Un magistrale quadro dei gravissimi rischi della democrazia, e delle ragioni di una giusta vita quotidiana di ciascuno di noi. I puntini di un disegno che per noi ormai è chiaro: unendoli appare l'immagine di un nuovo fascismo.
Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2014
Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato La Costituzione e il governo stile executive, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.
Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?
Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.
È un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.
Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.
Non è poi una grande novità.
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori?
È un bell’esercizio per i nostri lettori...
Intanto lo faccia lei per aiutarci.
L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governamentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. È molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro...
Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose...
Giusto dunque riformare un'altra volta il Titolo V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo riaccentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum , Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.
Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa... E rimango legato a princìpi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.
Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governamentalità’ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.
In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.
«La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco».
Il manifesto, 21 agosto 2014
Il 19 giugno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pubblicava sul quotidiano di area comunista Paese sera l’ultimo capitolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scrivendo su Antonio Gramsci. Si trattava della recensione a un’antologia di articoli e lettere del comunista sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scriveva: «Forse dipende dal tempo che è passato, che ha gettato ombre e luci nuove su tanti avvenimenti…
Non so se sia per questo motivo. Certo è che oggi, quando ho percorso via via le pagine di questa antologia, attraversate da tanti motivi diversi, che si intrecciano e talora si confondono, ma non si perdono mai, – la persona di Antonio Gramsci mi è parso debba collocarsi essa stessa in una luce più viva, che trascende la vicenda storica del nostro partito». Era, a ben vedere, la previsione di un fenomeno che avrebbe avuto inizio solo un ventennio più tardi, negli anni Ottanta, quando – mentre alcune componenti del Partito comunista italiano sembravano dimenticare Gramsci in favore di paradigmi culturali diversi e alternativi, incamminandosi lungo i sentieri che avrebbero condotto alla Bolognina – la fortuna dell’autore dei Quaderni iniziava una fase di espansione nei paesi anglofoni come in America latina, divenendo un punto di riferimento del pensiero politico e sociale contemporaneo, ben al di là del riferimento pur decisivo che aveva costituito per il Pci, soprattutto grazie a Togliatti.
Il libro togliattiano su Gramsci (di recente ristampato da Editori Riuniti university press col titolo Scritti su Gramsci), più in generale la storia di Togliatti curatore e organizzatore della diffusione delle opere di Gramsci, nonché loro primo e più accreditato interprete, dura quasi un quarantennio, essendo il primo scritto del 1927, occasionato del processo con il quale il fascismo condannò alla galera buona parte del gruppo dirigente comunista e Gramsci a morte probabile, viste le sue condizioni di salute. Si dimentica o si nasconde a volte questo fatto fondamentale, si torna a scrivere periodicamente che altri (e in primis proprio Togliatti o alcuni suoi compagni, o Stalin in persona) sarebbero stati i «carnefici» del comunista sardo. Sulla base di ipotesi e ragionamenti che non hanno il supporto di un documento, di una prova. Si arriva ad affermare che Mussolini avrebbe addirittura riconosciuto a Gramsci privilegi inusitati, in virtù di una stima di vecchia data. Si costruisce artatamente la leggenda del tradimento di Togliatti (a cui i maggiori quotidiani mostrano di dare credito) per minare dalle fondamenta una tradizione politica – quella del comunismo italiano – che offre ancora oggi segni di vitalità.
Una scelta chiara
Ciò che spesso non si dice, inoltre, è che senza le scelte operate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gramsciano, noi non avremmo mai conosciuto il Gramsci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse operato per fare di Gramsci il maggiore pensatore marxista italiano e per difenderne la figura e l’opera, il comunista sardo sarebbe passato probabilmente alla storia solo come un martire antifascista o poco più. Le sue opere carcerarie sarebbero riemerse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cercare di capire per la prima volta quelle pagine non facili.
La politica di Gramsci
Gli scritti togliattiani su Gramsci degli anni Venti e Trenta già ponevano il tema del posto di Gramsci nella storia del Pci. All’amico e al compagno di militanza e di lotta Togliatti riconobbe subito, nel 1927, la primogenitura politica, il ruolo di maestro e di capo, che ribadirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli articoli commossi scritti in occasione della morte. Si trattava di una indicazione, quella del 1927, che minava l’impianto difensivo gramsciano? Mussolini e la polizia fascista sapevano benissimo chi fosse Gramsci, quale ruolo avesse, e il Tribunale speciale obbediva a finalità squisitamente politiche: obbediva al volere di Mussolini. Fare di Gramsci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del partito italiano, persino un fedele seguace di Stalin (che in realtà non era), serviva in quel contesto a salvaguardarne la memoria, a impedirne la condanna ideologica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima indebolito il prestigio del prigioniero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rinviato sine die la diffusione dei suoi scritti.
Il manifesto, 21 agosto 2014
La scoperta dell'illuminismo
Il rigore parlamentare
L’ampiezza degli interessi culturali (unita a gusti in verità retrogradi tanto in letteratura quanto in pittura e musica) non lo spinge a divenire quello che oggi si definirebbe un «tuttologo», e questa consapevolezza del limite si riflette anche nel suo stile di direzione: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele» protesta scrivendo alla Federazione di Bologna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovietici» che i dirigenti del partito vorrebbero imporgli per celebrare la sua personalità, chiedendogli di posare per un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto credesse alle difese argomentate dell’esperienza sovietica in cui si produceva, avendo però fin dal ritorno in Italia chiarito che quel modello non era importabile né da imitare in forma ingenua e ripetitiva.
La «questione nazionale»
Dall’inchiesta di
Repubblica due articoli lanciano l'allarme sul forte rischio di chiusura di due strumenti (Archivio Centrale dello Stato e Biblioteca Nazionale) unici, per chi non sia così folle da pensare che la storia abbia meno importanza degli inutili interventi per Grandi Opere, o delle anticostituzionali spese militari. La Repubblica online, 20 agosto 2014
UN TAGLIO ALLA STORIA
E' un grido d'allarme. Un urlo, quasi disperato, per evitare la scomparsa della nostra memoria collettiva. Quella costruita in decenni sulla base di documenti che raccontano l'Italia. Un colpo di grazia alla sopravvivenza dell'Archivio Centrale dello Stato. Per il sovrintendente Agostino Attanasio non c'è dubbio: con questo ennesimo taglio ai fondi della cultura è la nostra storia, la nostra cultura come uomini e come Paese, che rischia di scomparire. Una mole imponente di documenti spesso rari e preziosi, come gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci o le carte sul sequestro Moro, che testimoniano il percorso fatto dall'Italia dall'unità ad oggi.
"L'Archivio Centrale dello Stato", spiega il responsabile della struttura, "ha un fabbisogno minimo, quello che i ragionieri chiamano spese incomprimibili: 800mila euro all'anno. Con quella cifra possiamo sopravvivere, fare le operazioni correnti. Nient'altro che il semplice ordinario. Nel 2013, invece, abbiamo ricevuto 650.000 euro, esattamente la metà dei fondi che avevamo avuto nel 2012". I conti sono semplici e il risultato è drastico."Finora", insiste il sovrintendente Attanasio, "siamo sopravvissuti a questi tagli perché siamo stati pessimisti verso il futuro: abbiamo gestito all'insegna del risparmio, lasciando dei fondi a disposizione perché temevamo di andare incontro a periodi poco felici. Ma a partire dal prossimo anno, se la situazione non cambierà in modo radicale, l'Archivio Centrale dello Stato chiuderà. Già quest'anno non sarà semplice fare il bilancio".
Con i suoi 120 chilometri di scaffali e una media di 36mila pezzi movimentati all'anno, l'Archivio Centrale dello Stato rappresenta da oltre mezzo secolo la memoria storica e documentaria del nostro paese, il punto di riferimento obbligato per ogni tipo di ricerca sull'Italia unitaria. Fu istituito nel 1953 ma l'esigenza della nascita di un grande istituto archivistico di livello nazionale si era posta già nel 1943, all'indomani del 25 luglio, quando si comprese di dover garantire la sopravvivenza degli archivi fascisti per il loro valore di fonti storiche.
Sin dall'inizio, prima ancora della sua apertura, si pose però uno dei grossi problemi strutturali dell'Archivio Centrale: i depositi. La sede fu progettata nell'ambito dei lavori per l'E42, quello che oggi conosciamo come Eur, ma la guerra non permise di terminare tutti gli edifici. Il primo sovrintendente, Armando Lodolini, propose al ministero dell'Interno di svolgere i lavori di adeguamento dell'edificio non ancora terminato in modo da renderlo idoneo a ospitare un istituto che avrebbe dovuto poi conservare masse notevoli di documentazione. Il ministero, tuttavia, non accettò questa proposta: "Il risultato", lamenta Attanasio, "è una sede molto prestigiosa, adeguatissima per quello che riguarda gli spazi pubblici, la sala studio, la sala convegni e gli uffici, ma del tutto inidonea per la conservazione dei depositi archivistici. Su 120 chilometri di scaffalature che conserviamo", osserva ancora il sovrintendente, "direi che al massimo 40 chilometri sono in una condizione idonea. Nel nostro edificio laterale, per esempio, ci sono delle vetrate enormi per cui d'estate fa molto caldo e d'inverno molto freddo: una realtà opposta a quelle che dovrebbero essere le condizioni per una corretta conservazione degli archivi. Potremmo creare un condizionamento ambientale, ma già oggi spendiamo 200.000 euro di energia elettrica. La prospettiva fattibile, quella da perseguire, è immaginare dei depositi funzionali, moderni ed economici".
Per questo motivo il sovrintendente Attanasio sponsorizza l'idea del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di trasferire una parte abbastanza consistente di documentazione in un deposito a Pomezia e trasformare quest'ala in un Polo Museale. "Ci saranno ovviamente delle spese a carico del ministero per i lavori di ristrutturazione - dice Attanasio - ma l'ACS risparmierebbe almeno un milione di euro". Sorgerebbe però il problema dell'accessibilità della documentazione trasferita a Pomezia, che per essere consultata dovrebbe essere riportata ogni volta nella sede dell'Eur con un servizio di navetta. "Purtroppo", commenta con una punta di amarezza il sovrintendente, "dobbiamo fare i conti con la realtà in cui viviamo. In un Paese dove fosse davvero possibile fare le cose in modo organico, serio e con prospettive ampie e ambiziose, lo Stato ragionerebbe in modo diverso. Avremmo potuto fare come a Barcellona o a Londra: costruire in una periferia romana una sede davvero avanzata e funzionale. Avremmo potuto e dovuto fare questo, ma queste cose si decidono a livello politico e richiedono una visione d'insieme più ampia di quella che c'è stata in Italia in questi anni. Considerando tutto ciò la soluzione di Pomezia è la migliore possibile. L'accessibilità alla documentazione sarà garantita da un servizio navetta serio ed efficiente che pagheremo con le economie che facciamo sull'affitto. In questo modo noi possiamo garantire un servizio nettamente migliore di quello che c'è adesso sia sul piano della conservazione dei documenti sia sul piano dell'offerta che garantiamo agli studiosi".
Il problema dello spazio diventerà ancora più pressante quando verrà attuata la direttiva Renzi che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna e rapido 904 finora coperti dal segreto di Stato. Già in autunno l'Archivio centrale dello Stato riceverà le prime carte e si porrà un problema di collocazione per la loro conservazione e la loro sicurezza perché alcuni documenti contengono dati sensibili che non possono essere messi in consultazione. "Stiamo ancora definendo le procedure, ma credo che il metodo sarà lo stesso che abbiamo usato con il versamento Moro: alcuni nomi e dati che appartengono alla realtà attuale verranno obliterati perché non possono essere consultati", dice Attanasio. I segreti di Stato saranno solo gli ultimi acquisti.
Nei faldoni conservati all'Archivio Centrale dello Stato si trova di tutto, anche soldi: nel fascicolo 89/A della Polizia Politica relativo a Michele Schirru, un anarchico fucilato dal regime fascista per l'intenzione di uccidere Benito Mussolini, c'è ad esempio - in perfetto stato di conservazione - un assegno di duemila lire del Crédit Lyonnais datato 3 febbraio 1931 che fu sequestrato a Schirru.
L'assegno e milioni di altre carte sono custodite in grossi faldoni, chiamati buste: fino a qualche anno fa ogni studioso poteva consultare un totale di 16 buste al giorno distribuite in 4 turni. Negli ultimi anni il personale è diminuito costantemente. Ma non è stato sostituito con nuovi ingressi. E' venuto così a mancare anche qui quel ricambio generazionale che ha più dimestichezza con le nuove tecnologiee potrebbe avere un impatto più produttivo con le realtà esterne: studiosi, storici, giornalisti, semplici cittadini animati dal desiderio di consultare concretamente la documentazione raccolta attorno a singoli episodi e su questi costruirsi un giudizio oggettivo. Appunto, storico. La carenza di personale ha avuto riflessi sull'organizzazione del lavoro. I turni giornalieri sono diventati 2 e le buste consultabili solo 6. "Da parte nostra", si difende il sovrintendente, "abbiamo fatto ciò che era possibile fare. Sul piano della digitalizzazione ci sono stati notevoli progressi. Puntiamo a rendere tutti i 1500 inventari presenti in sala studio consultabili online. Finora ne abbiamo 120 e altri 350 circa sono in attesa di convalida. Per settembre avremo a disposizione sulla rete tutto il fondo della segreteria particolare del duce".
Negli ultimi vent'anni i filoni di ricerca che hanno interessato l'archivio sono diventati molto più eterogenei: se prima si andava a fare una semplice ricerca storica ora si compiono anche studi amministrativi e ricerche per il restauro. È una documentazione importante. Essenziale per capire la nostra storia e il nostro paese. Non solo per gli specialisti, ma per tutti noi.
A RISCHIO ANCHE LA BIBLIOTECA NAZIONALE
La Biblioteca di Castro Pretorio è un palazzo con dieci piani di magazzini, dodici sale di lettura e sette milioni di unità bibliografiche. Un patrimonio documentale di inestimabile valore artistico, storico e sociale che ha reso la Nazionale un punto di riferimento per studenti, ricercatori, storici, appassionati e turisti. "In ogni Paese civile del mondo la Biblioteca Nazionale è l'emblema della nazione", osserva ancora il direttore. "In Francia riveste un'importanza legata all'identità di un paese, la British Library in Inghilterra è conservata come un piccolo gioiello, gli Stati Uniti ne fanno un vanto. Qui in Italia, rappresentiamo un peso, un vero fastidio. Nessuno si preoccupa di questa istituzione se non a parole".
A causa della penuria di risorse che da sempre tormenta il sistema culturale italiano, la Biblioteca Nazionale di Roma ha subito nel corso degli anni costanti tagli al budget, ai quali si sono accompagnate decurtazioni dei servizi e degli orari. Intanto, il personale. Secondo la pianta organica la Biblioteca dovrebbe poter contare su almeno 108 custodi: oggi ce ne sono appena 37. Cosa vuol dire questo in termini di fruizione del servizio che l'ente offre? "È evidente che si lavora lo stesso, ma c'è un solo custode che deve lavorare per due. Niente pause, impegno gravoso, orari più lunghi. I risultati ne risentono. Chi studia o fa ricerca alla fine ottiene il servizio. Ma a pessime condizioni: se prima il libro chiesto si otteneva dopo mezz'ora ora ci vuole un'ora".
"Il fatto che la Biblioteca non abbia ancora chiuso i battenti non significa che funzioni bene con 207 unità. Abbiamo dovuto rinunciare alla distribuzione pomeridiana dei libri; il nostro orgoglio era la catalogazione, eravamo riusciti ad aggionarci dopo un lungo impegno personale: i nuovi libri venivano catalogati e messi a disposizione degli studiosi man mano che arrivavano, ma questo allineamento sarà durato sei mesi. Il personale va in pensione, non c'è ricambio, e il sistema si disallinea".
L'età media dei dipendenti di Castro Pretorio, del resto, si aggira intorno ai 57 anni. L'ultimo concorso rilevante di bibliotecari risale al 1984. "La colpa sostengono sia la crisi economica - commenta il direttore - Sarà anche vero. Non lo dubito. Ma come in tutte le crisi si deve anche compiere delle scelte: se si continua in questo modo tra cinque anni questo istituto chiude. Anzi. Potrebbe accadere prima. Per motivi anagrafici". Eppure le soluzioni per evitare l'impensabile esistono. "Bisogna avere la volontà politica di trovarle e adattarle - spiega ancora Avallone - Io mi auguro solo che cesserà questa politica dei tagli indiscriminati. Si colpisce un po' ovunque per risparmiare. La Cultura è un bene imprescindibile. Rappresenta la nostra identità. Mai come in questo momento c'è bisogno di tutelarla. Con politiche di assunzione e di formazione del personale mirata".
C'è chi spera ancora nel cambiamento di Matteo Renzi: scriveLaura Pennacchi nell'intervista a Massimo Franchi: «Dopo le europee Renzi aveva parlato della necessità di un piano keynesiano. Ora può benissimo farlo, invece di raccattare quattro spicci dai soliti noti. I referendum possono essere un primo passo».
Il manifesto, 20 agosto 2014
«Renzi dopo il successo alle europee parlò di piano keynesiano. Dobbiamo dargli credito, facendogli però notare tutte le incoerenze del suo agire. Con l’Europa invece bisogna proprio cambiare strada, le cose stanno andando così male e cambiando così in fretta che una svolta nel modello di sviluppo è tutt’altro che un’utopia e i referendum contro l’austerità possono essere il primo passo». Laura Pennacchi, responsabile del Forum economia della Cgil, sottosegretaria al Tesoro con Prodi, riflette con «ottimismo» sulle indiscrezioni sulla manovra che arriverà in contemporanea con la scadenza della raccolta delle 500mila firme per modificare le norme italiane su Fiscal compact e pareggio di bilancio.
Nei tanti piani che ad agosto si affibbiano al governo spunta un contributo di solidarietà per le pensioni più alte. Come lo giudica?
Potrebbe essere un’idea giusta se si applicasse l’indirizzo che suggerì la Corte quando dichiarò incostituzionali provvedimenti simili dei governi Berlusconi e Monti: il prelievo deve essere su tutti i redditi, non solo su quelli da pensione. Se si decidesse di chiedere un contributo di solidarietà progressivo che colpisse anche i redditi scandalosi dei manager pubblici e privati si potrebbe ottenere una cifra cospicua da utilizzare per ridurre la disuguaglianza, che vede il nostro Paese al secondo posto nell’indice internazionale che la misura, dietro solo agli Stati Uniti.
Il governo pare invece voler utilizzare i proventi delle sole pensioni e mira a colpire soprattutto coloro che hanno un assegno calcolato col metodo retributivo, ormai considerati da tutti dei privilegiati.
Indubbiamente c’è una differenza forte tra chi è andato in pensione col retributivo e chi ci va ora. Ma una misura del genere colpirebbe soprattutto i lavoratori autonomi che fino al 1990 pagavano solo il 10% dei contributi: il ricalcolo porterebbe a tagli stratosferici dei loro assegni. Per la finalità dei proventi del contributo di solidarietà invece io propendo per investimenti pubblici che creino lavoro, la vera emergenza. Quando presentammo i referendum alla Camera, un sondaggio condotto da Nicola Piepoli mostrò come il 70% degli italiani era disposto a un contributo di solidarietà da mille a 5 mila euro se fosse servito per dare lavoro ai giovani. Per questo dico che avendo un’ambizione quasi rivoluzionaria il governo dovrebbe percorrere questa strada e non raccattare quattro spicci dai soliti noti colpendo le pensioni medie.
Quale sarebbe una soglia accettabile per questo contributo?
I 90mila euro annui sono pari a 3.500 al mese, un livello accettabile per iniziare a discutere, soprattutto perché sarebbe un intervento progressivo che colpirebbe i più ricchi.
Lei crede che Matteo Renzi abbia la forza politica per portare avanti un piano del genere? Alfano non griderebbe alla “patrimoniale”?
Non si tratterebbe di una patrimoniale, ma di un contributo di solidarietà. La Corte costituzionale lo ha quasi auspicato nelle motivazioni della sentenza. Dopo il successo alle europee Renzi ha parlato di necessità di “un intervento keynesiano” e quindi penso che potrebbe benissimo farlo. Anzi, dobbiamo spronarlo. Contestandolo però duramente quando ad esempio non rilancia la politica industriale puntando solo sulle privatizzazioni.
In parallelo poi il governo pare trattare con la nuova Commissione europea margini sul rientro dal deficit. Potrà bastare per avere una Legge di stabilità non recessiva?
C’è ben altro da mettere in gioco con la Commissione rispetto alle piccole modifiche dei parametri. Ma le cose stanno andando così male — l’intera area Euro è in stagnazione con una crescita nel 2014 stimata sotto l’1% — e stanno cambiando così velocemente — anche la locomotiva Germania è in obiettiva difficoltà — che ci sono tutte le condizioni per mettere in soffitta il fallimento delle politiche ottuse e miopi di austerità e rilanciare l’intervento pubblico. Partendo, come hanno chiesto prima Visco e poi Draghi, dagli investimenti per l’occupazione: c’è un enorme liquidità che non si tramuta in investimenti. Un risultato che possono raggiungere solo le istituzioni pubbliche usando la leva pubblica. Serve una rivoluzione culturale e per questo i nostri referendum possono essere un punto di svolta, a partire dal raggiungimento delle 500mila firme entro settembre.
Sembra ottimista sul futuro economico del continente…
Dobbiamo essere ottimisti, la situazione è tale da darci possibilità infinite di cambiamento. Karl Polany era spietato nel descrivere i problemi del capitalismo, ma non meno speranzoso di poterlo cambiare.
A proposito di referendum: molti a sinistra hanno storto la bocca leggendo il nome di Mario Baldassarri, viceministro dell’Economia con Berlusconi, nel comitato promotore, o l’adesione di Fratelli d’Italia.
I referendum sono uno strumento largo per loro natura. Chiunque appoggi le idee alla base dei quesiti è il benvenuto in questa battaglia. Le bocche storte mi sembrano una pruderie tipica di una sinistra che coltiva una purezza sterile.
Dilemmi che è impossibile sciogliere se non si sa rispondere prima alla domande: che nesso c’è tra chi con le guerre ingrassa e chi gestisce il potere; e come si può fare per romperlo?
La Repubblica, 20 agosto 2014
Il concetto di “guerra giusta” da decenni dilania le coscienze degli individui e condiziona le scelte degli Stati. Le parole del papa sulla «Terza guerra mondiale fatta a pezzi» sono una formula che sarà consegnata alla Storia. Mirabile fotografia di «un mondo in guerra dappertutto », rilanciano un dibattito, che è senza risposte morali certe e senza soluzioni politiche incontrovertibili, ma che ci pone davanti a decisioni angoscianti in un quadro geopolitico devastato da conflitti crudeli fino alla barbarie.
Come ci ricordava Federico Rampini su questo giornale, ci sono oggi nel mondo soltanto 11 Paesi che non sono coinvolti in guerre. Nel 1996, contro chi preconizzava la “fine della Storia” dopo la frantumazione dell’Urss, Samuel Huntington scriveva, nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale , che “le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Ma neppure questo lungimirante politologo fondatore di Foreign Policy , una delle più rispettate riviste di politica internazionale, avrebbe immaginato nel nuovo millennio un mondo così piagato da guerre, con «l’umanità spaventata da due problemi: la crudeltà e la tortura», come ha detto Papa Francesco.
Nessun pontefice può spingersi a definire giusta una guerra. Perfino un laico come Norberto Bobbio, che parlò di «guerra giusta» per l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, fu intensamente lacerato dalla sua stessa audacia. Che pure era l’esito di una riflessione storica e geopolitica impeccabile. Finita l’era del bipolarismo, con due superpotenze che si fronteggiavano a tutto campo (dall’ideologico al militare), ma che al tempo stesso garantivano un rigido controllo degli impulsi bellicistici magari con la dottrina solo apparentemente surreale della “reciproca distruzione assicurata” (Mad, secondo l’acronimo inglese, che vuol dire anche “pazzo”, appunto), il mondo era tornato a una logica quasi medievale di una guerra indiscriminata tra bande. Dai conflitti balcanici dei primi anni ‘90 in poi abbiamo assistito a un’escalation di violenza globale di cui le cronache di orrore che ci arrivano ogni giorno dal nord dell’Iraq sono soltanto la punta dell’iceberg.
Se per Jurgen Habermas la causa umanitaria era stata motivo sufficiente per giustificare l’intervento in Serbia, che direbbe oggi di fronte all’eccidio di cristiani da parte dei fanatici sostenitori del Califfato? Dove si spingerebbe la riflessione di Norberto Bobbio sulla «guerra giusta», che gli era stata suggerita dal timore di un nuovo appeasement come l’accordo di Monaco del 1938? Non solo la Storia non è finita, come aveva incautamente affermato Francis Fukuyama dopo il 1989. Ma la Storia ci pone di fronte a dilemmi sempre più angoscianti, a tragedie sempre più inaudite, a orrori sempre crescenti in una moltiplicazione esponenziale dei demoni della guerra, in cui agli “Stati canaglia” di reaganiana memoria si sono sommati gli “individui canaglia”, di cui Bin Laden è stato il progenitore superato in ferocia dai suoi macabri epigoni.
«Gli aggressori ingiusti, come quelli in Iraq, vanno fermati», ha detto papa Francesco. Di più non poteva dire nel solco di una tradizione che da Benedetto XV («l’inutile strage» riferita alla Prima guerra mondiale») in poi non ha mai giustificato apertamente nessuna guerra. Ma con le sue parole il pontefice ha riecheggiato le coraggiose elaborazioni di papa Wojtyla sulla guerra in Iraq, dopo quella nel Kosovo. «Sappiamo bene — disse all’Angelus del 16 marzo 2003 — che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità». E due mesi prima al corpo diplomatico accreditato in Vaticano aveva avvertito che «la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità» e che «non si può fare ricorso alla guerra anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni» (parole che non piacquero ai pacifisti, alcuni dei quali gli chiesero di non lasciare «scappatoie per gli incisi e i distinguo»).
Vengono al pettine i nodi provocati nella realtà mediorientale dalla sciagurata guerra irakena di Bush (e alleati-servi europei). L'unica risposta cui l'Italia si accoda, è fornire ancora strumenti di morte a un Terzo mondo saturato di armi fornite dal Primo.
Il manifesto, 19 agosto 2014
Del resto, così fan tutti nell’Europa del baratro della crisi economica, che non vede come il Medio Oriente sia così strapieno di armi, arrivate spesso a scopo “umanitario”, che la guerra ne è orma il portato quotidiano e sanguinoso. Ma diciamo no in primo luogo perché l’Italia, nella “coalizione dei volenterosi”, ha partecipato nel 2004 alla guerra all’Iraq inventata dagli Stati uniti di Gorge W. Bush che ha prodotto la tragica devastazione che è sotto i nostri occhi. E’ da lì infatti che ha avuto origine la rottura dell’equilibrio iracheno preesistente tra sunniti e sciiti e la scomparsa di fatto dell’Iraq come Stato, frammentato nelle sue fazioni e con un esercito diviso per appartenenza religiosa incapace di fronteggiare la nuova insidia militare e politica rappresentata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), nato in Siria come effetto collaterale del sostegno “umanitario” in armi e consiglieri militari, come già precedentemente in Libia, della coalizione degli “Amici della Siria”, una accolita di partner che vanno dagli Usa all’Arabia saudita, dalla Gran Bretagna alla Turchia, dall’Italia al Qatar.
Anziché le armi bisogna inviare soccorsi davvero umanitari pensando ai civili, ai feriti, ai profughi, ai bambini: cibo, sanitari, ospedali da campo, tendopoli. Senza dimenticare che sostenere militarmente la leadership del Kurdistan del leader Barzani invece dell’esercito di Baghdad rappresenta un sostegno alla spartizione dell’Iraq e all’obiettivo dell’indipendenza di uno stato etnico kurdo. Con l’apertura così del vaso di Pandora della questione kurda nella regione che metterebbe in discussione l’esistenza di Stati unitari come la Turchia, l’Iran e la Siria già ampiamente distrutta. Ma anche perché (resoconti alla mano dei pochi reportage arrivati da quelle zone a metà-fine luglio), quando l’Isil dilagava dalla Siria a sud verso il cuore dell’Iraq, la leadership del Kurdistan iracheno ha semplicemente scelto di farsi da parte e lasciare passare i jihadisti, di stare a guardare l’ulteriore colpo inferto alla flebile unità irachena, quando non è arrivata addirittura ad accordarsi con l’Isil che in quel momento non metteva in discussione il territorio kurdo con i suoi preziosi giacimenti di petrolio. C’erano stragi anche allora ma tutti tacevano, compresi i kurdi. Combattevano lo Stato islamico le poche e male armate milizie del Pkk perché in prima fila e in fuga da troppi nemici, spesso anche dagli stessi peshmerga di Barzani.
Qualcuno adesso ci spieghi per favore il sottile paradosso dell’invio di armi dell’Italia ai kurdi iracheni che, come scambio di potere e concessioni di spazio, faranno combattere al loro posto in prima fila le milizie del Pkk, quando proprio l’Italia ha consegnato nelle mani dell’intelligence americana e alle galere turche il “terrorista” Abdullah Ocalan, leader tutt’ora indiscusso del Pkk. Ecco che torniamo al “terrorismo” a geometria variabile, a seconda degli interessi strategici globali dei potenti della terra.
Si dirà subito che chi dice no all’invio di armi ai peshmerga kurdi chiude gli occhi sulle stragi di cristiani e jihazidi. L’impressione è che ancora una volta la disperazione delle minoranze venga utilizzata a scopi tutt’altro che umanitari. Il papa stesso alza la voce sulla persecuzione dei cristiani – certo più di quanto abbia denunciato lo scempio delle decine di moschee distrutte dai raid israeliani nella Striscia -, ma dice “basta guerra” e ricorda che non si fa “in nome di dio”. Intanto sono in troppi a piangere per le vittime jihazide tutte le lacrime che non hanno versato per le stragi di Gaza. Per la quale nessuno, immaginiamo, sentirebbe l’obbligo morale di chiedere l’invio di armi ai palestinesi chiusi nelle prigioni a cielo aperto di Gaza e Cisgiordania.
I massacri di cristiani — in corso in Iraq da due anni nel silenzio americano della Casa bianca che enfatizzava il suo “miglior ritiro” da una guerra — come quelle della minoranza jihazida sono vere e feroci, ma non vanno enfatizzate e moltiplicate nel resoconto giornalistico, tanto più che nella stampa estera già qualche accorto reporter, a corto di verifiche, comincia a dire “presunte”. A Gaza, a proposito di stragi, per certo hanno celebrato in queste ore più di duemila funerali, per l’80% di bambini, donne e vecchi inermi.
Non è inviando armi, aggiungendo guerra su guerra, che il Medio Oriente sarà pacificato e verrà fermata la mano degli assassini e delle stragi. Se Obama vuole fermare davvero lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante — non è più solo Al Qaeda, questo è un esercito — rompa i rapporti economici che legano gli Stati uniti alle petromonarchie arabe, le stesse che sostengono l’Isil con finanziamenti e armi sofisticate. Sarebbe un momento di verità sulle crisi internazionali capace di cambiare la faccia del mondo e dare l’alt all’avanzata del radicalismo jihadista. Diventato inarrestabile, non lo dimentichiamo, anche grazie alle troppe guerre “umanitarie” occidentali che hanno utilizzato in chiave destabilizzante il terrorista di turno promosso per l’occasione a utile “liberatore”. Confermiamo invece, almeno stavolta, l’articolo 11 della nostra Costituzione che dichiara di “ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali”
In Italia il 5% dei contribuenti ricchi concentra il 22,7% del reddito. Perché abbassare salari e tagliare pensioni non ha prodotto (né produrrà) ripresa della nostra disastrata economia». Illustrazione ineccepibile di un economista che pensa e spiega.
Il manifesto, 19 agosto 2014
Torna l’idea di promuovere la crescita tagliando i salari e le pensioni “d’oro”. Tagliando i salari e liberalizzando il mercato del lavoro – si dice – aumenterebbe la domanda di lavoro, dunque l’occupazione, dunque il prodotto. È ancora la ricetta della Treasury View del ’29, che viene argomentata nel modo seguente.
La domanda per consumi, a sua volta, è costituita dalla domanda di quanti hanno un reddito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di rendita o di profitti. In una situazione di disoccupazione e di bassi salari, aumenta la quota — sul prodotto sociale — delle rendite e dei profitti. Si può pensare che i maggiori consumi di lusso bastino a compensare i minori consumi dei lavoratori? Ovviamente no.
I governi Berlusconi,Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti.
Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.
Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani.
Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.
Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro
Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.
Si prenda il caso Germania;non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue.
Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.
Un’analisi semplice e chiara della trasformazione di fondo del sistema economico nel passaggio dal capitalismo fordista a quello dei nostri tempi. «l rentier, per il quale Keynes invocava l'eutanasia, è di nuovo alla testa del nostro sistema economico Chi, invece, vive del lavoro è spinto verso la povertà».
Sbilanciamoci.info, 19 agosto 2014
L'economia liberale usa il termine "imprenditore Sisifo" per riferirsi al fatto che l'imprenditore persegue razionalmente la massimizzazione di un profitto che però, alla fine, sarà nullo. I profitti hanno natura transitoria perché attirano concorrenti sul mercato, cosicché i margini si riducono, fino ad annullarsi. Per mantenere profitti positivi nel tempo non vi sono che due strade.
La prima è pigiare l'acceleratore sull'innovazione: se un'impresa è in grado di produrre sistematicamente innovazione, potrà sempre offrire qualcosa di meglio dei concorrenti e assicurarsi profitti anche molto elevati. La seconda è trasformarsi in rentier, ovvero in un soggetto che riceve denaro non per quello che fa, bensì per quello che possiede.
Anche per trasformarsi in rentier vi sono due strade: da un lato, è possibile ridurre la concorrenza, conquistando una rendita di posizione, operando sul mercato o a latere di esso, lecitamente o meno (si pensi a monopoli e oligopoli, ai brevetti e alle pressioni per allungarne la durata, fino alla corruzione per conseguire appalti pubblici); dall'altro, è possibile impiegare il proprio denaro per acquisire capitale finanziario o immobiliare.
L'imprenditore Sisifo che innova definisce uno degli scenari più virtuosi auspicabili di questi tempi, un'economia dinamica e creativa, che darebbe un giusto premio a coloro che perseguono il nuovo, i quali, comunque, non potrebbero dormire sugli allori e sarebbero invece spinti dalla concorrenza al continuo ampliamento della frontiera organizzativa e tecnologica. Viceversa, un'economia di rentier tende a fermarsi, perché ciascuno di essi si appropria di una parte dei beni prodotti senza dare alcunché in cambio; non a caso, a partire da Keynes si è invocata l'eutanasia del rentier , vista come strumento per liberare economia e società da un peso che ne depotenzia fortemente le prospettive. Per la stessa ragione, la tassazione della ricchezza sarebbe da privilegiare rispetto a quella sul reddito da lavoro e di impresa.
Dei due mondi descritti, la sensazione che in questa fase in Italia (ma non solo) prevalga il secondo è netta. Le difficoltà e la scarsità di prospettive sembrano avere spinto da parecchi anni molti attori economici a cercare di costruirsi un proprio recinto: imprese ex innovatrici si sono spostate in settori monopolistici o sull'immobiliare, mentre gli impieghi finanziari sono diventati superiori agli investimenti reali; professionisti di tutti i tipi (finanche i meccanici, con revisioni e bollini vari) hanno operato per costruirsi rendite di posizione sicure. Per la finanza, la crisi del 2008-2009 ha costituito, da questo punto di vista, solo una temporaneo intoppo. Anzi, le attuali dinamiche dei mercati indicano che essa ha riguadagnato il peso che aveva prima e la speculazione si è fatta ancora più aggressiva, laddove sono le economie reali a subire ancora i devastanti effetti della crisi.
In un mondo nel quale cresce l'importanza della rendita sulla produzione anche i ceti medi hanno vissuto l'illusione di poterne cogliere una parte, così da ottenere, grazie a rendite finanziarie e immobiliari, risorse adeguate a sostenere e migliorare il proprio standard di vita, malgrado la stasi dei salari. Si pensi all'illusione delle famiglie americane che fosse possibile comprare una casa senza realmente pagarla, grazie al continuo aumento dei valori immobiliari, che ha innescato la crisi nel 2008. O alla parallela illusione nostrana sul fatto che coi fondi pensione i lavoratori potessero conseguire pensioni elevate con contributi contenuti.
Ma tali illusioni sono tramontate, non senza conseguenze, e, in una società senza prospettive di crescita, la ricchezza dei ceti medi è arrivata ad assumere un ruolo di mero argine all'impoverimento. Le classi medie devono fronteggiare il fatto che nell'attuale fase si allontana sempre più non solo, se mai c'è stata, la prospettiva di promozione sociale attraverso il lavoro, ma anche quella di potersi assicurare attraverso il lavoro un'esistenza dignitosa.
Non rimane che la ricchezza, personale ma soprattutto familiare, cui votarsi per non scivolare indietro. Ritorna ad essere l'eredità, non più il lavoro, l'elemento che determina lo status. I prezzi delle abitazioni nelle grandi città rendono estremamente difficile, quando non impossibile, l'acquisto a chi dispone solo di redditi da lavoro, mentre alla ricchezza attingono un crescente numero di famiglie anche per far fronte alle esigenze di vita quotidiana. Per coloro che non hanno ricchezze cui attingere, le probabilità di sperimentare situazioni di povertà crescono a livelli che non si ricordavano più.
In tale contesto, uno Stato al testardo perseguimento del pareggio di bilancio si affanna alla ricerca di ulteriori entrate fiscali. Servirebbe un'azione forte e concertata internazionalmente per colpire drasticamente la grande rendita, contrastare la finanziarizzazione e la speculazione, punire i domicili fiscali di comodo, rilanciare un intervento pubblico in campo abitativo, incidere sul trasferimento familiare dei grandi patrimoni con un'adeguata tassa di successione. Servirebbe la volontà di distinguere fra finanza speculativa e finanza "buona". Non sarebbe impossibile, ma rentier , grandi patrimoni e finanza hanno potere e strumenti ormai tali da essere in grado di opporsi efficacemente ai pur blandi tentativi di regolazione.
Alla fine, come al solito, finisce per pagare chi ha qualcosa da parte ma non la capacità di difendersi. Così, i governi tendono non a spostare il prelievo fiscale dal lavoro alle grandi ricchezze, bensì a sommare al prelievo sul lavoro quello sulle ricchezze delle classi medie. Così è stato per le imposte sulla casa e per quelle sui conti correnti, per le quali si prefigura un ulteriore aumento. Così potrebbe essere in autunno, con la riduzione delle franchigie sulle tasse di successione.
Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da
eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.
Un titolo assai poco fedele al testo, nel quale uno degli intellettuali più ispirati dalla saggezza enuncia i rischi che stiamo correndo ora che i poteri istituzionali stanno, in vari mdi, a lavorare non “contro mano” ma contro i principi costituzionali.
La Re pubblica, 17 agosto 2014
La questione dei diritti civili è tornata nel discorso pubblico sulla scia della più ideologica e incostituzionale legge della storia repubblicana, quella sulla procreazione assistita. Scarnificata da sentenze nazionali e internazionali, le sue parti residue vengono ora adoperate non per restituire pienezza alla libertà di autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale ha di nuovo ribadito, ma per cercar di sollevare ancora qualche piccolo steccato ideologico. Segno di un tempo di evanescente legalità costituzionale e di una difficoltà politica interna alla maggioranza di governo, dove il Nuovo centrodestra tenta ossessivamente di proiettare all’esterno un’identità fatta di attacchi ai diritti delle coppie infertili, degli immigrati, dei lavoratori.
Questo clima rischia di accompagnarci nei mesi a venire, e dovrebbe indurre a qualche riflessione più generale, prendendo spunto anche dall’emendamento alla legge di riforma costituzionale che ha attribuito al futuro Senato il potere di concorrere alla legislazione nelle materie indicate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione - famiglia, matrimonio, salute. Temi definiti come “eticamente sensibili”, con una espressione ambigua che andrebbe cancellata dall’uso. O che dovrebbe essere completamente reinterpretata, poiché i temi oggi davvero eticamente sensibili sono quelli drammaticamente imposti dalla povertà dilagante e dalla disoccupazione, che negano i diritti sociali e la stessa “esistenza libera e dignitosa” di cui parla l’articolo 36 della Costituzione.
Quell’emendamento ha avuto il merito di aver riportato davanti all’opinione pubblica la questione, dimenticata, dei diritti civili. Ma dobbiamo francamente dire che questa apertura rischia di determinare nuovi e pericolosi equivoci. Da una parte, infatti, fa emergere la necessità di rafforzare la garanzia dei diritti, sottraendola alla sola competenza di una Camera dei deputati che si annuncia dominata da una totalizzante logica maggioritaria, che non dovrebbe estendere le sue pretese oltre l’esigenza della “governabilità”. Dall’altra, invece, sottrae a questa garanzia tutti gli altri diritti fondamentali e opera una pericolosa separazione tra diritti civili e diritti sociali.
Con un ulteriore problema. Le materie considerate dagli articoli 29 e 32 della Costituzione saranno considerate come un settore al quale il legislatore dedicherà interventi penetranti o, al contrario, come temi di cui si occuperà direttamente solo eccezionalmente e con il massimo rispetto di libertà e diritti? La via costituzionale è indicata nitidamente dalle parole che chiudono proprio l’articolo 32: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. E la Corte costituzionale ha collocato l’autodeterminazione tra i diritti fondamentali della persona. Questo vuol dire che il legislatore già oggi, e quale che sia il modo in cui alla fine verrà configurato il sistema istituzionale, deve sempre partire dalla premessa che vi sono limiti al suo potere, posti dalla Costituzione per impedire indebite invasioni della sfera di libertà delle persone.
Questo principio è stato ben poco rispettato negli ultimi anni, e questo atteggiamento sprezzante ha trovato conferme in questi giorni. La verità è che negli ultimi venti anni la tutela dei diritti è stata garantita quasi esclusivamente dai giudici costituzionali e ordinari, mentre il Parlamento cercava di ridurne illegittimamente l’ampiezza o rimaneva colpevolmente silenzioso. L’aggressione ai diritti delle coppie e alla stessa salute delle donne, cuore della famigerata legge sulla procreazione assistita, è stata sventata dalla Corte costituzionale. Ma il Parlamento è rimasto scandalosamente indifferente quando la stessa Corte e la Corte di Cassazione, seguendo pure le indicazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, hanno riconosciuto l’esistenza di un diritto fondamentale al riconoscimento delle unioni civili, anche quelle tra persone dello stesso sesso. E, travolti dall’euforia della cancellazione del bicameralismo paritario, non si dovrebbe perdere la memoria del fatto che la Camera aveva approvato la famigerata “legge bavaglio” sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e un orrido testo sul testamento biologico. Solo la previsione di un successivo esame del Senato ha impedito che quei testi divenissero leggi dello Stato. Garanzie e equilibri, questi, sui quali bisogna sempre riflettere e che non possono essere allegramente travolti dal turbocharged constitutionalism oggi imperante.
Alla democrazia parlamentare aggressiva o indifferente degli anni passati si è progressivamente affiancata una ben diversa “democrazia di prossimità”, incarnata dai comuni, dove ora si scopre il fiorire di una serie di iniziative volte proprio a offrire garanzie per i diritti delle persone trascurati da Parlamento e Governo. Vi sono registri dei testamenti biologici e per i patti di convivenza, e si cominciano a trascrivere nelle anagrafi comunali i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. Si prevedono “garanti” per i diritti dei bambini e per i detenuti, e forme di “cittadinanza civica” che, pur priva di immediati effetti giuridici, assume un fortissimo valore simbolico quando viene pubblicamente attribuita a immigrati. Si individuano modalità di destinazione a cittadini di beni per iniziative comuni e di collaborazione tra cittadini e comuni “per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”.
Siamo alle soglie di una sorta di schizofrenia istituzionale, dove solo l’allontanarsi dai pericolosi connubi della politica nazionale consente il dispiegarsi della logica dei diritti? Comunque sia, sono evidenti dinamiche sociali che segnano le nuove frontiere, lungo le quali le persone possono incontrare le istituzioni. Ma questo è impossibile là dove la negazione dei diritti assume dimensioni di massa, dove sono in questione il lavoro e la stessa sopravvivenza materiale. Ecco perché, nel mutare delle regole istituzionali, è pericoloso formalizzare una distinzione netta tra diritti civili e diritti sociali, abbandonando questi ultimi alle sole dinamiche di mercato, mascherate troppo spesso da vincoli insuperabili.
Abbiamo ascoltato in questi mesi con grande pazienza le giaculatorie di chi ci parlava di una mummificazione della Costituzione, con datazioni variabili (venti, trenta anni?). Troppi hanno seguito queste semplificazioni, che spesso assumevano imbarazzanti tratti favolistici.
È tempo di svegliarsi e di ricordare agli ultimi venuti che nell’aprile del 2012 è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio, con una riscrittura dell’articolo 81 che ha inciso profondamente sulla struttura della Costituzione e sull’assetto complessivo dell’azione pubblica, con effetti immediati per tutto ciò che riguarda i diritti sociali e le risorse che ad essi devono essere destinate. Un governo che davvero volesse innovare, e mostrare una capacità non verbale di cominciare a sottrarsi a impropri vincoli europei, potrebbe trovare qui una buona occasione. Non lo farà. Saranno i cittadini, con una loro iniziativa popolare, a proporre di ricostruire i rapporti tra diritti fondamentali e risorse. Non abbiamo ancora, per fortuna, istituzioni a una sola dimensione, quella che ha tenuto la scena, in modo non sempre dignitoso, nelle ultime giornate.
L’irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Seller: un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti - grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.
Con il senno del poi possiamo ora rispondere in modo più convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli economisti della London School of Economics: “perché, con tutta la vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?”. Non è stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli interlocutori della regina, l’eccessiva matematizzazione della disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra l’altro, che anche chi la crisi l’aveva prevista, come l’economista Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). L’orizzonte culturale è sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (ma lo sanno anche gli asini che, anche se fosse possibile “riagguantarla”, la crescita è insostenibile, non può durare per sempre; e che il suo tempo è finito); e mercato, cioè “competitività”, da recuperare a qualsiasi costo (magari con qualche correttivo). Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi. Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o aspirano tutti a farsi “consiglieri del principe”; non per fornirgli strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in volta, le sue scelte: quelle imposte dai “mercati” (che non sono “il mercato”, ma i pochi protagonisti dell’alta finanza che governano l’economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa veramente che “l’anno prossimo” l’Italia riprenderà a crescere? Eppure è anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione. D’altronde sono i sacerdoti della “religione del nostro tempo”: che cos’altro attendersi da loro?
Non possiamo rimanere succubi di questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e riconquistare un’egemonia culturale che metta al centro non “i mercati” (quelli che “votano” governi, politiche economiche e ora anche riforme istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan, pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello ambientale e quello economico; il che significa riconfigurare il governo dell’impresa in senso democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del conflitto la consapevolezza dell’ineludibilità di questo obiettivo (peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla competitività universale liberista).
E’ un programma di ampio respiro che non ammette i “due tempi” (subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle nostre esistenze imposte dall’austerity; poi una vera riforma della società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due esempi: quanti avversari dell’austerity, nell’invocare una ripresa di politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più attuali, come “l’eutanasia del rentier”, il dimezzamento dell’orario di lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità economica italiana si cominciasse a prospettare una “rimodulazione” del debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività universale come principio fondativo del pensiero unico? Siamo ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il “giardiniere” venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come Monti e Letta.
Cassandra aveva ragione: le ricette del neoliberismo, la spremitura dei molti in favore dei pochi (il capitalismo nella sua fase attuale) porta l'Europa sull'orlo dell'abisso. Occorre ribaltare il tavolo.
Il manifesto, 15 agosto 2014
Gli ultimi dati rilasciati ieri da Eurostat, l’agenzia statistica europea, confermano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere di economisti, anche di estrazione mainstream: la tanto sbandierata “ripresa” europea – che comunque rappresentava sempre una medi tra quegli stati che registravano modesti tassi di crescita (come la Germania) e quelli che continuavano a essere impantanati nella recessione post-crisi (come l’Italia) – era una pia illusione.
Senza un ribaltamento radicale delle politiche economiche, l’eurozona era inevitabilmente condannata a sprofondare in una cosiddetta “stagnazione secolare”: un lungo periodo di crescita bassa o nulla. E infatti l’ultimo bollettino di Eurostat parla chiaro: nell’ultimo trimestre dell’anno la crescita nella zona euro è stata dello 0.0%. A leggere il testo del comunicato, però, si direbbe che non c’è motivo di preoccuparsi: secondo la neolingua dei burocrati di Bruxelles, semplicemente “il Pil nell’area euro è rimasto stabile”. Tutto a posto, dunque?
Purtroppo no. In uno scenario di stagnazione secolare risolvere il problema della disoccupazione dilagante (18 milioni di senza lavoro solo nella zona euro), della deflazione alle porte (0.4% il tasso d’inflazione nella zona euro, mentre in alcuni paesi è già sotto lo zero) e del debito pubblico è praticamente impossibile. Al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per fare il verso alla stagflazione degli anni ’70): uno scenario da incubo in cui crescita anemica, bassa domanda, prezzi in calo, disoccupazione crescente, carenza di investimenti, fallimenti aziendali, sofferenze bancarie e debiti pubblici alle stelle si alimentano a vicenda in una spirale senza fine.
Perché l’eurozona si trova in questa condizione, quando altre aree economiche colpite altrettanto duramente dalla crisi del 2008, come Stati uniti e Regno Unito, hanno ridotto la disoccupazione e sono tornate ai livelli di crescita pre-crisi o li hanno addirittura superati?
A prescindere dai limiti “strutturali” dell’eurozona (impossibilità della Bce di offrire liquidità agli Stati, ecc.), la causa principale dell’infinita crisi europea – come ormai denunciano anche giornali come il Financial Times e organizzazioni notoriamente neoliberiste come l’Fmi –, sono le folli politiche di austerity perseguite dall’establishment europeo negli ultimi anni, che hanno avuto l’effetto di strangolare ulteriormente l’economia, già affamata da un crollo della spesa privata, per mezzo di drastici tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse e compressione dei salari.
Altrove hanno invece perseguito politiche monetarie e fiscali espansive, con risultati prevedibilmente positivi. Finora erano stati soprattutto i paesi della periferia a patire le conseguenze di queste politiche scellerate. L’Italia è il caso più esemplare: produzione industriale al –25%, Pil al –10%, tasso di accumulazione al –13%, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (se mai ce la farà). La vera novità è che nell’ultimo trimestre anche la Germania ha registrato un tasso di crescita di negativo (-0.2%) per la prima volta dal 2010. Anche in questo caso c’è poco da sorprendersi.
L’avevano predetto in molti: continuando a comprimere la domanda interna e affamando i propri partner commerciali europei per mezzo dell’austerità la Germania avrebbe finito inevitabilmente per danneggiare la propria economia, fortemente basata sulle esportazioni. Basterà questo a convincere i tedeschi della necessità di un cambio di rotta? O almeno a convincere Matteo Renzi che la soluzione alla crisi non passa di certo per le [sue]“riforme strutturali"
A Roma, il 10 ottobre, seminario della sul rapporto tra politiche abitative, rigenerazione urbana e diritto alla città. Qui trovate il programma. Per partecipare è necessario iscriversi.
«Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo».
La Repubblica, 14 agosto 2014
È in realtà un totem ideologico della destra, l’abolizione dell’articolo 18 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma questo nodo interroga al tempo stesso una sinistra in profonda trasformazione. Il primo aspetto è apparso molto chiaro in questi giorni ed ha dato pessima prova di sé una destra che continua ad invecchiare nei suoi tenaci pregiudizi. E nei suoi portavoce: un Alfano maldestro nelle dichiarazioni — non solo contro i venditoriambulanti.
E un Sacconi sempre più oltranzista (forse per far dimenticare le pessime prove date a suo tempo come ministro). L’abolizione la chiedono tutti gli imprenditori, ha detto, una ragione ci deve pur essere... Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci: bisogna semplificare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente per i datori di lavoro. Il tutto è stato accompagnato da uno stonato concerto di giudizi privi di fondamento e intrisi, appunto, di pessima ideologia: l’articolo 18 ha danneggiato sviluppo e competitività (così un ex presidente di Confindustria, molto più reticente sulle responsabilità di quella organizzazione); l’alternativa alla sua abolizione sarebbe l’immobilismo totale (Maurizio Gasparri, noto esperto di diritto del lavoro e di sviluppo industriale), e così via. Si sorvoli pure sul carattere strumentale della estemporanea sortita di Alfano, che evoca bandierine o piccole manovre agostane, e la si prenda davvero sul serio.
Ci riconsegna una destra che non si vergogna della propria tradizione antisindacale, della propria insensibilità sociale e dei guasti che ha prodotto nella storia del Paese: una destra capace ancor oggi di rimuovere il clima di pesanti illeciti, di brutali discriminazioni, di dure umiliazioni dei lavoratori compiute prima dell’entrata in vigore dello Statuto. È intessuta di dolori, quella storia: e in qualche modo si ripropose agli inizi degli anni ottanta, quando la riduzione drastica del lavoro nelle grandi fabbriche innescò drammi veri, alla Fiat come a Marghera e altrove. Essa incise brutalmente sui diritti pur affermati dallo Statuto ma pochi se ne accorsero nei “dorati anni ottanta”: comprendeva anche questo, quella “modernità”, ed è troppo ardito chiedere una riflessione su questo al vecchissimo Nuovo centrodestra. Forse gli si può chiedere però di non rimuovere un altro aspetto, e cioè la pessima spirale che fu innescata dall’abolizione dei diritti degli anni cinquanta e sessanta. È un aspetto centrale: non capiremmo altrimenti la durezza della rivincita sindacale dell’autunno caldo e della “conflittualità permanente” degli anni settanta. Una conferma probante, se ce ne fosse bisogno, che l’assenza di regole non favorisce, alla lunga, neppure la parte che sembra goderne i vantaggi più immediati. Apre dunque la via a molti errori e a molti guasti la rimozione del passato, ma va aggiunto che ancora una volta la destra nostrana non sa dare neppure giudizi fondati e pacati sul presente né misurarsi con il futuro. È pessima ideologia e pessima politica rimuovere la realtà di un lavoro di fabbrica quantitativamente sempre più ridotto e insidiato su più versanti, con un potere d’acquisto dei salari fortemente e progressivamente eroso da quasi trent’anni. Rimuovere, anche, l’indebolimento dell’articolo 18 già realizzato con la riforma Fornero e il clima di insicurezza (e di vetero revanscismo padronale) che è stato ulteriormente aggravato dall’operare di Sergio Marchionne. Ed è un puro inganno sostenere che i lavoratori privi di tutele si difendono togliendo i diritti a coloro che ancora li hanno (bugia dalle gambe cortissime, smentita ogni giorno dai fatti).
Quando lo Statuto dei lavoratori fu approvato si disse, a ragione, che la Costituzione era finalmente entrata in fabbrica: siamo proprio certi che oggi, nella diffusissima paura di perdere il lavoro, la Costituzione in fabbrica non sia più necessaria? D’accordo, la domanda non va rivolta agli improbabili interlocutori del centrodestra: essa è però fondamentale per una sinistra che ha avviato una trasformazione profonda e che si interroga oggi sul senso, sull’orientamento (sul verso, per dirla con Renzi) da dare ad essa. Certo, la sinistra sconta anche qui un profondissimo ritardo, incapace come è stata fin dagli anni ottanta di misurarsi realmente con le trasformazioni del mondo del lavoro e delle sue culture, con vecchie e nuove precarietà, con vecchi e nuovi drammi. Oscillante talora fra poli opposti e portata a divaricazioni che hanno fatto più di un danno.
Oggi tutto questo non è più possibile e nella rifondazione della sinistra i nodi del lavoro e dei diritti sono centrali. È fondamentale che vi sia in essa una vera “pedagogia per il futuro”, sono centrali indicazioni limpide e prospettive riconoscibili, nella consapevolezza che proprio le crisi economiche e politiche rendono preziosi i diritti. È una prova vera, quella che attende il Pd di Renzi, e va affrontata nella sua interezza. Lo Statuto dei lavoratori lo riscriveremo, ha detto il premier, ma un aspetto non dovrebbe sfuggirgli: con il vecchio Nuovo centrodestra di Alfano e Sacconi lo Statuto non si può riscrivere. A meno che riscriverlo non significhi in realtà abolirlo.
la Repubblica (13 agosto 2014 ) ci sembra che l’autore superi se stesso. Con postilla
Caro presidente del Consiglio Matteo Renzi,
Le scrivo, come è diritto di ogni cittadino, per porLe una domanda: la riforma della Costituzione su cui il governo punta le sue carte servirà a disincagliare l’Italia dalle secche di questa lunga stagnazione?
Lei certo sa, Signor Presidente, che l’Italia si distingue per alcuni primati poco invidiabili. Secondo dati Ocse richiamati dalla Corte dei Conti, siamo al terzo posto al mondo per evasione fiscale (preceduti solo da Turchia e Messico), e Confcommercio stima in 154,4 miliardi di euro le tasse non pagate nel solo 2012. Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei Paesi più corrotti d’Europa (con Romania, Grecia e Bulgaria), peggio di Namibia e Ruanda, con perdite annue di 60 miliardi. Secondo il World Freedom Index l’Italia è terzultima in Europa per libertà di stampa, stando in classifica fra Haiti e BurkinaFaso. Intanto, a fronte di un consumo di suolo medio in Europa del 2,8%, l’Italia raggiunge un devastante 6,9%, pur con incremento demografico zero (dati Ispra). La disoccupazione giovanile è balzata al 43,3%, contro il 7,9% della Germania, e la media europea del 22,5% (dati Eurostat).
Secondo il Dipartimento per lo Sviluppo di Palazzo Chigi l’Italia è ultima in Europa per investimenti in cultura, con una contrazione della spesa doppia che in Grecia. Una riforma universitaria pessima e gestita ancor peggio mette in ginocchio la ricerca e riduce il merito a un optional spesso superfluo. Centinaia di imprese italiane chiudono i battenti o vengono assorbite da aziende cinesi, sudamericane, mediorientali. Come una valanga, continua la “fuga dei cervelli”: decine di migliaia di giovani formatisi in Italia portano in altri Paesi i loro talenti, vanificando l’alto investimento che il Paese ha fatto su di loro (nel 2013, quasi 44.000 italiani hanno chiesto di lavorare nella sola Gran Bretagna). Mentre cresce la disuguaglianza sociale, si radica la sfiducia dei cittadini nella politica, come ha mostrato il forte astensionismo nelle Europee, con un 41,32% di non votanti a cui va aggiunto l’8,31% di schede bianche, nulle o disperse. In questo contesto, come Lei sa bene, Signor Presidente, il buon risultato percentuale del Suo partito vale più o meno la metà di quel che sembra.
A fronte di questi problemi, l’azione del Suo governo si concentra su questioni di ingegneria istituzionale, come se ridurre di numero i senatori (ma non i deputati), o evitarne l’elezione popolare, possa salvare l’economia italiana. Secondo Mario Draghi, l’Italia ha bisogno di «riforme strutturali sui mercati dei prodotti e del lavoro», ma in Italia si produce sempre meno e si lavora sempre meno. L’Italia deve ridurre la pressione fiscale: con un reddito annuo di 28 mila euro, un italiano paga il 27% di imposte, un americano il 15%; a un reddito di 75 mila euro corrisponde un’imposta del 28% in Usa, del 43% in Italia. Questa enorme differenza dipende dalla rarità dell’evasione fiscale in Usa (dove è severamente punita), mentre i nostri governi di ogni colore (anche il Suo) fanno ben poco per combatterla.
Lei ha cercato invano, Signor Presidente, di trasmettere il Suo ottimismo: le Sue previsioni di crescita del Pil si sono rivelate fallaci, e il calo dello 0,2% nell’ultimo trimestre, contro un +3,2% della Gran Bretagna e un +1,1% medio dell’area euro, lascia poco spazio alla retorica. Cresce intanto il debito pubblico, che nel 2013 ha raggiunto il 132,6% sul Pil, e falliscono uno dopo l’altro i tentativi di spending review.
La stagnazione è ormai recessione, nasconderlo è un boomerang per chi lo fa. Corruzione, evasione fiscale, disoccupazione e altri problemi italiani sono ben noti ai nostri partner in Europa e nel mondo: se non si affrontano subito, il governo perde credibilità e accredita l’ipotesi che cambiare la Costituzione sia una tecnica dilatoria per non sfidare le urgenze.
La riforma apporta alla Costituzione mutamenti radicali. Anch’io, come molti cittadini, ritengo improprio che tali proposte siano nate dal governo e non dal Parlamento, e che vengano approvate da senatori e deputati nominati secondo una legge elettorale incostituzionale. Ma la domanda è ora un’altra: se mai quel testo entrasse in vigore tal quale, come e in che cosa la recessione del Paese ne verrebbe corretta? E se invece il testo facesse per mesi e mesi la spola fra Camera e Senato assorbendo tempo ed energie, non sarebbe un dirottamento rispetto ai problemi reali del Paese?
Non crede che il Suo governo acquisterebbe prestigio e credibilità se mostrasse nei fatti di ricordarsi dei diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione e dimenticati dalla politica con la scusa della crisi? Non sono diritti secondari: sono il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art. 4), la funzione sociale della proprietà (art. 42), la pari dignità sociale dei cittadini e la loro eguaglianza (art. 3), la garanzia per tutti di «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), il diritto alla cultura (artt. 9, 21, 33), il diritto alla salute (art. 32). Sono diritti ignorati o taglieggiati in nome della crisi economica. In che modo la Costituzione che Lei ha in mente intende farli risorgere dalle ceneri?
Il giovane Renzi essendo stato boy scout, conosce probabilmente la differenza tra i gufi (tra i quali, nella sua tassonomia, certamente annovera Settis) e le civette. Non essendo versato in altri saperi non sa, probabilmente, che la civetta era per gli antichi, e per i moderni che non hanno rottamato il passato, il simbolo della sapienza e della saggezza. Per celebrare nel nostro autore queste virtù abbiamo scelto come icona con la quale sottolienare l'articolo appunto una civetta. la cui immagine abbiamo tratto dal Museo virtuale della Certosa di Bologna.
In Italia le buone leggi non valgono per tutti/e. I diritti non sono mai uguali, dipende da chi conosci, da quanto tenace sei nell'affrontare i cavilli e le trappole burocratiche. Il Ministro Madia interviene sull'argomento e dice che il governo "se ne occuperà". Sembra che si tratti di un fenomeno sconosciuto, disvelato dalla lettera di una mamma precaria. Artcoli di M.N. De Luca e M. Madia,
La Repubblica, 13 agosto 2014 (m.p.r.)
NE' CONCEDI NE' AIUTI.
ECCO PERCHE' L'ITALIA
NON E' UN PAESE PER MAMME PRECARIE
di Maria Novella De Luca
Roma. Siamo un paese ostile alla maternità e sempre più refrattario ai bambini. Le desolanti statistiche dell’Istat lo testimoniano ad ogni rapporto annuale, fotografando la nostra progressiva discesa agli ultimi posti nella classifica demografica mondiale. Puntualmente ogni volta ci chiediamo perché. Eppure basta leggere la lettera pubblicata ieri su “Repubblica”, per rendersi contro di quanto l’Italia sia diventata ormai un luogo inospitale per chiunque decida di rischiare l’avventura della famiglia. Soprattutto se si è una lavoratrice precaria, ma che nonostante tutto si “azzarda” a mettere al mondo dei figli, ben tre in questo caso. Perché non solo il nostro non è un paese per mamme, ma in particolare non è un paese per mamme “atipiche”, quelle cioè che in assenza di un contratto di lavoro definito, non hanno diritto praticamente a nulla. Né prima della nascita, né dopo. Un’incredibile mancanza di tutele e di sostegni che Belinda Malfetti, giornalista freelance, ben descrive nella sua lettera “La mia odissea di mamma precaria alla ricerca del sussidio negato”. In Italia infatti le leggi ci sono, ma valgono soltanto per le mamme che hanno un contratto di lavoro. Per le altre, che sono sempre di più, resta soltanto il deserto. Ecco a confronto i diritti delle une e delle altre.
CARA BELINDA, HANNO CALPESTATO I SUOI DIRITTI. INTERVERRO'.
di Marianna Madia
Cara Belinda,
la sua lettera di donna, madre, e lavoratrice autonoma è l’emblema di ciò di cui dobbiamo occuparci come Governo. Lei ha perfettamente ragione e io la ringrazio perché alla sua indignazione non segue la rassegnazione, altrimenti non avrebbe scritto questa lettera.
Intervista a Gabriella Caramore, conduttrice di “Uomini e profeti” e autrice di un saggio (
Pazienza, il Mulino, Bologna 2014) sulla virtù più incompresa e inattuale: «Saper attendere è un atto politico». La Repubblica, 11 febbraio 2014
Voce tra le più amate e autorevoli della radio, Gabriella Caramore festeggia i vent’anni tondi di conduzione della trasmissione di cultura religiosa Uomini e profeti , una delle più scaricate sul podcast di RadioTre. Peccato soltanto che quell’autorevolezza conquistata sul campo, non trovi poi una congrua corrispondenza di ordine lavorativo: malgrado sia ormai in età di pensione, Caramore infatti continua ad essere una “precaria”, di nome e di fatto.
« Uomini e profeti non nasce con l’idea di andare contro qualcosa, o qualcuno. Però è animata dal desiderio di affrontare le tradizioni religiose con forte spirito critico. Vuole mettere in rilievo le contraddizioni, ma anche le potenzialità di intelligenza e libertà che emergono dai testi e che talvolta la costante tendenza al conformismo delle tradizioni tende a soffocare. Per questo occorre, rischiando anche di sbagliare, come tante volte mi è accaduto, giocare su una dinamica interpretativa: affrontando ad esempio i religiosi, che spesso si incatenano dentro uno schema rigido, secondo una prospettiva laica, e gli atei, talvolta un po’ puerili, secondo una prospettiva religiosa. È un modo diverso, mi sembra, per mettere il religioso a confronto con la complessità del nostro tempo».
Qual è il timbro più caratteristico della trasmissione?
«In primo luogo quello di far parlare in prima persona gli appartenenti a tradizioni diverse: cattolici di varia formazione, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici che non rifiutano il confronto con il religioso… Poi quello di prestare particolare attenzione alle Scritture, come è stato per il lungo ciclo dedicato alla lettura e commento della Bibbia. Inoltre, avere al fianco, come compagni di viaggio, teologi e studiosi come Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Salvatore Natoli, la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, ma anche il profugo nigeriano, la dottoressa ucraina che da noi fa la badante, il carcerato... »
E dal punto di vista personale, che cosa ha rappresentato l’esperienza di un programma radiofonico che in un’epoca tutta schiacciata sul presente coltiva invece uno sguardo lungo, proiettato addirittura sull’eterno?
«Moltissimo. La possibilità di capire che dentro l’esperienza religiosa si annida un enorme potenziale di libertà. Oltre alla ricchezza degli incontri con gli ospiti, gli autori, un pubblico attento ed esigente».
Un certo vizio di andare controcorrente, comunque, lei non lo ha perso, come si evince leggendo il suo recentissimo libro sulla Pazienza ( Il Mulino), incentrato su una delle parole oggi più desuete.
«Per ragioni a tutti evidenti: la fretta, la velocità, l’ansia, la simultaneità delle nostre azioni. Ma credo che nella nostra cultura si debba aggiungere un’ulteriore ragione. Nella tradizione cristiana si è imposta un’idea della pazienza come sinonimo di patimento, sopportazione, mortificazione. È un’idea derivata da un’immagine riduttiva del Christus patiens , del Cristo in croce che poi si traduce nel più ordinario e fatalista “porta pazienza” del linguaggio quotidiano. Ma in questo modo si trascura un lato attivo della pazienza: il senso dell’attesa, della costruzione di futuro, di una fattiva speranza. Il Cristo patisce sì, ma non per amore gratuito della sofferenza. Lui non vuole morire in croce, in croce ce lo mettono! Oltre al fatto che spesso la sua parola ha un andamento irrequieto, un’insofferenza rispetto alla pervicacia del male, un giudizio severo e non tollerante nei confronti di chi fa merce delle cose di Dio, e di chi ne fa strumento di potere».
In pagine molto belle lei mostra come senza pazienza non esisterebbero né arte, né pensiero, né legame amoroso.
«Il bambino che cresce ha bisogno di tempo, e dunque di pazienza. Ne hanno bisogno gli amanti, per custodire il loro sentimento. Ne ha bisogno l’albero, che aspetta la primavera e l’estate per i fiori e i frutti. Quanto noi possiamo fare è creare un ambiente favorevole a questa crescita paziente, grazie alla cura che poniamo nelle cose in cui siamo impegnati e all’attenzione verso le creature che ci circondano. In questo modo si rovescia anche l’idea di pazienza come regno del privato, del piccolo sé. E grazie alla cura dell’altro si attribuisce a quel termine tutto il suo valore etico, civile, religioso. Ma anche politico, direi».
Del resto, anche i due miti fondativi della nostra tradizione, Ulisse e Mosè, conoscono - ciascuno a suo modo - la pazienza.
«Nel caso di Ulisse, la pazienza è un uso sapiente dell’intelligenza: tiene a freno le passioni in vista di uno scopo. Anche le figure che lo circondano nell’ultimo atto della sua vicenda, da Penelope alla nutrice al servo al cane, sono figure che trattengono l’impeto per noncompromettere il risultato».
Quanto invece a Mosè?
«Si parla sempre della pazienza di Giobbe, ma quella di Mosè non è da meno. Ed è una pazienza tutta legata all’amore per l’altro, alla sorte della sua gente. In verità Mosè comincia con un gesto di impazienza, uccidendo un egiziano che colpiva un ebreo, ma poi pian piano impara. Assume il suo destino di fuggiasco, acconsente alla chiamata del Signore. E sopporta l’impazienza del suo popolo, che durante la traversata del deserto rimpiange il tempo della schiavitù, perché alla fin fine è sempre più comoda la schiavitù della libertà. Infine, con pazienza, Mosè accoglie la sua morte da esule. Non è per sé che Mosè spera, ma per gli altri: forse la più bella immagine di cura che sia stata tramandata».
Un’ultima domanda, brusca e inevitabile, che si saranno posti anche tanti suoi ascoltatori. Lei crede in Dio?
«Per la verità non mi pongo tanto il problema. Non so chi sia Dio. Tutte le tradizioni ci raccontano tante cose di Dio, compresa quella biblica, per la quale il volto di Dio non si può vedere, il suo nome non si può pronunciare. È vero però che gli esseri umani hanno dato questo nome alla ricerca di qualcosa che va al di là della conoscenza umana, e che nello stesso tempo suggerisce al cammino dell’uomo un possibile orientamento in cerca del bene, della libertà, della giustizia. Il deposito di questa ricerca, presente nel racconto di Dio lasciatoci dalle diverse tradizioni religiose, è talmente imponente che non può non interessare anche gli atei e gli agnostici. L’idea di Dio come “invenzione” degli uomini mi sembra un po’ infantile. Non si tratta di un’invenzione, semmai di una “scoperta” della possibilità di vivere umanamente sulla terra, e della necessità di continuare sempre sulla via della conoscenza».
«La Repubblica, 11 agosto 2014
Il ermine “migranti” è generalmente associato all’emergenza del bisogno. Le immagini di italiani con valigie di cartone che approdano al porto di New York appartengono alla nostra memoria collettiva. Come anche quelle ormai quotidiane di disperati che cercano di attraversare vivi il Mediterraneo. Ma non tutti i migranti sono così visibili e disperati. Ci sono migranti invisibili, che passano le frontiere senza far rumore e con grande facilità. I golden migrants che non viaggiano con valigie di cartone e non scappano da nessuna miseria. Alcuni stati membri dell’Ue propongono offerte preferenziali per visti a stranieri facoltosi che vogliono lì parcheggiare le loro ricchezze. Sembra che il sistema di inclusione “golden visa” proceda ormai speditamente e che la “fortezza Europa” sia una percezione dei disperati soltanto.
Gli immigrati di serie A non vengono in Europa per una vita migliore o per la libertà - queste cose le hanno già. Strano continente questo, che si presenta al mondo orgoglioso di essere un progetto di unione nel nome dei diritti e del benessere diffuso e poi premia chi vi ci va non perché aspira a questi beni mentre respinge o esclude coloro che questi beni li cercano.
Gli immigrati che viaggiano in business class hanno alcune mete preferite: Malta, Portogallo, Spagna, Cipro, Bulgaria, paesi che hanno intensificato gli sforzi per attrarre facoltosi stranieri con la promessa di una cittadinanza veloce in cambio di investimenti nell’economia locale. A far da battistrada al programma di attrazione di immigrati first class è stata la Gran Bretagna che ha per prima adottato misure di facilitazione per naturalizzare stranieri facoltosi. La crisi ha convinto altri paesi a seguire questa strada, mettendo in circolo l’idea che la cittadinanza può essere un bene in vendita e, come tutte le merci, data a chi la paga bene. Gli esperti cercano di arginare questa distribuzione discriminatoria della cittadinanza distinguendo tra “golden visa” che è «un programma per investitori che facilita la procedura di immigrazione per stranieri ricchi» e la cosiddetta “cittadinanza in vendita” che “comporta la vendita delle nazionalità,” come ha detto Katherina Eisele del Center for European Policy Studies di Bruxelles. Ma la distinzione è sottile come un filo di lana, facile a spezzarsi.
Un anno fa, il governo maltese ha lanciato il “Programma per investitori individuali” con il quale gli stranieri ricchi ottengono la cittadinanza maltese con una somma fissa di denaro. Ai critici, il programma maltese è apparso subito come una porta di servizio per concedere ad alcuni privilegiati di passare, saltando i regolamenti europei sull’immigrazione. Ma diventare maltesi significa diventare europei e quindi la questione non è solo nazionale. L’Europa prevede che la cittadinanza attribuita da uno stato membro debba seguire una certa affiliazione con il paese in questione prima di essere concessa; che, insomma, ci debba essere un senso di responsabilità del richiedente verso il paese naturalizzante senza di che la cittadinanza rischia di essere davvero una merce in vendita - soprattutto in un paese piccolo o con più pressante bisogno economico. Nasce così il fenomeno di passaporti per mezzo milione di euro.
È questo il caso del Portogallo, che nel 2012 ha istituito la “golden visa” cioè il permesso di soggiorno per stranieri che acquistino una proprietà immobiliare in Portogallo del valore di almeno 500,000 euro e vivano sei anni nel paese. Un’altra procedura più veloce prevede che lo straniero apra un conto in una banca portoghese trasferendovi almeno un milione di euro o che apra un’azienda con almeno trenta operai: entrambe le cose saranno sufficienti a dargli il passaporto portoghese. Dei due programmi, il “golden visa” ha avuto più successo (con investitori asiatici in particolare) facendo crescere il mercato immobiliare.
I critici di questa mercificazione della cittadinanza hanno puntato il dito contro la logica discriminatoria che penalizza solo gli immigranti poveri. Ma la questione della citizenship for sale mette in luce una contraddizione ben più grave, che mina alla radice le nostre democrazie europee. I paesi in difficoltà economica hanno bisogno di nuovi cittadini - in breve, sia di fresca manodopera a bassissimo costo sia di fresca ricchezza da investire. Entrambi sono un’arma straordinaria contro i lacci che hanno in questi decenni reso il lavoro dei cittadini europei un bene tutelato da diritti: la manodopera a bassissimo costo e i ricchi stranieri pronti a far fruttare la loro ricchezza sono i due poli estremi e complementari che contribuiscono a rendere carta straccia i contratti e le retribuzioni della manodopera nazionale. La dissociazione del lavoro dalla cittadinanza nazionale ha in queste politiche sull’immigrazione il suo luogo di attuazione. I programmi di cittadinanza facile per ricchi stranieri sono certamente figli della crisi, ma sono una ricetta non per creare occupazione, bensì per creare lavori a qualunque condizione, precari e mal pagati. Se lavoro si crea dunque, sarà probabilmente più appetibile per coloro che sono disposti a lavorare per un pugno di euro: immigrati o cittadini che dal punto di vista lavorativo sono come gli immigrati.
È quindi la democrazia stessa che viene ad essere aggredita con questi programmi dimostrando come l’immigrazione sia un’arma politica di straordinaria potenza, troppo sottovalutata da politici ed esperti. Con quest’arma si raggiungono obiettivi impossibili da raggiungere con la cittadinanza sancita nelle nostre costituzioni: la dissociazione tra lavoro e diritti.
«Piketty riporta al centro del dibattito il tema della disuguaglianza. E di come questa si perpetua di generazione in generazione, con un capitalismo patrimoniale che si fonda sull’accumulazione, da parte di pochi, di rendite dovute a beni ereditati. Classe media in declino e freni alla crescita».
Lavoce.info, 6 agosto 2014 (m.p.r.)
Un'analisi della disuguaglianza. Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è un contributo importante al pensiero economico. Riporta al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario e umano, in una impostazione che può essere definita “classica”. L’analisi di Piketty è rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. L’esito distributivo viene ricondotto a un conflitto tra categorie di percettori, più numerose ed eterogenee rispetto a quelle prese in considerazione da Ricardo o Marx.
Non solo i lavoratori si contrappongono ai percettori di redditi da capitale e di rendite ma, all’interno di questa categoria, si distinguono i percettori di rendite finanziarie rispetto a quelli da proprietà immobiliare. Si deve a Piketty l’avere sviluppato, insieme a due colleghi (Anthony Atkinson a Cambridge ed Emmanuel Saez a Berkeley) una metodologia per ricostruire il livello di diseguaglianza nella distribuzione non solo dei redditi, ma anche della ricchezza nel lungo periodo, tanto in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, quanto in Cina, in India e in molte nazioni dell’America latina. Raramente, in precedenza, l’analisi della diseguaglianza era stata effettuata nel lungo periodo: anche quando lo si era preso in considerazione, le stime della diseguaglianza riguardavano infatti solo i redditi, e quasi mai la ricchezza.
Il conflitto distributivo appare a Piketty particolarmente rilevante quanto ci si riferisce all’1 per cento più ricco. L’attenzione per tali percettori è un fenomeno molto recente. Per effettuare questa analisi è necessario infatti adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare, occorre risolvere problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi finanziari.
Quando il passato divora il futuro. In un sistema caratterizzato da quello che Piketty definisce il capitalismo patrimoniale», fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, il passato divora il futuro». Se il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro.
Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano. Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta (la cosiddetta “golden age”), il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbia favorito la crescita della classe media, il consolidamento della democrazia e una crescita elevata in tutti gli Stati occidentali. Questa fase si è invertita a partire dalla fine dello scorso secolo. In parallelo all’aumento della diseguaglianza si è osservato un rallentamento della crescita, se non un vero e proprio declino, almeno in alcuni paesi. Secondo Piketty, tuttavia, un aumento della diseguaglianza finisce con il frenare la crescita anziché stimolarla.
La pubblicazione di Il Capitale nel XXI secolo è stata accolta da recensioni molto positive su numerosi quotidiani e settimanali. Recentemente, tuttavia, sono apparse alcune critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile della parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti dei dati nonché della correttezza di alcune stime. I rilievi critici sono stati seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty. Lo stesso Piketty ha risposto sottolineando come le analisi delle relazioni tra diseguaglianza e crescita, pur basate su di un’abbondante evidenza empirica, non possano che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, dal momento che appartengono all’ambito delle scienze sociali.
Piketty, T. Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696.
«Il manifesto, 10 agosto 2014
Renzi ha sfidato nel 2012 Bersani alle primarie, ha perso, come prevedibile, ma ha negoziato una sostanziosa quota di parlamentari a lui fedeli. Apparentemente leale nei confronti di Bersani nella campagna elettorale del 2013, ha comunque marcato le distanze da lui, sabotandolo in ogni modo. Che la rivendicazione ripetuta del suo tasso di novità — sfociata nella mancata candidatura di D’Alema e altri — abbia concorso all’insuccesso del Pd è verosimile ed è altrettanto verosimile che ci sia il suo zampino (benché non solo il suo) dietro le disastrose bocciature di Marini e Prodi alla presidenza della Repubblica. A conclusione di questo primo capitolo della storia, Renzi, incoronato segretario del partito dalla plebiscitaria liturgia delle primarie aperte, ha dato il benservito al troppo opaco Enrico Letta, insediandosi alla guida di un governo fatto per intero di figure incapaci di fargli ombra. Con quale programma? Tolto l’ammuine — i toni più accesi nei confronti dell’Europa e della signora Merkel si sono subito rivelati fumo negli occhi — non c’è altro che stolida continuità con le politiche dei suoi due ultimi predecessori. Esosità fiscale, destrutturazione del lavoro dipendente, tagli spietati ai servizi pubblici, abbandono del Mezzogiorno.
Con una piccola variante, che ricorda la famigerata abolizione dell’Ici da parte di Berlusconi nel 2008. Mentre con implacabile regolarità sempre nuove schiere di lavoratori seguitavano a perdere il posto, il Nostro ha elargito 80 euro a una discreta platea di elettori, promettendo d’estenderla nei mesi a venire. Come per la promessa di abolire l’Ici, l’obiettivo non era quello di far ripartire i consumi, bensì spuntare un buon successo alle europee in grado di legittimarlo e consolidare il suo potere. Il declino di Berlusconi e l’uscita di scena delle frattaglie centriste, massacrate dal fallimento di Monti, gli ha dato un successo inaspettato.
A dire il vero, di varianti Renzi ne ha introdotta anche una seconda. Per neutralizzare ogni opposizione entro il suo partito ha intavolato una spregiudicata trattativa con Berlusconi onde ridisegnare a misura d’entrambi il profilo delle istituzioni repubblicane. Non avendo novità da proporre sul piano delle politiche, Renzi ha investito tutte le sue energie in un disegno volto a cancellare d’un tratto il delicato sistema di contrappesi adottato dai padri costituenti.
Per carità, non parliamo di lesa democrazia. La democrazia di per sé è un contenitore assai capiente. E molto accomodante. I suoi requisiti irrinunciabili — suffragio universale, principio di maggioranza, pluralismo partitico — tollerano dosi massicce di non democrazia. Troppo spesso si dimentica che senza un decente software politico, l’hardware democratico vale poco. È così che da tempo i regimi democratici si sono ampiamente immunizzati dalle misure impopolari, e antipopolari, che adottano e hanno buttato a mare i cosiddetti diritti sociali. L’inciucio Renzi-Berlusconi non fa che concludere un percorso, avviato un quarto di secolo or sono, di omologazione dell’Italia alle altre democrazie avanzate, le quali — c’è fior di ricerche che lo attesta -, tranne quelle che hanno mantenuto il profilo “consensuale” introdotto nel dopoguerra, versano in miserevoli condizioni.
L’efficienza e celerità decisionale che Renzi, con insopportabile violenza verbale, invoca come ragione del suo programma istituzionale è d’altra parte già assicurata dall’uso e abuso del voto di fiducia e non è certo ragione sufficiente di uno zelo che andrebbe dedicato a tutt’altre cause. Prima fra tutte l’occupazione. Difficile pensare che lui non ne sia consapevole. Per quanto semplicistico sia il suo approccio ai problemi del paese, e per quanto sia anche lui impregnato di quella cultura populista che intossica le democrazie avanzate, il Nostro non fa che giocare il suo bluff.
In compenso, due acquiescenze stupiscono non poco. La prima è quella del Capo dello Stato, sempre rivendicatosi garante della lealtà costituzionale. In sintonia con Draghi, che detta la sua ricetta economica, il Presidente non lesina il suo appoggio. La seconda è quella della dirigenza e della rappresentanza parlamentare del Pd. Che una parte sia acquiescente per convinzione, si sapeva. Che un’altra sia rimasta abbacinata dal risultato delle europee, si spiega. L’opportunismo è un morbo diffusissimo in politica. Più difficile è spiegarsi l’isolamento dei Chiti, Mineo, Tocci, Casson (mi scuso per chi non nomino) che si sono fieramente opposti alla brutale castrazione del Senato. Che degli oppositori ci siano pure alla Camera è noto. Lo stesso Bersani ha manifestato il suo disagio. Ma nel Pd nessuno sembra avere il coraggio di innalzare le bandiere della Costituzione vilipesa e dire un no forte e chiaro. Spiace dirlo, ma dagli eredi legittimi dei partiti che scrissero quella Carta c’era da aspettarsi ben di più
«Il premier aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea». Finalmente un editoriale di Eugenio Scalfari che condividiamo in gran parte.
La Repubblica, 10 agosto 2014
Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d’una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d’una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c’è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l’Italia a tutti gli altri paesi d’Europa. È vero e anch’io l’ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.
La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un’egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell’Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?
Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà
Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l’oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l’agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).
Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla “Repubblica”. Certo l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un’oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.
Certo c’è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell’antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c’era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l’Impero, Roma aveva conquistato l’intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l’Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial- democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai “clientes” dell’Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.
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Spero d’aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l’Europa tutta.
L’attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell’anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.
Renzi aveva detto che sull’andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l’Italia ha la presidenza semestrale dell’Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell’Istat equivalgono ad una pessima pagella.
Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l’autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.
Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l’Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch’esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.
Infine – e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale – Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all’Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l’intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell’euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.
Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l’Italia dovrebbe accettare l’arrivo della “troika” internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l’occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l’aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.
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Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all’opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l’interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto. *** Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l’abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest’affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.
Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.
Sulla “Stampa” di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l’astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.
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Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una “assemblea giacobina” nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni “padri costituenti” contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.