Tre articoli (di Gaetano Azzariti, Andrea Fabozzi, Vincenzo Accattatis) illustrano e commentano l'ulteriore passo della discesa verso la fine della democrazia in Italia. Ma possono ancora essere fermati. La loro pasticcionaggine è il primo alleato di chi vuole contrastarli, ma non è certo sufficiente.
Il manifesto, 9 agosto 2014
UNDELITTO, TANTI AUTORI
di Gaetano Azzariti
Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato.
Un’infinita tristezza. È questo il sentimento che prevale nel momento in cui si assiste alla votazione del Senato sulla modifica della Costituzione. Domani riprenderemo la lotta per evitare il peggio: perché la legge costituzionale concluda il suo iter dovranno passare ancora molti mesi e altri passaggi parlamentari ci aspettano, poi - nel caso - il referendum oppositivo. Dunque, nulla è ancora perduto. Salvo, forse, l’onore.
In pochi giorni il Senato non ha approvato una riforma costituzionale (buona o cattiva che si possa ritenere), bensì ha distrutto il Parlamento sotto gli occhi degli italiani. Nessuno dei protagonisti è stato esente da colpe. Si è assistito a una sorta di omicidio seriale, ciascuno ha inferto la sua pugnalata. Alcuni con maggior vigore, altri con imperdonabile inconsapevolezza, altri ancora non trovando altre vie d’uscita.
Il maggior responsabile è certamente stato il Governo che ha diretto l’intera operazione, senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento. Le progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività dell’azione del Governo in ogni passaggio parlamentare hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato. Non s’è trattato solo dell’anomalia della presentazione di un disegno di legge governativo in una materia tradizionalmente non di sua competenza.
Ma anche nell’aver costretto la Commissione - in modo poco trasparente - a porre questo come testo base nonostante la discussione avesse fatto emergere altre maggioranze. E poi, ancora, nell’aver voluto controllare tutto il lavoro dei relatori - è la presidente della Commissione che ha riconosciuto che il Governo ha “vistato” gli emendamenti presentati appunto dai relatori - con buona pace dell’autonomia del mandato parlamentare e del rispetto della divisione dei poteri.
Non solo i relatori, ma ogni senatore ha dovuto confrontarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà governativa, e molti si sono piegati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimostrato come un certo numero degli attuali senatori non tengano in nessun conto non solo la Costituzione, ma neppure la responsabilità politica, di cui ciascuno di loro dovrebbe essere titolare dinanzi al corpo elettorale.
I pochissimi voti segreti concessi su questioni del tutto marginali hanno fornito la prova di quanto fossero condizionati e insinceri i voti palesi. È stato così possibile evidenziare l’esteso numero dei rappresentanti della nazione che hanno votato con la maggioranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati maggiori dei rispettivi partiti. Una lacerazione costituzionalmente insopportabile. Se non si garantisce (o non si esercita) la libertà di coscienza sui temi costituzionali il principio del libero mandato serve veramente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vincolare i rappresentanti alla disciplina di partito. Ancora un colpo all’autonomia del Parlamento inferto - più che dal Governo o dai partiti - da quegli stessi senatori che non si sono voluti opporre palesemente a ciò che pure non condividevano.
S’è discusso e polemizzato sulla conduzione dei lavori, sull’interpretazione dei regolamenti e dei precedenti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è mancato è la consapevolezza che si stesse discutendo di una riforma profonda del nostro assetto dei poteri e degli equilibri complessivi definiti dalla Costituzione. Se si fosse partiti da questo assunto non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un andamento che ha sostanzialmente impedito ogni seria discussione su tutti i punti della revisione proposta. Non si sarebbe dovuto assistere allo spettacolo surreale che ha visto prima esaurire nella rissa e nel caos il tempo della discussione, per poi procedere a un’interminabile serie di votazioni, con un’Assemblea muta e irriflessiva che meccanicamente respingeva ogni emendamento dei senatori di opposizione e approvava la riforma definita dagli accordi con il Governo. Spetta al presidente di assemblea dirigere i lavori garantendo la discussione.
Non credo possa affermarsi che ciò sia avvenuto. Anche in questo caso per il concorso di molti. Persino dell’opposizione, la quale ha dovuto utilizzare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evidentemente, ostacola una discussione razionale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accettare nessuna forzatura sui tempi, nessuna interpretazione regolamentare restrittiva dei diritti delle opposizioni, nessuna utilizzazione estensiva dei precedenti. Si doveva invece ricercare il dialogo, la trasparenza, il concorso di tutti i rappresentanti della nazione. Era compito di tutti creare un clima “costituzionale”, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha ricercato. E temo non sia solo una questione di temperatura, ma - ahimè - di cultura costituzionale che non c’è.
La conclusione di ieri ha sancito la dissolvenza del Parlamento. La delegittimazione dell’organo titolare del potere di revisione della Costituzione è alla fine stata sanzionata dagli stessi suoi componenti. Il rifiuto di partecipare al voto conclusivo da parte di tutti gli oppositori rende palese che non si può proseguire su questa strada. Vedo esultare la maggioranza accecata dal successo di un giorno, mi aspetto qualche rozza battuta rivolta alla opposizione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cortina dell’irrisione, qualcuno si fermi per pensare a come rimediare. La Costituzione non può essere imposta da una maggioranza politica senza una discussione e contro l’autonomia del Parlamento.
FESTAALLA COSTITUZIONE. MA È SOLO L’INIZIO
diAndrea Fabozzi,
Senato. Primo sì del parlamento: la riforma governativa perde molti voti e resta sotto la soglia dei 2/3: il referendum non sarà una concessione di Renzi. Alla maggioranza del Nazareno mancano 50 voti e il testo è pieno di «bachi» che richiedono modifiche
I grillini sfilano in riga sotto il naso di Anna Finocchiaro, piantata di guardia al centro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non partecipare al voto sulla riforma costituzionale. I leghisti si sorbiscono tutto il dibattito, ma vanno via alla fine per permettere a Calderoli di distinguersi: il relatore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è contro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono caricati il peso dell’ostruzionismo, i non convinti del Pd, i frondisti di Forza Italia. Così la riforma «storica» del senato chiude il primo giro senza nessun voto contrario. Ma con tanti voti favorevoli in meno.
L’ultima e più importante di duemila e trecento votazioni ferma i SIa quota 183, più vicina alla soglia minima indispensabile per una legge costituzionale (161) che a quella di sicurezza per evitare il referendum (214), quando arriverà la quarta lettura. Alla maggioranza del patto ri-costituente mancano una cinquantina di voti: i «dissidenti» annunciati si confermano — 19 berlusconiani e 16 democratici — in più si contano una quindicina di assenti, numerosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha promesso la graziosa rinuncia alla maggioranza dei due terzi, per permettere il referendum confermativo. Il tabellone del senato dice che quella maggioranza non ce l’ha.
Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evidenti rimasti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei deputati, lasciano prevedere qualche modifica alla camera; la legge dunque dovrà tornare al senato. La pausa di riflessione imposta dall’articolo 138 della Costituzione e il referendum finale faranno il resto: della riforma si parlerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Nazareno dovrà dare prova di resistenza, sempre che non venga allargato anche al resto dei dossier (più) urgenti. Un’eventuale campagna per il no al referendum partirebbe in salita, ma potrebbe insistere sull’immunità (impopolare e non abolita) e sul voto diretto (più gradito, ma cancellato). «Il governo — prevede la capogruppo di Sel Loredana De Petris — si aspetta un plebiscito ma non è detto che vada così».
Nel frattempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma renziana, tra questo autunno e la prossima primavera gli italiani eleggeranno la gran parte dei consigli regionali e molti sindaci, senza sapere se stanno contemporaneamente selezionando i futuri senatori. Lo prevede il testo approvato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in condizione di accedere «con uguaglianza» alle cariche elettive. Le disposizioni transitorie potrebbero essere corrette, eliminando la lotteria della prima volta per una vera elezione di secondo grado, ma per farlo bisognerebbe rinviare di cinque anni la tanto acclamata trasformazione del senato. È questa una delle tante incongruenze pratiche che originano nella trasformazione dei consiglieri regionali e dei sindaci in legislatori, il pasticcio dell’immunità è solo quella più evidente.
Un’altra incongruenza è quella che denuncia il senatore Chiti, il più esposto dei 16 «dissidenti» Pd. Lungi dal «rappresentare le istituzioni territoriali», i senatori-consiglieri saranno selezionati dai capi partito e nel nuovo senato replicheranno la divisione in gruppi (anche se la riforma elude il problema, non prevedendo la proporzionalità di rappresentanza nelle commissioni). Infatti un emendamento che avrebbe obbligato tutti i rappresentanti di un territorio a votare allo stesso modo — un po’ come nel Bundesrat tedesco — è stato respinto dalla maggioranza. Anche su questo tema però molto è rinviato al futuro: approvata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere — con il vecchio o magari con il nuovo regime parlamentare — a dover scrivere le regole per le elezioni di secondo grado.
Magari anche questi «dettagli» successivi saranno affidati a un patto a due; visto che come da riassunto del capogruppo di Forza Italia Romani «questa riforma porta le firme di Renzi e Berlusconi» — niente male per il più solenne degli atti parlamentari. C’è per esempio una porta socchiusa per il referendum propositivo, che viene solo nominato nella nuova Carta ma che potrebbe essere sviluppato, con legge costituzionale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Calderoli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna materia» può suonare preoccupante. Altre però sono le preoccupazioni immediate. Alla camera, in autunno, si ripartirà dal tentativo di correggere il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, che al momento è nella disponibilità della maggioranza dopo le prime otto votazioni. E assieme al Quirinale, per il primo partito, c’è un altro omaggio: la possibilità di indicare 8 giudici della Corte Costituzionale, su 15.
di Vincenzo Accattatis
Il Senato in era renziana. Patti misteriosi. Elaborazione di una costituzione illegittima che ovviamente produce politiche illegittime (Gustavo Zagrebelsky, «La costituzione e il governo stile executive», la Repubblica di mercoledì). Fase di decostituzionalizzazione, di distruzione dei valori, a livello nazionale e internazionale. La forza che subentra al diritto. Forza più propaganda. Manipolazione della pubblica opinione. Costituzione materiale che si contrappone a quella formale. Un parlamento eletto incostituzionalmente che pretende «riformare» la Costituzione. Non riforma, ma «capovolgimento della Costituzione» pensata per durare, per infrenare il potere che deborda.
Camere sotto sferza come vecchio ronzino. Tutto in vista del presidenzialismo, di là da venire ma già di fatto largamente esistente: capo dello Stato eletto per la seconda volta da un parlamento di nominati plaudente, ancora in carica che dà a Renzi le direttive di governo come le dava a Monti, a Letta.
Storia dell’antiparlamentarismo italiano che si lega alla storia del presidenzialismo di fatto. Una lunga storia «nefasta».L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni ma l’llusione «di un governo dalle mani libere» è parimente nefasta. Il bonapartismo italiano di ieri e di oggi. Un’oligarchia al potere. Chi tira i fili sta dietro le quinte.
Da «libero parlamento» a «libero governo». Governabilità come nuovo volto dell’autoritarismo. Le opposizioni come intralcio. L’esecutivo che «educa» il parlamento. I deboli soccombono, le minoranze sono schiacciate. Il Pd «partito degli italiani» o «della nazione».
Zagrebelsky mantiene la sua analisi sul piano costituzionale italiano, ma essa vale anche come analisi di livello mondiale: la forza che prevale sul diritto, la normativa internazionale che diviene carta straccia, obliterata da Israele che nel nome di Sion bombarda la striscia di Gaza. Le terrificanti immagini di Gaza sono davanti agli occhi di tutti gli europei. Grandi manifestazione a Parigi, a Londra, in altre capitali europee. Gaza, «una prigione a cielo aperto», un simbolo per tutti noi?
L’Unione europea sanziona il «cattivo Putin» ma non Israele. Due pesi e due misure? L’Unione europea può ancora parlare, credibilmente, di difesa dei diritti dell’uomo? Israele «vince la battaglia ma perde la guerra». «Gaza e il futuro di Israele» (The Economist del 2.8.2014, in tutta copertina). Correggerei: Gaza e il futuro dell’Europa, del preteso «mondo libero» che si dice impegnato a difendere i diritti dell’uomo.
«Riducendo l’elezione diretta dei parlamentari a una sola Camera e lasciando ai partiti la discrezionalità nella selezione dei candidati, la legittimità della classe politica viene intaccata».
La Repubblica, 10 agosto 2014
CON la riforma costituzionale approvata ieri, anche il Senato italiano, come le Camere alte francesi tedesche e olandesi, diventa un organo ad elezione indiretta: non saranno più i cittadini ad eleggere i senatori ma saranno i consiglieri regionali e delle grandi città a nominare i loro rappresentanti a Palazzo Madama. Con questo passaggio il Senato si uniforma ad uno standard europeo nella sua composizione e modalità di elezione.
Va invece nella direzione opposta quanto alla nuova attribuzione di funzioni e poteri. In Francia, infatti, il Senato, anche in virtù di un processo di selezione che prevede una vera e propria elezione dei senatori da parte di collegi elettorali molto ampi, da un minimo di 227 elettorali ad un massimo di 720, ha conquistato maggiore incidenza nel processo legislativo. In Germania, la riforma costituzionale del 2006 ha ridefinito le funzioni tra le due camere al fine di evitare lo stallo provocato dalle diverse maggioranze, per risolvere il quale bisognava convocare un comitato di conciliazione: ha affidato più poteri ai Lander in modo che i loro rappresentanti in Senato non siano più sollecitati a fare ostruzionismo sulle norme federali che in qualche misura potrebbero investire le competenze dei Lander stessi. In sostanza, per lasciare al Bundestag più incisività nella sua azione legislativa sono state aumentate le sfere di autonomia e le capacità di intervento dei vari Lander. La maggiore efficienza decisionale è compensata da un approfondimento dell’impianto federale.
Se quindi mettiamo a confronto la nuova architettura istituzionale approvata (in prima lettura) ieri con le recenti evoluzioni in altri paesi europei, vediamo che la composizione e le funzioni del nuovo Senato portano entrambe ad incrementare l’accentramento e la verticalizzazione dei poteri nell’assemblea parlamentare nazionale. Le regioni hanno perso ambiti di intervento e Palazzo Madama non può più “interferire” nel processo legislativo oltre un certo limite. In tal modo il nostro sistema istituzionale diventa un unicum, in quanto l’esautoramento delle prerogative di un ramo del parlamento non è compensato da un ampliamento di poteri, vuoi di controllo o di iniziativa da parte di altri “poteri dello Stato”.
In questo quadro diventa quindi molto più importante di prima la ridefinizione della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto Italicum). È ben più rilevante perché, una volta sottratta ai cittadini la possibilità di eleggere i senatori, non si può ridurre la loro capacità di scelta anche per quanto riguarda i deputati. E le liste bloccate sono esattamente una coartazione di questa capacità. Il rimedio invocato da alcuni per ridare voce ai cittadini ed eliminare il “parlamento di nominati” consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e clientelismo. Meglio evitare quel ritorno al passato.
L’unica, vera, alternativa virtuosa allo stato dei fatti (e degli accordi), e cioè l’uninominale, preferibilmente a doppio turno come in Francia, scardinerebbe l’impianto proporzionale e premiale della riforma. Ma Berlusconi non vuole. E allora, visto che l’altro giorno il patto del Nazareno è stato saldamente imbullonato, ci terremo un sistema elettorale in cui i cittadini non hanno piena potestà di scelta dei loro rappresentanti nemmeno per la Camera dei Deputati.
Questo è l’esito imprevisto e problematico della riforma del Senato: riducendo l’elezione diretta dei parlamentari ad una sola camera e lasciando ai partiti totale discrezionalità nella selezione dei candidati, senza introdurre regole vincolanti per tutti come, ad esempio, le primarie, la legittimità della classe politica viene ulteriormente intaccata. In tempi di antipolitica l’Italicum non è il sistema migliore che sipossa congegnare.
«Le cose vanno meglio nei paesi in cui sono state messe in campo strategie efficaci di riforma. Dove quelle strategie sono mancate, vanno peggio; così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strombazzate riforme istituzionali non importa niente al mercato, all’Europa, nonché ovviamente agli italiani».
Il manifesto, 8 agosto 2014
Certo il presidente Grasso ha dato una mano, aprendo la strada all’uso estensivo del “canguro” e alla mordacchia del contingentamento dei tempi. Non convincono il richiamo al regolamento e alla prassi. Il valore di una interpretazione o di un precedente dipende non solo dalla mera sovrapponibilità degli elementi di fatto, ma anche — e talvolta soprattutto — dal contesto. E non c’è dubbio che la situazione oggi data non si fosse mai verificata prima. Una proposta di riforma totalmente intestata al governo, posta esplicitamente a condizione della sopravvivenza dello stesso e della legislatura, tesa a sminuire decisivamente il peso politico e i poteri formali dell’istituzione parlamento cui lo stesso governo dovrebbe essere sottoposto per la fiducia, il controllo, la vigilanza, volta a dare una torsione fortemente maggioritaria e centrata sull’esecutivo al sistema nel suo complesso. Che peso potevano mai avere precedenti e prassi in una situazione mai prima verificatasi, radicalmente diversa e nuova? E dunque si può concludere che senza scandalo le norme regolamentari sul voto segreto avrebbero potuto essere lette più estensivamente, e al contrario le prassi sul canguro e sul contingentamento più restrittivamente.
Le poche modifiche introdotte in aula o sono lifting di poca sostanza, come per l’iniziativa legislativa popolare o il referendum, o aggiungono ambiguità e aporie a un testo già pessimo. Perché governatori, consiglieri regionali e sindaci dovrebbero poter legiferare sulla famiglia o su temi di bioetica, morte e vita? Ne avranno mai fatto oggetto di campagna elettorale? Hanno un mandato? Per non parlare della partecipazione alla revisione costituzionale, e della ben nota questione dell’immunità-impunità.
Nel merito, la questione senato macchia indelebilmente una riforma che per altro verso contiene punti anche apprezzabili. È un’ovvietà la soppressione del Cnel, ripetutamente proposta nel corso degli anni. E la introduzione nel titolo V di una clausola di supremazia mirata all’unità della Repubblica e all’interesse nazionale corregge uno dei più gravi errori fatti dal centrosinistra nel 2001, con la cancellazione dell’interesse nazionale richiamato nella Carta del 1948. Bene anche la semplificazione delle potestà legislative, pur potendosi fare di più e meglio.
Ma il metodo offende. Perché apre su costituzioni deboli, non da tutti riconosciute come carta fondamentale della convivenza civile. Nel 1983, la commissione Bozzi non si avviò finché non ci fu la firma di Napolitano per il Pci. La proposta della commissione D’Alema morì con l’attacco di Berlusconi nell’aula della camera (28 gennaio e 27 maggio 1998) al testo, che pure Fi aveva contribuito a scrivere. Poi nel 2001 il primo cattivo precedente, con il centrosinistra che forzò sulla riforma del titolo V, sperando che il quasi-federalismo in esso contenuto potesse riguadagnare consensi al Nord. Sappiamo come finì. Il centrodestra restituì il colpo nel 2005, con la grande riforma della devolution e del primo ministro assoluto che il popolo italiano rifiutò nel referendum del 25 giugno 2006. Ora ci risiamo, con Berlusconi miracolato da Renzi e dal patto del Nazareno, e una maggioranza spuria che riduce al silenzio l’opposizione. Un pessimo viatico. Mentre bastava mantenere il senato elettivo per evitare ogni problema.
Almeno servisse a qualcosa. Ma per gli ultimi dati Istat siamo di nuovo in recessione. La politica dell’immagine non ha spostato di un millimetro i dati reali della crisi. Draghi dice alla Bce che vanno meglio i paesi in cui sono state messe in campo strategie efficaci di riforma. Al contrario, quelle strategie sono mancate nei paesi che vanno peggio. Così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strombazzate riforme istituzionali non importa niente al mercato, all’Europa, nonché ovviamente agli italiani.
Questo è un paese di grandi affabulatori. Prima Berlusconi, ora Renzi, in vantaggio perché ha la metà degli anni, parecchi vizi in meno, e tutti i capelli. Ma per entrambi il problema è stato ed è che le favole devono pur finire, prima o poi. E il rischio è che poi vissero tutti infelici e scontenti.
Corriere della Sera, 7 agosto 2014
Povero Palazzo Madama. La Camera Alta della Repubblica ridotta a un retrobottega di Montecitorio. Il senatore del Regno Benedetto Croce riuscì a parlare in quell’aula rossa persino ai tempi del fascismo, nel maggio 1929, contro il Concordato tra lo Stato e la Chiesa. «Un certo canagliume senatorio e un certo canagliume giornalistico - scrisse il filosofo nel 1947 - m’interrompevano con sconce invettive, e io li lasciavo sfogare, e poi ripetevo il mio detto finché la vinsi». Mussolini, irato, reagì con durezza e con villania: «Accanto agli imboscati della guerra vi possono essere gli imboscati della storia, i quali, non potendo per ragioni diverse e forse anche per la loro impotenza creatrice, produrre l’evento, cioè fare la storia prima di scriverla, si vendicano dopo, diminuendola spesso senza obbiettività e qualche volta senza pudore».
Con le dovute diversità di tempo, politiche e sociali, è parso di sentire le stesse umilianti invettive interrompere chi ha osato manifestare ora al Senato il proprio dissenso: non si deve far perdere tempo - è la parola d’ordine - al governo fautore e presentatore della riforma della Costituzione. (Una prerogativa riservata, tra l’altro, al Parlamento).
Le urla da stadio non sono accettabili e non servono le marce di protesta al colle più alto. Ma la discussione, anche la più aspra, è il sale della democrazia. L’ostruzionismo, come ha scritto la costituzionalista Lorenza Carlassare, «non è un insulto, ma uno degli strumenti classici di ogni democrazia che sia davvero tale». E Stefano Rodotà si è espresso così: «Non si può reagire con un “mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo”. Serve una competenza tecnica. Che non c’è stata. La qualità dei costituenti, voglio essere generoso, è molto molto bassa».
Se si pensa a chi furono i protagonisti della Costituzione del 1947, Luigi Einaudi, Moro, Terracini, Dossetti, Concetto Marchesi, La Pira, Togliatti, Lussu, Calamandrei, viene un po’ di malinconia. Il linguaggio usato dai giovani governanti contro chi dissente è corrivo e stizzoso, tra l’oratorio parrocchiale e il festino goliardico: i professoroni, i gufi brontoloni, i gufi indovini, come dichiara il presidente del Consiglio. Insieme con gli insulti che spuntano puntuali contro chi cerca di usare il cervello e ricordano «il culturame» di Scelba, gli «intellettuali dei miei stivali» di Craxi.
Il Senato diventa dunque una Camera delle corporazioni non più eletta dai cittadini: cessa il ping-pong tra Palazzo Madama e Montecitorio, come ha commentato festosa una ministra. Cento senatori anziché 315, di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica, 21 sindaci, 74 consiglieri regionali. Come faranno poi a funzionare gli enti locali da cui provengono non si sa: forse si tratta di una nomina premio per la buona prova data in non poche Regioni dove la corruzione ha trionfato, dal Piemonte alla Lombardia al Veneto al Lazio all’Abruzzo alla Campania alla Calabria alla Sicilia.
Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, col ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie? Il contingentamento dei tempi, la cancellazione degli emendamenti, i troppi no al voto segreto, la sostituzione militaresca, all’interno di una commissione parlamentare, di un senatore dissenziente dalle decisioni del gruppo di appartenenza, violando l’articolo 67 della Costituzione e l’articolo 31 del regolamento del Senato, non sono stati segni di libertà in un dibattito che non dovrebbe avere alcun limite. Non sarebbe stato più serio che fosse un’Assemblea costituente a discutere e approvare le riforme utili?
Il governo Renzi ha ottenuto la fiducia di un Parlamento eletto con una legge, il «Porcellum», dichiarata illegittima dalla Consulta. Il ministero è quindi di emergenza e dovrebbe operare a termine in attesa del ripristino della legalità costituzionale. Si impanca, invece, febbrilmente, proprio nella riforma della Costituzione. I maggiori costituzionalisti hanno dato, inascoltati, un giudizio severamente negativo al progetto: ora sono ridotti all’osso i giornali che ospitano le loro opinioni. «Basta col culto del “discussionismo”», ha detto Renzi.
Il governo delle larghe intese non demorde. Il segreto patto d’acciaio del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, un vincolo globale utile a entrambi, rende tutto più anomalo e fuori dalle regole di una democrazia. Siamo approdati davvero a una post democrazia senza controllo. La società, passiva, impotente, depressa, preoccupata, impoverita, segue quel che accade spesso allibita. L’economia è piatta, il Paese è in recessione, la stima dell’Istat è di un -0,2% del Pil, il viso del ministro Padoan sembra uno specchio abbrunato. Non pare proprio che sia questo il tempo fertile e adatto per certe riforme strutturali di uno Stato.
La riforma del Senato si propone di dare all’Europa un segno che l’Italia si sta rinnovando, che è davvero sulla giusta via come la Spagna? All’Europa, sembra chiaro, interessano piuttosto la quantità del nostro debito pubblico, il Fisco, il lavoro, la corruzione e le mafie, la politica economica, la limpidezza del fare più che riforme istituzionali malfatte. I tedeschi, i francesi, gli olandesi, gli spagnoli colti non si appassionano alla fine del bicameralismo, alla caduta del Senato. Di Palazzo Madama sanno probabilmente che alla fine del Cinquecento vi abitava il Caravaggio, ospite del cardinal Del Monte, e che lì vicino, nelle chiese di San Luigi dei Francesi e di Sant’Agostino, il gran pittore dipinse proprio in quegli anni alcuni dei suoi capolavori.
Lo “stato d’eccezione” che giustifica spostamenti negli equilibri tra i diversi poteri e rende accetto, quasi senza battere ciglio, che un parlamento eletto incostituzionalmente metta mano, addirittura, alla modifica della Costituzione». E l'obiettivo è chiaro: tornare indietro rispetto alla democrazia liberale e assoggettare al Sovrano il potere legislativo.
La Repubblica, 6 agosto 2014
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I numerosi segni di deriva autoritaria rendono di nuovo attuali le parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato il paese e l’Europa» .
Il manifesto, 5 agosto 2014
C’è un fatto, accaduto in questi giorni e apparentemente secondario, che mette a nudo l’anomalia della situazione politica e istituzionale del paese e delle iniziative che la accompagnano, a partire dalla «riforma» costituzionale e da quella della legge elettorale. È la mancata elezione, da parte del parlamento in seduta comune, dei componenti di sua spettanza del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguente proroga senza limiti predeterminati del Consiglio scaduto (della cui integrazione si riparlerà, forse, a settembre).
Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elettivo (per esempio il parlamento) resta in carica, ancorché scaduto, perché non sono state indette nuove elezioni: lo dico sommessamente, sperando che l’affermazione venga considerata un paradosso e non un’idea utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra storia costituzionale (salvo un remoto e diverso precedente) e — si noti — l’elezione non è stata neppure tentata.
La parentesi di rappresentatività di un organo di rilevanza costituzionale non è cosa da poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e strumentalmente — tratto argomenti a conferma della necessità di cambiare le regole. È vero esattamente il contrario! In tutte le precedenti consiliature, anche nei momenti di più aspra conflittualità politica, l’elezione dei componenti di spettanza del parlamento è avvenuta nei termini (e spesso con l’indicazione di giuristi di prim’ordine). È, dunque, evidente che il difetto non sta nelle regole (rimaste inalterate) ma nelle forze politiche e, in particolare, nella maggioranza parlamentare, all’apparenza incapace e disinteressata a promuovere confronto e convergenze. Ma è solo un’apparenza, ché non si tratta di inadeguatezza ma dell’ennesima dimostrazione della cultura che permea la maggioranza politica (quella palese e quella allargata di supporto): una cultura che rifiuta il confronto e la ricerca di soluzioni condivise e conosce solo le ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfasciare il sistema. Non è cosa nuova, neppure nella storia repubblicana. Ma conviene segnalarne gli ascendenti.
All’inizio dell’epoca berlusconiana lo teorizzò in maniera brutale il costituzionalista di riferimento della destra, Gianfranco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò testualmente: «È sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». Non c’è riuscito Berlusconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il consenso della metà più uno degli italiani, ma solo — come ama ripetere — di 11 milioni di votanti, dimenticando quei 38 milioni di cittadini che nessuna delega o sostegno gli hanno dato.
Qualcuno — tra gli altri i migliori costituzionalisti italiani — ha provato a segnalare l’anomalia di questa doppia «riforma» (costituzionale ed elettorale), dei suoi contenuti e delle sue modalità. Subito è arrivata la severa e sprezzante risposta del presidente del Consiglio e della ministra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno ironizzato sull’età e sulle competenze dei soliti «professoroni». Anche qui, non è inutile ricordare i precedenti: questa volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di istituzioni che di ordine nelle piazze… — il quale, nel giugno 1949, si scagliò contro il «culturame» degli intellettuali di cui la politica dovrebbe liberarsi. Allora non mancarono le prese di distanza e le reazioni politiche. Oggi tutto tace. E, se non sorprendono le parole di Renzi (la cui considerazione per la cultura è dimostrata dalla concessione degli Uffizi come trampolino per sfilate di moda), spicca il silenzio miope e complice dei (pochi) residui intellettuali del suo partito.
C’è di che preoccuparsi, e non poco. Ma, mentre tutto questo accade, il presidente del Senato gigioneggia sul termine «canguri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in Trentino, si scandalizza che taluno evochi derive autoritarie (sic!). Un tempo, per molto meno (la cosiddetta legge truffa), si dimisero ben due presidenti del senato mentre l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicembre 1952, citava nientemeno che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anziché esorcizzarli, sarebbe meglio cercare di ripristinarli. Anche a costo di turbare la tranquilla vacanza del presidente della Repubblica.
Ecco come saranno utilizzati i fondi che spetteranno ai tre europarlamentari eletti in Italia nella lista "L'altra Europa con Tsipras". Un esempio di trasparenza. Come faranno gli altri? ci piacerebbe saperlo.
Il manifesto, 2 agosto 2014
Le regole del Parlamento Europeo riguardo ai contributi ricevuti da ciascun parlamentare per le proprie iniziative politiche, non possono non costituire le linee-guida finanziarie del nostro mandato. Ogni commistione tra politica nazionale di partiti o liste e lavoro del singolo parlamentare è espressamente vietata dalle regole del Parlamento europeo. I controlli dell’ufficio frodi del Parlamento europeo (Olaf, European anti-fraud Office) sono divenuti meticolosi e severissimi. Questi vincoli, introdotti di recente, non sono limitazioni, ma tutele della libertà politica dei cittadini e della democrazia parlamentare.
L’indennità di assistenza parlamentare (21mila euro mensili), disciplinata dall’articolo 33 e seguenti, è destinata a coprire unicamente l’attività di assistenza e dunque le assunzioni che sono necessarie e strettamente legate all’esercizio del mandato. L’elenco delle spese di ufficio rimborsabili (4.299 euro mensili), approvato dall’ufficio di presidenza il 15 luglio 2010, esclude ogni spesa che rappresenti una sovvenzione o una donazione di natura politica.
Questo significa che noi tre eurodeputati della Lista non potremo nemmeno, per legge, finanziare aperture di uffici in Italia che siano al tempo stesso del parlamentare interessato al suddetto ufficio (e intestatario del suo affitto) e del personale o delle attività del movimento di appartenenza.
Tuttavia ciascuno di noi farà la sua parte: detraendo la somma dai nostri emolumenti personali (che ammontano a 6mila euro al mese) ci faremo tutti e tre personalmente carico di coprire il debito contratto dalla Lista durante la campagna elettorale, per un importo complessivo di 24.925 euro, maturato al 25 maggio 2014. Da oggi e fino all’estinzione dei debiti, verseremo ciascuno una somma pari a 1.500 euro mensili. Seguiranno, una volta il debito estinto e quando la Lista avrà una sua struttura stabilizzata, contributi volontari decisi da ciascuno di noi.
Grazie al quorum che abbiamo raggiunto come L’altra Europa con Tsipras, sarà inoltre possibile chiedere alla segreteria generale del Gue-Ngl l’assunzione di due funzionari supplementari addetti alla delegazione italiana (al momento ce n’è uno soltanto), i cui nominativi, pur dovendo rispondere ai soli criteri di competenza ed essendo sottoposti al vaglio della segreteria del Gue-Ngl, terranno conto delle diverse anime che hanno contribuito e contribuiscono al consolidarsi della Lista.
Egualmente possibile è assumere almeno un assistente “locale” che oltre a occuparsi della nostra attività parlamentare in Italia provenga dalla fila della Lista e curi i contatti con il movimento politico, smettendo tuttavia di lavorare per esso attivamente, come dirigente o quadro, in ottemperanza alle disposizioni del Parlamento europeo. Cosa che personalmente ho già fatto. Con la rispettiva indennità di assistenza parlamentare, ciascuno di noi assumerà inoltre, accanto agli assistenti accreditati a Bruxelles, alcuni assistenti “locali” con mansioni ben definite. Io ad esempio, tra gli altri (e precisamente un consigliere sulle questioni costituzionali della Ue, un webmaster, un terzo erogatore-commercialista, un consulente del lavoro), assumerò un europrogettatore, le cui competenze saranno messe a disposizione di tutti e tre gli europarlamentari, per il miglior svolgimento del lavoro comune e per rispondere alle domande che verranno dai nostri elettori. In questa indennità dovranno essere comprese anche le relative spese di trasferta.
Resta un importo di 50mila euro all’anno per ciascun deputato, che verrà utilizzato per il finanziamento delle iniziative politiche (seminari, convegni, giornate di studio, ecc.) che la Lista prenderà in Italia. La condizione è che le iniziative vengano attuate in connessione con il Gue-Ngl, perché le risorse sono erogate dai fondi a disposizione del gruppo parlamentare europeo. Il nome Gue-Ngl deve apparire accanto al nostro, nelle locandine e negli annunci delle iniziative.
Questo ci permetterà di accogliere molte e importanti iniziative capaci di unire la nostra azione parlamentare alle proposte e alle lotte sul territorio, nell’inizio di un processo che ci vedrà impegnati ad affrontare grandi sfide politiche e a costruire un fronte di solidarietà in Europa.
*europarlamentare L’altra Europa con Tsipras
I conti si aggiustano con trovate contabili e la rivalutazione del Pil che ora contabilizza anche attività illecite. Ma alle vita delle persone a al sistema Paese chi ci pensa?
La Repubblica, 3 agosto 2014 (m.p.r.)
Roma. Prima la presa d’atto della frenata dell’economia, poi la rinuncia all’allargamento del bonus di 80 euro a pensionati e partite Iva (che sarebbe costato 5 miliari), quindi l’impegno a lavorare d’agosto alla legge di Stabilità. La task force renziana ha già in mente la contromossa autunnale alla caduta del Pil e alla rinnovata tensione sui conti pubblici. Un piano d’emergenza per trovare 20 miliardi per il 2015 e costruire un cordone di sicurezza intorno ai conti pubblici, cercando di evitare cure drastiche a colpi di austerità. A far scaldare i motori, dopo le polemiche delle ultime ore e il «caso» Cottarelli, è intervenuta nel frattempo la mancata bollinatura da parte della Ragioneria generale di due norme del decreto Madia, approvato nei giorni scorsi alla Camera: il pensionamento di 4.000 insegnanti con le norme, pre-Fornero, di «quota 96» (costo nel 2014 circa 50 milioni) e l’anticipo del pensionamento dei professori universitari da 70 a 68 anni (costo un centinaio di milioni). La Ragioneria pone rilievi per la qualità e l’entità delle coperture, soprattutto per la seconda misura, e il governo, al Senato, è intenzionato a correre ai ripari: Madia e Morando sono al lavoro nel week end.
Riferimenti
Si veda su eddybburg di Piero David e Antonella Gangemi Metti sesso, droga e contrabbando nel calcolo del Pil. Altre informazioni sul Pil utilizzando il cerca
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«Il nuovo libro di Alberto Burgio analizza gli scritti dell’intellettuale e dirigente comunista dal periodo torinese ai
Quaderni dal carcere. Un’opera presentata però come un sistema unitario, mettendo così in secondo piano le discontinuità interne che la caratterizzano». Il manifesto, 3 agosto 2014
Dopo Gramsci storico (2003) e Per Gramsci (2012), Alberto Burgio torna sul marxista e comunista sardo con un volume corposo e denso, punto di arrivo di un lungo lavoro di scavo e riflessione. In Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, pp. 489, euro 27) vengono riversati studi già noti, ma molto materiale è aggiunto, e il tutto è riordinato al fine di ricostruire l’insieme della riflessione gramsciana, dagli anni torinesi a quelli del carcere. Un contributo di grande ricchezza, che presenta però anche tratti problematici, che meritano di essere quanto meno indicati e, per quel che è qui possibile, discussi.
«La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)
Sarebbe bello, e io sarei felice davvero di lasciare il mio posto a un giovane. Ma è una balla, perché le migliaia di professori che lasceranno non verranno sostituiti se non in minima parte. L’Università è bloccata da più di un decennio e rimarrà bloccata perché i professori che vanno in pensione o muoiono non vengono sostituiti. Non si sa da chi gli studenti che non si possono permettere di studiare all’estero andranno a lezione dopo questa intelligente epurazione. Quanto ai professori vecchi e dementi, lasceranno l’Università senza rimpianti: non hanno avuto molto da essa negli ultimi quarant’anni.
Senza pace e lavoro. Una riflessione sulla democrazia economica che rende muta e impotente l'Unione Europea sul dramma dei conflitti che esplodono ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Il manifesto, 2 agosto 2014
Il fine ultimo della gestione della crisi economico-finanziaria sviluppatasi a partire dal 2008 e della gestione dell’austerità con cui, soprattutto inEuropa, si è preteso di contrastarla (copiando dagli Usa, che però quelle politiche le predicano ma non le applicano) era, ed è, una ulteriore riduzione delle quote di Pil destinate a lavoro, pensioni, sanità e istruzione e, soprattutto, la privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, del territorio e dell’ambiente. Il tutto a beneficio della finanza internazionale, a cui era stato da tempo trasferito il diritto di creare denaro attraverso il cosiddetto «divorzio» tra Governi e Banche centrali.
In questo quadro si è sviluppata fino al parossismo una cultura di governo ragionieristica, attenta fino allo spasimo (politico) a centellinare le risorse dedicate al lavoro e al benessere delle popolazioni per proteggere i grandi interessi finanziari che hanno scatenato la crisi e che continuano a beneficiarne.
Quella cultura e quelle politiche da ragionieri, gestite dalle istituzionidell’Unione Europea di cui i Governi degli Stati membri, soprattutto nella zona euro, sono meri esecutori, hanno aperto una voragine tra l’ideale dell’Europa unita e la difesa, sempre più debole, delle condizioni di vita della maggioranza dell’elettorato. Ma ha reso anche assai meno attrattivo l’obiettivo di unirsi alla compagine europea per quelle nazioni che ne sono ai margini: vedere come l’Unione Europea strapazza il popolo greco, ma anche quelli italiano, spagnolo, portoghese, irlandese e ora anche francese (ma sempre più anche quelli degli Stati più forti) non è allettante.
Sfumata quella della Turchia, le richieste di nuove adesioni, come quella del Governo ucraino, nascono più per non rimanere schiacciati dai conflitti generati dall’espansionismo della Nato (cioè degli Stati Uniti, verso cui l’Unione Europea mostra sempre più la propria sudditanza) che dall’attesa di qualche beneficio. Ma quella sudditanza è la conseguenza della cultura ragionieristica con cui viene governata l’Unione, che la rende muta e impotente di fronte all’esplodere di conflitti sempre più gravi ai suoi confini: Libia, Siria, Ucraina, Iraq, Israele e Palestina.
Molti di questi conflitti, compreso uno nella stessa Israele, sono nati da rivolte popolari contro le politiche liberiste dei rispettivi governi, e sono poi stati schiacciati o assorbiti dalle guerre perché non hanno trovato in Europa una sponda adeguata. Ora, mentre si moltiplicano i vertici sui decimi di punto di sforamento del deficit da concedere ai governi di paesi ormai al collasso per via di vincoli ben più sostanziosi imposti da debiti e trattati insostenibili che non vengono messi in discussione (una riedizione del dibattito sul sesso degli angeli che impegnava i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando), i territori che circondano l’Europa si infiammano.
Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire. Perché quei paesi in fiamme hanno molto peso nell’approvvigionamento energetico dell’Europa, e la potrebbero portare al collasso. Perché tutto il continente verrà investito sempre più da flussi di profughi di dimensioni bibliche: oggi si trova insostenibile l’arrivo di qualche decina di migliaia di derelitti, che pagano la loro fuga con un pesantissimo tributo di morte, senza rendersi conto che i profughi prodotti dalle guerre che ormai circondano l’Europa sono milioni; che milioni, e non migliaia, ne ospitano i paesi limitrofi: Turchia, Giordania, Iraq, come già Siria e Giordania ai tempi della guerra in Iraq; che prima o poi anche loro cercheranno un rifugio in Europa; e che i paesi a cui si vorrebbe affidare il compito di fermare quei flussi sono quelli che li alimenteranno sempre di più.
Perché una quota crescente della popolazione europea è composta da nativi di paesi sconvolti da conflitti che non tarderanno a ripercuotersi anche qui, intrecciandosi con conflitti sociali sempre più aspri. Perché guerra chiama guerra e senza strumenti per promuovere la pace (una politica estera di ampio respiro e risorse consistenti, umane, economiche e culturali) se ne finisce travolti.
La drammaticità del momento, che si somma al collasso degli equilibri economici su cui avrebbe dovuto reggersi il progetto europeo rende evidente che ci troviamo non alla vigilia, ma già nel bel mezzo di una svolta epocale che ci impone di affrontare, dentro la prassi quotidiana e dentro le lotte in difesa delle proprie condizioni di vita, una profonda revisione dell’orizzonte entro cui ci muoviamo: una revisione che riguarda innanzitutto i concetti di democrazia e di lavoro.
Due entità congiunte, come peraltro prevede l’articolo 1 della Costituzione italiana, ancorché discusso e varato in un contesto del tutto differente. Occorre elaborare e poi contrapporre al pensiero unico, che esalta la competitività, l’individualismo proprietario, il consumo come motore dello sviluppo, il merito come sanzione di una presunta superiorità di chi si è affermato (e il servilismo, che ne è la diretta conseguenza) una cultura nuova, che promuova la solidarietà, la condivisione, la sobrietà, la cura del prossimo, della natura e del vivente: tutte cose che costituiscono l’orizzonte di una rifondazione integrale della democrazia.
Non è solo una battaglia culturale da affidare all’elaborazione teorica di pochi e all’intelligenza collettiva dei più; deve investire anche gli affetti e il vissuto quotidiano di tutti: là dove il pensiero unico è riuscito spesso a far breccia e ad annidarsi in ciascuno di noi senza che nemmeno ce ne avvedessimo. E’ un lavoro di scavo che richiede un reciproco interrogarsi e rimettersi in gioco, il cui esito non può che essere quella conversione ecologica di cui parlava Alex Langer.
Un processo che investe contestualmente il nostro sentire, le nostre convinzioni, i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti soggettivi e le forme della partecipazione e del conflitto sociale per trasformare la strutture del contesto in cui operiamo, a partire da quello economico: che cosa produciamo, per chi, con che cosa, come e dove. Perché o la democrazia riesce a investire anche l’ambiente economico, l’impresa, la sua organizzazione, il suo mercato, il suo rapporto con il territorio e chi lo governa, o, se resta ai margini o al di fuori di queste cose, non ha più modo di esistere.
È solo facendosi protagonista di una lotta politica e culturale per queste forme di democrazia integrale che l’Europa, cioè i suoi popoli, possono offrire al resto del mondo, e innanzitutto a chi abita ai suoi confini, una prospettiva di pace e di solidarietà che ne faccia un modello. E che prospetti una strada per sottrarsi a quello stato di guerra permanente in cui si traduce ormai da tempo la convinzione che dall’Europa così com’è, dai suoi modelli di vita e dalla ferocia che esercita verso i suoi stessi cittadini non c’è niente da attendere e niente da riprendere.
Ma democrazia e lavoro si intrecciano inestricabilmente. Non il lavoro nelle forme coatte in cui esso si esercita oggi in tutto il mondo; cioè emarginando e deprimendo salute, vita, desideri, capacità e creatività di chi lo svolge – così come si devasta la natura e il vivente per ricavarne solo la millesima parte, e la peggiore, di quello che potrebbero dare – ma potenziando al massimo, attraverso conflitti con cui recuperare gradualmente per tutti una capacità di autogoverno: sia sul territorio che all’interno delle imprese che sulle grandi questioni di indirizzo; in modo da rendere la creatività di ciascuno il vero motore di uno «sviluppo» radicalmente diverso.
In questa dimensione un reddito di cittadinanza universale è oggi non solo un obiettivo unificante per le lotte dei precari e dei disoccupati, giovani e anziani, come dei lavoratori non più protetti dall’articolo 18, ma una condizione per poter imporre scelte progressivamente sempre più libere su come e dove lavorare, e per quanto tempo, e se sotto padrone o per proprio conto, e per fare che cosa; cioè per trasformare il lavoro in un’attività più libera. Che è ciò che approssima maggiormente, in un contesto in cui partecipazione e conflitto si intrecciano senza soluzione di continuità, la società che vogliamo e che abbiamo il compito di proporre a tutti.
«». La Repubblica
Consegnare pacchi e lettere in tutto il Paese, anche nelle sperdute frazioni di montagna o nei borghi con trenta abitanti. E farlo, se serve, per cinque giorni alla settimana, a costo di allungare la strada di decine di chilometri pur di recapitare una cartolina illustrata. Questo è il servizio universale che Francesco Caio, amministratore delegato di Poste Spa, afferma di non poter più sostenere, perché troppo costoso rispetto alla compensazione che lo Stato è disposto a versare.
Intervista a Stefano Rodotà: «La qualità dei nuovi costituenti è bassa, affrontano l’aula da incompetenti. Il premier è già in campagna referendaria. E stavolta dovremo sconfiggere il blocco Pd-Forza Italia. Ma le opposizioni hanno sbagliato a rivolgersi a Napolitano. E poi trasformare le camere in curve da stadio».
Il manifesto, 30 luglio 2014
«Un po’ di memoria non guasterebbe. Sento dire:’mai l’ostruzionismo ha fatto cadere un provvedimento’. Falso: io ricordo l’ostruzionismo che fece cadere il primo decreto di San Valentino, il decreto Craxi sui punti della scala mobile, nell’84. Poi fu reiterato e passò. E ricordo un ostruzionismo in cui i radicali fecero addirittura una gara interna fra Marco Boato e Massimo Teodori su chi avrebbe parlato più a lungo. Una mattina eravamo esausti, ma Boato non si fermava perché voleva battere il record. E siccome non si fidava di quello che gli dicevano i suoi compagni, a un certo punto disse: ’se me lo dice Stefano Rodotà ci credo’. Io, che ero deputato della sinistra indipendente, andai e gli dissi: guarda, hai parlato più a lungo. E lui finalmente smise». Memorie di un ex vicepresidente della camera, Stefano Rodotà. Era il 1981, si discuteva sul fermo di polizia, Boato parlò 18 ore e cinque minuti. Le regole, per fortuna del presidente Grasso, sono cambiate.
Oggi il presidente Grasso è contestato dalle opposizioni per i suoi spacchettamenti, i suoi ’canguri’ (un meccanismo che con un voto fa decadere gli emendamenti simili fra loro, ndr), e le sue tagliole.
È una materia che attiene alla procedura parlamentare e che dovrebbe essere di stretta interpretazione, strettissima quando si tratta di modifiche della Costituzione. Sono le garanzie del procedimento, non possono essere rimesse alla decisione della maggioranza. Nel dubbio, c’è la giunta del regolamento.
La giunta ha deciso a maggioranza che ’il canguro’ è legittimo anche per le leggi costituzionali. C’è una vecchia battuta: la maggioranza si tutela con i numeri, la minoranza con le regole. A colpi di ’canguro’ al senato cadono centinaia di emendamenti alla volta. Tutto normale?
Di fronte all’uso ostruzionistico degli emendamenti è possibile procedere con il cosiddetto canguro. Ma diciamo la verità: questa vicenda è stata gestita dalla maggioranza e dal governo senza una piena consapevolezza politica. Quando si sa quello che sta per succedere, non si può reagire con un ’mascalzoni, state facendo l’ostruzionismo’, serve competenza tecnica. Che non c’è stata.
Hanno fatto bene le opposizioni a arrivare in corteo al Colle e invocare il presidente Napolitano?
La maggioranza rifiuta ogni discussione per migliorare la legge. E in aula e fuori volano parole tipo ’fascista’. Grillo parla di colpo di stato.
Bisogna fare attenzione al linguaggio e a certe manifestazioni. Non apprezzo la riduzione delle aule parlamentari alle curve di uno stadio.
Legittima difesa, dicono le opposizioni. Anche perché contro di loro Renzi usa modi spicci: ’gli ostruzionisti hanno l’Italia contro’.
È una brutta traduzione del ’vox populi, vox dei’. Le battaglie sui diritti sono sempre nate come battaglie di minoranza. Benedetto Croce, da senatore, nel ’29 votò contro i Patti Lateranensi dicendo: ’di fronte a uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza’.
Il Pd minaccia Sel di rompere le alleanze nelle amministrative. È una prevedibile ritorsione politica?
Rivendico l’uso della parola «autoritario». Siamo stati noi, intendo Zagrebelsky, Carlassare, Urbinati…
I famosi «professoroni».
Orrenda parola ma sì, siamo stati noi ’professoroni’ a dirla e la ribadisco: questo è un modo autoritario di procedere. La discussione sulla Costituzione non può essere inquinata da altro. Il lavoro di scrittura della Costituzione sopravvisse alla rottura del governo in cui c’erano socialisti e comunisti, però non si disse ’abbiamo i numeri e allora andiamo avanti’. Il conflitto politico, che era molto aspro, fu tenuto distinto dal lavoro costituente. Ma che argomento costituzionale è ’se non accetti sei fuori dalle giunte’? La saggezza dei tempi e la qualità politica di quella generazione dovrebbe darci lezioni. E ora chissà quante critiche mi faranno i cosiddetti ’innovatori’.
Come giudica la qualità dei nuovi costituenti?
Voglio essere generoso: è molto molto bassa. La scarsa legittimazione politica di queste camere, che non sono non adeguatamente rappresentative perché sono state costituite con una legge dichiarata incostituzionale, avrebbero dovuto consigliare la cautela e la ricerca di allargare la maggioranza con una discussione pubblica adeguata. Ma la discussione pubblica non è aizzare i cittadini contro le camere.
Il premier le risponderebbe: ho preso il 41 per cento.
E no: questo è un argomento che abbiamo contestato a Berlusconi. Che diceva: i cittadini sanno che sono indagato ma mi votano. Come se il voto fosse un lavacro. Il voto è importante per l’investitura politica, ma il 40,8 per cento non significa che sei legittimato a fare qualsiasi cosa. Piuttosto, forte della sua investitura politica poteva proporre di togliere dalla Costituzione l’obbligo al pareggio di bilancio, che altri paesi non hanno e che è un ostacolo a usare quella flessibilità che chiediamo all’Europa. Sarebbe stata una mossa costituzionalmente ben motivata. E invece queste riforme sono un’operazione di politica interna che distrae l’attenzione dalle misure più difficili da maneggiare. E quindi si dice: ’non possiamo fare niente perché c’è l’ostruzionismo’.
Comunque a colpi di canguro e tagliole alla fine la riforma passerà. Poi però ci sarà il referendum. Voi che siete contrari, che farete?
Innanzitutto ci spieghino in che modo sarà previsto. Dovrebbe essere previsto nella stessa riforma del Senato. Dal punto di vista formale il governo Letta era stato corretto, nel ddl costituzionale di modifica dell’articolo 138 aveva previsto la possibilità del referendum.
Non crede che semplicemente potrebbe non esserci il sì dei due terzi delle camere?
E allora il referendum non sarà una concessione. Ma è chiaro che tutta l’attuale maniera di impostare la discussione, quei ’avete contro l’Italia’ è un modo per precostituire la campagna referendaria. Questa volta il grande blocco Pd-Forza italia sarà difficile da sconfiggere. Bisognerà stare tutti in campo.
Professore Rodotà, se ci sarà un referendum a sostenere le ragioni del no sarete molto più soli. Non teme che la sconfitta si possa trasformare in un boomerang?
La ’legge truffa’ fu battuta con l’apporto fondamentale di due piccoli piccoli partiti, Alleanza democratica e l’Unità popolare. Che fra l’altro avevano dei gran ’professoroni’. Mi ricordo il comizio di Arturo Carlo Jemolo, che non era certo un uomo dalla facile oratoria pubblica. E invece l’eloquenza magnifica di Piero Calamandrei. Certo non mi voglio paragonare a lui. Ma comunque il nucleo originario dei ’cattivi’ professori contrari a queste riforme è aumentato. Studiosi non ostili al governo, anzi che erano nei vari comitati di saggi e nelle riunioni della ministra Boschi, sono critici sull’impianto complessivo delle riforme del senato e della legge elettorale. Sarà difficile, ma faremo la nostra parte.
Ora l'Associazione dei costruttori dichiara che le aziende condannate saranno espulse dall'Ance. Ma se a comportarsi in questo modo "eran tutti", come ha fatto l'Associazione a non accorgersi mai di nulla e ad aspettare che fosse la magistratura ad occuparsene?
La Repubblica, 31 luglio 2014 (m.p.r.)
Roma. Dieci delle quindici principali aziende edili italiane sono accusate di aver pagato mazzette, frodato lo Stato, costruito fondi neri e staccato false fatture, brigato per truccare bandi di gara. Per questo, da Milano a Bari, ci sono indagini o processi in corso su di loro: Mantovani, Maltauro, Cmc, Condotte Spa, Grandi Lavori Fincosit, solo per citarne alcune. Nell’elenco dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, figurano tra le migliori ditte italiane. Ma se le guardi attraverso l’ottica delle inchieste della Guardia di Finanza, l’immagine è molto diversa. E si capisce come un appalto truccato oggi non sia soltanto un problema della politica: perché se c’è un senatore (Antonio Azzolini, Pdl, presidente della commissione bilancio al Senato) pronto «a dare a un dirigente due cazzotti se non firma», c’è sempre un imprenditore disponibile a una «consulenza», un «gesto di amicizia», a sottoporsi «a un salasso per ogni competizione, politiche, regionali, comunali» (Piergiorgio Baita, ex ad della Mantovani). Insomma, se c’è qualcuno pronto a intascare, c’è sempre qualcun altro con la mano sul portafoglio.
«Ho preso la penna per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali».
Il manifesto, 30luglio 2014
Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai).
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato perché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio. E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».
Insieme a quello delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, i campi abbinati della manutenzione del territorio – contro il dissesto edilizio e idrogeologico – e quello di una nuova agricoltura ecologica, multicolturale e multifunzionale, di prossimità e di piccola impresa, sono quelli che offrono maggiori prospettive di occupazione ai programmi di riconversione ecologica.
Ovviamente tutti questi temi-obiettivi richiedono risorse e investimenti: il che radica nel contesto della quotidianità e delle lotte in corso la nostra battaglia contro il debito, l’austerità, il fiscal compact e le politiche di aggressione ai servizi pubblici, sottraendola in parte al rischio di rimanere un tema astratto.
Privare il Terzo mondo delle sue risorse naturali e contemporaneamente dotarlo di armi fomentando le guerre fratricide sono due degli strumenti largamente usati nella fase neoliberista del colonialismo. Di quella fase Matteo Renzi è convinto partecipe, e impiega le sue doti di abil ecommesso viaggiatore.
Sbilanciamoci.info, 24 luglio 2014
Il nostro presidente del consiglio, l'instancabile Matteo Renzi, è stato in Africa la settimana scorsa e ha portato con sé, per esempio in Mozambico, una delegazione di cui facevano parte i numeri uno di Eni, Claudio Descalzi e di Finmeccanica, Mauro Moretti, nominati di recente in quei ruoli, per una scelta decisa, dopo lungo dibattito e attenta riflessione, dal governo nazionale.
Eni è al primo posto tra le multinazionali italiane e si occupa d'idrocarburi; li scava, li trasporta, li commercia in molte aree del mondo. Finmeccanica dal canto suo è soprattutto una fabbrica di armi e di avanzati sistemi d'arma. Non è difficile immaginare il motivo della partecipazione di Moretti e Descalzi alla spedizione africana stessa; si tratta di vendere e di comprare, un'attività che s'inquadra nelle parole stesse del presidente, raccolte dalla Rai: «Un Paese ambizioso costruisce strategie di medio periodo. Tra dieci anni energia, agrofood, export sarà nel cuore dell'Italia prima volta».
Così Matteo Renzi spiega, da Luanda, ultima tappa del suo tour in Africa, gli obiettivi della missione in Mozambico, Congo e Angola. La crescita e i posti di lavoro sono la vera urgenza di Renzi. Anche per rilanciare il «made in», il premier è in Africa con l'obiettivo nei mille giorni di sostenere 22mila imprese e produrre solo con l'export un punto di Pil».
Un punto di Pil. Ecco il risultato che un grande, pur se un po' seduto, paese europeo pensa di ricavare vendendo a prezzi elevati e comprando bene servizi avanzati e altre mercanzie a un gruppo di paesi tra i più poveri del mondo. L'idea stessa di un commercio siffatto riempie di slancio le imprese associate nella Confindustria.
Si parla di 22 mila imprese, ma pare piuttosto la famosa Cooperazione italiana che torna, che torna anzi nell'Africa a sud del Sahara, come ai tempi gloriosi della Somalia delle autostrade dei giorni di Siad Barre e dell'Etiopia redenta e in fiore per il Tana-Beles dei giorni di Menghistu.
Quella cooperazione italiana in Africa è stata forse una vera matrice della prima Tangentopoli: venivano trascurate le regole e l'onestà dei commerci, la bravura e il merito di chi vinceva le gare non serviva a niente, ma si metteva al primo posto la corruzione dei funzionari e dei ministri che avevano a che fare con i commerci stessi.
Torniamo per un attimo a Descalzi e Moretti. Il primo va in Africa per cercare petrolio e probabilmente ne troverà, e troverà gas e ogni altra ricchezza nel sottosuolo, migliorando di mezzo punto il nostro Pil. Come effetto secondario si prolungherà di un altro anno la durata del modello «fossile» nel mondo, un effetto benefico, secondo la maggioranza; e aumenterà di un'altra frazione il livello d'inquinamento da CO2, ammesso che esista davvero, secondo quel che pensa la stessa maggioranza di prima.
All'altro mezzo punto di Pil provvederà Moretti vendendo armi e sistemi d'arma agli stessi che pagheranno con gas e petrolio. Qui il discorso diventa sottile. Vendere armi non piace a nessuno, in teoria, ma in pratica tutti i ministri, tutti gli industriali, tutti i banchieri sanno che esistono i buoni e i cattivi. I cattivi non devono avere armi; sono solo altri cattivi che gliele vendono. Invece i buoni – i nostri – devono potersi difendere. Quindi dobbiamo vendere loro le armi necessarie, tanto più che ci consentono di migliorare il nostro amatissimo Pil.
«Una polemica con un articolo di Marco Albeltaro apparso su L’Unità. Togliatti e Berlinguer hanno visto nella Costituzione la carta che poteva innovare la democrazia» Un opportuno segmento di una riflessione del nostro passato utile per costruire un futuro migliore.
Il manifesto, 27 luglio 2014, con postilla
In un suo intervento apparso su l’Unità del 25 luglio Marco Albeltaro sostiene la tesi della necessità di ricordare Palmiro Togliatti a sessant’anni dalla scomparsa in misura molto maggiore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia Futura umanità. Associazione per la storia della memoria del Pci», sia Critica marxista, nelle quali sono impegnato, hanno dedicato o dedicheranno a Togliatti contributi di conoscenza e di analisi e. E credo che anche il manifesto non mancherà questo appuntamento. In particolare «Futura umanità» ha aperto le celebrazioni togliattiane con un convegno, svoltosi a Roma nel novembre 2013, le cui relazioni sono state pubblicate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Gianpasquale Santomassimo, Togliatti il rivoluzionario costituente, Editori Riuniti) e presentate di recente in una sede parlamentare. Qualcosa si è fatto, dunque, e sicuramente nei prossimi mesi altro si farà. E bisognerebbe fare di più, ne convengo con l’autore.
La peculiarità del PCI
Non capisco perché si debbano contrapporre queste due figure della tradizione del comunismo italiano: come Albeltaro stesso dice, hanno vissuto in epoche diverse e fronteggiato problemi diversi. Entrambi sono state eminenti personalità politiche che hanno contribuito a creare, ciascuno nella propria epoca, quella peculiarità del comunismo italiano che in Gramsci ha le sue radici.
Personalità complementari
roncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale dal dopoguerra è, per Renzi, il segno di una vittoria di Pirro. E Napolitano che non riceve le opposizioni, è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?».
Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)
In un regime parlamentare, l’ultima carta di una democrazia è l’ostruzionismo e la storia della nostra repubblica è ricca di pagine che raccontano personaggi e interpreti del filibustering nei momenti di maggior contrasto politico. Con i nuovi regolamenti oggi è molto più difficile praticarlo, ma decidere di troncare il dibattito sulla più profonda trasformazione dell’assetto costituzionale mai realizzata dal dopoguerra, scegliendo un rigido contingentamento dei tempi perché l’8 di agosto il presidente del consiglio deve portare a palazzo Chigi il bottino di guerra è, innanzitutto per lui, il segno di una vittoria di Pirro.
Chi vuole vincere senza convincere, chi mostra i muscoli per nascondere la confusione, in realtà rivela la propria debolezza. Non si possono approvare riforme cruciali senza il necessario, faticoso, esercizio del compromesso e della mediazione politica…
Se ancora c’era qualche dubbio sulla natura post-democratica del leader che ci governa, da ieri sarà più difficile sostenerlo. E del resto queste pessime riforme costituzionali per come erano originate, appunto da un’iniziativa legislativa del governo anziché del parlamento, non potevano che precipitare in una esautorazione del parlamento stesso.
Con il sostegno e l’approvazione del Presidente della Repubblica che così espone l’alta carica che rappresenta al ruolo di giocatore anziché di arbitro. Il Capo dello Stato non ha neppure ricevuto personalmente la delegazione di deputati e senatori che ieri sera, in corteo, si è recata al Quirinale per rappresentargli la contrarietà verso una decisione sconcertante.
Napolitano è ancora il rappresentante di tutti gli italiani?
«La solitudine dei palestinesi è la vergogna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petrolio. Per non parlare di un’Europa inetta e imbelle».
Il manifesto, 25 luglio 2014 (m.p.r.)
La striscia di Gaza è martirizzata da tredici anni, dall’inizio della seconda Intifada. Periodicamente Israele, in risposta ai lanci di razzi, al rapimento di un soldato o all’uccisione di giovani coloni, scatena offensive (dai nomi fantasiosi o truci, come “arcobaleno” o “piombo fuso” ecc.) dal cielo, dal mare e a terra.
Dall’inizio del millennio, sono morti circa 6.400 palestinesi e poco più di 1000 israeliani, senza dimenticare le centinaia di palestinesi vittime della guerra civile tra Hamas e Anp. Ogni volta, gli strateghi israeliani giurano che il conflitto in corso sarà l’ultimo, ma chiunque nel mondo sa che si tratta di una favola. Anche se la striscia di Gaza – una fascia costiera abitata da una popolazione pari a quella della Liguria, ma con una superficie quindici volte più piccola – fosse completamente ridotta in macerie, qualche razzo potrebbe essere ancora sparato e quindi il conflitto riprenderebbe…
Per comprendere il senso di una guerra apparentemente infinita, basta confrontare le carte della Palestina nel 1946 e oggi. Se allora gli insediamenti dei coloni ebrei erano una manciata, soprattutto nel nord, oggi è esattamente il contrario: una spruzzata di insediamenti palestinesi circondati da Israele e dai suoi coloni, con la striscia di Gaza isolata a sud-ovest. Non ci vuole molta fantasia per comprendere che la strategia di Israele, in nome di una sicurezza assoluta di cui non potrà mai godere, è quella di cacciare più palestinesi possibile, con le infiltrazioni dei coloni in Cisgiordania e con le azioni militari a Gaza.
Rapporti pubblicati da Human Rights Watch, agenzie Onu e Amnesty International mostrano ormai, senza possibilità di dubbio, che lo sradicamento dei palestinesi è perseguito con l’espulsione dalla terre coltivabili, l’interruzione periodica dell’energia elettrica e il blocco delle risorse idriche. D’altronde che l’esercito considerato il più “professionale” al mondo rada al suolo scuole gestite dall’Onu e uccida soprattutto civili la dice lunga sulla vera strategia di Israele verso i palestinesi.
Mai come oggi, i palestinesi di Gaza sono stati così soli. Hamas non gode della protezione dell’Egitto, come ai tempi di Morsi, né della simpatia dei sauditi e di quasi tutti gli stati arabi. Né riceve vera solidarietà da parte di Abu Mazen. E, ovviamente, in quanto organizzazione ufficialmente definita “terrorista”, è avversata da Stati Uniti ed Europa. Ma tutto questo non spiega, né tanto meno giustifica, il silenzio ipocrita dei governi occidentali e tanto meno della cosiddetta opinione pubblica indipendente sulle stragi di Gaza.
Lasciamo stare il nostro Presidente del consiglio e l’ineffabile ministro Mogherini, la cui ascesa spiega perfettamente il ruolo trascurabile della politica estera nella cultura governativa italiana. Ma che dire dell’incredibile squilibrio politico e morale nella valutazione ufficiale del conflitto?
Basti pensare che un B.-H. Lévy, l’eroe della fasulla rivoluzione libica e il mestatore di Siria, da noi passa come un profeta della pace e della giustizia. Che centinaia o migliaia di imbecilli, in Europa o altrove, trasformino il conflitto tra palestinesi e stato d’Israele in una crociata antisemita non può essere usato come un alibi per chiudere gli occhi davanti alle stragi di bambini e di civili. In questo quadro, la palma dell’ipocrisia va al governo americano, e in particolare a Obama, che pure aveva illuso il mondo all’inizio del suo primo mandato.
La banale verità è che la differenza tra democratici e repubblicani in materia di Palestina è semplicemente di stile. Brutalmente filo-israeliani quelli della banda Bush, preoccupati un po’ più delle forme della repressione gli obamiani, come dimostrano i famosi fuori-onda di Kerry.
Ma nessuno ha veramente intenzione di fermare Israele, oggi o mai. La solitudine dei palestinesi è la vergogna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petrolio. Per non parlare di un’Europa inetta e imbelle.
Il manifesto, 24 luglio 2014
Evidentemente il problema sta altrove. È emerso in un qualche modo nella discussione che si è accesa in uno dei gruppi tematici nei quali si è divisa l’assemblea e concerne la presenza eventuale alle prossime elezioni regionali. In realtà la questione è stata male impostata fin dal suo inizio, e non solo dall’intervista di Smeriglio. Infatti non credo si possa discutere fruttuosamente il da farsi di fronte a questa scadenza, se prima non si affronta una discussione che da tempo incalza su cosa sono diventate le istituzioni regionali – ora terreno privilegiato per l’esercizio della corruzione delle elites politiche — e cosa soprattutto diventeranno se andrà in porto la riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato che tocca così pesantemente il Titolo V, già oggetto di ampie modificazioni una decina di anni fa. Le nuove norme che il governo ha proposto tendono a ridurre le regioni a una semplice articolazione amministrativa. L’eliminazione delle competenze legislative “concorrenti” e la “clausola di supremazia” riportano molte tematiche di forte impatto sociale nell’ambito squisitamente statale a sua volta limitato dalle ingerenze degli organi della governance a-democratica europea (ad esempio con il fiscal compact). Il sogno della vecchia sinistra di fare delle regioni un’articolazione democratica dello Stato per avvicinare la cosa pubblica ai cittadini è del tutto travolto. Prima di decidere con chi andare bisognerebbe discutere se e perché.
Ma scavando ancora, il nodo vero del contendere è sulla natura del Pd. Del Pd nel suo complesso, non solo del fenomeno Renzi. È difficile immaginare che Renzi abbia vinto indipendentemente o addirittura contro il Pd. Per quanto sia forte la personalizzazione in atto, abbiamo assistito, attraverso un processo non breve fatto anche di bruschi salti, come l’elezione di Renzi, alla trasformazione di un intero partito in un sistema di governo delle istituzioni e della società. Le analogie con la Dc sono del tutto fuori luogo. Non esiste più alcun riferimento ideale e tantomeno finalistico. Vi è la totale compenetrazione nel presente del sistema di governance europeo e nazionale, cui tutto è sottomesso. Il partito piglia-tutto dà luogo ad una mutazione antropologica delle sue elites e del senso stesso del concetto di partito. Questo spiega anche la fluidità delle posizioni interne, rapidissime nell’uniformarsi all’onda vincente senza lasciare neppure una traccia del proprio percorso. Che ne è dei “giovani turchi”? Le articolazioni delle posizioni personali – al di là delle migliori intenzioni – o territoriali non riescono a contrastare questa liquidità politica né ergersi a opposizione strutturata e duratura.
La sinistra, se sarà, non potrà che svilupparsi fuori e contro questo partito-governo. Il che non esclude il confronto o possibili convergenze su singoli aspetti e temi, ma certamente sì la riproposizione dell’alleanza coartata dal ricatto del voto utile anche a livello regionale. Qui sta il nodo delle divergenze, che va affrontato non a colpi di accetta, ma senza sfuggirvi e con serietà. La trasformazione di una lista nata per un nuovo progetto europeo in un soggetto di sinistra radicato nel nostro paese passa inevitabilmente per questa strada. Prima la intraprendiamo, evitando deragliamenti elettorali, meglio è visto che non sarà breve né lineare.
«La sagra dei "gratta e vinci" per il via libera al gasdotto salentino».
Il manifesto, 23 luglio 2014 (m.p.r.)
Entro la fine di luglio la Commissione Via del ministero dell’Ambiente si pronuncerà sul progetto della multinazionale Tap che prevede l’approdo del gasdotto sulla costa di San Foca, nel leccese, per far giungere in Europa il gas naturale dell’Azerbaigian. Al progetto, il cui impatto è ritenuto invasivo, si oppongono i comitati regionali «No Tap» i quali hanno sensibilizzato le popolazioni sui possibili danni ambientali per il territorio pugliese.
Negli stessi giorni in cui il presidente azero Ilham Aliyev era a Roma per una serie di accordi col governo Renzi in materia energetica, è stato aperto a Lecce un ufficio (rappresentante gli interessi delle società internazionali del progetto Tap — Trans adriatic pipeline) il cui responsabile ha illustrato un programma di manifestazioni sponsorizzate dalla multinazionale per l’estate salentina.
Con un budget di circa 350 mila euro (evidente l’intento propagandistico con elargizioni di prebende per addomesticare posizioni oltranziste) sono finanziate varie iniziative che, come in ogni provincia che punta sul turismo, solitamente decollano durante la stagione. Un carnet di appuntamenti, in paesi e paesini, che vanno dalla sagra a base di prodotti mangerecci alla festa patronale con allestimento di luminarie, dalla discoteca sul mare al concerto da stadio, dal concorso-vacanza in hotel della zona alla partecipazione presso la radio locale, fino ai gratta e vinci distribuiti sulle spiagge con in palio portacellulari, teli da bagno, palloncini e gadget, contrassegnati col marchio Tap ovviamente. «Energia a vocazione turistica» è lo slogan con cui si fa passare il tutto come un calendario di eventi culturali.
Culturali perché la Tap ha tentato di coinvolgere, elevandone lo spessore, la città capoluogo? Al consigliere delegato dal Comune al comitato preposto alle manifestazioni estive, è infatti giunta l’offerta, per la tre giorni festaiola dell’ultima settimana d’agosto in onore dei santi patroni, di una somma di 20 mila euro targata Tap. Ma vendere, o peggio svendere, i nomi di Oronzo, Giusto e Fortunato (i patroni di Lecce) per appena 20 mila euro è forse sembrato poco dignitoso. Fatto sta che arcivescovo e sindaco della città si sono defilati, per poi declinare l’offerta. Anche per non prestare il fianco al tourbillon di polemiche, che si sarebbe rovesciato, accettando quel denaro che alla cittadinanza è apparso un obolo, non proprio generoso peraltro. Un obolo per comprarsi il consenso sociale e tacitare le resistenze di quanti contestano il passaggio del gasdotto nel Salento. Intanto la querelle ha attraversato repentinamente città, paesi e spiagge. Ma se sulle prime la multinazionale ha fatto breccia sponsorizzando un paio di manifestazioni (il nome Tap è stato acceso da una miriade di lampadine al led in una serata di sagra, con un contributo di appena 5000 euro), ora le comunità cominciano a prendere distanze e a rifiutare le offerte. Con buona pace del marchio Tap programmato per un’estate al top.
Alla commissione Via dell’ambiente, che deciderà a giorni sulla criticità del progetto, i responsabili Tap in Salento, pur privilegiando l’approdo della condotta a San Foca, hanno indicato una decina di siti alternativi e compatibili lungo la costa che corre da Brindisi a Otranto. Il gasdotto transnazionale che porterà il gas azero in Europa (avrà una portata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno) è un’opera imponente il cui costo si aggira sui 40 miliardi di euro. La condotta attraversa regioni della Turchia europea, della Grecia settentrionale e dell’Albania, prima di tuffarsi nel Canale d’Otranto lungo 117 chilometri sottomarini. Raggiunta la costa adriatica pugliese percorrerà alcuni chilometri sul territorio salentino. Il terminale infine si collegherà all’infrastruttura a rete della Snam gas.
. Difficile, lungo e piena di rischi il percorso di una democrazia che sappia vincere la "post-democrazia renzusconiana. Il manifesto, 24 luglio 2014
Perché una battuta d’arresto?
Marco Revelli ha ragione quando dice abbiamo ‘avuto il comunismo di guerra’. Nella fase d’emergenza del voto abbiamo dato giustamente tutto il potere ai saggi. Ma che oggi, dopo il voto, le cose restino così è un problema. Questi saggi somigliano al governo dei tecnici: si sono autoscelti, nessuno li ha mai votati.
I tre europarlamentari sono stati votati.
Sono stati votati per fare gli europarlamentari. Ma la dimensione ademocratica della leadership della lista è palese. Secondo: qua e là emergono pulsioni grilline. In una commissione dell’assemblea si critica un ‘facilitatore’ (responsabile, ndr) come Sandro Medici con la motivazione che ‘è un professionista della politica’. Con questo criterio anche Tsipras sarebbe escluso. Queste cose non vanno solo denunciate: vanno battute politicamente con potenti iniezioni di democrazia. Dobbiamo aprirci contro le pulsioni escludenti e proprietarie, rendere contendibile il campo e la linea politica della lista. Democratizzarci. E ringiovanirci.
Vuole già rottamare i saggi?
La platea di sabato aveva un’età media alta, in gran parte il ceto politico sconfitto degli ultimi trent’anni. La prima relazione è durata un’ora, la seconda 40 minuti. Così si vuole parlare ai giovani? I saggi fin qui hanno dimostrato di non sapere, o non volere, valorizzare quel po’ di movimenti giovanili che alle europee hanno espresso molto e raccolto voti. Contro questi giovani, i saggi fanno da tappo.
Una delle elette è una giovane donna. Cos’altro dovrebbero fare?
Favorire il salto generazionale, prendere esempio dalla spagnola ‘Podemos’. Bisogna investire in un’agenda di cose da fare e riscoprire la forza del conflitto. La lista Tsipras ha un futuro se saprà interpretare le tensioni dell’autunno. Ma per scegliere questa strada bisogna usare la democrazia: noi di Sel siamo un partito tradizionale e piccolo, ma la nostra linea la sceglie una leadership decisa in una forma democratica, approssimativa quanto si vuole, ma che è il congresso. Non può sceglierla chi ritiene di avere i giusti quarti di nobiltà tsiprota. Ho sentito la capodelegazione a Bruxelles fare la relazione sulla linea politica della lista. Avrei preferito sapere come si metterà a disposizione e in collegamento con i processi reali del paese.
Ancora la polemica contro Barbara Spinelli?
No, ma per scegliere ‘la linea’ servono processi democratici. E per andare avanti serve investire sui più giovani.
Ora alle regionali rischiate di andare sparsi?
Sarò chiaro: per noi ogni ragionamento ‘a prescindere’ è un errore. Persino un partito molto radicale com’era il Prc di Bertinotti, nel 2001 e nel 2008 mentre rompeva con il governo centrale faceva l’accordo per il governo di Roma. E’ sbagliato sia dire ‘sempre con il Pd’ sia dire ‘mai con il Pd’. Anche Tsipras dice che Renzi non è un interlocutore in Italia ma lo è in Europa. Spinelli dice di non essere d’accordo. Noi sì: per noi il Pd di Renzi oggi non è un possibile alleato di governo, ma regione per regione vogliamo valutare quello che succede. Chi deve decidere cosa fare in Calabria, i calabresi o i saggi? Centralizzare la decisione è un ritardo di cultura politica. Invece misurare le scelte dai metri di distanza dal Pd è una sciocchezza.
È quello che farà Sel o una proposta a tutti?
Lo proponiamo a tutti e noi lo pratichiamo già. La nostra preoccupazione è dare un futuro al successo delle europee. La scelta di cosa fare in Calabria non possono farla i saggi e neanche i pur eroici quindici del comitato di Corigliano; né in Emilia Romagna quelli che si sono intestati legalmente il comitato Tsipras. Ci vuole una consultazione aperta e trasparente in cui chiediamo, per esempio in Calabria, se la candidatura di Gianni Speranza (di Sel, ndr) può avere forza nella costruzione della coalizione. E così nelle altre regioni che andranno al voto: apriamo i banchetti, i gazebo. Per Sel la coalizione resta un obiettivo. Non sappiamo se riusciremo a farla ovunque, ma chi vuole far saltare tutte le coalizioni territoriali sappia che ci troverà lungo la strada, dentro una contesa politica. In un confronto democratico siamo disponibili a discutere su tutto. Se qualcuno si sente proprietario della discussione per imporre il bravo compagno che prende tre voti, non ci stiamo. E un’ultima cosa.
Prego.
In rete leggo cose orribili. Noi non chiediamo a nessuno di rinunciare a se stesso. Chiediamo però un campo aperto dove si possa fare un confronto democratico, una testa un voto. I torquemada del mouse abbiano più rispetto per Sel e per le sue scelte generose e senza contropartita. Sel ha rinunciato a molte cose per dare il buon esempio e mettersi in sintonia con la volontà di cambiamento. Però queste scelte generose non sono una resa né una regola eterna. Sel ci sarà finché non nascerà qualcosa di più grande e più credibile. A questo scopo Sel abita più luoghi: la lista Tsipras, la relazione con ecologisti, con Fassina, Cuperlo, Civati: tutti pezzi di una ricerca. I sacerdoti del minoritarismo se ne facciano una ragione. Noi non ci arrendiamo al renzismo, ma non ci interessa rimettere insieme i cocci della sinistra minoritaria.
Di questo avete parlato con Tsipras?
Sì. E segnalo che Tsipras, che è un leader serio, ha cercato di incontrare Renzi; e se non l’ha incontrato è per colpa di Renzi. A Tsipras teniamo molto, lui è il leader europeo naturale di tutta questa coalizione, con lui sentiamo una profonda sintonia. L’auspicio è che in Italia non ci sia chi ritiene di esserne l’interprete esclusivo, il suo oracolo.
Appello al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza di Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale. Un appello al quale
eddyburg aderisce e a cui invita tutti ad aderire.
Garantire il diritto di fuga
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Si tratta, secondo il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), del dato più alto mai registrato dopo la fuga in massa, nella prima metà del secolo scorso, dall’Europa dominata dal nazifascismo. “La nostra è stata una generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora”, ha affermato Ruth Klüger, scrittrice e germanista sopravvissuta ad Auschwitz, “io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del ventesimo secolo. E nel ventunesimo continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati”.
I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. Ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’Europa un filo spinato.
L’Europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità.
Fermare il respingimento dei migranti
Il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. Un incremento dovuto principalmente alla continua carneficina siriana che, a tre anni dall’inizio del conflitto, ha visto più di 2.5 milioni di persone perdere la possibilità di vivere nel proprio paese. Uomini, donne, bambini sono da mesi ammassati nella stazione Centrale di Milano, senza che il Comune – di fatto abbandonato dallo Stato – riesca a farsene pienamente carico, nonostante i molti sforzi profusi. Ma si tratta anche di schiere in fuga dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale – che si vanno ad aggiungere ai profughi della Somalia e del Maghreb. Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste – e a Sangatte, Ceuta, Melilla – in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati.
Trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. Molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il Mar Mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie.
Non serve, allora, appellarsi a retoriche rese impronunciabili, dopo lo smascheramento del Cuore di tenebra conradiano: l’Europa non rappresenta “il faro di civiltà, la globalizzazione della civilizzazione”, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha descritto a Strasburgo, il 2 luglio, in apertura del semestre italiano di presidenza europea. L’Europa è, anche, quell’orrore che Marlow, il mercante d’avorio, figura dell’avidità e del dominio coloniale, porta in Africa; maschera che disvela fino a che punto il cuore di tenebra si trovi esattamente nella luce che la nostra civiltà ha preteso di esportare, ammantando il proprio dominio di superiorità morale.
Impedire la strage del Mediterraneo
É giunto il momento che l’Unione Europea guardi a se stessa: alla distesa, al mare di morti che le sue politiche hanno causato e continuano a causare, e che cerchi soluzioni concrete e immediate, se non vuole che i suoi stessi cittadini rifuggano lo sguardo delle istituzioni.
I quarantacinque migranti trovati asfissiati nella stiva di un barcone a Pozzallo sono le ultime, povere vittime di una carneficina immane, ma già, mentre scriviamo, se ne aggiungono altre: sono ventimila gli uomini, le donne e i bambini, conteggiati per difetto, annegati nel Mediterraneo dal 1988 in poi. Sono 500 le vittime accertate solo in questa prima parte del 2014. Una tragedia epocale, della quale non potremo dire che non sapevamo, quando sarà diventata storia. Storia d’Europa.
I cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi – tanto più inconcepibile quando si consideri che, nella sua Carta dei diritti fondamentali, l’Unione Europea ha dichiarato di porre la persona al centro delle proprie politiche, e ha considerato le politiche sulle frontiere, l’asilo e le migrazioni come vere e proprie politiche comuni.
Tuttavia l’Unione Europea che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare.
Attuare i trattati
La cosa è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77), di gestione di tutte le fasi del processo migratorio (art. 79), di accoglienza delle persone (art. 78) e di condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).
Si tratta di norme che, a cinque anni dall’entrata in vigore, hanno trovato solo una parziale traduzione legislativa: nella prassi si continuano a privilegiare strategie come il Global Approach for Mobility and Migration e le cosiddette Mobility partnership con paesi terzi, prive di una base giuridica vincolante, realizzate su base volontaria e senza la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo.
Il ricorso da parte delle istituzioni a questi espedienti e surrogati, anziché agli strumenti previsti dai Trattati per la realizzazione di politiche comuni, conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione.
L’insuccesso di questo approccio è provato dall’incapacità di predisporre e attivare soluzioni semplici e improrogabili come la creazione di corridoi umanitari. L’inettitudine nel costruire una maggioranza fra gli Stati membri che realizzi il principio di solidarietà anche finanziaria previsto dall’art. 80 del TFUE non può essere nascosta dalla retorica del Consiglio europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze, né dal continuo rinvio al ruolo di Agenzie europee, il cui compito dovrebbe consistere nell’applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza.
Né può essere taciuta l’ipocrisia per cui le politiche di respingimento – previste da molte misure decise in sede di attuazione – vengono presentate come intese a salvare la vita dei migranti e dei profughi, quando sono proprio quelle politiche a condannarli al rischio, sempre più attuale, di morire annegati.
La responsabilità primaria di tutto questo ricade sugli Stati membri, sul Consiglio e sulla Commissione, che hanno completamente ignorato i Trattati – e in particolare le norme volte a trasformare le politiche di controllo delle frontiere, di asilo e di integrazione dei migranti in politiche europee comuni, da attuare nel rispetto del principio di solidarietà. L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della fortezza Europa.
Dismettere la fortezza Europa
L’Unione Europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o Europol,[1] ha di fatto abdicato alla missione che si è data con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei diritti. Non è questa l’Europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio.
Noi, cittadini europei, diciamo che l’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito.
“Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Questo cartello esposto da un migrante durante la Freedom March, giunta il 27 giugno davanti ai giganteschi palazzi di vetro dell’Unione Europea a Bruxelles, descrive perfettamente la condizione in cui si trovano milioni di persone che cercano di entrare, o di restare, nella fortezza Europa.
La zona euromediterranea deve diventare uno spazio di cooperazione e solidarietà tra i popoli, non un’invalicabile frontiera esteriore per chi fugge da guerra e miseria, né un’angosciosa frontiera interiore, messa a separare la biografia di ciascuno, fatta di storia, affetto, legami, appartenenze.
È compito dell’Italia, in questo semestre europeo, promuovere l’attuazione organica e solidale di tutte le disposizioni dei trattati in materia di frontiere, immigrazione, asilo e integrazione dei migranti, facendosi carico di proteggere e accogliere gli sradicati e di consentire loro un nuovo radicamento, qualora lo desiderino.
Promuovere una politica comune europea
Consapevoli delle responsabilità che gli Stati hanno attribuito all’Unione Europea in questi campi, occorre operare con la massima urgenza perché l’UE venga dotata degli strumenti necessari a far fronte ai flussi massicci dei profughi. L’art. 78 TFEU e la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea già prevedono la predisposizione di piani di intervento, che tuttavia la Commissione continua a guardarsi dal proporre al Consiglio.
La presunta strategia globale della Task force sul Mediterraneo, dibattuta dal Consiglio europeo e sviluppata dal Consiglio informale Giustizia e affari interni dell’8 luglio – affidata a iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex – è fumo negli occhi, e sicuramente non costituisce una politica comune europea all’altezza della sfida con cui l’Unione, e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono chiamati a confrontarsi.[2]
Chiediamo che il Parlamento europeo, attraverso la sua commissione competente – in collaborazione con la Presidenza italiana e la Commissione – proceda entro i prossimi sei mesi a una valutazione oggettiva dell’adeguatezza delle politiche e dei mezzi messi in atto dalle istituzioni e agenzie dell’Unione e dagli Stati membri e dei Paesi terzi.
Predisporre corridoi umanitari
Nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. Occorre creare un corridoio umanitario tra le coste dell’Africa e le coste europee, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, così da impedire nuove tragedie e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito; il che implica, al contempo, stroncare le nuove mafie dei trafficanti di uomini.
Il Parlamento europeo deve essere a questo proposito compiutamente informato delle ragioni per cui operazioni come EUBAM[3] sul territorio libico non permettano di aggredire il traffico di esseri umani.
Occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’Onu e dell’Unione Europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori.[4]
Occorre dotare l’European Asylum Support Office (EASO) di poteri di coordinamento delle attività degli Stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l'accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti Lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea.
Più in generale, l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’Europa.
Assicurare la libertà di movimento e il mutuo riconoscimento
Urge rendere permeabili i confini interni dell’Unione Europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio Schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Questo significa sanare le ferite inferte dall’applicazione deviata da parte di alcuni Stati membri del sistema di Schengen non solo alle persone, ma al concetto stesso di libertà e uguaglianza che la nostra cultura democratica afferma di voler tutelare. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento.
Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem.
Urge, allo stesso titolo, il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo, alla stregua di quanto già avviene per le decisioni di espulsione, così che le persone siano libere nel movimento e nel ricongiungimento familiare dentro lo spazio dell’Unione. Questo implica la necessità di applicare in modo corretto, secondo le richieste del Parlamento europeo e i suggerimenti dell’UNHCR, il regolamento Dublin III, privilegiando il criterio della riunificazione familiare; così come implica la necessità di adeguare il regolamento alla recente giurisprudenza della Corte in materia di minori.
Facilitare richieste e visti
Urge semplificare le procedure di richiesta dello status di rifugiato e di domanda d’asilo, così come urge l’istituzione di un sistema di visti temporanei richiedibili presso tutte le ambasciate degli Stati dell’Unione Europea nei vari paesi del mondo, per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita.
Occorre approntare al più presto una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati, che metta fine alle politiche di esternalizzazione dell’asilo con cui l’Unione Europea attualmente demanda la competenza della protezione internazionale agli Stati di transito.
Tutelare i minori non accompagnati
Urge tutelare i minori senza accompagnamento. In Italia sono arrivati, nell'ultimo anno e mezzo, quasi 6000 minori non accompagnati. Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione; altri hanno eluso la sorveglianza e sono del tutto privi di protezione. Per sanare questa situazione è stata presentata una proposta di legge,[5] ma i minori senza accompagnamento sono spesso in transito verso altri paesi e occorre trovare soluzioni congiunte, a livello europeo, di accoglienza, identificazione e protezione.
Promuovere l’istituzione dello ius soli
Urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. Benché questo dipenda dalla competenza dei singoli Stati membri, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.
Operare per una pax mediterranea
Non vanno infine dimenticate le ragioni geopolitiche che sono all’origine delle crisi nei paesi terzi e che determinano il flusso dei rifugiati. Sotto questo profilo la capacità di previsione, analisi e coordinamento dell’Unione europea, dell’Alto rappresentante e dell’European External Action Service è assolutamente inadeguata. Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una "terza forza" in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d'Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci.
La crisi migratoria mostra quanto sia urgente una politica estera attiva dell’Europa, attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli USA, che sono spesso all'origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini.
Occorre infine un’azione coerente dell’Unione Europea nel far cessare la vendita di armi nelle aree instabili del mondo da parte di quei paesi membri, come Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia, che figurano tra i dieci maggiori esportatori. Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche.
Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa.
Primi firmatari: Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale, Alexis Tsipras, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Maurizio Ferraris, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Eleonora Forenza, Don Luigi Ciotti, Ermanno Rea, Enrico Calamai, Adriano Prosperi, Aldo Bonomi, Roberta De Monticelli...
PER ADESIONI: corridoio.umanitario@gmail.com
[1] Come affermato l’ultima volta nel Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2013.
[2] Si veda in proposito il documento 11436/14 che Statewatch è sul punto di pubblicare.
[3] EU Border Assistance Mission in Lybia.
[4] Si veda progetto pilota.
[5] Legge n. 1658, 4 ottobre 2013.