Toscana oggi, 18 gennaio 2018.«Cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità»
Educare alla convivenza. «La convivenza nazionale è possibile – tra le altre cose – nella misura in cui diamo vita a processi educativi che sono anche trasformatori, inclusivi e di convivenza». Ne è convinto il Papa, che visitando, al tremine della sua seconda giornata in Cile, l’Università Cattolica di Santiago ha ricordato come tale «casa di studio», nei suoi 130 anni di storia, abbia «offerto un servizio inestimabile al Paese», intrecciando la sua storia con quella del Paese. Dopo aver citato ancora una volta la figura di S. Alberto Hurtado, tra gli studenti più illustri, Francesco ha spiegato che «educare alla convivenza non significa solo aggiungere valori al lavoro educativo, ma generare una dinamica di convivenza all’interno del sistema educativo stesso». «Non è tanto una questione di contenuti, ma di insegnare a pensare e ragionare in modo integrale», ha precisato il Papa traducendo «quello che i classici chiamavano il nome di forma mentis». Per raggiungere tale obiettivo, la tesi di Francesco, è necessaria una «alfabetizzazione integrale, che sappia adattare i processi di trasformazione che avvengono all’interno delle nostre società». «Un tale processo di alfabetizzazione – ha spiegato il Papa – richiede di lavorare contemporaneamente all’integrazione delle diverse lingue che ci costituiscono come persone, ossia un’educazione (alfabetizzazione) che integri e armonizzi l’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’azione (le mani). Ciò offrirà e consentirà la crescita degli studenti in maniera armonica non solo a livello personale ma, contemporaneamente, a livello sociale». [...]
Essere a servizio della persona e della società. «È urgente creare spazi in cui la frammentazione non sia lo schema dominante, nemmeno del pensiero; per questo è necessario insegnare a pensare ciò che si sente e si fa; a sentire ciò che si pensa e si fa; a fare ciò che si pensa e si sente». È la ricetta del Papa per l’educazione, illustrata nel suo discorso all’Università Cattolica di Santiago, alla quale ha chiesto «un dinamismo di capacità al servizio della persona e della società». «L’alfabetizzazione, basata sull’integrazione dei diversi linguaggi che ci costituiscono, coinvolgerà gli studenti nel loro processo educativo, processo di fronte alle sfide che il prossimo futuro presenterà loro», ha assicurato Francesco, secondo il quale «il divorzio dei saperi e dei linguaggi, l’analfabetismo su come integrare le diverse dimensioni della vita, non produce altro che frammentazione e rottura sociale». «In questa società liquida o leggera, come alcuni pensatori l’hanno definita – l’analisi del Papa – vanno scomparendo i punti di riferimento a partire dai quali le persone possono costruirsi individualmente e socialmente»: «Sembra che oggi la ‘nuvola’ sia il nuovo punto di incontro, caratterizzato dalla mancanza di stabilità poiché tutto si volatilizza e quindi perde consistenza.
Questa mancanza di consistenza potrebbe essere una delle ragioni della perdita di consapevolezza dello spazio pubblico. Uno spazio che richiede un minimo di trascendenza sugli interessi privati (vivere di più e meglio), per costruire su basi che rivelino quella dimensione importante della nostra vita che è il ‘noi'». Senza la consapevolezza del «noi», la tesi di Francesco, «è e sarà molto difficile costruire la nazione, e dunque sembrerebbe che sia importante e valido solo ciò che riguarda l’individuo, mentre tutto ciò che rimane al di fuori di questa giurisdizione diventa obsoleto». «Una cultura di questo tipo ha perso la memoria, ha perso i legami che sostengono e rendono possibile la vita», il grido d’allarme: «Senza il ‘noi’ di un popolo, di una famiglia, di una nazione e, nello stesso tempo, senza il ‘noi’ del futuro, dei bambini e di domani; senza il ‘noi’ di una città che ‘mi’ trascenda e sia più ricca degli interessi individuali, la vita sarà non solo sempre più frammentata ma anche più conflittuale e violenta».
«La cultura attuale richiede nuove forme capaci di includere tutti gli attori che danno vita alla realtà sociale e quindi educativa». Ne è convinto il Papa, che all’Università Cattolica di Santiago ha chiesto di «ampliare il concetto di comunità educativa», per «non rimanere isolata da nuove forme di conoscenza» e per «non costruire conoscenza al margine dei destinatari della stessa». Di qui la necessità di «generare un’interazione tra l’aula e la sapienza dei popoli che costituiscono questa terra benedetta». Francesco ha auspicato «una sapienza carica di intuizioni, di ‘odori’, che non si possono ignorare quando si pensa al Cile». In questo modo, per il Papa, «si produrrà quella sinergia così arricchente tra rigore scientifico e intuizione popolare»: «Questa stretta interazione reciproca impedisce il divorzio tra la ragione e l’azione, tra il pensare e il sentire, tra il conoscere e il vivere, tra la professione e il servizio», ha assicurato Francesco, perché «la conoscenza deve sempre sentirsi al servizio della vita e confrontarsi con essa per poter continuare a progredire». In questa prospettiva, «la comunità educativa non si può limitare ad aule e biblioteche, ma è sempre chiamata alla sfida della partecipazione», attivando un dialogo basato su «una logica plurale, che fa propria l’interdisciplinarità e l’interdipendenza del sapere». «Prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali», l’invito del Papa: «Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. La comunità educativa porta in sé un numero infinito di possibilità e potenzialità quando si lascia arricchire e interpellare da tutti gli attori che compongono la realtà educativa. Ciò richiede uno sforzo maggiore in termini di qualità e di integrazione».
«L’università diventa un laboratorio per il futuro del Paese», se «sa incorporare in sé la vita e il cammino del popolo superando ogni logica antagonistica ed elitaria del sapere». «Un’antica tradizione cabalistica racconta che l’origine del male si trova nella scissione prodotta dall’essere umano quando mangiò dell’albero della scienza del bene e del male. In questo modo, la conoscenza acquistò un primato sulla Creazione, sottoponendola ai propri schemi e desideri». «Sarà la tentazione latente in ogni ambito accademico, quella di ridurre la Creazione ad alcuni schemi interpretativi, privandola del mistero che le è proprio e che ha spinto generazioni intere a cercare ciò che è giusto, buono, bello e vero», ha affermato il Papa: «E quando il professore, per la sua sapienza, diventa ‘maestro’ è in grado di risvegliare la capacità di stupore nei nostri studenti. Stupore davanti a un mondo e un universo da scoprire!». «Siete chiamati a generare processi che illuminino la cultura attuale proponendo un umanesimo rinnovato che eviti di cadere in ogni tipo di riduzionismo», la «missione profetica» dell’università, secondo il Papa: «E questa profezia che ci viene chiesta ci spinge a cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità verso una rinnovata convivenza nazionale».
Questo testo è stato ripreso da "Toscana oggi", con qualche modifica redazionale. Qui accanto il testo integrale
la Stampa
Le citazioni più frequenti sono di Marx, Lenin, Fidel Castro, Hugo Chavez, Antonio Gramsci, Salvador Allende. L’obiettivo dichiarato è la “liquefazione delle tolleranze morali verso i governanti”. Sembra complicato, ma è quel “punto di rottura” in cui le masse di proletari e sfruttati si ribellano fino a sovvertire lo status quo.
Parliamo di Potere al popolo, la lista di ultrasinistra che nasce dalle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio dello storico dell’arte Tomaso Montanari: una lista che parte da un video-appello notturno di un centro sociale occupato di Napoli “Je so pazzo”, nato nell’ex ospedale psichiatrico del quartiere Materdei. A novembre l’appello su Facebook, pochi giorni dopo un’affollata assemblea a Roma. Il capo politico è stato individuato in Viola Carofalo, 37 anni, assegnista in Filosofia all’Orientale di Napoli, una vita nei movimenti antagonisti, una che già alla parola “capo” inorridisce.
La lista sta nascendo da assemblee territoriali, mette insieme No Tav, No Triv, No Mose e tutto quello che sa di ribelle all’ordine costituito. Una lista che guarda al mutualismo di Podemos e della prima Syriza (prima che Alexis Tsipras chinasse il capo all’Europa), e ha ottimi rapporti anche con i francesi di France Insoumise guidata da Jean-Luc Melenchon, che ha mandato un rappresentante all’ultima assemblea romana.
Il traguardo del 3% resta un miraggio, ma il tentativo è quello di ricostruire delle reti dal basso e rosicchiare voti al M5S, soprattutto al Sud, sui cavalli di battaglie dell’ambientalismo e del no alle grandi opere. Puntano sui delusi del grillismo che tornerebbero a votare un partito di sinistra radicale invece di affollare le fila dell’astensionismo. L’altro bacino possibile di voti è quello di Liberi e uguali, considerati una sorta di “Pd-2”, un partito “ambiguo”. “Molti di loro hanno votato il fiscal compact e la legge Fornero”, una delle accuse. Carofalo non usa gira di parole verso i big di Liberi e uguali: “D’Alema, Speranza, Bersani sono i responsabili del collasso della sinistra e dell’arretramento delle nostre condizioni di vita, odiati da tutti». Qualche timido tentativo di contatto c’è stato nei mesi scorsi, sponsorizzato da alcuni ex Sel confluiti sotto le insegne di Pietro Grasso. Ma la scelta come leader dell’ex pm ha contribuito alla rottura: Pap (l’acronimo usato dagli attivisti di Potere al popolo) contrasta ogni logica securitaria, propone l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Non vuole magistrati al potere.
Al di là della partecipazione spontanea, che pure c’è, l’ossatura arriva dalla vecchia Rifondazione comunista, che ha totalizzato circa 60mila donazioni con il 2 per mille, oltre 600mila euro. Un risultato record per una forza che da tempo è fuori dal Parlamento. Rifondazione resta un po’ defilata, per scelta: nel simbolo non c’è traccia della falce e martello rimasti in custodia dopo la fine del Pci. Al loro posto una stella rossa. Il segretario del Prc Maurizio Acerbo sarà uno dei candidati, mentre sono stati posti paletti invalicabili verso chi è stato già eletto in qualche istituzione: stop dunque a Paolo Ferrero ma anche a Paolo Cacciari, fratello antagonista dell’ex sindaco di Venezia. E tuttavia alle assemblee si sono viste vecchie glorie della sinistra come Franco Turigliatto (il senatore che voleva far cadere Prodi), Giorgio Cremaschi, e poi Haidi Giuliani, l’eurodeputata della Lista Tsipras Eleonora Forenza. Ci sono stati endorsment di peso come quello della ex staffetta partigiana Lidia Menapace, ma anche di sportivi come il tecnico Renzo Ulivieri e del cantautore e autore di “Contessa” Paolo Pietrangeli.
Schierati i sindacalisti di base dell’Ubs, si attende una lettera -appello firmata da alcuni dirigenti della Cgil. Col sindaco di Napoli Luigi De Magistris un rapporto dialettico. “Lo sosteniamo, ma non a scatola chiusa”, spiega Carofalo. Che lo invita, la prossima volta, a “candidarsi con noi”. Per il momento, a Napoli correrà con Pap lo storico Giuseppe Aragno, molto vicino al sindaco di Napoli. Ma i punti di riferimento di Pap sono soprattutto stranieri. E’ all’estero che i nuovi marxisti italiani cercano le ricette per “riannodare il dialogo con le masse popolari”. Come? “Camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. E così facendo abbiamo imparato tantissimo”.
il manifestoil manifesto è molto avaro di spazio. Ragione di più per appoggiare quella lista
Potere al popolo! giovedì prossimo sbarca nella sala stampa della camera: la lista lanciata dal video-appello dell’Ex Opg Je so’ pazzo presenterà candidati e programma per le elezioni politiche del 4 marzo, frutto dell’elaborazione di oltre 300 assemblee territoriali, e il capo politico, Viola Carofalo. Nella mini bio Viola si definisce «lavoratrice precaria con un assegno di ricerca dell’Università Orientale, dopo aver conseguito due dottorati in filosofia». La location è stata scelta con un obiettivo: «Portiamo alla camera le istanze di tutti coloro che hanno subito le decisioni politiche degli ultimi anni ma che si sono adoperati per far fronte alla crisi e all’impoverimento dilagante».
Domenica scorsa, a Napoli, gli attivisti hanno riempito il cinema Modernissimo per la presentazione dei candidati.
Le storie personali raccontano la piattaforma politica della lista. C’erano volti noti della sinistra come l’ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi, l’avvocato Elena Coccia e lo storico Giuseppe Aragno accanto a una nuova generazione di protagonisti delle lotte. Chiara Capretti è uno dei motori dell’Ex Opg (dove l’ambulatorio registra più di 1.500 visite all’anno di napoletani e migranti), tra i fondatori della rete di Solidarietà popolare per l’accoglienza dei senza fissa dimora, rete che coordina associazioni impegnate sui temi della disuguaglianza sociale, della povertà e diritti dei detenuti.
Barbara Pierro è facile incontrarla a Scampia: avvocata, nel suo quartiere lavora con l’associazione «Chi rom e… chi no» perché ci siano condizioni giuste di vita per tutti attraverso processi di emancipazione e riappropriazione dello spazio pubblico. Salvatore Cosentino è laureato in filosofia e fa il fonico, è uno di quei lavoratori dello spettacolo che subiscono un mercato del lavoro sempre più precario e a basso costo. Anche Salvatore è facile da intercettare tra chi, a Bagnoli, si batte contro la speculazione e per la bonifica dell’ex area Italsider.
Sul palco domenica è salita anche Hazel Ndulue per spiegare che «una donna di colore non è l’oggetto delle passioni maschiliste né il colore della pelle ci identifica automaticamente come stranieri». Hazel non ha i 25 anni necessari per candidarsi ma il suo impegno a Castel Volturno è parte del lavoro di Potere al popolo! sui territori.
Sul piano nazionale, saranno in lista Lidia Menapace e Nicoletta Dosio (attivista No Tav). E poi c’è Ilaria Mugnai, 29 anni e un contratto come consulente informatico, le tasse da pagare alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, occupante casa, impegnata con i Clash city workers e parte delle Brigate di solidarietà attiva, in Abruzzo durante i giorni del terremoto.Stefania Iaccarino è invece una di quei lavoratori Almaviva della sede di Roma che si sono rifiutati di firmare l’accordo accettato dai sindacati e poi hanno fatto ricorso contro i licenziamenti, ottenendo il reintegro.
C’è anche un pezzo del mondo del calcio che appoggia Potere al popolo! L’allenatore Renzo Ulivieri ha postato su Facebook: «Ho provato a spiegarmelo. Anche razionalmente. Sto con Liberi e uguali, il cosiddetto Pd2, perché più forza prende più riuscirà a spostare a sinistra il Pd1. Solo che per me la politica è passione. Mentre facevo questi pensieri emozione zero. Ho scelto Potere al popolo! e sarò lì. La scelta riguarda il tipo di società nella quale vogliamo vivere. O si è di sinistra o non lo si è».
Partecipa alle assemblee di Vercelli Paolo Sollier: nato in Val di Susa, figlio di operai, era il centrocampista comunista del Perugia degli anni ’70 che militava in Avanguardia Operaia e salutava la tifoseria con il pugno chiuso.
Nigrizia, 6 gennaio 2018. Drammatico il divario tra ricchi e poveri nel Continente antico, massimo in Nigeria e in Sudafrica. Che fare per superarlo, secondo la rivista dell'Onu. Africa Renewal, che spiega come il promuovere l’uguaglianza di genere, anche nella gestione del potere, giovi alla società e all’economia
Quanto la ricchezza dell’Africa sia sempre più concentrata nelle mani di pochissime persone è stato esaminato tre mesi fa dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che in un dettagliato studio ha evidenziato l’enorme divario tra ricchi e poveri nel continente. Tra i dati salienti da segnalare, il primato del Sudafrica, che oltre a essere l’economia più sviluppata dell’Africa è anche quella con il più alto livello di disuguaglianza di reddito al mondo. Ed appare, inoltre, che tra i 19 paesi nei quali si registra la maggiore disparità a livello globale, ben dieci sono in Africa subsahariana. Tra questi figurano Botswana, Namibia e Zambia.
Senza tralasciare la profonda disparità che affligge la Nigeria, monitorata nel maggio scorso da uno studio di Oxfam, dal quale emerge che nel 2017 la scala della disuguaglianza nel paese africano ha raggiunto livelli estremi. Come dimostra il fatto che le cinque persone più ricche della nazione detengono una ricchezza complessiva di 29,9 miliardi di dollari, che equivale all’intero bilancio della Nigeria nel 2017.
Tutti questi dati convergono sull’urgenza di combattere la disuguaglianza, alla quale la rivista quadrimestrale Africa Renewal, edita dalla sezione africana del dipartimento delle Nazioni Unite per l’informazione pubblica, ha dedicato il suo nuovo numero.
Nel descrivere lo scenario, il magazine specifica che i paesi dove la disuguaglianza di reddito è più elevata sono principalmente quelli dell’Africa meridionale e centrale, mentre le cause alla base della disparità sociale raramente sono le stesse da un paese all’altro. Tra i fattori primari che influenzano le disuguaglianze sono inclusi l’accesso limitato a capitali e mercati, sistemi fiscali ingiusti, eccessiva esposizione a determinati mercati vulnerabili alle oscillazioni delle materie prime, corruzione dilagante e cattiva gestione delle risorse pubbliche.
Cose da fare
Dalla lettura dei vari approfondimenti contenuti nella pubblicazione si evince, che per affrontare una sfida di simili dimensioni è necessario fornire risposte multiple. Qualunque sia la storia e le dinamiche economiche di ogni singolo paese, alcune misure si sono già rivelate particolarmente proficue nel ridurre le disuguaglianze nella macroregione.
Tra queste, vengono elencate l’aumento della produttività tra i piccoli agricoltori, la garanzia per le donne dell’accesso alle risorse produttive necessarie alla sicurezza alimentare delle famiglie, la riduzione del favoritismo nelle opportunità economiche, la promozione della manodopera intensiva nelle industrie, la fissazione di salari minimi, il potenziamento della lotta all’evasione fiscale per impedire ai ricchi di evadere le tasse, l’aumento delle imposte dirette, l’incentivazione di investimenti nell’istruzione e nell’agricoltura, oltre all’introduzione di incisivi programmi di protezione sociale per porre fine alle forme di esclusione.
Nondimeno, è importante promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Lo dimostra il fatto che la disuguaglianza di genere incide sul 6% del Pil dell’Africa subsahariana, mettendo a repentaglio gli sforzi del continente per lo sviluppo umano inclusivo e la crescita economica.
Il reddito familiare favorisce in modo sproporzionato i maschi adulti, mentre la discriminazione di genere è acuta ed endemica. Una delle analisi contenute nella rivista correla l’uguaglianza di genere con lo sviluppo umano rilevando che Maurizio e Tunisia hanno bassi livelli di uguaglianza di genere e alti livelli di sviluppo umano. Al contrario, Ciad, Mali e il Niger hanno alti livelli di disuguaglianza di genere ma bassi livelli di sviluppo umano.
Ne consegue che gli uomini sono indicati come i principali responsabili dei problemi economici dell’Africa. E inoltre è anche evidenziato che quando a livello decisionale c’è una maggioranza femminile, c’è meno corruzione. Fino ad oggi, però, non si è sufficientemente incoraggiato l’aumento della presenza di donne nella governance africana.
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Gennaio 2018 Gli effetti sono noti -perdita di introiti per lo Stato, di efficienza economica e di giustiziasociale per il Paese – ma i numeri lo sono meno. L’evasione fiscale è, per suastessa natura, un fenomeno difficile da misurare: per provare a calcolarla glistudiosi si affidano perciò, oltre che a poco veritiere dichiarazioni deiredditi, ai più affidabili micro-dati provenienti dalle indagini campionarie.
Qui, però, devono fare i conti con un altro tipo di evasione, stavolta diinformazioni. È il cosiddetto under reporting: i soggetti intervistati mentonosui propri redditi anche nelle rilevazioni, sottostimandoli nel timore che sipossano stabilire collegamenti con quanto hanno dichiarato al fisco. Quali sonole categorie di contribuenti più propense all’under reporting? E quantaevasione fiscale si nasconde dietro alle loro omissioni?
Il dipartimento di Economiadell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha integrato i due principali approccidi stima dell’evasione - il discrepancymethod e il consumption-based method– con risultati sorprendenti: sui redditi da lavoro autonomo e impresa, unintervistato su 4 non dice la verità, e addirittura il 44% mente sugli affitti.
Il punto dipartenza
La ricerca indaga l’underreporting, cioè la tendenza adichiarare un reddito inferiore al reale nelle indagini campionarie, tra gliintervistati per la IT-SILC, la parte italiana della European Survey of Incomeand Living Conditions.
Analisi
Le precedenti stime dell'evasione fiscale ottenute in Italiacon il discrepancy method e basate sumicro-dati hanno spesso riportato tassi di evasione più bassi rispetto allestime ottenute con analisi macroeconomiche. La correzione per tenere contodell'under reporting del reddito ha consentito di allineare meglio le stimealle analisi macroeconomiche: il tasso complessivo di evasione per l'Irpef(stimato come rapporto tra redditi evasi e redditi lordi dichiarati) è quasidoppio rispetto a precedenti stime, passando da circa il 7,5% a circa il 14,4%della base imponibile potenziale. L'analisi econometrica ha confermato che l'under reporting riguarda soprattutto i contribuenti soggetti adautotassazione. Per i redditi da lavoro autonomo e impresa il tasso stimato di under reporting (dato dal rapporto tra redditi non indicati nelleindagini campionarie e redditi spendibili veri) è infatti del 23%, per salireintorno al 44% per i redditi da locazione. Grazie al nuovo approccio integrato,la stima del tasso di evasione totale sale a circa il 37% per i redditi dalavoro autonomo e impresa. L’evasione sulle rendite è intorno al 65%.
Non sono invece stati individuati significativi tassi di under reporting tra i lavoratoridipendenti, che comunque hanno fatto registrare un tasso di evasione - stimatosulla base del solo discrepancy method - pari a circa il 3,5%. Lecorrezioni per l’under reporting alzano le stime del valore assoluto deiredditi complessivi evasi a 124,5 miliardi di euro (simulazione B) e a 132,1miliardi (simulazione C).
La ricerca supporta l’ipotesi che la propensione degliindividui a sottostimare il proprio reddito nelle rilevazioni sia coerente –sia pure in misura minore – con la loro inclinazione a occultare gli introitialle autorità fiscali.
La tabella 1 mostra le perdite di gettito (tax gaps) dovuteall’evasione fiscale. La perdita di gettito ammonta a 16,5 miliardi di euronella simulazione A, a 37,5 miliardi nella simulazione B e a 36,8 miliardinella simulazione C. La parte maggiore del tax gap è causata dall’evasione dalavoro autonomo e da impresa, che in entrambe le simulazioni B e C, checorreggono l’under reporting, è vicina ai 21 miliardi di euro. La perdita digettito dovuta all’evasione sugli affitti è invece un po’ più alta nellasimulazione C che nella B (14,7 miliardi contro 12,6) e decisamente più bassanella simulazione A, che non corregge l’under reporting (circa 3,3 miliardi). Itax gaps stimati per il lavoro autonomo nelle simulazioni B e C sono coerenticon quelli presentati – per lo stesso anno e per la stessa tipologia di reddito- nel rapporto ufficiale Mef 2016. In particolare, la perdita di gettito per illavoro autonomo è stimata nel rapporto, con un approccio macroeconomico, pari a20,1 miliardi di euro.
Conclusioni
L'under reporting dei redditi nelle indagini campionariecattura solo una parte dell'evasione fiscale. Lo studio ha evidenziato chel’under reporting interessa principalmente i redditi da lavoro autonomo e lerendite da capitale e da affitto. Non è stato riscontrato under reporting suiredditi da lavoro dipendente. Attraverso il discrepancy method è stataindividuata una relazione sostanziale tra l’evasione fiscale e l’underreporting. In particolare, correggendo i micro-dati sui redditi dell'indaginecampionaria EU-SILC per l'under reporting, il discrepancy method ha consentitouna più precisa quantificazione dell'evasione fiscale ed ha reso possibilestimarne gli effetti redistributivi, con simulazioni distinte per profili medie individuali. Crediti Lo studio è stato realizzato d
Il dossier Stima l’evasione della principale impostaitaliana, l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del redditodelle persone fisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra duemetodi di stima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e il consumption-basedmethod. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
Osservazioni
La ricerca ha confermato la complessità del fenomenodell’evasione fiscale e la necessità di sviluppare approcci conoscitivi basatisu una pluralità di metodi di stima e confronto, oltre che su banche dati diqualità che integrino i dati amministrativi con informazioni da indaginicampionarie. Il dossier Stima l’evasione della principale imposta italiana,l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del reddito delle personefisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra due metodi distima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e ilconsumption-based method. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
Crediti
Lo studio è stato realizzato da Andrea AlbareaMichele Bernasconi Anna Marenzi Dino RizzI Università Ca’ Foscari di VeneziaFocus a cura di Uvi - Ufficio Valutazione Impatto Senato della Repubblicauvi@senato.it Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons
l'articolo è la sintesi dello studio promosso e pubblicato dal Senato delle Repubblica. Il testo integrale è scaricabile qui.
Internazionale
Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.
Il grande cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia. La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.
Con le prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.
Pericolo
Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.
A quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.
Il rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La stessa accusa era stata rivolta alle organizzazioni non governative (ong) che fanno operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel 2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in transito che dormono per strada.
Nonostante tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione, una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières, “sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi, giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno. “Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.
Molti volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.
Dal Mediterraneo alle Alpi
I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti. Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos Méditerranée e Msf che lo ha soccorso al largo della Libia e su cui ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in Europa.
“Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada, quindi ha deciso di attraversare la frontiera.
Alcuni amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.
A partire dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve: “Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li aspetta la gendarmeria francese”.
I respinti
La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri – Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.
Il pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del giorno e della notte.
“Negli ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.
La diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa: un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona che passava in macchina”, racconta Rozzi.
La traversata
Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e di bottigliette d’acqua.
Poi fa colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione: prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita. Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.
Soffia un vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista che svolta a sinistra.
C’è un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno detto quelli del Soccorso alpino.
Quando mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi. Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi, manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée. Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.
Appena il tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le 14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve. I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare. Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono. Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore dopo, per riprendere la strada verso Névache.
Briançon come Lampedusa
Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache, trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia caserma abbandonata del soccorso alpino.
C’è un metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista, intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”, ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono riportati alcuni articoli della costituzione francese.
Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza,
Si può fare politica per cambiare il mondo. O si può fare politica per gestire lo stato delle cose.
Nel primo caso si parte da un tentativo di leggerlo, il mondo. Di capirlo. E di capire cosa fare, e cosa non fare, per cambiarlo. Nel secondo caso si parte dalla geometria delle alleanze, dalla scelta di un leader mediaticamente efficace, da una strategia sì, ma di marketing. Nel primo caso si ha in mente una strada, e la si percorre con determinazione e coerenza. Nel secondo caso si vive alla giornata, si risponde agli appelli dei giornali, si tratta su tutto.
È possibile che la prima via sia velleitaria, astratta, disincarnata. È sicuro che la seconda via finisce per lasciare le cose come sono. La prima via di solito non giova affatto a chi la percorre. La seconda spesso giova soltanto a chi la sceglie e la pratica.
Il Brancaccio è stato un tentativo di fare politica nel primo modo. Secondo uno schema chiaro: vedere, giudicare, agire. Lo scorso 18 giugno abbiamo detto cosa pensavamo di venticinque anni di centrosinistra, e non solo degli ultimi tre della sua fase finale, quella renziana. Poi abbiamo provato a spiegare perché quella strada andava lasciata: per sempre, senza esitazioni.
Con un esempio brutale: non si ferma la destra votando per Minniti, che fa la politica della destra, e la fa in un governo che difende gli interessi dei pochi contro quello dei molti. Perché se oggi Berlusconi è risorto e la Lega è alle porte, è per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto il Pd: e dunque allearsi con il Pd per fermare la destra è come mettere la testa sul ceppo per fermare il boia.
E infine abbiamo cercato di mostrare in che direzione avremmo voluto agire: scrivendo, collettivamente, un progetto di Paese, in cento assemblee. Un progetto una cui prima, parzialissima, bozza è ora a disposizione di tutti.
Leggendola, si capisce perché chi si riconosce nel percorso del Brancaccio non potrebbe mai allearsi con il Pd: per una ragione disarmantemente semplice, e cioè perché si va in direzioni diverse. Opposte.
Se il Brancaccio non è entrato in Liberi e Uguali non è solo perché non avrebbe avuto molto da dire a una somma di partiti già esistenti, sommati in una operazione di marketing elettorale blindata contro ogni dissenso, e con un leader scelto da dentro il Palazzo.
Ma anche perché non era affatto chiara la sua direzione: e non era chiara perché non si partiva da una analisi approfondita del reale. Qual è, infatti, la visione di Liberi e Uguali, che può presentarsi lanciando nello stesso giorno la proposta (sacrosanta) di abolire le tasse universitarie e quella di tenersi il contratto a tutele crescenti?
Poco importa se questa ultima posizione sarà corretta: il punto è la fragilità, per non dire l'assenza, di una visione chiara e condivisa. Del resto, il giudizio di Mdp e Possibile sul Centrosinistra era profondamente diverso da quello del Brancaccio. E Sinistra Italiana, che invece condivideva quel progetto, ha fatto una scelta pragmatica, le cui ragioni nobili sono state illustrate da Luciana Castellina sul Manifesto.
Ora i nodi vengono già al pettine. La possibilità di un'alleanza con il Pd in Lazio e in Lombardia è strettamente legata – come scrive lucidamente Stefano Folli – al "futuro del centrosinistra quando si tratterà comunque di sedersi intorno a un tavolo e discutere, specie se il risultato del 4 marzo dovesse imporre una riflessione a tutto l'arcipelago della Sinistra". Tradotto: se ci si allea oggi con il Pd, anche solo in Lazio, questo lascia aperta una porta all'alleanza nazionale per un governo "di responsabilità". Perché è ovvio che le stesse sirene che oggi chiamano all'unità contro le destre per due regioni, lo faranno a maggior ragione per tutto il Paese dopo il 4 marzo.
Capisco tutto, e in primo luogo capisco profondamente il travaglio di Sinistra Italiana, ma credo che alla dirigenza di Liberi e Uguali, alla direzione di Repubblica, a Susanna Camusso e a molti altri sfugga una cosa. Che è questa: chiamare al voto utile col Pd contro le destre significa preparare solo un trionfo ancora maggiore delle destre. Continuare ad appoggiare il sistema (questo sistema insalvabile e imperdonabilmente ingiusto) significa dare ragione a chi dice che il sistema si può solo abbattere.
Per questo alla grande manifestazione del 16 dicembre dei poveri e dei migranti non c'erano bandiere della Cgil, ma solo dell'Usb. Per questo i sommersi, gli ultimi, i giovani del Sud o non votano, o votano per i 5 Stelle: cioè per chi, di sicuro, non sarà poi alleato del Pd, sentito, perfettamente a ragione, come il garante dell'orrendo stato delle cose.
Io li capisco, profondamente. È quello il popolo che dovrebbe stare a cuore alla Sinistra. È con quel popolo che dovrebbe stare chi fa politica per cambiare il mondo.
la Stampa
È spuntato fuori alla fine l’europeismo di Emmanuel Macron: tanto atteso, così sperato. Basta con i piccoli e furbi colpi mediatici e le iniziative personali, dove giocava tutto sul rapporto personale con il Putin o il Trump di turno. No, ieri il presidente francese ha convocato e gestito, con un piglio rassicurante, un minivertice europeo sul problema dell’immigrazione, sotto lo sguardo compiacente di Angela Merkel. Ed è riuscito a imporre una delle sue idee, la creazione di hotspot, centri di accoglienza in Ciad e nel Niger, due Paesi africani sulla rotta dei migranti, così da distinguere prima di un viaggio disumano attraverso il deserto fra i rifugiati in fuga dalla guerra (che possono essere accolti in Europa) e gli immigrati economici. Che, invece, diventeranno clandestini e basta.
All’Eliseo, intorno a Macron, si sono riuniti, oltre alla Merkel, il premier spagnolo Mariano Rajoy e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni (e Macron, in conferenza stampa, si è rivolto a più riprese a lui con un sorriso, ricordando anche l’accordo per uno sviluppo economico concluso dall’Italia con 14 Comuni libici, sulla strada dei migranti, come esempio di questa nuova cooperazione alla sorgente del problema). E poi, oltre alla rappresentante della Ue per gli Affari esteri Federica Mogherini, erano presenti alcuni dei protagonisti di questa nuova politica (costruttiva) anti-migranti: il presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli Fayez al-Sarraj e i presidenti di Ciad e Niger, rispettivamente Idriss Deby e Mahamadou Issoufou. Lo statista del Niger ha ricordato come da lui alcuni «hotspot», sotto l’egida dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), esistano già.
Ecco, Macron ha annunciato un accordo tra tutti i partecipanti per l’apertura di più centri fra Niger e Ciad «in zone sicure e ancora sotto la supervisione dell’Unhcr». Sarà l’Alto commissariato a valutare chi potrà continuare. Ha aggiunto che ci sarà anche «un’azione in loco in materia di cooperazione e di giustizia» e «talvolta pure una presenza militare per evitare il gonfiarsi dei flussi verso la Libia». Già nelle settimane scorse il presidente francese aveva messo sul tavolo questa possibilità con l’idea di realizzarla anche in Libia. In seguito, però, Macron aveva accantonato quest’ultima possibilità, per questioni di sicurezza, anche Ciad e Niger avevano nicchiato e non poco. Ieri è riuscito a far passare la pillola, quando insieme alla Merkel e agli altri partner ha promesso un potenziamento della cooperazione allo sviluppo nei due Paesi. Già nelle prossime settimane si inizierà a lavorare concretamente sulle proposte di Parigi, con una task force ad hoc. Si farà un primo punto su quanto realizzato in un vertice in Spagna a fine ottobre nello stesso formato di quello di ieri.
La cancelliera, nella conferenza stampa finale, ha ricordato come sia «indispensabile la distinzione fra chi può accedere allo status di rifugiato e i migranti economici». Sono stati proprio i tedeschi a insistere affinché il seguente passaggio fosse inserito nella dichiarazione finale: «I migranti illegali, che non possono pretendere alcuna forma di protezione internazionale, devono essere ricondotti nei loro Paesi d’origine, nella sicurezza, l’ordine e la dignità, di preferenza su base volontaria». Le elezioni presidenziali si avvicinano in Germania. E per la Merkel era importante mostrare un certo «pugno duro», accanto a un Macron consenziente. È stata comunque la cancelliera a mettere il dito su una piaga, assente dalle discussioni ieri a Parigi: il «sistema Dublino», per cui la domanda d’asilo deve essere presentata nel primo Paese europeo d’arrivo (penalizza Stati come l’Italia, in prima linea). «Questo sistema non funziona, perché in Europa non c’è una reale solidarietà, dobbiamo trovare un’altra soluzione», ha detto la Merkel. Macron sorrideva, senza commentare. La Francia è uno dei maggiori oppositori a rimetterci mano.
Sono stati dichiarati tutti ammissibili i ricorsi presentati dai cittadini sudanesi contro il Governo italiano per il respingimento collettivo che, il 24 agosto 2016, ha dato esecuzione all'accordo tra il Capo della Polizia italiana ed il suo omologo sudanese. Ne danno notizia in una nota l'Arci e l'Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione. La Corte europea per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali (Cedu) ha comunicato formalmente i ricorsi al Governo italiano e ha posto precisi quesiti volti a conoscere le modalità dell'espulsione e se siano stati rispettati i diritti e le garanzie previste dalla Convenzione europea.
I ricorsi, ricorda la nota, sono stati tutti depositati da avvocati dell'Asgi: i cittadini sudanesi furono oggetto di una vera e propria "retata" a Ventimiglia, alcuni furono trasportati in condizioni disumane e poi rinchiusi illegittimamente nell'hotspot di Taranto. Quindi vi fu il tentativo di rimpatriarli tutti. Alcuni furono effettivamente riportati in Sudan e 5 di loro incontrarono rappresentanti di Asgi ed Arci che, tra il 19 e il 22 dicembre 2016, si recarono a Khartoum grazie al supporto di una delegazione di parlamentari europei del gruppo della Sinistra europea. Tutti coloro che non furono rimpatriati hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in quanto soggetti a persecuzioni e discriminazioni nel Paese da cui provenivano. I ricorsi hanno denunciato la violazione di diverse norme della Convenzione Edu e della Convenzione di Ginevra. Il Governo italiano, entro il 30 marzo 2018, dovrà fornire una risposta al proprio operato dinanzi alla Cedu.
Articolo tratto da "Avvenire!, qui raggiungibile in originale
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Iniziato a Milano il processo civile contro l’azienda italiana da parte di una comunità del Delta del Niger che nel 2010 ha visto il suo territorio inondato di petrolio dopo un’esplosione di un oleodotto. L’Eni avrebbe violato la sua d
ue diligence».
I fatti risalgono al 5 aprile 2010 quando un oleodotto gestito dalla Nigerian Agip Oil Company (Naoc), sussidiaria nigeriana di Eni, è esploso inondando una superficie di 17,6 ettari nei pressi del villaggio di ikebiri. «Il guasto tecnico che ha provocato la fuoriuscita del petrolio, ammesso dalla stessa Naoc, risale al 5 aprile, ma l’ammissione del guasto e l’intervento dei tecnici non è arrivato prima dell’11 aprile, quasi una settimana dopo», racconta Godwin Ojo, ambientalista nigeriano direttore dell’associazione Friends of the Earth Nigeria che sta sostenendo la comunità del Delta in questa battaglia. «Terreni agricoli, stagni e fiumi dove la popolazione pesca, sono stati contaminati e l’intera comunità (circa 5 mila persone) è stata privata dei propri mezzi di sostentamento. Per questo chiediamo all’Eni di prendersi le sue responsabilità, di pagare una giusta compensazione e di bonificare il terreno perché questo non è stato fatto».
Da parte sua Eni ha sempre sostenuto che la sua sussidiaria ha già effettuato la bonifica dei terreni, mentre una compensazione di 20 mila dollari è stata rifiutata dalla stessa comunità che chiede invece 2 milioni di euro. «Speriamo di ottenere giustizia più velocemente e che questo possa portare al ripristino dei nostri mezzi di sostentamento. Insieme possiamo vincere», prosegue l’ambientalista nigeriano per cui questo è solo uno dei tanti casi di inquinamento provocato dalle compagni petrolifere che agiscono nel Delta del Niger, una delle zone più ricche di petrolio dell’intera Africa. «Il problema non è solo di Agip – continua Godwin Ojo –, ma di tutte le compagnie impegnate nel Delta: Shell, Mobil, Chevron ed Elf. Dal 1956, anno in cui è stata avviata la produzione petrolifera, sono avvenuti più di 10 mila sversamenti e molto spesso le compagnie, invece di bonificare le zone, preferiscono dare fuoco al petrolio per eliminare le prove». «E anche quando si ricorre ai tribunali locali – prosegue – è difficile avere giustizia, perché le compagnie sono troppo potenti, la pressione dei governi europei, assetati di risorse, è forte, e le rendite dal petrolio sono una voce chiave nel bilancio del governo. Per questo ci siamo rivolti all’Italia sperando di avere giustizia».
Il precedente
Petrolio e gas rappresentano la principale voce dell’export nigeriano, pari al 90% del valore delle esportazioni e al 30% del Prodotto interno lordo del paese. Un sistema segnato anche da una profonda corruzione politica e dal malaffare come dimostra il caso della
maxitangente Eni-Shell per cui la società di San Donato Milanese è stata recentemente rinviata a giudizio sempre al tribunale di Milano.
Nel caso si dovesse arrivare a sentenza sarebbe la prima volta che in Italia una compagnia viene chiamata a rispondere per i danni ambientali provocati da una propria sussidiaria in un altro paese. Anche se non è da escludere che vi possa essere un accordo extragiudiziale tra la compagnia e la comunità così da evitare il pronunciamento del giudice. Un precedente importante in questo senso risale al 2015 quando la comunità Bodo, che si era appellata alla corte di Londra, ha ottenuto dalla Royal Dutch Shell un risarcimento di 83,5 milioni di dollari per i danni provocati da un analogo incidente (anche se di portata molto più grande).
«In questo caso – conclude l’avvocato Saltalamacchia – la pressione dei media era stata fondamentale perché la stampa si era quasi interamente schierata al fianco della comunità e Shell aveva deciso di pagare pur di distogliere l’attenzione dal caso. Purtroppo in Italia la situazione è molto diversa e il sistema mediatico tende a tutelare queste grandi compagnie, ma speriamo che qualcosa possa cambiare».
Anche per questo Amnesty International Italia, Mani Tese e Survival International hanno deciso di promuovere una campagna per mantenere alta l’attenzione sul caso e sulle devastazioni ambientali in corso nel Delta del Niger.
L'edizione integrale, rieditata da
eddyburg, del documento dell'Assemblea Popolare per la Democrazia e l'Uguaglianza nel quale si riassumono i contenuti emersi delle piazze e città d'Italia dopo l'Assemblea del Brancaccio. In calce il link al testo .pdf
PER LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’È,
PER INVERTIRE LA ROTTA DELL’ITALIA,
PER ROVESCIARE IL TAVOLO DELLE DISEGUAGLIANZE.
Gennaio 2018
Avvertenza.
Questo testo è un primo tentativo di sintetizzare e restituire a tutti le idee, i progetti, le aspirazioni, le proposte emerse nelle cento assemblee “del Brancaccio” che hanno attraversato l’Italia durante l’estate e l’autunno del 2017 (e che si possono tutte trovare sul sito Assemblea Popolare DemocraziaUguaglianza. Non è un programma, non è omogeneo, non è compiuto. È un abbozzo, un inizio, un insieme di schede. Una sorta di cartello indicatore: che segna la direzione da imboccare se davvero vogliamo cambiare questo Paese.
La speranza è che tutti coloro che hanno creduto nel percorso “per la democrazia e l’uguaglianza” possano portare queste idee nelle liste che appoggiano in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo. O anche semplicemente utilizzarle come pietra di paragone per giudicare i programmi elettorali. O come bussola per continuare a cercare la Sinistra che ancora non c’è. Quella Sinistra che, dal 5 marzo 2018, bisognerà̀ ricominciare a costruire.
A questo tentativo hanno collaborato, in modi e misure diverse: Andrea Baranes, Luca Benci, Piero Bevilacqua, Ilaria Boniburini, Alberto Campailla, Vezio De Lucia, Giuseppe De Marzo, Anna Falcone, Maria Pia Guermandi, Federico Martelloni, Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, Gianni Principe, Christian Raimo, Andrea Ranieri, Edoardo Salzano, Francesco Sylos Labini.
Indice delle schede
1.La sinistra che ancora non c’é
4. iniziamo dalle donne.
10 il lavoro.
12 il reddito di dignità.
15 la democrazia.
16 centro e periferia.
18 per invertire la rotta in economia.
24 fisco.
27 salute.
29 la scuola.
31 la ricerca e l’universita’.
35 la casa e la casa comune: territorio e patrimonio culturale.
1. LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’É
Il percorso iniziato con l’Assemblea del Brancaccio aveva, come compito primario, quello di colmare il fossato che ancora oggi esiste tra la politica istituzionale (cioè quella del sistema dei partiti e presente nelle istituzioni democratiche) e gli attori sociali che fanno politica nei contesti di vita e di lavoro delle persone. Le associazioni sindacali e culturali, quelle grandi e strutturate e quelle che si muovono su un obiettivo specifico – l’accoglienza dei migranti, il contrasto alla povertà, la cura del territorio – e su un contesto territoriale limitato, ma che sempre più spesso sono state capaci, partendo dalla concretezza dei problemi che affrontano, di produrre uno sguardo lungo, più lungo di quello della politica- istituzione, sui fenomeni del nostro tempo.
Abbiamo pensato che le elezioni politiche imminenti avrebbero potuto essere un terreno privilegiato per avviare questo percorso. Costruendo le liste elettorali attraverso un metodo partecipato e democratico, in cui – assieme, senza rendite di posizione e canali privilegiati – i militanti dei partiti politici di sinistra, alternativi ai tre poli esistenti, e i protagonisti del civismo attivo decidessero in maniera trasparente i programmi, le candidature, e la leadership collettiva che dovesse impersonarli. Costruendo dal basso quella unità di tutte le forze di sinistra che dall’alto sembrava difficile realizzare.
Non è andata così. Le elezioni si sono rivelate, una volta di più, il momento peggiore per progettare e realizzare il reinsediamento sociale della politica della sinistra. Nei partiti, in quale più e in quale meno, ha prevalso una logica di autoconservazione e di affermazione del proprio primato, e la società̀ civile attiva ha faticato a mobilitarsi per imporre ai partiti, a livello nazionale, quel metodo trasparente e democratico che aveva dati buona prova di sé, con buoni risultati elettorali, in tante elezioni amministrative recenti.
Le liste che hanno trovato impulso dalla Assemblea del Brancaccio sono dunque due: Liberi e Uguali e Potere al popolo. E se una parte del popolo della Sinistra voterà per la forza antisistema dei 5 Stelle, altri ancora non parteciperanno al voto. Il rischio che avvertiamo è che questa rottura, derivante in gran parte dalla storia passata delle diverse formazioni della sinistra, più o meno alternativa, provochi una rottura nel popolo che ci proponevamo di tenere insieme. Da una parte il sociale strutturato e istituzionalizzato, e dall’altra il conflitto sociale e culturale sorto fuori e talvolta contro le regole e i contenuti dei grandi contenitori tradizionali. Da una parte il popolo che ha dato vita alla grande manifestazione della CGIL sulle pensioni, e dall’altra quella dei diversi movimenti che hanno unito i migranti e il sindacalismo di base nella manifestazione romana del 16 dicembre.
Un unico popolo
Ma questo è un unico popolo: il popolo che riteniamo essenziale tenere insieme, se davvero vogliamo ricostruire la sinistra nel nostro Paese. Un popolo che era riuscito a stare insieme nelle tante coalizioni civiche a livello territoriale: mentre la coalizione civica nazionale non è decollata.
Tuttavia, le più di cento assemblee che nei territori si sono sviluppate hanno dimostrato che questo incontro, quando avviene, produce una straordinaria ricchezza di idee e di proposte. È questa ricchezza che vogliamo restituire.
Ci sono qui, in questo embrione di programma, elementi su cui invitiamo a riflettere: e che intendiamo discutere con tutti quelli che hanno partecipato alla sua elaborazione, e con le forze che si presenteranno alle elezioni. Ma queste istanze vanno molto oltre la stessa scadenza elettorale. Il cambiamento radicale che la situazione richiede, può funzionare se vede come protagonisti le persone impegnate nel lavoro sociale e culturale, se serve di orientamento e trae alimento dai conflitti e dalle pratiche sociali che avvengono nei contesti di vita e di lavoro. Per una politica che non si limiti a chiedere la delega, ma si metta al servizio di quanti cercano di praticare la democrazia di ogni giorno.
Non è una pura petizione di principio. La democrazia non delegata è la condizione necessaria per affrontare una crisi che è insieme economica, sociale, ambientale, e che nel suo insieme dà luogo a quella che papa Francesco ha definito come “bancarotta dell’umanità̀”. E che non è risolvibile senza la mobilitazione attiva della maggioranza delle persone, comprese quelle che non vanno più a votare perché si son stancate di un rituale che fa del voto un semplice bene di consumo individuale, sganciato dai conflitti e dai reali processi di trasformazione che riguardano la vita reale delle persone.
Una forza di sinistra è tale se pensa la sua presenza nelle istituzioni – al governo come all’opposizione – come un mezzo per ampliare i processi di partecipazione e di autogoverno dei cittadini, se si pensa non come il vertice della piramide, ma come il nodo di una rete con tutti i soggetti che fanno politica fuori dai confini delle istituzioni, che praticano con passione ed intelligenza l’utopia del quotidiano.
Del resto, hanno avuto questa caratteristica i due più grandi movimenti a cavallo tra i due millenni: quello per la giustizia ambientale e il femminismo. Entrambi capaci di coniugare la capacità di porsi obiettivi di politica globale, e quella di praticare nel quotidiano nuove modalità di relazione delle persone, nuovi stili di vita: quel “buon vivere” che è l’alternativa più radicale al consumismo individualista e alla riduzione dell’uomo e dei suoi diritti alla sfera economica e alla tirannia del mercato. La lotta per l’uguaglianza e quella per il lavoro, come quella per la pace nel mondo acquistano significato se si collegano alla lotta contro il riscaldamento climatico che sta mettendo in discussione la stessa sopravvivenza del genere umano sul pianeta. La sfida cruciale è quella di unire la lotta per l’uguaglianza al riconoscimento delle diversità, che è la cifra fondamentale del movimento delle donne.
Le migrazioni, le guerre, il riscaldamento climatico ci impongono infatti un mutamento radicale della nostra stessa idea di sviluppo economico, e dei nostri stili di vita.
Migliaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché́ il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.
La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perchè fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. È la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.
Un'altra idea di sviluppo
Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza per una selva di palazzoni o una marea di villette).
Questo sviluppo, da un obiettivo è diventato una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.
Il primo passo che dobbiamo dunque compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.
Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.
Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).
Politica estera: una politica indipendente e incernierata sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.
E poi dobbiamo comprendere che esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.
La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.
Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende.
La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte.
Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree, e sta progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo.
Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società̀. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.
Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli.
Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.
Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.
Se assumiamo il conflitto sociale, la partecipazione alle decisioni e l’auto-organizzazione come i principi fondamentali della nuova politica, la città e il territorio e le sue trasformazioni sono il terreno fondamentale dell’iniziativa politica: allora, conoscere le regole che le governano e pensare alle nuove regole possibili diventa la priorità. E sulle città si è sviluppata gran parte delle discussioni nelle assemblee territoriali che si richiamano al Brancaccio e di cui proviamo a dare conto in questa bozza programmatica: ancora assai acerba, squilibrata, piena di lacune e di limiti. Ma che va intesa come un primo frutto di un intenso lavoro comune: che non intendiamo abbandonare.
4. INIZIAMO DALLE DONNE
Sono le donne ad avere le parole del cambiamento. Sono loro a muoversi, a trovare le forme per opporsi a un potere sempre più reazionario, violento, e nello stesso tempo inafferrabile, insomma il neocapitalismo contemporaneo. È successo in Polonia, nel settembre 2016, con la manifestazione del “lunedì nero”, giorno in cui lo sciopero delle donne da qualunque forma di lavoro, compreso il portare i bambini a scuola, ha trascinato tutto il paese in piazza contro il governo, contro una legge che voleva proibire la già limitata libertà di aborto. E in questi mesi sono le donne a guidare l’opposizione a un governo sempre più duro. È successo negli Usa. Il 21 gennaio 2017 la Marcia della donne ha riempito le strade della grandi città degli Stati Uniti, contro il neopresidente Trump, con in testa i pussy hat, cappellini fucsia, colore che è diventato il simbolo del movimento. Succede in America Latina, continente leader contro la violenza sulle donne.
NonUnaDiMeno è la sigla che si è estesa a livello internazionale. In Italia dal 2016 il movimento è tornato in piazza. Con forza, con rabbia, con gioia, con determinazione. Nelle manifestazioni contro la violenza, nell’8 marzo che a livello internazionale è stato rivitalizzato come giornata di lotta e di sciopero, non come la festa tra amiche in cui era stato relegato negli ultimi anni. In un mescolamento di generazioni, dalle ragazze delle scuole medie alle nonne, in una vasta presenza di esperienze e di sigle diverse, dalle lavoratrici ai sindacati alle studenti alle ricercatrici precarie, a chi insegue una pensione che si allontana sempre di più, in un ampia gamma di obiettivi, dal piano antiviolenza alla lotta alla precarietà, alla consapevolezza che la cura, l’antica gabbia in cui venivano rinchiuse le donne, è una risorsa attiva di cambiamento per tutta la società. Un movimento che crea connessioni inedite, preziose in questo momento di passaggio, di necessaria ridefinizione delle identità e degli obiettivi.
Tra i primi obiettivi da raccogliere la lotta contro la violenza. Le recenti vicende che si possono riassumere come “caso Weinstein”, hanno messo sotto i riflettori che la violenza contro le donne è estesa in tutti gli aspetti della vita, dalla casa alla strada, al lavoro. Che si tratta di una forma del potere. Le misure di prevenzione e contrasto alle molestie e alla violenza di genere vanno rafforzate, sostenute con investimenti e, soprattutto, con un approfondimento del lavoro culturale ed educativo, per smantellare le basi della diffusa mentalità sessista. Così come i centri antiviolenza e le case rifugio devono trovare forme continuative e costanti di finanziamento e rafforzamento della loro rete, in modo da coprire la domanda di aiuto e assistenza sull’intero territorio nazionale. Essenziale, inoltre, è la garanzia di una giustizia rapida e certa nei procedimenti giudiziari in materia, che garantiscano, prima durante e dopo la loro celebrazione una reale protezione delle vittime di violenza da vendette e reiterazione delle condotte criminose. Molti femminicidi sono il risultato di storie di violenza ignorate o sottovalutate. Non deve più accadere e il fenomeno va contrastato e prevenuto come priorità assoluta di una società che non pò̀ tollerare ulteriormente la morte violenta di tante donne per il solo fatto di essere donne.
Altro punto centrale per il movimento è la lotta alla precarietà del lavoro. Un obiettivo in comune con gli uomini, naturalmente. Per le donne la precarietà̀ mostra con più chiarezza come il neocapitalismo derubi le persone della loro vita. L’impossibilità o quasi di fare progetti per il futuro, diventa un forzatura dei ritmi biologici, dei corpi.
Reddito di dignità, sostegno alla maternità e paternità, asili nido pubblici e gratuiti, anche nei luoghi di lavoro, sono le misure essenziali. Ma anche un ripristino del welfare che non faccia gravare tutta la cura degli anziani e dei familiari con disabilità su donne che non vedono più la fine di rapporti di lavoro, rispetto a una pensione sempre più lontana. O che devono lottare con lavori sfuggenti e sempre più ridotti e precari, nonostante l’età.
Pace, antirazzismo, anticolonialismo, inclusione, solidarietà e sostegno sociale. Contro la violenza, contro le ingiustizie. Queste sono le parole che i nuovi movimenti, i nuovi femminismi riprendono e rilanciano nel mondo. Queste sono le parole che facciamo nostre.
10. IL LAVORO
Per la Costituzione, il lavoro è fattore d’emancipazione e riscatto, mentre al tempo del “lavoro povero” esso è divenuto, essenzialmente, ricatto e solitudine. Negli anni della crisi, poi, mentre la struttura produttiva italiana si riduceva e si trasformava, un uso politico della crisi agitava il miraggio dell’occupazione come leva di deregolamentazione e compressione retributiva, svalutando tutto il lavoro sul piano non soltanto economico. Disoccupazione e sotto occupazione toccano livelli drammatici specie per i giovani, anche altamente scolarizzati; abbondano forme di lavoro precario di tipo subordinato e non, o addirittura non qualificato: come lavoro, semi-gratuito e gratuito, talvolta anche coatto. Proseguono indisturbati i processi di scomposizione dell’impresa e decentramento della produzione anche oltreconfine, con esternalizzazioni (e privatizzazioni) che coinvolgono anche i servizi della Pubblica Amministrazione. Dilagano i contratti nazionali pirata, stipulati da finti sindacati per legittimare il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Lo smantellamento di diritti e garanzie – prima praticata con la moltiplicazione di forme di lavoro alternative ai rapporti standard, poi con l’indebolimento delle tutele anche di questi ultimi, oltre che del ruolo del giudice – ha determinato uno spostamento dei rapporti di forza a vantaggio dei datori di lavoro. Se da un lato ciò scoraggia i lavoratori dall’esercizio, collettivo e individuale, anche dei diritti vigenti, dall’altro lato ha assecondato la “via bassa” allo sviluppo, favorita dalla politica di incentivi a favore delle imprese, slegati da investimenti in innovazione e qualità. Per contro, l’assetto organizzativo dell’impresa non va assunto come dato, ma come l’esito di un processo che il diritto può orientare e governare, affinchè chi utilizza lavoro altrui ne assuma sempre anche la responsabilità.
La sinistra muore se non riesce a rappresentare il lavoro, coniugandolo con la libertà. Un programma di cambiamento, nel solco della Costituzione, va fondato sulla ricomposizione del mondo del lavoro e sulla responsabilizzazione dell’impresa; sul rilancio delle libertà individuali e collettive, dentro e fuori dalle tradizionali forme della rappresentanza e sulla difesa della titolarità individuale del diritto di sciopero. Per riunificare il lavoro è, innanzitutto, necessario garantire l’emancipazione dal ricatto del bisogno, anche attraverso la garanzia di un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa; al contempo, bisogna riconoscere essenziali diritti di libertà a chiunque svolga lavoro personale e continuativo in un’organizzazione altrui, per la realizzazione di beni o servizi di cui altri è immediatamente legittimato ad appropriarsi: a tutto il lavoro per conto altrui va riconosciuto un nucleo di diritti che vadano dal rispetto della riservatezza alla tutela della professionalità, dall’equo compenso ai diritti sindacali fino al diritto alla stabilità del rapporto, da considerarsi architrave e pre- condizione dell’effettività di ogni altra tutela. Sotto questo profilo, va innanzitutto reintrodotta ed estesa la reintegrazione sul posto di lavoro come rimedio generale al licenziamento ingiustificato: la reintegrazione non ha, infatti, alcun legame con l’organizzazione del lavoro di matrice fordista-taylorista; rappresenta, semplicemente, il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi.
In seconda battuta, è tempo d’invertire la rotta sul fronte del lavoro povero, precario e gratuito o semi-gratuito: a) sperimentando forme, anche inedite, di regolamentazione del lavoro sulle piattaforme digitali; b) introducendo per tutti/e, ed anche per il lavoro autonomo, un salario minimo legale che si riferisca ai contratti collettivi autentici; c) disboscando la selva dei rapporti precari (a partire da lavoro a chiamata e occasionale), mal pagati (tirocini) o non pagati affatto (alternanza scuola-lavoro); d) tornando a legare tutti i contratti con una scadenza ad esigenze oggettive di carattere temporaneo.
Specie in un paese nel quale si lavora ben più della media europea, vanno introdotti istituti finalizzati alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo tale da liberare tempo di vita, redistribuire lavoro e favorire nuova occupazione, in particolare giovanile.
In terzo luogo, al fine di responsabilizzare l’impresa e governarne l’articolazione organizzativa, alla tecnica della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore va nuovamente affiancata la parità di trattamento tra dipendenti del primo e del secondo, il che consentirebbe solo un decentramento orientato alla specializzazione qualitativa, precludendo quello finalizzato alla mera riduzione dei costi.
La responsabilità̀ dell’impresa deve essere anche quella di far crescere, e non di indebolire la professionalità e le competenze dei lavoratori. Va quindi affermato il diritto per tutti i lavoratori alla formazione continua, anche come misura essenziale per affrontare le sfide dell’innovazione dei prodotti e dei processi, ampliando e non contraendo la dignità del lavoro.
In ultimo, ma non per ultimo, andrebbe garantito e agevolato l’acceso alla giustizia per chi vive del proprio lavoro, sia accelerando i tempi del processo, sia rinnovandone la gratuità.
Tornare a regolare il lavoro di mercato è essenziale per salvaguardare la dignità del lavoro e per perseguire uno sviluppo basato sulla qualità invece che sulla contrazione dei diritti e del costo del lavoro. Ma non risolverà di per sé i problemi della disoccupazione e della povertà crescente. È necessario per questo pensare e progettare nuovo lavoro fuori dalle compatibilità economiche del mercato. Esiste una immensa quantità̀ di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perchè il Mercato non li considera utili (non producono né profitto nè rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla messa in sicurezza del territorio: dalla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico; dai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazione di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche. Dobbiamo rovesciare il rapporto tra lavoro ed economia. È l’economia, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia.
12. IL REDDITO DI DIGNITÀ
È necessario e urgente introdurre anche in Italia (come in moltissimi altri paesi europei) un Reddito di dignità (o minimo, o di cittadinanza). Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia ed Europa, secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà̀ relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale.
Il Reddito di dignità, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza sociale (ammortizzatori socio- economici) perché li hanno esauriti (esodati, mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la soglia di rischio di povertà. Il Reddito di dignità, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di supporto economico. Il Reddito di dignità, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali, perché è uno strumento che rompe il ricatto economico imposto da chi ha il vero controllo del territorio.
Occorre destinare al Reddito minimo di dignità almeno 16 miliardi di euro all’anno (la Francia ne impiega 10, l’Irlanda 20), da recuperare attraverso una riduzione della spesa militare, e da una ricostruzione del sistema fiscale ispirato alla progressività e alla giustizia.
15. LA DEMOCRAZIA
Da più di dieci anni l’Italia non ha una legge elettorale conforme alla Costituzione.
Prima il Porcellum, annullato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014; poi l’Italicum, annullato con la sentenza n. 35 del 2016; ora il Rosatellum, approvato abusando di rapporti di forza parlamentari costruiti illegittimamente e imponendo ben otto votazioni di fiducia incostituzionali. Il vizio, sorto nel 2006, è andato di anno in anno incancrenendosi in una situazione che la Corte costituzionale ha definito di «alterazione» del rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, di «coartazione» della volontà degli elettori, di «contraddizione» del principio democratico, di lesione della libertà di voto. Cosa di più grave avrebbe potuto colpire la democrazia italiana?
L’ossessione di incoronare un vincitore la sera stessa delle elezioni ha travolto l’essenza stessa del sistema parlamentare: il confronto tra le posizioni presenti nella società, alla ricerca, conflittuale ma costruttiva, di possibili profili di compromesso. Abbiamo assistito alla creazione di giganti coi piedi d’argilla, forti in Parlamento grazie a numeri artificialmente gonfiati e deboli nella società perché privi di reale consenso. L’arroganza del potere è cresciuta in parallelo alla sua inettitudine: lo sprezzo per i deboli, l’irrisione delle minoranze, lo sfregio delle forme hanno prodotto azioni politiche di corto respiro, volte a cristallizzare l’esistente, sempre a rimorchio degli stravolgimenti socio-economici in atto. Tanto potere per una politica violenta, tronfia, subalterna.
Viviamo in una società sempre più diseguale e divisa. Abbiamo bisogno di costruire ponti, non di innalzare muri. Al centro del sistema deve tornare il Parlamento, l’organo che rappresenta tutti. Le decisioni fondamentali che riguardano la collettività devono tornare a essere apertamente discusse, a nascere dall’ascolto delle opinioni altrui, a guardare al futuro perché frutto di costruzioni condivise. La contrapposizione tra rappresentanza e governabilità è fuorviante. Un Paese è tanto più governabile quanto più le sue
istituzioni costituzionali sono rappresentative. Dalla scuola media unica, obbligatoria e gratuita (1962) al servizio sanitario nazionale (1978), passando per lo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), tutti i più rilevanti interventi di attuazione del dettato costituzionale si sono avuti quando massima è stata la capacità di rappresentare nelle istituzioni i differenti orientamenti politici presenti nella società. Per questo è, anzitutto, necessaria una legge elettorale proporzionale, che ridia finalmente voce agli italiani in modo equilibrato e plurale, anche con riguardo alla scelta dei rappresentanti. Inoltre, il Parlamento deve tornare ad assumersi la piena responsabilità delle scelte politiche fondamentali, riequilibrando il rapporto col governo sull’iniziativa delle leggi e ponendo fine all’abuso della delega legislativa.
Gli italiani hanno bisogno di tornare a concepire l’attività politica come un’occasione di impegno costruttivo, non di occupazione del potere. Le forze politiche devono essere messe in condizione di svolgere un’attività continuativa, diffusa sul territorio, organizzata. La loro presenza non può esaurirsi nella figura di leader che occupano spazi virtuali e si palesano fisicamente a singhiozzo, in occasione delle consultazioni elettorali. Per assicurare continuità servono risorse. È per questo che si deve reintrodurre il finanziamento pubblico delle forze politiche, da attribuirsi in rapporto al numero degli iscritti e vincolandolo a trasparente rendicontazione (sottoposta alla Corte dei Conti), e imporre rigorosi limiti quantitativi al finanziamento offerto dai privati perché nessuno possa approfittare delle proprie ricchezze personali e a tutti siano garantite uguali condizioni e opportunità di partecipazione alla contesa politica.
Per lo stesso motivo è necessario intervenire sul sistema dei media, nazionali e locali, attraverso cui passa la comunicazione politica: stampa, televisione, internet. È necessario recuperare l’idea che l’informazione è un bene pubblico, il cui pluralismo va tutelato a garanzia dei diritti costituzionali di informare e di essere informati. Per questo proponiamo una severa legge sull’informazione, che rilanci il servizio pubblico e garantisca la competitività delle aziende editoriali private colpendo le concentrazioni proprietarie.
16. CENTRO E PERIFERIA
In questi ultimi anni le regioni sono passate da essere presentate come la soluzione ai problemi dell’Italia, grazie all’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini, al problema dell’Italia, a causa degli scandali che hanno colpito la classe politica locale. Come un pendolo fuori controllo, adesso, con i referendum del Veneto e della Lombardia, gli equilibri politici sembrano di nuovo tendere verso le regioni. L’incerta definizione del ruolo delle istituzioni territoriali ha investito anche gli enti locali, travolti da una legislazione continuamente in divenire che ha privato di ruolo e identità, oltre che di risorse, comuni, province e città metropolitane.
Nelle città vive la grande maggioranza della popolazione del globo. Anche in Italia vivono 22 milioni di persone solo nelle 14 città metropolitane ed almeno 10 milioni negli altri grandi comuni esterni a queste. Non è solo un fenomeno quantitativo. Il modo di vivere urbano condiziona l’insieme della vita umana sul pianeta. È cambiata l’idea storica di città, la stessa distinzione fra città e campagna, fra chi è dentro e chi è fuori. L’economia globale, coi suoi flussi di denaro e di persone, di parole e di cose, il computer e il container, rende vicino quel che è lontano, ma insieme allontana i vicini, sconvolgendo i vecchi modi del vivere insieme. Le città sono sempre più differenziate tra loro ed al loro interno, tra l’estremo delle zone riservate alle élites in rete col mondo, protette ed autosufficienti, le aree intermedie popolate da ceti medi più o meno impoveriti, e l’estremo opposto delle aree periferiche abitate dai ceti più emarginati, spaccati dalla contraddizione tra autoctoni ed immigrati.
Nelle città la crisi morde più forte. La riduzione di risorse e di poteri dovuta al neocentralismo di uno Stato cinghia di trasmissione delle Istituzioni sovranazionali e della finanza globale, al quale s’è aggiunto il neocentralismo delle Regioni, ha causato in quasi tutte le città la perdita di controllo del territorio e la riduzione degli spazi comuni, il degrado culturale ed ambientale, la sofferenza delle categorie più deboli, la crisi dei servizi pubblici fino alla soglia del collasso. Le associazioni ed i movimenti impegnati su queste
tematiche si trovano a riscontrarne le connessioni concrete nella vita delle persone e la derivazione comune dalle politiche di austerità̀; perciò, la contiguità territoriale dei progetti e delle pratiche di partecipazione ha la possibilità di produrre un coordinamento delle rispettive attività, fino a produrre forme di collegamento permanente a livello cittadino. Ovvero a livello politico.
Il governo delle città, in Italia, è stato compromesso dal fallimento della riforma delle Città metropolitane e dell’abolizione delle Province. più in generale, dall’ affermarsi del nuovo centralismo dello Stato e delle Regioni. E’ necessaria, perciò, una riforma dell’assetto istituzionale delle città nella direzione dello sviluppo della democrazia e della partecipazione. Ciò significa, in primo luogo spostare poteri e risorse verso il basso, dalle Regioni verso gli Enti locali; poi, allentare i vincoli di bilancio per la spesa sociale, gli investimenti, il buon andamento degli apparati; infine, rendere effettive ed esigibili le procedure di partecipazione.
È necessario porre un limite al centralismo regionale. Non è possibile che le Regioni continuino a gestire ed amministrare quando la Costituzione prevede che la loro funzione sia quella di legiferare, programmare, indirizzare e coordinare, mentre l’amministrazione attiva spetta di norma agli Enti locali. Agli Enti locali maggiori vanno attribuite nuove funzioni in materia di servizi essenziali, ed i mezzi per farvi fronte. Tutti gli Enti locali devono avere organi eletti dai cittadini, per essere responsabilizzati da un’investitura popolare sul programma.
Pertanto:
a) In applicazione dell’art. 118 COST. va precisato che di norma le funzioni amministrative e gestionali sono attribuite a Comuni, Province e Città metropolitane e non alle Regioni, anche per l’attuazione di leggi regionali. Nei casi in cui le Regioni ritengano di dover esercitare direttamente tali funzioni per assicurarne l’esercizio unitario, sono tenute a dimostrare le ragioni di tale necessità.
b) Le Città metropolitane e le Province devono essere governate da organi eletti direttamente dai cittadini ( Sindaco o Presidente, Consiglio ), Devono lavorare a tempo pieno, evitando doppi incarichi tra la Città metropolitana, la Provincia e i singoli Comuni. I Sindaci metropolitani e i Presidenti devono esercitare le proprie funzioni con il supporto di organi collegiali ( Giunte ) formate da Assessori non appartenenti ai Consigli, cui viene delegata la realizzazione delle missioni e dei programmi di governo dell’ Ente. Alle città metropolitane vanno attribuite competenze, anche normative, in materia di sanità, scuola, servizi sociali e di integrazione, lavoro.
c) Nella formazione dei rispettivi Bilanci, le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono contemperare le garanzie dei diritti incomprimibili di cui alla Prima parte della Costituzione con il principio dell’equilibrio di Bilancio di cui all’ Art. 81, comunque escludendo che l’attuazione di tale principio possa condizionare in termini assoluti e generali l’ erogazione sui rispettivi territori dei servizi essenziali per garantire l’effettività dei diritti incomprimibili, come previsto dalla recente giurisprudenza costituzionale. In particolare, per garantire nel proprio territorio il buon andamento delle amministrazioni e l’erogazione dei servizi essenziali le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono poter procedere ad assunzioni di personale superando i vincoli stabiliti dalla legislazione vigente in materia di assunzioni per gli Enti locali.
La centralità della partecipazione attiva dei cittadini costituisce un decisivo fattore di cambiamento della politica e dell’amministrazione, a partire dai livelli di governo più vicini alle persone. La spinta a favorire la partecipazione ha prodotto, negli ultimi venticinque anni, una grande quantità di norme, dagli Statuti degli Enti ai Regolamenti conseguenti, che tuttavia hanno avuto scarsa attuazione, sia per un atteggiamento di diffidenza di gran parte del ceto politico, sia per la crescente sfiducia dei cittadini verso la politica in generale. Questa situazione può essere rovesciata da due fattori: a) l’impegno deciso in questo senso di un nuovo progetto politico, che si fondi anche al suo interno sulla partecipazione democratica; b) una nuova disciplina che renda
obbligatoria, e dunque esigibile, l’attivazione di procedure di partecipazione in relazione all’ esercizio di funzioni e potestà amministrative decisive per il funzionamento democratico delle istituzioni locali.
Pertanto:
a) Nell’ordinamento di tutti gli Enti locali devono esse reinseriti Regolamenti sulla partecipazione democratica, che prevedano elenchi delle Associazioni abilitate ad intervenire nelle relative procedure nonché modalità di coinvolgimento dei singoli, cittadini o comunque residenti.
b) In tutti gli Enti locali, nelle procedure di approvazione del Bilancio di previsione va inserita la previsione della presentazione al Consiglio, congiuntamente alla proposta formale di Bilancio, di una proposta di Bilancio partecipato costruita con procedure decentrate di consultazione democratica di cittadini ed associazioni. Nella delibera di approvazione del Bilancio, il Consiglio è tenuto a motivare esplicitamente le ragioni delle eventuali difformità rispetto alla proposta di Bilancio partecipato.
c) In tutte le procedure di approvazione di Piani territoriali va inserita la considerazione di documenti unitari prodotti al riguardo dalle associazioni presenti sul territorio, con la previsione dell’obbligatorietà della motivazione delle scelte del Piano eventualmente difformi.
d) Ogni atto relativo all’ affidamento della gestione dei beni comuni, pubblici o privati, a imprese esterne alla pubblica amministrazione va subordinato all’ espletamento di una procedura di verifica della convenienza di un affidamento “in house” o ad aziende pubbliche o ad associazioni di cittadini e di residenti, procedura che si concluda con una specifica delibera del Consiglio competente.
È dunque necessario immaginare una legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali ( coi relativi tempi di discussione e di approvazione); una iniziativa politica nei confronti delle Regioni e degli Enti locali per realizzare le proposte di cui sopra nelle parti e nella misura consentite dalla legislazione vigente ( da avviare nell’immediato ).
La strategia dell’austerity ha teso ad allontanare dai cittadini i centri di potere un cui si prendono le decisioni. Lo spostamento di risorse economiche e politiche verso i comuni, che sono i luoghi dove i cittadini e le organizzazioni sociali possono far sentire la loro voce, non deve tuttavia permettere che continuino ad acuirsi oltre il tollerabile le diseguaglianze territoriali nell’attuazione dei diritti fondamentali: la salute, l’assistenza, l’istruzione. Si è giunti all’aberrazione di introdurre ticket sanitari differenziati su prestazioni integranti i livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere egualmente garantite su tutto il territorio nazionale. Come stupirsi che ammonti addirittura a quattro anni la differenza di aspettativa di vita tra i cittadini che vivono in regioni diverse? Da ultimo, stiamo assistendo a un insensato discorso sui residui fiscali regionali, volto a rattrappire egoisticamente la solidarietà da nazionale a regionale: come se, nell’affrontare il problema della redistribuzione della ricchezza, la regione di residenza fosse più importante della condizione di benessere o indigenza.
Dobbiamo dare a tutti gli italiani, in qualunque parte del territorio nazionale vivano, eguali opportunità di realizzare il proprio progetto di vita. Competenze attualmente attribuite alle regioni devono tornare a essere gestite dallo Stato, in particolare in quei settori dove si è perduta, o si sta perdendo, la dimensione nazionale dell’azione politica. Vogliamo che sui temi della salute, della formazione, della tutela dei beni culturali, della protezione dell’ambiente, del governo del territorio le competenze delle regioni siano ridotte o eliminate, incrementando le competenze dello Stato. Un profondo ripensamento deve, inoltre, investire il tema delle regioni a Statuto speciale: la specialità ha perso giustificazione, trasformandosi in privilegio odioso e controproducente. L’eventuale attribuzione di poche competenze differenziate, motivate da ragioni oggettive, deve prendere il posto degli Statuti speciali. Tutte le regioni tornino a essere ordinarie e con competenze circoscritte a profili non riguardanti diritti costituzionali da garantire egualmente a tutti.
Il Mezzogiorno d’Italia è oramai uno dei territori più arretrati d’Europa. Troppe risorse politiche, intellettuali ed economiche sono state negli ultimi anni destinate ad affrontare una presunta questione settentrionale di cui tutti siamo stati chiamati a farci carico, mentre la vera questione territoriale del Paese, quella meridionale, veniva abbandonata a se stessa. L’arretratezza, non solo economica, del meridione deve diventare un tema sentito da tutti gli italiani. Proponiamo l’istituzione di un’Agenzia per il Mezzogiorno, perché solo uno strumento d’intervento statale può adeguatamente far fronte a un problema che coinvolge lo Stato nel suo complesso.
La legislazione sul “federalismo” fiscale va abolita. La logica di mercato non può essere elevata a criterio attraverso cui gestire i rapporti tra Stato e autonomie. Territori e città devono poter contare sulla solidarietà reciproca. Le risorse vanno distribuite con l’obiettivo primario di migliorare i servizi dove più sono carenti, nel contempo preservando quelli che già hanno raggiunto idonei livelli di qualità.
18. PER INVERTIRE LA ROTTA IN ECONOMIA
La rinuncia ad inserire il Fiscal Compact nei Trattati europei e il suo affidamento ad una prossima direttiva rimanda ad una sede ancora meno democraticamente qualificata una decisione cruciale, in base alla quale dovremmo riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL al 60%. Potrà essere sancita, con forza superiore alle Leggi ordinarie, la rinuncia a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi, obbligandoci a continui avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi. Soprattutto, si potrà affermare il definitivo primato della tecnocrazia sulla democrazia. L'economia come scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini, i diritti o l'ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili.
Il Fiscal Compact è solo uno delle regole che hanno messo nero su bianco le politiche di austerità, diligentemente seguite dal nostro Paese, malgrado periodiche quanto roboanti dichiarazioni sul volere “battere i pugni sul tavolo a Bruxelles”. Un comportamento ambiguo quanto pericoloso, perché da credito alle pulsioni nazionaliste e populiste di chi dice che è impossibile cambiare le cose in UE. Da un lato “è l'Europa che ce lo chiede” e “non ci sono i soldi” come foglie di fico per giustificare tagli e sacrifici, dall'altro, caso più unico che raro in UE, cambiamo la Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio.
I singoli trattati seguono il dogma mercantilista che domina in Europa. Il compito principale dello Stato non è più il benessere dei cittadini – il bene comune, come scriveva Giuseppe Dossetti –, ma mettere le proprie imprese nelle migliori condizioni per competere. La competitività come obiettivo in sé, e soprattutto una competitività che non si gioca su ricerca e innovazione di prodotto o processo. Al contrario, in particolare in Italia assistiamo a una corsa verso il fondo in materia ambientale e sociale, inseguendo la Cina sul piano del costo e dei diritti del lavoro o le Isole Cayman su quello della tassazione.
L'unica “politica industriale” - oltre alle privatizzazioni per fare cassa - è assicurare sgravi e contributi alle imprese. Politiche unicamente dal lato dell'offerta, per produrre di più e a prezzi più bassi. Ma il problema in Italia è dal lato offerta o nella domanda? Le imprese non investono e non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo e ci sono troppe tutele, o al contrario perché le diseguaglianze deprimono la domanda, perché c'è una profonda sfiducia nel futuro, perché queste stesse politiche contribuiscono al peggioramento della crisi?
Una crisi nata dagli eccessi e dai disastri della finanza privata, il cui conto è stato scaricato sul pubblico. In un gigantesco ribaltamento dell'immaginario collettivo, oggi quest'ultimo è sotto accusa e subisce le politiche di austerità, mentre la prima è ripartita a pieno ritmo e viene inondata di soldi. Le migliaia di miliardi del Quantitative Easing sono in massima parte rimasti incastrati in circuiti speculativi invece di alimentare l'economia reale.
Sul piano delle regole va se possibile ancora peggio. A ottobre la Commissione europea dichiara di abbandonare il progetto di separazione tra banche commerciali e di investimento. Le lobby rialzano la testa, chiedendo nuovamente di abbattere regole e controlli La lezione della crisi, se mai era stata appresa, è stata già dimenticata.
Una risposta è dunque chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. Da una tassa sulle transazioni finanziarie a misure contro i paradisi fiscali o gli eccessi della speculazione, sappiamo cosa andrebbe fatto e come. Il problema non è nelle difficoltà tecniche, ma nella volontà politica di attuare tutto questo.
In parallelo occorre riaffermare il ruolo della finanza pubblica. Serve un piano di investimenti per l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia, la mobilità sostenibile, la ricerca. Tutti obiettivi di lungo periodo che non possono essere lasciati alla mano invisibile di un mercato guidato dal massimo profitto nel brevissimo periodo.
Come primi passi dobbiamo escludere gli investimenti dal patto di stabilità e abbandonare il Fiscal Compact.
Nello stesso momento, le regole europee non possono essere un alibi per non cambiare rotta in Italia. Le risorse si possono trovare con un diverso utilizzo della spesa pubblica. Tagliare le spese militari per investire nel sociale; chiudere la disastrosa stagione delle grandi opere e occuparsi di tutela e conservazione del territorio; investire nella transizione energetica dalle fossili alle rinnovabili con vantaggi non solo ambientali, ma anche per l'occupazione e la bilancia commerciale (considerato il peso delle importazioni di gas e petrolio), per non parlare delle implicazioni geopolitiche. Solo pochi esempi per chiarire che servono regole diverse, ma che è ancora più urgente un cambiamento culturale, tanto in Italia quanto su scala europea.
24. FISCO
Negli ultimi decenni, il sistema fiscale italiano è andato trasformandosi: da improntato al principio di progressività a ispirato a una tendenziale proporzionalità. È noto che più aumenta la disponibilità di un bene, meno prezioso questo diventa per il suo possessore. Per questo, al crescere della ricchezza deve crescere la percentuale di risorse da pagare in imposte, in modo che la raccolta delle risorse pubbliche non gravi egualmente su tutti, ma in misura maggiore sui ricchi. Questo elementare principio di giustizia, prescritto dall’art. 53 Cost., è oggi pressoché ignorato nel nostro sistema fiscale. L’imposizione sul reddito grava quasi esclusivamente sui redditi medi e medio-bassi, a tutto vantaggio di coloro che guadagnano cifre più elevate. L’imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari è modestissima. L’imposizione sulle eredità è addirittura risibile: la più alta aliquota italiana è inferiore alla più bassa aliquota tedesca. Il rapporto tra imposte dirette (progressive) e imposte indirette (proporzionali) è sempre più squilibrato a favore delle seconde. A ciò va aggiunta un’evasione fiscale ampiamente superiore ai 100 miliardi di euro annui e l’opacità prodotta da una giungla di detrazioni, deduzioni, sgravi, esenzioni, assegni familiari, bonus, addizionali locali.
Un’enorme quantità di ricchezza si è spostata, negli ultimi anni, dal basso verso l’alto. Luciano Gallino ne ha calcolato l’ammontare in 240 miliardi di euro. Nel 1973, quando venne istituita l’Irpef, erano previsti trentadue scaglioni, l’aliquota più bassa era fissata al 10%, quella più alta al 72%. Oggi gli scaglioni sono scesi a cinque; l’aliquota più bassa è salita al 23%, quella più alta è scesa al 43%. Si sono alzate le tasse ai poveri per abbassarle ai ricchi. Il risultato è stato l’impoverimento non solo degli strati più indigenti della popolazione, ma anche della classe media, sempre più “schiacciata” verso il basso. Ridurre le tasse indiscriminatamente è sbagliato: vanno ridotte a chi ne paga troppe; vanno aumentate a chi ne paga poche.
Sono diverse le misure che si potrebbero mettere in campo. Aumentare il numero degli scaglioni Irpef, introducendo almeno un
sesto scaglione per i redditi oltre i 100.000 euro, con aliquota più alta di quella massima attuale. Diminuire le aliquote per il primo e secondo (redditi fino a 28.000 euro), aumentandole per quarto e quinto scaglione (oltre i 55.000). Rivedere la tassa di successione, riducendo l’attuale franchigia di un milione di euro e introducendo anche qui scaglioni ad aliquote progressive. È poi inammissibile che in Italia venga tassato quasi esclusivamente il reddito ma non la ricchezza. Dobbiamo riprendere il dibattito intorno a una seria tassazione patrimoniale, che riguardi prima di tutto il patrimonio immobiliare inutilizzato. Più in generale, non si può addurre la scusa di una completa libertà di movimento dei capitali per giustificare l'impossibilità di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari. Al contrario, questo è un ulteriore argomento per tornare a parlare di controlli sui flussi di capitale in entrata e in uscita dall’Italia. Un argomento che si lega alla necessità di un serio contrasto ai paradisi fiscali, che non può ridursi a inseguire l’isoletta tropicale di turno. Dobbiamo guardare in casa nostra. Da dove provengono i soldi che finiscono offshore? Chi ne trae beneficio? La proposta, oggi discussa in UE, di obbligo per tutte le imprese di pubblicare i bilanci suddivisi in ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting) sarebbe una delle misure in tale direzione e un passo in avanti non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio internazionale e traffici illeciti.
Queste sono alcune prime proposte, alle quale possono seguire diverse altre. La cosa fondamentale è invertire la rotta degli ultimi anni e adottare da subito delle misure per una maggiore progressività del sistema fiscale, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione.
27. SALUTE
Negli ultimi anni, con particolare accelerazione a partire dalla spending review sono state adottate politiche di definanziamento del Servizio sanitario nazionale che prevedono una diminuzione in termini percentuali del rapporto fondo sanitario/pil che nel 2020 dovrebbe scendere al 6,3%. Nei paesi europei solo Portogallo, Grecia e Slovenia hanno un rapporto inferiore.
Il definanziamento ha portato alla chiusura di ospedali, di posti letto, al depotenziamento dei servizi, al blocco del turnover del personale, alla diminuzione degli investimenti, alle maggiori difficoltà di accesso alle cure e all’aumento delle liste di attesa.
La contrazione della spesa pubblica ha comportato il progressivo aumento della spesa privata dei cittadini sia con acquisito di prestazioni dirette (out of pocket) sia intermediata da assicurazioni e fondi sanitari integrativi. Nel 2015 a fronte di 147 miliardi di spesa sanitaria totale, 113 miliardi sono risultati della spesa pubblica, 30 miliardi di spesa out of pocket e 4,5 di spesa intermediata.
La spesa intermediata privata è destinata a salire non solo per il progressivo peggioramento delle strutture pubbliche, ma anche per le politiche fiscali favorevoli ai fondi sanitari e alle assicurazioni. Anche gli accordi sindacali che portano alla creazione del c.d. “welfare aziendale” portano la spesa in quella direzione.
Il diritto alla salute non è omogeneo sul territorio nazionale anche per la diversa organizzazione posta in essere nelle regioni e per le politiche di compartecipazione alla spese (ticket) diverse sul territorio nazionale. Negli ultimi anni cinque regioni meridionali sono commissariate dal ministero dell’economia e i vincoli di bilancio hanno nettamente prevalso sulla tutela del diritto costituzionale alla salute.
Sul versante dei diritti legati alla bioetica (inizio e fine vita) il ritardo del nostro paese è ancora più evidente: una legge conquista di civiltà, come la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, è in difficoltà per lo strumentale utilizzo dell’istituto dell’obiezione di coscienza; la legge sulla fecondazione assistita è, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale, ancora inaccettabile.
Occorre mettere in atto un progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale che permetta, entro la fine della legislatura, un recupero più ottimale del rapporto spesa pubblica/pil per permettere:
– un progressivo smaltimento delle liste di attesa;
– uno straordinario programma di assunzioni di operatori e
professionisti del Servizio sanitario nazionale;
– la riforma delle cure primarie e territoriali oggi non più rinviabile;
– l’eliminazione del c.d. superticket e la progressiva diminuzione delle altre forme di partecipazione alla spesa in favore di politiche di appropriatezza per combattere sprechi e abusi. Le politiche di compartecipazione alla spesa devono essere omogenee su tutto il territorio nazionale;
– investimento in edilizia sanitaria per la sostituzione di ospedali obsoleti, inefficienti e costosi nella gestione (con il divieto di costruzione di ospedali con la “finanza di progetto” che vede la compartecipazione e la gestione di “concessionari” privati).
È necessario anche un forte contrasto alla corruzione e ai conflitti di interesse che allignano in molte parti dell’intero sistema.
Sul fronte della bioetica è necessaria una stagione riformatrice che metta fine agli abusi dell’obiezione di coscienza per le procedure abortive e che porti al varo di una nuova legge sulla fecondazione assistita che ponga, tra l’altro, fine ai divieti per le donne single e alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.
Sempre sul versante bioetico è necessaria una legge sulle decisioni complessive di fine vita – che integri la recente legge sul testamento biologico - che riconosca il pieno diritto di autodeterminazione delle proprie scelte individuali per porre fine alla “migrazione” verso l’estero.
29. LA SCUOLA
La scuola della Costituzione è la scuola che deve assicurare la mobilità sociale e dare a tutti pari opportunità per essere cittadini sovrani, inserirsi nella società e nel lavoro come soggetti liberi e consapevoli, superando le differenze derivanti dalla famiglia e dal luogo in cui si è nati, e dalle condizioni economiche di partenza. Uno strumento fondamentale per rimuovere le cause dell’ineguaglianza, come indicato dall’art. 3 della Costituzione. E invece la scuola italiana resta, a settant’anni dalla Costituzione, una scuola classista. In cui gli alunni si distribuiscono nei diversi ordini scolastici a seconda delle condizioni di reddito e cultura della famiglie di provenienza, e in cui i “dispersi” vivono tutti in famiglie povere e nelle periferie delle città, figli di migranti o di italiani poveri. Una scuola che, come diceva don Milani, continua ad assomigliare ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Tutto questo nonostante l’impegno profuso da migliaia di insegnanti, di pedagogisti illuminati, da militanti del movimento operaio e sindacale, consapevoli dell’importanza che ha la scuola nel segnare le disuguaglianze fra le persone nel lavoro e nella società̀, per costruire una buona scuola, capace di far crescere tutti, a partire dai più poveri e svantaggiati, portando nella scuola pubblica l’ispirazione e i metodi educativi della scuola di Barbiana.
Il problema è che le riforme, dopo quelle degli anni sessanta e settanta – i tempi della scuola media unica, del sostegno alla innovazione didattica e ai programmi delle elementari, al superamento delle classi speciali per i diversamente abili, alla conquista del tempo pieno, riforme ancora segnate dallo spirito della Costituzione – hanno avuto come effetto quello di creare difficoltà e intralci burocratici alla buona scuola reale, piuttosto che aiutarla e sostenerla. Un buon inizio sarebbe quello di de-riformare la scuola: abrogando tutte le ultime riforme.
La buona scuola reale, la pedagogia per crescere tutti insieme, vive finché vive una speranza di trasformare il mondo, di promuovere la dignità e la libertà del lavoro, di vincere la fame e le guerre; entra in crisi quando ci si propone l’adattamento dei bambini e degli adolescenti al mondo com’è.
E le riforme degli ultimi anni, l’ultima, quella del governo Renzi è l’esempio più clamoroso, hanno come obiettivo l’adattamento ad un mondo che nel frattempo è diventato sempre meno uguale, sempre più ingiusto e violento. La buona scuola reale ha come asse la cooperazione educativa, la buona scuola di Renzi promuove la competizione, la gerarchia e l’individualismo, un una sorta di neoliberismo dell’anima che enfatizza le eccellenze, reali o presunte, e colpevolizza chi non ce la fa.
La scuola è colpevolizzata perchè non sa fornire alla economia e alle imprese quello che serve. Così si addebita alla scuola la ‘colpa’ di non preparare i ragazzi al lavoro, e si ‘rimedia’ istradandoli in percorsi di alternanza scuola-lavoro in lavori poveri e dequalificati, in imprese in cui è assente la formazione per gli stessi lavoratori. Contemporaneamente, si vanifica il lavoro della scuola per far convivere bambini di tanti paesi diversi negando la cittadinanza a chi ha un colore della pelle diverso; e le scuole che insegano ai bambini il rispetto dell’ambiente li consegnano poi ad un mondo che l’ambiente e il territorio continua a inquinarlo e cementificarlo.
Ma la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è. La sinistra che vuole cambiare il mondo deve dunque impegnarsi per sostenere e fare avanzare la buona scuola che ha resistito alla riforme calate dall’alto. Lavorando a sostegno di quanti oggi sono impegnati a mettere in rete le esperienze migliori: il movimento di cooperazione educativa, il CIDI, le organizzazioni studentesche, i sindacati della scuola che non si rassegnano ad una lotta di pura resistenza, ma difendono gli spazi di autodeterminazione delle scuole che interpretano l’autonomia come comunità educativa
Dove è presente nelle istituzioni locali deve impegnarsi a mettere in rete la scuola con le opportunità educative e culturali presenti nel territorio, consapevole che la scuola funziona quando l’intera città sa essere città educativa. E concentra il suo impegno maggiore sulle scuole delle periferia, che sono spesso l’unico momento in cui un tessuto sociale frammentato e disperso può provare a ripensarsi come una comunità.
Una sinistra di governo dovrebbe avere come impegno prioritario la rimozione delle cause della dispersione scolastica. A partire da quelle economiche. La gratuità dell’istruzione deve essere resa effettiva a tutti i livelli, contrastando la deriva che scarica sulle famiglie, in maniera insostenibile per le famiglie più povere, i tagli al sistema scolastico e ai bilanci delle singole scuole. Una percentuale altissima, quasi la metà dei ragazzi delle superiori, ricorre alle lezioni private, per raggiungere gli standard che permettono una valutazione positiva. I compiti a casa acuiscono le differenze fra chi ha in casa libri e genitori in grado di aiutarli e chi non ce l’ha. È la scuola della meritocrazia e dell’individualismo che genera queste derive. La scuola della cooperazione educativa, quella in cui si impara tutti assieme e i più bravi diventano ancora più bravi impegnandosi a fianco di chi resta indietro, non ha bisogno né di lezioni private né di compiti a casa. Il divieto delle lezioni private deve essere accompagnato dal giusto riconoscimento economico del lavoro degli insegnanti, sottratto alla logica di una valutazione meritocratica che premia l’individualismo docente e scoraggia la cooperazione educativa.
Le scuole devono essere aperte alla educazione permanente degli adulti. La scuola italiana ha vissuto il momento più ricco della sua storia recente quando gli operai sono tornati a scuola dopo la conquista contrattuale delle 150 ore. Quando i genitori erano contemporaneamente genitori ed allievi. L’assenza di un sistema di educazione degli adulti, che vuol dire scuola, ma anche biblioteche pubbliche, teatri, cinema, accesso al patrimonio culturale del territorio, è una delle carenze più gravi del sistema educativo del nostro Paese. Eppure ha a che fare con i diritti di cittadinanza fondamentali e la vivibilità del territorio. La stessa percezione della sicurezza passa in gran parte da qui. Gli anziani che invecchiano soli si sentono infinitamente più insicuri di quelli che non hanno rinunciato a imparare, che escono di casa per vivere la città anche come un insieme di opportunità educative.
Abrogare la riforma di Renzi non è di per se sufficiente a risolvere i problemi della scuola italiana. Ma liberarsi della logica aziendalistica e mercatistica che la ispira è la precondizione per affrontare i problemi reali che la riforma non ha affrontato o distorto. La dispersione scolastica. L’ingresso nella scuola italiana di bambini provenienti da ogni parte del mondo. La crescente demotivazione dei ragazzi e delle famiglie a investire e a impegnarsi nello studio. A quest’ultimo problema la riforma di Renzi ha risposto enfatizzando l’uso delle tecnologie, diventate un fine del percorso educativo invece che un mezzo per condividere sapere e conoscenza. Oltre che alla onnipotenza del mercato i ragazzi sono chiamati ad adattarsi alla onnipotenza dell’algoritmo, per prepararsi ad un sistema produttivo in cui sempre più le tecnologie non sono al servizio dell’uomo ma l’uomo al servizio delle tecnologie. Il fatto che i percorsi scolastici sempre meno abbiano come sbocco un lavoro dignitoso è risolto con il mito della auto-imprenditorialità. Nel frattempo l’alternanza in lavori e lavoretti per abituarsi fin da subito all’obbedienza e alla passività, al lavoro senza diritti dei call center o dei mcdonald. L’adattamento al mondo oltre che ingiusto si rivela impossibile, incapace di produrre, nelle condizioni attuali, un patto educativo fra insegnanti, alunni, famiglie. Perché il mondo a cui ci si dovrebbe adattare è un mondo senza futuro. Educare i ragazzi e le ragazze ad essere attori di un futuro possibile dovrebbe essere il compito primario della scuola. A partire dalla questione che più di ogni altra sbarra la strada al futuro, il riscaldamento climatico che mette in pericolo la stessa vita umana sul pianeta. È quello che Edgar Morin indicava ai ragazzi orfani della Resistenza e del ’68: studiare per salvare il mondo. E su questo tema provare a trovare un filo comune delle discipline separate e disperse. La storia degli uomini e la storia della natura, lo studio dell’ambiente e quello del paesaggio. E questo tema doveva interrogare le professioni e i lavori del futuro. La pedagogia, come direbbe Gunther Anders, del futuro anteriore, quella che non ha paura di indicare il disastro a cui ci porterebbe il nostro modo di produrre e di consumare, ma fornisce gli strumenti per impegnarsi ad evitarlo.
31. LA RICERCA E L’UNIVERSITA’
La ricerca è il frutto di un sistema d’istruzione che crea quelle competenze che sono la precondizione del processo che collega ricerca a sviluppo economico. La politica degli ultimi quattro lustri ha identificato nel sistema formativo, alla base della formazione delle competenze, il capro espiatorio del mancato sviluppo del paese. Per renderlo più adatto al mondo del lavoro sono state introdotte la riforma Gelmini, la riforma della Buona Scuola, ecc.: si tratta però di una risposta politica sbagliata che invertita in maniera radicale.
I laureati fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro, ma in Italia la percentuale di laureati è la metà che nell’Europa del centro-nord; su dieci ragazzi che lasciano il paese nove hanno la laurea; i ricercatori italiani sono ancora capaci di vincere i più ambiti e ricchi progetti europei, ma sempre più spesso scelgono di svolgere la loro attività di ricerca all’estero. Nonostante i laureati siano pochi, la politica dell’ultimo decennio sono state tagliate risorse nel settore della formazione con il risultato di ridurre il fondo di finanziamento ordinario delle università del 20%, i finanziamenti per la ricerca di base dell’80%, del 20% i corsi universitari e del 45% quelli di dottorato. Complessivamente vi è stata una diminuzione del 20% dei docenti e degli immatricolati mentre è esploso il precariato. Per contro le tasse universitarie sono aumentate in media del 60% (raggiungendo il terzo posto in Europa) mentre le borse di studio si collocano ai minimi del continente. Inoltre i tagli si sono distribuiti in maniera molto eterogena sul territorio nazionale, colpendo il centro sud a vantaggio del nord, generando pericolosi e nuovi squilibri. La spesa per il sistema universitario pubblico è oggi di circa 6,5 miliardi di euro, contro i 20 miliardi della Francia e i quasi 27 miliardi della Germania: una differenza abissale.
La presenza di un’attività di ricerca che sia di livello internazionale, è, una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che rappresentano il potenziale indispensabile per poi
riuscire a innovare; tuttavia queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico. Il problema del nostro paese è, infatti, un altro: quello di essere il fanalino di coda nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza e ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri. L’Italia eccelle nell’occupare la penultima posizione per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese. Dunque la motivazione delle politiche dell’istruzione è stata di formare personale che si possa adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica, che a sua volta non richiede dal sistema formativo competenze qualificate, generando in tal mondo un circolo vizioso al ribasso per
economia basata sulla competitività del costo del lavoro piuttosto che puntare alla competitività tecnologica. Dunque la rotta tracciata è caratterizzata dalla desertificazione non solo tecnologica, ma anche scientifica e culturale e dalla crescita di una tipologia lavoro sempre più mortificante per il paese e per le nuove generazioni. E’ perciò necessario ricostruire la base scientifica, tecnologica e intellettuale del nostro paese. Quest’obiettivo deve essere guidato dall’intervento pubblico, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti. Solo un coordinamento la formazione. Per questo si è preferito puntare su un’
presenza di settori tecnologicamente innovativi, potrà evitare tra politiche della formazione, di ricerca e sviluppo e politiche industriali volte a potenziare la all’Italia di andare incontro a una emarginazione dal contesto competitivo internazionale e dunque a una regressione economica ancora più marcata di quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
Delle politiche, cioè, che invece di puntare a formare manodopera di basso livello formativo per lavori a basso costo, ripunti a formare quelle capacità di conoscenza che rappresentano l’unico potenziale di uno sviluppo solido. Queste dunque le proposte chiave per una inversione della rotta:
(1) rifinanziamento del sistema universitario (2) renderlo tendenzialmente gratuito, iniziando con l’abbassare le tasse universitarie e renderle più progressive con il reddito familiare (3) intervenire per diminuire gli squilibri geografici, soprattutto con riguardo al mezzogiorno (4) piano straordinario di reclutamento (5) separazione tra reclutamento e progressione di carriera (5) aumentare i fondi per i progetti di ricerca di base da 30 milioni/anno a almeno 500 (6) tutelare la libertà di ricerca (articolo 33 della Costituzione) e in particolare abolire l’Agenzia di Valutazione che al momento interferisce pesantemente con la libertà di ricerca (7)riorganizzazione del comporto ricerca (Enti Pubblici di Ricerca e Istituto Italiano di Tecnologia) (8) coordinamento interministeriale delle politiche per la ricerca e l’innovazione tecnologica (9) Messa a punto di strategie progettuali di ricerca e innovazione in risposta agli obiettivi di sviluppo del paese.
35.LA CASA E LA CASA COMUNE:
TERRITORIO E PATRIMONIO CULTURALE
Quello della casa è un problema strutturale non un’emergenza. Da circa vent’anni, con l’esaurimento delle entrate ex Gescal e con il trasferimento delle competenze alle regioni, l’Italia è l’unico Paese europeo privo di una politica nazionale per la casa. Sono più di 600 mila le domande per l’assegnazione di alloggi pubblici, alle quali vanno aggiunti i bisogni delle famiglie che non possono far fronte neanche ai canoni delle case popolari. Sono stati disposti solo occasionali finanziamenti volti più al sostegno dell’imprenditoria che ad alleviare il disagio abitativo. Le politiche da attivare al più presto sono almeno le seguenti: riassetto degli istituti preposti alla gestione dell’edilizia pubblica; abrogazione delle sciagurate norme che autorizzano la svendita degli alloggi pubblici; garanzia di risorse pubbliche costanti e continuative.
Le suddette azioni, perché siano efficaci, pretendono l’istituzione di un settore dell’amministrazione statale – ministero, agenzia o dipartimento – cui affidare le politiche della casa, attualmente disperse in varie sedi e gestite in maniera estemporanea.
Lo stesso settore dell’amministrazione statale dovrebbe coordinare apposite politiche per le città, come avviene in molti Paesi europei. Si consideri che più della metà degli italiani vivono in aree urbane dove, tra l’altro, è di vitale importanza l’introduzione di misure per far fronte a problemi fino a poco tempo fa sconosciuti come il cambiamento climatico, le ondate di calore, le siccità, le inondazioni. L’incremento del verde pubblico, degli spazi aperti e degli alberi è una delle più efficaci politiche, perseguibile anche con modeste risorse, funzionale a: catturare CO2; garantire l’alimentazione delle falde; assecondare la coesione sociale; favorire la mobilità dolce pedonale e ciclabile.
No al consumo del suolo. Anche se recentemente rallentato, il consumo del suolo (legale e illegale) continua a essere responsabile dello snaturamento del paesaggio e delle città. Il disegno di legge governativo approvato dalla Camera nel 2016 prospetta un progressivo calo delle espansioni destinate ad azzerarsi nel 2050, come richiesto dall’UE. Quand’anche fosse credibile il rispetto dei tempi con un improbabile meccanismo a cascata (Stato, regioni, comuni), la prosecuzione seppure frenata della crescita edilizia per oltre trent’anni porterebbe alla definitiva dissipazione del Bel Paese e a un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita nei nuovi insediamenti destinati a restare forse per sempre privi di servizi adeguati.
L’unica soluzione consiste nel fermare subito il consumo del suolo In questo senso agiscono la legge della Toscana del 2014 e il Prg di Napoli del 2004 che non consentono nuove espansioni. Un testo da assumere a modello è quello proposto dal sito eddyburg del 2013: scavalcando le regioni, fa capo alle competenze esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio (Costituzione, art. 117, c. 2, lett. s) e obbliga i comuni a localizzare qualsivoglia trasformazione solo nell’ambito del territorio urbanizzato.
Tutela del paesaggio. A 13 anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali, solo cinque regioni dispongono di piani paesaggistici approvati o adottati (Puglia, Toscana, Piemonte, Sardegna e Lazio). Un risultato scandaloso. Né risultano predisposte le “linee fondamentali del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”
Il patrimonio culturale. Non c’è mai stata, in questo paese, una politica culturale costituzionalmente orientata. Nell’ultima legislatura, poi, sono arrivate le ‘riforme’ di Dario Franceschini. La riforma Franceschini si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può.
In gioco non c'è la dignità dell'arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso (Codice, art. 145, c. 1) che potrebbero dare un contributo decisivo a mettere ordine nell’assetto urbanistico. Urge perciò – nel quadro di una radicale riforma del Mibact – rilanciare con fermezza e competenza la pianificazione paesaggistica. la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell'ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto ad un'unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l'antidoto. Se il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sullo schiavismo, davvero non abbiamo più motivi per mantenerlo con le tasse di tutti: non serve più al progetto della Costituzione, che è "il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3).
Il progetto sulla tutela, invece, è stato chiarito da Maria Elena Boschi. Dialogando amabilmente con Matteo Salvini in diretta televisiva (Porta a Porta, 16 novembre 2016), l'allora ministra per le riforme ha candidamente ammesso: "io sono d'accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d'accordo". Ecco la verità. Renzi l'aveva scritto, in un suo libro: "soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della democrazia". Detto fatto: ora chi vuole cementificare, distruggere, esportare clandestinamente, saccheggiare necropoli ha la strada spianata.
Tutto questo non è una novità, è l'estremizzazione della linea anticostituzionale di Alberto Ronchey (ministro per i beni culturali dal 1992 al 94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come ‘petrolio d’Italia’, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento ‘televisivo’ per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero.
La storia dell’arte è in grande parte la storia dell'autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.
Perché questo si realizzi, i primi passi sono semplici e chiari: abrogare le riforme Franceschini; tornare immediatamente al livello di finanziamento precedente al taglio Bondi-Tremonti del 2008; riportare la pianta organica dei Beni culturali a 25.000 unità e coprirle tutte con posti a tempo indeterminato; riunire Ambiente e Beni Culturali in un solo Ministero del Territorio e del Patrimonio, da intendere come un ministero dei diritti della persona, come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione.
Omelie Archivi Fraternità
Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo. C’è un angelo all’inizio di quel nome, perché il nome viene da lontano, appartiene a chi ci ha preceduto. Come quando i nostri genitori ci hanno dato il nome, quel nome che oggi ci identifica, ci appartiene, quel nome siamo noi.
Basta il nome senza tutti gli addobbi che siamo soliti appiccicargli: dottore, commendatore, don, avvocato, professore, monsignore (e dovrei declinarli quasi tutti anche al femminile)… il nome senza tutte queste qualifiche. Solamente il nome che ci accompagna dal primo giorno fino all’ultimo, e voglio pensare che essendo talmente nostro, pur non in esclusiva, ci starà attaccato addosso anche dopo, nella vita eterna, quando saremo faccia a faccia con Dio.
Ecco iniziamo il nuovo anno con un nome. Non lo iniziamo con altro, ma nel nome di quel Bambino di Betlemme che viene chiamato Gesù.
Il nome è come la vita: ti viene donato, non lo scegli tu. Tutto dipende poi da come lungo gli anni che hai a disposizione lo fai fiorire, gli dai spessore, lo riempi di cose belle, oppure se lo sfiguri con la durezza di cuore, con l’indifferenza, l’ottusità, la vigliaccheria, l’ozio, l’ira, la violenza…
Se ripensiamo al nome aramaico “Gesù” già dentro quelle quattro lettere nel loro significato che rimandano all’ebraico “Dio salva” c’è tutto il Vangelo che verrà dopo perché non è un nome che tende verso l’alto, verso la notorietà, la gloria, il successo, la fama… non ha bisogno che gli venga appiccicata una di quelle etichette che ricordavamo sopra.
Il nome Gesù significa Dio salva perché, come dice Paolo nell’inno ai Filippesi, Dio salva scendendo, abbassandosi… non c’è come quando qualcuno ti si fa vicino, ti dedica del tempo, si prende cura di te che ti senti “salvato”, nel senso che vieni liberato dalla paura, dal timore perché vieni amato e il tuo nome torna a vivere. Così è Gesù: è sceso, si è svuotato, si è consegnato per amore di me, di te, di ciascuno di noi. Così ci salva e così ci libera.
La cosa che sorprende è che un nome così sarebbe destinato all’oblio, alla disistima… invece come dice bene Paolo è proprio nel discendere e non nel salire, nell’abbassarsi e non nell’innalzarsi, nell’assumere la condizione di servo e non quella del padrone che Gesù salva e il suo nome emerge attraverso i secoli, oltre il tempo, ed è diventato un nome di cui non possiamo più fare a meno.
Iniziamo con questo nome il nuovo anno, perché il tempo che ci viene donato possiamo viverlo nel nome di Gesù, che vuol dire viverlo come Gesù: amando, condividendo, pregando, perdonando… anche se lo sappiamo che non sarà facile.
Non sarà facile vivere nel nome di Gesù l’economia delle nostre famiglie: come poter continuare ad essere capaci di solidarietà e di dono quando ci hanno annunciato come regalo di capodanno l’aumento della bolletta del gas, dell’energia elettrica e delle autostrade…!
Non sarà facile per la convivenza civile nel nostro Paese: ho già condiviso con voi la mia preoccupazione per i rigurgiti di fascismo, per i saluti romani sempre più frequenti nelle piazze… ma anche per l’emergere dei loro leader considerati ormai normali interlocutori politici!
L’indifferenza nei confronti della gravità e della pericolosità di tutti questi atti è il vero male capace di minare la nostra convivenza civile e democratica, perché il fascismo non porta valori, ma violenza. E noi dobbiamo dire l’importanza di capire perché accadono queste cose, non basta indicare il male perché esso non venga compiuto.
Ma non sarà facile questo nuovo anno nemmeno per la pace tra i popoli: non è pace l’aver sconfitto sul terreno il Daesh/Isis, quando paesi come l’Italia continuano a vendere armi al Qatar e agli Emirati Arabi e questi poi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa… e noi ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo?! Abbiamo speso 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno e per il 2018 si prevede un miliardo in più, denuncia p. Alex Zanotelli!
Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015[1]! E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, nonostante la legge 185 lo proibisca. Continuiamo a vendere bombe[2] all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu.
Ecco in un contesto così non è affatto facile iniziare l’anno nel nome di Gesù. Come ricorda papa Francesco nel tradizionale messaggio per il 1° gennaio, che è ormai da 50 anni la giornata mondiale della pace, questa situazione è la principale causa del fatto che ci sono 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Vale a dire uomini, donne e bambini, giovani e anziani che cercano un posto per vivere in pace e molti di loro per trovarlo sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte è lungo e pericoloso e ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani.
Come cristiani, cioè come coloro che portano quel nome che significa salvezza, salvare, liberare… non possiamo né tacere, né rimanere inerti.
Non possiamo tacere, perché la chiesa, come diceva il cardinale Giacomo Lercaro cinquant’anni fa nell’omelia di capodanno che poi gli costò la rimozione dalla cattedra di Bologna, non può essere neutrale di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia.
Si riferiva alla guerra degli USA in Vietnam che si protrarrà fino al 1975, un anno prima della sua morte, e disse esplicitamente: l’America si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. E poi quasi presagendo ciò cui andava incontro: Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti, anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni… piuttosto che essere rimproverati di non aver saputo illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio.
Non solo non possiamo tacere, ma non possiamo rimanere inerti, arresi all’impotenza di modificare il corso delle cose. Non saranno gli oroscopi o le chiromanti a indicarci il futuro, troppo facile e ingannevole pensare di risolvere così l’imprevedibilità della storia, quanto piuttosto il nostro impegno etico e civico che continua la missione di Gesù di liberare il mondo dalla violenza, dall’odio; di salvarlo dall’indifferenza e dalla paura.
Anzitutto mi chiedo quale sia stata, durante l’anno che abbiamo appena chiuso, la testimonianza di pace mia personale e della nostra chiesa. Mi domando fino a che punto possiamo aver talvolta inclinato a vedere solo negli altri la causa dei disordini e dei conflitti, piuttosto che esaminare noi stessi e preoccuparci di togliere da noi le pietre d’inciampo sul cammino della pace e le ragioni di scandalo.
Ci dobbiamo chiedere anche quale impegno mettiamo come adulti, come istituzioni, come responsabili a diverso titolo professionale o morale nel dare ai nostri ragazzi e giovani una coscienza evangelica dell’universale fraternità in Gesù, del rispetto assoluto della dignità di ogni uomo redento da Cristo, del rifiuto radicale di ogni forma di violenza.
Papa Francesco nel messaggio per la Giornata della pace chiede a tutti di avere uno sguardo diverso sul fenomeno delle migrazioni. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace.
Uno sguardo che sappia scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono.
Uno sguardo che sappia scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti.
È questo lo sguardo che la benedizione di Aronne invoca su di sé e sul suo popolo ed è anche lo sguardo che invochiamo su ciascuno di noi, sulle nostre famiglie, sul nostro mondo.
Abbiamo iniziato con il nome di Gesù e concludiamo con lo sguardo di Dio e condenso in queste due dimensioni il contenuto del mio augurio per ciascuno di voi, per le nostre famiglie, per il nostro mondo.
Il nome che salva è Gesù ed è un nome di cui non possiamo fare a meno, ma non perché lo ripetiamo all’infinito e continuiamo a dire Signore, Signore…, quanto piuttosto se anche i nostri nomi continueranno quell’abbassamento che Gesù ha espresso nel Vangelo. Se anche noi nel nostro lavoro, nelle nostre relazioni, nel nostro stare al mondo non smettiamo di imparare ad amare così, a donare così…
E poi il volto del Padre che si accompagna alla benedizione per il nuovo anno: camminiamo, viviamo, agiamo sempre ponendoci davanti al volto Dio, non per paura o per neutralità, ma perché, solo animati da questo sguardo, saremo in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e prenderci cura della loro crescita con coraggio.
(Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2, 18-21)
[1] Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza all’8° posto mondiale, grazie alla vendita di 28 Euro Fighter al Kuwait per otto miliardi di euro.
[2] Prodotte dall’azienda Rwm Italia a Domusnovas (Sardegna)
Postilla
Una omelia di Capodanno che, in assonanza con le parole di papa Francesco, denuncia i crimini contro l’umanità perpetrati dai paesi venditori di armi e ostili all’accoglienza dei migranti. Padre Giuseppe, oltre a proporre ogni domenica pomeriggio le sue omelie presso la Chiesa di Santa Maria dell'Incoronata a Milano - omelie molto seguite anche dai laici progressisti per il loro sguardo critico radicale nei confronti del nuovo ordine mondiale (Omelie Archivi - Fraternità) -, è promotore di iniziative concrete di solidarietà attraverso la Fondazione Arché. Nel 1997, in anni di oscurantismo nei confronti del virus HIV, apre a Milano la Casa di Accoglienza per mamme e bambini sieropositivi. Quando l’emergenza HIV rientra grazie alle cure antiretrovirali, l’impegno si sposta sul nucleo mamma e bambino in condizioni di disagio psichico e sociale. Nel 2013 Arché diventa Fondazione e continua nel suo lavoro quotidiano di solidarietà concreta in due strutture: la Casa Accoglienza, nel cuore di Milano, che ospita fino a 9 nuclei mamma e bambino e, più recentemente, “CasArché – Luogo di bene comune”, nell’estrema periferia di Milano a Quarto Oggiaro: un progetto innovativo che integra accoglienza e qualificazione professionale delle donne ospitate
il manifesto,
Questo Natale ha visto milioni di migranti in fuga da fame e da guerre, che bussano alla porta dell’Europa, ma non c’è posto per loro, restano fuori. Proprio come in quel primo Natale, quando per quei due poveri migranti, «non c’era posto nella locanda»: Gesù nasce fuori. Così oggi i migranti, la «carne di Cristo» come ama chiamarli Papa Francesco, restano fuori.
Per tenerli fuori, l’Europa «cristiana» ha fatto prima un patto con Erdogan perché bloccasse in Turchia milioni di rifugiati siriani, regalando a quel despota sei miliardi di euro. Poi, sempre per tenerli fuori, la Ue ha convinto l’Italia a bloccare la rotta dei migranti africani in fuga da guerre e fame. Per cui il governo italiano ha siglato un accordo con uno dei leader libici, El Serraj per bloccare i migranti in Libia e così restano fuori. Risultato: un milione di migranti nell’inferno libico, rinchiusi in lager, violentati ,torturati e stuprati. In quei lager vengono persino allestite aste di profughi-schiavi.
«È disumana la politica dell’Unione Europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle terrificanti prigioni – così l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein – la sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
Ancora più dura Amnesty International: «I governi europei, in particolare l’Italia ,sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche». Infine il Tribunale permanente dei popoli ,riunitosi a Palermo pochi giorni fa, ha emesso una storica sentenza : Italia e Ue sono corresponsabili degli abusi sui migranti.
È altrettanto disumana la politica della Ue, quando chiede all’Onu di evacuare i migranti bloccati nell’inferno libico. A parte i pochi rifugiati (somali e eritrei) che verranno riconosciuti dall’Onu, dove andranno tutti gli altri? Saranno rispediti nel disastro dei loro paesi, da dove sono fuggiti?
È disumana la politica dell’Europa verso l’Africa quando proclama: «Aiutiamoli a casa loro». Nel vertice di Abidjan (Costa d’Avorio), i leader Ue hanno promesso ai leader dell’Unione Africana (Ua) un Piano Marshall per l’Africa.
Quanto sia ipocrita questa politica la si evince dal viaggio in Africa di Macron e di Gentiloni. proprio alla vigilia del summit di Abidjan. Gentiloni ha visitato quattro paesi: Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio, tutte nazioni dove l’Eni ha enormi interessi di petrolio e di gas. È una politica la nostra che non aiuta le comunità africane a rimettersi in piedi ma aiuta noi a continuare a saccheggiare il continente africano. Il vero slogan della nostra politica estera è: «Aiutiamoci a casa loro!» La maledizione dell’Africa è la sua ricchezza!
È disumana la politica Ue di esternalizzare le frontiere per bloccare le rotte africane. La nuova frontiera per bloccare i migranti ora diventa quella saheliana: Niger, Ciad e Mali. È disumana questa politica perché finanziata utilizzando i soldi del Fondo per l’Africa e della Cooperazione italiana che dovrebbero invece essere usati per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Ben 50 milioni di euro di quei fondi finiranno nelle casse del Niger per la militarizzazione dei suoi confini.
Come se questo non bastasse, l’Italia, d’accordo con Francia e Germania, schiererà in Niger una missione militare che nel 2018 conterà 470 soldati «per la sorveglianza e il controllo del territorio del Niger». L’Italia ha già una presenza militare in Mali. Ne avremmo presto una anche in Ciad?
È questa la politica disumana che la Ue e il nostro governo stanno perseguendo in questo continente crocifisso.
Papa Francesco con grande coraggio ha bollato tali politiche disumane in tanti suoi interventi coraggiosi. Un coraggio che non trovo nelle chiese europee né in quella italiana.
Troppo silenzio anche da parte degli ordini religiosi che operano in Africa. È necessario soprattutto che noi missionari condanniamo questa politica criminale del nostro governo e della Ue.
il manifesto
Il movimento Ni Una Menos, che da due anni solca le strade di mezzo mondo, ha conosciuto anche l’adesione italiana. Sorto come una delle sorprese più vitali del 2016, quando per la prima volta il 26 novembre il progetto Non Una Di Meno ha esordito in piazza a Roma insieme a migliaia di donne, si è poi consolidato attraverso assemblee regionali e cittadine che hanno lavorato alacremente lungo tutto il 2017. Tavoli di lavoro per temi e la preparazione del grande sciopero globale organizzato per l’8 marzo, l’intento iniziale è stato rispettato: il Piano femminista antiviolenza contro la violenza maschile, nelle sue 57 fitte pagine, è stato presentato non più di un mese fa, alla vigilia del secondo appuntamento romano per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
In principio con la collaborazione tra Di.Re, Udi e la rete Io Decido, Non Una Di Meno ha raccolto da subito il consenso di molti collettivi e gruppi che si sono riconosciuti nel denominatore comune della libertà femminile per fare arretrare la miseria del vittimismo in tema di violenza maschile contro le donne. Ma, soprattutto il riconoscimento del confrontarsi tra pratiche diverse, diventando «casa delle differenze», ha segnato il punto di una serie di battaglie. Prima fra tutte quella di collocarsi nell’ambito internazionale, globale di un femminismo che trova la sua rigenerazione non azzerando ciò che è stato ma augurandosi di trovare maggiori intersezioni possibili.
Leggendo il Piano antiviolenza si scopre un documento politico capace di fotografare il presente e la sua complessità: tra lavoro, scuola, welfare, ambiente e tanto altro, seguendo il saldo protagonismo delle donne che non cede mai il passo all’automoderazione e alla convenienza partitica ma interroga costantemente i guadagni del femminismo per fare circolare una scommessa di civiltà. Per tutte e tutti.
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SINTESI DEL PIANO FEMMINISTA
CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE
E TUTTE LE FORME DI VIOLENZA DI GENERE21 novembre 2017
Dopoun anno che ha visto al lavoro decine di assemblee in circa 70 città, dopo 5incontri nazionali, dopo lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo scorso,Non Una di Meno presenta il Piano femminista contro la violenza maschile e digenere, un documento di analisi e proposte che porterà in piazza il 25novembre, a Roma, in occasione della manifestazione nazionale per la giornatainternazionale contro la violenza sulle donne.
IlPiano si basa sul presupposto che la violenza maschile contro le donne èsistemica, attraversa cioè tutti gli ambiti delle nostre vite e si fonda sucomportamenti radicati. È implicita nella costruzione e considerazione socialedel maschile e del femminile, per questo parliamo di violenza di genere. Non puòessere superata nell’ottica dell’emergenza, né se viene considerata unaquestione geograficamente o culturalmente determinata.
IlPiano è un documento di proposta e di azione, frutto della scrittura collettivadi migliaia di donne e soggettività alleate, che parte dalla messa in comune diesperienze e conoscenza, parte cioè dalla resistenza individuale e collettivaalle molteplici forme della violenza maschile e di genere. Si basa su unametodologia intersezionale, che intende cioè analizzare le forme di oppressioneche si innestano sulle differenze sociali, di origine, di classe, di identitàdi genere e sessuale, abilità e età.
Perscrivere il Piano, 9 Tavoli hanno lavorato sia a livello locale che nazionale.Per contrastare la violenza maschile e di genere nella sua complessità, Non Unadi Meno promuove azioni che si differenziano in modo sostanziale da quelle elaboratefinora dal Governo.
# LIBERE DI EDUCARCI.
Il femminismo si fa (a) scuola
Scuola e università sono luoghi primari di contrasto alle violenze di genere.Per questo chiediamo:
- formazione in materia di prevenzione della violenza di genere, mediazione deiconflitti ed educazione alle differenze per insegnanti, educatori ededucatrici;
- revisione dei manuali e del materiale didattico adottati nelle scuole di ogniordine e grado e nei corsi universitari, perché la scuola non contribuisca piùa diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti dipotere tra essi;
-abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di unprocesso dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, chepreveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi;
- finanziamenti pubblici e strutturali per i settori settore dell’educazione,della formazione e della ricerca, dal nido all’università.
# LIBERE DI (AUTO)FORMARCI EDI FORMARE.
Costruire e condividere saperi contro la cultura della violenza.
Per prevenire la violenza di genere è fondamentale un tipo di formazionepermanente e multidisciplinare, che consenta di monitorare il fenomeno in tuttele sue sfaccettature e sui vari livelli di intervento per il sostegno alledonne. Per questo vogliamo:
- Formazione delle operatrici curata dei Centri Antiviolenza (CAV), che hannouna mission specifica basata sul diritto di scelta, consenso eautodeterminazione delle donne;
- Formazione delle figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscitadalla violenza delle donne, come insegnanti, avvocati e avvocate, magistrati emagistrate, educatori ed educatrici ecc.);
- Formazione a chi lavori nei media e nelle industrie culturali, per combatterenarrazioni tossiche e promuovere una cultura nuova;
- Formazione nel mondo del lavoro contro molestie, violenza e discriminazionedi genere, con l’obiettivo di fornire strumenti di difesa e autodifesa adeguatied efficaci.
# LIBERE DI DECIDERE SUINOSTRI CORPI.
Consideriamo la salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale ecome espressione della libertà di autodeterminazione.
L’obiezionedi coscienza nel servizio sanitario nazionale lede il dirittoall’autodeterminazione delle donne, vogliamo il pieno accesso a tutte letecniche abortive per tutte le donne che ne fanno richiesta;
- Chiediamo la garanzia della libertà di scelta delle donne attraverso lapromozione della cultura della fisiologia della gravidanza, del parto, delpuerperio e dell’allattamento e che la violenza ostetrica venga riconosciutacome una delle forme di violenza contro le donne che riguarda la saluteriproduttiva e sessuale.
- Siamo contrarie alle logiche securitarie nei presidi sanitari: riteniamoinadeguati e dannosi interventi di stampo esclusivamente assistenziale,emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista dellaviolenza come fenomeno strutturale e vogliamo équipe con operatrici esperte
- Vogliamo consultori che siano spazi laici. Politici, culturali e socialioltre che socio-sanitari. Ne promuoviamo il potenziamento e la riqualificazioneattraverso l’assunzione di personale stabile e multidisciplinare. Incoraggiamo l’aperturadi nuove e sempre più numerose consultorie femministe e transfemministe, intesecome spazi di sperimentazione, auto-inchiesta, mutualismo e ridefinizione delwelfare
# LIBERE DALLA VIOLENZAECONOMICA,
DALLO SFRUTTAMENTO E DALLA PRECARIETÀ.
Strumenti economici per autodeterminarci.
Persuperare la violenza di genere nella crisi vogliamo strumenti e misure in gradodi garantire l’autodeterminazione e l’autonomia delle donne, antidoti allaviolenza data da dipendenza economica, sfruttamento e precarietà;
- Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato euniversale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dallaprecarietà.
- Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegnodella maternità e della genitorialità condivisa;
- Riaffermiamo l’importanza di costruire reti solidali e di mutuo soccorsocontro l’individualismo e la solitudine
- Nel dare nuovi significati alla pratica dello sciopero, oltre a quellosindacale, rilanciamo lo sciopero globale delle donne come sciopero dei e daigeneri e dal lavoro produttivo e riproduttivo.
# LIBERE DI NARRARCI.
Prevenire la violenza con una narrazione femminista e transfemminista.
I media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenzamaschile contro le donne, per questo vogliamo:
- La produzione di linee guida per narrazioni non sessiste e, dove queste giàesistono, sanzioni per chi trasgredisce
L’eliminazione di tutte le forme di lavoro sottopagato, sommerso e sfruttato dellelavoratrici e dei lavoratori della comunicazione: le narrazioni tossiche sonodovute infatti anche alla ricattabilità di chi lavora nel settore, oltre chealla mancanza di formazione.
- Diffondere narrazioni non tossiche. La violenza è strutturale, nasce dalladisparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente infamiglia e nelle relazioni di prossimità. La violenza avviene anche nella sferapubblica, ma non deve diventare spettacolo. Le donne non sono vittime passive,predestinate, isolate, e chi subisce violenza di genere non ne è mairesponsabile. La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, egli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi.Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta aglioperatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico.
# LIBERE DI MUOVERCI, LIBEREDI RESTARE.
Contro il razzismo e la violenza istituzionali.
Pratichiamoun femminismo intersezionale che, pur riconoscendo le differenze checaratterizzano le condizioni di ogni persona, sceglie di lottare insieme controla violenza del patriarcato, del razzismo, delle classi, dei confini
- Contro il regime dei confini e il sistema istituzionale di accoglienza,rivendichiamo la libertà di movimento e il soggiorno incondizionato dentro efuori l’Europa, svincolato dalla famiglia, dallo studio, dal lavoro e dalreddito. Vogliamo la cittadinanza per tutti e tutte, lo ius soli per le bambinee i bambini che nascono in Italia o che qui sono cresciute pur non essendovinati. Critichiamo il sistema istituzionale dell’accoglienza e rifiutiamo lalogica emergenziale applicata alle migrazioni
- Siamo contro la strumentalizzazione della violenza di genere in chiaverazzista, securitaria e nazionalista e vogliamo spazi politici condivisi efemministi
# LIBERE DALLA VIOLENZAAMBIENTALE.
Le violenze sui territori colpiscono anche noi.
Ricerchiamoil benessere dei corpi e degli ecosistemi. Definiamo “violenza ambientale”quella che si attua contro il benessere dei nostri corpi e gli ecosistemi incui viviamo, costantemente minacciati da pratiche di sfruttamento biocida
Vogliamo intraprendere un cammino comune a livello transnazionalenell’esercizio e nello scambio di pratiche transfemministe volte alla costruzionedi politiche economiche decolonizzate e di pace, alternative a quelle biocideed estrattiviste del capitalismo neoliberale
Affermiamo la necessità di superare il modello antropocentrico corrente:soggezione, sfruttamento della natura, degli esseri umani e delle altre speciee patriarcato si intrecciano infatti nella concezione delle relazioni comedominio e proprietà proprie di questo modello
# LIBERE DI COSTRUIRE SPAZIFEMMINISTI.
Spazi di autonomia, spazi separati, spazi di liberazione
Per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri è necessario recuperarequartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi gestiti da donne,riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delledonne.
- Riconosciamo e supportiamo la centralità dei Centri Antiviolenza (CAV) qualiluoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui internooperano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processidi trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamichestrutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne
- L’operatrice di accoglienza/antiviolenza è cardinale nel lavoro dei CentriAntiviolenza, e la sua formazione deve essere acquisita esclusivamenteall’interno dei Centri stessi. Il suo operato si fonda nella pratica femministadella relazione tra donne e nel contrasto agli stereotipi e allediscriminazioni di genere.
- I Centri Antiviolenza garantiscono la riservatezza, la segretezza,l’anonimato e la gratuità. Nei CAV viene adottata una metodologia indirizzataall’autonomia e mai all’assistenza, basata sulla relazione tra donne e sullalettura della violenza di genere come fenomeno politico e sociale, strutturalee non emergenziale
La pluralità di azioni necessarie per una concreta ed efficace lotta allaviolenza maschile sulle donne richiede l’impegno di risorse e finanziamentiappropriati e finalizzati al vantaggio delle donne e alla valorizzazione esostegno dei Centri Antiviolenza
- Siamo contrarie all’istituzionalizzazione dei percorsi di fuoriuscita dallaviolenza e ai requisiti minimi così come recentemente in discussione nellaConferenza Stato-Regioni
# LIBERE DI AUTODETERMINARCI.
Per concretizzare percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza ènecessario:
Ridurrei tempi della giustizia, anche mediante la previsione di corsie preferenziali,ad oggi inesistenti per i procedimenti civili e scarsamente attuate per iprocedimenti penali;
- In sede penale va contrastata ogni forma di obbligatorietà della denuncia eprocedibilità d’ufficio dei reati – che limiti il diritto di autodeterminazionedelle donne – e l’estensione ai reati di genere di strumenti processuali chedepotenziano i diritti della persona offesa (condotte riparatorie di cuiall’art. 162 ter c.p. dove anziché essere imprescindibile, il consenso dellapersona offesa è irrilevante). Vanno fissati parametri equi, congrui eduniformi per l’offerta reale del risarcimento del danno che non sviliscano lagravità del reato subito e restituiscano dignità e centralità alla donna;
- Recepire la direttiva europea sul risarcimento del danno per le vittime diviolenza, ponendo a carico dello Stato l’anticipazione di tutte le sommedisposte dall’autorità giudiziaria in loro favore sia in sede civile che insede penale, superando la burocratizzazione delle attuali procedure di accessoai fondi già costituiti
- Allargare la tutela del permesso di soggiorno per le donne che subisconoqualunque forma di violenza (art. 18 bis TUIMM), anche episodica e sul posto dilavoro, svincolandolo dal percorso giudiziario/penale, e garantendone l’accessoeffettivo alle donne prive di documenti sul territorio.
- Si chiede alla donna di essere una “brava madre” al di fuori della violenzae, di contro, si considera il padre adeguato anche se violento, in apertaviolazione della Convenzione di Istanbul (Titolo V art. 31). Bisogna superarela cultura giuridica che riconduce la violenza maschile sulle donne alla“conflittualità” di coppia, disconoscendo il fenomeno stesso della violenza esminuendo la credibilità delle donne che la subiscono.
- Introdurre modifiche legislative in materia di affidamento condiviso (artt.337 quater c.c. e ss.), escludendo la sua applicazione in tutti i casi diviolenza intrafamiliare e opponendosi ad altre forme di affidamento, comequello alternato, che causano pregiudizio e svuotamento dei diritti economicidelle donne (la perdita del diritto all’assegnazione della casa familiare e delmantenimento), generando una condizione di dipendenza e subordinazioneeconomica nei confronti degli ex partner come un ennesimo strumento di ricatto;
- Assicurare l’applicazione dei provvedimenti ablativi e/o limitativi dellaresponsabilità genitoriale paterna;
- Rispettare nei casi di violenza il divieto di mediazione familiare e disoluzioni alternative nelle controversie giudiziarie;
- Contrastare l’abdicazione da parte delle e dei giudici minorili e civili allapropria funzione di valutazione e decisione, praticata attraverso la delega difatto alle e ai Consulenti tecnici d’Ufficio e al personale dei servizisociali, e quindi vietare di procedere a valutazione psicologica epsicodiagnostica sulle donne vittime di violenza e sulla loro capacitàgenitoriale, valutazione che dovrebbe essere centrata sulla sola figura paternaevitando l’equiparazione dell’uomo maltrattante alla donna maltrattata;
- Garantire alle ed ai minori una tutela integrata effettiva con lasemplificazione del rilascio/rinnovo dei documenti, nulla osta scolastici,accesso ai servizi di sostegno psicologico e cure sanitarie.
- L’orientamento e l’inserimento lavorativo sono fondamentali per i percorsi diliberazione e autonomia delle donne che fuoriescono dalla violenza, in quantoconsentono la rottura dell’isolamento, la riacquisizione di autostima, lacapacità di riconoscere le proprie competenze, abilità e limiti per assicurarsiuna reale indipendenza, soprattutto dal punto di vista economico.
Pergarantire efficaci percorsi di autonomia lavorativa è necessario:
- Reddito di autodeterminazione per garantire un aiuto concreto che permettauna più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione delrischio di recidiva di maltrattamenti;
- Vietare il licenziamento e prevedere il trasferimento dai luoghi di lavorocon assicurazione di ricollocazione, il diritto alla flessibilità di orario,l’aspettativa retribuita e la sospensione della tassazione per le lavoratriciautonome;
- Modificare il congedo lavorativo per violenza (articolo 24 del D.lgs. n.80/2015) che esclude le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari enon garantisce l’anonimato. È inoltre necessario diffondere maggiormentel’esistenza di questo strumento presso i datori di lavoro e le sediterritoriali INPS;
Mettere a disposizione per attività di imprenditoria femminile una percentualedei beni commerciali confiscati.
Nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza il “problema della casa” assume unvalore primario, cui bisogna dare risposte adeguate, non episodiche e/oemergenziali
- Prolungare l’ospitalità dagli attuali 3-6 mesi a 12 mesi e conferire al tempodi permanenza una natura più flessibile, in grado di tener conto dellespecificità di ogni donna e del suo percorso;
- Slegare l’ospitalità, l’accoglienza o il trasferimento in altra località dalsistema delle rette dei Servizi Sociali che non devono sostituirsi alle donnedeterminando i loro percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
- Ampliare, modificare e applicare su tutto il territorio nazionalel’esperienza della Delibera 163 del Comune di Roma prevedendo che il contributoquadriennale per l’affitto sia destinato anche alle donne uscite da situazionidi violenza; a tal fine è necessario che sia equiparata, per gravità e urgenza,la necessità di fuga dalla casa familiare per sottrarsi a una situazione diviolenza all’essere colpite da una ingiunzione di sfratto, esperimento giàutilizzato con successo in alcuni municipi di Roma Capitale;
Prevedere l’istituzione di un fondo di garanzia che permetta una stipula delcontratto facilitato per le donne, che potrebbero così avvalersi dei CentriAntiviolenza e delle Associazioni che li gestiscono come garanti;
- Assegnare nelle graduatorie per le case popolari massimi punteggi per ledonne che hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza presso i CAV;
- Mettere a disposizione il 10% del patrimonio pubblico per l’implementazionedi case di Semiautonomia gestite da Centri Antiviolenza, e di case con affitticalmierati per donne che escono da situazioni di violenza, da sole o inco-housing, per una durata di 4 anni.
# LIBERE DI DARE I NUMERI
Intendiamocreare mappature, osservatori, banche dati e strumenti di analisi autonomi, pergarantire la diffusione di una consapevolezza del fenomeno della violenzamaschile contro le donne come fenomeno strutturale e non emergenziale.
Daparte degli enti pubblici e privati è necessario organizzare – a tutti ilivelli – banche dati che garantiscano la conoscenza qualitativa e quantitativadi tutte le forme della violenza di genere.
Il documento è tratto dal sito web nonunadimeno, ed è qui raggiungibile nel formato originale
«Il 27 ottobre 2009 si è svolto in Roma, a cura della Fondazione della Camera dei Deputati, un seminario dal titolo “Cercate ancora. La lezione di Claudio Napoleoni”. Introduzione di Fausto Bertinotti; relazioni di Riccardo Bellofiore, Raniero La Valle; approfondimenti tematici (introdotti da Mario Tronti) di Alessandro Montebugnoli, Giorgio Ruffolo, Gian Luigi Vaccarino, Silvano Andriani, Giorgio Cremaschi, Vittorio Tranquilli, Carla Ravaioli. Di seguito la relazione di Tranquilli»
Di Claudio Napoleoni si potrebbe dire – fatte le debite proporzioni – ciò che disse Engels davanti alla tomba di Carlo Marx: è stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario.
Negli anni Ottanta però, e particolarmente negli ultimi anni della propria vita (morì il 31 luglio 1988), Napoleoni si trovò di fronte a mutamenti del sistema capitalistico tanto profondi da rendergliene difficile una interpretazione, con indicazione di prospettive superatrici, in termini di teoria economica. Erano i tempi – ricordiamolo – in cui cominciavano a farsi chiari gli effetti della svolta neo-liberista voluta dalla Thatcher e da Reagan; in Italia c’era stata, nel giugno dell’85, la sconfitta del referendum contro l’abolizione della scala mobile.
Si profila allora in Napoleoni una crisi non soltanto teorica, ma spirituale, che lo porterà a riprendere – come testimoniato dal colloquio con Raniero La Valle a due mesi dalla morte (1) – l’heideggeriano «Solo un Dio ci può salvare».
«Ha ragione Riccardo Bellofiore – scrive La Valle nell’introduzione a Cercate ancora – quando osserva che “l’interrogazione teologica dell’ultimo Napoleoni trova la sua origine in questo dissolversi dello stesso pensiero rivoluzionario inteso come critica scientifica e rivoluzionaria del capitalismo”»(2).
E’ qui evidentemente in gioco, nell’"ultimo Napoleoni", il problema grossissimo della laicità della politica. Ma su questo problema egli non poteva non confrontarsi a fondo con la posizione di Franco Rodano (anche per l’impegnata collaborazione avuta con lui per almeno un decennio, cioè per tutti gli anni Sessanta). Scrisse infatti Piero Pratesi che la frequentazione di Rodano
«rimase un segno indelebile in Claudio Napoleoni. Non solamente restava sostanzialmente lo stesso il fine del pensare, la ricerca appunto del fulcro e della leva della rivoluzione possibile, ma l’esito finale della riflessione di Claudio Napoleoni, sparsa in conversazioni e appunti dell’ultima stagione, è caratterizzato da un continuo confronto con il pensiero rodaniano, oltre le ragioni dell’economia in senso stretto»(3).
Nel libro “Cercate ancora”, in effetti, sono riportati due documenti che confermano quanto fosse importante, per Napoleoni, questo confronto: parlo della “Lettera a Ossicini”(4) e dell’incompiuto “Saggio [appunto] su Rodano”(5). Non mi è quindi possibile, in questa sede, parlare di laicità – che è il tema assegnatomi – senza fare io pure riferimento a Franco Rodano.
La questione della laicità della politica non poteva non essere fondamentale e anzi fondante nella riflessione di Rodano, profondamente radicato nella fede cristiana e militante convinto del Partito comunista italiano.
«La ricerca dei modi e delle condizioni della laicità della politica – si legge sull’ultimo numero dei Quaderni della Rivista Trimestral, dedicato a ricordarlo – è stata suo sforzo precipuo e costante, fin dagli anni della giovinezza: discendeva infatti dal carattere peculiare della situazione e dell’esperienza che egli, e il gruppo di compagni da lui guidati, si trovavano a vivere già durante la guerra, e anche prima»(6).
Quale sia stata, di preciso, la posizione di Rodano, è bene espresso, ad esempio, in un saggio degli stessi Quaderni, anno 1977. Per fare positivamente i conti con Marx e col suo escatologismo rovesciato in termini di “assoluto umano” nella prospettiva della “società comunista”, e quindi per salvaguardare il “kerigma” cristiano dalla critica anti-religiosa dello stesso Marx, Rodano afferma – in quel saggio – la necessità che tale “kerigma”
«sia inteso e praticato in modo da accettare e rispettar sino in fondo l’autonomia, la “bontà” e la sufficienza di principio, per l’uomo, della realtà e delle operazioni “naturali” di esso (compresa dunque la politica); cosicché l’umana situazione storicamente alienata risulti passibile di un superamento rivoluzionario […] pienamente fondato e del tutto capace di sbocco vittorioso sul piano stesso della “natura” e su di esso soltanto»(7).
Ma espressioni di questo tenore sono assai frequenti in Rodano, anche a prescindere dal confronto con Marx. Ovviamente, qualunque posizione, specialmente su un tema così delicato e vessato come la laicità della politica, è soggetta a critiche. Quella di Rodano fu criticata, tra l’altro, da Giuseppe Ruggieri in un suo libro del 1978(8). Non posso entrare adesso, rispettando i 10 minuti, nel merito di questa critica, e tanto meno, più in generale, delle tesi di Ruggieri esplicitamente condivise da La Valle nella sua “Introduzione” al libro Cercate ancora(9).
Devo però soffermarmi su un brano dell’intervento di La Valle nel citato fascicolo dei Quaderni in ricordo di Rodano. Egli vi scrisse che, in uno dei suoi «rari incontri» con Rodano, lo sentì
«singolarmente sensibile e stimolato dalle riflessioni di Ruggieri sull’esperienza della Sinistra cristiana […]. Giudicò il saggio critico di Ruggieri pertinente e “intrigante”, intendendo dire – così interpreta La Valle - che il teologo catanese era entrato assai in profondità e attendibilmente nell’intrico dei problemi con cui Rodano si era misurato nel suo approccio alla “questione cattolica”»(10).
Questa sensazione avuta allora da La Valle, lo indusse a parlare di un “ultimo Rodano” che si sarebbe messo – proseguo la citazione - «intensamente e umilmente in cammino» verso, in buona sostanza, una revisione della sua posizione sulla laicità. Rodano, cioè, si sarebbe finalmente reso conto dell’inadeguatezza di tale sua posizione, la quale avrebbe patito – sto ancora citando - una «incapacità ecclesiale» imputabile «a tutta la storia cristiana degli ultimi secoli e degli ultimi decenni», e che sarebbe stato tempo oramai, dopo il Concilio, di riformulare radicalmente, in termini più rigorosi e corretti(11).
A questo punto vorrei allora concludere con una mia personale testimonianza. Con Franco Rodano ho avuto un rapporto di collaborazione stretta e di amicizia per oltre 40 anni, dalla comune partecipazione alla lotta antifascista clandestina e dalla Resistenza, fino alla morte di lui nel 1983. Posso assicurare tre cose:
che Rodano fu cattolico praticante nel corso dell’intera sua vita (compreso il periodo dell’interdetto dai sacramenti comminatogli sotto papa Pacelli e toltogli sotto papa Roncalli);
che Rodano, iscritto al PCI dal 1946 alla morte, vi militò con adesione tanto schietta quanto criticamente propulsiva verso l’uscita da strettoie ideologistiche;
che il pensiero di Rodano sulla laicità della politica venne sviluppandosi in modo lineare, su basi costanti, senza alcuna scoraggiata cesura né “intrigato” ripensamento.
Questa mia testimonianza è suffragata dagli scritti di Rodano posteriori al libro di Ruggieri, buona parte dei quali è stata poi raccolta nel volume a mia cura Franco Rodano: Cattolici e laicità della politica, Editori Riuniti 1992.
Non è perciò accettabile l’idea di un "ultimo Rodano" entrato in crisi proprio sul punto fondante dell’intera sua opera.
N O T E
(1) In Cercate ancora, a cura dello stesso La Valle – Editori Riuniti 1990, p.107-135.
(2) P. XXII.
(3) Claudio Napoleoni: coniugando economia e teologia, in “Regno Attualità” 1989, n. 2, p.55. Citato da Vittorio Tranquilli in Fede cattolica e laicità della politica in Franco Rodano, saggio pubblicato nel n. 2/1991 di “Teoria politica”.
(4) Cercate ancora cit, p. 5 sgg.
(5) Ivi, p. 17 sgg.
(6) Ricordo di Franco Rodano – Quaderni della Rivista Trimestrale n. 75-77/1983, p. 169
(7) Franco Rodano, Vittorio Tranquilli: La politica come assoluto, in “Quaderni” cit., n.51/1977, pp. 3-54.
(8) G. Ruggieri, R. Albani: Cattolici comunisti? Ed. Queriniana 1978.
(9) Cfr. pp. XXXI-XXXII, XXXVI.
(10) P. 53.
Perché apre il cuore alla speranza l'iniziativa partita “Potere al popolo”, mi piace. Perché vuol dire “democrazia”.Demos e Kratos, popolo e potere assieme. Utile ricordarlo all’inizio di unacampagna elettorale. Giusto per prendere le distanze dalle retoriche sul ritotruffaldino delle elezioni e battersi contro la “trasformazione dellapopolazione in elettorato” – per usare una espressione di Pierre Rimbert(“Dietro le quinte del mercato elettorale” su Le Monde Diplomnatique del maggio2017). Giusto segnare la differenza tra un’idea e un’altra di politica. Unaconcezione della politica come competizione per la conquista degli apparati digoverno e un’altra come azione permanente per abbassare il baricentro delledecisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità, reti civiche solidali. Giustoripresentare – in ogni occasione – quel tanto che c’è e che si muove “albasso”, tra le macerie che ha lasciato la crisi.
É necessario continuare a ricordareche una “ripresa” senza occupazione e redistribuzione della ricchezza non ciserve. Un lavoro che non produca utilità sociale è sfruttamento e alienazione. Unsistema produttivo che non rispetti salute e ambiente è suicida. Una finanza chearricchisca le rendite è criminale. La privatizzazione dello stato e delpatrimonio sociale è un furto. Alzare frontiere armate per respingere chi dasecoli deprediamo è semplicemente immorale. Se etica e politica – alcuni diconofin da Machiavelli – si sono trovate ufficialmente disgiunte, di fronte al piùgrande sterminio in tempo di pace in corso tra il Sahara e il Mediterraneo, è forse arrivato il momento di ridare unfondamento etico alla politica.
Mi pare anche bello che questa iniziativa dentro-contro leelezioni parta da una tra le esperienzepiù significative di solidarietà e mutualismo in corso nel nostro paese. Che sene parli è già un risultato. Sono una decina gli immobili che a Napoli sonostati liberati dal degrado e dalla speculazione e riconsegnati ad un usocollettivo e sociale. Non vedo altro modo per attuare la Costituzione se non quello messo in attodall’amministrazione partenopea anche per i servizi idrici. Una testimonianzadell’esistenza di un’altra possibile cultura e pratica di governo. Ma, a benguardare, esiste un vasto repertorio di sperimentazioni di sistemi economici edi welfare alternativi che hanno come obiettivo non la massimizzazione deiprofitti, ma il miglioramento dei legami sociali comunitari.
L’altra novità che fa scaldare il cuore è la voglia di autorappresentazione politica che emerge dai promotori di “Potere al popolo!”. Unrovesciamento del discorso e del linguaggio. I movimenti sociali rifiutano di essere intesi come un fenomeno spontaneo, effimero, prepolitico,incapace di gestire il confronto nelle sedi istituzionali, bisognoso dellatutela di un “ceto politico esperto” e si propongono invece come attoripolitici interi, non solo nelle piazze, ma anche nei palazzi. Non so ce lafaranno, scansando insidie burocratiche e fagogitazioni varie, ma mi pare chemeritino una firma per la presentazione della lista loro. Faranno bene anche acoloro che sono alla ricerca di un nuovo significato da dare alla sinistra. Hascritto Raul Zibechi: “Sono sempre i piccoli gruppi a prendere l’iniziativa,senza tener conto dei ‘rapporti di forza’ ma guardando solo alla giustiziadelle loro azioni” (Sulle piccole azionie le grandi vittorie, www.comune-info.net13/1/2014).
Questo articolo è inviato anche a il manifesto
Un testo di eccezionale chiarezza, semplicità, rigore per chi voglia comprendere qualcosa sulla società e sulla persona umana, a partire da questa.
Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.
LA SCIENZA ECONOMICA
1
La scienza economica studia, da un particolare punto di vista, le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni. L’inciso «da un particolare punto di vista» é essenziale in questa definizione, giacché le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni possono essere studiate non da un solo, ma da più punti di vista. Per esempio, si può studiare in qual modo, utilizzando certe leggi naturali (fisiche, chimiche o biologiche), sia possibile trasformare certi oggetti, non immediatamente utilizzabili per soddisfare bisogni umani, in altri oggetti che sono invece immediatamente utilizzabili a tale scopo. Cosi si può studiare attraverso quali procedimenti é possibile utilizzare un certo appezzamento di terra, certe sementi, certi concimi, ecc., nonché naturalmente una certa quantità di lavoro umano qualificato in un certo modo, per ottenere grano, e attraverso quali altri procedimenti sia possibile, dal grano, arrivare al pane, che e un oggetto capace di soddisfare immediatamente un certo bisogno umano. Oppure si può esaminare in qual modo dall’acciaio, dall’alluminio e da altre materie prime, utilizzando certi macchinari, il lavoro umano possa, alla line, ottenere un’automobile. Si possono fare, com’e chiaro, numerosissimi altri esempi, che il lettore certamente non farà fatica a immaginare. Ora studi di questo tipo hanno certo a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma il punto di vista che questi studi rappresentano non appartiene alla scienza economica, non é quello da cui la scienza economica risulta caratterizzata: questo punto di vista, come il lettore avrà probabilmente riconosciuto, é quello della tecnologia.
Altro esempio. Gli uomini, svolgendo le loro attività dirette alla produzione di oggetti che servono alla soddisfazione dei loro bisogni, entrano in certi rapporti reciproci, che, in ogni convivenza civile, sono regolati da leggi. Cosi, quando una persona prende in affitto un appartamento per soddisfare il proprio bisogno di abitazione, sa che deve sottoscrivere un contratto – il contratto d’affitto, appunto – il quale deve essere rispondente a certe norme che sono indicate nella legislazione del paese in cui tale contratto viene stilato. Analogamente, se più persone, ciascuna apportando un certo capitale, decidono di costituire una società, il cui scopo sia quello di esercitare una certa attività produttiva, esse sanno che la società deve essere costituita secondo certe regole e che la sua attività deve svolgersi secondo certe norme; regole e norme, che sono anch’esse indicate in una determinata legislazione. Esiste – com’e chiaro - lo studio di tale legislazione, e quindi di tutte le regole e norme da cui essa risulta costituita, e dei principii ai quali esse unitariamente si ispirano. Ora, anche uno studio siffatto ha a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma questo studio rappresenta un punto di vista che non è quello della scienza economica: esso rappresenta il punto di vista di un’altra disciplina, che, come il lettore avrà riconosciuto, é il diritto.
Un terzo esempio. I fini che gli uomini si propongono di raggiungere per soddisfare i loro bisogni, e i mezzi che essi impiegano per il conseguimento di tali fini, possono essere buoni o cattivi. C’e una considerazione dell’attività umana che ha lo scopo di valutare se essa sia, o non sia, buona. Neppure questa considerazione rappresenta, com’e chiaro, il punto di vista della scienza economica: si tratta, infatti, della considerazione propria della moralità.
Questi diversi punti di vista, questi vari modi di considerate l’attività umana, non sono dunque quelli propri della scienza economica, anche se, come risulterà chiaro nel corso di questa trattazione, nessuno di essi può considerarsi irrilevante per la scienza economica stessa: Per ora comunque il nostro compito consiste nel cercar di definire in che cosa consiste quel modo particolare di considerazione dell’attività umana, che é proprio della scienza economica.
A tal fine occorre tener presenti le due seguenti - e fondamentali - circostanze.
1) I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici é una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, cos1ì come essa si presenta in ogni momento dato. Gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, di vestirsi, di abitare in una casa, di costituire una famiglia, di istruirsi, di riposarsi, di divertirsi, ecc. Inoltre, nell’ambito di ciascuna di queste categorie di bisogni, è sempre possibile individuare bisogni più particolari e specifici. Cosi, non basta agli uomini di nutrirsi in un modo qualunque, ma, nel nutrimento, devono essere osservati certi requisiti, per quanto riguarda, ad esempio, la disponibilità di determinate quantità minime dei vari elementi nutritivi (calorie, vitamine ecc.). Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari d’un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore.
Un grande economista inglese che scrisse verso la fine del ’700, Adam Smith, dette questi esempi per mostrare l’evoluzione subita dai bisogni lungo il corso della storia: «Quello che una volta era un castello della famiglia di Seymour e ora una locanda nella strada di Bath. Il letto di nozze di Giacomo I, re di Gran Bretagna, che la regina sua moglie portò seco dalla Danimarca come dono degno d’esser fatto da un sovrano a un altro, era pochi anni fa l’ornamento d’una mescita di birra a Dunfermline» E ancora: in quale paese del mondo ci si accontenterebbe oggi di provvedere all’istruzione dei cittadini mediante libri scritti a mano, con tutte le limitazioni gravissime che ciò comporterebbe? La stampa é dunque diventata un bisogno, e, per giunta, un bisogno essenziale. E, nelle società più progredite, chi oggi penserebbe di poter viaggiare con mezzi la cui velocita dipenda dalla velocita di animali da tiro? La locomozione con mezzi meccanici è anch’essa diventata un bisogno. Ecco un altro argomento sul quale il lettore può sbizzarrirsi a trovare tutti gli esempi che vuole. Ma c’è un fatto che va tenuto ben presente: questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacché é il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni; l’uomo, insomma, non si ferma mai; se é riuscito a costruire delle case che, bene o male, lo difendono dal freddo e dal caldo, dal vento e dalla pioggia, non si accontenta più di questa protezione pura e semplice, e desidera che le sue case abbiano certe comodità, le quali, col trascorrere del tempo, Vengono poi ritenute sempre più importanti; se, più in generale, é riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli che dipendono dalla sua vita animale, vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.
2) I mezzi con cui gli uomini soddisfano i propri bisogni possono essere resi via via disponibili soltanto in quantità limitate, cioè in quantità minori di quelle che occorrerebbero per conseguire la piena soddisfazione dei bisogni stessi. Ci possono essere dei mezzi, rispetto ai quali non si pone il problema di renderli disponibili, perché essi già lo sono immediatamente, e può darsi che, in tal caso, essi lo siano in quantità illimitata rispetto al bisogno che gli uomini ne hanno. L’aria atmosferica è uno di questi casi: essa è certo un mezzo per soddisfare un bisogno precisamente quello di respirare, che é, per di più, un bisogno assolutamente essenziale, ed essa, almeno in condizioni normali, e immediatamente disponibile in quantità illimitata rispetto al bisogno medesimo.
Ma, di regola, i mezzi occorrenti ai bisogni umani non sono disponibili immediatamente, e devono esser resi disponibili mediante un lavoro a ciò specificamente diretto. Ora, il lavoro che gli uomini possono svolgere per procurarsi la disponibilità di quei mezzi trova un limite nel fatto che l’uomo stesso e limitato: limitate sono le sue forze, fisiche e mentali, limitata e la sua volontà, limitato e il tempo a sua disposizione, limitato è lo spazio che egli può rendere teatro delle sue operazioni, limitate, infine, sono quelle risorse naturali che egli può porre sotto il proprio controllo. Lo stesso lavoro umano, dunque, in quanto incontra tutti questi limiti (che, è bene ripetere, non sono che altrettante manifestazioni di un unico limite di fondo, che e la limitatezza, la finitezza propria della natura umana), non può mai arrivare a procurarsi tutti i mezzi che occorrerebbero per una completa soddisfazione di tutti i bisogni possibili in un dato momento e di tutti quelli che si possono svlluppare in conseguenza dell’aver soddisfatti i primi.
Ora, la compresenza delle due circostanze testé menzionate – e cioè, da un lato, il carattere illimitato dei bisogni, e, dall’altro lato, il carattere limitato dei mezzi che, mediante il lavoro, si possono rendere disponibili per la soddisfazione di quei bisogni - fa si che le azioni degli uomini comportino necessariamente delle scelte. Non essendo possibile, data la limitatezza dei mezzi, soddisfare compiutamente tutti i bisogni, l'uomo deve continuamente scegliere tra molte possibili linee di azione; scegliere l’una piuttosto che l’altra significa scegliere di conseguire certi fini piuttosto che certi altri, e di conseguirli in una certa misura, piuttosto che in una cert’altra, nonché di usare certi mezzi piuttosto che certi altri, e di usarli in una certa proporzione piuttosto che in un’altra.
2.
Per semplicità, é opportuno illustrare questa particolare caratteristica dell’azione umana - quella caratteristica cioè per cui essa é necessariamente una scelta - distinguendo due casi: nel primo caso, data una certa disponibilità di mezzi, si tratta di scegliere quali fini si intende conseguire con quei dati mezzi; nel secondo caso, dato un fine da raggiungere, si tratta di decidere con quali mezzi debba essere raggiunto.
Immaginiamo un uomo che viva isolato, un Robinson Crusoe, per esempio. Egli dispone di una certa quantità di lavoro, ovviamente limitata, con la quale si trova a dover soddisfare varie specie di bisogni: quello di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo, di costruirsi degli attrezzi che rendano più efficace il suo lavoro, e cosi via: dovrà perciò decidere come suddividere la propria limitata disponibilità di lavoro tra le diverse operazioni adatte a procurargli i mezzi per il soddisfacimento di quei vari bisogni, e -quindi in tanto può agire in quanto effettui una scelta tra varie possibili alternative di azione.
In una società evoluta, nella quale, come diremo meglio in seguito, esiste la divisione del lavoro, e nella quale, quindi, ognuno si procura i mezzi di cui ha bisogno mediante lo scambio, possiamo immaginare un individuo, che, a compenso del proprio lavoro, abbia ricevuto un salario; questo salario gli dà una disponibilità, evidentemente limitata, sulle merci che si trovano in vendita nel mercato, ed egli dovrà decidere quali merci comprare, e in quali quantità, dovrà cioè esercitare un atto di scelta.
Quando si redige il bilancio pubblico preventivo di una nazione, il governo di questa nazione deve scegliere in qual modo debbano essere utilizzati i mezzi raccolti attraverso le imposte: le alternative sono molte; lavori pubblici, scuola, difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza sociale, ecc., e per ciascuna di queste alternative si tratta di decidere se e in quale misura essa va perseguita.
In tutti questi casi, e in altri analoghi che si possono immaginare, ci troviamo in presenza di un soggetto, di un centro di decisioni, che può essere una singola persona o un organo collettivo, il quale, a partire da una certa disponibilità di mezzi, e di fronte a certi bisogni da lui sentiti, deve scegliere in qual modo quei mezzi vanno utilizzati per soddisfare quei bisogni nel miglior modo possibile. Si usa dire che, in tutte le situazioni del tipo or ora illustrato, gli uomini agiscono secondo il principio del massimo risultato.
Adesso consideriamo un soggetto che desideri conseguire un certo fine, ossia soddisfare un certo bisogno, e desideri soddisfarlo in una certa misura. Supponiamo poi che egli possa far uso di vari mezzi per pervenire a quella soddisfazione. Per esempio, possiamo pensare a un individuo che, per nutrirsi, possa rendersi disponibili vari generi alimentari, ognuno dei quali può essere ottenuto con un certo dispendio di lavoro, oppure con la spesa di una certa parte del suo reddito. Ovvero possiamo pensare a un individuo che debba spostarsi da una località a un’altra, e possa farlo mediante mezzi di trasporto diversi (treno, automobile, aereo), l’uso di ciascuno dei quali comporti una certa spesa; o ancora, a un individuo, che, avendo deciso di trascorrere un pomeriggio di svago, possa farlo in vari modi (recandosi al cinema, o al teatro, ol a una partita di calcio, e cosi via), ognuno dei quali implichi un certo costo.
Se, in tutti questi casi, le varie alternative soddisfano il bisogno nella medesima misura, la scelta verrà effettuata in modo che l’impiego dei mezzi - rappresentato dal dispendio di lavoro o dalla spesa del reddito a disposizione - sia il più piccolo possibile. Si usa dire, allora, che, in tutte le situazioni del tipo esaminato, gli uomini agiscono secondo il principio del minima mezzo.
Noti bene il lettore come tanto il principio del massimo risultato quanto ll principio del minimo mezzo costituiscono regole di comportamento, regole di azione, soltanto, e proprio perché, i mezzi sono limitati. Infatti: 1) non avrebbe senso proporsi di render massimo il risultato della propria azione, se i mezzi fossero illimitati rispetto ai bisogni e quindi consentissero di soddisfare i bisogni stessi in modo pieno e totale; 2) non avrebbe senso proporsi di render minimo l’impiego dei mezzi richiesti per il compimento di una certa azione, se la limitatezza dei mezzi rispetto ai bisogni non ponesse il problema di risparmiare i mezzi stessi per poterli dedicare, nella massima misura possibile, ad usi alternativi, cioè ad altre azioni dirette a soddisfare altri bisogni.
I due principi menzionati, dunque, quello cioè del massimo risultato e quello del minimo mezzo, non sono che due modi di esprimere la medesima realtà, ossia che, nelle azioni che gli uomini intraprendono per soddisfare i loro bisogni, essi devono scegliere tra varie possibili alternative affinché la limitata disponibilità di mezzi sia utilizzata per rendere la soddisfazione dei bisogni la migliore possibile.
Ciò detto, possiamo tornare al problema che ci aveva mossi a svolgere tutte queste considerazioni, il problema cioè della definizione della scienza economica, ossia, come già sappiamo, il problema della determinazione del punto di vista dal quale la scienza economica considera il processo di soddisfazione dei bisogni. Diremo allora che la scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi.
É questa la definizione data dall’economista inglese Lionel Robbins nel 1932.
Come si vede, il punto di vista proprio della scienza economica e diverso dai punti di vista che abbiamo menzionati all’inizio di questo capitolo: é diverso da quello della tecnologia, da quello del diritto, da quello della moralità. Che tra questi vari punti di vista debbano esistere dei rapporti, risulta chiaro dalla semplice considerazione che, per diversi che possano essere, tuttavia essi si riferiscono alla medesima realtà, che è l’agire umano. Quali questi rapporti siano, o debbano essere, e un problema assai difficile, al quale potremo fare solo qualche accenno, e soltanto nel seguito di questa trattazione.
Qui vogliamo solo aggiungere che l’aspetto economico dell’agire umano viene generalmente esaminato, dalla scienza economica, prendendo in considerazione gli uomini in quanto membri di una società: di qui il nome di economia politica, con il quale assai spesso la scienza economica è pure designata.
Da Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.
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comune-info,
«Il pensiero della decrescita, quello dei commons e il pensiero ecofemminista – come raccontano in due importanti interviste, pubblicate da Comune, Massimo De Angelis e Serge Latouche – hanno cominciato a immaginare e a creare mondi nuovi. Secondo Paolo Cacciari, gruppi e comunità in tutto il mondo sperimentano già pratiche concrete “inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato”. Molto spesso si tratta di “pratiche promiscue, ibride, contraddittorie, per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune…”. Un bagaglio enorme attraverso il quale dimostrano che, nonostante tutto, “possiamo anzi osare processi inversi”, qui e ora è possibile vivere in un altro modo».
Propongo una lettura incrociata delle due importanti interviste con Serge Latouche, Capovolgere i modi di pensare e di fare,L’arcipelago dei commons che Comune ha recentemente pubblicato. Ambedue, poi, le confronterei con quanto dice Vandana Shiva nella intervista a Lionel Astruc, La Terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo più giusto, pubblicato da Emi, 2016.
Il pensiero della decrescita e quello dei commons – secondo me – sono collegati e si integrano. Latouche fa discendere la proposta di una società della de/a/crescita dalla constatazione del fallimento suicida del progetto della “occidentalizzazione” del mondo: «l’universalizzazione dell’Uomo Economico». Proprio nell’era della massima pervasività dei rapporti sociali capitalistici (alcuni chiamano questa l’era del Capitalocene) appaiono evidenti i limiti di capacità di carico del pianeta.
La crisi ecologica è l’effetto di ciò che Vandana Shiva chiama il “progetto maschile” di “morte della natura”. Scrive Latouche: «É ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo», dalla «cibernathropia (mescolanza di uomo e macchina)». Siamo prossimi all’«Apocalisse umanitaria» di cui scrive De Angelis. Ma emergono anche resistenze irriducibili dei popoli indigeni, dei contadini, delle popolazioni impoverite e di quanti non hanno smesso di usare il proprio cervello. I nostri autori non credono alla leggenda neocolonialista secondo cui le popolazioni dei “paesi sottosviluppati” desidererebbero imitare i modelli sociali ipercapitalistici. Nemmeno nelle aree geografiche più ricche sembra che prosperi la felicità, la joie de vivre, il “buen vivir”. Latouche, De Angelis ed anche Shiva vedono al fondo della crisi che viviamo una «perdita di senso della società della crescita» (Latouche); «Viviamo in un’abbondanza materiale, ma priva di senso» (Shiva); «La competizione economica […] è una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure» (De Angelis).
Oltre la pedagogia delle catastrofi
La sfida, allora, è quella di come riuscire a non farsi annientare dalla Megamacchina (così bene descritta già da Lewis Mumford in: Il mito della macchina, 1967) e che oggi appare nelle vesti della superpotenza delle imprese transnazionali, dei conglomerati industriali-finanziari. É qui che a me sembra che il pensiero dei commons (Massimo De Angelis, Omnia sunt communia, 2017) e quello ecofemminista (Vandana Shiva e Maria Mies, Ecofemminism, Zed Press, London 1993) possano integrarsi e dare gambe sociali alla critica al modello di sviluppo capitalistico e superare il rischio di un semplice attendismo palingenetico in cui incorre la “pedagogia delle catastrofi”.
I commons ci aiutano a delineare una idea di ordinamento sociale alternativo, liberato dal pensiero unico e dall’immaginario sviluppista, economicista, produttivista. Se superiamo le insidie di una traduzione dall’inglese che può generare equivoci (i “beni comuni” intesi solo come risorse, come common pool resources, giacimenti naturali, patrimoni preesistenti, bagagli di conoscenze e altro ancora) e pensiamo invece ai commons come un sistema di relazioni sociali di tipo cooperativo, capaci di auto-normarsi, allora possiamo immaginare forme comunitarie dove persone e cose si specificano e si integrano. Nei commons le esigenze umane sono connaturate con quelle ecosistemiche. Genius loci e genuis popoli sono inestricabili. Società insediata e ambiti territoriali si compenetrano. I commons sono una particolare forma di governance autonoma, di comunità auto-organizzate, alle diverse scale, capaci di relazionarsi tra loro, quindi, anche di federarsi. Come ha scritto John Holloway, i commons possono diventare quel «fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di “comunalità”, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune» (John Holloway, !Comunicemos!, in Herramienta, tradotto e pubblicato con il titolo: Mettiamo in comune il 3 novembre 2013 su Comune). O come hanno scritto Geroge Caffentzis e Silvia Federici:: «Le iniziative di commoning sono qualche cosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire» (Creare beni comuni e mondi nuovi, in Comune 2015). Ha scritto Raj Patel: «É il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise” (Raj Patel, 2007 Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano).
Varchi e cunei, resistenze e diserzioni
È possibile allora immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attività attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d’uso, comunità intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni… comunque utili a formare una bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento del cambiamento necessario, imposto agli eventi.
In questo senso possiamo concepire il “comune come modo di produzione” (Toni Negri, Lavoro e proprietà a fronte del comune, intervento al seminario Disarticolare la proprietà. Beni comuni e le possibilità del diritto, 8 ottobre 2013. Pubblicato su: euronomade.info e ControLaCrisi.org), che va oltre le relazioni sociali capitalistiche. «Queste realtà ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale – dice De Angelis – Ma se si guarda attentamente la cosa, questo è solo un problema di diffusione e di scala […] è una questione che dipende dalle forze sociali» che si mobilitano e dal «rapporto che stabiliscono con il sistema stato e il sistema capitale». Insomma si tratta di una questione eminentemente politica.
Non stiamo valutando un modello teorico scritto a tavolino, ma una famiglia di pratiche concrete inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato. Molto spesso, quindi, le pratiche del commoning sono promiscue, ibride, contraddittorie; per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Ma se le motivazioni etiche sono salde e gli obiettivi socio-economici sono chiari (rigenerazione della vita, solidarietà, accoglienza, giustizia, ridistribuzione) non ci dobbiamo preoccupare troppo del rischio della loro cattura e sussunzione dentro i meccanismi del mercato (competizione, profitto, accumulazione ecc.). Possiamo anzi osare processi inversi. Ad esempio Michel Bauwens e Vasilis Niaros (teorici dei sistemi di produzione paritarie e open sources) nella pubblicazione Value in the Commons Economy, co-edito da Heinrich Böll Foundation e P2P Foundation, formulano ipotesi sorprendenti. Piuttosto che discutere sul rischio di neutralizzazione dei valori creati dalle nuove modalità di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa può accadere se i commons riuscissero ad essere la base di «una nuova economia che nasce all’interno del vecchio sistema».
Si potrebbe allora «pensare ad una “cooptazione inversa” (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Può l’emergente economia commons-centrata, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale dal sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?». Si possono, cioè, ipotizzare «all’interno dei confini dell’economia già esistente, flussi di valore più ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?». Alcuni casi studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato.
La pratica dei commons, il fare e il mettere in comune, la produzione di nuovi commons, l’emergere di un commons movement, ci dicono che qualcosa si può fare, oltre la denuncia e la critica, per dimostrare nel concreto che sarebbe possibile vivere in un altro modo, provocando meno sofferenze, insopportabili ingiustizie, precarietà non necessarie, violenza. Ed è qui che il pensiero ecofemminista di Shiva ci viene in aiuto mostrandoci una filosofia dell’azione politica. Shiva dice che non è possibile «motivare all’impegno incutendo terrore». Meglio «accendere nei cittadini la voglia di vivere le loro migliori potenzialità […] La militanza comincia nella mente, nel cuore e nelle mani di ognuno». E, ancora: «Io vedo un numero crescente di persone pronte al cambiamento. Quel che manca non è la quantità dei cittadini in movimento, ma la connessione tra loro».
il fatto quotidiano, 27 dicembre 2017. L'attualità di Sankara e della lotta contro l'imperialismo economico, politico e culturale dell'occidente, che continua a ridurre lo sviluppo umano a un modello uniforme, sterile e iniquo (i.b).
Il 15 ottobre scorso facevano trent’anni dall’assassinio diThomas Sankara (1949-1987), capo rivoluzionario e poi presidente del BurkinaFaso, colui che per primo volle far uscire il suo Paese dal retaggio colonialefrancese e dal nuovo imperialismo di Fmi e Banca mondiale, nazionalizzando leterre e le risorse minerarie, varando un programma di autosufficienza, mirandoad ab- battere analfabetismo e malattie, e a tutelare la natura, i dirittidelle donne, e la dignità e l'autonomia del continente africano. Forse è per ilsuo radicalismo che - a differenza di un Mandela - Sankara è poco ricordatooggi in Europa (da noi, Fiorella Mannoia gli ha dedicato una bella canzone,
Quando l’angelo vola). Ma le sue idee sembrano drammaticamente attuali.
VIENNA. Mentre il nuovo governo austriaco lancia le primebordate contro i migranti e il sud, nelle librerie campeggia il libro deisociologi Ulrich Brand e Markus Wissen, “Modo di vita imperiale” (ImperialeLebensweise, Oekom 2017), dedicato a disuguaglianze globali edeterioramento ecologi- co del pianeta. Ad onta di rivoluzioni verdi,conferenze sul clima e simposi per il Sud del mondo, la situazione non fa chepeggiorare: la ragione, secondo gli autori, sta nel fatto che si forniscono perlo più soluzioni tecniche (dalle auto elettriche alle dilazioni sul debito) aproblemi che sono di ordine politico. Per tutelare la stabilità degli interessie delle ideologie dominanti, si omette di attaccare il vero problema di fondo:il modo di vita delle società dei Paesi ricchi.
Quest’ultimo - senza alcun giudizio morale - è definito“imperiale” in quanto “la vita quotidiana nei centri capitali- stici è resapossibile in larga misura dall’assetto dei rap- porti sociali e dellecondizioni naturali che si verifica altrove, cioè dallo sfruttamento potenzialmenteillimitato della forza lavoro, delle risorse naturali e dei giacimenti su scalaglobale”. Viviamo, per citare un saggio di Stephan Lessenich (
Accanto a noi ildiluvio, Hanser 2016), nella “società dell’esternalizzazione”, in cui tutte leconseguenze negative del “progresso” (dai cambia- menti climatici ai rifiutiindustriali, dalle nuove povertà al nuovo schiavismo) vengono rimosse il piùlontano possibile dai nostri occhi. E così, oltre alle rivendicazioni diSankara (che preferiamo obliterare - per citare un nostro ex premier -“aiutandoli a casa loro” e demandando la politica estera all’Eni), vengonorimossi dalla memoria collettiva disastri atroci come il crollo del Rana Plazadi Dacca (dove si producevano magliette per marchi occidentali), l’esondazionee la contaminazione del Rio Doce in Brasile (dove si estraevano mineraliferrosi per conto di ditte occidentali), l'irrompere nelle pampas argentinedelle piantagioni di soja (destinata ai maiali da alleva- mento cinesi), oancora i cimiteri dei nostri computer allocati in Ghana, o lo sterminio della faunaittica dello Yangtse in Cina, o le perniciose dighe nella valle dell’Omo inKenya, raccontate da Ilaria Boniburini, grande esperta d’Africa e di retoricheimperiali, in un bell’articolo sui
“nuovi dannati della terra” (eddyburg.it).
BRAND E WISSEN invitano a considerare questi eventi non comeepisodi o tragiche fatalità, bensì come l’esito strutturale di un “progresso”che non ha portato - come prometteva il fordismo - l’emancipazione dallanatura, ma solo l’esternalizzazione nel Sud globale (e nelle sue componenti piùde- boli) delle conseguenze della sua distruzione, e del nostro precariobenessere. Contro questa deriva il mantra della “sostenibilità”, il“capitalismo verde” o la green economy ap- paiono soluzioni inefficaci se nonipocrite: ipocrite quando, per esempio, mercificano le quote di inquinamento oquando (al netto dei trucchi sulle emissioni) favoriscono l’auto verde nelmomento stesso in cui liquidano il tra- sporto su rotaia e puntano sul veicolopiù inquinante, il Suv (vera metonimia della società esclusiva, in quantostatus symbol economico e fonte di sicurezza stradale a discapito degliautomobilisti meno abbienti); inefficaci se è vero che nonostante tutto negliultimi anni il material footprint,l’indicatore più attendibile per misurare l’esternalizzazione dei processi disfruttamento intensivo delle risorse, nei Paesi del Nord globale continua acrescere senza posa.
Secondo Brand e Wissen (che al pari di Lessenich non sonofacinorosi “no-global” ma serissimi accademici attivi tra Vienna e Berlino), ilpensiero neo-capitalista ha anco- rato in ciascuno di noi il “modo di vitaimperiale” fino a fargli occupare una posizione egemonica in senso gramsciano:esso, con le sue comodità e la sua retorica, non pare frutto di imposizione maregola le nostre aspirazioni, i nostri acquisti, le nostre scelte di vita e direalizzazione personale, perfino quando in realtà ci nuoce direttamente; un’immaginariasocietà dei cani domestici statunitensi avrebbe un tenore di vita superiore aquello del 40% della popolazione umana mondiale. Tanto più arduo è il compitodi una sinistra che voglia provare a rovesciare il paradigma, e a persuadere icittadini di un modello di vita “solidale” non fondato su prospettiveregressive o pessimistiche, ma su uno sviluppo condiviso alieno dallo sfruttamentodell’altro, e generalizzabile a tutti senza minare le proprie stesse basi. Èuna questione anche solo di buon senso: nel momento in cui sempre più Paesi(anche assai popolo- si) si industrializzano e aderiscono alla logicadell’esternalizzazione, poiché sul pianeta lo spazio e le risorse sono entitàfinite (l’Africa di Sankara, già martoriata dal clima, è in questo senso lavittima prede- stinata: si pensi all’impetuosa espansione cinese), è inevitabileche si arrivi prima o poi a conflitti non più limitati ai territori “invisibili”del Sud globale, ma capaci di travolgere tutto il sistema.
La Santa Sede, 24 dicembre 2017 Dal massimo della tensione religiosa di questo Grande si sprigiona il massimo della passione civile e umana che questa triste stagione riesca a darci, «mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale»
Cari fratelli e sorelle, buon Natale!
A Betlemme, dalla Vergine Maria, è nato Gesù. Non è nato per volontà umana, ma per il dono d’amore di Dio Padre, che «ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Questo evento si rinnova oggi nella Chiesa, pellegrina nel tempo: la fede del popolo cristiano rivive nella liturgia del Natale il mistero di Dio che viene, che assume la nostra carne mortale, che si fa piccolo e povero per salvarci. E questo ci riempie di commozione, perché troppo grande è la tenerezza del nostro Padre.
I primi a vedere la gloria umile del Salvatore, dopo Maria e Giuseppe, furono i pastori di Betlemme. Riconobbero il segno annunciato loro dagli angeli e adorarono il Bambino. Quegli uomini umili ma vigilanti sono esempio per i credenti di ogni tempo che, di fronte al mistero di Gesù, non si scandalizzano della sua povertà, ma, come Maria, si fidano della parola di Dio e contemplano con occhi semplici la sua gloria. Davanti al mistero del Verbo fatto carne, i cristiani di ogni luogo confessano, con le parole dell’evangelista Giovanni: «Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14).
Oggi, mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale, il Natale ci richiama al segno del Bambino, e a riconoscerlo nei volti dei bambini, specialmente di quelli per i quali, come per Gesù, «non c’è posto nell’alloggio» (Lc 2,7).
Vediamo Gesù nei bambini del Medio Oriente, che continuano a soffrire per l’acuirsi delle tensioni tra Israeliani e Palestinesi. In questo giorno di festa invochiamo dal Signore la pace per Gerusalemme e per tutta la Terra Santa; preghiamo perché tra le parti prevalga la volontà di riprendere il dialogo e si possa finalmente giungere a una soluzione negoziata che consenta la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti. Il Signore sostenga anche lo sforzo di quanti nella Comunità internazionale sono animati dalla buona volontà di aiutare quella martoriata terra a trovare, nonostante i gravi ostacoli, la concordia, la giustizia e la sicurezza che da lungo tempo attende.
Vediamo Gesù nei volti dei bambini siriani, ancora segnati dalla guerra che ha insanguinato il Paese in questi anni. Possa l’amata Siria ritrovare finalmente il rispetto della dignità di ogni persona, attraverso un comune impegno a ricostruire il tessuto sociale indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Vediamo Gesù nei bambini dell’Iraq, ancora ferito e diviso dalle ostilità che lo hanno interessato negli ultimi quindici anni, e nei bambini dello Yemen, dove è in corso un conflitto in gran parte dimenticato, con profonde implicazioni umanitarie sulla popolazione che subisce la fame e il diffondersi di malattie.
Vediamo Gesù nei bambini dell’Africa, soprattutto in quelli che soffrono in Sud Sudan, in Somalia, in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centroafricana e in Nigeria.
Vediamo Gesù nei bambini di tutto il mondo dove la pace e la sicurezza sono minacciate dal pericolo di tensioni e nuovi conflitti. Preghiamo che nella penisola coreana si possano superare le contrapposizioni e accrescere la fiducia reciproca nell’interesse del mondo intero. A Gesù Bambino affidiamo il Venezuela perché possa riprendere un confronto sereno tra le diverse componenti sociali a beneficio di tutto l’amato popolo venezuelano. Vediamo Gesù nei bambini che, insieme alle loro famiglie, patiscono le violenze del conflitto in Ucraina e le sue gravi ripercussioni umanitarie e preghiamo perché il Signore conceda al più presto la pace a quel caro Paese.
Vediamo Gesù nei bambini i cui genitori non hanno un lavoro e faticano a offrire ai figli un avvenire sicuro e sereno. E in quelli a cui è stata rubata l’infanzia, obbligati a lavorare fin da piccoli o arruolati come soldati da mercenari senza scrupoli.
Vediamo Gesù nei molti bambini costretti a lasciare i propri Paesi, a viaggiare da soli in condizioni disumane, facile preda dei trafficanti di esseri umani. Attraverso i loro occhi vediamo il dramma di tanti migranti forzati che mettono a rischio perfino la vita per affrontare viaggi estenuanti che talvolta finiscono in tragedia. Rivedo Gesù nei bambini che ho incontrato durante il mio ultimo viaggio in Myanmar e Bangladesh, e auspico che la Comunità internazionale non cessi di adoperarsi perché la dignità delle minoranze presenti nella Regione sia adeguatamente tutelata. Gesù conosce bene il dolore di non essere accolto e la fatica di non avere un luogo dove poter poggiare il capo. Il nostro cuore non sia chiuso come lo furono le case di Betlemme.
Cari fratelli e sorelle, anche a noi è indicato il segno del Natale: «un bambino avvolto in fasce...» (Lc 2,12). Come la Vergine Maria e san Giuseppe, come i pastori di Betlemme, accogliamo nel Bambino Gesù l’amore di Dio fatto uomo per noi, e impegniamoci, con la sua grazia, a rendere il nostro mondo più umano, più degno dei bambini di oggi e di domani.
A voi, cari fratelli e sorelle, giunti da ogni parte del mondo in questa Piazza, e a quanti da diversi Paesi siete collegati attraverso la radio, la televisione e gli altri mezzi di comunicazione, rivolgo il mio cordiale augurio.
La nascita di Cristo Salvatore rinnovi i cuori, susciti il desiderio di costruire un futuro più fraterno e solidale, porti a tutti gioia e speranza. Buon Natale!
Articolo tratto da "La Santa sede", qui raggiungibile in originale
il manifesto
Sorprendentemente, nel suo emozionato discorso di circostanza, al momento dell’investitura a leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso ha tessuto l’elogio del termine radicale. E’ dunque una buona occasione per tornare a riflettere su questo aggettivo.
L’utilità immediata nasce dalla possibilità di chiarire una volta per tutte (si fa per dire) che radicale non significa estremista, settario, massimalista, come fa la grande stampa, interessata a mettere alla gogna quanti pensano alla politica come agente modificatore dei rapporti sociali. Nel lessico della sinistra esso ha ben più alto significato e più nobile origine. L’etimo storico risale al giovane Marx per il quale «essere radicale significa afferrare le cose alla radice».
DUNQUE SINONIMO di radicale non è estremista, ma profondo. Politica radicale è quella che guarda alle nascoste gerarchie di reddito e di potere su cui poggia l’intero edificio sociale. Essa non si limita alla gestione dell’esistente. Quest’ultima è la politica degradata ad amministrazione che ha svuotato la sinistra europea della sua tradizione e funzione storica. E’ il tran tran di gran parte delle nostre forze politiche, fiancheggiate dai grandi media, creatori di un sopramondo spettacolare in cui la finzione mercantile occulta abissi di iniquità reale.
CERTO NON MI SFUGGE che specie nei gruppi giovanili, nei movimenti, spesso alberga l’ingenua pretesa di trasformare in azione immediata l’ analisi radicale, di saltare la mediazione politica, la forma concertata di mutamento della realtà che tiene conto dei rapporti di forza in campo.
Oggi la sinistra o è radicale o non è. E in Italia è in grandissimo ritardo. I fenomeni sociali che avanzano da oltre un decennio sono di inaudita gravità. Mai nella storia contemporanea d’Europa e del mondo era accaduto che, per un periodo così lungo e per estese fasce sociali, le scelte delle classi dirigenti si traducessero in forme continuate e minacciose di retrocessione sociale. Il tempo portava avanzamento e benessere. Oggi gli anni avanzano portando per tanti strati di popolazione impoverimento e minacce di ulteriore regressione. La politica di austerità della Ue è da quasi 10 anni un fomite di violenza sociale. Da qui i cosiddetti populismi e i risorgenti fascismi. Essi nascono da un bisogno di radicalità dell’azione politica – cioè di efficacia di mutamento dell’azione dei partiti e dei governi – che la sinistra non assolve più.
Radicale , ma anche anticapitalistica. E’ scomparsa la parola capitalismo dal lessico della sinistra e pour cause. Il fondatore del Pd ha dichiarato sin dalle origini l’equidistanza tra imprenditori e operai. E come può essere di sinistra un partito che mette sullo stesso piano chi sfrutta e chi è sfruttato? Certo, non siamo nell’800, e nella nostra piccola e media impresa esistono anche generose figure di imprenditori. Ma siamo in una società capitalistica…
ANCHE IL TERMINE anticapitalistico ha bisogno di chiarimenti, di essere difeso da tentativi ideologici di criminalizzazione. Esso non allude a un progetto insurrezionale. Non ci sono più Palazzi d’Inverno da prendere d’assalto. Ma l’aggettivo possiede l’alto valore simbolico e ideale di mostrare un’alternativa generale alla miseria del presente. Dà senso e direzione all’azione politica, riscattandola dalla sua particolarità e proiettandola, in una tensione universalistica, verso la costruzione di un nuovo mondo possibile.
SI DIMENTICA SPESSO, allorché si tende ad annullare la distinzione tra destra e sinistra, che quest’ultima possiede un altro elemento di caratterizzazione, oltre agli altri ben noti: essa ha sempre accompagnato l’azione politica quotidiana con una elaborazione teorica sistematica, con l’analisi costante del modo di produzione capitalistico e delle sue trasformazioni. E’ la condizione non solo per dare efficacia operativa all’azione politica, ma anche per indicare una prospettiva di profonda alternativa al presente. Per tanti, soprattutto per coloro che hanno “voce,” il presente va bene così com’è. Per la vasta platea dei subalterni non è così. Per le nuove generazioni che si affacciano sotto il cielo della nostra epoca lo status quo è privo di futuro, ridotto ormai a qualche nuovo prodotto tecnologico gettato sul mercato.Il futuro è il prossimo smartphone lanciato dalla Apple. Ma una società incapace di alimentare il “sogno di una cosa “ incancrenisce, si dissolve nel deserto spirituale del nichilismo.
Potremmo dire che la cultura sia attualmente in una fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà individuale di scelta (volontariamente perseguita o sopportata in quanto obbligatoria) e concepita per servire tale libertà, per assicurarsi che tale scelta rimanga inevitabile - una necessità a vita, un dovere - e che la responsabilità, la compagna inalienabile della libera scelta, rimanga dove la modernità liquida l’ha costretta: sulle spalle dell’individuo, ora designato come il solo manager della "politica della vita".
La cultura di oggi è fatta di offerte, non di norme. Come aveva già notato Pierre Bourdieu, la cultura vive di seduzione, non di disciplina normativa, di pubbliche relazioni, non di elaborazione di politiche; essa crea nuovi bisogni/desideri/esigenze, non coercizione. Questa nostra società è una società di consumatori e, proprio come il resto del mondo visto e vissuto dai consumatori, la cultura si trasforma in un magazzino di prodotti concepiti per il consumo, ciascuno in competizione per spostare o attirare l’attenzione dei potenziali consumatori nella speranza di conquistarla e trattenerla un po’ più a lungo di un attimo fuggente.
Abbandonare standard rigidi, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti senza privilegiarne alcuno, incoraggiare l’irregolarità e la flessibilità - nome politicamente corretto della mancanza di spina dorsale - e rendere romantica la mancanza di stabilità e l’incoerenza è dunque la giusta (l’unica ragionevole?) strategia da seguire; essere meticolosi, inarcare le sopracciglia, stringere le labbra non sono raccomandati.
Il critico televisivo di una trasmissione ha lodato quotidianamente la programmazione del Capodanno 2007/8 per aver promesso «di fornire una gamma di intrattenimento musicale pensata per soddisfare i gusti di tutti». «L’aspetto positivo - ha spiegato - è che grazie al suo richiamo universale puoi immergerti e allontanarti dallo show secondo i tuoi gusti». Davvero una qualità allettante e gradevole in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, dove il gioco di collegare e distaccare e di un’infinita processione di connessioni e disconnessioni sostituisce il determinare e il fissare!
La fase attuale di progressiva trasformazione dell’idea di cultura, dalla sua forma originale ispirata dall’Illuminismo alla sua reincarnazione liquido-moderna, è spinta e attuata dalle stesse forze che promuovono l’emancipazione dei mercati dai residui vincoli di natura non economica, tra i quali i vincoli sociali, politici ed etici. Nel perseguire la propria emancipazione, l’economia incentrata sul consumatore liquido moderno si basa sull’eccesso delle offerte, il loro invecchiamento accelerato e la veloce dispersione del loro potere deduttivo, che, per inciso, la rende un’economia di dissipazione e spreco. Poiché non si sa in anticipo quale delle offerte si dimostrerà abbastanza allettante da stimolare il desiderio di consumare, l’unico modo per scoprirlo consiste in tentativi ed errori costosi.
Anche la continua domanda di nuovi beni e la crescita costante del volume dei beni in offerta sono necessari per mantenere rapida la circolazione di beni ed il desiderio di sostituirli con beni nuovi e costantemente aggiornati, come pure per impedire che la disaffezione del consumatore rispetto a beni specifici si coaguli in una generale disaffezione verso lo stile di vita consumistico in quanto tale.
La cultura sta ora trasformandosi in uno dei reparti di quel grande magazzino dove è possibile reperire «tutto quello di cui hai bisogno e che potresti sognare» nel quale si è trasformato il mondo abitato da consumatori.
Come in altri reparti di quello stesso negozio, i ripiani sono stracolmi di beni riforniti quotidianamente, mentre le casse sono decorate con la pubblicità delle ultime offerte, destinate a scomparire presto insieme alle attrazioni che reclamizzano. Beni e pubblicità sono concepiti per stimolare e provocare il desiderio (come notoriamente ha detto George Steiner, «per il massimo impatto ed un’istantanea obsolescenza»). I loro mercanti e copywriters fanno affidamento sul matrimonio tra il potere seduttivo dell’offerta e il bisogno radicato di essere in vantaggio sugli altri dei loro potenziali clienti.
La cultura liquida moderna, diversamente da quella dell’epoca della costruzione delle nazioni, non ha gente da educare ma piuttosto clienti da sedurre. E, diversamente da quella "solido-moderna" che l’ha preceduta, non desidera più chiamarsi fuori del gioco a poco a poco, ma il prima possibile. Il suo obiettivo ora è rendere la propria sopravvivenza permanente, temporalizzando tutti gli aspetti della vita dei suoi ex pupilli, ora trasformati in suoi clienti.
A questo link potete vedere un’intervista di Wlodek Goldkorn a Zygmunt Bauman. È molto bella e vale come una buona lettura. Di seguito un breve commento, tratto da Artribune.
http://www.artribune.com/television/2015/04/quale-cultura-oggi-risponde-il-grande-zygmunt-bauman-al-museo-pecci-di-prato/
Uno sguardo più che autorevole, straordinariamente acuto e brillante, sulle dinamiche della contemporaneità e sul sistema della conoscenza. Si parla di cultura. Del senso e dei mutamenti che questa parola porta con sé e rivela, indicando la direzione. Il dialogo con Wlodek Goldkorn si apre proprio con una domanda profonda e definitiva: che significa, oggi, cultura? Chi ne indica le linee guida? Chi detiene il potere dell’informazione e della formazione? Chi orienta l’immaginario collettivo? Che ruolo hanno gli intellettuali e quanto contano i media?
Un’ora e mezza di suggestioni e riflessioni da elaborare con lentezza. “La cultura è qualcosa che si impara”, spiega Bauman. E se un tempo la “missione” degli uomini di cultura era quella di “innalzare il popolo dal buio dell’ignoranza”, sulle tracce di “verità, bontà e bellezza”, oggi tutto questo viene letto come obsoleto. Nessuna elevazione, nessuna missione, ma nemmeno nessuna distinzione sociale.
Alla fine del XX secolo, Pierre Bourdieu elabora il concetto di cultura come “distinzione”. Ovvero: la cultura che ogni gruppo sociale consuma è un tratto distintivo della propria appartenenza o collocazione sociale. Resistente a qualunque cambiamento e foriero di nette divisioni. Vent’anni dopo, la prospettiva cambia ancora: per far parte dell’elite culturale, secondo il sociologo americano Richard Peterson, non c’è da operare distinzioni, ma, al contrario, da attuare pratiche onnivore di consumo trasversale. Tutto, oggi, va ingurgitato, metabolizzato, conosciuto. Che resta l’unico modo per uscire dalla marginalità sociale. Leggere i classici e andare ai concerti pop: è così che si viene riconosciuti come cittadini “colti”. Annullata ogni distinzione tra cultura alta e cultura bassa, ogni grado di separazione tra attitudini, forme sociali, tradizioni, contesti, si procede nel segno della mescolanza e della prossimità.
Con un linguaggio semplice, un eloquio affascinante e una capacità preziosa di analisi e insieme di sintesi, Zygmunt Bauman, a partire da una prospettiva storica, ha regalato al pubblico del Pecci un excursus teorico attraverso la modernità e i suoi movimenti sottili o radicali. Da ascoltare senza pause, per provare a capire qualcosa di più intorno a ciò che siamo stati e che stiamo diventando, tra le mutevoli maglie delle relazioni sociali e delle infinite declinazioni culturali.
Un saggio tratto da M@gm@ vol. 12 n. 2 Maggio - Agosto 2014.
Dalla ricerca di una risposta normativa all’interesse per un multiculturalismo quotidiano
Il dibattito sulle possibili modalità di convivenza in una società sempre più caratterizzata da individui e gruppi che si riconoscono in tradizioni e preferenze culturali diversificate è stato spesso monopolizzato da preoccupazioni di carattere normativo, sia orientate all’assunzione di appropriate politiche di intervento a favore delle minoranze, sia orientate all’elaborazione di consistenti e coerenti teorie della giustizia in grado di ampliare il carattere democratico e plurale delle società liberali. Nel primo caso, a partire dall’assunzione di esplicite politiche multiculturali in Canada (1971), in Australia (1973) e in Svezia (1975), il dibattito multiculturale ha spesso favorito un’ampia produzione normativa nel campo dell’educazione, del lavoro, delle politiche abitative, della difesa di linguaggi e culture dei gruppi minoritari tese a promuovere pari opportunità ed evitare forme di discriminazione ed esclusione. Si è trattato del tentativo di rendere effettive politiche di riforma sociale orientate a colmare evidenti svantaggi educativi, occupazionali e, più in generale, di inserimento sociale di gruppi minoritari: nativi, immigrati e altre minoranze culturali discriminate. Nel secondo caso, il dibattito si è concentrato sulla capacità di elaborare principi generali da cui far discendere forme di governo della vita pubblica in grado di valorizzare positivamente la differenza culturale. La discussione si è focalizzata sul tema del riconoscimento (Taylor 1998; Honneth 2002) e delle modifiche che è necessario introdurre nell’ordine liberale per assicurare un’effettiva libertà individuale e una piena possibilità di partecipazione alla vita collettiva. I principi liberali classici, fortemente centrati sul riconoscimento di diritti individuali e su un esteso universalismo, vengono attaccati o rivisitati in modo da includere il riconoscimento dei diritti collettivi e dell’importanza delle differenze culturali (Kymlicka 1999; Habermas 1998; Benhabib 2005). Entrambi questi dibattiti hanno sviluppato deboli strumenti concettuali per mettere a tema il significato delle pratiche sociali interculturali; pratiche che divengono una condizione normale, banale e routinaria, dell’esperienza quotidiana, soprattutto in ambito urbano. Hanno frequentemente finito per favorire il proliferare di un «normativismo intempestivo [che] ha prodotto una sconsiderata linea politica, che rischia di congelare le differenze di gruppo esistenti» (Benhabib 2005: 8). Ciò ha spesso orientato il dibattito multiculturale verso un vicolo cieco, contrapponendo favorevoli e contrari alla ‘preservazione’ delle differenze culturali, considerate come essenze, eredità reificate, ‘bagagli’ ricevuti dal passato che ora è necessario conservare scevri da ogni mutamento, pena la perdita della propria identità e della capacità di riconoscersi come soggetti autonomi. Un orientamento che ha spesso appiattito il multiculturalismo a un impegno per la protezione delle differenze, favorendo isolamento e indifferenza piuttosto che confronto e integrazione tra prospettive e storie culturali diverse. Le critiche a queste forme di multiculturalismo che finiscono per congelare le differenze e promuovere una società a mosaico, in cui solide gabbie preservano le ‘culture’ esistenti solo perché rendono difficili scambio, dialogo e confronto reciproco, hanno portato a spostare l’attenzione dal piano normativo a quello esperienziale, indagando il senso che viene attribuito alla differenza culturale nelle interazioni quotidiane. Anche in questo caso, emerge la necessità di sperimentare un nuovo vocabolario per dare senso a nuove forme di esperienza. Cosmopolitismo (Breckenridge et al. 2002; Appiah 2007; Kendall et a. 2009), intercultura (Lentin 2005; Wood et al. 2006), multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007; Wise, Velayutham, S. 2009) non sono che alcuni dei termini introdotti per provare ad uscire dal cul-de-sac del multiculturalismo normativo.
L’emergere dell’interesse per la differenza
Al di là delle peculiarità delle diverse prospettive teoriche e analitiche, le diverse critiche al multiculturalismo normativo e istituzionale evidenziano l’importanza di un’analisi delle ‘pratiche’ e dei ‘significati’ attribuiti alla differenza culturale in un contesto di crescente globalizzazione.
La differenza e la cultura non vengono assunte come dati, come entità omogenee e coerenti, precisamente definite e stabili. Vengono, al contrario, indagate nella loro dimensione di costruzione sociale, risultato di pratiche di significazione che hanno come posta in gioco la definizione della realtà sociale: delle identità e delle appartenenze, dei luoghi e dei confini, delle modalità di distribuzione delle risorse e dei poteri.
Risulta ingenuo sostenere che il dibattito sul multiculturalismo emerga negli anni ’70 del secolo scorso come risposta (meccanica) a un aumento quantitativo della differenza. Altri momenti storici sono stati caratterizzati da situazioni di convivenza urbana in cui la differenza culturale ha costituito una realtà molto più evidente e drammatica di quanto non avvenga nelle metropoli occidentali
contemporanee. Basta pensare alle città nordamericane di fine ‘800 e inizio ‘900, così riccamente descritte dai sociologi della scuola di Chicago. Mentre la Chicago del 1880 ha poco più di 500.000 abitanti, nel 1920 il loro numero è più che quintuplicato. La Chicago di Al Capone è una grande metropoli caratterizzata dalla presenza di un’infinità di gruppi culturali diversi, che parlano lingue e professano religioni diverse, che tendono a vivere in zone etnicamente segregate e hanno occasioni di contatto che si manifestano soprattutto nella compe-tizione, nella concorrenza o nel conflitto violento. La pluralità culturale a New York, nello stesso periodo, è altrettanto evidente: vi si stampano quotidiani e riviste in 23 lingue diverse (Park, Burgess, McKenzie, 1938/1999) e sono presenti miriadi di chiese, congregazioni, sette religiose differenti. Nonostante l’evidenza e la rilevanza della questione della relazione con l’alterità, in questo contesto i temi della valorizzazione e del riconoscimento della differenza non emergono. Il pluralismo urbano viene letto attraverso il prisma ideologico del ‘melting pot’ e del ‘progresso’: la differenza culturale costituisce il punto di partenza, la materia prima con cui costruire un nuovo modello di uomo (la sottolineatura della caratterizza-zione di genere è voluta e rispecchia un ‘universalismo parziale’ che usa i termini dominanti per generalizzazioni ed esclusioni), più evoluto, più civile e moderno. Ma tale materia prima, piuttosto che conservata e valorizzata, deve essere ‘fusa’, rielaborata e infine superata se si vuole arrivare a forgiare ‘l’uomo nuovo’.
Il valore oggi attribuito alla differenza non è pienamente comprensibile senza prendere in considerazione la critica culturale che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, decostruisce i concetti di universalismo ed eguaglianza. I nuovi movimenti sociali elaborano una visione positiva della differenza: black is beautiful, black and proud, diverranno gli slogan dei movimenti per i diritti civili; una parte rilevante del movimento femminista elaborerà una raffinata critica dell’universalismo come imposizione del modello maschile; i movimenti studenteschi accuseranno l’eguaglianza di costringere entro schemi omologanti, repressivi, che ostacolano una piena espressione dell’individualità.
Un contributo significativo alla trasformazione del concetto di differenza viene inoltre dal movimento e dalla teoria post-coloniale (Chambers, Curti 1996; Hall 2000). In questa prospettiva, si elabora una stringente critica al modello dominante accusato di ‘togliere voce’ ai gruppi dominati e si sottolinea la necessità della rivendicazione del bisogno, da parte del colonizzato, di emancipazione dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici, emancipazione che può avvenire solo attraverso una riappropriazione della ‘differenza’ del colonizzato rispetto al colonizzatore (Fanon 1962; Spivak 1999). La prospettiva post-coloniale mette in discussione che il principio costitutivo dello Stato e dello spazio pubblico sia l’omogeneità culturale organizzata attorno a valori ‘universali’ declinati nei termini di un liberalismo individualista; valorizza, viceversa, una ‘eguaglianza nella differenza’ in cui la coesione sociale è garantita non dalla condivisione di un unico modello ma dal riconoscimento della irriducibile specificità dei diversi soggetti, dalla loro continua variabilità.
Come risultato del convergere di queste critiche e di queste pratiche, la differenza emerge come un ‘valore’, un elemento significativo che consente di contrastare l’egemonia del pensiero e del modello dominante e permette la piena espressione individuale.
La valorizzazione positiva della differenza è stata spesso declinata in due modi apparentemente contrastanti: da un lato, si è sottolineato il suo carattere ‘essenziale’; dall’altro, quello ‘processuale’. Nel primo caso, la differenza è percepita come una caratteristica ‘fondante’ l’identità. Un’essenza che costituisce il nucleo più profondo e autentico dell’esperienza individuale e collettiva, risultato della sedimentazione di una storia distinta. Una persona o un gruppo deprivati di questa specifica essenza, della loro specifica differenza, sono deprivati della possibilità di agire e di pensare autonomamente, secondo la loro più intima natura. Mostrare e vedersi adeguatamente riconosciuta la propria ‘differenza’ diviene un elemento impre-scindibile per partecipare con pari dignità nello spazio pubblico, un prerequisito per un’effettiva equità sociale. Il limite di questa posizione consiste nel rischio di considerare differenza e cultura come oggetti sacri, che è necessario preservare da ogni ulteriore trasformazione. Differenza e cultura finiscono per essere congelati in un presente eterno che considera privazione e abiezione ogni modifica, che evita forme di dialogo e di confronto per sfuggire il rischio del ‘contagio’ e del ‘degrado’. Nel secondo caso prevale la critica al normativismo del modello dominante e la differenza viene concepita come possibilità di continua variazione, miscelazione; come opportunità di posizionamento sul margine e nelle zone interstiziali, dove è più facile resistere al potere ed esercitare la critica. La creazione continua di ibridi viene considerata essere la condizione normale di esistenza della cultura e della differenza e viene salutata come un processo sempre positivo, una trasgressione creativa, un’emancipazione dal dominio della maggioranza e del pensare-come il-solito. Il limite di questa prospettiva risiede nella difficoltà di sottoporre a critica le condizioni di formazione degli ibridi, non riconoscendo che i processi di miscelazione e trasfor-mazione possano legarsi a violenza e alienazione, possano essere il risultato di rapporti asimmetrici di potere e generare nuove barriere e nuove disparità (Anthias 2001). Rischia inoltre di banalizzare l’idea che differenza e cultura siano costruzioni sociali evidenziandone eccessivamente il carattere mobile, instabile, continuamente sottoposto a revisione e mutamento. Trascura così l’altro fondamentale aspetto di ogni costruzione sociale: essa risulta efficace quando si impone come ‘fatto’ sociale, si presenta come evidente e produce effetti concreti. Un’enfasi sulla dimensione processuale rischia di non saper cogliere come differenze e culture siano spesso percepite come elementi ‘reali’ e come individui e gruppi siano disposti a lottare per rivendicarne riconoscimento e rispetto.
Multiculturalismo quotidiano
Le concettualizzazioni normative e filosofiche del multiculturalismo – che pure aiutano a mettere a tema la questione dell’eguaglianza delle opportunità e della partecipazione in società in cui la differenza culturale è valorizzata – esauriscono spesso le loro potenzialità in una visone idealistica, interessata a indicare come le cose ‘dovrebbero’ essere, e sottovalutano le dinamiche, le tensioni e I significati associati alla relazione con la differenza come pratica vissuta, come esperienza quotidiana.
Per cogliere la rilevanza assunta dalla differenza in un mondo globale, è utile spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane e analizzare come la differenza e la cultura sono utilizzate nelle interazioni sociali, da chi, in quali contesti, per quali scopi e con quali risultati. L’interesse per la dimensione empirica – vissuta, dotata di senso – del multiculturalismo, una dimensione più complessa di quanto riducibile alla dimensione etico-filosofica di giustizia sociale – necessariamente normativa e quindi riduttiva – restituisce l’ampiezza delle possibilità di azione e di costruzione di senso ma non trascura le condizioni contestuali – ‘locali’ – e i vincoli strutturali in cui tale azione è possibile e assume il suo senso specifico.
Nella sua dimensione pratica, il multicul-turalismo – che potremmo ri-definire come multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007) – consente di mettere a tema diversi aspetti che rimangono occultati o in secondo piano nella dimensione normativo-filosofica. Innanzitutto, emerge il carattere ambivalente della differenza: risultato della continua produzione di distinzioni e confini entro discorsi e condizioni non sempre pienamente manipolabili dai soggetti. La differenza assume il carattere di un elemento indispensabile e costitutivo del continuo e necessario processo di attribuzione di senso alla realtà sociale, ma le condizioni del suo utilizzo e il materiale di cui è composta non sono necessariamente risultato di libere scelte. La differenza risulta, contemporaneamente, ‘conferita’ – dalle categorizzazioni e dalle tipizzazioni imposte dale condizioni contestuali, dal discorso mediatico e da quello politico – e ‘prodotta’ – dalle azioni di distinzione e di esclusione, dalla traduzione del discorso egemonico nel linguaggio vernacolare utile per affrontare esigenze pratiche situate.
Il riconoscimento dell’ambivalenza della differenza – sia vincolo, quando imposta al di là della volontà e degli interessi degli attori, sia risorsa, quando mezzo per distinguere e distinguersi, per vedersi riconosciuti e per escludere – consente di superare la distinzione tra differenza come ‘essenza’ e differenza come ‘processo’. Se ne sottolinea, da un lato, il carattere di costruzione sociale: non il semplice ‘riconoscimento’ di differenze esistenti, ben definite e stabili, ma il risultato del costante processo di significazione connesso alla costruzione di distinzioni e confini. Dall’altro, se ne evidenzia il carattere fattuale: una significazione e una distinzione sono efficaci quando sono ‘naturalizzate’, quando sono trasformate in dati-di-fatto, in istituzioni e reificazioni e, così, sottratte alla contestazione o al dubbio sulla loro ‘realtà’.
Nell’interazione quotidiana i soggetti mostrano una duplice competenza culturale (Baumann 1996): sono in grado di trattare la differenza come un’essenza per dare forza alle proprie azioni e significazioni (o semplicemente riproducendo i discorsi egemonici) e di considerarla relativa e flessibile per contestare etichette esterne sfavorevoli o per rivendicare riconoscimenti e inclusioni. Passare da un registro retorico all’altro non è causa di confusione o segno di contraddizione; al contrario, risulta essere una capacità indispensabile per far fronte a situazioni complesse e mutevoli. Più che essere caratterizzati dal possedere una cultura e una differenza, i soggetti risultano caratterizzati dalle loro capacità di utilizzare cultura e differenze per dare senso alle loro esperienze quotidiane. L’attenzione alle pratiche multiculturali quotidiane consente, inoltre, di considerare come la capacità/possibilità di utilizzo della differenza sia inevitabilmente connessa alla dimensione del potere. La differenza non è sempre e solo prodotto delle strategie e delle tattiche personali; in molti casi risulta imposta, e non è detto che persone e gruppi amino la differenza che è loro attribuita. La posta in gioco della produzione (e della relativa decostruzione) di differenze è la definizione della realtà sociale, una definizione che – producendo confini che classificano, includono ed escludono – privilegia inevitabilmente alcuni soggetti e alcune posizioni a scapito di altre. La produzione sociale della differenza è sempre anche una battaglia per privilegi sociali, per produrre, resistere o demolire etichette negative. Il multiculturalismo quotidiano non riguarda solo positive situazioni di comunicazione interculturale, ma anche i conflitti e le frizioni che emergono nel costante tentativo di distinguere e di distinguersi. Alcuni soggetti e alcuni gruppi occupano posizioni più favorevoli per rendere egemonica la propria differenza e attribuire ad altri differenze negative e degradanti. «Un importante aspetto dell’attenzione alle pratiche di multiculturalismo quotidiano consiste nel riconoscere che le società multiculturali contemporanee non sono la semplice collezione di “differenze eguali”, ma riflettono le relazioni di potere che hanno forgiato le storie nazionali e i flussi globali di individui e gruppi» (Harris 2009: 191). L’analisi delle relazioni multiculturali quotidiane non si esaurisce dunque nell’osservazione degli ‘incontri’, dei ‘dialoghi’ interculturali, ma interroga anche la genesi e le pratiche di legittimazione delle gerarchie esistenti. Non riguarda solo le ‘minoranze’, ma analizza come i gruppi dominanti costruiscono e mantengono le loro posizioni di privilegio, come pregiudizio e razzismo sono spesso parte della cassetta degli attrezzi del gruppo dominante per costituirsi come egemonico e unitario. Riconoscere una differenza può anche essere un mezzo per definire una barriera, per legittimare un’esclusione, per segnare una distanza, per definire se stessi in negativo, per contrapposizione. Può servire per creare un nemico esterno che catalizza la formazione di maggiore solidarietà e riconoscimento interno. L’attenzione all’uso quotidiano della differenza consente, infine, di evidenziare come, in un contesto di crescente globalizzazione, saper coniugare particolare e universale, differenza e eguaglianza, reificazione e relativismo costituiscano risorse relazionali fondamentali: la capacità di mediare e di utilizzare opzioni apparentemente opposte risulta garantire più opportunità rispetto a scelte definitive e radicali per un’unica opzione. In situazioni di variabilità, complessità e incertezza, la differenza costituisce un’importante risorsa politica: consente di costruire o demolire confini che potrebbero favorire od ostacolare le opportunità, la partecipazione, il riconoscimento, la realizzazione personale. In un contesto di crescente globalizzazione, passare da un contesto all’altro – in cui valgono regole diverse e ci sono interlocutori e pubblici diversi – diviene un’esperienza comune e inevitabile. Essere riconosciuti – cioè essere ‘individuati’ come caratterizzati da una qualche specifica ‘differenza’ – diviene un elemento cruciale: può consentire accesso e visibilità, ma può anche essere motivo di esclusione e discriminazione. Saper evidenziare la ‘giusta’ differenza nel giusto contesto risulta essere una risorsa importante – soprattutto per le nuove generazioni – per giocare al meglio le proprie carte e sfruttare le occasioni possibili nei diversi contesti. Vedersi imbrigliati in un’unica differenza, in un’unica appartenenza, riduce le possibilità perché rende più difficile il movimento, l’attraversamento dei confini, lo spostarsi da un contesto all’altro. Mostrare, rivendicare od occultare la differenza in base alle specifiche aspettative dei diversi contesti costituisce un sapere pratico che riduce il rischio di essere bloccati sulla soglia, di essere considerati intrusi, stranieri, di essere discriminati ed esclusi.