­tezza ma dell’ennesima dimo­stra­zione della cul­tura che per­mea la mag­gio­ranza poli­tica (quella palese e quella allar­gata di sup­porto): una cul­tura che rifiuta il con­fronto e la ricerca di solu­zioni con­di­vise e cono­sce solo le ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfa­sciare il sistema. Non è cosa nuova, nep­pure nella sto­ria repub­bli­cana. Ma con­viene segna­larne gli ascendenti.

All’inizio dell’epoca ber­lu­sco­niana lo teo­rizzò in maniera bru­tale il costi­tu­zio­na­li­sta di rife­ri­mento della destra, Gian­franco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò testual­mente: «È sba­gliato dire che una Costi­tu­zione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costi­tu­zione è un patto che i vin­ci­tori impon­gono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Ita­lia rag­giun­gono la metà più uno. Metà degli ita­liani fanno la Costi­tu­zione anche per l’altra metà. Poi si tratta di man­te­nere l’ordine nelle piazze». Non c’è riu­scito Ber­lu­sconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il con­senso della metà più uno degli ita­liani, ma solo — come ama ripe­tere — di 11 milioni di votanti, dimen­ti­cando quei 38 milioni di cit­ta­dini che nes­suna delega o soste­gno gli hanno dato.

Qual­cuno — tra gli altri i migliori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani — ha pro­vato a segna­lare l’anomalia di que­sta dop­pia «riforma» (costi­tu­zio­nale ed elet­to­rale), dei suoi con­te­nuti e delle sue moda­lità. Subito è arri­vata la severa e sprez­zante rispo­sta del pre­si­dente del Con­si­glio e della mini­stra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno iro­niz­zato sull’età e sulle com­pe­tenze dei soliti «pro­fes­so­roni». Anche qui, non è inu­tile ricor­dare i pre­ce­denti: que­sta volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di isti­tu­zioni che di ordine nelle piazze… — il quale, nel giu­gno 1949, si sca­gliò con­tro il «cul­tu­rame» degli intel­let­tuali di cui la poli­tica dovrebbe libe­rarsi. Allora non man­ca­rono le prese di distanza e le rea­zioni poli­ti­che. Oggi tutto tace. E, se non sor­pren­dono le parole di Renzi (la cui con­si­de­ra­zione per la cul­tura è dimo­strata dalla con­ces­sione degli Uffizi come tram­po­lino per sfi­late di moda), spicca il silen­zio miope e com­plice dei (pochi) resi­dui intel­let­tuali del suo partito.

C’è di che pre­oc­cu­parsi, e non poco. Ma, men­tre tutto que­sto accade, il pre­si­dente del Senato gigio­neg­gia sul ter­mine «can­guri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in Tren­tino, si scan­da­lizza che taluno evo­chi derive auto­ri­ta­rie (sic!). Un tempo, per molto meno (la cosid­detta legge truffa), si dimi­sero ben due pre­si­denti del senato men­tre l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicem­bre 1952, citava nien­te­meno che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro alta­mente. Amico della realtà, nemico delle illu­sioni, ame­rei meglio vedere la libertà sop­pressa che vederla fal­sata e vedere ingan­nato il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anzi­ché esor­ciz­zarli, sarebbe meglio cer­care di ripri­sti­narli. Anche a costo di tur­bare la tran­quilla vacanza del pre­si­dente della Repubblica.

Ecco come saranno utilizzati i fondi che spetteranno ai tre europarlamentari eletti in Italia nella lista "L'altra Europa con Tsipras". Un esempio di trasparenza. Come faranno gli altri? ci piacerebbe saperlo.

Il manifesto, 2 agosto 2014

Siamo agli inizi della nostra atti­vità par­la­men­tare, di cui abbiamo appena comin­ciato a par­lare nelle riu­nioni del 5 e del 19 luglio a Roma, e di cui con­ti­nue­remo inten­sa­mente a discu­tere con gli atti­vi­sti della Lista L’Altra Europa con Tsi­pras. Ma nel frat­tempo è impor­tante e impro­ro­ga­bile chia­rire un punto sol­le­vato a più riprese den­tro la Lista e anche fuori, nel mondo dei media: l’utilizzo dei fondi che il Par­la­mento euro­peo mette a dispo­si­zione dei depu­tati, e la desti­na­zione legal­mente pos­si­bile di que­sti fondi.

Le regole del Par­la­mento Euro­peo riguardo ai con­tri­buti rice­vuti da cia­scun par­la­men­tare per le pro­prie ini­zia­tive poli­ti­che, non pos­sono non costi­tuire le linee-guida finan­zia­rie del nostro man­dato. Ogni com­mi­stione tra poli­tica nazio­nale di par­titi o liste e lavoro del sin­golo par­la­men­tare è espres­sa­mente vie­tata dalle regole del Par­la­mento euro­peo. I con­trolli dell’ufficio frodi del Par­la­mento euro­peo (Olaf, Euro­pean anti-fraud Office) sono dive­nuti meti­co­losi e seve­ris­simi. Que­sti vin­coli, intro­dotti di recente, non sono limi­ta­zioni, ma tutele della libertà poli­tica dei cit­ta­dini e della demo­cra­zia parlamentare.

L’indennità di assi­stenza par­la­men­tare (21mila euro men­sili), disci­pli­nata dall’articolo 33 e seguenti, è desti­nata a coprire uni­ca­mente l’attività di assi­stenza e dun­que le assun­zioni che sono neces­sa­rie e stret­ta­mente legate all’esercizio del man­dato. L’elenco delle spese di uffi­cio rim­bor­sa­bili (4.299 euro men­sili), appro­vato dall’ufficio di pre­si­denza il 15 luglio 2010, esclude ogni spesa che rap­pre­senti una sov­ven­zione o una dona­zione di natura politica.

Que­sto signi­fica che noi tre euro­de­pu­tati della Lista non potremo nem­meno, per legge, finan­ziare aper­ture di uffici in Ita­lia che siano al tempo stesso del par­la­men­tare inte­res­sato al sud­detto uffi­cio (e inte­sta­ta­rio del suo affitto) e del per­so­nale o delle atti­vità del movi­mento di appartenenza.

Tut­ta­via cia­scuno di noi farà la sua parte: detraendo la somma dai nostri emo­lu­menti per­so­nali (che ammon­tano a 6mila euro al mese) ci faremo tutti e tre per­so­nal­mente carico di coprire il debito con­tratto dalla Lista durante la cam­pa­gna elet­to­rale, per un importo com­ples­sivo di 24.925 euro, matu­rato al 25 mag­gio 2014. Da oggi e fino all’estinzione dei debiti, ver­se­remo cia­scuno una somma pari a 1.500 euro men­sili. Segui­ranno, una volta il debito estinto e quando la Lista avrà una sua strut­tura sta­bi­liz­zata, con­tri­buti volon­tari decisi da cia­scuno di noi.

Gra­zie al quo­rum che abbiamo rag­giunto come L’altra Europa con Tsi­pras, sarà inol­tre pos­si­bile chie­dere alla segre­te­ria gene­rale del Gue-Ngl l’assunzione di due fun­zio­nari sup­ple­men­tari addetti alla dele­ga­zione ita­liana (al momento ce n’è uno sol­tanto), i cui nomi­na­tivi, pur dovendo rispon­dere ai soli cri­teri di com­pe­tenza ed essendo sot­to­po­sti al vaglio della segre­te­ria del Gue-Ngl, ter­ranno conto delle diverse anime che hanno con­tri­buito e con­tri­bui­scono al con­so­li­darsi della Lista.

Egual­mente pos­si­bile è assu­mere almeno un assi­stente “locale” che oltre a occu­parsi della nostra atti­vità par­la­men­tare in Ita­lia pro­venga dalla fila della Lista e curi i con­tatti con il movi­mento poli­tico, smet­tendo tut­ta­via di lavo­rare per esso atti­va­mente, come diri­gente o qua­dro, in ottem­pe­ranza alle dispo­si­zioni del Par­la­mento euro­peo. Cosa che per­so­nal­mente ho già fatto. Con la rispet­tiva inden­nità di assi­stenza par­la­men­tare, cia­scuno di noi assu­merà inol­tre, accanto agli assi­stenti accre­di­tati a Bru­xel­les, alcuni assi­stenti “locali” con man­sioni ben defi­nite. Io ad esem­pio, tra gli altri (e pre­ci­sa­mente un con­si­gliere sulle que­stioni costi­tu­zio­nali della Ue, un web­ma­ster, un terzo erogatore-commercialista, un con­su­lente del lavoro), assu­merò un euro­pro­get­ta­tore, le cui com­pe­tenze saranno messe a dispo­si­zione di tutti e tre gli euro­par­la­men­tari, per il miglior svol­gi­mento del lavoro comune e per rispon­dere alle domande che ver­ranno dai nostri elet­tori. In que­sta inden­nità dovranno essere com­prese anche le rela­tive spese di trasferta.

Resta un importo di 50mila euro all’anno per cia­scun depu­tato, che verrà uti­liz­zato per il finan­zia­mento delle ini­zia­tive poli­ti­che (semi­nari, con­ve­gni, gior­nate di stu­dio, ecc.) che la Lista pren­derà in Ita­lia. La con­di­zione è che le ini­zia­tive ven­gano attuate in con­nes­sione con il Gue-Ngl, per­ché le risorse sono ero­gate dai fondi a dispo­si­zione del gruppo par­la­men­tare euro­peo. Il nome Gue-Ngl deve appa­rire accanto al nostro, nelle locan­dine e negli annunci delle iniziative.

Que­sto ci per­met­terà di acco­gliere molte e impor­tanti ini­zia­tive capaci di unire la nostra azione par­la­men­tare alle pro­po­ste e alle lotte sul ter­ri­to­rio, nell’inizio di un pro­cesso che ci vedrà impe­gnati ad affron­tare grandi sfide poli­ti­che e a costruire un fronte di soli­da­rietà in Europa.
*euro­par­la­men­tare L’altra Europa con Tsipras

I conti si aggiustano con trovate contabili e la rivalutazione del Pil che ora contabilizza anche attività illecite. Ma alle vita delle persone a al sistema Paese chi ci pensa?

La Repubblica, 3 agosto 2014 (m.p.r.)

Roma. Prima la presa d’atto della frenata dell’economia, poi la rinuncia all’allargamento del bonus di 80 euro a pensionati e partite Iva (che sarebbe costato 5 miliari), quindi l’impegno a lavorare d’agosto alla legge di Stabilità. La task force renziana ha già in mente la contromossa autunnale alla caduta del Pil e alla rinnovata tensione sui conti pubblici. Un piano d’emergenza per trovare 20 miliardi per il 2015 e costruire un cordone di sicurezza intorno ai conti pubblici, cercando di evitare cure drastiche a colpi di austerità. A far scaldare i motori, dopo le polemiche delle ultime ore e il «caso» Cottarelli, è intervenuta nel frattempo la mancata bollinatura da parte della Ragioneria generale di due norme del decreto Madia, approvato nei giorni scorsi alla Camera: il pensionamento di 4.000 insegnanti con le norme, pre-Fornero, di «quota 96» (costo nel 2014 circa 50 milioni) e l’anticipo del pensionamento dei professori universitari da 70 a 68 anni (costo un centinaio di milioni). La Ragioneria pone rilievi per la qualità e l’entità delle coperture, soprattutto per la seconda misura, e il governo, al Senato, è intenzionato a correre ai ripari: Madia e Morando sono al lavoro nel week end.

Il nuovo quadro che si è venuto a delineare ha convinto Renzi ad accelerare la preparazione della legge di Stabilità, che sarà comunque varata, regolarmente, a settembre. La valutazione di fondo è che servono circa 20 miliardi di manovra lorda: non lo dice solo l’ex viceministro del Tesoro, Stefano Fassina, che parla di 23 miliardi da giorni, ma che sta in una posizione critica nel Pd. Anche all’interno del governo i primi calcoli portano a questa cifra.
Da trovare ci sono infatti i 7-10 miliardi per il rinnovo del bonus Irpef da 80 euro per il 2015, i 4 miliardi di spese indifferibili (Cig in deroga, 5 per mille, missioni militari ed altro), i 4 miliardi di tagli alle spese postati sul 2015 dal governo Letta che dovranno essere trovati, pena l’entrata in funzione della clausola di salvaguardia con relativo taglio lineare delle agevolazioni fiscali. Infine 2-3 miliardi dovranno servire per proseguire nella correzione del deficit. In tutto una ventina di miliardi.
Dove trovarli? L’idea che sta circolando è quella di far conto intanto su una riduzione dello spread e la conseguente minor spesa per interessi di circa 3 miliardi, dato che gli stanziamenti sono stati per prudenza sovrastimati nel Def. La seconda mossa, che darebbe un paio di miliardi, riguarda la contabilizzazione del buon gettito dell’Iva che arriva dalle ristrutturazioni ecologiche delle abitazioni per le quali si stima un giro d’affari di 20 miliardi per il 2015. Il resto verrebbe dalla spending review: la cifra annunciata da Renzi è di 16 miliardi, ma a fronte di queste nuove risorse individuate dal governo, potrebbe essere limata con l’obiettivo politico di non intaccare più di tanto sanità, pensioni e servizi essenziali.
Molto dipenderà dal rapporto con l’Europa e dall’obiettivo di deficit-Pil che ci si porrà per il prossimo anno. Il Def fissava l’1,8 per cento per il 2015, ma già nei giorni scorsi Renzi, durante la direzione del Pd, ha annunciato di voler portare il livello al 2,3 per cento: dunque manovra più leggera. Non è escluso che si salga ancora, restando sotto il 3 per cento e riuscendo a racimolare qualche miliardo di margine, 5 oppure 6. Naturalmente questa opzione deve fare in conti con Bruxelles. Salire ulteriormente verso il 3 per cento (dopo aver già fatto slittare il pareggio strutturale di bilancio al 2016) aprirebbe un fronte con l’Unione che potrebbe trovare una soluzione solo una volta consolidati gli assetti della nuova Commissione e stabilite le modalità del meccanismo di flessibilità a fronte di riforme. Da considerare anche che preme la raccolta delle firme per il referendum per l’abolizione del Fiscal Compact: l’ulteriore ricorso al rigore non farebbe che dare maggiore fiato all’iniziativa.
Infine c’è la rivalutazione del Pil: il 20 settembre scatteranno le nuove serie di Eurostat che, cambiando metodo di calcolo e allargando il campo delle attività illecite contabilizzate, aumenterà il prodotto interno lordo di circa il 4 per cento. Una stima elaborata dalla Confcommercio valuta nello 0,1 la diminuzione del rapporto deficit-Pil dovuta alla crescita del denominatore: dunque 1,7 miliardi in più che comunque contribuiranno alla composizione della manovra allargando i margini.

Riferimenti
Si veda su eddybburg di Piero David e Antonella Gangemi Metti sesso, droga e contrabbando nel calcolo del Pil. Altre informazioni sul Pil utilizzando il cerca

«Il nuovo libro di Alberto Burgio analizza gli scritti dell’intellettuale e dirigente comunista dal periodo torinese ai

Quaderni dal carcere. Un’opera presentata però come un sistema unitario, mettendo così in secondo piano le discontinuità interne che la caratterizzano». Il manifesto, 3 agosto 2014

Dopo Gram­sci sto­rico (2003) e Per Gram­sci (2012), Alberto Bur­gio torna sul mar­xi­sta e comu­ni­sta sardo con un volume cor­poso e denso, punto di arrivo di un lungo lavoro di scavo e rifles­sione. In Gram­sci. Il sistema in movi­mento (Deri­veAp­prodi, pp. 489, euro 27) ven­gono river­sati studi già noti, ma molto mate­riale è aggiunto, e il tutto è rior­di­nato al fine di rico­struire l’insieme della rifles­sione gram­sciana, dagli anni tori­nesi a quelli del car­cere. Un con­tri­buto di grande ric­chezza, che pre­senta però anche tratti pro­ble­ma­tici, che meri­tano di essere quanto meno indi­cati e, per quel che è qui pos­si­bile, discussi.

La cifra di fondo della rico­stru­zione di Bur­gio è quella dell’unitarietà e della con­ti­nuità: per ciò che con­cerne il pen­siero di Gram­sci, ma anche i legami tra que­sto e i punti di ispi­ra­zione prin­ci­pali, indi­vi­duati in Hegel e Marx, Labriola e Lenin. Un Gram­sci hegelo-marxista-leninista, per cui fon­da­men­tale fin dagli anni gio­va­nili è la «presa di coscienza» e la com­pren­sione di una «neces­sità» non fata­li­stica ope­rante nella sto­ria.
Un pen­siero non esente da svol­gi­menti, ma uni­ta­rio e orga­nico. Le idee-forza del «sistema» gram­sciano per­man­gono lungo tutto l’arco della rifles­sione di que­sto autore. Sistema, per­ché inter­na­mente coe­rente, anche se non sta­tico, per i muta­menti radi­cali che segnano gli anni con­si­de­rati. L’opera gram­sciana è per Bur­gio «uni­ta­ria, ben­ché incom­piuta, e siste­ma­tica nelle inten­zioni del suo autore, il quale con­ce­pi­sce la real­tàe la sto­ria come una tota­lità». Lo svi­luppo sto­rico è «un pro­cesso uni­ta­rio rela­ti­va­mente coe­rente e dotato di senso», «suscet­ti­bile di pre­vi­sioni e anti­ci­pa­zioni da parte del sog­getto rivo­lu­zio­na­rio»: alla teo­ria spetta «l’onere di resti­tuirne una rap­pre­sen­ta­zione organica».
Problemi di metodo. Si impone su que­ste tesi una prima rifles­sione. Di con­tro a un certo uso post-moderno di un pen­sa­tore adat­tato a tutte le biso­gne, fino a dimen­ti­carne o a tra­dirne il qua­dro di rife­ri­mento com­ples­sivo (il mar­xi­smo) e le fina­lità (rivo­lu­zio­na­rie), è ben com­pren­si­bile che Bur­gio fac­cia oppo­si­zione. Ci si chiede però se que­sta inten­zione di fedeltà a Gram­sci, alla sua pro­ble­ma­tica e alle sue moti­va­zioni siaper­se­gui­bile facen­done l’autore di un sistema com­piuto. Non va così persa pro­prio la dimen­sione poli­tica e mili­tante del suo pen­siero, anco­rata alla prassi e alle sue ine­vi­ta­bili discon­ti­nuità? E non si fini­sce per tra­scu­rare – in que­sto con­ti­nui­smo teo­rico tutto interno al mar­xi­smo – «fonti» ugual­mente impor­tanti?
Non che gli autori citati non siano fon­da­men­tali per Gram­sci, tutt’altro. Biso­gne­rebbe però stare attenti a non dimen­ti­care la più vasta com­ples­sità della sua for­ma­zione, l’ampio arco di fat­tori (ad esem­pio, la cul­tura fran­cese) che, nel clima della rea­zione al posi­ti­vi­smo, con­tri­bui­rono alla sua ori­gi­na­lità e che rie­mer­gono (basti pen­sare a Sorel) negli scritti del car­cere. Spin­gere troppo sul tasto della con­ti­nuità rischia di offu­scare que­sto ele­mento cru­ciale, di lasciare in ombra come – accanto a pro­ble­ma­ti­che costanti e anche al ritorno, nei Qua­derni, di alcuni ori­gi­nali tratti gio­va­nili – sus­si­stano discon­ti­nuità dovute ad esem­pio al ruolo di dire­zione poli­tica eser­ci­tato negli anni Venti. Momenti di vera e pro­pria svolta (ad esem­pio su Bene­detto Croce, per citare un caso ecla­tante) vi sono nella rifles­sione car­ce­ra­ria: fat­tori che si rischia di sot­to­va­lu­tare con un tale impianto di metodo.
Contro il canone dominante. Mi rife­ri­sco anche alla pole­mica – a volte espli­cita, pur se accom­pa­gnata da qual­che pru­denza – che Bur­gio sol­leva verso il canone pre­va­lente negli ultimi lustri di studi gram­sciani in Ita­lia, quella nuova atten­zione ai testi e alla loro sto­ria, al rap­porto tra ela­bo­ra­zione a bat­ta­glia poli­tica, nata a par­tire dall’opera filo­lo­gica di Valen­tino Ger­ra­tana e poi dal lavoro di Gianni Fran­cioni. Mi sem­bra che Bur­gio nutra verso que­sto che con­si­dera un eccesso di filo­lo­gi­smo una pre­oc­cu­pa­zione in qual­che modo «poli­tica»: il fatto cioè che nella filo­lo­gia si perda la «filo­lo­gia vivente». Egli giunge ad affer­mare che il «feti­ci­smo dei testi» impe­di­sce di com­pren­dere lo spi­rito gram­sciano, da cogliere anche con­tro la let­tera dei testi.
Capi­sco la pre­oc­cu­pa­zione, ma credo non solo che la sfida filo­lo­gica vada accet­tata, ma che que­sto nuovo modo di leg­gere Gram­sci sia foriero di svi­luppi posi­tivi nella com­pren­sione della let­tera e dello spi­rito dei suoi scritti (e in caso con­tra­rio, si apre la strada a chi vede nel comu­ni­sta sardo soprat­tutto un «pro­fes­sore», non un mili­tante rivo­lu­zio­na­rio).
Bur­gio non è por­tato a leg­gere la rifles­sione gram­sciana legan­dola al suo con­te­sto per­ché vede in essa una for­tis­sima con­ti­nuità. Ciò lo con­duce, ad esem­pio, a citare di seguito, quasi si trat­tasse di un unico libro, affer­ma­zioni tratte dagli scritti del dopo­guerra come dai Qua­derni come dalle rifles­sioni del Gram­sci diri­gente di par­tito. In que­sto modo si met­tono in evi­denza indub­bie asso­nanze, ma si rischia che vada persa pro­prio la leni­niana «ana­lisi con­creta della situa­zione con­creta», che Gram­sci pone alla base di tutta la sua rifles­sione. Senza il pun­tuale rife­ri­mento alla bio­gra­fia poli­tica del comu­ni­sta sardo l’affermazione per cui «le prin­ci­pali cate­go­rie e l’assetto gene­rale del mar­xi­smo di Gram­sci ci paiono rima­nere inal­te­rati» resta indimostrata.
La relazione egemonica.Pur con tali per­ples­sità, il libro è di grande ric­chezza. Non potendo accen­nare a tutti i temi in esso svi­lup­pati (dalla teo­ria della crisi alla con­ce­zione dello Stato, dall’ideologia all’americanismo, dal cesa­ri­smo all’analisi del fasci­smo, alla sto­ria degli intel­let­tuali ita­liani, e altri ancora), ne ricordo solo due fon­da­men­tali. Penso alle pagine sull’egemonia, dove l’autore evi­den­zia come essa non abbia una dimen­sione solo discor­siva e cogni­tiva poi­ché anche i pro­cessi pro­dut­tivi, per Gram­sci, «fun­gono da vet­tore» del discorso ege­mo­nico. L’organizzazione di fab­brica e l’organizzazione della vita eco­no­mica sono anzi uno dei prin­ci­pali canali dell’egemonia (non a caso il con­senso che per­mette la Grande Rivo­lu­zione viene non solo dall’illuminismo, ma anche dal fatto che la bor­ghe­sia ha creato nuovi rap­porti pro­dut­tivi e pro­prie­tari).
Bur­gio indaga la com­ples­sità dell’egemonia, ne mette in rilievo l’ambiguità: il potere, ogni potere, ha biso­gno di con­senso, ma la rela­zione ege­mo­nica è asim­me­trica, uno dei due poli ingloba i rap­porti di forza esi­stenti a suo van­tag­gio. Anche per que­sto, forza e con­senso sono un insieme ine­stri­ca­bile. Ed è costante la oscil­la­zione – nella realtà come nelle pagine gram­sciane – tra il con­senso con­sa­pe­vole e quello otte­nuto gra­zie all’abilità pro­pa­gan­di­stica e orga­niz­za­tiva dei domi­nanti. Non solo. L’ambiguità dell’egemonia viene letta da Bur­gio anche in un’altra più posi­tiva dire­zione: la dina­mica ege­mo­nica apre spazi alla cre­scita della sog­get­ti­vità subal­terna, la sua stessa asim­me­tria per­mette all’egemonizzato di cre­scere, con­tiene poten­zia­lità critiche.
La rivoluzione passiva. Anche le pagine sulla rivo­lu­zione pas­siva sono di grande inte­resse, soprat­tutto per l’analisi delle dif­fe­renze tra le rivo­lu­zioni pas­sive del Nove­cento e quelle pre­ce­denti. Que­ste ultime appa­iono vere rivo­lu­zioni, cam­bia­menti che segnano una tran­si­zione sto­rica. Non così le rivo­lu­zioni pas­sive del secolo scorso, fasci­smo e ame­ri­ca­ni­smo, che per­met­tono al capi­ta­li­smo solo di con­ti­nuare a durare, e al mas­simo con­ser­vano l’esistente. Per­ché allora Gram­sci usa la stessa cate­go­ria per feno­meni tanto diversi? Per­ché gli inte­ressa, risponde Bur­gio, soprat­tutto lo sta­tuto delle «forze d’opposizione», che per la loro debo­lezza per­met­tono alla con­tro­parte di dirigere-gestire le situa­zioni di crisi orga­nica. E per­ché da pro­cessi simili sor­ti­scono esiti così dif­fe­renti? Per­ché nella crisi orga­nica che pre­para l’avvento al potere della bor­ghe­sia le forze in campo erano tre (ari­sto­cra­zia, bor­ghe­sia, classi popo­lari), in quella del secolo scorso le «classi fon­da­men­tali» sono solo due. Dun­que il con­flitto è «irri­du­ci­bile» e «i com­pro­messi pos­si­bili tra capi­tale e lavoro pos­sono avere tutt’al più il carat­tere di tre­gue nel qua­dro di un con­flitto strut­tu­rale».
Molti altri punti andreb­bero messi in rilievo: in pri­mis, la cri­tica della demo­cra­zia par­la­men­tare avan­zata negli anni dell’Ordine Nuovo e rin­no­vata nei Qua­derni, anche per l’influenza rile­vante – con­cordo pie­na­mente con Bur­gio – che su Gram­sci ha l’elitismo, teo­ria con­ser­va­trice avver­sata ma assor­bita per molti aspetti. Il libro offre in gene­rale mol­tis­simi spunti di rifles­sione: di que­sto innan­zi­tutto va reso merito all’autore.

«La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)

Sarebbe bello, e io sarei felice davvero di lasciare il mio posto a un giovane. Ma è una balla, perché le migliaia di professori che lasceranno non verranno sostituiti se non in minima parte. L’Università è bloccata da più di un decennio e rimarrà bloccata perché i professori che vanno in pensione o muoiono non vengono sostituiti. Non si sa da chi gli studenti che non si possono permettere di studiare all’estero andranno a lezione dopo questa intelligente epurazione. Quanto ai professori vecchi e dementi, lasceranno l’Università senza rimpianti: non hanno avuto molto da essa negli ultimi quarant’anni.

Peggiori e migliori hanno usufruito delle stesse miserabili biblioteche, degli stessi disgraziati laboratori, delle medesime pochissime possibilità di ricerca: ogni anno, o quasi, una riforma che non riforma nulla o peggiora le cose, esami ogni mese (unico caso al mondo), aule da strapparsi l’un l’altro, studi sovraffollati. È un peccato che un governo nel quale il 40,8% degli italiani riponeva la sua fiducia due mesi fa racconti menzogne come i precedenti. Dica che lo fa per far cassa, come già Tremonti, il quale tagliò ai professori stipendi e liquidazioni (con la cultura, del resto, non si mangia, nevvero?) che per inciso non sono mai stati reintegrati. Che sia così lo prova un’altra misura che il nuovo governo di giovani ha in mente per la riforma della pubblica amministrazione: ai professori vecchi e dementi che caccia la liquidazione verrà data solo alla scadenza naturale, cioè si presume al compimento dei 70 anni (e presumibilmente dilazionata in due o tre anni, Tremonti docet).
Tecnicamente, questo si chiama prestito forzoso: moralmente, furto (si spera) temporaneo, e non ha nulla a che fare con lo svecchiamento dell’Università. Vecchi, dementi, poveri e gabbati: non si faranno accompagnare dai nipoti a votare per Giannini, Padoan e Renzi.
Piero Boitani è filologo, critico letterario e professore di Letteratura comparata all’Università La Sapienza di Roma

    Senza pace e lavoro. Una riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente l'Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.

    Il manifesto, 2 agosto 2014

    Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria svi­lup­pa­tasi a par­tire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprat­tutto inEuropa, si è pre­teso di con­tra­starla (copiando dagli Usa, che però quelle poli­ti­che le pre­di­cano ma non le appli­cano) era, ed è, una ulte­riore ridu­zione delle quote di Pil desti­nate a lavoro, pen­sioni, sanità e istru­zione e, soprat­tutto, la pri­va­tiz­za­zione delle imprese e dei ser­vizi pub­blici, del ter­ri­to­rio e dell’ambiente. Il tutto a bene­fi­cio della finanza inter­na­zio­nale, a cui era stato da tempo tra­sfe­rito il diritto di creare denaro attra­verso il cosid­detto «divor­zio» tra Governi e Ban­che centrali.

    In que­sto qua­dro si è svi­lup­pata fino al paros­si­smo una cul­tura di governo ragio­nie­ri­stica, attenta fino allo spa­simo (poli­tico) a cen­tel­li­nare le risorse dedi­cate al lavoro e al benes­sere delle popo­la­zioni per pro­teg­gere i grandi inte­ressi finan­ziari che hanno sca­te­nato la crisi e che con­ti­nuano a beneficiarne.

    Quella cul­tura e quelle poli­ti­che da ragio­nieri, gestite dalle isti­tu­zionidell’Unione Euro­pea di cui i Governi degli Stati mem­bri, soprat­tutto nella zona euro, sono meri ese­cu­tori, hanno aperto una vora­gine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sem­pre più debole, delle con­di­zioni di vita della mag­gio­ranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrat­tivo l’obiettivo di unirsi alla com­pa­gine euro­pea per quelle nazioni che ne sono ai mar­gini: vedere come l’Unione Euro­pea stra­pazza il popolo greco, ma anche quelli ita­liano, spa­gnolo, por­to­ghese, irlan­dese e ora anche fran­cese (ma sem­pre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.

    Sfu­mata quella della Tur­chia, le richie­ste di nuove ade­sioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rima­nere schiac­ciati dai con­flitti gene­rati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Euro­pea mostra sem­pre più la pro­pria sud­di­tanza) che dall’attesa di qual­che bene­fi­cio. Ma quella sud­di­tanza è la con­se­guenza della cul­tura ragio­nie­ri­stica con cui viene gover­nata l’Unione, che la rende muta e impo­tente di fronte all’esplodere di con­flitti sem­pre più gravi ai suoi con­fini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.

    Molti di que­sti con­flitti, com­preso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popo­lari con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste dei rispet­tivi governi, e sono poi stati schiac­ciati o assor­biti dalle guerre per­ché non hanno tro­vato in Europa una sponda ade­guata. Ora, men­tre si mol­ti­pli­cano i ver­tici sui decimi di punto di sfo­ra­mento del defi­cit da con­ce­dere ai governi di paesi ormai al col­lasso per via di vin­coli ben più sostan­ziosi impo­sti da debiti e trat­tati inso­ste­ni­bili che non ven­gono messi in discus­sione (una rie­di­zione del dibat­tito sul sesso degli angeli che impe­gnava i gover­nanti di Bisan­zio men­tre i Tur­chi la sta­vano espu­gnando), i ter­ri­tori che cir­con­dano l’Europa si infiammano.

    Le con­se­guenze non tar­de­ranno a farsi sen­tire. Per­ché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento ener­ge­tico dell’Europa, e la potreb­bero por­tare al col­lasso. Per­ché tutto il con­ti­nente verrà inve­stito sem­pre più da flussi di pro­fu­ghi di dimen­sioni bibli­che: oggi si trova inso­ste­ni­bile l’arrivo di qual­che decina di migliaia di dere­litti, che pagano la loro fuga con un pesan­tis­simo tri­buto di morte, senza ren­dersi conto che i pro­fu­ghi pro­dotti dalle guerre che ormai cir­con­dano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospi­tano i paesi limi­trofi: Tur­chia, Gior­da­nia, Iraq, come già Siria e Gior­da­nia ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cer­che­ranno un rifu­gio in Europa; e che i paesi a cui si vor­rebbe affi­dare il com­pito di fer­mare quei flussi sono quelli che li ali­men­te­ranno sem­pre di più.

    Per­ché una quota cre­scente della popo­la­zione euro­pea è com­po­sta da nativi di paesi scon­volti da con­flitti che non tar­de­ranno a riper­cuo­tersi anche qui, intrec­cian­dosi con con­flitti sociali sem­pre più aspri. Per­ché guerra chiama guerra e senza stru­menti per pro­muo­vere la pace (una poli­tica estera di ampio respiro e risorse con­si­stenti, umane, eco­no­mi­che e cul­tu­rali) se ne fini­sce travolti.

    La dram­ma­ti­cità del momento, che si somma al col­lasso degli equi­li­bri eco­no­mici su cui avrebbe dovuto reg­gersi il pro­getto euro­peo rende evi­dente che ci tro­viamo non alla vigi­lia, ma già nel bel mezzo di una svolta epo­cale che ci impone di affron­tare, den­tro la prassi quo­ti­diana e den­tro le lotte in difesa delle pro­prie con­di­zioni di vita, una pro­fonda revi­sione dell’orizzonte entro cui ci muo­viamo: una revi­sione che riguarda innan­zi­tutto i con­cetti di demo­cra­zia e di lavoro.

    Due entità con­giunte, come peral­tro pre­vede l’articolo 1 della Costi­tu­zione ita­liana, ancor­ché discusso e varato in un con­te­sto del tutto dif­fe­rente. Occorre ela­bo­rare e poi con­trap­porre al pen­siero unico, che esalta la com­pe­ti­ti­vità, l’individualismo pro­prie­ta­rio, il con­sumo come motore dello svi­luppo, il merito come san­zione di una pre­sunta supe­rio­rità di chi si è affer­mato (e il ser­vi­li­smo, che ne è la diretta con­se­guenza) una cul­tura nuova, che pro­muova la soli­da­rietà, la con­di­vi­sione, la sobrietà, la cura del pros­simo, della natura e del vivente: tutte cose che costi­tui­scono l’orizzonte di una rifon­da­zione inte­grale della democrazia.

    Non è solo una bat­ta­glia cul­tu­rale da affi­dare all’elaborazione teo­rica di pochi e all’intelligenza col­let­tiva dei più; deve inve­stire anche gli affetti e il vis­suto quo­ti­diano di tutti: là dove il pen­siero unico è riu­scito spesso a far brec­cia e ad anni­darsi in cia­scuno di noi senza che nem­meno ce ne avve­des­simo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reci­proco inter­ro­garsi e rimet­tersi in gioco, il cui esito non può che essere quella con­ver­sione eco­lo­gica di cui par­lava Alex Langer.

    Un pro­cesso che inve­ste con­te­stual­mente il nostro sen­tire, le nostre con­vin­zioni, i nostri atteg­gia­menti, i nostri com­por­ta­menti sog­get­tivi e le forme della par­te­ci­pa­zione e del con­flitto sociale per tra­sfor­mare la strut­ture del con­te­sto in cui ope­riamo, a par­tire da quello eco­no­mico: che cosa pro­du­ciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Per­ché o la demo­cra­zia rie­sce a inve­stire anche l’ambiente eco­no­mico, l’impresa, la sua orga­niz­za­zione, il suo mer­cato, il suo rap­porto con il ter­ri­to­rio e chi lo governa, o, se resta ai mar­gini o al di fuori di que­ste cose, non ha più modo di esistere.

    È solo facen­dosi pro­ta­go­ni­sta di una lotta poli­tica e cul­tu­rale per que­ste forme di demo­cra­zia inte­grale che l’Europa, cioè i suoi popoli, pos­sono offrire al resto del mondo, e innan­zi­tutto a chi abita ai suoi con­fini, una pro­spet­tiva di pace e di soli­da­rietà che ne fac­cia un modello. E che pro­spetti una strada per sot­trarsi a quello stato di guerra per­ma­nente in cui si tra­duce ormai da tempo la con­vin­zione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla fero­cia che eser­cita verso i suoi stessi cit­ta­dini non c’è niente da atten­dere e niente da riprendere.

    Ma demo­cra­zia e lavoro si intrec­ciano ine­stri­ca­bil­mente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si eser­cita oggi in tutto il mondo; cioè emar­gi­nando e depri­mendo salute, vita, desi­deri, capa­cità e crea­ti­vità di chi lo svolge – così come si deva­sta la natura e il vivente per rica­varne solo la mil­le­sima parte, e la peg­giore, di quello che potreb­bero dare – ma poten­ziando al mas­simo, attra­verso con­flitti con cui recu­pe­rare gra­dual­mente per tutti una capa­cità di auto­go­verno: sia sul ter­ri­to­rio che all’interno delle imprese che sulle grandi que­stioni di indi­rizzo; in modo da ren­dere la crea­ti­vità di cia­scuno il vero motore di uno «svi­luppo» radi­cal­mente diverso.

    In que­sta dimen­sione un red­dito di cit­ta­di­nanza uni­ver­sale è oggi non solo un obiet­tivo uni­fi­cante per le lotte dei pre­cari e dei disoc­cu­pati, gio­vani e anziani, come dei lavo­ra­tori non più pro­tetti dall’articolo 18, ma una con­di­zione per poter imporre scelte pro­gres­si­va­mente sem­pre più libere su come e dove lavo­rare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per pro­prio conto, e per fare che cosa; cioè per tra­sfor­mare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che appros­sima mag­gior­mente, in un con­te­sto in cui par­te­ci­pa­zione e con­flitto si intrec­ciano senza solu­zione di con­ti­nuità, la società che vogliamo e che abbiamo il com­pito di pro­porre a tutti.

    «». La Repubblica

    Consegnare pacchi e lettere in tutto il Paese, anche nelle sperdute frazioni di montagna o nei borghi con trenta abitanti. E farlo, se serve, per cinque giorni alla settimana, a costo di allungare la strada di decine di chilometri pur di recapitare una cartolina illustrata. Questo è il servizio universale che Francesco Caio, amministratore delegato di Poste Spa, afferma di non poter più sostenere, perché troppo costoso rispetto alla compensazione che lo Stato è disposto a versare.

    Ora - visto che tale servizio è garantito in ogni Paese europeo e regolamentato da Bruxelles - è difficile pensare che nei prossimi mesi nelle valli lontane non possano più essere consegnate lettere e bollette, ma è molto probabile che la corrispondenza finisca con l’essere là distribuita con maggiore calma. Le Poste - alla vigila della privatizzazione e in predicato di investire 65 milioni nell’ennesima operazione di salvataggio di Alitalia (l’intesa con Etihad) - chiedono infatti di modificare le norme del contratto siglato con il ministero dello Sviluppo economico: è il mondo ad essere cambiato, dicono, il vecchio servizio è un costo che non ci possiamo più permettere.
    Gli italiani scrivono poco, (61 invii pro capite contro i 220 della Gran Bretagna o 183 della Germania), le mail avanzano a passi da gigante e bruciano le lettere su carta, la concorrenza privata (3.800 licenze spesso a piccole aziende che operano solo nelle grandi città) si è accaparrata i business più succulenti (la corrispondenza commerciale e bancaria) lasciando a Poste spa l’onere di coprire le zone più impervie e di mantenere, per rendere possibile tutto ciò, una pesante struttura. Se il servizio universale è un obbligo da rispettare - riconosce l’azienda - i costi della consegna vanno comunque ridotti.
    In realtà la «spending review» interna è già iniziata da tempo e gli utenti hanno avuto modo di accorgersene. «Fino a cinque anni fa i portalettere erano 45 mila, oggi sono 35 mila su un totale di 145 mila dipendenti» racconta Mario Petitto, segretario generale della Slp Cisl, sindacato che storicamente nelle Poste va per la maggiore. «L’azienda non li sostituisce più quando si ammalano, il che vuole dire che interi quartieri di città possono restare scoperti per giorni. I colleghi in servizio assorbono le carenze di personale, ma per un massimo di 120 ore di straordinario l’anno». Un tempo i vuoti in organico si coprivano con assunzioni trimestrali, ora a restare vuote sono spesso le cassette delle lettere.
    E il territorio non aiuta: fatte salve la pianura Padana, l’Emilia e la Puglia, raggiungere il resto del Paese senza perderci diventa una sfida. Consegnare un pacco fra le colline del Piemonte, i monti abruzzesi, le isole e mille paesini isolati costa: «Ci sono postini che per recapitare una quantità accettabile di corrispondenza vanno su è giù con la Panda di servizio per 70 chilometri» dice Petitto.
    D’altra parte, fanno sapere in azienda, i numeri parlano chiaro: per garantire il recapito in ogni luogo bisognerebbe mettere sul piatto 709 milioni per il 2011 e 704 per il 2012. Il Garante per le Comunicazione, l’Authority chiamata a quantificare le coperture, ha già detto che intende riconoscere a Poste Spa non più di 380 e 327 milioni per i due anni. Innalzare quelle cifre non sarà facile: negli ultimi anni lo Stato ha sempre versato più o meno la metà di quanto chiesto, ma fino ad oggi il bilancio quadrava grazie alla entrate che Poste si assicurava per i servizi forniti in campo bancario e assicurativo (nel 2013 i conti si sono chiusi con 26 miliardi di ricavi e 1 miliardo di utile).
    Ma tale aggiustamento potrebbe non essere più praticabile. Negli ultimi cinque anni i volumi distribuiti sono diminuiti del 26 per cento e la concorrenza - grazie alla struttura più flessibile e alla possibilità di «scegliersi» i clienti partecipando solo alle gare più ricche (grandi società pubbliche e banche) - si è accaparrata buona fetta del mercato commerciale, offrendo tariffe più basse grazie a strutture flessibili. Le stime dicono che il «buco » del servizio universale (400 milioni nell’ultimo bilancio) potrebbe lievitare fino a 3 miliardi nel 2019 ed è poco probabile che lo Stato si convinca ad allargare i cordoni della borsa. Le Poste mirano piuttosto a cambiare le regole del contratto: il postino, per esempio potrebbe garantire la consegna a giorni alterni, più di qualche sportello potrebbe essere chiuso (oggi sono 13.800 c’è un piano per ridurli a 11 mila).
    E soprattutto la società vorrebbe far sì che anche alla concorrenza privata fosse chiesto di partecipare ai costi: va bene puntare ai clienti «ricchi», ma dopo aver versato un contributo in un fondo destinato a partecipare alle coperture del servizio universale. Il problema non riguarda solo Poste spa, assicura l’azienda, ma tutte le «sorelle» europee. Per cambiare le regole bisogna però convincere Bruxelles.

    Intervista a Stefano Rodotà: «La qualità dei nuovi costituenti è bassa, affrontano l’aula da incompetenti. Il premier è già in campagna referendaria. E stavolta dovremo sconfiggere il blocco Pd-Forza Italia. Ma le opposizioni hanno sbagliato a rivolgersi a Napolitano. E poi trasformare le camere in curve da stadio».

    Il manifesto, 30 luglio 2014

    «Un po’ di memo­ria non gua­ste­rebbe. Sento dire:’mai l’ostruzionismo ha fatto cadere un prov­ve­di­mento’. Falso: io ricordo l’ostruzionismo che fece cadere il primo decreto di San Valen­tino, il decreto Craxi sui punti della scala mobile, nell’84. Poi fu rei­te­rato e passò. E ricordo un ostru­zio­ni­smo in cui i radi­cali fecero addi­rit­tura una gara interna fra Marco Boato e Mas­simo Teo­dori su chi avrebbe par­lato più a lungo. Una mat­tina era­vamo esau­sti, ma Boato non si fer­mava per­ché voleva bat­tere il record. E sic­come non si fidava di quello che gli dice­vano i suoi com­pa­gni, a un certo punto disse: ’se me lo dice Ste­fano Rodotà ci credo’. Io, che ero depu­tato della sini­stra indi­pen­dente, andai e gli dissi: guarda, hai par­lato più a lungo. E lui final­mente smise». Memo­rie di un ex vice­pre­si­dente della camera, Ste­fano Rodotà. Era il 1981, si discu­teva sul fermo di poli­zia, Boato parlò 18 ore e cin­que minuti. Le regole, per for­tuna del pre­si­dente Grasso, sono cambiate.

    Oggi il pre­si­dente Grasso è con­te­stato dalle oppo­si­zioni per i suoi spac­chet­ta­menti, i suoi ’can­guri’ (un mec­ca­ni­smo che con un voto fa deca­dere gli emen­da­menti simili fra loro, ndr), e le sue tagliole.
    È una mate­ria che attiene alla pro­ce­dura par­la­men­tare e che dovrebbe essere di stretta inter­pre­ta­zione, stret­tis­sima quando si tratta di modi­fi­che della Costi­tu­zione. Sono le garan­zie del pro­ce­di­mento, non pos­sono essere rimesse alla deci­sione della mag­gio­ranza. Nel dub­bio, c’è la giunta del regolamento.

    La giunta ha deciso a mag­gio­ranza che ’il can­guro’ è legit­timo anche per le leggi costituzionali. C’è una vec­chia bat­tuta: la mag­gio­ranza si tutela con i numeri, la mino­ranza con le regole. A colpi di ’can­guro’ al senato cadono cen­ti­naia di emen­da­menti alla volta. Tutto normale?
    Di fronte all’uso ostru­zio­ni­stico degli emen­da­menti è pos­si­bile pro­ce­dere con il cosid­detto can­guro. Ma diciamo la verità: que­sta vicenda è stata gestita dalla mag­gio­ranza e dal governo senza una piena con­sa­pe­vo­lezza poli­tica. Quando si sa quello che sta per suc­ce­dere, non si può rea­gire con un ’mascal­zoni, state facendo l’ostruzionismo’, serve com­pe­tenza tec­nica. Che non c’è stata.

    Hanno fatto bene le oppo­si­zioni a arri­vare in cor­teo al Colle e invo­care il pre­si­dente Napolitano?

    Sin­ce­ra­mente no. Capi­sco l’atto sim­bo­lico, ma il pro­ce­di­mento legi­sla­tivo deve essere rigo­ro­sis­simo e tute­lato dalle regole interne alle assem­blee par­la­men­tari, non è oppor­tuno chie­dere inter­venti dall’esterno. Al tempo della legge truffa ci furono con­te­sta­zioni duris­sime, ma nes­suno chiese l’intervento del capo dello stato.

    La mag­gio­ranza rifiuta ogni discus­sione per miglio­rare la legge. E in aula e fuori volano parole tipo ’fasci­sta’. Grillo parla di colpo di stato.
    Biso­gna fare atten­zione al lin­guag­gio e a certe mani­fe­sta­zioni. Non apprezzo la ridu­zione delle aule par­la­men­tari alle curve di uno stadio.

    Legit­tima difesa, dicono le oppo­si­zioni. Anche per­ché con­tro di loro Renzi usa modi spicci: ’gli ostru­zio­ni­sti hanno l’Italia contro’.
    È una brutta tra­du­zione del ’vox populi, vox dei’. Le bat­ta­glie sui diritti sono sem­pre nate come bat­ta­glie di mino­ranza. Bene­detto Croce, da sena­tore, nel ’29 votò con­tro i Patti Late­ra­nensi dicendo: ’di fronte a uomini che sti­mano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infi­ni­ta­mente più di Parigi, per­ché è affare di coscienza’.

    Il Pd minac­cia Sel di rom­pere le alleanze nelle ammi­ni­stra­tive. È una pre­ve­di­bile ritor­sione politica?
    Riven­dico l’uso della parola «auto­ri­ta­rio». Siamo stati noi, intendo Zagre­bel­sky, Car­las­sare, Urbinati…
    I famosi «professoroni».

    Orrenda parola ma sì, siamo stati noi ’pro­fes­so­roni’ a dirla e la riba­di­sco: que­sto è un modo auto­ri­ta­rio di pro­ce­dere. La discus­sione sulla Costi­tu­zione non può essere inqui­nata da altro. Il lavoro di scrit­tura della Costi­tu­zione soprav­visse alla rot­tura del governo in cui c’erano socia­li­sti e comu­ni­sti, però non si disse ’abbiamo i numeri e allora andiamo avanti’. Il con­flitto poli­tico, che era molto aspro, fu tenuto distinto dal lavoro costi­tuente. Ma che argo­mento costi­tu­zio­nale è ’se non accetti sei fuori dalle giunte’? La sag­gezza dei tempi e la qua­lità poli­tica di quella gene­ra­zione dovrebbe darci lezioni. E ora chissà quante cri­ti­che mi faranno i cosid­detti ’innovatori’.

    Come giu­dica la qua­lità dei nuovi costituenti?
    Voglio essere gene­roso: è molto molto bassa. La scarsa legit­ti­ma­zione poli­tica di que­ste camere, che non sono non ade­gua­ta­mente rap­pre­sen­ta­tive per­ché sono state costi­tuite con una legge dichia­rata inco­sti­tu­zio­nale, avreb­bero dovuto con­si­gliare la cau­tela e la ricerca di allar­gare la mag­gio­ranza con una discus­sione pub­blica ade­guata. Ma la discus­sione pub­blica non è aiz­zare i cit­ta­dini con­tro le camere.

    Il pre­mier le rispon­de­rebbe: ho preso il 41 per cento.
    E no: que­sto è un argo­mento che abbiamo con­te­stato a Ber­lu­sconi. Che diceva: i cit­ta­dini sanno che sono inda­gato ma mi votano. Come se il voto fosse un lava­cro. Il voto è impor­tante per l’investitura poli­tica, ma il 40,8 per cento non signi­fica che sei legit­ti­mato a fare qual­siasi cosa. Piut­to­sto, forte della sua inve­sti­tura poli­tica poteva pro­porre di togliere dalla Costi­tu­zione l’obbligo al pareg­gio di bilan­cio, che altri paesi non hanno e che è un osta­colo a usare quella fles­si­bi­lità che chie­diamo all’Europa. Sarebbe stata una mossa costi­tu­zio­nal­mente ben moti­vata. E invece que­ste riforme sono un’operazione di poli­tica interna che distrae l’attenzione dalle misure più dif­fi­cili da maneg­giare. E quindi si dice: ’non pos­siamo fare niente per­ché c’è l’ostruzionismo’.

    Comun­que a colpi di can­guro e tagliole alla fine la riforma pas­serà. Poi però ci sarà il refe­ren­dum. Voi che siete con­trari, che farete?
    Innan­zi­tutto ci spie­ghino in che modo sarà pre­vi­sto. Dovrebbe essere pre­vi­sto nella stessa riforma del Senato. Dal punto di vista for­male il governo Letta era stato cor­retto, nel ddl costi­tu­zio­nale di modi­fica dell’articolo 138 aveva pre­vi­sto la pos­si­bi­lità del referendum.

    Non crede che sem­pli­ce­mente potrebbe non esserci il sì dei due terzi delle camere?
    E allora il refe­ren­dum non sarà una con­ces­sione. Ma è chiaro che tutta l’attuale maniera di impo­stare la discus­sione, quei ’avete con­tro l’Italia’ è un modo per pre­co­sti­tuire la cam­pa­gna refe­ren­da­ria. Que­sta volta il grande blocco Pd-Forza ita­lia sarà dif­fi­cile da scon­fig­gere. Biso­gnerà stare tutti in campo.

    Pro­fes­sore Rodotà, se ci sarà un refe­ren­dum a soste­nere le ragioni del no sarete molto più soli. Non teme che la scon­fitta si possa tra­sfor­mare in un boomerang?
    La ’legge truffa’ fu bat­tuta con l’apporto fon­da­men­tale di due pic­coli pic­coli par­titi, Alleanza demo­cra­tica e l’Unità popo­lare. Che fra l’altro ave­vano dei gran ’pro­fes­so­roni’. Mi ricordo il comi­zio di Arturo Carlo Jemolo, che non era certo un uomo dalla facile ora­to­ria pub­blica. E invece l’eloquenza magni­fica di Piero Cala­man­drei. Certo non mi voglio para­go­nare a lui. Ma comun­que il nucleo ori­gi­na­rio dei ’cat­tivi’ pro­fes­sori con­trari a que­ste riforme è aumen­tato. Stu­diosi non ostili al governo, anzi che erano nei vari comi­tati di saggi e nelle riu­nioni della mini­stra Boschi, sono cri­tici sull’impianto com­ples­sivo delle riforme del senato e della legge elet­to­rale. Sarà dif­fi­cile, ma faremo la nostra parte.

    Ora l'Associazione dei costruttori dichiara che le aziende condannate saranno espulse dall'Ance. Ma se a comportarsi in questo modo "eran tutti", come ha fatto l'Associazione a non accorgersi mai di nulla e ad aspettare che fosse la magistratura ad occuparsene?

    La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)

    Roma. Dieci delle quindici principali aziende edili italiane sono accusate di aver pagato mazzette, frodato lo Stato, costruito fondi neri e staccato false fatture, brigato per truccare bandi di gara. Per questo, da Milano a Bari, ci sono indagini o processi in corso su di loro: Mantovani, Maltauro, Cmc, Condotte Spa, Grandi Lavori Fincosit, solo per citarne alcune. Nell’elenco dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, figurano tra le migliori ditte italiane. Ma se le guardi attraverso l’ottica delle inchieste della Guardia di Finanza, l’immagine è molto diversa. E si capisce come un appalto truccato oggi non sia soltanto un problema della politica: perché se c’è un senatore (Antonio Azzolini, Pdl, presidente della commissione bilancio al Senato) pronto «a dare a un dirigente due cazzotti se non firma», c’è sempre un imprenditore disponibile a una «consulenza», un «gesto di amicizia», a sottoporsi «a un salasso per ogni competizione, politiche, regionali, comunali» (Piergiorgio Baita, ex ad della Mantovani). Insomma, se c’è qualcuno pronto a intascare, c’è sempre qualcun altro con la mano sul portafoglio.

    Il sistema Maltauro. A fare esplodere la bolla è stata senza dubbio la maxi inchiesta sull’Expo di Milano con la Maltauro che -secondo i pm- pagava faccendieri ed ex politici (la banda Frigerio) per ottenere appalti. Il sistema era chiaro: pilotare le commissioni di aggiudicazione per avere un esito certo. Come ha denunciato su Repubblica l’ormai ex Garante per l’Autorità dei Lavori pubblici Sergio Santoro, questo è stato possibile grazie alle ottanta e passa deroghe al codice dei contratti. E alle commissioni formate ad hoc. «Perché per vincere quell’appalto serve il quadro completo. Così siamo a posto», spiegava al telefono la cupola dell’Expo mentre si dedicava a oliare le commissioni. «Il problema corruzione nell’edilizia è serio - ammette Paolo Buzzetti, presidente di Ance, davanti al dato - e riguarda controllori e imprese. Più grosse sono le commesse, più ci si affida alla scorciatoia della deroga alle norme ordinarie: abbiamo messo il pareggio del bilancio in Costituzione ma si dovrebbe aggiungere anche il divieto di creare strutture ad hoc, tipo Expo spa e Consorzio Venezia Nuova. Si sono rivelate preda facile della corruzione. I grandi lavori tornino alle amministrazioni pubbliche».
    I Cazzotti di Molfetta. Per dire, quello che è accaduto in Puglia a Molfetta con la Cmc, la Cooperativa di muratori e cementisti di Ravenna, è l’emblema di questa storia. Un appalto da 83 milioni che la ditta si aggiudica grazie - ricostruisce un’informativa della Guardia di Finanza - a un comma nell’appalto che prevedeva il possesso di una particolare draga che soltanto la Cmc aveva a disposizione. Non solo: quando la draga arriva in Puglia sorge il problema. «C’è un bambino di un metro e mezzo imbrigliato nella griglia della draga. Un bambino nel senso di quelli che fanno boom», dicono al telefono intercettati. Il bambino sono le bombe tedesche, residui bellici della seconda guerra mondiale, di cui lo specchio d’acqua davanti a Molfetta è pieno e che è complicatissimo da sminare. I lavori così si bloccano e Cmc fa finta di non sapere, tanto da chiedere un’altra decina di milioni per i lavori extra. «Un atteggiamento pericoloso», sostiene la Procura che ha arrestato a ottobre dello scorso anno dei dirigenti e chiesto (senza ottenerla) l’interdizione della società. Nella stessa indagine è indagato il senatore Azzolini, all’epoca sindaco di Molfetta. «Aaaaah! porca tr..., quello qualche volta gli devo dare due cazzotti», diceva a proposito di un dirigente che non voleva firmare un atto.
    I padroni del Mose. A finire in carcere, nella retata veneziana del 4 giugno scorso, sono stati anche due pezzi da novanta dell’edilizia italiana: Stefano Tomarelli, consigliere di gestione della Condotte d’Acqua spa, e Alessandro Mazzi, presidente della Mazzi Scarl e della Grandi Lavori Fincosit. Erano l’anima del Consorzio Venezia Nuova, gli imprenditori con le quote più pesanti. Entrambi però partecipi, consapevoli, del sistema di Giovanni Mazzacurati: “sovrafatturazioni milionarie con le ditte consorziate per creare fondi neri”, sostiene il gip nell’ordinanza, usati anche per corrompere la politica. «Perché altrimenti il Mose non si sarebbe fatto mai», è stata la giustificazione più ricorrente.
    Ma a leggere le carte della Finanza, a quanto pare, così fan tutti. A Parma per esempio è sotto processo per abuso di ufficio Paolo Pizzarotti, patron del colosso e il suo amministratore delegato Aldo Buttini. Con loro c’è tutta la vecchia giunta di Parma, tutti imputati per la ristrutturazione in project financing dell’ospedale. La Salini è finita a Roma in un’indagine sulle mazzette pagate ai giudici del Tribunale amministrativo per aggiustare ricorsi sulle gare, mentre l’inchiesta della Dia sul tesoriere della Lega, Francesco Belsito, racconta di una presunta mazzetta pagata dalla Siram per ottenere appalti.

    La “Difesa”. Ma davvero senza mazzetta non si lavora? «Il lavoro è poco ma questa non può essere una giustificazione », sostiene Buzzetti. E come mettere un argine? «Il primo punto è ricorrere sempre alle gare pubbliche. Poi basta con l’utilizzo del massimo ribasso come criterio di scelta, meglio usare la media delle offerte. E finiamola pure con le commissioni aggiudicatrici scelte a discrezione, come nel caso dell’Expo: bisogna fare elenchi di professionisti dai quali estrarre i commissari. Detto questo, aspettiamo la fine delle indagini. Ma se Mantovani, Maltauro, Cmc saranno condannate, le espelleremo dall’Ance ».

    «Ho preso la penna per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­terose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali».

    Il manifesto, 30luglio 2014
    Non voglio par­lare nel merito di quanto sta acca­dendo a Gaza. Non ne voglio scri­vere per­ché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emet­tere grida di indi­gna­zione, né ho voglia di ridurmi ad auspi­care da anima buona il dia­logo fra le due parti, eser­ci­zio cui si dedi­cano le belle penne del nostro paese. Come si trat­tasse di due monelli liti­giosi cui noi civi­liz­zati dob­biamo inse­gnare le buone maniere. Per non dire di chi addi­rit­tura invoca le ragioni di Israele, così vil­mente attac­cata — pove­retta — dai ter­ro­ri­sti. ( I pale­sti­nesi non sono mai «mili­tari» come gli israe­liani, loro sono sem­pre e comun­que ter­ro­ri­sti, gli altri mai).

    Ieri ho sen­tito a radio Tre, che ricor­davo meglio delle altre emit­tenti, una tra­smis­sione cui par­te­ci­pa­vano com­men­ta­tori dav­vero inde­centi, un gior­na­li­sta (Meucci o Meotti, non ricordo) che con­teg­giava le vit­time pale­sti­nesi: che mascal­zo­nata le men­zo­gne degli anti­strae­liani, tutti dimen­ti­chi dell’Olocausto – pro­te­stava. Per­chè non è vero che i civili morti ammaz­zati siano due terzi, tutt’al più un terzo. E poi il «Foglio» che pro­muove una mani­fe­sta­zione di soli­da­rietà con le vere vit­time: gli israe­liani, per l’appunto.

    Si può non essere d’accordo con la linea poli­tica di Hamas – e io lo sono — ma chi la cri­tica dovrebbe poi spie­gare per­ché allora né Neta­nyahu, né alcuno dei suoi pre­de­ces­sori, si sia accor­dato con l’Olp ( e anzi abbia sem­pre insi­diato ogni ten­ta­tivo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per man­darla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo pro­fu­ghi della Pale­stina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mor­ti­fi­ca­zioni, di vio­la­zione di diritti umani e delle deci­sioni dell’Onu, dopo decine di accordi rego­lar­mente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pre­tesa di ren­dere la Pale­stina tutt’al più un ban­tu­stan a mac­chia di leo­pardo dove milioni di coloro che vi sono nati non pos­sono tor­nare, i tanti cui sono state rubate le case dove ave­vano per secoli vis­suto le loro fami­glie, dopo tutto que­sto: che cosa pen­se­rei e farei? Io temo che avrei finito per diven­tare terrorista.

    Non per­ché que­sta sia una strada giu­sta e vin­cente ma per­ché è così insop­por­ta­bile ormai la con­di­zione dei pale­sti­nesi; così macro­sco­pi­ca­mente inac­cet­ta­bile l’ingiustizia sto­rica di cui sono vit­time; così fili­stea la giu­sti­fi­ca­zione di Israele che si lamenta di essere col­pita quando ha fatto di tutto per susci­tare odio; così pale­se­mente ipo­crita un Occi­dente (ma ormai anche l’oriente) pronto a man­dare ovun­que bom­bar­dieri e droni e reg­gi­menti con la pre­tesa di soste­nere le deci­sioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pen­sato di inviare sia pure una bici­cletta per imporre ad Israele di ubbi­dire alle tante riso­lu­zioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sini­stra, hanno rego­lar­mente irriso.

    Ma non è di que­sto che voglio scri­vere, so che i let­tori di que­sto gior­nale non devono essere con­vinti. Ho preso la penna solo per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, cosa fra l’altro rela­ti­va­mente nuova nelle dimen­sioni in cui è acca­duto, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­te­rose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali, per for­tuna Milano, un impe­gno più rile­vante degli altri.

    Cosa è acca­duto in Ita­lia che su que­sto pro­blema è stata sem­pre in prima linea, riu­scendo a mobi­li­tare cen­ti­naia di migliaia di per­sone? È forse pro­prio per que­sto, per­ché siamo costretti veri­fi­care che quei cor­tei, arri­vati per­sino attorno alle mura di Geru­sa­lemme (ricor­date le «donne in nero»?) non sono ser­viti a far avan­zare un pro­cesso di pace, a ren­dere giu­sti­zia? Per sfi­du­cia, rinun­cia? Per­ché noi — il più forte movi­mento paci­fi­sta d’Europa – non siamo riu­sciti ad evi­tare le guerre ormai diven­tate perenni, a far pre­va­lere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per­ché l’obiettivo non è pre­va­lere ma inten­dersi? O per­ché – piut­to­sto — non c’è più nel nostro paese uno schie­ra­mento poli­tico suf­fi­cien­te­mente ampio dotato dell’autorevolezza neces­sa­ria ad una mobi­li­ta­zione ade­guata? O per­ché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle mani­fe­sta­zioni del pas­sato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denun­cia in que­sta tra­gica cir­co­stanza?

    Un silen­zio agghiac­ciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a dif­fe­renza dei vec­chi poli­tici, è umano e natu­rale? Privo di emo­zioni, di capa­cità di indi­gna­zione, almeno quel tanto per farsi sfug­gire una frase, un moto di com­mo­zione per quei bam­bini di Gaza mas­sa­crati, nei suoi tanti accat­ti­vanti vir­tuali col­lo­qui con il pub­blico? È per­ché non prova niente, o per­ché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipen­dano dal fatto che la muta Moghe­rini assurga al posto di mini­stro degli esteri dell’Unione Euro­pea? E se sì, per far che?

    Di que­sto vor­rei par­las­simo. Io non ho rispo­ste. E non per­ché pensi che in Ita­lia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pes­si­mi­sta sul nostro paese. E anzi mi arrab­bio quando, dall’estero, sento dire: «O dio­mio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una poli­ti­ciz­za­zione dif­fusa, un grande dina­mi­smo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.

    Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al cam­peg­gio della «Rete della cono­scenza» (gli stu­denti medi e uni­ver­si­tari di sini­stra). Tanti bravi ragazzi, nem­meno abbron­zati seb­bene ai bordi di una spiag­gia, per­ché impe­gnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i pro­blemi della scuola, ma per nulla cor­po­ra­tivi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di rife­ri­mento poli­tici gene­rali, senza avere alle spalle ana­lisi e pro­getti sul e per il mondo, come era per la mia gene­ra­zione, e per­ciò vit­time ine­vi­ta­bili della fram­men­ta­zione. Poi ho par­te­ci­pato a Villa Literno alla bel­lis­sima cele­bra­zione del ven­ti­cin­que­simo anni­ver­sa­rio della morte di Jerry Maslo, orga­niz­zata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il gio­vane suda­fri­cano, anche lui schiavo nei campi del pomo­doro, fu assas­si­nato ha via via svi­lup­pato un’iniziativa costante, di sup­plenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avreb­bero dovuto fare le isti­tu­zioni: vil­laggi di soli­da­rietà nei luo­ghi di mag­gior sfrut­ta­mento, volon­ta­riato fati­coso per dare ai gio­vani neri magre­bini e sub­sa­ha­riani, poi pro­ve­nienti dall’est, l’appoggio umano sociale e poli­tico necessario.

    Parlo di que­ste due cose per­chè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiun­gere tante altre espe­rienze, fra que­ste cer­ta­mente quanto ha costruito la lista Tsi­pras, che ha reso sta­bile, attra­verso i comi­tati elet­to­rali che non si sono sciolti dopo il voto, una ine­dita mili­tanza poli­tica dif­fusa sul territorio. E allora per­ché non riu­sciamo a dare a tutto quello che pure c’è capa­cità di inci­dere, di contare?

    Certo, molte delle rispo­ste le cono­sciamo: la cre­scente irri­le­vanza della poli­tica, il declino dei par­titi, ecce­tera ecce­tera. Non ho scritto per­ché ho ricette, e nem­meno per­ché non cono­sca già tante delle rispo­ste. Ho scritto solo per con­di­vi­dere la fru­stra­zione dell’impotenza, per non abi­tuarsi alla ras­se­gna­zione, per aiu­tarci l’un l’altro «a cer­care ancora».

    In queste materie cosìcomplesse e interrelate, partiamo dal lavoro, che è quello che interessa di piùtutti i nostri potenziali interlocutori.

    Ci sono tante realtàorganizzate con obiettivi simili o analoghi ai nostri che non sono state coinvolte– o lo sono state solo marginalmente - nella nostra campagna elettorale. Soloper fare alcuni esempi: le Fiom locali (con quella nazionale abbiamo avutoqualche rapporto), il sindacato della CGIL servizi (che raccoglie moltilavoratori precari), i sindacati di base, molte RSU (in particolare quelleimpegnate nella campagna contro la legge Fornero), i comitati di lotta(soprattutto nella sanità e nella scuola), le reti dei precari, molteorganizzazioni studentesche (a livello nazionale i rapporti ci sono; a livellolocale, non sempre), molte organizzazioni del terzo settore (cooperativesociali e associazioni), i lavoratori di molte delle aziende che chiudono,delocalizzano o si ristrutturano. Tutti i movimenti per la casa, a partire daquelli romani. Poi, la rete dei Gas e dei Des e altre esperienze di “altraeconomia”, gran parte dei centri sociali (molti sono oggi “astensionisti” ecome tali non erano interessati a un rapporto con la nostra lista; ma non loerano ieri, quando hanno partecipato alle campagne della “stagione dei sindaci”e potrebbero non esserlo più domani); situazioni di occupazioni esemplari comeil Teatro Valle, il municipio dei Beni Comuni di Pisa, le Officine Zero diRoma, Ri-maflow e Remake di Milano, ecc., rimasti un po’ ai margini della nostracampagna, ma molto interessati ai contenuti che portiamo avanti.

    E ancora,associazioni ambientaliste come Energia Felice, Italia Nostra, Greenpeace, e Legaambiente (a livello locale; a livello nazionale sembra ormai catturatacompletamente nella rete del PD); la associazioni animaliste. E poi tutti icomitati e i movimenti contro lo squasso del territorio: No-tav (Valsusa eFirenze), No-muos, No Dal Molin, No-triv, No-tem. No-Mose, No Grandi Navi, ecc.dove la lotta contro le grandi opere si combina con quella per una diversagestione – e manutenzione - del territorio. Poi, tutti i comitati per unadiversa gestione dei rifiuti. Infine, Libera (la campagna contro la povertàmette al centro temi come il lavoro e il debito, che riguardano direttamente inostri lavori; associazioni e comitati come la campagna contro iI TTIP o come aSUD e tanti centri di ricerca o singole figure di studiosi a livellouniversitario.

    Con tutti questi soggetti,qui elencati a titolo solo esemplificativo, dobbiamo cercare di aprire unconfronto, soprattutto a livello locale e territoriale, da svilupparsi su duepiani:
    1. L’individuazione di obiettivi e la promozione di iniziative comuni;
    2. Lo sviluppo di una elaborazione programmatica condivisa, anche partendo da posizioni distanti.
    La nostra pratica deve cioè marciaredi pari passi con una rifondazione radicale dei principi della democrazia,fondata sulla rivalutazione delle persone, sulla solidarietà contrapposta allacompetitività, sulla partecipazione, su una riconsiderazione del lavoro allaluce della sua transizione da costrizione ad attività produttiva liberamentescelta. Dobbiamo riuscire a far marciare contemporaneamente l’iniziativapolitica e l’approccio culturale. In questo confronto dobbiamopraticare l’umiltà: non farne una campagna di reclutamento – né di singoli nédi corpi organizzati – ma metterci su un piano di assoluta parità, anche perquanto riguarda le decisioni operative.

    Come lista Tsipras abbiamoovviamente poca esperienza da offrire (anche se molti di noi ne hannoaccumulato, individualmente o in altre sedi, una quantità non indifferente) euna elaborazione programmatica ancora in gran parte astratta, perché non messa ancoraa confronto con la pratica. Abbiamo però due atout da giocare:
    1. La nostra appartenenza al GUE, la nostra rappresentanza parlamentare, la nostra presenza in Europa e il punto di riferimento che tutto ciò può offrire anche ai nostri interlocutori; in particolare per quanto riguarda la possibilità di collegarsi con altre realtà organizzate in Europa;
    2. L’aver raccolto intorno alla lista L’altra Europa il meglio della intellettualità italiana: decine e decine di studiosi, scrittori, giornalisti indipendenti, registi, attori, musicisti, mentre con il regime, cioè con Renzi e Forza Italia, non è rimasta, per lo più, che una schiera di figure in gran parte asservite: un fatto particolarmente vistoso nel campo del giornalismo. Finora non abbiamo saputo valorizzare questo apporto, che è invece essenziale non solo per ricostruire su nuove basi una cultura della democrazia e del lavoro adatta ai nostri tempi, promuovendo un rapporto stretto e mai subalterno tra pratica politica, elaborazione intellettuale e creazione artistica; ma anche e soprattutto per gettare le basi di una egemonia culturale di respiro europeo. Non possiamo fermarci agli slogan né alle enunciazioni di principio. Questa nuova cultura, alla cui fondazione dobbiamo tutti partecipare, ciascuno con gli strumenti della propria pratica sociale, va elaborata scavando in profondità nel nostro vissuto e in quello di coloro con cui entriamo in contatto; consapevoli del fatto che la cultura della competitività - e dell’individualismo proprietario, del merito come sanzione di una presunta superiorità di chi si è affermato, del mors tua vita mea - cioè la quintessenza del pensiero unico, si è ormai inconsapevolmente radicata anche in atteggiamenti e in convinzioni di chi crede di esserne esente.
    Ci sono comunque alcuni,necessariamente pochi, obiettivi o, meglio, temi che dobbiamo mettere al centrodel nostro confronto con quasi tutte le forze che incontreremo nei prossimimesi e anni, senza pretendere di essere noi a proporli, perché in molti casi laloro elaborazione è più sviluppata della nostra. In queste iniziative dobbiamolavorare sia per sviluppare il tema-obiettivo nelle sue più minutearticolazioni locali e in ogni sua possibile operatività immediata, sia avendoriguardo alla dimensione programmatica (e anche esistenziale) che essocomporta.

    Il primo di questi temi-obiettiviè il reddito di cittadinanza, o reddito garantito (io aggiungo“incondizionato”: ovviamente nella sua dimensione programmatica). E’ larisposta più sentita – già ora – e più puntuale alla disoccupazione e allaprecarietà; ma va definita e motivata ed eventualmente differenziata rispetto oognuna delle ormai mille forme di esclusione e di precarietà di fronte a cui citroviamo, compreso il lavoro di cura e le tante forme di impegno in campoartistico e culturale. Ma oggi, e soprattutto in prospettiva, rappresenta anchel’unica vera forma di tutela del lavoro a tempo indeterminato contro il ricatto del licenziamento: quella tutelaormai in gran parte erosa dal progressivo svuotamento dell’art. 18. Ed è,anche, la risposta alle esigenze dei disoccupati over 50 (che mai più troverannoun impiego in un contesto economico come quello attuale) dei quali i cosiddetti“esodati” sono solo una piccola parte. Insomma, può diventare – per ora non loè – un obiettivo veramente unificante.

    Ma accanto alle suearticolazioni rivendicative più o meno immediate il reddito garantito ha ancheuna dimensione prospettica: la trasformazione del lavoro da impegno coercitivoimposto con il ricatto della disoccupazione e della miseria ad attivitàliberamente scelta; a modalità di espressione della propria creatività e dellapropria socialità. Che è anche il modo per promuovere in una direzione nondistruttiva le attività produttive e le forme della convivenza sociale – che èquanto oggi più approssima la caratterizzazione della società che vorremmo.

    Il secondo tema è la lottacontro la legge Fornero: non va sottovalutato né il disastro che questa legge ela sua logica hanno imposto (la chiusura degli accessi lavorativi alla nuovegenerazioni; la condanna ai lavori forzati di una generazione ormai logorata daltroppo lavoro; un calo netto della produttività e dell’efficienza del sistemaconnesso al perpetuarsi di abitudini lavorative consolidate e alla difficoltàdi introdurre e valorizzare nuovi saperi e nuove tecnologie). Ma questa lotta,che trova già oggi un interlocutore decisivo nell’assemblea autoconvocata dioltre 400 RSU, ha anche il significato emblematico di opporre la forzadell’evidenza a quella contrapposizione tra gli interessi dei giovani “nontutelati” e quelli degli anziani “troppo protetti”, che oggi viene usata per legittimarel’erosione di tutte le tutele. Il rapporto tra le generazioni, tra figlidisoccupati e “a casa” e padri e madri che li sostengono con il loro lavoro, conle loro pensioni, con le loro attività sostitutive del welfare pubblico devecostituire un tema fondamentale della nostra immagine pubblica e di una seriedi iniziative di riconquista di un rapporto più organico con le nuovegenerazioni.

    Il terzo tema.obiettivo è laconversione ecologica: che dovrebbe innanzitutto articolarsi nei confronti dellelotte contro la manomissione del territorio e soprattutto nei confronti delleaziende che chiudono, ristrutturano o delocalizzano. Quest’ultimo è il frontepiù difficile da affrontare, sia per noi che per i lavoratori che stanno perperdere o hanno perso il loro posto di lavoro. La reazione più naturale èquello di aggrapparsi alla continuità produttiva nella speranza che un nuovopadrone – o un nuovo “piano industriale” – ottenga quei risultati che ilmercato e la gestione ordinaria non sanno più garantire. Ma non è così: molteproduzioni ordinarie, in Italia e in Europa, ma anche nel mondo, non hannoavvenire, o fanno solo danno; mentre molte altre sono necessarie e urgenti, manon trovano chi se ne faccia carico. E a farsene carico non può, in linea dimassima, essere un “nuovo padrone”, ma una modalità completamente nuova digovernance dell’impresa; che non può essere solo “autogestione” (i lavoratorinon possono e per lo più non vogliono farsi carico da soli della loro azienda);bensì una soluzione che affianchi al management o a una sua parte lemaestranze, l’associazionismo che rappresenta il territorio, le risorsetecniche della ricerca e, ove possibile il governo locale. Perché il problemaprincipale è garantire sbocchi sicuri alle nuove produzioni e questo non puòessere fatto, in linea di massima, che attraverso una progressiva riterriteritorializzazione del sistema produttivo; in cui i servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, trasporti, energia, gestione del territorio, edilizia pubblica, welfare locale) possono giocare il ruolo di cerniera tra nuove produzioni e governo - partecipato - della domanda. E’ questo che distingue la cosiddetta green economy (che è ricerca del profitto in settori dall’impatto ambientale, vero o presunto, minore) dalla conversione ecologica (che mette invece in gioco le modalità di governo della transizione). Anche qui si tratta di abbinare tra loro una prospettiva generale che va costruita senza salti in avanti, una decisiva battaglia culturale condotta a misura dei diversi interlocutori a cui ci si rivolge, e una capacità di intervento in situazioni puntuali, puntando sul coinvolgimento delle comunità e del territorio. Tenendo conto del fatto che in molte lotte contro la dismissione di impianti o lo squasso del territorio si costituiscono le premesse per forme di solidarietà e di ricostituzione di nuove iniziative di cui la lotta della Valle di Susa è forse oggi l’esempio principale.

    Insieme a quello delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, i campi abbinati della manutenzione del territorio – contro il dissesto edilizio e idrogeologico – e quello di una nuova agricoltura ecologica, multicolturale e multifunzionale, di prossimità e di piccola impresa, sono quelli che offrono maggiori prospettive di occupazione ai programmi di riconversione ecologica.

    Ovviamente tutti questi temi-obiettivi richiedono risorse e investimenti: il che radica nel contesto della quotidianità e delle lotte in corso la nostra battaglia contro il debito, l’austerità, il fiscal compact e le politiche di aggressione ai servizi pubblici, sottraendola in parte al rischio di rimanere un tema astratto.

    Privare il Terzo mondo delle sue risorse naturali e contemporaneamente dotarlo di armi fomentando le guerre fratricide sono due degli strumenti largamente usati nella fase neoliberista del colonialismo. Di quella fase Matteo Renzi è convinto partecipe, e impiega le sue doti di abil ecommesso viaggiatore.

    Sbilanciamoci.info, 24 luglio 2014

    Il nostro presidente del consiglio, l'instancabile Matteo Renzi, è stato in Africa la settimana scorsa e ha portato con sé, per esempio in Mozambico, una delegazione di cui facevano parte i numeri uno di Eni, Claudio Descalzi e di Finmeccanica, Mauro Moretti, nominati di recente in quei ruoli, per una scelta decisa, dopo lungo dibattito e attenta riflessione, dal governo nazionale.

    Eni è al primo posto tra le multinazionali italiane e si occupa d'idrocarburi; li scava, li trasporta, li commercia in molte aree del mondo. Finmeccanica dal canto suo è soprattutto una fabbrica di armi e di avanzati sistemi d'arma. Non è difficile immaginare il motivo della partecipazione di Moretti e Descalzi alla spedizione africana stessa; si tratta di vendere e di comprare, un'attività che s'inquadra nelle parole stesse del presidente, raccolte dalla Rai: «Un Paese ambizioso costruisce strategie di medio periodo. Tra dieci anni energia, agrofood, export sarà nel cuore dell'Italia prima volta».

    Così Matteo Renzi spiega, da Luanda, ultima tappa del suo tour in Africa, gli obiettivi della missione in Mozambico, Congo e Angola. La crescita e i posti di lavoro sono la vera urgenza di Renzi. Anche per rilanciare il «made in», il premier è in Africa con l'obiettivo nei mille giorni di sostenere 22mila imprese e produrre solo con l'export un punto di Pil».

    Un punto di Pil. Ecco il risultato che un grande, pur se un po' seduto, paese europeo pensa di ricavare vendendo a prezzi elevati e comprando bene servizi avanzati e altre mercanzie a un gruppo di paesi tra i più poveri del mondo. L'idea stessa di un commercio siffatto riempie di slancio le imprese associate nella Confindustria.

    Si parla di 22 mila imprese, ma pare piuttosto la famosa Cooperazione italiana che torna, che torna anzi nell'Africa a sud del Sahara, come ai tempi gloriosi della Somalia delle autostrade dei giorni di Siad Barre e dell'Etiopia redenta e in fiore per il Tana-Beles dei giorni di Menghistu.

    Quella cooperazione italiana in Africa è stata forse una vera matrice della prima Tangentopoli: venivano trascurate le regole e l'onestà dei commerci, la bravura e il merito di chi vinceva le gare non serviva a niente, ma si metteva al primo posto la corruzione dei funzionari e dei ministri che avevano a che fare con i commerci stessi.

    Torniamo per un attimo a Descalzi e Moretti. Il primo va in Africa per cercare petrolio e probabilmente ne troverà, e troverà gas e ogni altra ricchezza nel sottosuolo, migliorando di mezzo punto il nostro Pil. Come effetto secondario si prolungherà di un altro anno la durata del modello «fossile» nel mondo, un effetto benefico, secondo la maggioranza; e aumenterà di un'altra frazione il livello d'inquinamento da CO2, ammesso che esista davvero, secondo quel che pensa la stessa maggioranza di prima.

    All'altro mezzo punto di Pil provvederà Moretti vendendo armi e sistemi d'arma agli stessi che pagheranno con gas e petrolio. Qui il discorso diventa sottile. Vendere armi non piace a nessuno, in teoria, ma in pratica tutti i ministri, tutti gli industriali, tutti i banchieri sanno che esistono i buoni e i cattivi. I cattivi non devono avere armi; sono solo altri cattivi che gliele vendono. Invece i buoni – i nostri – devono potersi difendere. Quindi dobbiamo vendere loro le armi necessarie, tanto più che ci consentono di migliorare il nostro amatissimo Pil.

    Riferimenti
    Ricordate la definizione del PIL di Bob Kennedy? Guardate qui.

    «Una polemica con un articolo di Marco Albeltaro apparso su L’Unità. Togliatti e Berlinguer hanno visto nella Costituzione la carta che poteva innovare la democrazia» Un opportuno segmento di una riflessione del nostro passato utile per costruire un futuro migliore.

    Il manifesto, 27 luglio 2014, con postilla

    In un suo inter­vento apparso su l’Unità del 25 luglio Marco Albel­taro sostiene la tesi della neces­sità di ricor­dare Pal­miro Togliatti a sessant’anni dalla scom­parsa in misura molto mag­giore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia Futura uma­nità. Asso­cia­zione per la sto­ria della memo­ria del Pci», sia Cri­tica mar­xi­sta, nelle quali sono impe­gnato, hanno dedi­cato o dedi­che­ranno a Togliatti con­tri­buti di cono­scenza e di ana­lisi e. E credo che anche il mani­fe­sto non man­cherà que­sto appun­ta­mento. In par­ti­co­lare «Futura uma­nità» ha aperto le cele­bra­zioni togliat­tiane con un con­ve­gno, svol­tosi a Roma nel novem­bre 2013, le cui rela­zioni sono state pub­bli­cate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Fer­rara, Gian­pa­squale San­to­mas­simo, Togliatti il rivo­lu­zio­na­rio costi­tuente, Edi­tori Riu­niti) e pre­sen­tate di recente in una sede par­la­men­tare. Qual­cosa si è fatto, dun­que, e sicu­ra­mente nei pros­simi mesi altro si farà. E biso­gne­rebbe fare di più, ne con­vengo con l’autore.

    Dove non posso essere d’accordo con Albel­taro è invece su ciò che emerge dalla sua argo­men­ta­zione, basata sulla con­trap­po­si­zione, che egli avanza espli­ci­ta­mente, tra la rifles­sione su Togliatti (segna­ta­mente il Togliatti degli anni 1944–1964) e il ricordo e la rifles­sione su Ber­lin­guer. Nel farlo, Albe­traro ricorda anche il mio recente Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio (Carocci), ma afferma che le diverse e oppo­ste let­ture di Ber­lin­guer emerse in que­sto tren­te­simo anni­ver­sa­rio della morte sono tutte non solo par­ziali, ma anche esa­ge­rate, poi­ché «guar­dare a Togliatti e alle sue scelte sem­bra più utile che guar­dare a Berlinguer».

    La peculiarità del PCI

    Non capi­sco per­ché si deb­bano con­trap­porre que­ste due figure della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano: come Albel­taro stesso dice, hanno vis­suto in epo­che diverse e fron­teg­giato pro­blemi diversi. Entrambi sono state emi­nenti per­so­na­lità poli­ti­che che hanno con­tri­buito a creare, cia­scuno nella pro­pria epoca, quella pecu­lia­rità del comu­ni­smo ita­liano che in Gram­sci ha le sue radici.

    Certo, vi sono anche delle diver­sità, dovute per lo più alle diver­sità di con­te­sto. Sul piano della poli­tica interna, l’unico che Albel­taro affronta, va notata que­sta dif­fe­renza: Ber­lin­guer si rese conto, sia pure in modo con­trad­dit­to­rio, dei limiti di una poli­tica chiusa in un livello istituzionale-parlamentare-partitico. Men­tre fu stre­nuo difen­sore della Costi­tu­zione e della cen­tra­lità del Par­la­mento (di entrambe, è appena il caso di notarlo, si sta facendo in que­sti anni e in que­sti giorni carne di porco), vide anche – e qui appare più vicino alla rifles­sione gram­sciana, anche a quella del car­cere – come que­sto tipo di demo­cra­zia, se non intrec­ciato con forme diverse e più par­te­ci­pate, e con l’apertura alla società e ai movi­menti, diviene ter­reno di con­qui­sta delle éli­tes, se non addi­rit­tura delle cama­rille, come aveva già ben foto­gra­fato a suo tempo Gae­tano Mosca.
    Già prima della sta­gione del com­pro­messo sto­rico, a ridosso del «secondo bien­nio rosso» (1968–1969), vi è in Ber­lin­guer que­sta sen­si­bi­lità e que­sta rifles­sione. Dopo la paren­tesi degli anni Set­tanta e la lezione appresa dagli errori fatti con la soli­da­rietà nazio­nale, Ber­lin­guer com­pie una corag­giosa auto­cri­tica, por­tando il suo par­tito a riflet­tere sul rin­no­va­mento pro­fondo neces­sa­rio per la sua cul­tura e per tutto un modo di inten­dere la poli­tica. Pur­troppo in pochi lo ascol­ta­rono e lo segui­rono, nel gruppo diri­gente del Pci. Ma la «con­nes­sione sen­ti­men­tale» rista­bi­lita col suo popolo ci fanno inten­dere come di quelle parole e di que­gli atti vi fosse biso­gno. Vale la pena ricor­dare una inter­vi­sta tele­vi­siva del 1980, al ritorno da un viag­gio in Cina, nella quale Ber­lin­guer afferma che quella par­la­men­tare non è l’unica forma pos­si­bile di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica e che ciò che dav­vero con­trad­di­stin­gue una demo­cra­zia sono non le forme della rap­pre­sen­tanza, che mutano con le epo­che e i con­te­sti, ma le libertà fon­da­men­tali di pen­siero, parola, stampa, orga­niz­za­zione poli­tica e sindacale.

    Personalità complementari

    Togliatti si mosse in una tem­pe­rie sto­rica diversa: si trat­tava non di allar­gare la demo­cra­zia, ma di restau­rarla dopo la paren­tesi fasci­sta, di con­so­li­darla, di lot­tare con­tro lo scel­bi­smo e con­tro la legge truffa dega­spe­riana (il mag­gio­ri­ta­rio, anche allora, era il gri­mal­dello per scas­sare la demo­cra­zia), di far entrare sta­bil­mente le masse nella sto­ria di que­sto paese, facen­done un pila­stro di demo­cra­zia. I par­titi sono la demo­cra­zia che si orga­nizza, come giu­sta­mente scrive Albe­traro. La rifles­sione ber­lin­gue­riana su come que­sti par­titi deb­bano intrec­ciarsi con la società riba­diva que­sta lezione e la appro­fon­diva, facendo tesoro dell’esperienza inter­corsa e cer­cando di con­tra­stare quella ridu­zione della poli­tica ad affare di pochi che, ieri come oggi, ha nel deci­sio­ni­smo il suo ves­sillo prin­ci­pale. La dire­zione di mar­cia di Ber­lin­guer e di Togliatti è la stessa, e appare oggi deci­sa­mente con­tro­cor­rente. E quindi da ripren­dere.
    Infine, non può essere dimen­ti­cato in que­sto anno di anni­ver­sari (a quello di Togliatti e Ber­lin­guer aggiun­ge­rei anche il ricordo dei 110 anni dalla morte di Anto­nio Labriola, ancor più dimen­ti­cato) che la grande riso­nanza che viene data al decen­nale della morte di Ber­lin­guer costi­tui­sce una indub­bia novità, anche poli­tica. Come non ricor­dare che dieci o venti anni fa que­sto fio­rire di ini­zia­tive non vi fu? Come non ricor­dare che vi furono decen­nali in cui pre­valse il grido di «dimen­ti­care Ber­lin­guer»? Se quest’anno così non è anche per­ché si è capito che di Ber­lin­guer c’è biso­gno per com­bat­tere quel ten­ta­tivo di restrin­gi­mento della demo­cra­zia che è mani­fe­sto nella ope­ra­zione «rifor­mi­stica» in atto (ma ini­ziamo a chia­marla col suo nome, Con­tro­ri­forma, poi­ché la nostra Riforma fu la Costi­tu­zione repub­bli­cana nata dalla Resi­stenza), per difen­dere anche ciò che Togliatti ha saputo costruire. Per que­sto non vi è con­trap­po­si­zione reale tra Togliatti e Ber­lin­guer. Essi sono, si sarebbe detto un tempo, «uniti nella lotta».
    postilla
    Un intervento del tutto opportuno nel mare di confusione e d'ignoranza (e di deformazione della storia recente) nel quale ci tocca vivere. "Continuità nelle diversità": non c'è modo più giusto per rappresentare il rapporto tra la visione comunista (italiana) di quei due grandi politici. Nelle ragioni delle diversità Liguori giustamente sottolinea quelle dovute ai differenti contesti nei quali i due personaggi agirono: il primo nel contesto di un capitalismo ancora fordista, il secondo in un capitalismo giunto ormai alla fase dello "sviluppo opulento (quello che fu poi denominato come neoliberismo (Harvey) o financapitalismo (Gallino), e fu invece molto incompreso nella stessa sinistra comunista ai tempi di Berlinguer.Da qui anche la solitudine dell'ultimo grande leader del partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Barlinguer e la sua attuale modernità.
    l'associazione Futura umanità (il cui logo è l'icona in btesta a questo articolo, e la rivista Critica Marxista sono due fonti essenziali per seguire la riflessione su questi temi del nostro vicino passato, per tentar di costruire un futuro migliore.
    roncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale dal dopoguerra è, per Renzi, il segno di una vittoria di Pirro. E Napolitano che non riceve le opposizioni, è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?».

    Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)

    Chi sono i veri fili­bu­stieri? Quelli che si oppon­gono alle riforme costi­tu­zio­nali della mag­gio­ranza renzian-berlusconiana, o i par­titi di governo che impe­di­scono al par­la­mento di discu­tere come cambiarle?

    In un regime par­la­men­tare, l’ultima carta di una demo­cra­zia è l’ostruzionismo e la sto­ria della nostra repub­blica è ricca di pagine che rac­con­tano per­so­naggi e inter­preti del fili­bu­ste­ring nei momenti di mag­gior con­tra­sto politico. Con i nuovi rego­la­menti oggi è molto più dif­fi­cile pra­ti­carlo, ma deci­dere di tron­care il dibat­tito sulla più pro­fonda tra­sfor­ma­zione dell’assetto costi­tu­zio­nale mai rea­liz­zata dal dopo­guerra, sce­gliendo un rigido con­tin­gen­ta­mento dei tempi per­ché l’8 di ago­sto il pre­si­dente del con­si­glio deve por­tare a palazzo Chigi il bot­tino di guerra è, innan­zi­tutto per lui, il segno di una vit­to­ria di Pirro.

    Chi vuole vin­cere senza con­vin­cere, chi mostra i muscoli per nascon­dere la con­fu­sione, in realtà rivela la pro­pria debo­lezza. Non si pos­sono appro­vare riforme cru­ciali senza il neces­sa­rio, fati­coso, eser­ci­zio del com­pro­messo e della media­zione politica…

    Se ancora c’era qual­che dub­bio sulla natura post-democratica del lea­der che ci governa, da ieri sarà più dif­fi­cile soste­nerlo. E del resto que­ste pes­sime riforme costi­tu­zio­nali per come erano ori­gi­nate, appunto da un’iniziativa legi­sla­tiva del governo anzi­ché del par­la­mento, non pote­vano che pre­ci­pi­tare in una esau­to­ra­zione del par­la­mento stesso.

    Con il soste­gno e l’approvazione del Pre­si­dente della Repub­blica che così espone l’alta carica che rap­pre­senta al ruolo di gio­ca­tore anzi­ché di arbi­tro. Il Capo dello Stato non ha nep­pure rice­vuto per­so­nal­mente la dele­ga­zione di depu­tati e sena­tori che ieri sera, in cor­teo, si è recata al Qui­ri­nale per rap­pre­sen­tar­gli la con­tra­rietà verso una deci­sione sconcertante.

    Napo­li­tano è ancora il rap­pre­sen­tante di tutti gli italiani?

    «La soli­tu­dine dei pale­sti­nesi è la ver­go­gna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petro­lio. Per non par­lare di un’Europa inetta e imbelle».

    Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)

    La stri­scia di Gaza è mar­ti­riz­zata da tre­dici anni, dall’inizio della seconda Inti­fada. Perio­di­ca­mente Israele, in rispo­sta ai lanci di razzi, al rapi­mento di un sol­dato o all’uccisione di gio­vani coloni, sca­tena offen­sive (dai nomi fan­ta­siosi o truci, come “arco­ba­leno” o “piombo fuso” ecc.) dal cielo, dal mare e a terra.

    Dall’inizio del mil­len­nio, sono morti circa 6.400 pale­sti­nesi e poco più di 1000 israe­liani, senza dimen­ti­care le cen­ti­naia di pale­sti­nesi vit­time della guerra civile tra Hamas e Anp. Ogni volta, gli stra­te­ghi israe­liani giu­rano che il con­flitto in corso sarà l’ultimo, ma chiun­que nel mondo sa che si tratta di una favola. Anche se la stri­scia di Gaza – una fascia costiera abi­tata da una popo­la­zione pari a quella della Ligu­ria, ma con una super­fi­cie quin­dici volte più pic­cola – fosse com­ple­ta­mente ridotta in mace­rie, qual­che razzo potrebbe essere ancora spa­rato e quindi il con­flitto riprenderebbe…

    Per com­pren­dere il senso di una guerra appa­ren­te­mente infi­nita, basta con­fron­tare le carte della Pale­stina nel 1946 e oggi. Se allora gli inse­dia­menti dei coloni ebrei erano una man­ciata, soprat­tutto nel nord, oggi è esat­ta­mente il con­tra­rio: una spruz­zata di inse­dia­menti pale­sti­nesi cir­con­dati da Israele e dai suoi coloni, con la stri­scia di Gaza iso­lata a sud-ovest. Non ci vuole molta fan­ta­sia per com­pren­dere che la stra­te­gia di Israele, in nome di una sicu­rezza asso­luta di cui non potrà mai godere, è quella di cac­ciare più pale­sti­nesi pos­si­bile, con le infil­tra­zioni dei coloni in Cisgior­da­nia e con le azioni mili­tari a Gaza.

    Rap­porti pub­bli­cati da Human Rights Watch, agen­zie Onu e Amne­sty Inter­na­tio­nal mostrano ormai, senza pos­si­bi­lità di dub­bio, che lo sra­di­ca­mento dei pale­sti­nesi è per­se­guito con l’espulsione dalla terre col­ti­va­bili, l’interruzione perio­dica dell’energia elet­trica e il blocco delle risorse idri­che. D’altronde che l’esercito con­si­de­rato il più “pro­fes­sio­nale” al mondo rada al suolo scuole gestite dall’Onu e uccida soprat­tutto civili la dice lunga sulla vera stra­te­gia di Israele verso i palestinesi.

    Mai come oggi, i pale­sti­nesi di Gaza sono stati così soli. Hamas non gode della pro­te­zione dell’Egitto, come ai tempi di Morsi, né della sim­pa­tia dei sau­diti e di quasi tutti gli stati arabi. Né riceve vera soli­da­rietà da parte di Abu Mazen. E, ovvia­mente, in quanto orga­niz­za­zione uffi­cial­mente defi­nita “ter­ro­ri­sta”, è avver­sata da Stati Uniti ed Europa. Ma tutto que­sto non spiega, né tanto meno giu­sti­fica, il silen­zio ipo­crita dei governi occi­den­tali e tanto meno della cosid­detta opi­nione pub­blica indi­pen­dente sulle stragi di Gaza.

    Lasciamo stare il nostro Pre­si­dente del con­si­glio e l’ineffabile mini­stro Moghe­rini, la cui ascesa spiega per­fet­ta­mente il ruolo tra­scu­ra­bile della poli­tica estera nella cul­tura gover­na­tiva ita­liana. Ma che dire dell’incredibile squi­li­brio poli­tico e morale nella valu­ta­zione uffi­ciale del conflitto?

    Basti pen­sare che un B.-H. Lévy, l’eroe della fasulla rivo­lu­zione libica e il mesta­tore di Siria, da noi passa come un pro­feta della pace e della giu­sti­zia. Che cen­ti­naia o migliaia di imbe­cilli, in Europa o altrove, tra­sfor­mino il con­flitto tra pale­sti­nesi e stato d’Israele in una cro­ciata anti­se­mita non può essere usato come un alibi per chiu­dere gli occhi davanti alle stragi di bam­bini e di civili. In que­sto qua­dro, la palma dell’ipocrisia va al governo ame­ri­cano, e in par­ti­co­lare a Obama, che pure aveva illuso il mondo all’inizio del suo primo mandato.

    La banale verità è che la dif­fe­renza tra demo­cra­tici e repub­bli­cani in mate­ria di Pale­stina è sem­pli­ce­mente di stile. Bru­tal­mente filo-israeliani quelli della banda Bush, pre­oc­cu­pati un po’ più delle forme della repres­sione gli oba­miani, come dimo­strano i famosi fuori-onda di Kerry.

    Ma nes­suno ha vera­mente inten­zione di fer­mare Israele, oggi o mai. La soli­tu­dine dei pale­sti­nesi è la ver­go­gna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petro­lio. Per non par­lare di un’Europa inetta e imbelle.

    Il manifesto, 24 luglio 2014

    Trovo fran­ca­mente sor­pren­dente l’inutile viru­lenza con cui Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio nell’intervista rila­sciata a que­sto gior­nale si sca­glia con­tro gli esiti dell’Assemblea nazio­nale tenuta dalla lista Tsi­pras lo scorso sabato. Non che man­chino argo­menti per una sana rifles­sione cri­tica e auto­cri­tica. Molti di que­sti li ha for­niti Revelli stesso, nel corso di una disa­mina spie­tata dello scarso radi­ca­mento sociale del nostro voto e quindi della nostra debo­lezza strut­tu­rale. Il pro­blema che quindi abbiamo tutti, com­presa Sel — a meno che l’intervista di Sme­ri­glio non pre­an­nunci uno sgan­cia­mento dal per­corso – è come supe­rare quei limiti evi­denti e pro­ba­bil­mente in que­sta fase non eli­mi­na­bili del tutto, dando vita a un pro­cesso costi­tuente fatto di pra­ti­che coe­renti che costrui­sca un “rap­pre­sen­tato strut­tu­rato”, dopo essere riu­sciti per poco più di 8mila deci­sivi voti e dopo ripe­tute scon­fitte, a dare vita ad una rap­pre­sen­tanza isti­tu­zio­nale europea.
    È evi­dente che quest’ultima non può soprav­vi­vere a lungo senza la costru­zione del primo, ovvero di un sog­getto poli­tico nuovo di sini­stra in un Paese dove quest’ultima può dirsi se non ine­si­stente, quan­to­meno irri­le­vante. La suc­ces­sione dei fatti e la nostra infe­lice sto­ria pre­gressa, e non pro­getti a tavo­lino, ha voluto infatti che noi per­cor­res­simo un pro­cesso pra­ti­ca­mente inverso a quello che hanno com­piuto Siryza, o altre forze della sini­stra euro­pea fino alla recen­tis­sima Pode­mos, le quali prima di fare il balzo in Europa si sono date un pro­filo poli­tico e un’organizzazione con­se­guente su scala nazio­nale. Di fronte alla ori­gi­na­lità della nostra con­di­zione e agli ine­diti pro­blemi che essa pone fanno solo sor­ri­dere le cri­ti­che inge­ne­rose e futili sull’elevata età dei par­te­ci­panti all’Assemblea (peral­tro la lista Tsi­pras vanta un ele­vato tasso di voto gio­va­nile), o sulla rela­tiva lun­ghezza delle rela­zioni intro­dut­tive, o l’assenza di una strut­tu­ra­zione demo­cra­tica peral­tro pie­na­mente rico­no­sciuta e moti­vata come tran­si­to­ria, cui l’Assemblea ha comin­ciato a porre rime­dio pro­ce­dendo alla costru­zione di un coor­di­na­mento prov­vi­so­rio per auto pro­po­si­zione, ma rap­pre­sen­ta­tivo dei comi­tati territoriali.

    Evi­den­te­mente il pro­blema sta altrove. È emerso in un qual­che modo nella discus­sione che si è accesa in uno dei gruppi tema­tici nei quali si è divisa l’assemblea e con­cerne la pre­senza even­tuale alle pros­sime ele­zioni regio­nali. In realtà la que­stione è stata male impo­stata fin dal suo ini­zio, e non solo dall’intervista di Sme­ri­glio. Infatti non credo si possa discu­tere frut­tuo­sa­mente il da farsi di fronte a que­sta sca­denza, se prima non si affronta una discus­sione che da tempo incalza su cosa sono diven­tate le isti­tu­zioni regio­nali – ora ter­reno pri­vi­le­giato per l’esercizio della cor­ru­zione delle eli­tes poli­ti­che — e cosa soprat­tutto diven­te­ranno se andrà in porto la riforma costi­tu­zio­nale attual­mente in discus­sione al Senato che tocca così pesan­te­mente il Titolo V, già oggetto di ampie modi­fi­ca­zioni una decina di anni fa. Le nuove norme che il governo ha pro­po­sto ten­dono a ridurre le regioni a una sem­plice arti­co­la­zione ammi­ni­stra­tiva. L’eliminazione delle com­pe­tenze legi­sla­tive “con­cor­renti” e la “clau­sola di supre­ma­zia” ripor­tano molte tema­ti­che di forte impatto sociale nell’ambito squi­si­ta­mente sta­tale a sua volta limi­tato dalle inge­renze degli organi della gover­nance a-democratica euro­pea (ad esem­pio con il fiscal com­pact). Il sogno della vec­chia sini­stra di fare delle regioni un’articolazione demo­cra­tica dello Stato per avvi­ci­nare la cosa pub­blica ai cit­ta­dini è del tutto tra­volto. Prima di deci­dere con chi andare biso­gne­rebbe discu­tere se e perché.

    Ma sca­vando ancora, il nodo vero del con­ten­dere è sulla natura del Pd. Del Pd nel suo com­plesso, non solo del feno­meno Renzi. È dif­fi­cile imma­gi­nare che Renzi abbia vinto indi­pen­den­te­mente o addi­rit­tura con­tro il Pd. Per quanto sia forte la per­so­na­liz­za­zione in atto, abbiamo assi­stito, attra­verso un pro­cesso non breve fatto anche di bru­schi salti, come l’elezione di Renzi, alla tra­sfor­ma­zione di un intero par­tito in un sistema di governo delle isti­tu­zioni e della società. Le ana­lo­gie con la Dc sono del tutto fuori luogo. Non esi­ste più alcun rife­ri­mento ideale e tan­to­meno fina­li­stico. Vi è la totale com­pe­ne­tra­zione nel pre­sente del sistema di gover­nance euro­peo e nazio­nale, cui tutto è sot­to­messo. Il par­tito piglia-tutto dà luogo ad una muta­zione antro­po­lo­gica delle sue eli­tes e del senso stesso del con­cetto di par­tito. Que­sto spiega anche la flui­dità delle posi­zioni interne, rapi­dis­sime nell’uniformarsi all’onda vin­cente senza lasciare nep­pure una trac­cia del pro­prio per­corso. Che ne è dei “gio­vani tur­chi”? Le arti­co­la­zioni delle posi­zioni per­so­nali – al di là delle migliori inten­zioni – o ter­ri­to­riali non rie­scono a con­tra­stare que­sta liqui­dità poli­tica né ergersi a oppo­si­zione strut­tu­rata e duratura.

    La sini­stra, se sarà, non potrà che svi­lup­parsi fuori e con­tro que­sto partito-governo. Il che non esclude il con­fronto o pos­si­bili con­ver­genze su sin­goli aspetti e temi, ma cer­ta­mente sì la ripro­po­si­zione dell’alleanza coar­tata dal ricatto del voto utile anche a livello regio­nale. Qui sta il nodo delle diver­genze, che va affron­tato non a colpi di accetta, ma senza sfug­girvi e con serietà. La tra­sfor­ma­zione di una lista nata per un nuovo pro­getto euro­peo in un sog­getto di sini­stra radi­cato nel nostro paese passa ine­vi­ta­bil­mente per que­sta strada. Prima la intra­pren­diamo, evi­tando dera­glia­menti elet­to­rali, meglio è visto che non sarà breve né lineare.

    «La sagra dei "gratta e vinci" per il via libera al gasdotto salentino».

    Il manifesto, 23 luglio 2014 (m.p.r.)

    Entro la fine di luglio la Com­mis­sione Via del mini­stero dell’Ambiente si pro­nun­cerà sul pro­getto della mul­ti­na­zio­nale Tap che pre­vede l’approdo del gasdotto sulla costa di San Foca, nel lec­cese, per far giun­gere in Europa il gas natu­rale dell’Azerbaigian. Al pro­getto, il cui impatto è rite­nuto inva­sivo, si oppon­gono i comi­tati regio­nali «No Tap» i quali hanno sen­si­bi­liz­zato le popo­la­zioni sui pos­si­bili danni ambien­tali per il ter­ri­to­rio pugliese.

    Negli stessi giorni in cui il pre­si­dente azero Ilham Aliyev era a Roma per una serie di accordi col governo Renzi in mate­ria ener­ge­tica, è stato aperto a Lecce un uffi­cio (rap­pre­sen­tante gli inte­ressi delle società inter­na­zio­nali del pro­getto Tap — Trans adria­tic pipe­line) il cui respon­sa­bile ha illu­strato un pro­gramma di mani­fe­sta­zioni spon­so­riz­zate dalla mul­ti­na­zio­nale per l’estate salentina.

    Con un bud­get di circa 350 mila euro (evi­dente l’intento pro­pa­gan­di­stico con elar­gi­zioni di pre­bende per addo­me­sti­care posi­zioni oltran­zi­ste) sono finan­ziate varie ini­zia­tive che, come in ogni pro­vin­cia che punta sul turi­smo, soli­ta­mente decol­lano durante la sta­gione. Un car­net di appun­ta­menti, in paesi e pae­sini, che vanno dalla sagra a base di pro­dotti man­ge­recci alla festa patro­nale con alle­sti­mento di lumi­na­rie, dalla disco­teca sul mare al con­certo da sta­dio, dal concorso-vacanza in hotel della zona alla par­te­ci­pa­zione presso la radio locale, fino ai gratta e vinci distri­buiti sulle spiagge con in palio por­ta­cel­lu­lari, teli da bagno, pal­lon­cini e gad­get, con­tras­se­gnati col mar­chio Tap ovvia­mente. «Ener­gia a voca­zione turi­stica» è lo slo­gan con cui si fa pas­sare il tutto come un calen­da­rio di eventi culturali.

    Cul­tu­rali per­ché la Tap ha ten­tato di coin­vol­gere, ele­van­done lo spes­sore, la città capo­luogo? Al con­si­gliere dele­gato dal Comune al comi­tato pre­po­sto alle mani­fe­sta­zioni estive, è infatti giunta l’offerta, per la tre giorni festa­iola dell’ultima set­ti­mana d’agosto in onore dei santi patroni, di una somma di 20 mila euro tar­gata Tap. Ma ven­dere, o peg­gio sven­dere, i nomi di Oronzo, Giu­sto e For­tu­nato (i patroni di Lecce) per appena 20 mila euro è forse sem­brato poco digni­toso. Fatto sta che arci­ve­scovo e sin­daco della città si sono defi­lati, per poi decli­nare l’offerta. Anche per non pre­stare il fianco al tour­bil­lon di pole­mi­che, che si sarebbe rove­sciato, accet­tando quel denaro che alla cit­ta­di­nanza è apparso un obolo, non pro­prio gene­roso peral­tro. Un obolo per com­prarsi il con­senso sociale e taci­tare le resi­stenze di quanti con­te­stano il pas­sag­gio del gasdotto nel Salento. Intanto la que­relle ha attra­ver­sato repen­ti­na­mente città, paesi e spiagge. Ma se sulle prime la mul­ti­na­zio­nale ha fatto brec­cia spon­so­riz­zando un paio di mani­fe­sta­zioni (il nome Tap è stato acceso da una miriade di lam­pa­dine al led in una serata di sagra, con un con­tri­buto di appena 5000 euro), ora le comu­nità comin­ciano a pren­dere distanze e a rifiu­tare le offerte. Con buona pace del mar­chio Tap pro­gram­mato per un’estate al top.

    Alla com­mis­sione Via dell’ambiente, che deci­derà a giorni sulla cri­ti­cità del pro­getto, i respon­sa­bili Tap in Salento, pur pri­vi­le­giando l’approdo della con­dotta a San Foca, hanno indi­cato una decina di siti alter­na­tivi e com­pa­ti­bili lungo la costa che corre da Brin­disi a Otranto. Il gasdotto trans­na­zio­nale che por­terà il gas azero in Europa (avrà una por­tata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno) è un’opera impo­nente il cui costo si aggira sui 40 miliardi di euro. La con­dotta attra­versa regioni della Tur­chia euro­pea, della Gre­cia set­ten­trio­nale e dell’Albania, prima di tuf­farsi nel Canale d’Otranto lungo 117 chi­lo­me­tri sot­to­ma­rini. Rag­giunta la costa adria­tica pugliese per­cor­rerà alcuni chi­lo­me­tri sul ter­ri­to­rio salen­tino. Il ter­mi­nale infine si col­le­gherà all’infrastruttura a rete della Snam gas.

    . Difficile, lungo e piena di rischi il percorso di una democrazia che sappia vincere la "post-democrazia renzusconiana. Il manifesto, 24 luglio 2014

    L’«ademocrazia», il «tappo» sui gio­vani, le «pul­sioni pro­prie­ta­rie» e quelle gril­line met­tono a rischio il futuro della lista Tsi­pras. All’indomani della prima assem­blea nazio­nale, Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, respon­sa­bile orga­niz­za­zione di Sel e vice di Zin­ga­retti nel Lazio, avverte che qual­cosa non va. «È posi­tivo aver scelto un’agenda di mobi­li­ta­zioni per l’autunno: il rap­porto con i sin­da­cati e con la Fiom, con il movi­mento stu­den­te­sco. Ma per il resto l’assemblea è stata rituale, stanca: una bat­tuta d’arresto».

    Per­ché una bat­tuta d’arresto?
    Marco Revelli ha ragione quando dice abbiamo ‘avuto il comu­ni­smo di guerra’. Nella fase d’emergenza del voto abbiamo dato giu­sta­mente tutto il potere ai saggi. Ma che oggi, dopo il voto, le cose restino così è un pro­blema. Que­sti saggi somi­gliano al governo dei tec­nici: si sono auto­scelti, nes­suno li ha mai votati.

    I tre euro­par­la­men­tari sono stati votati.
    Sono stati votati per fare gli euro­par­la­men­tari. Ma la dimen­sione ade­mo­cra­tica della lea­der­ship della lista è palese. Secondo: qua e là emer­gono pul­sioni gril­line. In una com­mis­sione dell’assemblea si cri­tica un ‘faci­li­ta­tore’ (respon­sa­bile, ndr) come San­dro Medici con la moti­va­zione che ‘è un pro­fes­sio­ni­sta della poli­tica’. Con que­sto cri­te­rio anche Tsi­pras sarebbe escluso. Que­ste cose non vanno solo denun­ciate: vanno bat­tute poli­ti­ca­mente con potenti inie­zioni di demo­cra­zia. Dob­biamo aprirci con­tro le pul­sioni esclu­denti e pro­prie­ta­rie, ren­dere con­ten­di­bile il campo e la linea poli­tica della lista. Demo­cra­tiz­zarci. E ringiovanirci.

    Vuole già rot­ta­mare i saggi?
    La pla­tea di sabato aveva un’età media alta, in gran parte il ceto poli­tico scon­fitto degli ultimi trent’anni. La prima rela­zione è durata un’ora, la seconda 40 minuti. Così si vuole par­lare ai gio­vani? I saggi fin qui hanno dimo­strato di non sapere, o non volere, valo­riz­zare quel po’ di movi­menti gio­va­nili che alle euro­pee hanno espresso molto e rac­colto voti. Con­tro que­sti gio­vani, i saggi fanno da tappo.

    Una delle elette è una gio­vane donna. Cos’altro dovreb­bero fare?
    Favo­rire il salto gene­ra­zio­nale, pren­dere esem­pio dalla spa­gnola ‘Pode­mos’. Biso­gna inve­stire in un’agenda di cose da fare e risco­prire la forza del con­flitto. La lista Tsi­pras ha un futuro se saprà inter­pre­tare le ten­sioni dell’autunno. Ma per sce­gliere que­sta strada biso­gna usare la demo­cra­zia: noi di Sel siamo un par­tito tra­di­zio­nale e pic­colo, ma la nostra linea la sce­glie una lea­der­ship decisa in una forma demo­cra­tica, appros­si­ma­tiva quanto si vuole, ma che è il con­gresso. Non può sce­glierla chi ritiene di avere i giu­sti quarti di nobiltà tsi­prota. Ho sen­tito la capo­de­le­ga­zione a Bru­xel­les fare la rela­zione sulla linea poli­tica della lista. Avrei pre­fe­rito sapere come si met­terà a dispo­si­zione e in col­le­ga­mento con i pro­cessi reali del paese.

    Ancora la pole­mica con­tro Bar­bara Spinelli?
    No, ma per sce­gliere ‘la linea’ ser­vono pro­cessi demo­cra­tici. E per andare avanti serve inve­stire sui più giovani.

    Ora alle regio­nali rischiate di andare sparsi?
    Sarò chiaro: per noi ogni ragio­na­mento ‘a pre­scin­dere’ è un errore. Per­sino un par­tito molto radi­cale com’era il Prc di Ber­ti­notti, nel 2001 e nel 2008 men­tre rom­peva con il governo cen­trale faceva l’accordo per il governo di Roma. E’ sba­gliato sia dire ‘sem­pre con il Pd’ sia dire ‘mai con il Pd’. Anche Tsi­pras dice che Renzi non è un inter­lo­cu­tore in Ita­lia ma lo è in Europa. Spi­nelli dice di non essere d’accordo. Noi sì: per noi il Pd di Renzi oggi non è un pos­si­bile alleato di governo, ma regione per regione vogliamo valu­tare quello che suc­cede. Chi deve deci­dere cosa fare in Cala­bria, i cala­bresi o i saggi? Cen­tra­liz­zare la deci­sione è un ritardo di cul­tura poli­tica. Invece misu­rare le scelte dai metri di distanza dal Pd è una sciocchezza.

    È quello che farà Sel o una pro­po­sta a tutti?
    Lo pro­po­niamo a tutti e noi lo pra­ti­chiamo già. La nostra pre­oc­cu­pa­zione è dare un futuro al suc­cesso delle euro­pee. La scelta di cosa fare in Cala­bria non pos­sono farla i saggi e nean­che i pur eroici quin­dici del comi­tato di Cori­gliano; né in Emi­lia Roma­gna quelli che si sono inte­stati legal­mente il comi­tato Tsi­pras. Ci vuole una con­sul­ta­zione aperta e tra­spa­rente in cui chie­diamo, per esem­pio in Cala­bria, se la can­di­da­tura di Gianni Spe­ranza (di Sel, ndr) può avere forza nella costru­zione della coa­li­zione. E così nelle altre regioni che andranno al voto: apriamo i ban­chetti, i gazebo. Per Sel la coa­li­zione resta un obiet­tivo. Non sap­piamo se riu­sci­remo a farla ovun­que, ma chi vuole far sal­tare tutte le coa­li­zioni ter­ri­to­riali sap­pia che ci tro­verà lungo la strada, den­tro una con­tesa poli­tica. In un con­fronto demo­cra­tico siamo dispo­ni­bili a discu­tere su tutto. Se qual­cuno si sente pro­prie­ta­rio della discus­sione per imporre il bravo com­pa­gno che prende tre voti, non ci stiamo. E un’ultima cosa.

    Prego.
    In rete leggo cose orri­bili. Noi non chie­diamo a nes­suno di rinun­ciare a se stesso. Chie­diamo però un campo aperto dove si possa fare un con­fronto demo­cra­tico, una testa un voto. I tor­que­mada del mouse abbiano più rispetto per Sel e per le sue scelte gene­rose e senza con­tro­par­tita. Sel ha rinun­ciato a molte cose per dare il buon esem­pio e met­tersi in sin­to­nia con la volontà di cam­bia­mento. Però que­ste scelte gene­rose non sono una resa né una regola eterna. Sel ci sarà fin­ché non nascerà qual­cosa di più grande e più cre­di­bile. A que­sto scopo Sel abita più luo­ghi: la lista Tsi­pras, la rela­zione con eco­lo­gi­sti, con Fas­sina, Cuperlo, Civati: tutti pezzi di una ricerca. I sacer­doti del mino­ri­ta­ri­smo se ne fac­ciano una ragione. Noi non ci arren­diamo al ren­zi­smo, ma non ci inte­ressa rimet­tere insieme i cocci della sini­stra minoritaria.

    Di que­sto avete par­lato con Tsipras?
    Sì. E segnalo che Tsi­pras, che è un lea­der serio, ha cer­cato di incon­trare Renzi; e se non l’ha incon­trato è per colpa di Renzi. A Tsi­pras teniamo molto, lui è il lea­der euro­peo natu­rale di tutta que­sta coa­li­zione, con lui sen­tiamo una pro­fonda sin­to­nia. L’auspicio è che in Ita­lia non ci sia chi ritiene di esserne l’interprete esclu­sivo, il suo oracolo.

    Appello al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza di Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale. Un appello al quale

    eddyburg aderisce e a cui invita tutti ad aderire.

    Garantire il diritto di fuga
    Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Si tratta, secondo il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), del dato più alto mai registrato dopo la fuga in massa, nella prima metà del secolo scorso, dall’Europa dominata dal nazifascismo. “La nostra è stata una generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora”, ha affermato Ruth Klüger, scrittrice e germanista sopravvissuta ad Auschwitz, “io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del ventesimo secolo. E nel ventunesimo continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati”.

    Sono parole profetiche: sempre più la fuga è divenuta espressione del nostro mondo, del tempo in cui ci è dato vivere. È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza. Sulle coste meridionali del nostro continente giungono persone – uomini, donne, bambini – che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo, di cui molto spesso le politiche occidentali – connesse a un modello economico e biopolitico di spartizione – sono direttamente o indirettamente responsabili.

    I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. Ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’Europa un filo spinato.

    L’Europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità.

    Fermare il respingimento dei migranti
    Il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. Un incremento dovuto principalmente alla continua carneficina siriana che, a tre anni dall’inizio del conflitto, ha visto più di 2.5 milioni di persone perdere la possibilità di vivere nel proprio paese. Uomini, donne, bambini sono da mesi ammassati nella stazione Centrale di Milano, senza che il Comune – di fatto abbandonato dallo Stato – riesca a farsene pienamente carico, nonostante i molti sforzi profusi. Ma si tratta anche di schiere in fuga dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale – che si vanno ad aggiungere ai profughi della Somalia e del Maghreb. Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste – e a Sangatte, Ceuta, Melilla – in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati.

    Trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. Molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il Mar Mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie.

    Non serve, allora, appellarsi a retoriche rese impronunciabili, dopo lo smascheramento del Cuore di tenebra conradiano: l’Europa non rappresenta “il faro di civiltà, la globalizzazione della civilizzazione”, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha descritto a Strasburgo, il 2 luglio, in apertura del semestre italiano di presidenza europea. L’Europa è, anche, quell’orrore che Marlow, il mercante d’avorio, figura dell’avidità e del dominio coloniale, porta in Africa; maschera che disvela fino a che punto il cuore di tenebra si trovi esattamente nella luce che la nostra civiltà ha preteso di esportare, ammantando il proprio dominio di superiorità morale.

    Impedire la strage del Mediterraneo
    É giunto il momento che l’Unione Europea guardi a se stessa: alla distesa, al mare di morti che le sue politiche hanno causato e continuano a causare, e che cerchi soluzioni concrete e immediate, se non vuole che i suoi stessi cittadini rifuggano lo sguardo delle istituzioni.

    I quarantacinque migranti trovati asfissiati nella stiva di un barcone a Pozzallo sono le ultime, povere vittime di una carneficina immane, ma già, mentre scriviamo, se ne aggiungono altre: sono ventimila gli uomini, le donne e i bambini, conteggiati per difetto, annegati nel Mediterraneo dal 1988 in poi. Sono 500 le vittime accertate solo in questa prima parte del 2014. Una tragedia epocale, della quale non potremo dire che non sapevamo, quando sarà diventata storia. Storia d’Europa.

    I cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi – tanto più inconcepibile quando si consideri che, nella sua Carta dei diritti fondamentali, l’Unione Europea ha dichiarato di porre la persona al centro delle proprie politiche, e ha considerato le politiche sulle frontiere, l’asilo e le migrazioni come vere e proprie politiche comuni.

    Tuttavia l’Unione Europea che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare.

    Attuare i trattati
    La cosa è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77), di gestione di tutte le fasi del processo migratorio (art. 79), di accoglienza delle persone (art. 78) e di condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).

    Si tratta di norme che, a cinque anni dall’entrata in vigore, hanno trovato solo una parziale traduzione legislativa: nella prassi si continuano a privilegiare strategie come il Global Approach for Mobility and Migration e le cosiddette Mobility partnership con paesi terzi, prive di una base giuridica vincolante, realizzate su base volontaria e senza la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo.

    Il ricorso da parte delle istituzioni a questi espedienti e surrogati, anziché agli strumenti previsti dai Trattati per la realizzazione di politiche comuni, conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione.

    L’insuccesso di questo approccio è provato dall’incapacità di predisporre e attivare soluzioni semplici e improrogabili come la creazione di corridoi umanitari. L’inettitudine nel costruire una maggioranza fra gli Stati membri che realizzi il principio di solidarietà anche finanziaria previsto dall’art. 80 del TFUE non può essere nascosta dalla retorica del Consiglio europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze, né dal continuo rinvio al ruolo di Agenzie europee, il cui compito dovrebbe consistere nell’applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza.

    Né può essere taciuta l’ipocrisia per cui le politiche di respingimento – previste da molte misure decise in sede di attuazione – vengono presentate come intese a salvare la vita dei migranti e dei profughi, quando sono proprio quelle politiche a condannarli al rischio, sempre più attuale, di morire annegati.

    La responsabilità primaria di tutto questo ricade sugli Stati membri, sul Consiglio e sulla Commissione, che hanno completamente ignorato i Trattati – e in particolare le norme volte a trasformare le politiche di controllo delle frontiere, di asilo e di integrazione dei migranti in politiche europee comuni, da attuare nel rispetto del principio di solidarietà. L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della fortezza Europa.

    Dismettere la fortezza Europa
    L’Unione Europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o Europol,[1] ha di fatto abdicato alla missione che si è data con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei diritti. Non è questa l’Europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio.

    Noi, cittadini europei, diciamo che l’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito.
    “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Questo cartello esposto da un migrante durante la Freedom March, giunta il 27 giugno davanti ai giganteschi palazzi di vetro dell’Unione Europea a Bruxelles, descrive perfettamente la condizione in cui si trovano milioni di persone che cercano di entrare, o di restare, nella fortezza Europa.

    La zona euromediterranea deve diventare uno spazio di cooperazione e solidarietà tra i popoli, non un’invalicabile frontiera esteriore per chi fugge da guerra e miseria, né un’angosciosa frontiera interiore, messa a separare la biografia di ciascuno, fatta di storia, affetto, legami, appartenenze.

    È compito dell’Italia, in questo semestre europeo, promuovere l’attuazione organica e solidale di tutte le disposizioni dei trattati in materia di frontiere, immigrazione, asilo e integrazione dei migranti, facendosi carico di proteggere e accogliere gli sradicati e di consentire loro un nuovo radicamento, qualora lo desiderino.

    Promuovere una politica comune europea
    Consapevoli delle responsabilità che gli Stati hanno attribuito all’Unione Europea in questi campi, occorre operare con la massima urgenza perché l’UE venga dotata degli strumenti necessari a far fronte ai flussi massicci dei profughi. L’art. 78 TFEU e la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea già prevedono la predisposizione di piani di intervento, che tuttavia la Commissione continua a guardarsi dal proporre al Consiglio.

    La presunta strategia globale della Task force sul Mediterraneo, dibattuta dal Consiglio europeo e sviluppata dal Consiglio informale Giustizia e affari interni dell’8 luglio – affidata a iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex – è fumo negli occhi, e sicuramente non costituisce una politica comune europea all’altezza della sfida con cui l’Unione, e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono chiamati a confrontarsi.[2]

    Chiediamo che il Parlamento europeo, attraverso la sua commissione competente – in collaborazione con la Presidenza italiana e la Commissione – proceda entro i prossimi sei mesi a una valutazione oggettiva dell’adeguatezza delle politiche e dei mezzi messi in atto dalle istituzioni e agenzie dell’Unione e dagli Stati membri e dei Paesi terzi.

    Predisporre corridoi umanitari
    Nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. Occorre creare un corridoio umanitario tra le coste dell’Africa e le coste europee, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, così da impedire nuove tragedie e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito; il che implica, al contempo, stroncare le nuove mafie dei trafficanti di uomini.

    Il Parlamento europeo deve essere a questo proposito compiutamente informato delle ragioni per cui operazioni come EUBAM[3] sul territorio libico non permettano di aggredire il traffico di esseri umani.
    Occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’Onu e dell’Unione Europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori.[4]

    Occorre dotare l’European Asylum Support Office (EASO) di poteri di coordinamento delle attività degli Stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l'accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti Lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea.

    Più in generale, l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’Europa.

    Assicurare la libertà di movimento e il mutuo riconoscimento
    Urge rendere permeabili i confini interni dell’Unione Europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio Schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Questo significa sanare le ferite inferte dall’applicazione deviata da parte di alcuni Stati membri del sistema di Schengen non solo alle persone, ma al concetto stesso di libertà e uguaglianza che la nostra cultura democratica afferma di voler tutelare. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento.

    Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem.

    Urge, allo stesso titolo, il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo, alla stregua di quanto già avviene per le decisioni di espulsione, così che le persone siano libere nel movimento e nel ricongiungimento familiare dentro lo spazio dell’Unione. Questo implica la necessità di applicare in modo corretto, secondo le richieste del Parlamento europeo e i suggerimenti dell’UNHCR, il regolamento Dublin III, privilegiando il criterio della riunificazione familiare; così come implica la necessità di adeguare il regolamento alla recente giurisprudenza della Corte in materia di minori.

    Facilitare richieste e visti
    Urge semplificare le procedure di richiesta dello status di rifugiato e di domanda d’asilo, così come urge l’istituzione di un sistema di visti temporanei richiedibili presso tutte le ambasciate degli Stati dell’Unione Europea nei vari paesi del mondo, per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita.

    Occorre approntare al più presto una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati, che metta fine alle politiche di esternalizzazione dell’asilo con cui l’Unione Europea attualmente demanda la competenza della protezione internazionale agli Stati di transito.

    Tutelare i minori non accompagnati
    Urge tutelare i minori senza accompagnamento. In Italia sono arrivati, nell'ultimo anno e mezzo, quasi 6000 minori non accompagnati. Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione; altri hanno eluso la sorveglianza e sono del tutto privi di protezione. Per sanare questa situazione è stata presentata una proposta di legge,[5] ma i minori senza accompagnamento sono spesso in transito verso altri paesi e occorre trovare soluzioni congiunte, a livello europeo, di accoglienza, identificazione e protezione.

    Promuovere l’istituzione dello ius soli
    Urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. Benché questo dipenda dalla competenza dei singoli Stati membri, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.

    Operare per una pax mediterranea
    Non vanno infine dimenticate le ragioni geopolitiche che sono all’origine delle crisi nei paesi terzi e che determinano il flusso dei rifugiati. Sotto questo profilo la capacità di previsione, analisi e coordinamento dell’Unione europea, dell’Alto rappresentante e dell’European External Action Service è assolutamente inadeguata. Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una "terza forza" in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d'Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci.

    La crisi migratoria mostra quanto sia urgente una politica estera attiva dell’Europa, attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli USA, che sono spesso all'origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini.

    Occorre infine un’azione coerente dell’Unione Europea nel far cessare la vendita di armi nelle aree instabili del mondo da parte di quei paesi membri, come Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia, che figurano tra i dieci maggiori esportatori. Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche.

    Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa.

    Primi firmatari: Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale, Alexis Tsipras, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Maurizio Ferraris, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Eleonora Forenza, Don Luigi Ciotti, Ermanno Rea, Enrico Calamai, Adriano Prosperi, Aldo Bonomi, Roberta De Monticelli...

    PER ADESIONI: corridoio.umanitario@gmail.com

    [1] Come affermato l’ultima volta nel Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2013.
    [2] Si veda in proposito il documento 11436/14 che Statewatch è sul punto di pubblicare.
    [3] EU Border Assistance Mission in Lybia.
    [4] Si veda progetto pilota.
    [5] Legge n. 1658, 4 ottobre 2013.

    L'Appello è stato inviato contestualmente a Repubblica
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