loader
menu
© 2025 Eddyburg
Un magistrale quadro dei gravissimi rischi della democrazia, e delle ragioni di una giusta vita quotidiana di ciascuno di noi. I puntini di un disegno che per noi ormai è chiaro: unendoli appare l'immagine di un nuovo fascismo.

Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2014

Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato La Costituzione e il governo stile executive, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.

Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?

Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.

È un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.

Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista.

Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.

Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.

Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.

Non è poi una grande novità.

La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.

Per esempio?

Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.

Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.

Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.

Quali puntini?

Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.

Unendo questi puntini che figura viene fuori?

È un bell’esercizio per i nostri lettori...

Intanto lo faccia lei per aiutarci.

L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.

Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.

Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.

Iniziamo dal nuovo Senato.

Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?

Ma sì, citiamolo.

Foucault parlava di ‘governamentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. È molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.

Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.

Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro...

Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.

Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose...

Giusto dunque riformare un'altra volta il Titolo V?

La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo riaccentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?

Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.

Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.

Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.

Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.

Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.

Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?

Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.

Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.

Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.

Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.

Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.

Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum , Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.

Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.

In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.

Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.

Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.

Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa... E rimango legato a princìpi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.

Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?

Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.

Quali?

La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.

Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.

Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.

Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.

Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.

Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.

Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governamentalità’ di cui dicevamo.

Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.

Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.

In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.

«La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco».

Il manifesto, 21 agosto 2014

Il 19 giu­gno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pub­bli­cava sul quo­ti­diano di area comu­ni­sta Paese sera l’ultimo capi­tolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scri­vendo su Anto­nio Gram­sci. Si trat­tava della recen­sione a un’antologia di arti­coli e let­tere del comu­ni­sta sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scri­veva: «Forse dipende dal tempo che è pas­sato, che ha get­tato ombre e luci nuove su tanti avve­ni­menti…
Non so se sia per que­sto motivo. Certo è che oggi, quando ho per­corso via via le pagine di que­sta anto­lo­gia, attra­ver­sate da tanti motivi diversi, che si intrec­ciano e talora si con­fon­dono, ma non si per­dono mai, – la per­sona di Anto­nio Gram­sci mi è parso debba col­lo­carsi essa stessa in una luce più viva, che tra­scende la vicenda sto­rica del nostro par­tito». Era, a ben vedere, la pre­vi­sione di un feno­meno che avrebbe avuto ini­zio solo un ven­ten­nio più tardi, negli anni Ottanta, quando – men­tre alcune com­po­nenti del Par­tito comu­ni­sta ita­liano sem­bra­vano dimen­ti­care Gram­sci in favore di para­digmi cul­tu­rali diversi e alter­na­tivi, incam­mi­nan­dosi lungo i sen­tieri che avreb­bero con­dotto alla Bolo­gnina – la for­tuna dell’autore dei Qua­derni ini­ziava una fase di espan­sione nei paesi anglo­foni come in Ame­rica latina, dive­nendo un punto di rife­ri­mento del pen­siero poli­tico e sociale con­tem­po­ra­neo, ben al di là del rife­ri­mento pur deci­sivo che aveva costi­tuito per il Pci, soprat­tutto gra­zie a Togliatti.

In altre parole, già nel 1964 il segre­ta­rio comu­ni­sta affer­mava che Gram­sci gli appa­riva tal­mente grande da essere desti­nato a pro­iet­tare la pro­pria influenza anche molto oltre le dimen­sioni pure con­si­de­re­voli che aveva assunto in rela­zione alla cul­tura poli­tica dei comu­ni­sti ita­liani, soprat­tutto a par­tire dalla costru­zione del «par­tito nuovo» e dal ten­ta­tivo di una «avan­zata nella demo­cra­zia verso il socia­li­smo» intra­preso da Togliatti stesso al suo ritorno in Ita­lia nel 1944. Ten­ta­tivo che era poi la tra­du­zione della gram­sciana «guerra di posi­zione» in una situa­zione poli­tica per tanti versi inim­ma­gi­na­bile pochi anni prima, spe­cie in seguito alla divi­sione del mondo in due «campi» ben deli­mi­tati e a cui era dif­fi­ci­lis­simo sottrarsi.
Un dialogo che non si spezza

Il libro togliat­tiano su Gram­sci (di recente ristam­pato da Edi­tori Riu­niti uni­ver­sity press col titolo Scritti su Gram­sci), più in gene­rale la sto­ria di Togliatti cura­tore e orga­niz­za­tore della dif­fu­sione delle opere di Gram­sci, non­ché loro primo e più accre­di­tato inter­prete, dura quasi un qua­ran­ten­nio, essendo il primo scritto del 1927, occa­sio­nato del pro­cesso con il quale il fasci­smo con­dannò alla galera buona parte del gruppo diri­gente comu­ni­sta e Gram­sci a morte pro­ba­bile, viste le sue con­di­zioni di salute. Si dimen­tica o si nasconde a volte que­sto fatto fon­da­men­tale, si torna a scri­vere perio­di­ca­mente che altri (e in pri­mis pro­prio Togliatti o alcuni suoi com­pa­gni, o Sta­lin in per­sona) sareb­bero stati i «car­ne­fici» del comu­ni­sta sardo. Sulla base di ipo­tesi e ragio­na­menti che non hanno il sup­porto di un docu­mento, di una prova. Si arriva ad affer­mare che Mus­so­lini avrebbe addi­rit­tura rico­no­sciuto a Gram­sci pri­vi­legi inu­si­tati, in virtù di una stima di vec­chia data. Si costrui­sce arta­ta­mente la leg­genda del tra­di­mento di Togliatti (a cui i mag­giori quo­ti­diani mostrano di dare cre­dito) per minare dalle fon­da­menta una tra­di­zione poli­tica – quella del comu­ni­smo ita­liano – che offre ancora oggi segni di vita­lità.

I forti con­tra­sti tra Gram­sci e Togliatti nel 1926 in merito alle lotte interne al par­tito bol­sce­vico sono ampia­mente noti. Ciò che spesso non si dice però è che mai dall’esilio Togliatti cessa, con l’ausilio di Piero Sraffa e di Tania Schu­cht, di cer­care di dia­lo­gare col pri­gio­niero, un dia­logo che Gram­sci, anche se indi­ret­ta­mente, accetta: egli riflette e scrive per il suo par­tito, per la sua parte poli­tica, non diviene in car­cere un libe­ral­de­mo­cra­tico, men che meno si con­si­dera, come pure è stato detto, un «pro­fes­sore», un intel­let­tuale solo occa­sio­nal­mente pre­stato alla poli­tica e pre­sto da essa ritrat­tosi.
La sta­gione dei fronti popo­lari anti­fa­sci­sti che si apre nel 1934–1935, e che ha in Togliatti uno dei prin­ci­pali pro­ta­go­ni­sti, non è certo det­tata dalla rifles­sione car­ce­ra­ria gram­sciana, ma segna un ogget­tivo riav­vi­ci­na­mento con il pri­gio­niero rispetto alla pre­ce­dente poli­tica dell’Internazionale comu­ni­sta, alla stra­te­gia della con­trap­po­si­zione fron­tale «classe con­tro classe» e alla con­se­guente poli­tica del «social­fa­sci­smo», per la quale, assur­da­mente, tra socia­li­sti e fasci­sti non vi sarebbe stata dif­fe­renza. Togliatti matura allora, negli anni Trenta, anche sulla spinta dell’avanzata del nazi­fa­sci­smo, la con­vin­zione della impor­tanza della demo­cra­zia, sia pure popo­lare, non eli­ta­ria, nutrita di diritti non solo poli­tici e civili, insomma «progressiva»..

Una scelta chiara

Ciò che spesso non si dice, inol­tre, è che senza le scelte ope­rate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gram­sciano, noi non avremmo mai cono­sciuto il Gram­sci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse ope­rato per fare di Gram­sci il mag­giore pen­sa­tore mar­xi­sta ita­liano e per difen­derne la figura e l’opera, il comu­ni­sta sardo sarebbe pas­sato pro­ba­bil­mente alla sto­ria solo come un mar­tire anti­fa­sci­sta o poco più. Le sue opere car­ce­ra­rie sareb­bero rie­merse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cer­care di capire per la prima volta quelle pagine non facili.

Fu Togliatti nel 1938, in pieno ter­rore sta­li­niano, a impe­dire che il ver­tice dello stesso Pci con­dan­nasse come troc­ki­j­sta Gram­sci (scom­parso l’anno pre­ce­dente) pro­prio per le posi­zioni del 1926. Fu Togliatti a impe­dire che i qua­derni gram­sciani fos­sero affi­dati ai sovie­tici, come qual­cuno chie­deva, sal­van­doli così da un pro­ba­bi­lis­simo oblio. Fu Togliatti a evi­tare la con­danna del pen­siero di Gram­sci negli anni dello zda­no­vi­smo, pub­bli­cando i Qua­derni dopo averne smus­sato qual­che spi­golo per evi­tare la con­danna di Mosca, ma sce­gliendo di fare del comu­ni­sta sardo uno dei pila­stri del «par­tito nuovo» che andava costruendo, sia pure a prezzo di qual­che sin­cre­ti­smo, e intro­du­cen­dolo come meglio non si sarebbe potuto nella cul­tura poli­tica ita­liana: poteva anche non farlo, poteva anche – per costruire l’identità del suo Pci – appog­giarsi al mito dell’Urss o della Resi­stenza. Scelse invece, pur senza ripu­diare gli altri punti di rife­ri­mento iden­ti­tari del suo par­tito, di indi­care con chia­rezza che gran parte delle radici della sua poli­tica erano nel pen­siero di Gram­sci.
Certo, il libro che Togliatti ha scritto su Gram­sci non è uni­voco, è scan­dito dal pre­va­lere in fasi diverse di accenti diversi, e le let­ture togliat­tiane vanno con­te­stua­liz­zate, poi­ché sono in parte con­di­zio­nate dal pri­mato della poli­tica. Occorre sepa­rarvi ciò che non regge alla veri­fica del tempo dalle indi­ca­zioni, non poche, ancora fon­da­men­tali. E qual­che raro pas­sag­gio appare oggi per­sino ese­cra­bile. Ma l’interpretazione e l’uso che Togliatti ha fatto di Gram­sci sono stati impor­tanti per costruire quel par­tito che Gram­sci aveva rifon­dato dopo la prima fase bor­di­ghi­sta, e anche per far cono­scere al mondo l’autore dei Qua­derni.

La politica di Gramsci

Gli scritti togliat­tiani su Gram­sci degli anni Venti e Trenta già pone­vano il tema del posto di Gram­sci nella sto­ria del Pci. All’amico e al com­pa­gno di mili­tanza e di lotta Togliatti rico­nobbe subito, nel 1927, la pri­mo­ge­ni­tura poli­tica, il ruolo di mae­stro e di capo, che riba­dirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli arti­coli com­mossi scritti in occa­sione della morte. Si trat­tava di una indi­ca­zione, quella del 1927, che minava l’impianto difen­sivo gram­sciano? Mus­so­lini e la poli­zia fasci­sta sape­vano benis­simo chi fosse Gram­sci, quale ruolo avesse, e il Tri­bu­nale spe­ciale obbe­diva a fina­lità squi­si­ta­mente poli­ti­che: obbe­diva al volere di Mus­so­lini. Fare di Gram­sci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del par­tito ita­liano, per­sino un fedele seguace di Sta­lin (che in realtà non era), ser­viva in quel con­te­sto a sal­va­guar­darne la memo­ria, a impe­dirne la con­danna ideo­lo­gica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima inde­bo­lito il pre­sti­gio del pri­gio­niero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rin­viato sine die la dif­fu­sione dei suoi scritti.

Una volta tor­nato in Ita­lia, Togliatti pog­giava su Gram­sci la costru­zione del suo par­tito. Ne for­zava in alcuni punti il pen­siero, facendo della sua stessa poli­tica la «poli­tica di Gram­sci», ma per un fine – tra­sfor­mare il Pci in un grande par­tito e farne una cosa diversa dal modello sovie­tico – che certo non sarebbe stato sgra­dito al comu­ni­sta sardo. Togliatti vac­ci­nava il suo par­tito dalla più nefa­sta orto­dos­sia sta­li­ni­sta, raf­for­zando la pecu­liare tra­di­zione comu­ni­sta nazio­nale, che aveva nella coniu­ga­zione di demo­cra­zia e socia­li­smo il suo mar­chio di fab­brica. Gram­sci e Togliatti non sono sovrap­po­ni­bili, certo, come non sono sovrap­po­ni­bili Togliatti e Ber­lin­guer: sono lea­der poli­tici che vivono e pen­sano in tempi diversi, usu­fruendo però di un comune nutri­mento teorico-politico e cer­cando di svi­lup­parlo in rela­zione a una vicenda sto­rica in con­ti­nua evo­lu­zione. Negli anni del dopo­guerra aveva lar­ga­mente corso l’idea non del tutto esatta di un Gram­sci «grande intel­let­tuale nazio­nale», ma se si leg­gono oggi gli scritti togliat­tiani ci si rende conto che le indi­ca­zioni in essi con­te­nute sono ancora pre­ziose per capire Gram­sci, la sua vicenda, il suo pensiero.

L'edizione critica dei Quaderni

Dopo il 1956 ha ini­zio una delle sta­gioni più ric­che della ela­bo­ra­zione di Togliatti, l’ultima, anche per quel che riguarda Gram­sci. Egli poneva nel 1956–1958 il tema di Gram­sci e il leni­ni­smo per pren­dere le distanze dallo sta­li­ni­smo senza far per­dere al suo par­tito l’orizzonte rivo­lu­zio­na­rio. Nel momento in cui tante cer­tezze erano venute meno, Togliatti mostrava come la strada indi­cata da Gram­sci fosse soprat­tutto quella di tra­durre (un lemma fon­da­men­tale nel les­sico gram­sciano) il leni­ni­smo in un lin­guag­gio adatto a una situa­zione così diversa rispetto a quella in cui aveva avuto luogo la Rivo­lu­zione d’ottobre.
Era stata, quella della neces­sità del pas­sag­gio da «Oriente» a «Occi­dente», del resto, una indi­ca­zione dello stesso Lenin, che Gram­sci aveva ripreso e svi­lup­pato. Gra­zie a Gram­sci dun­que si poteva andare avanti in quella dire­zione. Pre­ziosa era inol­tre, sem­pre nel 1958, l’indicazione togliat­tiana, oggi più che mai rite­nuta valida, secondo cui l’elaborazione di Gram­sci può essere dav­vero com­presa solo se con­nessa alla sua bio­gra­fia poli­tica. Veniva presa allora anche la deci­sione di pro­ce­dere a una edi­zione cri­tica dei Qua­derni, a cui ini­ziava a lavo­rare Valen­tino Ger­ra­tana. Era trac­ciata la via lungo la quale Gram­sci sarebbe dive­nuto il sag­gi­sta ita­liano più cono­sciuto nel mondo dai tempi di Machiavelli.

Il manifesto, 21 agosto 2014

«Un’altra cosa che vor­rei dire, e soprat­tutto ai nostri com­pa­gni che hanno già una certa pre­pa­ra­zione, è che lo stu­dio per loro non può con­si­stere e non deve con­si­stere nel met­tere fati­co­sa­mente assieme idee gene­rali in forma più o meno pole­mica. Que­sto sforzo non porta di solito a fare niente di serio, e anch’esso non è stu­dio, quando man­chi la ricerca attenta, paziente, larga, dei mate­riali di fatto, quando man­chi l’esame cri­tico di que­sti».
C’è anche que­sto (tra con­si­gli su come leg­gere e stu­diare, in una let­tera a «una cel­lula dell’apparato» pub­bli­cata su Vie nuove del marzo 1949) nella rac­colta recen­te­mente pub­bli­cata (Pal­miro Togliatti, La guerra di posi­zione in Ita­lia. Epi­sto­la­rio 1944–1964, a cura di Gian­luca Fiocco e Maria Luisa Righi, Pre­fa­zione di Giu­seppe Vacca, Einaudi, pp. 372, euro 24), sele­zione ine­vi­ta­bil­mente e con­sa­pe­vol­mente «arbi­tra­ria» di un epi­sto­la­rio vastis­simo, parte di un Fondo che attende una piena valo­riz­za­zione.
Il titolo discu­ti­bile, gram­sciano, richiama un’atmosfera suc­ces­siva al fal­li­mento della rivo­lu­zione comu­ni­sta in Europa, quella «guerra di posi­zione» vis­suta da Gram­sci e Togliatti anche come occa­sione per ripen­sare i ter­mini della scon­fitta e per impe­dirne il ripe­tersi. E nella prima inter­vi­sta a un inviato spe­ciale della Reu­ters nell’aprile 1944, con la quale si apre il volume, Togliatti riba­diva: «Nei primi anni della sua esi­stenza il Par­tito comu­ni­sta ita­liano com­mise gravi errori di set­ta­ri­smo, non seppe fare una poli­tica di unità del popolo per la difesa delle libertà demo­cra­ti­che con­tro il fasci­smo. Di que­sti errori trasse pro­fitto la rea­zione e noi oggi ci guar­de­remo bene dal ripe­terli».
Ma il «ven­ten­nio togliat­tiano» (1944–1964), in cui Togliatti eser­cita il ruolo di costrut­tore e capo di un grande par­tito comu­ni­sta di massa, appar­tiene ad epoca diversa, in cui guerra di trin­cea e di movi­mento si intrec­ciano in forme ormai lon­tane dalla fase «bol­sce­vica». Le let­tere ci resti­tui­scono, come ha notato Mario Tronti su l’Unità del 7 luglio, «un Togliatti molto gram­sciano, ma che non smette mai, nem­meno per un momento, di essere togliat­tiano». Dove men­ta­lità togliat­tiana signi­fica indub­bia­mente rea­li­smo, valu­ta­zione attenta e costante dei rap­porti di forza, non per cri­stal­liz­zarli ma per modi­fi­carli a van­tag­gio di un fronte ampio di alleanze da costruire, rivol­gen­dosi a tutti gli inter­lo­cu­tori pos­si­bili. L’elenco dei cor­ri­spon­denti rispec­chia l’ampiezza di que­sta pro­pen­sione al dia­logo e alla ricerca di un ter­reno d’incontro mai subal­terno (da Pie­tro Bado­glio a Bene­detto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilen­chi, da Pie­tro Nenni a Vit­to­rio Val­letta e alla fami­glia Oli­vetti, da Sta­lin a Giu­seppe Dos­setti).
Il ruolo attri­buito alla cul­tura, da costruire quasi da zero - più che recinto da «ege­mo­niz­zare» - per chi veniva dalla distru­zione ope­rata dal fasci­smo è uno dei temi fon­da­men­tali del volume, una «bat­ta­glia delle idee» seguita con cura anche nel det­ta­glio, quasi mania­cale, senza impar­tire in genere «diret­tive», anzi rifiu­tando diri­gi­smi con­fusi e capo­ra­le­schi sul ter­reno della ricerca sto­rica (la vicenda già nota della difesa di Gastone Mana­corda dalla pre­tesa di «det­tare la linea» da parte di espo­nenti dell’apparato).
Quello che pro­ba­bil­mente col­pi­sce di più il let­tore odierno è lo sfog­gio – inne­ga­bil­mente com­pia­ciuto – di eru­di­zione, che si esplica ad esem­pio nelle pole­mi­che con Vit­to­rio Gor­re­sio attorno a un sonetto di Guido Caval­canti e alla sua esatta gra­fia: dove c’è sicu­ra­mente la volontà di dimo­strare che i comu­ni­sti non erano i sel­vaggi dipinti dalla pro­pa­ganda avver­sa­ria, ma non c’è in alcuna forma la volontà di venire ammessi nei «salotti buoni» della bor­ghe­sia, che tra­vol­gerà lon­tani eredi di quella tra­di­zione in anni futuri. C’è ancora la volontà di costruire un cir­cuito cul­tu­rale auto­nomo e paral­lelo, che riprende ispi­ra­zioni dell’«universo socia­li­sta» a cavallo fra i due secoli, ma senza sem­pli­fi­ca­zioni gros­so­lane e inte­ra­gendo senza rigide sepa­ra­zioni con la cul­tura nazio­nale. C’è anche la con­vin­zione che il movi­mento ope­raio debba essere, clas­si­ca­mente, «erede» dei punti più alti della cul­tura bor­ghese (le famose ban­diere lasciate cadere nella pol­vere e che vanno risol­le­vate) e che il supe­ra­mento possa avve­nire solo attra­verso assun­zione piena delle istanze più alte della tra­di­zione che si avversa.

La scoperta dell'illuminismo

Ma pro­ba­bil­mente c’è qual­cosa di più, che attiene alla dimen­sione stret­ta­mente per­so­nale di un uomo com­bat­tuto in gio­ventù tra voca­zioni che appar­vero alter­na­tive, tra la dimen­sione di stu­dioso e quella di poli­tico, e dove la scelta esi­sten­ziale, com­piuta infine, non si tra­dusse nel senso un po’ arido che Croce dava al ter­mine di totu­spo­li­ti­cus (coniato appunto in una let­tera a Togliatti) ma in una con­ce­zione della poli­tica che pur auto­noma e con le sue regole era ine­stri­ca­bil­mente con­nessa alla cul­tura. Quest’ultima col­ti­vata in forma auto­noma, e che si era arric­chita nel tempo di dimen­sioni in pre­ce­denza igno­rate: si pensi al rap­porto con l’illuminismo, com­ple­ta­mente estra­neo alla for­ma­zione gio­va­nile tori­nese e ordi­no­vi­sta. Quel Togliatti che nelle memo­rie di Giu­lio Cer­reti tro­viamo intento nei lun­ghi sog­giorni pari­gini nella ricerca dei clas­sici set­te­cen­te­schi presso le libre­rie anti­qua­rie è lo stesso che tra­durrà il Trat­tato della tol­le­ranza di Vol­taire (in pole­mica con le ten­ta­zioni «cle­ri­co­fa­sci­ste» della nuova Ita­lia) e che qui vediamo impe­gnato in discus­sioni su Pie­tro Gian­none e sulla civiltà giu­ri­dica dell’illuminismo ita­liano.
Ma a dif­fe­renza che nella cul­tura azio­ni­sta, l’unica che in que­gli anni risco­pre in Ita­lia l’illuminismo, que­sta acqui­si­zione non si tra­duce in una ripresa del vec­chio anti­cle­ri­ca­li­smo, ma anzi in una atten­zione più assi­dua al dia­logo con le istanze pro­fonde della sen­si­bi­lità reli­giosa. In forma dif­fe­ren­ziata: sprez­zante nei con­fronti di De Gasperi, affet­tuoso nei con­fronti di Don Giu­seppe De Luca («lei è per me tra i pochi che, vivendo, della mia vita stati un po’ la com­pa­gnia e un po’ la fie­rezza» gli scrive il prete lucano in punto di morte, nel gen­naio 1962). E in una let­tera alla sorella di De Luca, a un anno dalla scom­parsa, nel feb­braio 1963, Togliatti chia­riva i ter­mini di que­sto rap­porto: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fos­sero volte, nel con­tatto con me, a sco­prire qual­cosa che fosse più pro­fondo delle ideo­lo­gie, più valido dei sistemi di dot­trina, in cui potes­simo essere, anzi, già fos­simo uniti. Cer­cava e met­teva in luce la sostanza della nostra comune umanità».

Il rigore parlamentare

L’ampiezza degli inte­ressi cul­tu­rali (unita a gusti in verità retro­gradi tanto in let­te­ra­tura quanto in pit­tura e musica) non lo spinge a dive­nire quello che oggi si defi­ni­rebbe un «tut­to­logo», e que­sta con­sa­pe­vo­lezza del limite si riflette anche nel suo stile di dire­zione: «Voi mi con­si­de­rate come que­gli appa­rec­chi auto­ma­tici che ti ser­vono a tua scelta, solo che toc­chi un bot­tone, un pollo arro­sto, o un bic­chiere di birra o una cara­mella al miele» pro­te­sta scri­vendo alla Fede­ra­zione di Bolo­gna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovie­tici» che i diri­genti del par­tito vor­reb­bero impor­gli per cele­brare la sua per­so­na­lità, chie­den­do­gli di posare per un busto: «Que­sto si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridi­cola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distrug­gere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto cre­desse alle difese argo­men­tate dell’esperienza sovie­tica in cui si pro­du­ceva, avendo però fin dal ritorno in Ita­lia chia­rito che quel modello non era impor­ta­bile né da imi­tare in forma inge­nua e ripe­ti­tiva.

Molto signi­fi­ca­tivo è anche quel che emerge sulla con­ce­zione della demo­cra­zia par­la­men­tare, che fu uno dei car­dini su cui il Pci di Togliatti venne costruito. In un momento in cui i lea­ders poli­tici si espri­mono in par­la­mento come se si tro­vas­sero alla Sagra della Fet­tunta di Rignano, è istrut­tivo lo scam­bio di let­tere del mag­gio 1964 con Pie­tro Nenni a pro­po­sito della deca­denza della prassi par­la­men­tare. Lo sca­di­mento dello stile di lavoro dei par­la­men­tari si regi­stra nella «deca­denza del dibat­tito e quindi anche dell’istituto par­la­men­tare. Que­sti discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei par­titi gover­na­tivi e dei diri­genti del governo, e i voti che inter­ven­gono poi, a cor­ri­doi affol­lati, su posi­zioni ela­bo­rate in altra sede, sono un fatto assai grave». Già in una let­tera a Gio­vanni Leone (pre­si­dente della Camera) del 23 luglio 1958 aveva con­di­viso il per­so­nale rifiuto, a norma di rego­la­mento, dei testi «scritti» in pre­ce­denza e non svi­lup­pati al cospetto dei depu­tati, avver­tendo però che rispetto all’antica tra­di­zione par­la­men­tare il discorso poli­tico, nell’epoca dei grandi par­titi popo­lari, non poteva che assu­mere ormai «aspetti ben diversi dalla sem­plice dotta con­ver­sa­zione», soprat­tutto per chi rap­pre­sen­tava classi popo­lari e non pro­ve­niva dalle «classi colte, avvo­cati, docenti uni­ver­si­tari, ecc.» e che per­tanto nella ste­sura scritta tro­vava «asso­luta neces­sità». Tempi molto lon­tani da noi, come si vede.
E lo si com­prende ancor meglio dalla chiusa della let­tera, con il rin­gra­zia­mento a Leone per l’aiuto finan­zia­rio a lui con­cesso dalla Camera per motivi di salute: «pur­troppo si riscon­tra con troppa evi­denza, in caso di infer­mità, quanto grande sia il diva­rio tra la retri­bu­zione che giu­sta­mente richiede un libero pro­fes­sio­ni­sta, anche mode­sto, e quella cui dà diritto l’attività par­la­men­tare». Non c’era una «casta», anche se l’antiparlamentarismo non man­cava di certo negli umori ata­vici dell’ideologia ita­liana.

Il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della scom­parsa di Togliatti e il tren­te­simo di Ber­lin­guer si sono intrec­ciati. Sono figure che non vanno con­trap­po­ste, e Ber­lin­guer fino alla fine degli anni Set­tanta si mosse in una linea di evi­dente con­ti­nuità con alcuni capi­saldi dell’ispirazione togliat­tiana, per poi intra­pren­dere nell’ultima e breve fase della sua vita una ricerca bru­sca­mente inter­rotta di cui nes­suno può ipo­tiz­zare com­piu­ta­mente gli esiti pos­si­bili. Sono stati anni­ver­sari che hanno evi­den­ziato il sedi­men­tarsi di «for­tune» molto diverse, e quasi di mito­lo­gie dif­fe­ren­ziate, sostan­ziate spesso di empa­tia con­fusa in un caso, di fredda dif­fi­denza (se non dam­na­tio memo­riae) nell’altro.

La «questione nazionale»


Pro­ba­bil­mente nes­sun can­tante dichia­rerà mai che votava comu­ni­sta per­ché Togliatti «era una brava per­sona». Fu in effetti per­so­nag­gio assai più rispet­tato e sti­mato che «amato» (se pure dopo l’attentato del luglio 1948 e nei fune­rali dell’agosto 1964 era emerso un pro­fondo legame popo­lare nutrito anche di affetto). E cer­ta­mente il mondo di Togliatti dopo mezzo secolo non esi­ste più, si è com­ple­ta­mente dis­solto in tutti i suoi pre­sup­po­sti, negli sce­nari nazio­nali e ancor più inter­na­zio­nali. Eppure mi sen­ti­rei di affer­mare che ci sono ele­menti di attua­lità mag­giore nel lascito di Togliatti che in quello di Ber­lin­guer (almeno così come viene vis­suto e inter­pre­tato).
Se la «que­stione morale» di Ber­lin­guer è ormai con­cetto lar­ga­mente inser­vi­bile, espo­sto a tutti i mora­li­smi e giu­sti­zia­li­smi delle piazze, è soprat­tutto la «que­stione poli­tica» che Togliatti ha lasciato in ere­dità ad assu­mere la dimen­sione di un enorme nodo irri­solto. Un grande par­tito di massa che rap­pre­senti il mondo del lavoro, auto­nomo da poteri forti, gruppi di pres­sione e mosche coc­chiere, inca­na­lato in una demo­cra­zia par­la­men­tare non ever­siva dell’esistente e mediata da una Costi­tu­zione pro­gram­ma­tica, un par­tito in grado di costruire con tena­cia rap­porti di forza più favo­re­voli ai lavo­ra­tori, e che si fondi su una auten­tica par­te­ci­pa­zione popo­lare e non su ristrette éli­tes di intel­let­tuali o pic­cole sette depo­si­ta­rie di dot­trine immu­ta­bili.
Que­sto è man­cato dram­ma­ti­ca­mente nel quarto di secolo che ci separa dall’eutanasia della crea­tura poli­tica ideata da Togliatti, e attorno a que­sta assenza si con­suma il vuoto, muto nella sostanza, chias­soso nelle forme, della poli­tica italiana.
Dall’inchiesta di

Repubblica due articoli lanciano l'allarme sul forte rischio di chiusura di due strumenti (Archivio Centrale dello Stato e Biblioteca Nazionale) unici, per chi non sia così folle da pensare che la storia abbia meno importanza degli inutili interventi per Grandi Opere, o delle anticostituzionali spese militari. La Repubblica online, 20 agosto 2014

UN TAGLIO ALLA STORIA

E' un grido d'allarme. Un urlo, quasi disperato, per evitare la scomparsa della nostra memoria collettiva. Quella costruita in decenni sulla base di documenti che raccontano l'Italia. Un colpo di grazia alla sopravvivenza dell'Archivio Centrale dello Stato. Per il sovrintendente Agostino Attanasio non c'è dubbio: con questo ennesimo taglio ai fondi della cultura è la nostra storia, la nostra cultura come uomini e come Paese, che rischia di scomparire. Una mole imponente di documenti spesso rari e preziosi, come gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci o le carte sul sequestro Moro, che testimoniano il percorso fatto dall'Italia dall'unità ad oggi.

"L'Archivio Centrale dello Stato", spiega il responsabile della struttura, "ha un fabbisogno minimo, quello che i ragionieri chiamano spese incomprimibili: 800mila euro all'anno. Con quella cifra possiamo sopravvivere, fare le operazioni correnti. Nient'altro che il semplice ordinario. Nel 2013, invece, abbiamo ricevuto 650.000 euro, esattamente la metà dei fondi che avevamo avuto nel 2012". I conti sono semplici e il risultato è drastico."Finora", insiste il sovrintendente Attanasio, "siamo sopravvissuti a questi tagli perché siamo stati pessimisti verso il futuro: abbiamo gestito all'insegna del risparmio, lasciando dei fondi a disposizione perché temevamo di andare incontro a periodi poco felici. Ma a partire dal prossimo anno, se la situazione non cambierà in modo radicale, l'Archivio Centrale dello Stato chiuderà. Già quest'anno non sarà semplice fare il bilancio".

Con i suoi 120 chilometri di scaffali e una media di 36mila pezzi movimentati all'anno, l'Archivio Centrale dello Stato rappresenta da oltre mezzo secolo la memoria storica e documentaria del nostro paese, il punto di riferimento obbligato per ogni tipo di ricerca sull'Italia unitaria. Fu istituito nel 1953 ma l'esigenza della nascita di un grande istituto archivistico di livello nazionale si era posta già nel 1943, all'indomani del 25 luglio, quando si comprese di dover garantire la sopravvivenza degli archivi fascisti per il loro valore di fonti storiche.

Sin dall'inizio, prima ancora della sua apertura, si pose però uno dei grossi problemi strutturali dell'Archivio Centrale: i depositi. La sede fu progettata nell'ambito dei lavori per l'E42, quello che oggi conosciamo come Eur, ma la guerra non permise di terminare tutti gli edifici. Il primo sovrintendente, Armando Lodolini, propose al ministero dell'Interno di svolgere i lavori di adeguamento dell'edificio non ancora terminato in modo da renderlo idoneo a ospitare un istituto che avrebbe dovuto poi conservare masse notevoli di documentazione. Il ministero, tuttavia, non accettò questa proposta: "Il risultato", lamenta Attanasio, "è una sede molto prestigiosa, adeguatissima per quello che riguarda gli spazi pubblici, la sala studio, la sala convegni e gli uffici, ma del tutto inidonea per la conservazione dei depositi archivistici. Su 120 chilometri di scaffalature che conserviamo", osserva ancora il sovrintendente, "direi che al massimo 40 chilometri sono in una condizione idonea. Nel nostro edificio laterale, per esempio, ci sono delle vetrate enormi per cui d'estate fa molto caldo e d'inverno molto freddo: una realtà opposta a quelle che dovrebbero essere le condizioni per una corretta conservazione degli archivi. Potremmo creare un condizionamento ambientale, ma già oggi spendiamo 200.000 euro di energia elettrica. La prospettiva fattibile, quella da perseguire, è immaginare dei depositi funzionali, moderni ed economici".

Per questo motivo il sovrintendente Attanasio sponsorizza l'idea del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di trasferire una parte abbastanza consistente di documentazione in un deposito a Pomezia e trasformare quest'ala in un Polo Museale. "Ci saranno ovviamente delle spese a carico del ministero per i lavori di ristrutturazione - dice Attanasio - ma l'ACS risparmierebbe almeno un milione di euro". Sorgerebbe però il problema dell'accessibilità della documentazione trasferita a Pomezia, che per essere consultata dovrebbe essere riportata ogni volta nella sede dell'Eur con un servizio di navetta. "Purtroppo", commenta con una punta di amarezza il sovrintendente, "dobbiamo fare i conti con la realtà in cui viviamo. In un Paese dove fosse davvero possibile fare le cose in modo organico, serio e con prospettive ampie e ambiziose, lo Stato ragionerebbe in modo diverso. Avremmo potuto fare come a Barcellona o a Londra: costruire in una periferia romana una sede davvero avanzata e funzionale. Avremmo potuto e dovuto fare questo, ma queste cose si decidono a livello politico e richiedono una visione d'insieme più ampia di quella che c'è stata in Italia in questi anni. Considerando tutto ciò la soluzione di Pomezia è la migliore possibile. L'accessibilità alla documentazione sarà garantita da un servizio navetta serio ed efficiente che pagheremo con le economie che facciamo sull'affitto. In questo modo noi possiamo garantire un servizio nettamente migliore di quello che c'è adesso sia sul piano della conservazione dei documenti sia sul piano dell'offerta che garantiamo agli studiosi".

Il problema dello spazio diventerà ancora più pressante quando verrà attuata la direttiva Renzi che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna e rapido 904 finora coperti dal segreto di Stato. Già in autunno l'Archivio centrale dello Stato riceverà le prime carte e si porrà un problema di collocazione per la loro conservazione e la loro sicurezza perché alcuni documenti contengono dati sensibili che non possono essere messi in consultazione. "Stiamo ancora definendo le procedure, ma credo che il metodo sarà lo stesso che abbiamo usato con il versamento Moro: alcuni nomi e dati che appartengono alla realtà attuale verranno obliterati perché non possono essere consultati", dice Attanasio. I segreti di Stato saranno solo gli ultimi acquisti.

Nei faldoni conservati all'Archivio Centrale dello Stato si trova di tutto, anche soldi: nel fascicolo 89/A della Polizia Politica relativo a Michele Schirru, un anarchico fucilato dal regime fascista per l'intenzione di uccidere Benito Mussolini, c'è ad esempio - in perfetto stato di conservazione - un assegno di duemila lire del Crédit Lyonnais datato 3 febbraio 1931 che fu sequestrato a Schirru.

L'assegno e milioni di altre carte sono custodite in grossi faldoni, chiamati buste: fino a qualche anno fa ogni studioso poteva consultare un totale di 16 buste al giorno distribuite in 4 turni. Negli ultimi anni il personale è diminuito costantemente. Ma non è stato sostituito con nuovi ingressi. E' venuto così a mancare anche qui quel ricambio generazionale che ha più dimestichezza con le nuove tecnologiee potrebbe avere un impatto più produttivo con le realtà esterne: studiosi, storici, giornalisti, semplici cittadini animati dal desiderio di consultare concretamente la documentazione raccolta attorno a singoli episodi e su questi costruirsi un giudizio oggettivo. Appunto, storico. La carenza di personale ha avuto riflessi sull'organizzazione del lavoro. I turni giornalieri sono diventati 2 e le buste consultabili solo 6. "Da parte nostra", si difende il sovrintendente, "abbiamo fatto ciò che era possibile fare. Sul piano della digitalizzazione ci sono stati notevoli progressi. Puntiamo a rendere tutti i 1500 inventari presenti in sala studio consultabili online. Finora ne abbiamo 120 e altri 350 circa sono in attesa di convalida. Per settembre avremo a disposizione sulla rete tutto il fondo della segreteria particolare del duce".

Negli ultimi vent'anni i filoni di ricerca che hanno interessato l'archivio sono diventati molto più eterogenei: se prima si andava a fare una semplice ricerca storica ora si compiono anche studi amministrativi e ricerche per il restauro. È una documentazione importante. Essenziale per capire la nostra storia e il nostro paese. Non solo per gli specialisti, ma per tutti noi.

A RISCHIO ANCHE LA BIBLIOTECA NAZIONALE


Vorrei che qualcuno mi spiegasse qual è il limite sotto al quale la barca affonda. Perché taglia oggi, taglia domani, alla fine il naufragio è garantito". È afflitto il direttore della Biblioteca Nazionale di Roma, Osvaldo Avallone, costretto a denunciare che l'austerità oltre a ridurre il numero delle persone, mette a rischio la memoria dei libri. "Ricevevamo finanziamenti per 3.089.000 euro, ora siamo arrivati a 1.250.000. Io credo che il limite sia stato superato da parecchio tempo", denuncia.

La Biblioteca di Castro Pretorio è un palazzo con dieci piani di magazzini, dodici sale di lettura e sette milioni di unità bibliografiche. Un patrimonio documentale di inestimabile valore artistico, storico e sociale che ha reso la Nazionale un punto di riferimento per studenti, ricercatori, storici, appassionati e turisti. "In ogni Paese civile del mondo la Biblioteca Nazionale è l'emblema della nazione", osserva ancora il direttore. "In Francia riveste un'importanza legata all'identità di un paese, la British Library in Inghilterra è conservata come un piccolo gioiello, gli Stati Uniti ne fanno un vanto. Qui in Italia, rappresentiamo un peso, un vero fastidio. Nessuno si preoccupa di questa istituzione se non a parole".

A causa della penuria di risorse che da sempre tormenta il sistema culturale italiano, la Biblioteca Nazionale di Roma ha subito nel corso degli anni costanti tagli al budget, ai quali si sono accompagnate decurtazioni dei servizi e degli orari. Intanto, il personale. Secondo la pianta organica la Biblioteca dovrebbe poter contare su almeno 108 custodi: oggi ce ne sono appena 37. Cosa vuol dire questo in termini di fruizione del servizio che l'ente offre? "È evidente che si lavora lo stesso, ma c'è un solo custode che deve lavorare per due. Niente pause, impegno gravoso, orari più lunghi. I risultati ne risentono. Chi studia o fa ricerca alla fine ottiene il servizio. Ma a pessime condizioni: se prima il libro chiesto si otteneva dopo mezz'ora ora ci vuole un'ora".

"Il fatto che la Biblioteca non abbia ancora chiuso i battenti non significa che funzioni bene con 207 unità. Abbiamo dovuto rinunciare alla distribuzione pomeridiana dei libri; il nostro orgoglio era la catalogazione, eravamo riusciti ad aggionarci dopo un lungo impegno personale: i nuovi libri venivano catalogati e messi a disposizione degli studiosi man mano che arrivavano, ma questo allineamento sarà durato sei mesi. Il personale va in pensione, non c'è ricambio, e il sistema si disallinea".

L'età media dei dipendenti di Castro Pretorio, del resto, si aggira intorno ai 57 anni. L'ultimo concorso rilevante di bibliotecari risale al 1984. "La colpa sostengono sia la crisi economica - commenta il direttore - Sarà anche vero. Non lo dubito. Ma come in tutte le crisi si deve anche compiere delle scelte: se si continua in questo modo tra cinque anni questo istituto chiude. Anzi. Potrebbe accadere prima. Per motivi anagrafici". Eppure le soluzioni per evitare l'impensabile esistono. "Bisogna avere la volontà politica di trovarle e adattarle - spiega ancora Avallone - Io mi auguro solo che cesserà questa politica dei tagli indiscriminati. Si colpisce un po' ovunque per risparmiare. La Cultura è un bene imprescindibile. Rappresenta la nostra identità. Mai come in questo momento c'è bisogno di tutelarla. Con politiche di assunzione e di formazione del personale mirata".

L'icona che accompagna questo articolo è una incisione del XIII sec. della "nave dei folli"

C'è chi spera ancora nel cambiamento di Matteo Renzi: scriveLaura Pennacchi nell'intervista a Massimo Franchi: «Dopo le europee Renzi aveva parlato della necessità di un piano keynesiano. Ora può benissimo farlo, invece di raccattare quattro spicci dai soliti noti. I referendum possono essere un primo passo».

Il manifesto, 20 agosto 2014

«Renzi dopo il suc­cesso alle euro­pee parlò di piano key­ne­siano. Dob­biamo dar­gli cre­dito, facen­do­gli però notare tutte le incoe­renze del suo agire. Con l’Europa invece biso­gna pro­prio cam­biare strada, le cose stanno andando così male e cam­biando così in fretta che una svolta nel modello di svi­luppo è tutt’altro che un’utopia e i refe­ren­dum con­tro l’austerità pos­sono essere il primo passo». Laura Pen­nac­chi, respon­sa­bile del Forum eco­no­mia della Cgil, sot­to­se­gre­ta­ria al Tesoro con Prodi, riflette con «otti­mi­smo» sulle indi­scre­zioni sulla mano­vra che arri­verà in con­tem­po­ra­nea con la sca­denza della rac­colta delle 500mila firme per modi­fi­care le norme ita­liane su Fiscal com­pact e pareg­gio di bilancio.

Nei tanti piani che ad ago­sto si affib­biano al governo spunta un con­tri­buto di soli­da­rietà per le pen­sioni più alte. Come lo giudica?

Potrebbe essere un’idea giu­sta se si appli­casse l’indirizzo che sug­gerì la Corte quando dichiarò inco­sti­tu­zio­nali prov­ve­di­menti simili dei governi Ber­lu­sconi e Monti: il pre­lievo deve essere su tutti i red­diti, non solo su quelli da pen­sione. Se si deci­desse di chie­dere un con­tri­buto di soli­da­rietà pro­gres­sivo che col­pisse anche i red­diti scan­da­losi dei mana­ger pub­blici e pri­vati si potrebbe otte­nere una cifra cospi­cua da uti­liz­zare per ridurre la disu­gua­glianza, che vede il nostro Paese al secondo posto nell’indice inter­na­zio­nale che la misura, die­tro solo agli Stati Uniti.

Il governo pare invece voler uti­liz­zare i pro­venti delle sole pen­sioni e mira a col­pire soprat­tutto coloro che hanno un asse­gno cal­co­lato col metodo retri­bu­tivo, ormai con­si­de­rati da tutti dei privilegiati.

Indub­bia­mente c’è una dif­fe­renza forte tra chi è andato in pen­sione col retri­bu­tivo e chi ci va ora. Ma una misura del genere col­pi­rebbe soprat­tutto i lavo­ra­tori auto­nomi che fino al 1990 paga­vano solo il 10% dei con­tri­buti: il rical­colo por­te­rebbe a tagli stra­to­sfe­rici dei loro asse­gni. Per la fina­lità dei pro­venti del con­tri­buto di soli­da­rietà invece io pro­pendo per inve­sti­menti pub­blici che creino lavoro, la vera emer­genza. Quando pre­sen­tammo i refe­ren­dum alla Camera, un son­dag­gio con­dotto da Nicola Pie­poli mostrò come il 70% degli ita­liani era dispo­sto a un con­tri­buto di soli­da­rietà da mille a 5 mila euro se fosse ser­vito per dare lavoro ai gio­vani. Per que­sto dico che avendo un’ambizione quasi rivo­lu­zio­na­ria il governo dovrebbe per­cor­rere que­sta strada e non rac­cat­tare quat­tro spicci dai soliti noti col­pendo le pen­sioni medie.

Quale sarebbe una soglia accet­ta­bile per que­sto contributo?

I 90mila euro annui sono pari a 3.500 al mese, un livello accet­ta­bile per ini­ziare a discu­tere, soprat­tutto per­ché sarebbe un inter­vento pro­gres­sivo che col­pi­rebbe i più ricchi.

Lei crede che Mat­teo Renzi abbia la forza poli­tica per por­tare avanti un piano del genere? Alfano non gri­de­rebbe alla “patrimoniale”?

Non si trat­te­rebbe di una patri­mo­niale, ma di un con­tri­buto di soli­da­rietà. La Corte costi­tu­zio­nale lo ha quasi auspi­cato nelle moti­va­zioni della sen­tenza. Dopo il suc­cesso alle euro­pee Renzi ha par­lato di neces­sità di “un inter­vento key­ne­siano” e quindi penso che potrebbe benis­simo farlo. Anzi, dob­biamo spro­narlo. Con­te­stan­dolo però dura­mente quando ad esem­pio non rilan­cia la poli­tica indu­striale pun­tando solo sulle privatizzazioni.

In paral­lelo poi il governo pare trat­tare con la nuova Com­mis­sione euro­pea mar­gini sul rien­tro dal defi­cit. Potrà bastare per avere una Legge di sta­bi­lità non recessiva?

C’è ben altro da met­tere in gioco con la Com­mis­sione rispetto alle pic­cole modi­fi­che dei para­me­tri. Ma le cose stanno andando così male — l’intera area Euro è in sta­gna­zione con una cre­scita nel 2014 sti­mata sotto l’1% — e stanno cam­biando così velo­ce­mente — anche la loco­mo­tiva Ger­ma­nia è in obiet­tiva dif­fi­coltà — che ci sono tutte le con­di­zioni per met­tere in sof­fitta il fal­li­mento delle poli­ti­che ottuse e miopi di auste­rità e rilan­ciare l’intervento pub­blico. Par­tendo, come hanno chie­sto prima Visco e poi Dra­ghi, dagli inve­sti­menti per l’occupazione: c’è un enorme liqui­dità che non si tra­muta in inve­sti­menti. Un risul­tato che pos­sono rag­giun­gere solo le isti­tu­zioni pub­bli­che usando la leva pub­blica. Serve una rivo­lu­zione cul­tu­rale e per que­sto i nostri refe­ren­dum pos­sono essere un punto di svolta, a par­tire dal rag­giun­gi­mento delle 500mila firme entro settembre.

Sem­bra otti­mi­sta sul futuro eco­no­mico del continente…

Dob­biamo essere otti­mi­sti, la situa­zione è tale da darci pos­si­bi­lità infi­nite di cam­bia­mento. Karl Polany era spie­tato nel descri­vere i pro­blemi del capi­ta­li­smo, ma non meno spe­ran­zoso di poterlo cambiare.

A pro­po­sito di refe­ren­dum: molti a sini­stra hanno storto la bocca leg­gendo il nome di Mario Bal­das­sarri, vice­mi­ni­stro dell’Economia con Ber­lu­sconi, nel comi­tato pro­mo­tore, o l’adesione di Fra­telli d’Italia.

I refe­ren­dum sono uno stru­mento largo per loro natura. Chiun­que appoggi le idee alla base dei que­siti è il ben­ve­nuto in que­sta bat­ta­glia. Le boc­che storte mi sem­brano una pru­de­rie tipica di una sini­stra che col­tiva una purezza sterile.

Dilemmi che è impossibile sciogliere se non si sa rispondere prima alla domande: che nesso c’è tra chi con le guerre ingrassa e chi gestisce il potere; e come si può fare per romperlo?

La Repubblica, 20 agosto 2014
Il concetto di “guerra giusta” da decenni dilania le coscienze degli individui e condiziona le scelte degli Stati. Le parole del papa sulla «Terza guerra mondiale fatta a pezzi» sono una formula che sarà consegnata alla Storia. Mirabile fotografia di «un mondo in guerra dappertutto », rilanciano un dibattito, che è senza risposte morali certe e senza soluzioni politiche incontrovertibili, ma che ci pone davanti a decisioni angoscianti in un quadro geopolitico devastato da conflitti crudeli fino alla barbarie.

Come ci ricordava Federico Rampini su questo giornale, ci sono oggi nel mondo soltanto 11 Paesi che non sono coinvolti in guerre. Nel 1996, contro chi preconizzava la “fine della Storia” dopo la frantumazione dell’Urss, Samuel Huntington scriveva, nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale , che “le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Ma neppure questo lungimirante politologo fondatore di Foreign Policy , una delle più rispettate riviste di politica internazionale, avrebbe immaginato nel nuovo millennio un mondo così piagato da guerre, con «l’umanità spaventata da due problemi: la crudeltà e la tortura», come ha detto Papa Francesco.

Nessun pontefice può spingersi a definire giusta una guerra. Perfino un laico come Norberto Bobbio, che parlò di «guerra giusta» per l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, fu intensamente lacerato dalla sua stessa audacia. Che pure era l’esito di una riflessione storica e geopolitica impeccabile. Finita l’era del bipolarismo, con due superpotenze che si fronteggiavano a tutto campo (dall’ideologico al militare), ma che al tempo stesso garantivano un rigido controllo degli impulsi bellicistici magari con la dottrina solo apparentemente surreale della “reciproca distruzione assicurata” (Mad, secondo l’acronimo inglese, che vuol dire anche “pazzo”, appunto), il mondo era tornato a una logica quasi medievale di una guerra indiscriminata tra bande. Dai conflitti balcanici dei primi anni ‘90 in poi abbiamo assistito a un’escalation di violenza globale di cui le cronache di orrore che ci arrivano ogni giorno dal nord dell’Iraq sono soltanto la punta dell’iceberg.

Se per Jurgen Habermas la causa umanitaria era stata motivo sufficiente per giustificare l’intervento in Serbia, che direbbe oggi di fronte all’eccidio di cristiani da parte dei fanatici sostenitori del Califfato? Dove si spingerebbe la riflessione di Norberto Bobbio sulla «guerra giusta», che gli era stata suggerita dal timore di un nuovo appeasement come l’accordo di Monaco del 1938? Non solo la Storia non è finita, come aveva incautamente affermato Francis Fukuyama dopo il 1989. Ma la Storia ci pone di fronte a dilemmi sempre più angoscianti, a tragedie sempre più inaudite, a orrori sempre crescenti in una moltiplicazione esponenziale dei demoni della guerra, in cui agli “Stati canaglia” di reaganiana memoria si sono sommati gli “individui canaglia”, di cui Bin Laden è stato il progenitore superato in ferocia dai suoi macabri epigoni.

«Gli aggressori ingiusti, come quelli in Iraq, vanno fermati», ha detto papa Francesco. Di più non poteva dire nel solco di una tradizione che da Benedetto XV («l’inutile strage» riferita alla Prima guerra mondiale») in poi non ha mai giustificato apertamente nessuna guerra. Ma con le sue parole il pontefice ha riecheggiato le coraggiose elaborazioni di papa Wojtyla sulla guerra in Iraq, dopo quella nel Kosovo. «Sappiamo bene — disse all’Angelus del 16 marzo 2003 — che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità». E due mesi prima al corpo diplomatico accreditato in Vaticano aveva avvertito che «la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità» e che «non si può fare ricorso alla guerra anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni» (parole che non piacquero ai pacifisti, alcuni dei quali gli chiesero di non lasciare «scappatoie per gli incisi e i distinguo»).

Ed ecco Francesco, undici anni dopo, dire che gli aggressori vanno fermati «non dico con le bombe, però bisogna valutare con quali mezzi e con una decisione comune delle Nazioni Unite». È un richiamo fortissimo e straziato alle responsabilità della Politica. È un monito alle potenze, dagli Stati Uniti alla Russia, alla stessa Europa (così incapace, invece, di esserlo, una potenza), a mettere da parte rivalità ed egoismi per combattere insieme la barbarie nella quale il mondo sta sprofondando. È quasi un’invettiva (se si può usare questo termine per le parole di un pontefice) affinché le Nazioni Unite non diventino imbelli come la Società delle Nazioni. Chissà se al Palazzo di Vetro i cosiddetti “grandi della terra” la smetteranno di giocare ai veti incrociati e lo ascolteranno?

Vengono al pettine i nodi provocati nella realtà mediorientale dalla sciagurata guerra irakena di Bush (e alleati-servi europei). L'unica risposta cui l'Italia si accoda, è fornire ancora strumenti di morte a un Terzo mondo saturato di armi fornite dal Primo.

Il manifesto, 19 agosto 2014

Armi ai kurdi? Pre­fe­ri­remmo di no. Non solo e non tanto per­ché il ful­gido sol­dato Casini, che non ricor­diamo più a quale set­tore di destra appar­tenga, è diven­tato il soste­ni­tore di que­sta pro­po­sta scel­le­rata che in piena estate arriva ad una com­mis­sione esteri del par­la­mento con­vo­cata d’urgenza dal governo a pro­nun­ciarsi in fretta sull’argomento, anche se l’esito dell’invio di armi appare scontato.

Del resto, così fan tutti nell’Europa del bara­tro della crisi eco­no­mica, che non vede come il Medio Oriente sia così stra­pieno di armi, arri­vate spesso a scopo “uma­ni­ta­rio”, che la guerra ne è orma il por­tato quo­ti­diano e san­gui­noso. Ma diciamo no in primo luogo per­ché l’Italia, nella “coa­li­zione dei volen­te­rosi”, ha par­te­ci­pato nel 2004 alla guerra all’Iraq inven­tata dagli Stati uniti di Gorge W. Bush che ha pro­dotto la tra­gica deva­sta­zione che è sotto i nostri occhi. E’ da lì infatti che ha avuto ori­gine la rot­tura dell’equilibrio ira­cheno pre­e­si­stente tra sun­niti e sciiti e la scom­parsa di fatto dell’Iraq come Stato, fram­men­tato nelle sue fazioni e con un eser­cito diviso per appar­te­nenza reli­giosa inca­pace di fron­teg­giare la nuova insi­dia mili­tare e poli­tica rap­pre­sen­tata dallo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante (Isil), nato in Siria come effetto col­la­te­rale del soste­gno “uma­ni­ta­rio” in armi e con­si­glieri mili­tari, come già pre­ce­den­te­mente in Libia, della coa­li­zione degli “Amici della Siria”, una acco­lita di part­ner che vanno dagli Usa all’Arabia sau­dita, dalla Gran Bre­ta­gna alla Tur­chia, dall’Italia al Qatar.

Anzi­ché le armi biso­gna inviare soc­corsi dav­vero uma­ni­tari pen­sando ai civili, ai feriti, ai pro­fu­ghi, ai bam­bini: cibo, sani­tari, ospe­dali da campo, ten­do­poli. Senza dimen­ti­care che soste­nere mili­tar­mente la lea­der­ship del Kur­di­stan del lea­der Bar­zani invece dell’esercito di Bagh­dad rap­pre­senta un soste­gno alla spar­ti­zione dell’Iraq e all’obiettivo dell’indipendenza di uno stato etnico kurdo. Con l’apertura così del vaso di Pan­dora della que­stione kurda nella regione che met­te­rebbe in discus­sione l’esistenza di Stati uni­tari come la Tur­chia, l’Iran e la Siria già ampia­mente distrutta. Ma anche per­ché (reso­conti alla mano dei pochi repor­tage arri­vati da quelle zone a metà-fine luglio), quando l’Isil dila­gava dalla Siria a sud verso il cuore dell’Iraq, la lea­der­ship del Kur­di­stan ira­cheno ha sem­pli­ce­mente scelto di farsi da parte e lasciare pas­sare i jiha­di­sti, di stare a guar­dare l’ulteriore colpo inferto alla fle­bile unità ira­chena, quando non è arri­vata addi­rit­tura ad accor­darsi con l’Isil che in quel momento non met­teva in discus­sione il ter­ri­to­rio kurdo con i suoi pre­ziosi gia­ci­menti di petro­lio. C’erano stragi anche allora ma tutti tace­vano, com­presi i kurdi. Com­bat­te­vano lo Stato isla­mico le poche e male armate mili­zie del Pkk per­ché in prima fila e in fuga da troppi nemici, spesso anche dagli stessi pesh­merga di Barzani.

Qual­cuno adesso ci spie­ghi per favore il sot­tile para­dosso dell’invio di armi dell’Italia ai kurdi ira­cheni che, come scam­bio di potere e con­ces­sioni di spa­zio, faranno com­bat­tere al loro posto in prima fila le mili­zie del Pkk, quando pro­prio l’Italia ha con­se­gnato nelle mani dell’intelligence ame­ri­cana e alle galere tur­che il “ter­ro­ri­sta” Abdul­lah Oca­lan, lea­der tutt’ora indi­scusso del Pkk. Ecco che tor­niamo al “ter­ro­ri­smo” a geo­me­tria varia­bile, a seconda degli inte­ressi stra­te­gici glo­bali dei potenti della terra.

Si dirà subito che chi dice no all’invio di armi ai pesh­merga kurdi chiude gli occhi sulle stragi di cri­stiani e jiha­zidi. L’impressione è che ancora una volta la dispe­ra­zione delle mino­ranze venga uti­liz­zata a scopi tutt’altro che uma­ni­tari. Il papa stesso alza la voce sulla per­se­cu­zione dei cri­stiani – certo più di quanto abbia denun­ciato lo scem­pio delle decine di moschee distrutte dai raid israe­liani nella Stri­scia -, ma dice “basta guerra” e ricorda che non si fa “in nome di dio”. Intanto sono in troppi a pian­gere per le vit­time jiha­zide tutte le lacrime che non hanno ver­sato per le stragi di Gaza. Per la quale nes­suno, imma­gi­niamo, sen­ti­rebbe l’obbligo morale di chie­dere l’invio di armi ai pale­sti­nesi chiusi nelle pri­gioni a cielo aperto di Gaza e Cisgiordania.

I mas­sa­cri di cri­stiani — in corso in Iraq da due anni nel silen­zio ame­ri­cano della Casa bianca che enfa­tiz­zava il suo “miglior ritiro” da una guerra — come quelle della mino­ranza jiha­zida sono vere e feroci, ma non vanno enfa­tiz­zate e mol­ti­pli­cate nel reso­conto gior­na­li­stico, tanto più che nella stampa estera già qual­che accorto repor­ter, a corto di veri­fi­che, comin­cia a dire “pre­sunte”. A Gaza, a pro­po­sito di stragi, per certo hanno cele­brato in que­ste ore più di due­mila fune­rali, per l’80% di bam­bini, donne e vec­chi inermi.

Non è inviando armi, aggiun­gendo guerra su guerra, che il Medio Oriente sarà paci­fi­cato e verrà fer­mata la mano degli assas­sini e delle stragi. Se Obama vuole fer­mare dav­vero lo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante — non è più solo Al Qaeda, que­sto è un eser­cito — rompa i rap­porti eco­no­mici che legano gli Stati uniti alle petro­mo­nar­chie arabe, le stesse che sosten­gono l’Isil con finan­zia­menti e armi sofi­sti­cate. Sarebbe un momento di verità sulle crisi inter­na­zio­nali capace di cam­biare la fac­cia del mondo e dare l’alt all’avanzata del radi­ca­li­smo jiha­di­sta. Diven­tato inar­re­sta­bile, non lo dimen­ti­chiamo, anche gra­zie alle troppe guerre “uma­ni­ta­rie” occi­den­tali che hanno uti­liz­zato in chiave desta­bi­liz­zante il ter­ro­ri­sta di turno pro­mosso per l’occasione a utile “libe­ra­tore”. Con­fer­miamo invece, almeno sta­volta, l’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione che dichiara di “ripu­diare la guerra come mezzo di riso­lu­zione delle crisi internazionali”

In Italia il 5% dei contribuenti ricchi concentra il 22,7% del reddito. Perché abbassare salari e tagliare pensioni non ha prodotto (né produrrà) ripresa della nostra disastrata economia». Illustrazione ineccepibile di un economista che pensa e spiega.

Il manifesto, 19 agosto 2014

Torna l’idea di pro­muo­vere la cre­scita tagliando i salari e le pen­sioni “d’oro”. Tagliando i salari e libe­ra­liz­zando il mer­cato del lavoro – si dice – aumen­te­rebbe la domanda di lavoro, dun­que l’occupazione, dunque il pro­dotto. È ancora la ricetta della Trea­sury View del ’29, che viene argo­men­tata nel modo seguente.

Le imprese assu­me­ranno nuovi lavo­ra­tori se e sol­tanto se il sala­rio non è mag­giore della pro­dut­ti­vità del lavoro. Dal punto di vista della sin­gola impresa ciò è ragio­ne­vole: la sin­gola impresa con­ta­bi­lizza il sala­rio sol­tanto come un costo, e se c’è disoc­cu­pa­zione, è per­ché il sala­rio è troppo alto rispetto alla pro­dut­ti­vità del lavoro. Segue: se non ci fos­sero impe­di­menti giu­ri­dici o sin­da­cali, cioè se il mer­cato del lavoro fosse fles­si­bile come il mer­cato del pesce, sul mer­cato del lavoro si sta­bi­li­rebbe un livello di equi­li­brio del sala­rio, tale che non ci sarebbe disoc­cu­pa­zione invo­lon­ta­ria. Risul­te­reb­bero non occu­pati sol­tanto quei lavo­ra­tori che pre­ten­dono un sala­rio più alto della loro pro­dut­ti­vità, le imprese pro­dur­reb­bero tutto quanto sono in grado di pro­durre, e tutto quanto ven­de­reb­bero, poi­ché tutta la moneta dispo­ni­bile ver­rebbe impie­gata per com­pe­rare merci e giam­mai trat­te­nuta in forma liquida o a fini spe­cu­la­tivi.
L’argomentazione sem­bra con­vin­cente, e lo è tanto che ha ispi­rato e ispira tutte le cosid­dette riforme “strut­tu­rali” del mer­cato del lavoro. Però è una tesi che non regge, a meno che non si dia per scon­tato che tutte le merci pro­dotte pos­sano essere ven­dute, che conti sol­tanto l’offerta e non anche la domanda. La domanda aggre­gata di merci è costi­tuita dalla domanda per con­sumi, dalla domanda per inve­sti­menti, e dalla domanda estera.

La domanda per con­sumi, a sua volta, è costi­tuita dalla domanda di quanti hanno un red­dito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di ren­dita o di pro­fitti. In una situa­zione di disoc­cu­pa­zione e di bassi salari, aumenta la quota — sul pro­dotto sociale — delle ren­dite e dei pro­fitti. Si può pen­sare che i mag­giori con­sumi di lusso bastino a com­pen­sare i minori con­sumi dei lavo­ra­tori? Ovvia­mente no.

Si può tut­ta­via pen­sare che gli alti pro­fitti indur­ranno le imprese a aumen­tare la pro­du­zione di beni di con­sumo, dun­que l’offerta, dun­que l’occupazione? No, per­ché le loro aspet­ta­tive di ven­dita di beni di con­sumo saranno pes­si­mi­sti­che e liqui­de­ranno le scorte. Com­pen­se­ranno forse la minor domanda per con­sumi con loro nuovi inve­sti­menti? No: per­ché mai aumen­tare la capa­cità produttiva, se le pro­spet­tive di ven­dita sono pes­si­mi­sti­che? Dun­que l’unico effetto di bassi salari saranno alte ren­dite e alti pro­fitti, e l’impiego di que­sti e di quelle nella spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Speculazione finan­zia­ria che nel migliore dei casi è un gioco a somma zero, in cui Tizio gua­da­gna e Caio perde – ma tal­volta, come oggi, un gioco in cui perde anche Sem­pro­nio.
Resta la terza com­po­nente della domanda aggre­gata, le espor­ta­zioni. La capa­cità di espor­tare dipende forse da un basso prezzo delle merci offerte sul mer­cato inter­na­zio­nale? Per un lungo periodo così è stato, per le imprese ita­liane: fino a quando hanno potuto godere di sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive; ma su cui non potranno più con­tare, nem­meno se l’Unione euro­pea e dun­que l’euro si sgre­to­las­sero. La capa­cità di espor­tare dipende anche dal costo del lavoro, ma sopra­tutto dal con­te­nuto tec­no­lo­gico delle merci pro­dotte. Quanti pro­dotti a alto con­te­nuto tec­no­lo­gico abbiamo in casa, di pro­du­zione nazio­nale delle imprese nazio­nali?
Circa il taglio delle pen­sioni “d’oro”, giu­sti­fi­cato sol­tanto con una lamen­tosa mozione degli affetti, con l’invocazione alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, va detto che esso ha la natura di una imposta di scopo e che dun­que nel nostro ordi­na­mento è inam­mis­si­bile; e va ricor­dato che la Corte costi­tu­zio­nale si è già pro­nun­ciata, giu­di­cando tale pre­lievo in con­tra­sto con gli arti­coli 3 e 53 della Costi­tu­zione, rispet­ti­va­mente sul prin­ci­pio di ugua­glianza e sul sistema tri­bu­ta­rio: «L’intervento riguarda, infatti, i soli pen­sio­nati, senza garan­tire il rispetto dei prin­cipi fon­da­men­tali di ugua­glianza a parità di red­dito, attra­verso una irra­gio­ne­vole limi­ta­zione della pla­tea dei sog­getti pas­sivi».
Quanto alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, come ave­vano spie­gato Key­nes e Solow (che non sono i Gufi di Mat­teo Renzi e di Giu­seppe Giu­sti: «Gufi dot­tis­simi che pre­di­cate e al vostro simile nulla inse­gnate», ma due grandi eco­no­mi­sti) è molto dif­fi­cile deci­dere se sia cor­retto e ragio­ne­vole chia­mare la gene­ra­zione vivente a restrin­gere il suo con­sumo in modo da sta­bi­lire, nel corso del tempo, uno stato di benes­sere per le gene­ra­zioni future, e d’altra parte coloro che riten­gono prio­ri­ta­rio non inflig­gere povertà al futuro dovreb­bero spie­gare per­ché non attri­bui­scono ana­loga prio­rità alla ridu­zione della povertà oggi.
Resta, natu­ral­mente, la grave que­stione del bilan­cio pub­blico. Sotto i vin­coli oggi impo­sti dall’Unione Euro­pea, diventa cru­ciale la revi­sione della spesa – sopra­tutto della com­po­si­zione della spesa: non va ridi­men­sio­nato — come sinora si è fatto — ma va accre­sciuto il peso delle voci di spesa più ido­nee a ali­men­tare la domanda, e vanno sal­va­guar­date sanità, istru­zione e pen­sioni. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influen­zano la domanda a doversi ridurre, nella misura neces­sa­ria a rag­giun­gere il pareg­gio e a fare spa­zio nel bilan­cio alle spese da espan­dere e alla pres­sione tri­bu­ta­ria da limare. Con una simile, arti­co­lata mano­vra di finanza pub­blica, la domanda glo­bale, anzi­ché con­trarsi, rice­ve­rebbe soste­gno. Della revi­sione della spesa, tut­ta­via, molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male.
Oltre alla revi­sione della spesa, si deve pen­sare a una revi­sione delle entrate: in primo luogo al contra­sto all’evasione, e anche qui molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male. E si deve pen­sare a una revi­sione delle ali­quote dell’Irpef, secondo il det­tato della Costi­tu­zione al già citato arti­colo 53: «Tutti sono tenuti a con­cor­rere alle spese pub­bli­che in ragione della loro capa­cità con­tri­bu­tiva. Il sistema tri­bu­ta­rio è infor­mato a cri­teri di pro­gres­si­vità». Tut­ta­via l’aliquota mar­gi­nale mas­sima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i red­diti oltre i 75.000 euro, men­tre è noto a tutti che molti e di molto sono i red­diti più ele­vati: il 5% dei con­tri­buenti più ric­chi con­cen­tra il 22,7% del red­dito com­ples­sivo. Si potreb­bero dun­que ridurre le ali­quote per i red­diti più bassi e aumen­tarle per i redditi più ele­vati, per ovvie ragioni di giu­sti­zia sociale e per­ché così aumen­te­rebbe la spesa per con­sumi, e molto di più di quanto non siano aumen­tati con la bene­fi­cenza degli 80 euro. Di ciò, tutta­via, non si parla affatto.
Per­ché di tutto ciò non si parla e sem­mai si fa poco e male? L’unica rispo­sta plau­si­bile è che a ciò si oppon­gono inte­ressi costi­tuiti che non si vogliono o non si sanno con­tra­stare. Scri­veva Key­nes, nel 1936: «Il potere degli inte­ressi costi­tuiti è assai esa­ge­rato in con­fronto con la pro­gres­siva estensione delle idee», qui però si sbagliava.
Nell'icona una immagine inconsueta di John Maynard Keynes

CLa Repubblica, 19 agosto 2014

I governi Berlusconi,Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti.

Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani.

Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro

Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania;non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue.

Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.
Un’analisi semplice e chiara della trasformazione di fondo del sistema economico nel passaggio dal capitalismo fordista a quello dei nostri tempi. «l rentier, per il quale Keynes invocava l'eutanasia, è di nuovo alla testa del nostro sistema economico Chi, invece, vive del lavoro è spinto verso la povertà».

Sbilanciamoci.info, 19 agosto 2014
L'economia liberale usa il termine "imprenditore Sisifo" per riferirsi al fatto che l'imprenditore persegue razionalmente la massimizzazione di un profitto che però, alla fine, sarà nullo. I profitti hanno natura transitoria perché attirano concorrenti sul mercato, cosicché i margini si riducono, fino ad annullarsi. Per mantenere profitti positivi nel tempo non vi sono che due strade.

La prima è pigiare l'acceleratore sull'innovazione: se un'impresa è in grado di produrre sistematicamente innovazione, potrà sempre offrire qualcosa di meglio dei concorrenti e assicurarsi profitti anche molto elevati. La seconda è trasformarsi in rentier, ovvero in un soggetto che riceve denaro non per quello che fa, bensì per quello che possiede.

Anche per trasformarsi in rentier vi sono due strade: da un lato, è possibile ridurre la concorrenza, conquistando una rendita di posizione, operando sul mercato o a latere di esso, lecitamente o meno (si pensi a monopoli e oligopoli, ai brevetti e alle pressioni per allungarne la durata, fino alla corruzione per conseguire appalti pubblici); dall'altro, è possibile impiegare il proprio denaro per acquisire capitale finanziario o immobiliare.

L'imprenditore Sisifo che innova definisce uno degli scenari più virtuosi auspicabili di questi tempi, un'economia dinamica e creativa, che darebbe un giusto premio a coloro che perseguono il nuovo, i quali, comunque, non potrebbero dormire sugli allori e sarebbero invece spinti dalla concorrenza al continuo ampliamento della frontiera organizzativa e tecnologica. Viceversa, un'economia di rentier tende a fermarsi, perché ciascuno di essi si appropria di una parte dei beni prodotti senza dare alcunché in cambio; non a caso, a partire da Keynes si è invocata l'eutanasia del rentier , vista come strumento per liberare economia e società da un peso che ne depotenzia fortemente le prospettive. Per la stessa ragione, la tassazione della ricchezza sarebbe da privilegiare rispetto a quella sul reddito da lavoro e di impresa.

Dei due mondi descritti, la sensazione che in questa fase in Italia (ma non solo) prevalga il secondo è netta. Le difficoltà e la scarsità di prospettive sembrano avere spinto da parecchi anni molti attori economici a cercare di costruirsi un proprio recinto: imprese ex innovatrici si sono spostate in settori monopolistici o sull'immobiliare, mentre gli impieghi finanziari sono diventati superiori agli investimenti reali; professionisti di tutti i tipi (finanche i meccanici, con revisioni e bollini vari) hanno operato per costruirsi rendite di posizione sicure. Per la finanza, la crisi del 2008-2009 ha costituito, da questo punto di vista, solo una temporaneo intoppo. Anzi, le attuali dinamiche dei mercati indicano che essa ha riguadagnato il peso che aveva prima e la speculazione si è fatta ancora più aggressiva, laddove sono le economie reali a subire ancora i devastanti effetti della crisi.

In un mondo nel quale cresce l'importanza della rendita sulla produzione anche i ceti medi hanno vissuto l'illusione di poterne cogliere una parte, così da ottenere, grazie a rendite finanziarie e immobiliari, risorse adeguate a sostenere e migliorare il proprio standard di vita, malgrado la stasi dei salari. Si pensi all'illusione delle famiglie americane che fosse possibile comprare una casa senza realmente pagarla, grazie al continuo aumento dei valori immobiliari, che ha innescato la crisi nel 2008. O alla parallela illusione nostrana sul fatto che coi fondi pensione i lavoratori potessero conseguire pensioni elevate con contributi contenuti.

Ma tali illusioni sono tramontate, non senza conseguenze, e, in una società senza prospettive di crescita, la ricchezza dei ceti medi è arrivata ad assumere un ruolo di mero argine all'impoverimento. Le classi medie devono fronteggiare il fatto che nell'attuale fase si allontana sempre più non solo, se mai c'è stata, la prospettiva di promozione sociale attraverso il lavoro, ma anche quella di potersi assicurare attraverso il lavoro un'esistenza dignitosa.

Non rimane che la ricchezza, personale ma soprattutto familiare, cui votarsi per non scivolare indietro. Ritorna ad essere l'eredità, non più il lavoro, l'elemento che determina lo status. I prezzi delle abitazioni nelle grandi città rendono estremamente difficile, quando non impossibile, l'acquisto a chi dispone solo di redditi da lavoro, mentre alla ricchezza attingono un crescente numero di famiglie anche per far fronte alle esigenze di vita quotidiana. Per coloro che non hanno ricchezze cui attingere, le probabilità di sperimentare situazioni di povertà crescono a livelli che non si ricordavano più.

In tale contesto, uno Stato al testardo perseguimento del pareggio di bilancio si affanna alla ricerca di ulteriori entrate fiscali. Servirebbe un'azione forte e concertata internazionalmente per colpire drasticamente la grande rendita, contrastare la finanziarizzazione e la speculazione, punire i domicili fiscali di comodo, rilanciare un intervento pubblico in campo abitativo, incidere sul trasferimento familiare dei grandi patrimoni con un'adeguata tassa di successione. Servirebbe la volontà di distinguere fra finanza speculativa e finanza "buona". Non sarebbe impossibile, ma rentier , grandi patrimoni e finanza hanno potere e strumenti ormai tali da essere in grado di opporsi efficacemente ai pur blandi tentativi di regolazione.

Alla fine, come al solito, finisce per pagare chi ha qualcosa da parte ma non la capacità di difendersi. Così, i governi tendono non a spostare il prelievo fiscale dal lavoro alle grandi ricchezze, bensì a sommare al prelievo sul lavoro quello sulle ricchezze delle classi medie. Così è stato per le imposte sulla casa e per quelle sui conti correnti, per le quali si prefigura un ulteriore aumento. Così potrebbe essere in autunno, con la riduzione delle franchigie sulle tasse di successione.

C

Premessa
Due circostanzeci hanno spinti a cercare e riprendere proprio in questi giorni agostani questotesto, pubblicato sul sito della CGIL . 1. Integrare l’articolo chel’amico Giorgio Nebbia ci ha inviato e che abbiamo, come al solito, pubblicatonelle “opinioni”; 2. ricordare il bracciante pugliese di cui ricorreva recentemente l’anniversario della nascita (13 agosto 1898) proprio nei giorni in cui iquotidiani ci raccontano degli ulteriori tentativi delle forze che sorreggonoil governo Renzi di far pagare ancorapiù duramente al lavoro la crisi provocata dalla più recente (e letale)incarnazione del capitalismo.
Non è laprima volta che ricordiamo su eddyburg il significato che ebbe quella proposta scaturitadal mondo del lavoro. Che essa non sia stata riaccolta in quegli anni e rapidamente dimenticata dalla stessapolitica e cultura della sinistra italiana è un triste segno dei tempi. Cheessa sia stata ripresa dalla lista “l’altra Europa con Tsipras” e sia al centrodel dibattito per una nuova sinistra italiana ed europea è un segno di speranzaper il futuro.

IL PIANO DEL LAVORO 1949-50

Nel 1949, anno in cui, in ottobre, al Congressonazionale di Genova Giuseppe Di Vittorio presenta la proposta di un “pianoeconomico e costruttivo per la rinascita dell'economia nazionale”, l'Italia èancora tutta alle prese con gli effetti disastrosi della Seconda Guerramondiale. I senza lavoro sono due milioni, concentrati per gran parte al Sud,un milione di lavoratori sono ad orario ridotto e più di un milione dibraccianti è occupato solo saltuariamente. Anche le infrastrutture sono aiminimi termini, il tasso di scolarizzazione è tra i più bassi d'Europa, moltissimiitaliani sono costretti a emigrare, le diseguaglianze sono fortissime, la famee la malnutrizione sono realtà tangibili.
Ma il 1949 è anche un anno di mobilitazioni e dilotte di massa per il lavoro, per il salario, per il riscatto del Mezzogiornoche vedono la CGIL in prima fila. E a proposito del Mezzogiorno, Di Vittorio aGenova afferma “che l'unica spedizione militare che potrebbe riuscire aeliminare il banditismo e la mafia dovrebbe essere una spedizione di ingegnerie di tecnici”. Il Piano del lavoro nasce con un'ispirazione keynesiana e conl'idea di raccogliere e unire tutte le energie produttive per far sì che lafase delle ricostruzione coincida con un nuovo sviluppo del Paese. Non unatrasformazione radicale dei rapporti di classe, dunque, ma un deciso interventopubblico per correggere gli squilibri sociali ed economici. E, per la CGIL, unmodo di affermarsi come sindacato di proposta e di lotta anche su questioni dicarattere generale.
Il Piano, che dopo il Congresso di Genova vienepresentato l'anno successivo a Roma, può essere sintetizzato in tre direttricidi intervento: nazionalizzazione dell'energia elettrica con la costruzione dinuove centrali e bacini idroelettrici laddove erano più necessari, soprattuttoal Sud; avvio di un vasto programma di bonifica e irrigazione dei terreni perpromuovere lo sviluppo dell'agricoltura, specialmente nel Mezzogiorno; un pianoedilizio nazionale per la costruzione di case, scuole e ospedali. Larealizzazione del Piano prevedeva la creazione di 700 mila posti di lavoro e ifinanziamenti sarebbero arrivati da una tassazione progressiva “da richiederealle classi più abbienti, in modo particolare ai grandi gruppi monopolistici ealle società per azioni”; dal risparmio nazionale e da prestiti esteri che nonmettessero in discussione “l'indipendenza economica e politica della nazione”.
Anche se il Piano non diede nell'immediato irisultati voluti, indicò tuttavia alcune direttrici di politica economica chesarebbero poi state avviate avviate e realizzate dai governi dei decennisuccessivi (la nazionalizzazione dell'energia elettrica, le bonifiche, il pianoedilizio, ecc, per esempio). E produsse, inoltre, una straordinariamobilitazione civile, “un movimento - come ha sottolineato Bruno Trentin - cheliberò immense energie potenziali, che suscitò l'insorgere di nuovi fattiassociativi e organizzativi, di nuove forme di partecipazione dal basso”.
Riferimenti

Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da

eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.

Un titolo assai poco fedele al testo, nel quale uno degli intellettuali più ispirati dalla saggezza enuncia i rischi che stiamo correndo ora che i poteri istituzionali stanno, in vari mdi, a lavorare non “contro mano” ma contro i principi costituzionali.

La Re pubblica, 17 agosto 2014

La questione dei diritti civili è tornata nel discorso pubblico sulla scia della più ideologica e incostituzionale legge della storia repubblicana, quella sulla procreazione assistita. Scarnificata da sentenze nazionali e internazionali, le sue parti residue vengono ora adoperate non per restituire pienezza alla libertà di autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale ha di nuovo ribadito, ma per cercar di sollevare ancora qualche piccolo steccato ideologico. Segno di un tempo di evanescente legalità costituzionale e di una difficoltà politica interna alla maggioranza di governo, dove il Nuovo centrodestra tenta ossessivamente di proiettare all’esterno un’identità fatta di attacchi ai diritti delle coppie infertili, degli immigrati, dei lavoratori.

Questo clima rischia di accompagnarci nei mesi a venire, e dovrebbe indurre a qualche riflessione più generale, prendendo spunto anche dall’emendamento alla legge di riforma costituzionale che ha attribuito al futuro Senato il potere di concorrere alla legislazione nelle materie indicate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione - famiglia, matrimonio, salute. Temi definiti come “eticamente sensibili”, con una espressione ambigua che andrebbe cancellata dall’uso. O che dovrebbe essere completamente reinterpretata, poiché i temi oggi davvero eticamente sensibili sono quelli drammaticamente imposti dalla povertà dilagante e dalla disoccupazione, che negano i diritti sociali e la stessa “esistenza libera e dignitosa” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione.

Quell’emendamento ha avuto il merito di aver riportato davanti all’opinione pubblica la questione, dimenticata, dei diritti civili. Ma dobbiamo francamente dire che questa apertura rischia di determinare nuovi e pericolosi equivoci. Da una parte, infatti, fa emergere la necessità di rafforzare la garanzia dei diritti, sottraendola alla sola competenza di una Camera dei deputati che si annuncia dominata da una totalizzante logica maggioritaria, che non dovrebbe estendere le sue pretese oltre l’esigenza della “governabilità”. Dall’altra, invece, sottrae a questa garanzia tutti gli altri diritti fondamentali e opera una pericolosa separazione tra diritti civili e diritti sociali.

Con un ulteriore problema. Le materie considerate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione saranno considerate come un settore al quale il legislatore dedicherà interventi penetranti o, al contrario, come temi di cui si occuperà direttamente solo eccezionalmente e con il massimo rispetto di libertà e diritti? La via costituzionale è indicata nitidamente dalle parole che chiudono proprio l’articolo 32: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. E la Corte costituzionale ha collocato l’autodeterminazione tra i diritti fondamentali della persona. Questo vuol dire che il legislatore già oggi, e quale che sia il modo in cui alla fine verrà configurato il sistema istituzionale, deve sempre partire dalla premessa che vi sono limiti al suo potere, posti dalla Costituzione per impedire indebite invasioni della sfera di libertà delle persone.

Questo principio è stato ben poco rispettato negli ultimi anni, e questo atteggiamento sprezzante ha trovato conferme in questi giorni. La verità è che negli ultimi venti anni la tutela dei diritti è stata garantita quasi esclusivamente dai giudici costituzionali e ordinari, mentre il Parlamento cercava di ridurne illegittimamente l’ampiezza o rimaneva colpevolmente silenzioso. L’aggressione ai diritti delle coppie e alla stessa salute delle donne, cuore della famigerata legge sulla procreazione assistita, è stata sventata dalla Corte costituzionale. Ma il Parlamento è rimasto scandalosamente indifferente quando la stessa Corte e la Corte di Cassazione, seguendo pure le indicazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, hanno riconosciuto l’esistenza di un diritto fondamentale al riconoscimento delle unioni civili, anche quelle tra persone dello stesso sesso. E, travolti dall’euforia della cancellazione del bicameralismo paritario, non si dovrebbe perdere la memoria del fatto che la Camera aveva approvato la famigerata “legge bavaglio” sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e un orrido testo sul testamento biologico. Solo la previsione di un successivo esame del Senato ha impedito che quei testi divenissero leggi dello Stato. Garanzie e equilibri, questi, sui quali bisogna sempre riflettere e che non possono essere allegramente travolti dal turbocharged constitutionalism oggi imperante.

Alla democrazia parlamentare aggressiva o indifferente degli anni passati si è progressivamente affiancata una ben diversa “democrazia di prossimità”, incarnata dai comuni, dove ora si scopre il fiorire di una serie di iniziative volte proprio a offrire garanzie per i diritti delle persone trascurati da Parlamento e Governo. Vi sono registri dei testamenti biologici e per i patti di convivenza, e si cominciano a trascrivere nelle anagrafi comunali i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. Si prevedono “garanti” per i diritti dei bambini e per i detenuti, e forme di “cittadinanza civica” che, pur priva di immediati effetti giuridici, assume un fortissimo valore simbolico quando viene pubblicamente attribuita a immigrati. Si individuano modalità di destinazione a cittadini di beni per iniziative comuni e di collaborazione tra cittadini e comuni “per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”.

Siamo alle soglie di una sorta di schizofrenia istituzionale, dove solo l’allontanarsi dai pericolosi connubi della politica nazionale consente il dispiegarsi della logica dei diritti? Comunque sia, sono evidenti dinamiche sociali che segnano le nuove frontiere, lungo le quali le persone possono incontrare le istituzioni. Ma questo è impossibile là dove la negazione dei diritti assume dimensioni di massa, dove sono in questione il lavoro e la stessa sopravvivenza materiale. Ecco perché, nel mutare delle regole istituzionali, è pericoloso formalizzare una distinzione netta tra diritti civili e diritti sociali, abbandonando questi ultimi alle sole dinamiche di mercato, mascherate troppo spesso da vincoli insuperabili.

Abbiamo ascoltato in questi mesi con grande pazienza le giaculatorie di chi ci parlava di una mummificazione della Costituzione, con datazioni variabili (venti, trenta anni?). Troppi hanno seguito queste semplificazioni, che spesso assumevano imbarazzanti tratti favolistici.

È tempo di svegliarsi e di ricordare agli ultimi venuti che nell’aprile del 2012 è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio, con una riscrittura dell’articolo 81 che ha inciso profondamente sulla struttura della Costituzione e sull’assetto complessivo dell’azione pubblica, con effetti immediati per tutto ciò che riguarda i diritti sociali e le risorse che ad essi devono essere destinate. Un governo che davvero volesse innovare, e mostrare una capacità non verbale di cominciare a sottrarsi a impropri vincoli europei, potrebbe trovare qui una buona occasione. Non lo farà. Saranno i cittadini, con una loro iniziativa popolare, a proporre di ricostruire i rapporti tra diritti fondamentali e risorse. Non abbiamo ancora, per fortuna, istituzioni a una sola dimensione, quella che ha tenuto la scena, in modo non sempre dignitoso, nelle ultime giornate.

L’irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Seller: un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti - grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.

Parla e risponde con frasi insensate o con osservazioni fuori luogo che coloro che lo incontrano, sempre più in alto nella scala sociale, considerano osservazioni profonde o tremendamente innovative. In parte lo fanno per interesse (cercano un “uomo di paglia” dietro cui nascondere i propri affari); in parte per inettitudine (non hanno una comprensione del mondo molto maggiore della sua); in parte ripongono in lui le loro aspettative perché non hanno nient’altro a cui appigliarsi. Non sono ovviamente le doti del giardiniere a portarlo in alto, ma l’inconsistenza di coloro che di volta in volta lo sostengono, che non hanno più alcun orizzonte di senso a cui fare riferimento.
Certo Renzi non è demente, ma si muove con la stessa logica di quel giardiniere: non risponde alle questioni che gli vengono poste, o ai problemi che gli pone la situazione del paese, ma parla d’altro e fa e fa fare altro ai suoi adepti; ogni volta rilanciando con qualche progetto, qualche promessa, qualche impegno che non hanno niente a che fare con ciò di cui gli si chiede di occuparsi: l’economia e l’occupazione precipitano e lui si occupa solo di stravolgere la Costituzione (si veda in proposito la lista, ancorché parziale, delle sue inadempienze, elencate da Salvatore Settis su Repubblica del 13.8). Ma Renzi piace – o è piaciuto finora - sempre di più proprio per questo, raccogliendo poco per volta anche l’adesione di chi fino a poco tempo prima lo avversava o lo riteneva del tutto inadeguato.
Non è merito suo; è il frutto dell’inconsistenza dell’establishment che gli riconosce una credibilità che non ha alcun fondamento e che ha costituito intorno a quella figura da guitto il suo “partito della nazione”. Ma non si tratta di un fenomeno solo italiano (Renzi ha riscosso un credito immeritato anche in Europa), anche se in Italia quella mancanza di orizzonti, di prospettive, di respiro politico è più accentuata che altrove. La “fine della storia” teorizzata - e poi rinnegata - dal politologo Francis Fukuyama si è rivelata in realtà un ambiente dai confini invalicabili per le classi dirigenti – politiche, economiche e accademiche – immerse da decenni in un eterno presente senza passato né futuro, in cui si è rinchiuso quel pensiero unico che ha fatto dell’economia la religione del nostro tempo e del mercato il regolatore unico e insostituibile della vita economica, ma anche di ogni forma di convivenza umana. Perché il pensiero unico non è liberismo o “neoliberismo” in senso stretto (né la competitività che predica è libera concorrenza); è una dottrina che sostiene appropriazione e privatizzazione di tutto l’esistente (risorse naturali, beni e servizi, imprese, territorio, ambiente, facoltà e persino organi umani), ma sempre con il supporto dello Stato: per questo l’inconsistenza intellettuale, non solo italiana, di un ceto politico sempre più invadente non è un incidente o una deviazione da un percorso lineare che ha nel mercato il suo nume tutelare. E’ una componente essenziale di un meccanismo estrattivo di cui la crisi in corso ha ormai rivelato il carattere fondamentalmente predatorio.

Con il senno del poi possiamo ora rispondere in modo più convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli economisti della London School of Economics: “perché, con tutta la vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?”. Non è stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli interlocutori della regina, l’eccessiva matematizzazione della disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra l’altro, che anche chi la crisi l’aveva prevista, come l’economista Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). L’orizzonte culturale è sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (ma lo sanno anche gli asini che, anche se fosse possibile “riagguantarla”, la crescita è insostenibile, non può durare per sempre; e che il suo tempo è finito); e mercato, cioè “competitività”, da recuperare a qualsiasi costo (magari con qualche correttivo). Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi. Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o aspirano tutti a farsi “consiglieri del principe”; non per fornirgli strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in volta, le sue scelte: quelle imposte dai “mercati” (che non sono “il mercato”, ma i pochi protagonisti dell’alta finanza che governano l’economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa veramente che “l’anno prossimo” l’Italia riprenderà a crescere? Eppure è anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione. D’altronde sono i sacerdoti della “religione del nostro tempo”: che cos’altro attendersi da loro?

Non possiamo rimanere succubi di questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e riconquistare un’egemonia culturale che metta al centro non “i mercati” (quelli che “votano” governi, politiche economiche e ora anche riforme istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan, pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello ambientale e quello economico; il che significa riconfigurare il governo dell’impresa in senso democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del conflitto la consapevolezza dell’ineludibilità di questo obiettivo (peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla competitività universale liberista).

E’ un programma di ampio respiro che non ammette i “due tempi” (subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle nostre esistenze imposte dall’austerity; poi una vera riforma della società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due esempi: quanti avversari dell’austerity, nell’invocare una ripresa di politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più attuali, come “l’eutanasia del rentier”, il dimezzamento dell’orario di lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità economica italiana si cominciasse a prospettare una “rimodulazione” del debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività universale come principio fondativo del pensiero unico? Siamo ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il “giardiniere” venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come Monti e Letta.

Cassandra aveva ragione: le ricette del neoliberismo, la spremitura dei molti in favore dei pochi (il capitalismo nella sua fase attuale) porta l'Europa sull'orlo dell'abisso. Occorre ribaltare il tavolo.

Il manifesto, 15 agosto 2014

Gli ultimi dati rila­sciati ieri da Euro­stat, l’agenzia sta­ti­stica euro­pea, con­fer­mano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere di eco­no­mi­sti, anche di estra­zione main­stream: la tanto sban­die­rata “ripresa” euro­pea – che comun­que rap­pre­sen­tava sem­pre una medi tra que­gli stati che regi­stra­vano mode­sti tassi di cre­scita (come la Ger­ma­nia) e quelli che con­ti­nua­vano a essere impan­ta­nati nella reces­sione post-crisi (come l’Italia) – era una pia illusione.

Senza un ribal­ta­mento radi­cale delle poli­ti­che eco­no­mi­che, l’eurozona era ine­vi­ta­bil­mente con­dan­nata a spro­fon­dare in una cosid­detta “sta­gna­zione seco­lare”: un lungo periodo di cre­scita bassa o nulla. E infatti l’ultimo bol­let­tino di Euro­stat parla chiaro: nell’ultimo tri­me­stre dell’anno la cre­scita nella zona euro è stata dello 0.0%. A leg­gere il testo del comu­ni­cato, però, si direbbe che non c’è motivo di pre­oc­cu­parsi: secondo la neo­lin­gua dei buro­crati di Bru­xel­les, sem­pli­ce­mente “il Pil nell’area euro è rima­sto sta­bile”. Tutto a posto, dunque?

Pur­troppo no. In uno sce­na­rio di sta­gna­zione seco­lare risol­vere il pro­blema della disoc­cu­pa­zione dila­gante (18 milioni di senza lavoro solo nella zona euro), della defla­zione alle porte (0.4% il tasso d’inflazione nella zona euro, men­tre in alcuni paesi è già sotto lo zero) e del debito pub­blico è pra­ti­ca­mente impos­si­bile. Al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il verso alla stag­fla­zione degli anni ’70): uno sce­na­rio da incubo in cui cre­scita ane­mica, bassa domanda, prezzi in calo, disoc­cu­pa­zione cre­scente, carenza di inve­sti­menti, fal­li­menti azien­dali, sof­fe­renze ban­ca­rie e debiti pub­blici alle stelle si ali­men­tano a vicenda in una spi­rale senza fine.

Per­ché l’eurozona si trova in que­sta con­di­zione, quando altre aree eco­no­mi­che col­pite altret­tanto dura­mente dalla crisi del 2008, come Stati uniti e Regno Unito, hanno ridotto la disoc­cu­pa­zione e sono tor­nate ai livelli di cre­scita pre-crisi o li hanno addi­rit­tura superati?

A pre­scin­dere dai limiti “strut­tu­rali” dell’eurozona (impos­si­bi­lità della Bce di offrire liqui­dità agli Stati, ecc.), la causa prin­ci­pale dell’infinita crisi euro­pea – come ormai denun­ciano anche gior­nali come il Financial Times e orga­niz­za­zioni noto­ria­mente neo­li­be­ri­ste come l’Fmi –, sono le folli poli­ti­che di auste­rity per­se­guite dall’esta­blish­ment euro­peo negli ultimi anni, che hanno avuto l’effetto di stran­go­lare ulte­rior­mente l’economia, già affa­mata da un crollo della spesa pri­vata, per mezzo di dra­stici tagli alla spesa pub­blica, aumenti delle tasse e com­pres­sione dei salari.

Altrove hanno invece per­se­guito poli­ti­che mone­ta­rie e fiscali espan­sive, con risul­tati pre­ve­di­bil­mente posi­tivi. Finora erano stati soprat­tutto i paesi della peri­fe­ria a patire le con­se­guenze di que­ste poli­ti­che scel­le­rate. L’Italia è il caso più esem­plare: pro­du­zione indu­striale al –25%, Pil al –10%, tasso di accu­mu­la­zione al –13%, disoc­cu­pa­zione e debito pub­blico a livelli record. Un’apocalisse eco­no­mica e sociale da cui il nostro paese impie­gherà decenni a ripren­dersi (se mai ce la farà). La vera novità è che nell’ultimo tri­me­stre anche la Ger­ma­nia ha regi­strato un tasso di cre­scita di nega­tivo (-0.2%) per la prima volta dal 2010. Anche in que­sto caso c’è poco da sorprendersi.

L’avevano pre­detto in molti: con­ti­nuando a com­pri­mere la domanda interna e affa­mando i pro­pri part­ner com­mer­ciali euro­pei per mezzo dell’austerità la Ger­ma­nia avrebbe finito ine­vi­ta­bil­mente per dan­neg­giare la pro­pria eco­no­mia, for­te­mente basata sulle espor­ta­zioni. Basterà que­sto a con­vin­cere i tede­schi della neces­sità di un cam­bio di rotta? O almeno a con­vin­cere Mat­teo Renzi che la solu­zione alla crisi non passa di certo per le [sue]“riforme strutturali"

A Roma, il 10 ottobre, seminario della sul rapporto tra politiche abitative, rigenerazione urbana e diritto alla città. Qui trovate il programma. Per partecipare è necessario iscriversi.

«Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo».

La Repubblica, 14 agosto 2014

È in realtà un totem ideologico della destra, l’abolizione dell’articolo 18 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma questo nodo interroga al tempo stesso una sinistra in profonda trasformazione. Il primo aspetto è apparso molto chiaro in questi giorni ed ha dato pessima prova di sé una destra che continua ad invecchiare nei suoi tenaci pregiudizi. E nei suoi portavoce: un Alfano maldestro nelle dichiarazioni — non solo contro i venditoriambulanti.

E un Sacconi sempre più oltranzista (forse per far dimenticare le pessime prove date a suo tempo come ministro). L’abolizione la chiedono tutti gli imprenditori, ha detto, una ragione ci deve pur essere... Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci: bisogna semplificare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente per i datori di lavoro. Il tutto è stato accompagnato da uno stonato concerto di giudizi privi di fondamento e intrisi, appunto, di pessima ideologia: l’articolo 18 ha danneggiato sviluppo e competitività (così un ex presidente di Confindustria, molto più reticente sulle responsabilità di quella organizzazione); l’alternativa alla sua abolizione sarebbe l’immobilismo totale (Maurizio Gasparri, noto esperto di diritto del lavoro e di sviluppo industriale), e così via. Si sorvoli pure sul carattere strumentale della estemporanea sortita di Alfano, che evoca bandierine o piccole manovre agostane, e la si prenda davvero sul serio.

Ci riconsegna una destra che non si vergogna della propria tradizione antisindacale, della propria insensibilità sociale e dei guasti che ha prodotto nella storia del Paese: una destra capace ancor oggi di rimuovere il clima di pesanti illeciti, di brutali discriminazioni, di dure umiliazioni dei lavoratori compiute prima dell’entrata in vigore dello Statuto. È intessuta di dolori, quella storia: e in qualche modo si ripropose agli inizi degli anni ottanta, quando la riduzione drastica del lavoro nelle grandi fabbriche innescò drammi veri, alla Fiat come a Marghera e altrove. Essa incise brutalmente sui diritti pur affermati dallo Statuto ma pochi se ne accorsero nei “dorati anni ottanta”: comprendeva anche questo, quella “modernità”, ed è troppo ardito chiedere una riflessione su questo al vecchissimo Nuovo centrodestra. Forse gli si può chiedere però di non rimuovere un altro aspetto, e cioè la pessima spirale che fu innescata dall’abolizione dei diritti degli anni cinquanta e sessanta. È un aspetto centrale: non capiremmo altrimenti la durezza della rivincita sindacale dell’autunno caldo e della “conflittualità permanente” degli anni settanta. Una conferma probante, se ce ne fosse bisogno, che l’assenza di regole non favorisce, alla lunga, neppure la parte che sembra goderne i vantaggi più immediati. Apre dunque la via a molti errori e a molti guasti la rimozione del passato, ma va aggiunto che ancora una volta la destra nostrana non sa dare neppure giudizi fondati e pacati sul presente né misurarsi con il futuro. È pessima ideologia e pessima politica rimuovere la realtà di un lavoro di fabbrica quantitativamente sempre più ridotto e insidiato su più versanti, con un potere d’acquisto dei salari fortemente e progressivamente eroso da quasi trent’anni. Rimuovere, anche, l’indebolimento dell’articolo 18 già realizzato con la riforma Fornero e il clima di insicurezza (e di vetero revanscismo padronale) che è stato ulteriormente aggravato dall’operare di Sergio Marchionne. Ed è un puro inganno sostenere che i lavoratori privi di tutele si difendono togliendo i diritti a coloro che ancora li hanno (bugia dalle gambe cortissime, smentita ogni giorno dai fatti).

Quando lo Statuto dei lavoratori fu approvato si disse, a ragione, che la Costituzione era finalmente entrata in fabbrica: siamo proprio certi che oggi, nella diffusissima paura di perdere il lavoro, la Costituzione in fabbrica non sia più necessaria? D’accordo, la domanda non va rivolta agli improbabili interlocutori del centrodestra: essa è però fondamentale per una sinistra che ha avviato una trasformazione profonda e che si interroga oggi sul senso, sull’orientamento (sul verso, per dirla con Renzi) da dare ad essa. Certo, la sinistra sconta anche qui un profondissimo ritardo, incapace come è stata fin dagli anni ottanta di misurarsi realmente con le trasformazioni del mondo del lavoro e delle sue culture, con vecchie e nuove precarietà, con vecchi e nuovi drammi. Oscillante talora fra poli opposti e portata a divaricazioni che hanno fatto più di un danno.

Oggi tutto questo non è più possibile e nella rifondazione della sinistra i nodi del lavoro e dei diritti sono centrali. È fondamentale che vi sia in essa una vera “pedagogia per il futuro”, sono centrali indicazioni limpide e prospettive riconoscibili, nella consapevolezza che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. È una prova vera, quella che attende il Pd di Renzi, e va affrontata nella sua interezza. Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo.

Presentiamo sempre ai nostri lettori gli articoli di Salvatore Settis che raggiungiamo, per la rigorosa competenza che li alimenta e la passione civile che li anima. Con lo scritto che riprendiamo oggi da

la Repubblica (13 agosto 2014 ) ci sembra che l’autore superi se stesso. Con postilla

Caro presidente del Consiglio Matteo Renzi,
Le scrivo, come è diritto di ogni cittadino, per porLe una domanda: la riforma della Costituzione su cui il governo punta le sue carte servirà a disincagliare l’Italia dalle secche di questa lunga stagnazione?

Lei certo sa, Signor Presidente, che l’Italia si distingue per alcuni primati poco invidiabili. Secondo dati Ocse richiamati dalla Corte dei Conti, siamo al terzo posto al mondo per evasione fiscale (preceduti solo da Turchia e Messico), e Confcommercio stima in 154,4 miliardi di euro le tasse non pagate nel solo 2012. Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei Paesi più corrotti d’Europa (con Romania, Grecia e Bulgaria), peggio di Namibia e Ruanda, con perdite annue di 60 miliardi. Secondo il World Freedom Index l’Italia è terzultima in Europa per libertà di stampa, stando in classifica fra Haiti e BurkinaFaso. Intanto, a fronte di un consumo di suolo medio in Europa del 2,8%, l’Italia raggiunge un devastante 6,9%, pur con incremento demografico zero (dati Ispra). La disoccupazione giovanile è balzata al 43,3%, contro il 7,9% della Germania, e la media europea del 22,5% (dati Eurostat).

Secondo il Dipartimento per lo Sviluppo di Palazzo Chigi l’Italia è ultima in Europa per investimenti in cultura, con una contrazione della spesa doppia che in Grecia. Una riforma universitaria pessima e gestita ancor peggio mette in ginocchio la ricerca e riduce il merito a un optional spesso superfluo. Centinaia di imprese italiane chiudono i battenti o vengono assorbite da aziende cinesi, sudamericane, mediorientali. Come una valanga, continua la “fuga dei cervelli”: decine di migliaia di giovani formatisi in Italia portano in altri Paesi i loro talenti, vanificando l’alto investimento che il Paese ha fatto su di loro (nel 2013, quasi 44.000 italiani hanno chiesto di lavorare nella sola Gran Bretagna). Mentre cresce la disuguaglianza sociale, si radica la sfiducia dei cittadini nella politica, come ha mostrato il forte astensionismo nelle Europee, con un 41,32% di non votanti a cui va aggiunto l’8,31% di schede bianche, nulle o disperse. In questo contesto, come Lei sa bene, Signor Presidente, il buon risultato percentuale del Suo partito vale più o meno la metà di quel che sembra.

A fronte di questi problemi, l’azione del Suo governo si concentra su questioni di ingegneria istituzionale, come se ridurre di numero i senatori (ma non i deputati), o evitarne l’elezione popolare, possa salvare l’economia italiana. Secondo Mario Draghi, l’Italia ha bisogno di «riforme strutturali sui mercati dei prodotti e del lavoro», ma in Italia si produce sempre meno e si lavora sempre meno. L’Italia deve ridurre la pressione fiscale: con un reddito annuo di 28 mila euro, un italiano paga il 27% di imposte, un americano il 15%; a un reddito di 75 mila euro corrisponde un’imposta del 28% in Usa, del 43% in Italia. Questa enorme differenza dipende dalla rarità dell’evasione fiscale in Usa (dove è severamente punita), mentre i nostri governi di ogni colore (anche il Suo) fanno ben poco per combatterla.

Lei ha cercato invano, Signor Presidente, di trasmettere il Suo ottimismo: le Sue previsioni di crescita del Pil si sono rivelate fallaci, e il calo dello 0,2% nell’ultimo trimestre, contro un +3,2% della Gran Bretagna e un +1,1% medio dell’area euro, lascia poco spazio alla retorica. Cresce intanto il debito pubblico, che nel 2013 ha raggiunto il 132,6% sul Pil, e falliscono uno dopo l’altro i tentativi di spending review.

La stagnazione è ormai recessione, nasconderlo è un boomerang per chi lo fa. Corruzione, evasione fiscale, disoccupazione e altri problemi italiani sono ben noti ai nostri partner in Europa e nel mondo: se non si affrontano subito, il governo perde credibilità e accredita l’ipotesi che cambiare la Costituzione sia una tecnica dilatoria per non sfidare le urgenze.

Le chiedo allora, Signor Presidente: in qual modo una nuova Costituzione contribuirà a diminuire il debito pubblico, a trovar lavoro ai giovani, a frenare l’emorragia dei talenti, ad arrestare corruzione ed evasione fiscale, a rilanciare formazione e ricerca, a incentivare le imprese, l’economia e la cultura, a tutelare il paesaggio, l’ambiente e il patrimonio artistico? Con la nuova legge elettorale s’intende riconquistare alla democrazia i 22 milioni di italiani che non hanno votato, o incentivare l’astensionismo purché un partito ottenga il premio di maggioranza? Vale la pena dilapidare l’eredità della sinistra in un abbraccio mortale con Berlusconi, condannato in via definitiva ed espulso dal Senato, mediante un patto i cui contenuti precisi non vengono resi pubblici?
Le riforme avviate hanno lo scopo di rafforzare l’esecutivo, ma secondo Transparency International una delle cause della crisi italiana è che già oggi «il potere legislativo dipende troppo dal potere esecutivo, che governa senza la debita assunzione di responsabilità». È proprio opportuno accrescere ancora il ruolo dell’esecutivo?

La riforma apporta alla Costituzione mutamenti radicali. Anch’io, come molti cittadini, ritengo improprio che tali proposte siano nate dal governo e non dal Parlamento, e che vengano approvate da senatori e deputati nominati secondo una legge elettorale incostituzionale. Ma la domanda è ora un’altra: se mai quel testo entrasse in vigore tal quale, come e in che cosa la recessione del Paese ne verrebbe corretta? E se invece il testo facesse per mesi e mesi la spola fra Camera e Senato assorbendo tempo ed energie, non sarebbe un dirottamento rispetto ai problemi reali del Paese?

Non crede che il Suo governo acquisterebbe prestigio e credibilità se mostrasse nei fatti di ricordarsi dei diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione e dimenticati dalla politica con la scusa della crisi? Non sono diritti secondari: sono il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art. 4), la funzione sociale della proprietà (art. 42), la pari dignità sociale dei cittadini e la loro eguaglianza (art. 3), la garanzia per tutti di «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), il diritto alla cultura (artt. 9, 21, 33), il diritto alla salute (art. 32). Sono diritti ignorati o taglieggiati in nome della crisi economica. In che modo la Costituzione che Lei ha in mente intende farli risorgere dalle ceneri?

postilla

Il giovane Renzi essendo stato boy scout, conosce probabilmente la differenza tra i gufi (tra i quali, nella sua tassonomia, certamente annovera Settis) e le civette. Non essendo versato in altri saperi non sa, probabilmente, che la civetta era per gli antichi, e per i moderni che non hanno rottamato il passato, il simbolo della sapienza e della saggezza. Per celebrare nel nostro autore queste virtù abbiamo scelto come icona con la quale sottolienare l'articolo appunto una civetta. la cui immagine abbiamo tratto dal Museo virtuale della Certosa di Bologna.

In Italia le buone leggi non valgono per tutti/e. I diritti non sono mai uguali, dipende da chi conosci, da quanto tenace sei nell'affrontare i cavilli e le trappole burocratiche. Il Ministro Madia interviene sull'argomento e dice che il governo "se ne occuperà". Sembra che si tratti di un fenomeno sconosciuto, disvelato dalla lettera di una mamma precaria. Artcoli di M.N. De Luca e M. Madia,

La Repubblica, 13 agosto 2014 (m.p.r.)

NE' CONCEDI NE' AIUTI.
ECCO PERCHE' L'ITALIA
NON E' UN PAESE PER MAMME PRECARIE

di Maria Novella De Luca

Roma. Siamo un paese ostile alla maternità e sempre più refrattario ai bambini. Le desolanti statistiche dell’Istat lo testimoniano ad ogni rapporto annuale, fotografando la nostra progressiva discesa agli ultimi posti nella classifica demografica mondiale. Puntualmente ogni volta ci chiediamo perché. Eppure basta leggere la lettera pubblicata ieri su “Repubblica”, per rendersi contro di quanto l’Italia sia diventata ormai un luogo inospitale per chiunque decida di rischiare l’avventura della famiglia. Soprattutto se si è una lavoratrice precaria, ma che nonostante tutto si “azzarda” a mettere al mondo dei figli, ben tre in questo caso. Perché non solo il nostro non è un paese per mamme, ma in particolare non è un paese per mamme “atipiche”, quelle cioè che in assenza di un contratto di lavoro definito, non hanno diritto praticamente a nulla. Né prima della nascita, né dopo. Un’incredibile mancanza di tutele e di sostegni che Belinda Malfetti, giornalista freelance, ben descrive nella sua lettera “La mia odissea di mamma precaria alla ricerca del sussidio negato”. In Italia infatti le leggi ci sono, ma valgono soltanto per le mamme che hanno un contratto di lavoro. Per le altre, che sono sempre di più, resta soltanto il deserto. Ecco a confronto i diritti delle une e delle altre.

Maternità.
L’Italia ha una ottima legge sul congedo di maternità, la numero 1204 del 1971, rivista nel 2000 e nel 2001. Prevede che le future madri continuando a percepire lo stipendio pieno, si astengano obbligatoriamente dal lavoro per cinque mesi, due prima della nascita e tre dopo, oppure 30 giorni prima e quattro mesi dopo. La legge prevede poi un congedo parentale di altri 10 mesi di cui la madre o il padre possono usufruire fino ai 10 anni del figlio, e un orario ridotto al rientro al lavoro per l’allattamento. Tutto questo però è garantito unicamente alle lavoratrici dipendenti. Per le altre, collaboratrici a progetto, freelance o partite Iva (ma non iscritte alle casse previdenziali del proprio ordine professionale), il congedo di maternità spetta soltanto se si è iscritte alla gestione separata dell’Inps. Ossia le future madri devono aver versato, nei dodici mesi precedenti alla gravidanza, 3 mesi di contribuzione. «Si tratta però di congedi a cui riescono ad accedere in pochissime — spiega Claudio Treves della Cgil — perché quasi mai le aziende versano i contributi dovuti, o magari non nei tempi previsti. Ma oltre a questa misura non è previsto null’altro». Dunque il deserto. Chi non ha un contratto alle spalle non ha diritto alla maternità.
Asili nido
Strutture educative e di welfare fondamentali per tutte le famiglie, lo sono ancora di più nelle situazioni di disagio. Infatti qui le priorità di entrata si invertono. Ad avere la precedenza nelle graduatorie per i nidi (al 90% a gestione comunale), sono le donne senza lavoro, le mamme single, le famiglie con redditi bassi, i bimbi con handicap. E dove i nidi funzionano, pochissimo al Sud, sempre di più al Nord e al Centro, il sostegno è evidente. A parte casi d’eccellenza come Reggio Emilia, o l’Alto Adige, molti nidi pubblici sono aperti dalla prima mattina al pomeriggio e offrono buoni servizi. Ma la crisi oggi rende sempre più difficile a molte famiglie riuscire a pagare la mensa dell’asilo. E così le madri “atipiche” smettono di cercare un’occupazione e restano a casa con i figli. Riportando la condizione femminile indietro di decenni.
Sostegni economici
Esistono assegni familiari e assegni di maternità. Possono erogarli i comuni, o possono essere misure decise dallo Stato. Ma come ben racconta la lettera inviata a Repubblica accedere ai “fondi per il terzo figlio” o ai vari “bonus bebè”, è spesso una tale corsa ad ostacoli, tra trappole burocratiche e vincoli di reddito, che soltanto un irrisorio numero di madri riesce ad ottenerli. E si torna poi alla discriminazione tra le “dipendenti” e le “atipiche”. Il voucher della riforma Fornero ad esempio, quegli assegni da 300 euro mensili da destinare alle baby sitter per le madri che volessero tornare in anticipo al lavoro, sono destinati unicamente alle dipendenti. O alle iscritte alle gestione separata dell’Inps. Per tutte le altre, per cui quei 300 euro al mese avrebbero forse costituito un sussidio fondamentale, non è previsto nulla.
Congedi per la malattia dei figli
Non è molto quello che spetta a chi ha un contratto stabile, ma è qualcosa. I genitori di bambini sotto gli otto anni, possono astenersi dal lavoro per cinque giorni ogni 12 mesi per malattia del figlio. Per le lavoratrici precarie invece, la malattia del loro bebè resta un fatto privato. A meno di una nonna disponibile o di una vicina collaborativa, quel giorno anche la madre “atipica” resterà a casa. Ma nessuno a lei riconoscerà economicamente il diritto ad accudire un bambino con la febbre.

CARA BELINDA, HANNO CALPESTATO I SUOI DIRITTI. INTERVERRO'.
di Marianna Madia

Cara Belinda,
la sua lettera di donna, madre, e lavoratrice autonoma è l’emblema di ciò di cui dobbiamo occuparci come Governo. Lei ha perfettamente ragione e io la ringrazio perché alla sua indignazione non segue la rassegnazione, altrimenti non avrebbe scritto questa lettera.

La maternità non è solo un’esperienza intima, faticosa e meravigliosa, e quindi un diritto che va salvaguardato. È il modo con cui un Paese decide il futuro della sua stessa società. In realtà quello che oggi deve cambiare nella testa di noi legislatori e di chi fornisce servizi è che il precario e’ diventato il più tipico fra i lavoratori, perché in questa condizione sono ormai milioni di lavoratrici e lavoratori. Si tratta di una condizione di vita che accomuna moltissimi italiani e italiane, e sono queste ultime le più esposte a un altro dei punti deboli del nostro sistema: la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. È proprio la conciliazione uno degli interventi che ritengo più necessari nel Jobs Act ma anche nella riforma della pubblica amministrazione.
Come anche lei ha avuto modo di vivere sulla sua pelle, di leggi ce ne sono molte, ma spesso il problema è l’attuazione; facciamo leggi che non vengono applicate, sanciamo diritti che non possono essere concretamente esercitati, il che è quasi peggio perché assume il sapore della beffa. Lei racconta di file e interlocuzione interminabili, senza il giusto esito, per cercare di vedere riconosciuto un suo diritto, che è il diritto di molte e molti. Se esiste il diritto a percepire un assegno sociale, questo deve poter essere esercitato in tempi rapidi e certi. E la pubblica amministrazione deve essere d’aiuto e non un freno. L’attuazione delle leggi è una responsabilità politica e non amministrativa ed è esattamente lo scarto rispetto al passato su cui ci stiamo impegnando.
Per questo, in Senato, durante la discussione sulla riforma della pubblica amministrazione, ho chiesto a tutti un esercizio di democrazia: impegniamoci nel monitorare, segnalare e quindi garantire che nessuna delle norme che abbiamo scritto rimanga inattuata. Lettere come la sua sono preziose per il nostro lavoro perché è solo con l’aiuto quotidiano dei cittadini che noi riusciamo a migliorare la qualità della nostra azione. Credo non sia solo una questione di norme ma di persone, le quali, ognuna assumendosi il proprio grado di responsabilità — io più di tutti — siano partecipi di questo cambiamento necessario. Le motivazioni, i dinieghi che ha ricevuto danneggiano certamente lei, ma anche i tanti lavoratori che operano con efficienza cercando di risolvere problemi, senza fermarsi alla “risposta più semplice”. Le verifiche sono dovute e a questo proposito le chiedo di scrivermi ancora a ministropa@governo. it per indicarmi i dettagli utili per approfondire e dare seguito alla sua lettera.
Ma non basterà a darle le risposte che sarebbero dovute arrivare per tempo e il cui peso dell’urgenza sento molto sulle mie spalle. Quello che posso e desidero dirle e’ che quando una donna non dovrà scegliere di essere lavoratrice o madre ma potrà esercitare incondizionatamente la propria identità plurima e ricca di diritti, con il rispetto e il sostegno ai tempi della maternità, avremo vinto tutti e tutte insieme. Sentirò, in quel momento, di aver fatto il mio dovere. Anche grazie a lettere come la sua che, nonostante tutto, restituiscono la fiducia nell’altro.
Marianna Madia è Ministro della Pubblica Amministrazione

Intervista a Gabriella Caramore, conduttrice di “Uomini e profeti” e autrice di un saggio (

Pazienza, il Mulino, Bologna 2014) sulla virtù più incompresa e inattuale: «Saper attendere è un atto politico». La Repubblica, 11 febbraio 2014

Voce tra le più amate e autorevoli della radio, Gabriella Caramore festeggia i vent’anni tondi di conduzione della trasmissione di cultura religiosa Uomini e profeti , una delle più scaricate sul podcast di RadioTre. Peccato soltanto che quell’autorevolezza conquistata sul campo, non trovi poi una congrua corrispondenza di ordine lavorativo: malgrado sia ormai in età di pensione, Caramore infatti continua ad essere una “precaria”, di nome e di fatto.

« Uomini e profeti non nasce con l’idea di andare contro qualcosa, o qualcuno. Però è animata dal desiderio di affrontare le tradizioni religiose con forte spirito critico. Vuole mettere in rilievo le contraddizioni, ma anche le potenzialità di intelligenza e libertà che emergono dai testi e che talvolta la costante tendenza al conformismo delle tradizioni tende a soffocare. Per questo occorre, rischiando anche di sbagliare, come tante volte mi è accaduto, giocare su una dinamica interpretativa: affrontando ad esempio i religiosi, che spesso si incatenano dentro uno schema rigido, secondo una prospettiva laica, e gli atei, talvolta un po’ puerili, secondo una prospettiva religiosa. È un modo diverso, mi sembra, per mettere il religioso a confronto con la complessità del nostro tempo».

Qual è il timbro più caratteristico della trasmissione?
«In primo luogo quello di far parlare in prima persona gli appartenenti a tradizioni diverse: cattolici di varia formazione, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici che non rifiutano il confronto con il religioso… Poi quello di prestare particolare attenzione alle Scritture, come è stato per il lungo ciclo dedicato alla lettura e commento della Bibbia. Inoltre, avere al fianco, come compagni di viaggio, teologi e studiosi come Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Salvatore Natoli, la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, ma anche il profugo nigeriano, la dottoressa ucraina che da noi fa la badante, il carcerato... »

E dal punto di vista personale, che cosa ha rappresentato l’esperienza di un programma radiofonico che in un’epoca tutta schiacciata sul presente coltiva invece uno sguardo lungo, proiettato addirittura sull’eterno?
«Moltissimo. La possibilità di capire che dentro l’esperienza religiosa si annida un enorme potenziale di libertà. Oltre alla ricchezza degli incontri con gli ospiti, gli autori, un pubblico attento ed esigente».

Un certo vizio di andare controcorrente, comunque, lei non lo ha perso, come si evince leggendo il suo recentissimo libro sulla Pazienza ( Il Mulino), incentrato su una delle parole oggi più desuete.
«Per ragioni a tutti evidenti: la fretta, la velocità, l’ansia, la simultaneità delle nostre azioni. Ma credo che nella nostra cultura si debba aggiungere un’ulteriore ragione. Nella tradizione cristiana si è imposta un’idea della pazienza come sinonimo di patimento, sopportazione, mortificazione. È un’idea derivata da un’immagine riduttiva del Christus patiens , del Cristo in croce che poi si traduce nel più ordinario e fatalista “porta pazienza” del linguaggio quotidiano. Ma in questo modo si trascura un lato attivo della pazienza: il senso dell’attesa, della costruzione di futuro, di una fattiva speranza. Il Cristo patisce sì, ma non per amore gratuito della sofferenza. Lui non vuole morire in croce, in croce ce lo mettono! Oltre al fatto che spesso la sua parola ha un andamento irrequieto, un’insofferenza rispetto alla pervicacia del male, un giudizio severo e non tollerante nei confronti di chi fa merce delle cose di Dio, e di chi ne fa strumento di potere».

In pagine molto belle lei mostra come senza pazienza non esisterebbero né arte, né pensiero, né legame amoroso.
«Il bambino che cresce ha bisogno di tempo, e dunque di pazienza. Ne hanno bisogno gli amanti, per custodire il loro sentimento. Ne ha bisogno l’albero, che aspetta la primavera e l’estate per i fiori e i frutti. Quanto noi possiamo fare è creare un ambiente favorevole a questa crescita paziente, grazie alla cura che poniamo nelle cose in cui siamo impegnati e all’attenzione verso le creature che ci circondano. In questo modo si rovescia anche l’idea di pazienza come regno del privato, del piccolo sé. E grazie alla cura dell’altro si attribuisce a quel termine tutto il suo valore etico, civile, religioso. Ma anche politico, direi».

Del resto, anche i due miti fondativi della nostra tradizione, Ulisse e Mosè, conoscono - ciascuno a suo modo - la pazienza.
«Nel caso di Ulisse, la pazienza è un uso sapiente dell’intelligenza: tiene a freno le passioni in vista di uno scopo. Anche le figure che lo circondano nell’ultimo atto della sua vicenda, da Penelope alla nutrice al servo al cane, sono figure che trattengono l’impeto per noncompromettere il risultato».

Quanto invece a Mosè?
«Si parla sempre della pazienza di Giobbe, ma quella di Mosè non è da meno. Ed è una pazienza tutta legata all’amore per l’altro, alla sorte della sua gente. In verità Mosè comincia con un gesto di impazienza, uccidendo un egiziano che colpiva un ebreo, ma poi pian piano impara. Assume il suo destino di fuggiasco, acconsente alla chiamata del Signore. E sopporta l’impazienza del suo popolo, che durante la traversata del deserto rimpiange il tempo della schiavitù, perché alla fin fine è sempre più comoda la schiavitù della libertà. Infine, con pazienza, Mosè accoglie la sua morte da esule. Non è per sé che Mosè spera, ma per gli altri: forse la più bella immagine di cura che sia stata tramandata».

Un’ultima domanda, brusca e inevitabile, che si saranno posti anche tanti suoi ascoltatori. Lei crede in Dio?
«Per la verità non mi pongo tanto il problema. Non so chi sia Dio. Tutte le tradizioni ci raccontano tante cose di Dio, compresa quella biblica, per la quale il volto di Dio non si può vedere, il suo nome non si può pronunciare. È vero però che gli esseri umani hanno dato questo nome alla ricerca di qualcosa che va al di là della conoscenza umana, e che nello stesso tempo suggerisce al cammino dell’uomo un possibile orientamento in cerca del bene, della libertà, della giustizia. Il deposito di questa ricerca, presente nel racconto di Dio lasciatoci dalle diverse tradizioni religiose, è talmente imponente che non può non interessare anche gli atei e gli agnostici. L’idea di Dio come “invenzione” degli uomini mi sembra un po’ infantile. Non si tratta di un’invenzione, semmai di una “scoperta” della possibilità di vivere umanamente sulla terra, e della necessità di continuare sempre sulla via della conoscenza».

«La Repubblica, 11 agosto 2014
Il ermine “migranti” è generalmente associato all’emergenza del bisogno. Le immagini di italiani con valigie di cartone che approdano al porto di New York appartengono alla nostra memoria collettiva. Come anche quelle ormai quotidiane di disperati che cercano di attraversare vivi il Mediterraneo. Ma non tutti i migranti sono così visibili e disperati. Ci sono migranti invisibili, che passano le frontiere senza far rumore e con grande facilità. I golden migrants che non viaggiano con valigie di cartone e non scappano da nessuna miseria. Alcuni stati membri dell’Ue propongono offerte preferenziali per visti a stranieri facoltosi che vogliono lì parcheggiare le loro ricchezze. Sembra che il sistema di inclusione “golden visa” proceda ormai speditamente e che la “fortezza Europa” sia una percezione dei disperati soltanto.

Gli immigrati di serie A non vengono in Europa per una vita migliore o per la libertà - queste cose le hanno già. Strano continente questo, che si presenta al mondo orgoglioso di essere un progetto di unione nel nome dei diritti e del benessere diffuso e poi premia chi vi ci va non perché aspira a questi beni mentre respinge o esclude coloro che questi beni li cercano.

Gli immigrati che viaggiano in business class hanno alcune mete preferite: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria, paesi che hanno intensificato gli sforzi per attrarre facoltosi stranieri con la promessa di una cittadinanza veloce in cambio di investimenti nell’economia locale. A far da battistrada al programma di attrazione di immigrati first class è stata la Gran Bretagna che ha per prima adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi. La crisi ha convinto altri paesi a seguire questa strada, mettendo in circolo l’idea che la cittadinanza può essere un bene in vendita e, come tutte le merci, data a chi la paga bene. Gli esperti cercano di arginare questa distribuzione discriminatoria della cittadinanza distinguendo tra “golden visa” che è «un programma per investitori che facilita la procedura di immigrazione per stranieri ricchi» e la cosiddetta “cittadinanza in vendita” che “comporta la vendita delle nazionalità,” come ha detto Katherina Eisele del Center for European Policy Studies di Bruxelles. Ma la distinzione è sottile come un filo di lana, facile a spezzarsi.

Un anno fa, il governo maltese ha lanciato il “Programma per investitori individuali” con il quale gli stranieri ricchi ottengono la cittadinanza maltese con una somma fissa di denaro. Ai critici, il programma maltese è apparso subito come una porta di servizio per concedere ad alcuni privilegiati di passare, saltando i regolamenti europei sull’immigrazione. Ma diventare maltesi significa diventare europei e quindi la questione non è solo nazionale. L’Europa prevede che la cittadinanza attribuita da uno stato membro debba seguire una certa affiliazione con il paese in questione prima di essere concessa; che, insomma, ci debba essere un senso di responsabilità del richiedente verso il paese naturalizzante senza di che la cittadinanza rischia di essere davvero una merce in vendita - soprattutto in un paese piccolo o con più pressante bisogno economico. Nasce così il fenomeno di passaporti per mezzo milione di euro.

È questo il caso del Portogallo, che nel 2012 ha istituito la “golden visa” cioè il permesso di soggiorno per stranieri che acquistino una proprietà immobiliare in Portogallo del valore di almeno 500,000 euro e vivano sei anni nel paese. Un’altra procedura più veloce prevede che lo straniero apra un conto in una banca portoghese trasferendovi almeno un milione di euro o che apra un’azienda con almeno trenta operai: entrambe le cose saranno sufficienti a dargli il passaporto portoghese. Dei due programmi, il “golden visa” ha avuto più successo (con investitori asiatici in particolare) facendo crescere il mercato immobiliare.

I critici di questa mercificazione della cittadinanza hanno puntato il dito contro la logica discriminatoria che penalizza solo gli immigranti poveri. Ma la questione della citizenship for sale mette in luce una contraddizione ben più grave, che mina alla radice le nostre democrazie europee. I paesi in difficoltà economica hanno bisogno di nuovi cittadini - in breve, sia di fresca manodopera a bassissimo costo sia di fresca ricchezza da investire. Entrambi sono un’arma straordinaria contro i lacci che hanno in questi decenni reso il lavoro dei cittadini europei un bene tutelato da diritti: la manodopera a bassissimo costo e i ricchi stranieri pronti a far fruttare la loro ricchezza sono i due poli estremi e complementari che contribuiscono a rendere carta straccia i contratti e le retribuzioni della manodopera nazionale. La dissociazione del lavoro dalla cittadinanza nazionale ha in queste politiche sull’immigrazione il suo luogo di attuazione. I programmi di cittadinanza facile per ricchi stranieri sono certamente figli della crisi, ma sono una ricetta non per creare occupazione, bensì per creare lavori a qualunque condizione, precari e mal pagati. Se lavoro si crea dunque, sarà probabilmente più appetibile per coloro che sono disposti a lavorare per un pugno di euro: immigrati o cittadini che dal punto di vista lavorativo sono come gli immigrati.

È quindi la democrazia stessa che viene ad essere aggredita con questi programmi dimostrando come l’immigrazione sia un’arma politica di straordinaria potenza, troppo sottovalutata da politici ed esperti. Con quest’arma si raggiungono obiettivi impossibili da raggiungere con la cittadinanza sancita nelle nostre costituzioni: la dissociazione tra lavoro e diritti.

E qui sta la correlazione fra i migranti disperati e i migranti di prima classe: tra chi non avrà mai una cittadinanza in un paese europeo e chi ce l’avrà immediatamente. I primi non comprenderanno né reclameranno diritti perché il loro non sarà mai un lavoro di cittadini. I secondi sanno di aver la licenza a mettere a frutto al meglio la loro ricchezza e troveranno naturale rivolgersi ai migranti in bisogno. A perdere in questo mercato del lavoro senza diritti e della cittadinanza a chi fa ricchezza ad ogni costo è la nostra cittadinanza, quella di chi è cittadino non perché ricco e che ha diritto a un lavoro dignitoso non a un’occupazione per un pugno di euro.

«Piketty riporta al centro del dibattito il tema della disuguaglianza. E di come questa si perpetua di generazione in generazione, con un capitalismo patrimoniale che si fonda sull’accumulazione, da parte di pochi, di rendite dovute a beni ereditati. Classe media in declino e freni alla crescita».

Lavoce.info, 6 agosto 2014 (m.p.r.)

Un'analisi della disuguaglianza. Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è un contributo importante al pensiero economico. Riporta al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario e umano, in una impostazione che può essere definita “classica”. L’analisi di Piketty è rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. L’esito distributivo viene ricondotto a un conflitto tra categorie di percettori, più numerose ed eterogenee rispetto a quelle prese in considerazione da Ricardo o Marx.

Non solo i lavoratori si contrappongono ai percettori di redditi da capitale e di rendite ma, all’interno di questa categoria, si distinguono i percettori di rendite finanziarie rispetto a quelli da proprietà immobiliare. Si deve a Piketty l’avere sviluppato, insieme a due colleghi (Anthony Atkinson a Cambridge ed Emmanuel Saez a Berkeley) una metodologia per ricostruire il livello di diseguaglianza nella distribuzione non solo dei redditi, ma anche della ricchezza nel lungo periodo, tanto in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, quanto in Cina, in India e in molte nazioni dell’America latina. Raramente, in precedenza, l’analisi della diseguaglianza era stata effettuata nel lungo periodo: anche quando lo si era preso in considerazione, le stime della diseguaglianza riguardavano infatti solo i redditi, e quasi mai la ricchezza.

Il conflitto distributivo appare a Piketty particolarmente rilevante quanto ci si riferisce all’1 per cento più ricco. L’attenzione per tali percettori è un fenomeno molto recente. Per effettuare questa analisi è necessario infatti adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare, occorre risolvere problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi finanziari.

L’analisi di Piketty mostra come i redditi più elevati costituiscano una quota significativa del reddito nazionale e del totale delle entrate fiscali, anche se i rispettivi percettori rappresentano una percentuale molto modesta della popolazione. Il gruppo dell’1 per cento più ricco non comprende d’altra parte solo percettori di redditi da capitale, ma anche di redditi da lavoro. Tra le possibili spiegazioni della crescita dei redditi più elevati si deve annoverare, dunque, anche il funzionamento del mercato internazionale del lavoro. I compensi più alti di alcune categorie di lavoratori come i manager e le cosiddette “superstar”, sono fissati dalle stesse categorie manageriali sulla base di criteri molto diversi da quelli prevalenti nel mercato del lavoro.
Negli Stati Uniti (definito paese a diseguaglianza elevata) il reddito disponibile dell’1 per cento più ricco della popolazione è stato stimato, nel 2010, pari a ben il 20 per cento del totale (dati pubblicati dal Congressional Budget Office) essendo cresciuto tra il 2009 e il 2010 con una velocità ben superiore a quella di qualsiasi altro gruppo. In parallelo all’arricchimento progressivo dell’ultimo percentile, si è ridotto il peso della classe “media” (definita come quella che corrisponde al secondo, terzo, e quarto “quintile”, complessivamente al 60 per cento dei percettori): ha ricevuto, nel 2012, una quota pari al solo 45,7 per cento.

Quando il passato divora il futuro. In un sistema caratterizzato da quello che Piketty definisce il capitalismo patrimoniale», fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, il passato divora il futuro». Se il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro.

Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano. Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta (la cosiddetta “golden age”), il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbia favorito la crescita della classe media, il consolidamento della democrazia e una crescita elevata in tutti gli Stati occidentali. Questa fase si è invertita a partire dalla fine dello scorso secolo. In parallelo all’aumento della diseguaglianza si è osservato un rallentamento della crescita, se non un vero e proprio declino, almeno in alcuni paesi. Secondo Piketty, tuttavia, un aumento della diseguaglianza finisce con il frenare la crescita anziché stimolarla.

La pubblicazione di Il Capitale nel XXI secolo è stata accolta da recensioni molto positive su numerosi quotidiani e settimanali. Recentemente, tuttavia, sono apparse alcune critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile della parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti dei dati nonché della correttezza di alcune stime. I rilievi critici sono stati seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty. Lo stesso Piketty ha risposto sottolineando come le analisi delle relazioni tra diseguaglianza e crescita, pur basate su di un’abbondante evidenza empirica, non possano che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, dal momento che appartengono all’ambito delle scienze sociali.

Piketty, T. Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696.

«Il manifesto, 10 agosto 2014

Il dato sulla cre­scita sotto zero divul­gato dall’Istat dimo­stra che i nodi prima o dopo ven­gono al pet­tine. Renzi, com’è sua natura, ci ride sopra e, smen­tendo i rosei oriz­zonti da lui dise­gnati tre mesi or sono, dichiara che tutto va come pre­vi­sto. C’è solo da insi­stere. In realtà, dopo quasi un ven­ten­nio di bluff ber­lu­sco­niano, in pochi mesi si sta con­su­mando il bluff di Renzi. Il quale di tutto può essere tac­ciato, tranne che di man­canza di auda­cia e di scarsa intel­li­genza poli­tica. Ne ha da ven­dere, con­dite con una dose da cavallo di spregiudicatezza.

Renzi ha sfi­dato nel 2012 Ber­sani alle pri­ma­rie, ha perso, come pre­ve­di­bile, ma ha nego­ziato una sostan­ziosa quota di par­la­men­tari a lui fedeli. Appa­ren­te­mente leale nei con­fronti di Ber­sani nella cam­pa­gna elet­to­rale del 2013, ha comun­que mar­cato le distanze da lui, sabo­tan­dolo in ogni modo. Che la riven­di­ca­zione ripe­tuta del suo tasso di novità — sfo­ciata nella man­cata can­di­da­tura di D’Alema e altri — abbia con­corso all’insuccesso del Pd è vero­si­mile ed è altret­tanto vero­si­mile che ci sia il suo zam­pino (ben­ché non solo il suo) die­tro le disa­strose boc­cia­ture di Marini e Prodi alla pre­si­denza della Repub­blica. A con­clu­sione di que­sto primo capi­tolo della sto­ria, Renzi, inco­ro­nato segre­ta­rio del par­tito dalla ple­bi­sci­ta­ria litur­gia delle pri­ma­rie aperte, ha dato il ben­ser­vito al troppo opaco Enrico Letta, inse­dian­dosi alla guida di un governo fatto per intero di figure inca­paci di far­gli ombra. Con quale pro­gramma? Tolto l’ammuine — i toni più accesi nei con­fronti dell’Europa e della signora Mer­kel si sono subito rive­lati fumo negli occhi — non c’è altro che sto­lida con­ti­nuità con le poli­ti­che dei suoi due ultimi pre­de­ces­sori. Eso­sità fiscale, destrut­tu­ra­zione del lavoro dipen­dente, tagli spie­tati ai ser­vizi pub­blici, abban­dono del Mezzogiorno.

Con una pic­cola variante, che ricorda la fami­ge­rata abo­li­zione dell’Ici da parte di Ber­lu­sconi nel 2008. Men­tre con impla­ca­bile rego­la­rità sem­pre nuove schiere di lavo­ra­tori segui­ta­vano a per­dere il posto, il Nostro ha elar­gito 80 euro a una discreta pla­tea di elet­tori, pro­met­tendo d’estenderla nei mesi a venire. Come per la pro­messa di abo­lire l’Ici, l’obiettivo non era quello di far ripar­tire i con­sumi, bensì spun­tare un buon suc­cesso alle euro­pee in grado di legit­ti­marlo e con­so­li­dare il suo potere. Il declino di Ber­lu­sconi e l’uscita di scena delle frat­ta­glie cen­tri­ste, mas­sa­crate dal fal­li­mento di Monti, gli ha dato un suc­cesso inaspettato.

A dire il vero, di varianti Renzi ne ha intro­dotta anche una seconda. Per neu­tra­liz­zare ogni oppo­si­zione entro il suo par­tito ha inta­vo­lato una spre­giu­di­cata trat­ta­tiva con Ber­lu­sconi onde ridi­se­gnare a misura d’entrambi il pro­filo delle isti­tu­zioni repub­bli­cane. Non avendo novità da pro­porre sul piano delle poli­ti­che, Renzi ha inve­stito tutte le sue ener­gie in un dise­gno volto a can­cel­lare d’un tratto il deli­cato sistema di con­trap­pesi adot­tato dai padri costituenti.

Per carità, non par­liamo di lesa demo­cra­zia. La demo­cra­zia di per sé è un con­te­ni­tore assai capiente. E molto acco­mo­dante. I suoi requi­siti irri­nun­cia­bili — suf­fra­gio uni­ver­sale, prin­ci­pio di mag­gio­ranza, plu­ra­li­smo par­ti­tico — tol­le­rano dosi mas­sicce di non demo­cra­zia. Troppo spesso si dimen­tica che senza un decente soft­ware poli­tico, l’hardware demo­cra­tico vale poco. È così che da tempo i regimi demo­cra­tici si sono ampia­mente immu­niz­zati dalle misure impo­po­lari, e anti­po­po­lari, che adot­tano e hanno but­tato a mare i cosid­detti diritti sociali. L’inciucio Renzi-Berlusconi non fa che con­clu­dere un per­corso, avviato un quarto di secolo or sono, di omo­lo­ga­zione dell’Italia alle altre demo­cra­zie avan­zate, le quali — c’è fior di ricer­che che lo atte­sta -, tranne quelle che hanno man­te­nuto il pro­filo “con­sen­suale” intro­dotto nel dopo­guerra, ver­sano in mise­re­voli condizioni.

L’efficienza e cele­rità deci­sio­nale che Renzi, con insop­por­ta­bile vio­lenza ver­bale, invoca come ragione del suo pro­gramma isti­tu­zio­nale è d’altra parte già assi­cu­rata dall’uso e abuso del voto di fidu­cia e non è certo ragione suf­fi­ciente di uno zelo che andrebbe dedi­cato a tutt’altre cause. Prima fra tutte l’occupazione. Dif­fi­cile pen­sare che lui non ne sia con­sa­pe­vole. Per quanto sem­pli­ci­stico sia il suo approc­cio ai pro­blemi del paese, e per quanto sia anche lui impre­gnato di quella cul­tura popu­li­sta che intos­sica le demo­cra­zie avan­zate, il Nostro non fa che gio­care il suo bluff.

In com­penso, due acquie­scenze stu­pi­scono non poco. La prima è quella del Capo dello Stato, sem­pre riven­di­ca­tosi garante della lealtà costi­tu­zio­nale. In sin­to­nia con Dra­ghi, che detta la sua ricetta eco­no­mica, il Pre­si­dente non lesina il suo appog­gio. La seconda è quella della diri­genza e della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare del Pd. Che una parte sia acquie­scente per con­vin­zione, si sapeva. Che un’altra sia rima­sta abba­ci­nata dal risul­tato delle euro­pee, si spiega. L’opportunismo è un morbo dif­fu­sis­simo in poli­tica. Più dif­fi­cile è spie­garsi l’isolamento dei Chiti, Mineo, Tocci, Cas­son (mi scuso per chi non nomino) che si sono fie­ra­mente oppo­sti alla bru­tale castra­zione del Senato. Che degli oppo­si­tori ci siano pure alla Camera è noto. Lo stesso Ber­sani ha mani­fe­stato il suo disa­gio. Ma nel Pd nes­suno sem­bra avere il corag­gio di innal­zare le ban­diere della Costi­tu­zione vili­pesa e dire un no forte e chiaro. Spiace dirlo, ma dagli eredi legit­timi dei par­titi che scris­sero quella Carta c’era da aspet­tarsi ben di più

«Il premier aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea». Finalmente un editoriale di Eugenio Scalfari che condividiamo in gran parte.

La Repubblica, 10 agosto 2014

Il Senato è stato riformato in prima lettura. Ce ne vorranno altre tre tra Camera e Senato prima che la riforma sia perfezionata e intanto anche la riforma della legge elettorale dovrà esser varata anche se ancora numerose sono le variazioni che il Pd vorrebbe includervi non ancora concordate con Forza Italia in modo definitivo. Comunque entrambi questi due cambiamenti (ai quali si dovrà aggiungere la riforma del titolo V della Costituzione) richiedono una doppia firma: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Di quest’aspetto della situazione parleremo tra poco ma intanto soffermiamoci sul significato del cambiamento avvenuto già da qualche tempo ma che nel voto dell’8 agosto ha avuto la sua ufficiale consacrazione.

Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d’una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d’una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c’è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l’Italia a tutti gli altri paesi d’Europa. È vero e anch’io l’ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.

La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un’egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell’Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?

Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà

***
Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, arrivarono alla conclusione che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio; ora non c’è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.
Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L’ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l’eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un’ideologia: il socialismo è un’ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l’esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un’ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.

Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l’oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l’agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).

Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla “Repubblica”. Certo l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un’oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.

Certo c’è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell’antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c’era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l’Impero, Roma aveva conquistato l’intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l’Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial- democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai “clientes” dell’Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.

***
Spero d’aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l’Europa tutta.

L’attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.

Renzi aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l’Italia ha la presidenza semestrale dell’Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell’Istat equivalgono ad una pessima pagella.

Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l’autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.

Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l’Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch’esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.

Infine – e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale – Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all’Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l’intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell’euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.

Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l’Italia dovrebbe accettare l’arrivo della “troika” internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l’aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.

***

La riforma del Senato, come pure avverrà per quelle della Camera, del titolo V e della Giustizia, porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Si sapeva, era necessario e nessuno può dir nulla. Del resto accadde la stessa cosa con il governo Monti. Con quello di Letta no perché c’era stata la scissione di Alfano che però non sarebbe bastata per le riforme costituzionali.

Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all’opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l’interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto. *** Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l’abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest’affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.

Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.

Sulla “Stampa” di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l’astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.

***

Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una “assemblea giacobina” nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni “padri costituenti” contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.

© 2025 Eddyburg