«In un capitalismo che ha distrutto la forza politica
della classe operaia, i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie.
Dobbiamo quindi immaginare
una lotta di classe che
si faccia carico della
sofferenza alimentata
dalla crescita
delle diseguaglianze». Intervista di Gigi Roggero.
Commonware, 16 Settembre 2014
Un secolo e mezzo fa Marx scriveva che non ci sono crisi permanenti, ma quella che oggi stiamo vivendo sembra averne le caratteristiche. Arrivati al suo ottavo anno, proviamo con Christian Marazzi a farne una periodizzazione, ad approfondire, mettere a verifica ed eventualmente ripensare le analisi che abbiamo fatto a partire dal 2007-2008. Ora qualcuno parla di una fase “post-austerity”: cominciamo con il capire se è davvero così e cosa questa fase significa realmente.
«Siamo nuovamente in una situazione in cui si addensano una serie di elementi di forte crisi, sicuramente nella zona euro ma anche su scala globale. Ciò avviene dopo un periodo durante il quale le politiche monetarie delle grandi banche centrali come la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e la banca centrale giapponese, con forte iniezione di liquidità, avevano in qualche modo attenuato gli elementi strutturali della crisi. Questa era giunta al suo apice alla fine del 2011 in Europa e aveva registrato la svolta di Draghi con l’iniezione di 1.000 miliardi di euro nel sistema bancario, con la speranza o l’obiettivo di rilanciare il credito privato, sia alle imprese che alle famiglie.
«Oggi ci sono di nuovo tutti i presupposti per una fase turbolenta. Anche i maggiori analisti sono molto scettici rispetto all’ennesimo tentativo da parte del presidente della Banca Centrale Europea di far fronte ai grossi problemi che hanno una natura strutturale con una riedizione su scala europea di strategie monetarie basate sull’inondare il sistema bancario nei prossimi quattro anni con un credito che dovrebbe essere destinato alle economie domestiche e alle imprese e con una sorta di quantitative easing in versione europea per affrontare la deflazione. C’è scetticismo perché la domanda non tira: quindi, si può anche avere del credito a tassi di interesse pressoché nulli, ma se le imprese non si rivolgono alle banche perché non prevedono un rilancio della domanda di beni e servizi non creano occupazione. Genera perciò molti dubbi il tentativo di americanizzare la politica monetaria in Europa, soprattutto guardando a quelli che sono stati gli effetti delle politiche monetarie fortemente espansive negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone; ancora si dibatte sul ruolo che ha avuto l’azione della Federal Reserve nel resistere alla recessione, con tassi di crescita superiori a quelli europei e anche a quelli giapponesi. C’è dunque scetticismo sulla possibilità di fare quella politica monetaria che i governi, per motivi diversi, non vogliono fare.
«Ci sono per esempio le premesse per la riapertura del dibattito sui destini dell’euro, che pensavamo di avere rimosso e che invece si ripresenta grosso modo negli stessi termini. L’euro è una moneta che regge la crescita ma non la crisi. Più o meno funziona, come è stato negli anni dopo Maastricht, quando c’è uno sbocco per il credito agevolato, il più delle volte in termini di bolle speculative o immobiliari, ma quando entra in zona tensione come adesso riemergono tutte le sue debolezze. Ciò soprattutto in una fase in cui all’interno dell’Unione Europea non ci sono ancora un consenso e soprattutto una forza politica sufficienti per far fronte alla Germania e alla politica di austerità che continuamente impone, anche per ragioni molto autoreferenziali, in particolare per l’esposizione delle banche tedesche rispetto al debito sovrano di paesi fragili. Infatti, qualora i paesi del Sud non dovessero portare avanti tagli alla spesa pubblica, misure di ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e di contenimento delle pensioni, non potrebbero ripagare le banche tedesche».
«Mi sembra allora che siamo in una situazione in cui ci sono tutti gli elementi che portano da una parte a riaprire la questione dell’euro, dall’altra al problema politico che già abbiamo visto di un forte spostamento a destra su scala europea. La sinistra mostra invece di essere ampiamente inadeguata sulle grandi questioni, per esempio su quanta sovranità verrà erosa ai paesi membri nella prossima fase, oppure in che modo si riuscirà a rispondere alla tendenza dei movimenti di destra e di estrema destra che cavalcano gli effetti dell’austerità per ripristinare un concetto di democrazia su scala nazionale. Il quadro ovviamente è fortemente aggravato dalle tensioni geopolitiche che stiamo attraversando. Checché se ne dica, quello che sta succedendo in Ucraina ha degli effetti sull’economia tedesca: anche se non sono statisticamente rilevanti, è un ulteriore peggioramento del cosiddetto clima di fiducia rispetto al futuro e alla possibilità di investimento della classe imprenditoriale. Lo stesso dicasi della situazione in Medio Oriente. È anche vero che la crisi della zona euro ha a che fare con delle tendenze di fondo che avevamo già evidenziato: per esempio il fatto che la Germania sia orientata verso la Cina, la Russia e i Brics, mentre il suo interscambio con il resto dell’Europa sta diminuendo. È dunque chiaro che questa miscela tra lo sguardo verso oriente dell’economia tedesca e la situazione geopolitica è piuttosto esplosiva. Io continuo a credere che per la Germania l’Europa sia un fardello di cui in futuro, chissà, potrebbe cercare di liberarsi. Ovviamente sono tendenze a lungo termine, però dentro a questo quadro le tensioni continuano ad accumularsi, anche all’interno della stessa Germania, per non parlare di quello che sta succedendo tra i paesi membri, in particolare l’Italia e la Francia, che non sono in grado di scalfire l’egemonia tedesca.
«Tutto ciò per dire che siamo di nuovo a un punto di inizio di una fase di crisi che però è peggio di un punto zero, perché nel frattempo gli effetti dell’austerità, in particolare la deflazione, si stanno facendo sentire molto pesantemente, quindi ne vedremo delle belle nei prossimi tempi».
Il nodo dell’Europa resta irrisolto, nel frattempo procede la sua implosione, o quantomeno l’estrema frammentazione. Draghi sostiene che è arrivato il momento in cui i paesi della zona euro cedano sovranità all’Europa per le riforme strutturali, proponendo uno scambio tra flessibilità sui conti e riforme. Ciò alimenta ulteriormente la reazione sovranista, ma al contempo pone seri problemi a una prospettiva europeista che non prenda atto di ciò che oggi l’Unione Europea è: un mostro, come l’hai definita l’anno passato. Come vanno ricalibrate le prospettive politiche rispetto a questo nodo?
«Lo manterrei irrisolto. Nemmeno dal punto di vista del peso della destra nel Parlamento europeo, per quello che può contare, si vede una forza sufficiente per frenare, condizionare o ri-orientarequesto tipo di crisi permanente. La Bce ci sta provando, quella che si può definire una svolta americana nella politica monetaria europea guidata da Draghi contrasta con le idee e gli obiettivi di una Bundesbank. Fino a qualche mese si poteva usare la formula ‘una vecchia tattica per una nuova strategia’, per evitare di cadere nella trappola tra l’uscita dall’euro secondo un approccio basato sulla sovranità monetaria nazionale oppure un sostegno all’euro così com’é. Noi avevamo buttato lì l’idea della moneta del comune, per evitare di essere strozzati dentro questa alternativa che aveva in entrambi i casi qualcosa di pericoloso. Mi domando infatti come possa essere immaginata una sovranità monetaria nazionale oggi, anche in una sua declinazione di sinistra, con delle monete nazionali legate tra di loro da tassi fissi ma aggiustabili, con un euro sovranazionale. Bisogna però riconoscere che finora la moneta del comune resta una prospettiva tutta da costruire anche teoricamente. Per il momento mi sembra che sia stata intesa nei movimenti più che altro nei termini di monete sub-sovrane e parallele; per quanto siano cose sperimentalmente interessanti, siamo però ben lontani da una costruzione teorico-politica tale da rendere l’idea della moneta del comune qualcosa di operativo o comunque di agibile, capace cioè di aggregare forze, consensi, alleanze. Insomma, resta un capitolo da scrivere: da salvaguardare è tuttavia l’intento politico, cioè da una parte porre un’istanza di redistribuzione della ricchezza, dall’altra fare in modo che questa istanza abbia una valenza sovranazionale in termini di definizione di diritti e di spazi di democrazia. Ciò rimanda alla questione dell’organizzazione e delle sue forme, su cui poi vale la pena ritornare»
Nello scenario che hai delineato che peso ha il T-tip, l’accordo tra Europa e Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti hanno fatto dei passi in avanti con questi accordi di libero scambio e ciò li mette in una condizione di egemonia rispetto all’Europa. D’altronde gli Stati Uniti sono ancora detentori del dollaro che, per quanto sia diminuito il suo ruolo come valuta di riserva, resta però ancora la moneta che decide dei flussi su scala mondiale, soprattutto in una fase di crisi. Il tentativo degli Stati Uniti è di uscire dal quantitative easing nei prossimi mesi, e non è detto che necessariamente ciò comporti un aumento dei tassi di interesse; potrebbe darsi che l’acquisto di buoni del tesoro e di obbligazioni cartolarizzate venga effettuato a svantaggio dell’Europa, cioè con flussi di capitale che vanno dal vecchio continente agli Stati Uniti. Ciò potrebbe sì favorire l’Europa dal punto di vista dei tassi di cambio: una delle cose previste dalla maggioranza degli analisti è una svalutazione dell’euro, dovuta sia alle politiche monetarie espansive della Bce, sia a questi flussi verso l’area del dollaro. Significherebbe però che l’economia potrebbe crescere nella crisi in termini di esportazione, come è successo soprattutto alla Spagna: non è dunque di per sé una buona notizia, perché si tratta di forme di crescita in cui si possono avere dei tassi di povertà e disoccupazione molto elevati e allo stesso tempo, o meglio proprio per questo, un aumento di esportazioni che sarebbero più competitive sul piano sia dei costi che dei tassi di cambio. Tutti capiscono che c’è un problema di domanda, quindi di salari e di distribuzione della ricchezza. Le ineguaglianze sono cresciute mostruosamente, prova ne è – anche dal punto di vista mediatico ma non solo – il successo del libro di Piketty. Tuttavia, se da una parte si vede questa carenza di domanda, dall’altra ci sono dei problemi che rendono terribilmente difficile immaginare (al di là delle forme trite e ritrite del vecchio keynesismo, del rilancio delle spese infrastrutturali e degli investimenti pubblici) come si possa effettivamente rilanciare la domanda interna.
«Credo che qua il capitale stia subendo una sua nemesi storica. Ha distrutto la classe operaia fordista, questo è il miracolo che gli è riuscito; però, il capitale è per definizione, in termini marxiani, un rapporto sociale, quindi distruggere la classe operaia ha significato distruggere quella dinamica che è legata all’essenza stessa del capitale, appunto il suo essere un rapporto sociale, quello che gli permette di crescere. In un certo senso, quindi, la vittoria sulla classe operaia ha avuto e sta avendo un effetto negativo per il capitale stesso, che certo persegue anche dal punto di vista ideologico la sua lotta per l’attacco ai salari e alla stabilità occupazionale, però si ritrova nella forte difficoltà a perseguire degli obiettivi che farebbero il suo stesso interesse, come una più equa distribuzione della ricchezza. Uno dei problemi centrali delle politiche monetarie è certamente legato alla trappola di liquidità, cioè il fatto che se il cavallo non beve si può anche abbassare il tiro dei tassi di interesse, ma non si ha una ripresa dell’economia e del credito, incorrendo nel rischio di avvilupparsi. «Credo però che il problema sia ancora più radicale: quando il capitale ha distrutto la classe operaia così come l’abbiamo conosciuta, soprattutto l’ha distrutta attraverso la desalarizzazione, la decontrattualizzazione e le misure capillari di precarizzazione del lavoro, si è privato della possibilità stessa non tanto di creare la liquidità, ma di integrarla nel circuito economico. Il denaro viene creato per monetizzare i salari; nel momento in cui i salari non ci sono più nella forma della contrattazione e dell’ubicazione della classe operaia, si aprono le porte a un’integrazione della liquidità che va da tutte le parti, che crea rendite e reddito non nella forma di leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, molto concentrata nelle classi alte, il famoso 1% più ricco, incapace di sgocciolare verso il basso. C’è quindi un problema serio creato dalla distruzione dell’istituzione del salario, che rende la politica monetaria destinata ad alimentare la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza verso l’alto. In questo senso il problema è strutturale»
Possiamo quindi dire che l’esplosione della forma-salario come misura di un rapporto sociale fondato sull’antagonismo è un problema tanto per le lotte quanto per il capitale...
«Esatto. Non è consolatorio dire che questa è una forma di vendetta della classe operaia fordista; però, non solo noi siamo orfani delle logiche del movimento operaio, ma il capitale stesso si è privato di un soggetto con il quale fare luce e creare sapere sulla possibilità di produzione di ricchezza. Nel ‘Poscritto’ a Operai e capitale, Tronti scriveva che quello che aveva portato alla grande crisi del ’29 era stato il silenzio operaio nel corso degli anni ’20. La mancanza di lotte opacizza anche la possibilità di sviluppare dei sentieri di crescita che siano capaci di creare società. Negli anni ’30 i primi esperimenti di stato sociale, ancora insufficienti, avevano indicato una strada verso il welfare state; oggi questo non c’è. La centralità odierna della geopolitica riflette l’affannata ricerca di interlocutori su un piano globale e non locale; questo però non basta, perché se tutti i paesi sono in crisi o non riescono a trovare delle modalità di crescita, ciò non fa che acuire le tensioni e le contraddizioni geopolitiche. Credo quindi che si tratti di una questione molto profonda: pone a tutti noi, che stiamo dalla parte del proletariato e dei soggetti della crisi, il problema di quale possa essere un modo di ricostruire un terreno sul quale la lotta degli uni sia anche la lotta degli altri. Ciò ovviamente senza tornare al rapporto salariale, che è sempre stato un rapporto capitalistico, per quanto al suo interno ci fosse la dimensione dell’antagonismo e della conflittualità. Siamo di fronte al problema di definire una lotta di classe post-salariale. Certo, ci sono stati e ci sono dei tentativi e delle rivendicazioni condivisibili sul reddito che pongono il problema della ridefinizione di un terreno di contrattazione in cui si possano aggregare dei soggetti che un salario non sanno nemmeno cosa sia, che conoscono una remunerazione puntuale ma non qualcosa che abbia un futuro e un percorso. La forza della relazione salariale era infatti di comprendere la vita nella sua interezza, dalla formazione dei figli alla vita attiva fino al pensionamento; oggi questa consequenzialità non c’è più. Forse molti esperimenti (tra cui le monete parallele, o quelli di cui parla il libro di Rifkin sulla società della condivisione) sono materia per poter cominciare a elaborare delle strategie. Da questo punto di vista, quella che chiamiamo organizzazione politica è allo stesso tempo un’organizzazione che produce questo terreno dell’aggregazione e della condivisione, senza un prima e senza un dopo, ma in una dimensione di contemporaneità tra lotta politica e lotta per la costruzione di tessuti e spazi condivisi».
La definizione di un campo di lotta post-salariale è una questione centrale. La prospettiva del reddito è importante, ma va incarnata in terreni concreti. Uno di questi può forse essere quello della fiscalità e delle tasse, portato in primo piano da movimenti come quello del 9 dicembre che hanno quelle caratteristiche ambivalenti e spurie che tu qualche tempo fa avevi individuato come connotazioni prevalenti e inevitabili delle lotte dentro la crisi. Cosa ne pensi?
«È una questione grande e inaggirabile. In molti paesi si è cercato di far fronte ai problemi della spesa pubblica e della gestione del debito sovrano attraverso una fiscalità incrementale, che però impatta in modo iniquo. Si pensi per esempio alla distribuzione patrimoniale: appena si toccano le aliquote sul patrimonio si colpiscono soprattutto i ceti più deboli, per quanto si parli di evasione fiscale. Da una parte penso che vada affrontata la questione della fiscalità come migliore equità, dall’altra mi sembra che ci sia un problema di rappresentanza: c’è il vecchio slogan ‘no taxation without representation’, che si potrebbe anche invertire in ‘no representation without taxation’, nel senso che l’evasione fiscale è un fatto gigantesco, ovviamente facilitato dalla globalizzazione, e va riportato alla questione dei beni comuni. Il libro della Mazzucato Lo stato innovatore pone a suo modo la questione di quanto denaro pubblico sia stato investito nella ricerca di base e di quanto sia stato appropriato privatamente, con tutti i risultati, le scoperte e le innovazioni finanziate da noi, dalla collettività. Si pensi al funzionamento di Apple e delle grandi corporation della nuova economia. Riuscire a ristabilire un ordine fiscale che abbia al suo centro ciò che di comune c’è nella crescita e nell’innovazione è un criterio per affrontare la questione fiscale».
Come dici tu la questione è enorme. C’è un discorso classico della sinistra contro l’evasione fiscale; oggi però dobbiamo chiederci cosa la fiscalità e le tasse significhino per le nuove figure del lavoro e per i soggetti colpiti dalla crisi, per i lavoratori autonomi di seconda ma anche di prima generazione, per i ceti medi impoveriti, per chi cerca di sbarcare un lunario con qualche attività più o meno improbabile, fino ad arrivare alle imposte comunali che costituiscono un prelievo forzoso sui servizi alla collettività, sul cosiddetto “diritto alla città”. Il rifiuto delle tasse può in questo senso essere agito e diventare uno dei terreni di lotta post-salariale?
«Già qualche tempo fa, come dicevi, abbiamo parlato della natura di questi movimenti, che è molto difficile definire in un senso o nell’altro. Mi ricordo per esempio una serie di analisi fatte sulla composizione sociale del movimento dei ‘forconi’. Rientra in quanto dicevamo prima: in che misura riusciamo effettivamente a dare corpo a questa moltitudine, in quanto soggetti plurali che non si lasciano comprimere o ridurre alla sintesi, che restano tanti in quanto tanti e che però sono accomunati dalla possibilità stessa di sopravvivere. Ciò attraversa una serie di ambiti, si pensi alla speculazione immobiliare che espelle gente dai quartieri per svuotarli e lasciare spazio alle iniziative dei privati. Oppure si pensi al ruolo delle tasse che sono delle forme di rendita dello Stato».
Anche perché dobbiamo porci il problema di non lasciare le lotte contro le tasse, in quanto rendita dello Stato appunto, alla destra o nel caso italiano alla Lega, per farne un terreno di conflitto comune dei soggetti della crisi...
«Concordo. È delicato, però credo sia giusto cominciare a porre oggi la questione dell’organizzazione: non per fare chissà quali salti in avanti, ma è un modo per affrontare tutte queste istanze nei termini di un agire politico che renda conto della deflagrazione sociale. È un passaggio obbligato dei prossimi anni. Dobbiamo iniziare a pensare all’organizzazione militante e politica da una parte in termini di condivisione, dall’altra come costruzione paziente di terreni di alleanze e anche di linguaggi che ci permettano di capire e interloquire con questi soggetti della crisi, non necessariamente nuovi. È la questione che ci sta davanti».
Il che è stato uno degli elementi che ha consentito al ciclo di lotte di Occupy una capacità espansiva...
«Bisogna riuscire a distillare da queste grandi esperienze recenti qualcosa che permetta di andare al di là della loro apparente orizzontalità. È vero, dal 2011 in poi sembra che questi movimenti non si siano posti il problema di una verticalizzazione delle mobilitazioni, però bisogna stare attenti: in questa orizzontalità c’è anche molta profondità, ed è la cosa che va ripresa e tesaurizzata politicamente. I movimenti esplodono, pongono delle questioni, hanno una loro esemplarità, però non tengono in eterno, sono destinati a ritornare sottotraccia. E tuttavia, cosa c’è dopo e cosa hanno sedimentato? A me sembra che sia proprio questo consolidamento del comune concreto e di soggetti del comune che permettono di far fronte alla sofferenza, alla solitudine, all’isolamento, a tutto ciò che rende le aspettative decrescenti qualcosa di insopportabile».
Per concludere, ritorniamo allo scenario geopolitico e alle crescenti contraddizioni che hai individuato. Pensiamo, per citare un’ulteriore fonte di grande apprensione in Occidente, alla scelta dei Brics di creare la propria istituzione finanziaria, la New Development Bank. Nel frattempo, tra Ucraina, Siria e Iraq la guerra torna al centro della scena, insieme all’ennesima aggressione militare di Israele contro i palestinesi. La guerra, nelle forme parzialmente nuove che ha assunto, ridiventa così per il capitale un modello per affrontare la crisi globale e regolare i conti geopolitici?
«Qualche settimana fa il papa ha detto che è iniziata la terza guerra mondiale: non so se abbia ragione nel formularla in questi termini, ma indubbiamente c’è qualcosa che va in quella direzione. L’impressione è che ci sia una volontà di destabilizzazione da parte dei poteri forti. Senza cadere in una dimensione cospirativa, va detto che ciò è anche la conseguenza di un’economia finanziarizzata, che riduce per esempio il volume del commercio mondiale, creando quindi delle istanze neo-protezionistiche e contribuendo a esacerbare delle tensioni esplosive e molteplici, che hanno a che fare con questioni etniche o religiose, oltre che economiche e politiche. C’è in questo senso un precedente storico: sono i vent’anni che hanno preceduto la prima guerra mondiale. Dopo la crisi degli anni ’90 dell’800, le tensioni hanno portato le economie mondiali allo scoppio della guerra come sbocco, con i primi tentativi di keynesismo ante litteram per rilanciare l’economia a fronte dei problemi del commercio internazionale, attraverso il riarmo e questo tipo di investimenti pubblici. Sono solo esempi, che però non vanno sottovalutati. La tensione è fortissima, ci sarà di nuovo la questione della pace che rispunterà, anche se al momento tutto sembra tacere, ma non vedo come si possa non confrontarsi con questo scenario che è molto inquietante».
«Chiude l'ultimo baluardo di un glorioso passato industriale. Si chiude un’epoca, un declino spaventoso figlio di scelte industriali scellerate e lotte di potere sulle spalle di un colosso sano».
Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2014 (m.p.r.)
Arnad è l'ultima tappa di un percorso trentennale. Martedì scorso lo stabilimento della controllata Olivetti I-Jet, l’unico rimasto in Italia, ha annunciato che entro fine mese chiuderà l’ultima delle sue produzioni ancora operative: le testine a impatto utilizzate per le stampanti ad aghi, una tecnologia brevettata dallo storico marchio di Ivrea. Tutto finito. La produzione verrà “esternalizzata”, con la promessa di ricollocare i 38 operai rimasti nelle aziende del canavese che hanno ereditato i brandelli del Gruppo, e da dove Olivetti è fuggita a metà degli anni 2000. Fino a giugno del 2012 – quando è stata messa in liquidazione – la società impiegava 162 lavoratori, in gran parte ricercatori e “solo” 50 operai. I bilanci sempre in perdita hanno costretto la controllante Telecom (comprata proprio da Olivetti ai tempi di Roberto Colaninno né è poi diventata il contenitore) a ripianare le perdite per quasi 100 milioni dal 2005. Due anni fa, la crisi definitiva. Telecom avvia la vendita dei pezzi pregiati, l’ultima a luglio scorso: cede agli svizzeri della Sicpa i settori Manufacturing e Silicon Production( 36 addetti). L’anno prima era toccato a “Ricerca e sviluppo” (43 dipendenti). Al culmine della produzione, Arnad sfornava 10 milioni di accessori (stampanti e fax) e impiegava 300 lavoratori. «Chiude l'ultimo baluardo di un glorioso passato industriale - spiega Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom a Torino e per anni responsabile della sezione di Ivrea - Si chiude un’epoca, un declino spaventoso figlio di scelte industriali scellerate e lotte di potere sulle spalle di un colosso sano».
Il deserto è nei numeri: negli anni ‘70 l'azienda di Ivrea impiegava quasi 70 mila lavoratori (40 mila in Italia), oggi ridotti a 682. La decisione di uscire dal mercato dell'elettronica (un “male da estirpare” secondo lo storico dirigente Fiat Vittorio Valletta) con la vendita nel 1964 di tutta la divisione alla General Electric e da quello dei personal computer (deciso nel 1997 dall'allora ad Carlo De Benedetti) ha azzoppato un’azienda che aveva sfornato oggetti di culto per il design e la tecnologia studiata nei suoi laboratori (quello Ricerche Elettroniche, per dire, nel 1965 partorì il primo Pc della storia, il P101, 12 anni prima di Steve Jobs): nel 1948 la macchina da scrivere Lexikon 80; nel 1950 la gloriosa Lettera 22; nel 1956 la calcolatrice Divisumma, disegnata da Marcello Nizzoli.
Pezzo dopo pezzo, però, i presidi industriali nati dalla vertiginosa crescita di fatturato della gestione di Adriano sono scomparsi. Gli storici stabilimenti di Pozzuoli (30 mila metri quadrati e 1.300 addetti) e Crema hanno chiuso i battenti oltre vent'anni fa. Nel Canavese, la ferita è più recente ma il segno lasciato profondo: degli impianti che davano lavoro a 25 mila addetti non è rimasto più nulla. Scarmagno, che ospitava la divisione computer (Opc) è stata abbandonata e non produce niente (ripara componenti per cellulari) mentre un incendio ha piegato la Telis, e le aziende che si erano accaparrate i resti della gigantesca struttura. A Ivrea le officine sono diventate un museo. L’ultimo a cadere è stato lo stabilimento di Agliè (400 dipendenti), chiuso nel 2004. Ad altri è toccata una sorte diversa, fatta di riconversione forzata, come lo stabilimento di Carsoli (Abruzzo), trasformato in un call center (sulla scia di quanto già sperimentato a Ivrea).
Per evitare il dissesto, negli ultimi anni Olivetti ha completamente cambiato pelle, specializzandosi in applicazioni mobili, dematerializzazione di documenti e servizi cloud. I registratori di cassa - l’ultimo settore dove è ancora leader - li produce in Cina. Nel 1999, Colaninno usò la cassa Olivetti per scalare Telecom, costringendo il gruppo a disfarsi dell’ultimo pezzo pregiato: la Omnitel-Infostrada (creata da De Benedetti), finita a Vodafone. Due anni prima fu proprio Omnitel ad aver avuto l’occasione di comprare il gruppo inglese. Ma l’opposizione di Colannino privò l’Italia della possibilità di avere il primo operatore di telefonia mobile del mondo. E di salvare la Olivetti.
Ma nel Mediterraneo ormai quasi ogni giorno muoiono centinaia di persone che all’Europa guardano con speranza, fuggendo dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria. I numeri impressionano, ma non sollecitano l’adempimento della promessa scritta nel Preambolo della Carta dei diritti, della quale Juncker ha parlato come di un riferimento obbligato per l’attività dell’Unione europea. Questa disattenzione fa sì che l’Unione stia diventando complice di un “omicidio di massa”, come giustamente l’Onu ha definito questa terribile e infinita vicenda. Siamo di fronte ad uno degli effetti, niente affatto “collaterali”, della riduzione della politica a calcolo economico e finanziario, alimentando gli egoismi nazionali e spegnendo ogni spirito di solidarietà.
Le parole contano, dovrebbero risuonare con forza, per dare senso ad una Europa che si sta spegnendo proprio perché rinnega se stessa, il suo essere storicamente terra di diritti. Dalla Presidenza italiana dell’Unione europea, anche per la responsabilità assunta in politica estera all’interno della Commissione (sia pure non ancora formalizzata), dovremmo allora attenderci parole forti, liberate da ogni convenienza, pronunciate dallo stesso presidente Renzi che oggi può e deve parlare a nome dell’Europa. Non è tempo di attese, e anche le mosse simboliche contano, soprattutto se poi riescono ad essere accompagnate da proposte concrete. Ve ne sono già molte, e la politica ufficiale dovrebbe prenderle in considerazione, riflettendo sui visti umanitari, sullo status di rifugiato comunitario, facendo un “investimento di cittadinanza”, ricorrendo a “bond” europei per la cittadinanza (ne ha parlato Mauro Magatti).
L’Europa non impallidisce soltanto in questa dimensione che ha davvero assunto il carattere della tragedia. Vi sono le infinite tragedie della vita quotidiana, moltiplicate in questi anni di crisi e che sono espresse da parole divenute terribilmente familiari: disoccupazione, perdita dei diritti sociali, diseguaglianza. Di nuovo l’Unione europea allontana da sé la persona con i suoi diritti, contraddice le parole che aprono la Carta — «la dignità umana è inviolabile » — perché si nega quel diritto a «un’esistenza dignitosa » di cui parla l’articolo 34 della stessa Carta. A quell’abbozzo di costituzione europea affidato al Trattato di Lisbona e alla Carta dei diritti fondamentali è stata in questi anni contrapposta una sorta di “controcostituzione”, che ha il suo cuore nel “fiscal compact” e che ha portato ad una indebita amputazione dell’ordine giuridico europeo proprio attraverso la sostanziale cancellazione della Carta dei diritti, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Nel momento in cui giustamente si contesta la pericolosa riduzione dell’Unione ad una pura logica contabile, proprio la rivendicazione dell’importanza dei diritti è essenziale per muoversi in un orizzonte più largo. Cominciamo a sfruttare i segnali che vengono dalla stessa Unione, dalla sua Corte di giustizia, ad esempio, che con una sentenza del 13 maggio ha affermato che i diritti fondamentali, in via di principio, prevalgono sul mero interesse economico.
Una lettera dal Parlamento europeo. Già pochi giorni dopo, ecco che s’incrina l’accordo l’accordo esibito sul palcoscenico bolognese dal centrosinistra europeo: non tutti i partiti alleati al PD sono come il PMR. 18 settembre 2014
Il patto del tortellino è durato appena una settimana. A rompere l'accordo fra i nuovi leader del socialismo europeo, benedetto da Matteo Renzi sul palco della Festa dell'Unità di Bologna, è stato proprio il più nuovo, il più fico dei carini per il socialismo schierati in camicia bianca accanto al premier italiano. Pedro Sanchez, il giovane leader del Psoe ha deciso infatti di far votare i 14 eurodeputati socialisti spagnoli contro la commissione Juncker, frutto della grande coalizione fra popolari, socialisti, liberali e conservatori voluta da Angela Merkel.
La scelta di Sanchez, fieramente contrario al Fiscal Compact e alle politiche di austerità dell´Europa a guida tedesca, rischia di provocare una scissione nel fronte socialista europeo, con una reazione a catena di "no" negli altri gruppi, dove i mal di pancia nei confronti della nuova commissione ormai aumentano di giorno in giorno, soprattutto fra italiani e francesi. Alla secessione spagnola si sono già uniti, almeno a parole, Sergio Cofferati, l'ex ministra Cecile Kyenge, la civatiana Eli Schlein e la minoranza dei socialisti di "Vive la gauche", la corrente di sinistra critica con il governo di Manuel Valls, un altro dei cinque moschettieri in bianco di Bologna.
La commissione Juncker sembra in effetti studiata apposta per umiliare i socialisti e far loro ingoiare il maggior numero di rospi possibili, con alcune punte di autentico sadismo che portano secondo molti le impronte digitali di Angela Merkel. A cominciare da alcune nomine controverse, per usare un eufemismo. Quella più indigesta a Sanchez riguarda l'Energia e l'Ambiente, affidati al conservatore spagnolo Miguel Arias Canete, il quale a varie macchie - dal conclamato sessismo all'amore sviscerato per il cemento testimoniato durante i tre anni da ministro dell'ecologia nel governo Rajoy - aggiunge un clamoroso conflitto d'interessi, essendo robusto azionista di società petrolifere. "E´come mettere una volpe a guardia di un pollaio", ha commentato Pedro Sanchez.
Ma nel bouquet di nuovi commissari non mancano altre scelte che denotano un certo macabro senso dell'umorismo. L'uomo che dovrà occuparsi di cultura e informazione, l'ungherese Tibor Navracsics è attuale ministro del governo ultra nazionalista di Orban, messo sotto accusa delle stesse istituzioni europee per aver approvato leggi liberticide della libertà di stampa. I laburisti inglesi si sono chiesti se "si tratta di uno scherzo o di una provocazione" la scelta ai Servizi Finanziari del britannico Johnatan Hill, detto il barone della City, celebre lobbista delle banche d'affari che dovrebbe in teoria occuparsi di rendere più trasparente la finanza continentale.
Quanto al commissario per l'Immigrazione, una novità voluta proprio dai progressisti dopo le tragedie nel Mediterraneo, la poltrona è grottescamente toccata al conservatore greco Dimitris Avramopoulos, del quale circolano su Internet fotografie mentre, in tuta mimetica e con un fucile in spalla, pattuglia la frontiera greca contro il pericolo di "un'invasione islamica".
La piccola galleria degli orrori va poi inserita in un quadro generale dove i socialisti (191 deputati) ottengono soltanto 8 commissioni, contro le 13 e presidenza dei popolari (220 deputati) e le 6 dei liberali, fedeli alleati della Merkel, che hanno però soltanto 68 eletti a Strasburgo. Senza contare il bassissimo peso politico della squadra socialista al servizio di Juncker, almeno dopo che il commissario all'economia, il francese Moscovici, è stato a sua volta commissariato e sottoposto ai veti del falco rigorista finclandese Katainen, nominato vice di Juncker con ampie deleghe.
Se l'obiettivo dell'operazione Juncker, tele comandata da Berlino, era quello di spaccare il fronte progressista, come molti degli stessi socialisti ormai pensano, Angela Merkel vi è già riuscita. Sulla porta della nuova commissione è intimato ai socialisti, soprattutto del Sud Europa, di perdere ogni speranza di cambiare il verso alle politiche di austerità. Possono chinarsi per entrare oppure stare fuori a testa alta, come gli spagnoli. Tertium non datur. Una terza via di dialogo non è prevista: la fotografia del palco di Bologna appare già vecchia e le camicie candide dei leader, appena una settimana dopo, tendono verso il giallino.
Le organizzazioni internazionali per lo sviluppo economico non chiedono all'Italia di ridurre il costo del lavoro. Anzi. Se non chiedono proprio quello che servirebbe per uscire dalla crisi chiedono comunque l'opposto di ciò che Renzi vorrebbe farci ingoiare.
Huffington post, 17 settembre 2014
La scusa “ce lo chiede l’Europa” oppure “ce lo chiedono i mercati” non tiene. E’ sempre più una coperta corta che non riesce a nascondere le vergogne del governo italiano e della classe dirigente nostrana. Il caso dell’articolo 18 è emblematico da questo punto di vista. Un intervento riduttivo c’è già stato, ma la giaculatoria continua. Renzi si appresta, sotto il ricatto delle elezioni anticipate, a toglierlo di mezzo. Lo farà con decreto o con una legge delega, lasciando le cose più nel vago per smorzare un po’ lo scontro (ma in questo caso contravvenendo all’articolo 76 della nostra Costituzione che prevede la “determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”)? Non lo sappiamo. Tuttavia che ne abbia parlato esplicitamente con Draghi o meno, è chiara l’intenzione del nostro Presidente del Consiglio di fare pesare sulla bilancia europea la cancellazione dell’articolo 18 per avere maggiore tolleranza sui conti dell’Italia che continuano a non tornare.
Ma è proprio vero che agli imprenditori esteri interessa la cancellazione dell’articolo 18 per potere investire in Italia? A leggere il recentissimo rapporto di midterm dell’Ocse – ne riferisce anche il Sole24Ore - non sembra affatto. Il rapporto dell’organizzazione che raccoglie i paesi maggiormente sviluppati nel mondo (34 paesi aderenti) vede nero per quanto riguarda l’Eurozona. Per l’Italia la previsione per fine 2014 è di un Pil in calo dello 0,4%. Il pericolo maggiore – e non ci vuole per la verità molto per comprenderlo – è individuato nella deflazione che comporterebbe un lungo periodo di recessione e stagnazione, con conseguente aumento del debito.
Quindi Rintaro Tamaki, il capo economista pro tempore dell’organizzazione parigina, sostiene che le retribuzioni del lavoro dipendente devono aumentare. E’ singolare che sia l’Ocse a dirlo mentre i sindacati tacciono da troppo tempo su un tema di questa natura, o sono assai timidi ad affrontarlo. E’ proprio vero che siamo in un periodo di grande crisi, non solo economica, ma culturale, di ruoli e di identità.
Il primo punto della ricetta Ocse riguarda quindi l’incremento dei consumi popolari, della domanda interna, che non può aversi senza un incremento retributivo generalizzato e continuativo. Altro che 80 euro una tantum o blocco dei contratti nel pubblico impiego!
La seconda raccomandazione contiene una critica alla governance dell’Europa in materia di rigore e austerità. Il rapporto Ocse chiede apertamente che venga rallentata la tempistica del risanamento dei conti pubblici affinché si possa favorire gli investimenti ovviamente da parte dello stato. Altro che fiscal compact, che prevede invece per venti anni la riduzione ogni anno del 3% del bilancio italiano (quindi 48 miliardi di euro di spesa in meno) per venti anni per dimezzare il nostro debito! Altro che privatizzazioni a go-go!
La terza soluzione riguarda una riduzione del cuneo fiscale, ovvero della tassazione del lavoro. Qui l’Ocse vede la questione dal punto di vista dei datori di lavoro piuttosto che da quello dei lavoratori. Ma avendo già detto prima che le retribuzioni dei medesimi devono aumentare, si comprende che essa non pensa che salari e stipendi possano aumentare solo per via fiscale, ma attraverso la contrattazione tra le parti. Il che richiede un aumento delle tutele dei diritti dei lavoratori, non certo una loro riduzione. Altro che cancellazione dell’articolo 18 o riduzione al solo livello aziendale della contrattazione sindacale!
Infine il capo economista dell’Ocse invita la Bce a fare di più. A spingersi fino a all’acquisto massiccio dei titoli di stato. Ad attuare il famoso quantitative easing, in pratica a immettere nuova liquidità nei mercati, come ha fatto la Federal Reserve americana. Altro che fare il cane da guardia dell’inflazione che nel frattempo si è rovesciata nel suo contrario!
Una storia italiana Per cancellare una villa abusiva, quartier generale di un clan della criminalità organizzata non sono bastati sindaci e magistrati dalla schiena dritta. C'è voluto anche «il coraggio di persone come Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi, che ha eseguito gratuitamente il lavoro che nessun altro aveva voluto fare manco pagato».
La Repubblica, 17 settembre 2014 Della casa dei boss non resta che un cumulo di macerie. E tra poche ore anche quelle saranno portate in discarica. Del quartier generale del clan Pesce non ci sarà più traccia. Cancellato, ma ci sono voluti 11 lunghi anni. E il coraggio di persone come Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi, che ha eseguito gratuitamente il lavoro che nessun altro aveva voluto fare manco pagato. I Pesce di Rosarno fanno ancora paura. Nonostante gli arresti e le condanne di padrini e affiliati della cosca, quel nome lo pronunciano ancora in pochi tra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro. E' una storia lunga quella della "villa" intestata a Giuseppina Bonarrigo, madre di Antonino, Vincenzo, Rocco, Savino e Giuseppe Pesce. Una storia iniziata a metà degli anni '80, quando la famiglia alzò pilastri e mura, coprendo 250 metri quadrati di terreno in piena zona archeologica. Un pezzo di terra pregiata che i padrini si erano presa a ridosso dell'area di Medma, antica polis magno greca del IV secolo a. c..
La vicenda della casa abusiva dei Pesce la tirò poi fuori nel 2003, il sindaco comunista Peppino Lavorato. Un simbolo della stagione degli amministratori antimafia. Lavorato acquisì al patrimonio pubblico il fabbricato e iniziò ad istruire le pratiche per la demolizione al prezzo di sventagliate di kalashnikov contro il suo municipio. Nuove elezioni fecero calare il silenzio, mentre i Pesce in quella casa stavano e in quella casa continuavano a stare. Ci vorrà un altro sindaco coraggioso prima di riparlarne.
Tra i primi atti di Elisabetta Tripodi c'è infatti l'abbattimento della cappella che i Pesce avevano costruito abusivamente all'interno del cimitero comunale, e subito dopo lo sgombero della casa nel parco archeologico. A giugno 2011 alla porta dei boss bussarono carabinieri, polizia e vigili urbani. Donna Bonarrigo e un pezzo della famiglia lasciarono l'abitazione sfilando tra le divise a testa bassa. Puntuali arrivano ancora le minacce che costrinsero la Prefettura a mettere la Tripodi sotto scorta. Lei proseguì comunque.
Un primo bando per affidare i lavori di demolizione e smaltimento delle macerie andò deserto. Stessa sorte per la seconda gara d'appalto. Non c'erano imprenditori disponibili, troppa paura. Il sindaco, di recente si è quindi rivolto al Genio Militare, ma i tempi burocratici si sono dimostrati lunghissimi. Fin quando non è stato il Prefetto di Reggio Calabria, Claudio Sammartino, a trovare la soluzione. E' stata sua l'idea di chiamare direttamente Saffiotti. Che non ha esitato un istante: "Lo faccio io e lo faccio gratis". Saffioti degli 'ndranghetisti ha paura, ma allo stesso tempo è uno di quelli che dice: "La lotta a favore della legalità si fa con i fatti, non con le parole". Anche lui vive sotto scorta, da 17 anni. Testimone di giustizia capace di far condannare decine e decine di mafiosi della provincia di Reggio Calabria.
Così lunedì mattina è salito sull'escavatore che ha dato i primi colpi ai pilastri e alle mura dei mammasantissima, poi ha lasciato fare il resto ai suoi operai. Il "santuario" della cosca è venuto giù pezzo dopo pezzo. Un colpo durissimo soprattutto dal punto di vista simbolico. Quella casa non osava toccarla nessuno. L'importanza della "villa" l'aveva raccontata Giuseppina Pesce, nipote di nonna Bonarrigo che da alcuni anni collabora con la giustizia. E' lei che ha spiegato come vicino alla casa, sotto un capanno, era stato costruito un bunker che assicurava la latitanza di alcuni ricercati della famiglia. E sempre lei aveva poi aggiunto che dalla nonna si riunivano gli uomini del clan. Attorno alla tavola imbandita della Bonarrigo decidevano strategie e affari, il bello e il cattivo tempo. Nella stessa casa, quando avevano arrestato suo marito, Giuseppina era stata spesso ospite. E sempre tra quelle mura aveva avuto modo di ascoltare quanto ha poi raccontato al pm della Dda Alessandra Cerreti. Verbali su verbali che hanno portato ai processi e a condanne per decine e decine di anni.
Un articolo ambiguo da far venire l'orticaria, ma interessante. Ambiguo perché sembra attribuire alle lotte la non realizzazione delle infrastrutture, ma interessante perché svela involontariamente come in realtà siano le grandi opere e gli interessi forti che le sostengono a impedire opere utili e perdite economiche così rilevanti.
Il Giorno, 16 settembre 2014
Si sa, l’Italia del fare esiste essenzialmente solo nei convegni. A meno che non si tratti di opere che portano lucrosi affari, da noi realizzare infrastrutture e portare avanti progetti richiede tempi bibilici. Tutto si scontra con una burocrazia senza paragoni nel mondo occidentale, infiltrazioni della criminalità (organizzata e non), instabilità politica (che porta a cancellare scelte già compiute), localismi sfrenati che generano la cosiddetta sindrome da Nimby: acronimo di not in my BackYard. Ovvero, tutto giusto da fare, ma «non nel mio giardino». Agici Finanza di impresa (società di consulenza nel settore delle infrastrutture), in collaborazione con l’università Bocconi, dal 2005 ha deciso di monitorare i cosiddetti ‘Costi del non fare’. La cifra che emerge nell’ultimo rapporto redatto lo scorso giugno è raggelante: 60 miliardi l’anno che diventano 900 da qui al 2030. Tutti soldi buttati per ciò che non viene, o non verrà realizzato. Costi in termini economici, ambientali e sociali che graveranno su ognuno di noi.
Lo studio prende in considerazione le grandi infrastrutture collegate alla realizzazione della banda larga e super larga, la mobilità e la logistica dei trasporti, l’energia e l’efficienza energetica. Ma nel calcolo finiscono anche le azioni locali da implementare come le piste ciclabili, gli interventi sulle scuole, su una illuminazione intelligente e sulle reti web. È il comparto delle telecomunicazioni quello che arranca di più, con 429 miliardi di euro che perderà in 15 anni. Ma presenta conti salati anche il mancato rinnovamento del sistema del trasporto ferroviario, con 129 miliardi. In questo caso, accanto agli investimenti nell’alta velocità, quella che serve davvero è la ristrutturazione delle linee ferroviarie convenzionali. Poi ci sono strade, autostrade, tangenziali a pedaggio (96 miliardi di costi), la logistica (oltre 73 miliardi, soprattutto in campo portuale) e soprattutto l’energia, sia sul versante degli impianti di produzione e delle reti di trasmissione e accumulo (65 miliardi) che su quello dell’efficienza energetica (46 miliardi, considerando rinnovabili termiche, caldaie a condensazione e cogenerazione industriale).
Secondo il Censis il gap digitale con gli altri paesi ci costa 3,6 miliardi l’anno. E’ il frutto della mancata digitaliazzazione della Pubblica amministrazione (l’ignoranza informatica della PA ci costa 20 milioni l’anno), del basso grado di confidenza con le nuove tecnologie digitali da parte della popolazione, del forte ritardo del nostro Paese sul fronte degli investimenti in rete.
Data la situazione italiana, oltre all’osservatorio sui Costi del non fare sarebbe forse utile individuare anche un osservatorio che calcoli quanto paghiamo per i danni provocati allo Stato, e dunque alla collettività, dalle innumerevoli e inutili opere realizzate per canalizzare mazzette, ingraziare l’elettorato, ingrassare politici e costrutturi. L’Italia è poi il paese degli scioperi e delle proteste, dei cantieri presidiati dalle forze dell’ordine. L’osservatorio Nimby Forum ha rilevato nel 2013 ben 336 progetti/cantieri contestati: al top il Veneto (54), la Lombardia (50) e la Toscana (41). Ci sono cementifici, centrali elettriche e, soprattutto, il cantiere Tav di Chiomonte, in Val di Susa.
Giovanni Alleva, Ivano Marescotti e Cristina Quintavalla, ex candidati della lista "L'altra Europa con Tsipras" informano che, almeno (per ora) in Emilia Romagna il tentativo di costruire un nuovo soggetto politico alternativo al devastante mainstream neoliberista può avere successo. Approvato un programma per le prossime regionali, «per un'alternativa al Pd e al sistema di potere emiliano-romagnolo».
Il manifesto, 16 settembre 2014
Il processo è stato inclusivo e partecipato, come ben rappresenta l’Appello verso le elezioni regionali, che nell’Assemblea del 3 settembre è stato approvato all’unanimità e assunto come analisi condivisa dei processi politici ed economici in corso a livello locale e nazionale. Oltre che dai comitati territoriali, espressioni di movimenti e realtà associative impegnati nelle molteplici vertenze aperte sui territori, l’Appello è stato condiviso dalle forze politiche presenti.
Si tratta di un risultato significativo, perché rappresenta ancora una volta la capacità dei Comitati dell’Altra Europa di saper leggere e interpretare il tempo presente e di porsi rispetto a esso come alternativa credibile.
L’Altra Emilia– Romagna risponde infatti alla necessità di contrastare il lungo governo Pd della regione, che voleva rappresentare la punta di diamante del modello di razionalizzazione neoliberista. È qui che sono state realizzate con incredibile precocità le privatizzazioni dei beni comuni pubblici, dei servizi, l’apertura ai «soci privati», la proliferazione di società partecipate, le esternalizzazioni dei servizi, i patti sociali con imprenditori e poteri forti come paradigmi di governo più democratico.
I risultati oggi delineano i contorni di una estesissima topografia della crisi, che investe l’economia, la società, la politica, punteggiata dalla chiusura delle tante realtà produttive, un tempo floride, dalla disoccupazione al 9%, dalla precarizzazione della vita delle giovani generazioni e non solo, dalle aggressioni all’ambiente e al territorio, dalle nuove ed estese povertà.
Si tratta certamente di una crisi scatenata dal fallimento dell’economia neoliberista (5,3 miliardi di perdite da parte delle circa 500 società partecipate in Emilia-Romagna), dai vincoli di bilancio imposti dalla Troika, assunti dai governi nazionali e trasferiti ai territori con tasse e riduzione dei trasferimenti (-16% in Emilia Romagna) e con l’imposizione di politiche di austerità (tagli alla sanità, al personale degli enti pubblici ecc.), pagate a caro prezzo dai ceti meno abbienti.
I nostri obiettivi fondamentali riguardano la difesa e il rafforzamento dell’intervento pubblico, contro la privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni, la difesa e l’estensione dei diritti, in primo luogo quello al lavoro, la difesa dell’ambiente e la conversione ecologica dell’economia, l’estensione della partecipazione diretta dei cittadini alle scelte economico-politiche.
L’Altra Emilia-Romagna vuole mettere in campo una sinistra plurale, senza settarismi né faziosità, rispettosa dei processi e dei travagli in atto nella sinistra stessa. Il timone, tuttavia è saldamente alternativo al sistema di governo emiliano– romagnolo.
Si tratta di una straordinaria occasione per sottoporre le ciniche politiche di austerità e di tagli della spesa pubblica del governo Renzi al fuoco incrociato dei precari, dei disoccupati, delle donne espulse dalla produzione, dei giovani che non studiano né lavorano, degli anziani con pensioni minime, costretti a razziare tra gli scarti dei supermercati, dei senza casa, dei non garantiti.
«L'ultimo rapporto dell'eurocommissione sulla competitività non parla di costo del lavoro e fisco ma si concentra sulla ricerca e sviluppo, l'assetto proprietario e le dimensioni delle nostre imprese». Qualcuno ricorda che i nostri "capitalisti avanzati" smisero di investire nella ricerca e sviluppo quando scoprirono che era più facile e lucroso investire nelle rendite immobilisri e finanziarie?
Il manifesto, 14 settembre 2014
L’Europa è un malato grave. Indipendentemente dai toni paludati tipico dei rapporti della Commissione, lo European competitiviness report, presentato l’11 settembre, mostra tutta la difficoltà dell’economia reale. In sintesi, come si legge nella premessa, «le problematiche da affrontare sono ancora numerose e l’economia dell’Ue è ancora lungi dal raggiungere i suoi obiettivi in termini di valore aggiunto manifatturiero, spesa in ricerca e sviluppo, investimenti fissi lordi e investimenti in macchinari e attrezzature».
In qualche modo il rapporto sottolinea, senza dirlo esplicitamente, che le politiche «finanziarie» fino ad oggi adottate non hanno prodotto esiti positivi, salvo che per alcuni stati che hanno goduto di un vantaggio di struttura e valutario, in primis la Germania. Alcune considerazioni di politica industriale e di dinamica di struttura sono presenti, e qualora il governo Renzi volesse raccoglierle sarebbe un buon inizio. La cosiddetta «internazionalizzazione» delle imprese, più volte evocata dal governo, è direttamente proporzionale alle caratteristiche (intrinseche) dell’impresa: attiene alla produttività, che il report lega anche alla qualità degli investimenti, alla specializzazione produttiva, ai risultati dell’innovazione e alle caratteristiche di gestione delle imprese.
Più in particolare il report sottolinea come e quanto la dimensione delle imprese, unitamente alla gestione delle stesse, modificano la capacità di partecipare all’internazionalizzazione del sistema economico. Il fisco e il costo del lavoro non sono mai citati, salvo che in sporadica apparizione.
Le caratteristiche essenziali della «internazionalizzazione» enunciate dalla Commissione Europea richiamano vecchi e ben noti problemi della struttura produttiva dell’Italia: imprese troppo piccole, poco specializzate, con bassissimi investimenti in ricerca e sviluppo. Infatti, la dimensioni dell’impresa, il settore in cui essa opera e l’assetto proprietario sono cruciali per determinare la forza degli effetti dell’innovazione dei prodotti. L’innovazione incide molto di più sulla crescita dell’occupazione nei settori ad alta tecnologia e ad alta intensità di conoscenza rispetto ai settori a bassa tecnologia, caratterizzati da una minore intensità di conoscenza. Inoltre, i risultati del report mostrano che l’innovazione dei prodotti tende a contribuire maggiormente alla crescita dell’occupazione nelle imprese di grandi dimensioni rispetto a quanto non avvenga nelle piccole e medie imprese (Pmi).
Se una parte dell’analisi del rapporto della Commissione mostra alcune caratteristiche indispensabili per affrontare la sfida della manifattura, la crescita della produzione tra il 2000 e il 2014, da 97 a 103, è stato conseguita con un calo dell’occupazione spaventoso: da 121 a 99.
In qualche modo il mercato (in crisi) si è incaricato di «eliminare» le imprese fuori mercato, con il difetto, però, di concentrare la produzione industriale nell’area eurogermanica. In altri termini la produttività di struttura ha eroso la quota di occupazione necessaria a produrre le stesse merci, mentre la specializzazione produttiva, la spesa in ricerca e sviluppo e la dimensione delle imprese hanno concorso a guidare l’allocazione della produzione industriale. Ancora una volta il rapporto non parla di fisco e costo del lavoro.
L’Europa dunque rimane un malato grave. E sono molte le cose da fare. In particolare il rapporto sottolinea la necessità di incrementare la spesa in ricerca e sviluppo, anche se sappiamo che questa dipende dalla specializzazione produttiva e dalla dimensione d’impresa. Se non cambia la dinamica di struttura dei paesi dell’area sud dell’Europa sarà difficile traguardare gli obbiettivi di manifattura 2020. Non tutto è perduto. Ma se usciamo dal dibattito domestico che denuncia la pressione fiscale come vincolo alla crescita c’è ancora una speranza.
«Puglia. Contro il parere del Mibac, il ministero dell’Ambiente firma il decreto per il Tap. L’opera ricade in un territorio protetto paesaggisticamente». Tutto si tiene: un'ideologia in cui "sviluppo significa aumentare la produzione di merci e consumare tutte le risorse del pianeta, i patrimoni comuni, a cominciare dall'ambiente e dal paesaggio, considerati scarti di produzione, e poi gli affari. Questo è il mondo che vogliono, quelli che ancora comandano.
Il manifesto 13 settembre 2014
Il gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline Ag) s’ha da fare. Il governo non arretra di un passo e ieri il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, ha firmato il decreto di rilascio della Valutazione di impatto ambientale favorevole, dopo il parere positivo espresso lo scorso 29 agosto dalla commissione tecnica del ministero, «aggiungendo -si legge in una nota dell’azienda Tap — un’altra importante pietra miliare nella realizzazione dell’infrastruttura». «Come per gli altri paesi parte del progetto, la relazione finale Via -si legge- è stata redatta nel pieno rispetto della legislazione italiana e di quella dell’Unione europea, in accordo con i requisiti internazionali della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e della Società Finanziaria Internazionale (Ifc)». Dopo la firma di Galletti, si apre la fase dell’Autorizzazione unica, che prevede l’apertura della Conferenza dei servizi decisoria a cui parteciperà anche la Regione Puglia (i cui pareri è bene ricordarlo hanno soltanto potere consultivo e non vincolante), che sarà rilasciata dal ministero dello Sviluppo economico e che segnerà la fine dell’iter autorizzativo e il via libera definitivo ai lavori.
E’ durata dunque meno di 24 ore la speranza di stoppare il progetto, da parte della regione Puglia, del comitato “No Tap” e dei Comuni coinvolti nel progetto, dopo che nella tarda serata di giovedì il governatore Vendola aveva comunicato la notizia che la Direzione generale del ministero dei Beni culturali, aveva espresso parere tecnico istruttorio negativo alla richiesta di compatibilità ambientale presentata dalla società Trans Adriatic Pipeline (Tap) Ag Italia.
Parere negativo che contrasta con quello positivo rilasciato dalla commissione Via del ministero dell’Ambiente e la firma di ieri di Galletti che ha potuto firmare lo stesso il decreto grazie ad un’indicazione giunta direttamente dal Consiglio dei Ministri. Certo è che il parere negativo del Mibac una sua valenza ce l’ha eccome. Non fosse altro perché riprende gran parte delle contestazioni mosse al progetto dal comitato “No Tap” in questi due anni e mezzo, e che sono le stesse che hanno portato ai due pareri negativi espressi dalla comitato tecnico di Via della regione Puglia. Tra i motivi che hanno portato al parere negativo del Mibac infatti, troviamo quello che evidenzia come il progetto Tap non abbia «minimamente considerato l’impatto generato dalla realizzazione del metanodotto sugli elementi di valore paesaggistico dell’area». L’opera ricade infatti in ambito territoriale vincolato paesaggisticamente, poiché dichiarato di notevole interesse pubblico fin dagli anni ‘80 trattandosi di paesaggio agrario del Salento, «particolarmente pregevole e altamente significativo per stato di integrità, valore testimoniale e profondità storica, la cui configurazione si fonda sulla ’trama agraria’ disegnata dalle ’chiusure’ realizzate in pietra a secco e dal mosaico continuo dei diversificati sesti di impianto degli uliveti, con presenza di numerosi esemplari anche aventi caratteristiche monumentali». Sia la regione Puglia che il comitato “No Tap” ha sempre sostenuto come l’approdo a San Foca, in località Melendugno, fosse del tutto scriteriato.
Del resto, anche il decreto di compatibilità ambientale firmato ieri da Galletti che recepisce le 58 prescrizioni indicate dalla commissione di Via, guarda, oltre alla sicurezza, proprio al rispetto dell’ambiente circostante. Fra gli elementi evidenziati c’è il microtunnel, un tratto di circa 1,5 chilometri che, transitando sotto la spiaggia di San Foca, unirà la parte onshore della condotta, a monte della stessa spiaggia, con quella sottomarina. La commissione ha prescritto che «dovranno essere eseguiti e approvati tutti i necessari rilievi ed approfondimenti geologici, geotecnici e idrogeologici atti a confermare la sostenibilità tecnica ed ambientale del microtunnel». E che «dovranno essere valutati i rischi connessi con eventuali insuccessi in fase di realizzazione del microtunnel a causa della possibile presenza di cavità carsiche». Inoltre, la commissione avanza prescrizioni per le aree critiche «dovute all’estrema vicinanza del tracciato con massicci corallini». Questo «al fine di scongiurare ogni pericolo di possibile interferenza».
Infine, per la minimizzazione dell’impatto ambientale, la commissione chiede che «in fase di progettazione esecutiva l’analisi di rischio venga integrata con dettagliate analisi quantitative che tengano conto di tutti i possibili scenari». La firma di Galletti ha inasprito gli animi: oggi, alla marcia dei sindaci e dei cittadini contro la Tap che si svolgerà a Bari in occasione della visita del premier Renzi alla Fiera del Levante, il clima sarà rovente.
Possibile scoprano solo adesso che Matteo Renzi è semplicemente il continuatore, in abiti rinnovati, dell’idea di rapporto tra legittimità e politica propria di Benito Craxi e Silvio Berlusconi? Da inorridire.
La Repubblica, 13 settembre 2014, con postilla
È IN atto una sorta di mutazione genetica. Una metamorfosi. O meglio una specie di ritorno alle origini. Sul terreno più conflittuale degli ultimi 20 anni: la giustizia. Il Pd, il centrosinistra italiano, abbandona quella che sinteticamente veniva definita una linea giustizialista e si presenta adesso come il principale soggetto garantista.
LA battaglia di questi giorni tra Matteo Renzi e i magistrati è esattamente il risultato di questa svolta. Il taglio delle ferie per le toghe, le riforme promosse senza consultare l’Associazione nazionale magistrati, la promozione dell’avvocato Legnini — senza particolari legami con i giudici — ai vertici del Csm, il rifiuto di condizionare le candidature in Emilia ai provvedimenti dei pm, la difesa dell’amministratore delegato dell’Eni coinvolto in un’inchiesta su presunte tangenti negli accordi petroliferi in Nigeria, il distacco con cui i democratici hanno assistito agli ultimi capitoli processuali di Silvio Berlusconi. Ecco, questi sono tutti elementi di un vero e proprio cambio di stagione.
Senza dimenticare che dai tempi dell’inchiesta Mani pulite ad oggi, mai si era assistito ad uno scontro così duro e aperto tra un leader del centrosinistra e il potere giudiziario. La scelta del segretario del Pd è netta. È come se volesse “rottamare” anche su questo versante gli ultimi venti anni. In un certo senso si presenta deciso a recuperare quell’idea di “primato” della politica rispetto alle toghe che era ben chiaro ai partiti della Prima Repubblica, a cominciare dal Pci. Vuole liberarsi di un atteggiamento a tratti culturalmente caudatario nei confronti della magistratura. «Sono cose — sottolinea proprio il capo del governo — che io sostengo dalle primarie del 2012. Bisogna cambiare pelle: la politica prima di tutto e basta derive giustizialiste».
È vero che per il Partito democratico, questa mutazione si è resa possibile grazie ad un contesto affatto nuovo. In qualche modo la fine del berlusconismo sta scatenando anche questo effetto. La tradizione progressista e democratica sembra ora sentirsi più autorizzata a rivendicare non tanto l’autonomia, ma la libertà di giudizio verso i provvedimenti giudiziari. E a farlo senza avvertire la paura di essere accusati di intelligenza con il nemico. Basti pensare all’atteggiamento tenuto sull’inchiesta emiliana che ha coinvolto due dei candidati pd alle primarie per la presidenza della Regione. L’esito è che quelle primarie si terranno comunque e parteciperà anche uno dei due indagati o ex indagati. Renzi ha sostanzialmente ignorato l’azione della procura bolognese. Rigettando plasticamente l’idea che gli avvisi di garanzia possano selezionare i concorrenti in una gara elettorale.
Ma, forse, ancora più significativa è stata la reazione che la base del Partito democratico ha avuto in questo frangente. Nessuno - ad esempio nei nutriti gruppi parlamentari del Pd — ha protestato per questa sorta di piccola rivoluzione. Sembra quasi che la “svolta” fosse attesa e già metabolizzata come un ritorno alla normalità. Come il desiderio di emanciparsi da un complesso di colpa o di inferiorità. Anzi, per qualcuno è l’occasione pure di dimostrare di non avere scheletri negli armadi.
In questo quadro hanno poi avuto un ruolo decisivo le ultime elezioni europee: quelle del 40,8% a favore del Pd. Una percentuale di voto che ha assegnato di fatto un nuovo baricentro al centrosinistra. A Largo del Nazareno lo definiscono «inter- classista». Come conferma l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti, nonostante il sensibile calo nella popolarità del presidente del Consiglio, il partito resta ben ancorato al di sopra del 40% proponendosi ancora come una specie di partito-paese. Si tratta di un dato che ha probabilmente imposto a Renzi di esplicitare in modo marcato la sua natura post-giustizialista. Perché i referenti elettorali si sono ampliati e diversificati inglobando anche chi fino a qualche anno fa, proprio nel duello con le toghe, stazionava nell’altra metà del campo.
Ovviamente una linea di questo tipo prima o poi dovrà essere sottoposta ad una ulteriore verifica del consenso popolare. Perché il “primato” della politica regge solo se avallato dagli elettori e se il comportamento dei politici viene giudicato eticamente accettabile. E se, infine, le risposte dei politici ai problemi del Paese risultano davvero efficaci.
E in ogni caso tutto questo avrà comunque delle conseguenze. La prima di queste è che si arriverà presto ad una vera e propria resa dei conti tra politica e magistratura. La riforma della responsabilità civile e il taglio delle ferie costituiscono il primo atto di questo redde rationem. Si tratterà di uno scontro di potere. Anche perché come hanno dimostrato gli anni compresi tra il 1992 e il 2014, la forza del sistema dei partiti è inversamente proporzionale a quella delle toghe. Basti pensare alle cifre relative al potere di grazia del capo dello Stato: nei primi mandati presidenziali venne usato in diverse migliaia di casi. In poche decine negli ultimi settennati. Prova che la sensibilità in materia con il tempo si è decisamente evoluta. Ora quindi, liberato il Paese dall’ombra lunga e nefasta del berlusconismo, tutti si sentono legittimati ad assumere posizioni e idee senza vincoli precostituiti.
postilla
L'ombra è molto più lunga e nefasta di quella del berlusconismo, e il paese non se n'è affatto liberato: è come se ne fosse incantato. Nel regime della Balena bianca magari facevano le stesse cose, ma almeno cercavano di nasconderle. Sì, erano ipocriti: ma l'ipocrisia, come diceva La Rochefaucauld, è l'omaggio che il vizio rende alla virtù. Oggi il vizio è diventato una virtù.
Ancora corruzione e il nuovo proprio non avanza. Dalla «madre di tutte le tangenti che ha a che fare con Eni: la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta» a «l’AD nominato quattro mesi fa per portare la "ventata d’aria nuova" annunciata dal premier». Articoli di Ester Nemo e Gianni Barbacetto.
Il manifestoil Fatto Quotidiano, 12 settembre 2014
Eni, Descalzi indagato e il governo Renzi tace
di Ester Nemo
L’accusa fa riferimento all’affaire della licenza Opl 245, contesa da Shell e vari attori nigeriani sin dall’inizio degli anni 2000. Dall’indagine emerge che l’intero importo di un miliardo e 92 milioni di dollari, pagato a metà 2011 da Eni al governo nigeriano dopo un lungo e sofferto negoziato pieno di colpi di scena, possa essere stato utilizzato in vari modi per pagare ogni corrente politica e contendente in Nigeria. E non solo. Ben 200 milioni infatti servivano per alcuni mediatori nigeriani e italiani, tra cui spicca anche l’architetto della loggia P4 Luigi Bisignani, che a fine 2011 aveva patteggiato una condanna di un anno e sette mesi a Napoli per associazione a delinquere.
Come spesso succede quando gli interessi sono troppi sulla stessa torta, qualcosa non è andato come doveva. Il cambio di governo in Nigeria a metà del 2010 ha mutato le carte in tavola, cosicché il piano ideato in Italia è fallito e il governo locale si è posto direttamente come intermediario, chiedendo un suo tornaconto. Dan Etete, ex ministro del petrolio del dittatore Abacha, che in passato si era auto-intestato la licenza per pochi soldi tramite la società Malabu, ha alla fine accettato il nuovo accordo tripartito all’inizio del 2011. Nota a margine, Etete era già stato protagonista dell’affaire Bonny Island per cui Snamprogetti del gruppo Eni era stata condannata per corruzione in Stati Uniti, Nigeria ed Italia. Tornando ai fatti di inizio 2011, il principale intermediario nigeriano in quota Eni, Emeka Obi, non è stato al gioco e ha intentato una causa alla Corte di Londra, dove erano bloccati ancora alcuni soldi dell’Eni, ottenendo 110 milioni di dollari.
Questa somma adesso è stata nuovamente bloccata in Svizzera in seguito a una ben articolata richiesta della Procura di Milano. Anche i rimanenti 80 milioni, forse pensati per il fronte italiano, sono stati nuovamente “congelati” dalla Corte di Londra, sempre su richiesta di Milano, su un conto alla JP Morgan. E così oltre all’indagine sulla società già notificata ad Eni nel luglio scorso, ieri è emersa l’indagine anche su Descalzi. Nel frattempo gli 800 milioni arrivati in Nigeria sembrano essere finiti in mille rivoli sospetti vicini al governo.
Questa vicenda è senza dubbio uno schiaffo per il governo Renzi, che alla assemblea degli azionisti del maggio scorso con il ministro Padoan aveva tentato di far approvare dalla società gli «standard di onorabilità» anti-corruzione per la nomina dei nuovi vertici, forte del 30 per cento di azioni in mano pubblica. I grandi investitori istituzionali hanno respinto la proposta con tanto di applauso ironico a fine assemblea. Il braccio di ferro tra le varie anime del governo ha alla fine imposto un interno come amministratore delegato, mettendo “di facciata” l’esterna Emma Marcegaglia alla presidenza.
Le associazioni Re:Common e Global Witness avevano menzionato in assemblea alla presenza del rappresentante del ministero dell’Economia i rischi della nomina Descalzi a fronte della controversa storia Opl 245 che emergeva dalla carte del processo Obi a Londra. Ma l’uscente Scaroni aveva ancora una volta ribadito che l’Eni non aveva usato intermediari e che non c’era stato nessun incontro tra Descalzi o funzionari Eni e Dan Etete. Così non sembra, ed ora la palla passa al governo Renzi, mentre il titolo Eni ieri ha lasciato in borsa l’1,63 per cento.
Il Fatto Quotidiano
Quando dai giacimenti sgorgano mazzette
di Gianni Barbacetto
La “madre di tutte le tangenti”, in fondo, ha a che fare con Eni: è la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta (con l’aiuto, tra gli altri, di Luigi Bisignani), quando Raul Gardini, sconfitto dal sistema politico, sciolse il matrimonio che aveva voluto tra Eni e la sua Montedison. Ma sono molte le indagini che, negli anni seguenti, hanno coinvolto direttamente l’Eni, per i suoi affari petroliferi in giro per il mondo: in Iraq e in Algeria, in Kazakhstan e, infine, in Nigeria. Per le attività in quest’ultimo Paese, l’Eni (che è quotata a Milano e a New York) è stata indagata anche negli Stati Uniti: il Dipartimento della giustizia ha già incassato, nel luglio 2010, una multa di 240 milioni di dollari. Altri 120 milioni di dollari sono stati pagati da Eni e dalla controllata Snamprogetti dopo un accordo raggiunto con la Sec, l’Autorità che controlla la Borsa Usa. Un’altra controllata, la Saipem, nel luglio 2013 è stata già condannata a pagare in Italia una multa di 600 mila euro, dopo una confisca di 24,5 milioni di euro considerati il profitto di affari illeciti in Nigeria.
Gli affari in Algeria sono invece l’oggetto dell’inchiesta Eni-Saipem, filone italiano di un grande scandalo internazionale scoperto nel 2012 e deflagrato nel febbraio 2013, quando il pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale manda la Guardia di finanza a perquisire gli uffici di Roma e San Donato dell’Eni e della Saipem, ma anche l’abitazione milanese dell’allora potentissimo numero uno di Eni, Paolo Scaroni. L’ipotesi d’accusa è che sia stata pagata una tangentona da quasi 200 milioni di euro (198, per la precisione) al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. La “commissione” di 198 milioni è stata versata da Saipem alla società Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da un giovane e riccioluto faccendiere internazionale con passaporto francese: Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem. Sono indagati per corruzione internazionale, oltre a Scaroni, anche l’amministratore delegato di Saipem Franco Tali, il direttore operativo Pietro Varone, il direttore finanziario Alessandro Bernini, il direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi, il responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. E vengono trovate tracce, come succede in questi casi, di “ritorno” in Italia, a mediatori e manager Eni, di una parte delle tangenti pagate all’estero. Nel maggio 2012, la Procura di Milano chiede una misura interdittiva che riguarda invece la Agip Kco, ossia la società del gruppo che opera in Kazakhistan. Il pm domanda al giudice di “commissariare la divisione operativa dell’Eni in Kazakhstan o, in alternativa, vietarle di proseguire a negoziare contratti in Kazakhstan”. Qui l’ipotesi dell’accusa è che Eni abbia versato negli anni almeno 20 milioni di dollari come tangenti per facilitare la presenza dell’azienda italiana in quel Paese. A incassare, sarebbero stati il presidente dell’ente petrolifero statale e del fondo sovrano di Astana, già genero del presidente della Repubblica kazaka.
In Iraq è finito sotto l’attenzione dei magistrati italiani il giacimento di Zubair, vicino a Bassora, uno dei più grandi del Paese, con una produzione ipotizzata di 1,2 milioni di barili al giorno: “commissioni” (il nome pudico delle tangenti) sarebbero state pagate per far ottenere all’Eni la concessione per lo sfruttamento del giacimento.
I magistrati della Procura di Roma hanno invece aperto un’indagine di tipo fiscale sulla distribuzione dei prodotti petroliferi: per verificare «la corretta applicazione della normativa sulle accise in ordine ai prodotti petroliferi caricati presso i depositi carburanti di Eni divisione Refining & Marketing». La Guardia di finanza ha effettuato controlli presso diversi stabilimenti e centri di produzione, a Venezia, Pavia, Livorno, Taranto e Gela. “La società – spiega ogni volta un portavoce dell’Eni con apposito comunicato – sta fornendo ampia collaborazione all’Autorità giudiziaria”.
«Da Abu Ghraib ai reporter sgozzati. Cosa resta di un principio che infonde leggi e costituzioni. Il problema dei nostri tempi: tanto più un concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi».
La Repubblica, 12 settembre 2014
Lo spirito del nostro tempo è orientato alla dignità, come un tempo lo fu alla libertà, all’uguaglianza davanti alla legge, alla giustizia sociale. Tutti s’ispirano, o dicono d’ispirarsi, alla dignità degli esseri umani, soprattutto dopo lo scempio che ne hanno fatto i regimi totalitari del secolo scorso. Tutto bene, allora? Finalmente un concetto e una concezione dell’essere umano – un’antropologia – in cui si esprime un valore sul quale tutti non possiamo che concordare? Un pilastro sul quale un mondo nuovo può essere costruito? Cerchiamo di darci una risposta, lasciando da parte le buone intenzioni, le illusioni.
La legge fondamentale tedesca inizia proclamando la dignità umana «intoccabile». La nostra Costituzione la nomina a diversi propositi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948 si apre con la “considerazione” che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Sulla scia di questa convinzione, non c’è Costituzione successiva che non renda omaggio anch’essa alla dignità umana. E non c’è trattazione di temi etici e giuridici in cui la dignità non assuma il significato onnicomprensivo della “dimensione dell’umano”, della sua ricchezza, della sua libertà morale e fisica, dell’inviolabilità del corpo e della mente, dell’autodeterminazione, dell’uguaglianza, della socialità, della “relazionalità”, fino al vertice kantiano dell’essere umano sempre come fine e mai (soltanto) come mezzo. L’appello alla dignità sembra, dunque, l’argomento finale, decisivo, in tutte le questioni controverse in cui è in questione l’immagine che l’essere umano ha di se stesso, cioè la sua autocomprensione.
Ma il fatto che d’un concetto si possa fare un uso tanto largo e, soprattutto, incontestato è un segno di forza o di debolezza del concetto stesso? Purtroppo, di debolezza: tanto più il concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi. Questo vale per la libertà: libertà di e da che cosa? Per l’uguaglianza: rispetto a che e in che cosa? Per la giustizia: con riguardo ai bisogni o ai meriti? Per la dignità è lo stesso: degno di che cosa? Di questo genere di principi, tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più li si svuota. I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto. Si prenda la libertà (ma lo stesso esercizio si potrebbe fare per la giustizia o l’uguaglianza). Già Montesquieu, realista e nemico dei voli pindarici, aveva osservato ( Lo spirito delle leggi , libro XI, cap. II): «Non c’è parola che abbia ricevuto tanti significati e che abbia colpito l’immaginazione in modi tanto diversi, quanto la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni, come privilegio di non essere governati che da uomini della propria nazione o dalle proprie leggi; una certa popolazione come l’abitudine di portare lunghe barbe» (allusione ironica ai Moscoviti, che non perdonarono la decisione di Pietro il Grande, presa nel 1698, di farli rasare). Se avessimo voglia di leggere il Mein Kampf di Hitler, troveremmo che per lui la libertà, anzi la “sete di libertà” aveva a che fare con l’intolleranza fanatica, il militarismo, la purezza della razza, il giovanilismo, la liberazione dal peso della cultura, la fedeltà, l’abnegazione, la fede apodittica, il disprezzo del pacifismo e dello spirito ugualitario, l’espansionismo, la sopraffazione del più debole da parte del più forte. In una parola: l’uomo libero come “super- uomo”, “belva bionda”, “signore della terra”. Che cosa ha a che vedere questo modo d’intendere la libertà con, ad esempio, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti », o con «la verità vi farà liberi » (Gv 8,32)? Nulla.
Non serve a superare le ambiguità e i dilemmi e a contenere i dissidi insistere quindi sull’elevatezza della dignità come principio della convivenza, innalzarlo a “trascendentale umano”, a “concezione antropologica”. Sottolineo questo punto, perché troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto più sono belle, tanto più facilmente contengono concetti molto “disponibili”. Quello che ci deve mettere in allarme è la reversibilità dei valori, nel loro uso pratico.
A questo proposito, lo sguardo sulle pratiche del nostro mondo nuovo ci lascia interdetti, anzi inorriditi. Così accade davanti alle sconvolgenti immagini dei due reporter di guerra, James Foley e Steven Sotloff legati, inginocchiati, tenuti diritti dal boia ricoperto dalla tunica nera da cui appaiono solo occhi senza volto e mano armata del coltello, pronta allo sgozzamento. Sul terreno propriamente militare, l’assassinio di questi due uomini non ha evidentemente alcun significato. Ne ha uno grande e tremendo sul terreno psicologico. La guerra psicologica, un tempo, si faceva con altri mezzi: volantini, trasmissioni radio, disfattismo… Oggi si fa col coltello che taglia le gole messo in rete.
La guerra psicologica si avvale della violazione della dignità come arma, e tanto più cresce nelle nostre coscienze il valore dell’essere umano, tanto più la crudeltà si presenta nuda, priva di giustificazioni rispetto a presunte colpe della vittima e tanto più la vittima è scelta a caso, ignara e inerme, quanto più l’orrore è grande ed efficace. Ora siamo ai reporter, di cui si ha un bel dire ch’erano lì per ragioni non di collaborazione col nemico e che erano, in questo senso, “innocenti”. L’innocenza non interessa affatto ai carnefici. La vittima è un anonimo esemplare; non è una persona cui si accolli qualche sua colpa. Lo sgozzamento non è l’esecuzione d’una sentenza di condanna. Anzi, si potrebbe aggiungere che tanto più grande è l’innocenza, quanto maggiore è l’efficacia. Arriveremo a donne e, chissà, a bambini mostrati col coltello al collo?
Queste vittime sono tutte «sotto un dominio pieno e incontrollato », per usare le parole di Aldo Moro dal carcere delle Br, il 29 marzo 1978. Ma Moro apparteneva al fronte nemico. Qui ciò che conta è l’orrore come tale, l’orrore che, come lo sguardo di Medusa, paralizza i destinatari del messaggio. L’assassino si presenta come super-eroe, capace dell’ultra-umano, cioè di farsi beffe dell’ultima frontiera dell’umano, di un suo anche minimo contenuto di valore. Nell’umiliazione della vittima resa impotente, l’aguzzino trova l’esaltazione del suo ego: tra le montagne dell’Iraq, come nel carcere di Abu Ghraib e in tante altre situazioni d’illimitata sopraffazione. Solo che qui c’è l’esibizione dell’inumanità avente, come fine, la ripugnanza, lo sconvolgimento, la paralisi morale. Adriana Cavarero, qualche anno fa, ha analizzato con profondità questa mutazione genetica del terrorismo in “orrorismo” ( Orrorismo, ovvero della violenza, Feltrinelli, 2007). Le considerazioni di questo libro sono, per una parte, constatazioni, per un’altra, spaventose profezie.
Nelle immagini che abbiamo davanti agli occhi è espresso quello che potremmo chiamare il paradosso della dignità: più alto è il valore violato, più alta è la capacità aggressiva della violazione. Paradossalmente, se la vita non valesse nulla, non ci sarebbe ragione di violarla. Non ci si scandalizzerebbe delle immagini che abbiamo negli occhi se la dignità non rappresentasse per noi uno dei sommi va- lori ai quali non siamo disposti a rinunciare. Forse, gli assassini non penserebbero che la scena che quelle immagini trasmettono possa avere un qualche significato nella guerra psicologica ch’essi intraprendono. La dignità dà forza al suo opposto. Il delitto vi trova il suo alimento. E il nutrimento è dato proprio dal valore che attribuiamo alla vittima.
Siamo di fronte alla fragilità del bene, alla fragilità della dignità come bene sommo dell’essere umano. Un libro famoso che tratta della virtù porta, per l’appunto, come titolo La fragilità del bene ( il Mulino, 1996). L’autrice, Martha Nussbaum, discute di fortuna, di vulnerabilità, d’incertezza dell’esistenza. La virtù, come il fragile germoglio della vite, è esposta a ogni genere d’intemperie e d’imprevisti. Ma, qui siamo di fronte a qualcosa in più, alla ricattabilità: il bene è ricattabile proprio perché è bene e c’è chi gli si sente obbligato. Se non te ne importasse nulla, potresti passare davanti all’ignominia senza muovere un ciglio. I virtuosi sono più fragili dei cattivi, perché il bene è ricattabile dai suoi nemici, mentre il male non lo è.
L’orrore, se non cadiamo nell’indifferenza dell’assuefazione, induce a ripagare con la stessa moneta, cioè con altro orrore. Ciò dimostra quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dalla barbarie. C’è una via che non sia né l’indifferenza, né la ritorsione? C’è la possibilità che non ci si abbandoni, a propria volta, alla violenza indiscriminata e dimostrativa che accomuna nella stessa sorte innocenti e colpevoli, cioè alla guerra che travolge gli uni con gli altri? Sì, c’è, ed è la responsabilità che si fa valere nelle sedi della giustizia. Dignità, responsabilità e giustizia si tendono la mano.
«Diario di bordo di un sindacalista rientrato nel luogo di lavoro: la Biblioteca Ariostea di Ferrara. Tra mini voucher ai pensionati e cooperative di servizi, la lotta di classe alla rovescia entra anche tra incunaboli e volumi dell’epica rinascimentale».
Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla
Palazzo Paradiso è la sede centrale del polo bibliotecario di Ferrara, il mio posto di lavoro originario, dove sono rientrato dopo molti anni di distacco sindacale, grazie al governo Renzi. È un palazzo bello e imponente, sito in pieno centro storico, fatto costruire nel 1391 da Alberto V d’Este e che deve probabilmente il proprio nome a un ciclo di affreschi ispirato ad esso.
In questi anni di lontananza da questo luogo, i miei ricordi forse non me lo raffiguravano in questo modo, ma certamente mi rimandavano a un mondo un po’ a parte, un po’ ovattato, preservato dal gorgo della postmodernità, presidiato da studiosi e ricercatori interessati alle vicende dell’Orlando Furioso e dell’epopea umanistica — rinascimentale. In questa suggestione ovviamente c’entrava il fatto che la biblioteca Ariostea svolge sì funzione di prestito librario «classico», ma è forte di un patrimonio di circa 100.000 volumi antichi, tra cui molti incunaboli e rari.
Sono stato assegnato, in questi giorni in via temporanea, al servizio di prestiti-rientri dei libri, nel cosiddetto front-office con il pubblico. Siamo poco meno di una decina su due turni di lavoro, a ricoprire tale ruolo, appena sufficienti a rispondere a un’affluenza di persone, soprattutto studenti universitari, che mi dicono essere decisamente cresciuta in questi anni.
Accanto a noi, addetti a dare informazioni al pubblico, e al piano di sopra, con compiti prevalentemente di guardiania dei locali museali, ci sono i volontari dell’Auser, affiliata allo Spi-Cgil. Sono un certo numero, si alternano in circa una ventina su tre turni. Dopo un po’ realizzo che sono volontari un po’ speciali: pensionati che integrano il loro reddito, che non ci vuole molto a capire non è quello delle pensioni d’oro o d’argento, con un rimborso che può arrivare a circa 200 euro mensili, sempre che sia supportato da corrispondenti scontrini che giustifichino le spese sostenute. Una specie di voucher che, per esempio, come mi spiega Rosa che lavora di fianco a me, consente di andare dal parrucchiere visto che per svolgere il lavoro di accoglienza è giusta
mente riconosciuto che bisogna presentarsi bene.
Poi, al mattino, appena prima dell’apertura al pubblico, passano le donne delle pulizie, rigorosamente dipendenti di una cooperativa, che, come mi fa presente una di loro, gira per 4–5 «cantieri» — così li chiama — al giorno. Avanti e indietro tutto il giorno tra casa e luoghi di lavoro diversi: per fortuna che Ferrara è un fazzoletto e in un quarto d’ora di bicicletta vai da un capo all’altro della città.
In questo puzzle del lavoro, non vedo un’altra tipologia classica, quella dei lavoratori delle cooperative sociali che affiancano i lavoratori pubblici, facendo lo stesso lavoro ma pagati meno. Però — tranquilli — anch’essi, in passato, hanno popolato questo luogo, in una fase di relativo incremento del lavoro, per poi sparire quando le esigenze di ulteriore risparmio hanno ripreso il sopravvento. In compenso, non ci sono ancora i gruppetti di disoccupati e extracomunitari che però stazionano nei mesi invernali, quando fa più freddo, nei locali d’ingresso della biblioteca, creando qualche problema di convivenza — solo raramente di «ordine pubblico» — con gli abituali frequentatori di questo luogo civico.
Non c’è che dire: un bello spaccato di un lavoro che è stato frammentato, che ne ha rotto i legami sociali e di solidarietà, che lo priva di senso generale e lo svalorizza.Certo, si coglie ancora una relazione di interesse e riconoscimento reciproco all’interno di questa piccola e diversificata comunità , ma a me appare più il lascito in via d’estinzione di una cultura frutto di un glorioso passato — quella civile e solidale che ha accompagnato il «modello emiliano», anch’esso ormai esaurito — piuttosto che un’acquisizione proiettata nel futuro.
Del resto, se l’imperativo è il taglio della spesa pubblica, che sarebbe di per sé improduttiva, anche il lavoro ad essa collegato non può che soggiacere ad esso. Non importa se poi tutto ciò produce impoverimento, disuguaglianza e distruzione della coesione sociale. Se rimane, alla fine, la solitudine competitiva dell’individuo di fronte al mercato e la contrapposizione tra penultimi e ultimi. Semmai, quello che impressiona è, come dice in questi giorni il premier Renzi, bisogna proseguire su questa strada e, anzi, rafforzarla. Perché, sempre secondo il suo lucido pensiero, c’è ancora «molto grasso da tagliare».
Forse anche a lui, sempre che ce l’abbia mai avuto, non farebbe male rientrare in un posto di lavoro subordinato. Potrebbe vedere un mondo un po’ rovesciato, ma probabilmente più veritiero delle slide con cui ci inonda da un po’ di mesi in qua.
postilla
Corrado Oddi è stato tra i più attivi ed efficaci organizzatori del referendum per l'acqua pubblica. Ha svolto quel suo rilevante impegno sociale in quanto dirigente della CGIL, e quindi potendo godere del "privilegio" del distacco sindacale. Non c'è bisogno di essere maliziosi per comprendere il nesso tra l'obbligato ritorno di Corrado al lavoro d'ufficio e il suo ruolo di promotore di importanti lotte sociali di civiltà. E' amaro constatare che simili eventi si manifestano a causa delle decisioni di un governo che molti continuano a definire "di centro sinistra" , se non addirittura "di sinistra"
Leggendo la recensione di Claudio Gnesutta al libro di Salento-Masino, La fabbrica della crisi e il declino del lavoro, uscita su www.sbilanciamoci.info, ho pensato che fosse importante ri-aprire il dibattito sul futuro delle politiche del lavoro nelle attuali condizioni dell’impresa finanziarizzata, come descritta nel volume recensito.
Gli autori ci consegnano un quadro drammatico dell'impresa di oggi, caratterizzato da decentramenti e delocalizzazioni, da scelte imprenditoriali finalizzate esclusivamente al profitto privato, incurante dei danni sociali, ambientali ed economici che provocano, da un capitalismo definito “predatorio”, che fa tornare indietro di almeno un secolo la società occidentale.
Dunque quel liberismo che avrebbe dovuto soddisfare il benessere di tutti ha invece incentivato interessi speculativi di pochi privati a danno della maggioranza, ha permesso quella diseguaglianza denunciata ormai da diversi anni e da più parti (L. Gallino, 2012; E. Stigliz, 2012).
La perdita di potere del lavoro avviene sia all'interno che all'esterno della fabbrica. Di fronte alle delocalizzazioni assistono impotenti sia i lavoratori e i sindacati che le istituzioni, non più in grado di offrire alternative appetibili in un sistema di libero mercato globalizzato. I danni sociali di imprese che non investono nel nostro Paese ma altrove, non colpiscono solo i lavoratori dell'azienda che vengono licenziati, ma anche lo stesso territorio dove insiste l'impresa, che si deve accollare i danni derivanti dalla gestione della disoccupazione e dalla perdita dell'attività industriale sia dell'impresa che dell'indotto, quindi dall'impoverimento in generale del tessuto produttivo e sociale. Per non parlare dei danni sociali ed ambientali derivanti da scelte imprenditoriali irresponsabili.
Diventa quindi quasi consequenziale ritenere che, alla perdita di potere del lavoro all’interno (e all'esterno) dell'impresa, si debba rispondere con un aumento di potere del territorio sull'impresa. È il territorio, infatti, il luogo su cui insistono le imprese, su cui operano le rappresentanze sindacali e su cui vivono i lavoratori e, più in generale, i cittadini e le istituzioni locali: tutti accomunati dalla necessità che le imprese non solo sopravvivano ma possano aumentare la propria produttività, competitività e capacità occupazionale, in modo sostenibile e responsabile. Tutti questi soggetti devono quindi essere coinvolti e avere voce in capitolo, attuando l'art. 46 e valorizzando il secondo comma, piuttosto del primo, dell'art. 41, oltre che l'art. 43 della Costituzione. Allora è necessario immaginare e sperimentare nuove forme di organizzazione del lavoro (meno gerarchizzate, più circolari e partecipate), nuove frontiere contrattuali (meno “aziendali” e più territoriali, dunque meno categoriali e più “inclusive”), nuove relazioni sindacali (meno unilaterali, più condivise e bilaterali), nuove forme di concertazione se non di co-decisione (con le amministrazioni locali e con comitati di cittadini).
In altri termini, alla de-regolamentazione, de-centramento e de-collettivizzazione del lavoro si può reagire immaginando un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla democrazia industriale, economica e politica.
A forme di co-decisione (hard o soft) con sindacati e lavoratori interni all'impresa, tutte ancora da realizzare, andrebbero poi affiancate altre forme di partecipazione degli stakeholder. Peraltro, porre dei limiti a quella discrezionalità manageriale che si è rivelata fallimentare, porta vantaggi alla stessa impresa: come ha ben evidenziato Streek (Streek, 2009), si tratta di “vincoli benefici” se, da un lato, impediscono all'impresa di compiere scelte irresponsabili, dall'altro le permettono di essere sostenuta da una pluralità di soggetti nei periodi di crisi.
All'alba di un nuovo secolo, dopo il crollo delle ideologie che hanno dominato il Novecento, dopo che si sono resi evidenti gli sfasci di un modello di sviluppo affidato solo al libero mercato, diventa urgente oggi immaginare un nuovo modello e scegliere i principi su cui fondarlo. Dei tre principi fondanti la società moderna (liberté, egalité, fraternité) bisogna realizzare ancora una solidarietà che vada di pari passo con la partecipazione libera ed egualitaria. Infatti, nell'era post-fordista, informatica e tecnologica, i lavoratori, così come la società civile, potrebbero disporre, se messi nelle giuste condizioni culturali e socio-economiche, di tutti gli strumenti per conoscere, comprendere, partecipare e decidere.
D'altronde, questa richiesta di partecipazione giunge direttamente dagli stessi cittadini e lavoratori, che negli ultimi anni la reclamano in misura sempre maggiore e insistente. Esempi emblematici sono la nascita di movimenti che rivendicano i beni comuni (dai Comitati Acqua Bene Comune ai No Tav, dalle occupazioni a scopo culturale alle leggi d’iniziativa per la gestione del paesaggio), di forme di solidarietà dal basso (Banca delle ore, car sharing, co-housing e co-working, crowdfunding ecc., e in generale, il progressivo sviluppo bottom-up della c.d. sharing economy), il successo di partiti che fanno della partecipazione diretta dei cittadini, sebbene in alcuni casi in modo populistico, il loro cavallo di battaglia, così come di casi in cui non scandalizza la possibilità di commissariamento di imprese irresponsabili (vedi, in Italia, il caso Ilva) o di rilevamento della fabbrica in crisi da parte degli operai (come l'esperienza argentina delle Empresas recuperadas por sus trabajadores, su cui cfr. A. Marchetti, 2014 ).
La democrazia economica e politica è il primo passo necessario per permetterci di immaginare un nuovo modello di sviluppo fondato su una solidarietà responsabile e partecipata.
Cenni bibliografici:
L. Gallino, (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza.
A. Marchetti, (2013), Fabbriche aperte - L'esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Il Mulino.
J. E. Stigliz, (2012), The Price of Inequality, Norton & Company.
W. Streek, (2009), Re-forming Capitalism, Oxford University Press.
L'appello . Ventuno ong di tutto il mondo (in rappresentanza di 200 milioni di persone) indicano le 10 misure per evitare che il climate change raggiunga un punto di non ritorno.
Il manifesto, 10 settembre 2014
Ventun organizzazioni del Nord e del Sud del mondo (in Italia Fairwatch), in rappresentanza di oltre 200 milioni di persone, hanno sottoscritto e un appello in 10 punti che indica le misure per evitare che i cambiamenti climatici in corso raggiungano un punto di non ritorno. E’ un appello alla mobilitazione contro la convocazione da parte del Presidente dell’ONU Ban Ki Moon di un Vertice sul clima il 23 settembre a cui ha invitato solo leader politici e manager del big business, con una scarsa e compiacente delegazione di associazioni ambientali, per avallare uno “scippo” della lotta ai cambiamenti climatici da parte di chi vuole usare questa emergenza planetaria per fare business, con misure e politiche non vincolanti, a carattere privatistico, che mirano solo al profitto e sono sicuramente inefficaci.
Se i dieci punti della dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras, integrati e specificati in un work in progress tutt’ora in corso, hanno offerto ai promotori, ai sostenitori e agli elettori della lista L’altra Europa – ma anche a chi ha guardato a questo progetto con interesse, anche se non l’ha votato – un punto di riferimento per collocare in un contesto europeo l’iniziativa delle forze antagoniste alle politiche di austerity, questi nuovi “dieci punti” possono ora permettere a tutti di riconoscersi e di partecipare a uno schieramento di ampiezza e di respiro planetari. Ritroviamo in questo appello molti dei punti sinteticamente presenti nel manifesto da cui è nata la Lista L’altra Europa; oltre a promuovere e sostenere una mobilitazione su un tema di vitale importanza per il futuro di tutti e quasi scomparso dall’agenda dell’establishment italiano, europeo e mondiale, occorre ricondurre e far vivere quegli obiettivi di carattere globale nel vivo dell’iniziativa politica locale e quotidiana.
Le rivendicazioni di questo appello sono state definite sulla base delle acquisizioni dell’IPCC, la commissione scientifica dell’ONU che studia i cambiamenti climatici, ma in essi troviamo intrecciati temi ambientali, economici, sociali e istituzionali, che è l’approccio che caratterizza il progetto L’altra Europa.
I primi tre punti dell’appello rivendicano impegni vincolanti (cioè sanzionati): a) a contenere le emissioni annue climalteranti a 38 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il 2020, per impedire che la temperatura del pianeta aumenti di più di 1,5 gradi; b) a lasciare sotto terra o sotto il fondo dei mari almeno l’80 per cento delle riserve fossili conosciute; c) a mettere al bando tutte le nuove esplorazioni ed estrazioni di combustibili fossili (e di uranio), comprese, a maggior ragione, quelle effettuate con il fracking e il trattamento delle sabbie bituminose; d) a soprassedere alla costruzione di nuovi impianti di trattamento e trasporto dei fossili, compresi i gasdotti. Si tratta di rivendicazioni agli antipodi delle politiche energetiche dell’UE e della Strategia energetica nazionale (SEN) adotta dall’Italia. Ma sono obiettivi impegnativi anche per un movimento come la lista L’altra Europa, che ha fatto della conversione ecologica un pilastro del suo programma e ha candidato un esponente di punta del movimento NoTriv. Non c’è molto da discutere, insomma, per fare un esempio, su progetti come quello estrattivo di Tempa Rossa (in Basilicata) e il suo complemento nel raddoppio della raffineria Eni di Taranto; o come il gasdotto transadriatico (TAP) che, dopo l’approdo in Puglia, dovrebbe attraversare e scassare tutta la penisola. C’è piuttosto da discutere su come presentare questo obiettivo al pubblico (cosa non facile, dato il silenzio che circonda il tema dei cambiamenti climatici), su come organizzare la necessaria mobilitazione, su come inquadrarlo in un programma generale di riconversione energetica.
Il quarto punto riguarda la promozione delle fonti energetiche rinnovabili (FER) in forme sottoposte a un controllo pubblico o comunitario (cioè “partecipato”). Occorre ricordare che circa l’80 per cento della potenza fotovoltaica installata in Italia è stata assegnata a grandi impianti e che i relativi incentivi – i più alti del mondo – sono andati quasi solo a beneficio di un’alta finanza che nulla ha a che fare con la generazione energetica diffusa. Ma lo stesso vale per molte altre FER. La politica energetica del paese va rivoltata “come un calzino”.
Il quinto e il sesto punto impegnano: a) a promuovere la produzione e il consumo locali di beni durevoli, evitando di trasportare da un capo all’altro del mondo quello che può essere fabbricato in loco; b) a incentivare la transizione a una produzione agroalimentare di prossimità. E’ qui che la conversione ecologica, promuovendo una riterritorializzazione dei processi economici attraverso accordi di programma tra produzione e consumo (il modello, seppur in mercati per ora di nicchia, sono i gruppi di acquisto solidale: GAS) rappresenta una vera alternativa alla globalizzazione dei mercati dei beni fisici: quella che esige una competizione sempre più serrata in una gara al ribasso di salari, sicurezza sul lavoro e protezioni ambientali. Sono rivendicazioni che si riconnettono alle lotte contro la delocalizzazione di fabbriche e impianti, al movimento territorialista che su questi temi ha al suo attivo, soprattutto in Italia, una corposa elaborazione, e alla spinta verso una nuova agricoltura biologica, multicolturale, multifunzionale e di prossimità. Qui sta anche la principale differenza che separa la conversione ecologica dalla mera adozione di politiche “keinesiane” di sostegno alla domanda con incrementi di spesa pubblica (in infrastrutture e servizi) e incentivi al consumo (detassazione dei redditi bassi e rottamazioni) finanziati in deficit. In un mercato globalizzato una maggiore domanda non si traduce necessariamente in aumenti di offerta e occupazione nello stesso paese, se non è ancorata a una progettualità diffusa e differenziata in base alle esigenze e alle caratteristiche dei diversi territori; il che richiede anche nuove forme di democrazia partecipata e di autogoverno.
Il settimo e l’ottavo punto riguardano l’obiettivo “rifiuti zero” (centrale nei territori massacrati da criminalità ambientale e malgoverno), un’edilizia a basso consumo energetico e un trasporto di persone e merci con sistemi di mobilità pubblici e condivisa.
Il punto nove raccomanda la creazione di nuova occupazione finalizzata alla ricostituzione degli equilibri ambientali, sia nel campo delle emissioni climalteranti che in quello dell’assetto dei territori. Sono le “mille piccole opere” in campo energetico, nella manutenzione dei suoli, nei trasporti, nell’edilizia e in agricoltura in cui dovrebbe articolarsi un piano di lavori pubblici per creare subito un milione di posti di lavoro in Italia e sei milioni in Europa rivendicato da molte organizzazioni.
Il decimo punto impegna a smantellare industria e infrastrutture militari per ridurre le emissioni prodotte dalle guerre e destinare a opere di pace le risorse risparmiate. Non ci sono solo gli F35 da bloccare (cosa sacrosanta); c’è tutta l’industria e l’occupazione belliche da riconvertire: le opportunità di impieghi alternativi non mancherebbero certo.
L’appello prosegue indicando le cose da evitare: a) la mercificazione, la finanziarizzazione e la privatizzazione dei servizi forniti dall’ambiente (cioè tutta la cosiddetta “green economy”, quella che dà un prezzo alla Natura); b) i programmi misti pubblico-privato come REDD (che dovrebbe contrastare deforestazione e degrado boschivo) e altri simili, finalizzati solo a creare nuove occasioni di profitto; c) le soluzioni esclusivamente tecnologiche ai problemi ambientali (qui l’elenco è lungo e sicuramente discutibile: geoingegneria, OGM, agrocombustibili, bioenergia industriale, biologia sintetica, nanotecnologie, fracking, nucleare, incenerimento dei rifiuti); d) le grandi opere inutili: si citano dighe, autostrade, grandi stadi (e noi possiamo aggiungere TAV, MOSE e quant’altro); e) il libero commercio e i regimi di investimento che minaccino il lavoro, distruggono l’ambiente e limitano la sovranità economica dei popoli: possiamo tradurre questo punto in TTIP e TISA.
In conclusione l’appello invita a individuare e denunciare le vere radici dei guasti che incombono sul pianeta: il modello industriale di estrazione crescente di risorse, il produttivismo per il profitto di pochi a scapito dei molti (cioè il capitalismo e un modello di crescita illimitata), che vanno sostituiti con un nuovo sistema che persegua l’armonia tra gli umani, connetta la lotta ai cambiamenti climatici ai diritti umani e offra protezione ai più deboli: soprattutto migranti e comunità indigene. Questo modello industriale – conclude il documento – non è più sostenibile; occorre redistribuire la ricchezza oggi controllata dall’1 per cento della popolazione e ridefinire il benessere, che deve riguardare tutte le forme di vita, riconoscendo i diritti della Natura e di “Madre Terra”.
C'è qualcuno, in Italia, che vuole recuperare il ritardo della cultura nostrana rispetto a quella degli altri paesi del Primo e del Terzo mondo, nella ricerca sul lascito del grande intellettuale comunista. Si comincia dalle parole chiave. "egemonico/subalterno", "ideologia/egemonia", "società civile". Auguri di buon lavoro. Un articolo di Paolo Ercolani e un'intervista a Gianni Francioni.
Il manifesto, 9 settembre 2014
«Difficile fare il
watchdog se si può lavorare solo su slides anziché su testi di provvedimenti. Ma la politica del Governo Renzi in questi primi sei mesi è piena di raffiche di annunci ben presentati in powerpoint nelle conferenze stampa e molto avara di articolati, relazioni tecniche e decreti attuativi». Estratto da "Sei mesi di Governo Renzi", Lavoce.info, 5 settembre (m.p.r.)
Un testo oscuro
Da una bozza (si spera attendibile) del decreto cosiddetto “sblocca Italia” entrato nel Consiglio dei ministri del 30 agosto 2014:
È solo un piccolo esempio estratto da ben 125 pagine di testo. Di più metterebbe a dura prova la pazienza e seriamente a rischio la salute mentale dei lettori. Ma finché questo sarà il modo con cui si scrivono le leggi, rimarrà difficile sbloccare l’Italia. Anche perché l’Italia intera un bel po’ di tempo dovrà spenderlo – ben bloccata – per capire cosa diavolo si voglia dire e, soprattutto, non dire in quelle 125 pagine.
Per citare un recente contributo su queste colonne, in Italia normalmente “a) vengono finanziati progetti di cui non si conoscono gli effetti economici; b) vengono prodotti documenti di programmazione privi di utilità sotto il profilo dell’analisi dei fabbisogni infrastrutturali; c) non vengono abitualmente fornite valutazioni economiche condotte secondo gli standard internazionali oppure vengono presentate valutazioni metodologicamente errate, distorte e non fornite da centri indipendenti”. (1)
Quanto poi alle singole opere “sbloccate” - dalla Napoli-Bari al terzo valico, dalla av Palermo-Catania-Messina (apertura cantieri prevista per il dicembre 2015) al raccordo av per gli aeroporti di Malpensa, Fiumicino e Venezia - i dubbi sono moltissimi. Sulla Napoli-Bari e il terzo valico rinviamo ai contributi su queste colonne. A cosa potrà mai servire l’alta velocità a Malpensa se il nuovo dominus dei cieli nazionali (Ethiad) punta a fare di quello scalo il principale aeroporto cargo d’Italia (e forse d’Europa)? Dare un contentino alla Lega nella sua roccaforte varesotta? E a che cosa servirà puntare tanti soldi su ben tre valichi ferroviari (Torino-Lione, Brennero e terzo valico) quando, notoriamente, il trasporto cargo su ferrovia è ai minimi storici per motivi “gestionali” e non infrastrutturali? Infine, siamo sicuri che la defiscalizzazione delle opere autostradali, magari con l’aggiunta di un ennesimo allungamento delle concessioni, sia un contributo serio a sbloccare l’Italia e non piuttosto un altro robusto anello della catena che la blocca da anni in una fitta e opaca rete di protezioni biunivoche tra politica e imprese che non rischiano niente?
(1) Per una breve sintesi storico-critica sulla valutazione in Italia si veda “L’errore strategico nelle valutazioni italiane”, di S. Maffii, R. Parolin e M. Ponti, Milano, Politecnico, 6 giugno 2014.
«Dal senato alla pubblica amministrazione, passando per la legge elettorale, Renzi stringe le maglie dell’assetto democratico per un controllo autoritario del malessere sociale». Gelli, Cossiga, Craxi, Berlusconi popolano il suo Pantheon. Il manifesto, 9 settembre 2014
Da Bologna Renzi ci ha servito l’usuale mix di battute e frasi a effetto. Risultato elettorale da brividi, la salvezza del paese è nelle nostre mani e non in quelle dell’Europa, gli 80 euro in busta paga sono un fatto di equità sociale, eguaglianza e non egualitarismo, no a modelli cinesi del lavoro, niente lezioni dai tecnici della I Repubblica, riforme a ogni costo, basta gufi e così via. L’appuntamento è al 2017. In politica – per non scadere nella pubblicità ingannevole — sarebbe buona cosa non discostarsi troppo dal già detto e dall’evidenza.
Berlusconi è stato maestro nell’inosservanza di questa regola, che in paesi più seri del nostro è parametro primario per la valutazione dell’agire politico di chiunque. Renzi merita un dottorato. L’elenco delle parole e degli annunci smentiti dai fatti o da lui stesso è lungo. L’unica realtà certa è che i parametri europei rimangono fermi, e che per rientrarvi si rendono necessarie misure pesanti, come l’ulteriore blocco degli stipendi degli statali. Non basta a giustificarlo la battuta – offensiva per tanti – che nella pubblica amministrazione c’è grasso che cola.
E la tanto auspicata flessibilità? Al momento, l’unica che si vede in concreto è quella che si vuole calare sul lavoro. La prova è nei discorsi di Draghi, di Visco, e nelle ripetute indicazioni che vengono dal mondo della finanza e degli affari. Lo stesso Renzi ha lodato il modello tedesco, dimenticandone il piatto forte: milioni di similcinesi mini-jobs precari e a salari da fame. La disoccupazione scende nelle statistiche, il costo sociale sale.
Padoan ci dice da Cernobbio che ci vorranno almeno tre anni – non più due – per vedere i primi effetti delle riforme. Ma di quali riforme si parla? Quelle concretamente messe in campo fin qui sono volte a ristrutturare l’architettura dei poteri piuttosto che a riportare il paese in un ciclo economico virtuoso uscendo dalla tenaglia deflazione-recessione. Perché? Più che contrastare la crisi, sembra che si voglia disegnare il paese del post-crisi.
Si coglie un disegno negli interventi già in discussione. Con la riforma costituzionale la rappresentatività del parlamento si indebolisce, con l’azzeramento politico-istituzionale del senato. Si attribuiscono al governo poteri sull’agenda dei lavori parlamentari, inclusa una sorta di ghigliottina permanente. Gli istituti di democrazia diretta sono resi ancor meno accessibili. Con la legge elettorale iper-maggioritaria si colpisce la rappresentatività della camera, puntando tutto sul partito che ha più voti e sullo schiacciamento delle opposizioni, oltre che sull’esclusione dalla rappresentanza dei soggetti politici minori. La maggioranza parlamentare è rimessa nelle mani del leader, attraverso liste bloccate. Con la riforma della PA (AS 1577, art. 7, co. 1, lett. b) una delega legislativa vuole tra l’altro rafforzare il primo ministro nell’ambito dell’esecutivo. Hanno infine un ruolo in questo scenario generale primarie aperte che marginalizzano il ruolo delle organizzazioni di partito e degli iscritti, mentre le organizzazioni sindacali sono messe nell’angolo escludendo ogni forma di concertazione.
Può darsi che qualcosa cambi, ma al momento è così. Nessuno dei punti menzionati sarebbe decisivo di per sé. Ma è cruciale coglierne la sinergia, che definisce l’effetto ultimo di una forte concentrazione del potere sul governo, e in particolare sul leader. È il disegno di un populismo fondato sul circuito diretto tra leader e popolo, senza intermediazioni. Il leader diventa il paterno custode dei diritti e delle libertà di tutti. È autoritarismo soft? In fondo, è questione di parole. Di certo, è un disegno che ci viene direttamente dalla I Repubblica. Se ne coglie l’eco in Craxi negli anni ’80, in Gelli, in Cossiga, e infine in Berlusconi. Sono questi gli antenati del Renzi-pensiero in tema di istituzioni.
Questo disegno i tecnici della I Repubblica malmenati da Renzi – o almeno alcuni – l’avevano ben colto. Lo contrastavano perché non democratico, e certamente incostituzionale nella sua essenza. La Costituzione si fonda sul concetto che il potere politico deve essere distribuito, contendibile e responsabile in ogni momento e in ogni sede, non certo iper-personalizzato e assoggettato a verifiche periodiche su base pluriennale, prima delle quali il principio di fondo è mani libere per chi lo detiene.
È questo il modello istituzionale che si ritiene necessario e utile per affrontare la crisi? Concentrare il potere e ridurre la partecipazione per evitare che un popolo troppo sovrano possa sottoporre la barchetta dell’esecutivo a scossoni troppo pericolosi? Non saremo mai d’accordo. Rimaniamo dell’idea che il miglior modo per affrontare difficoltà e sacrifici con soluzioni non precarie sia quello della discussione, del confronto e se necessario della mediazione e del compromesso. In una parola, la democrazia.
E se il disegno fallisse? Padoan vorrebbe ora dall’Europa parametri per misurare la propensione alle riforme di ogni paese. Ma non ci avevano detto che siamo padroni del nostro destino? Suvvia, non è come essere commissariati d’autorità. Noi decidiamo liberamente di essere commissariati.
Se oggi "un fantasma si aggira per l'Europa" non è quello del comunismo, come diceva Marx nel Manifesto Comunista, ma il populismo dell’estrema destra anti-europeista, è il fantasma dell’ euroscetticismo e dell’ anti-europeismo.
Permettetemi di offrire brevemente alcuni dati per comprovare il fallimento del programma in Grecia. In soli quattro anni abbiamo avuto un calo del PIL di quasi un quarto (1/4) , una cosa senza precedenti per un paese in tempo di pace. La disoccupazione ufficiale è arrivata al 28%, il che è inaccettabile per un paese nel cuore dell'Europa, e abbiamo un debito pubblico che, dal 126% del PIL, oggi è al 175% e aumenta ancora. E abbiamo anche una vasta quantità di disinvestimenti. Quindi penso che, partendo dal presupposto che la cura che è stata data al paziente ha aggravato la malattia, dobbiamo essere tutti d'accordo che questa cura debba essere interrotta. E penso che giustamente la maggioranza dei cittadini in Europa dice che la troika, come istituzione che è stata imposta nel quadro istituzionale europeo, deve essere abolita.
Quindi penso che abbiamo bisogno di cambiare strategia, nessuno dice – almeno noi non lo diciamo - che dovremmo tornare ai tempi dei grandi deficit. Ma la insistenza per seguire questa strada, con dedizione dogmatica e religiosa, non porta da nessuna parte.
In primo luogo, molto semplicemente, perché nessun paese nella storia economica moderna può far fronte ad un debito che si avvicina al doppio del suo PIL, un PIL che si sta riducendo di continuo, dal momento che questo paese deve pagare ogni anno oltre 10 miliardi per interessi, ed è tenuto ad avere surplus del 4,5% che deve andare al pagamento del debito. Semplicemente, in modo matematico, con questi dati lo sviluppo non verrà mai. E senza crescita non emergerà dalla crisi. Anche se – e anche noi - crediamo che vi sia ricchezza, soprattutto in Grecia, che ultimi anni è rimasta intatta, e questa ricchezza deve essere tassata, e siamo in grado di trovare così le risorse, però, dobbiamo avere la percezione che abbiamo bisogno di generare nuova ricchezza per uscire dalla crisi. E senza crescita non si produce ricchezza.
In secondo luogo, il programma di privatizzazioni, che si supponeva che era uno degli strumento per uscire dalla crisi, non può funzionare in condizioni di disinvestimenti e svalutazione dei valori. Calcolavano di recuperare 50 miliardi dalle privatizzazioni, abbiamo trovato 2,9 miliardi e nel migliore dei casi, se il programma andrà avanti, troveremo 9 miliardi.
In terzo luogo, le riforme strutturali. Le riforme strutturali sono in direzione opposta delle necessarie riforme strutturali. Non affrontiamo le grandi patologie dell'economia greca: l’evasione fiscale, lo stato clientelare. Con dedizione dogmatica promuovono riforme che hanno a che fare con la liberazione dei licenziamenti, in un'economia che ha quasi il 30% di disoccupazione. Credo che ci siano molte opportunità nel quadro europeo, ma non all'interno della dogmatica aderenza alla logica dell’ austerità, non al contesto della troika.
La troika ha fallito, deve essere fermata. Esistono altre soluzioni. Qui voglio ricordare questo, nel giugno 2012, il signor Monti ha proposto che la ricapitalizzazione delle banche doveva essere direttamente dal ESM, senza gravare il debito pubblico. Con questa proposta, se fosse stata seguita, le cose sarebbero andate meglio.
Così oggi, siamo di fronte ad una realtà che è caratterizzata dalla stagnazione, dal rischio di deflazione, dalla continuazione dei grandi debiti pubblici e privati . Per affrontare questa realtà abbiamo bisogno. In primo luogo, una politica coraggiosa della BCE, di QE. Le proposte di Draghi sono per noi in una direzione positiva, ma servono interventi molto più radicali per affrontare il problema. In secondo luogo, abbiamo bisogno di iniziative di sviluppo a livello comunitario per affrontare la recessione, espandendo il ruolo della Banca Europea per gli Investimenti. In terzo luogo, dobbiamo risolvere – dovevamo averlo risolto ieri, anni fa, quando iniziò la crisi - il problema del debito.
Traduzione di Argiris Panagopoulos
«Profili Facebook rubati tweet apocrifi, blog avvelenati Ma davvero il mondo dei social network si è trasformato in una dittatura virtuale da subire comunque?».
La Repubblica, 7 settembre 2014
Denunciando alla polizia postale un impostore che appare sui social network a suo nome, Andrea Camilleri si aggiunge a un elenco ormai piuttosto lungo di scrittori e intellettuali “reazionari”. Uso questo termine con voluta autoironia, facendo parte anche io di quel novero. Ma ha una sua liceità tecnica: è precisamente di una reazione che si tratta, conseguente a una rivoluzione travolgente che, insieme ai suoi ovvi meriti (così ovvi che ripeterli è stucchevole) ha portato con sé anche effetti collaterali molto negativi.
Più controversa, e per questo forse più interessante, è la discussione sul furto o sull’abuso di identità. Camilleri avrà modo di accorgersene, così come è capitato a me qualche mese fa. Di fronte a chi protesta per l’esproprio del “sé” nelle sue varie forme, scatta in primo luogo un’obiezione “politica”: se sei un personaggio pubblico devi rassegnarti a un’esposizione mediatica decisamente superiore alla media; e se non lo fai, è per una altezzosa indisponibilità al confronto con gli altri, al libero dibattito, all’uso pubblico del tuo lavoro e delle tue parole. In sostanza, non vuoi pagare il prezzo della popolarità. Che questo prezzo non debba e non possa comprendere anche le dichiarazioni apocrife su Facebook (è il caso di Camilleri) o l’uso del tuo nome e della tua faccia per pagine “non ufficiali” che ti vengono comunque attribuite (è il mio caso) o i falsi account su Twitter (è il caso di entrambi) è una considerazione che forse può allentare il sospetto di “non sapere stare al gioco”; ma non riesce a dissolverlo del tutto, anche perché uno dei miti fondanti del web è una specie di totalitarismo democratico che genera una inevitabile diffidenza, più che per il diritto d’autore, per l’autore in sé. È la paternità della parola a sembrare arrogante e “superata” alla moltitudine di parlanti in marcia sul web: perché dunque rivendicarla con tanto puntiglio? Chi ci assicura che il “falso Camilleri” sia più stupido o incapace di quello “vero”, e addirittura che sia “meno vero”? Lo scrittore americano Jonathan Franzen, intervistato da Antonio Monda per questo giornale, disse: «La gente tende a non leggere più i testi ma solo quello che è stato scritto sui testi ». Il web, in questo senso, è uno sterminato contesto, una chat planetaria di potenza così impari che la fagocitazione del testo e dell’autore è uno dei suoi effetti inevitabili.
Ti fanno, poi, se ti lamenti troppo di ritrovarti laddove non sapevi di essere e dove non vuoi essere, una seconda obiezione. Meno politica e più “tecnologica”, e dunque molto insidiosa in un ambito così tecnologico. Quando ebbi a lamentarmi sulla prima pagina di Repubblica dei miei indesiderati “avatar”, giovani lettori e internauti e blogger mi hanno scritto lettere anche severe ma senz’altro utili. Li ringrazio in blocco per avermi insegnato più di una cosa su come funziona il “loro” mondo. Ma già definendolo “loro”, quel mondo, comincio a impostare la mia replica. L’imputazione a mio carico, infatti, è “non conoscere abbastanza i social network”, non capire come funzionano, non saperli usare. Come riprova, mi spiegano che la pagina Facebook “” da me contestata non era, in realtà, un vero e proprio fake, o meglio era un fake veniale: una pagina di discussione aperta a mio nome da un amministratore (che poi non la amministrava affatto, ma questo è un altro argomento), come poteva capire chiunque leggendo la dicitura “pagina non ufficiale”.
In replica ho da dire due cose. La prima: il mio grado di conoscenza del web (come, suppongo, quello di Camilleri e di altri non nativi digitali per ragioni anagrafiche) discende dall’uso che decido di farne. Cerco informazioni e notizie, navigo, consulto, scrivo, leggo. Ma non uso i social network. Perché dovrei estendere la mia conoscenza anche al funzionamento e al linguaggio dei social network, dal momento che NON è un mondo nel quale abito? Non è forse leggermente totalitario (è la seconda volta che uso questo termine) supporre che tutti debbano non solo usare il web, ma abitarci, impararne la lingua, perché il solo modo per difendersi dai pericoli del web è entrarci dentro mani e piedi e presidiare la propria posizione pre-assegnata? (da chi? da Dio? dal destino?). Allo stesso modo, non è agghiacciante che il suggerimento univoco che amici espertissimi mi diedero, mesi fa, è «apri la tua pagina Facebook, apri il tuo account su Twitter, è l’unico modo che hai per difenderti»? Ripeto quanto scrissi allora: sono, i social network, l’unico e il primo club nella storia dell’umanità al quale iscriversi è obbligatorio?
Secondo. L’esempio della mia “pagina non ufficiale”, ora chiusa, dimostra in modo lampante che l’equivoco non riguarda me (che abito altrove), ma gli abitanti stessi del web: molti dei quali scrivevano inviti, complimenti, insulti a me diretti rimanendo molto sorpresi o molto offesi dalla mia mancata risposta, e dunque loro, non io, incapaci di decifrare quel sotto- cartello (pagina non ufficiale) appeso sotto l’insegna principale, che portava scritto in grosso il mio nome. Se il problema è di comprensione di quella lingua, vale per chi quella lingua vuole parlare, o pretende di farlo. Non è a me o a Camilleri o a qualunque altro renitente o disertore che i professori di web devono spiegare dove sta l’errore, ma alla moltitudine che ne fa uso quotidiano. Controprova (che devo a uno dei miei giovani corrispondenti): esiste un account Twitter “Renzo Mattei”. È subissato di insulti contro Matteo Renzi. Accecato dalla fretta, dalla foga, dall’irriflessività, il toro carica senza neanche darsi il tempo di capire che non ha di fronte Matteo Renzi, ma un ilare fantoccio che ne imita il nome. Il tempo per riflettere, quello, è un benefit che il web non prevede: o uno se lo prende da sé, o è destinato a soccombere ai propri istinti e ai propri errori.
Bisognerebbe che gli abitanti dei social network, piuttosto che perdere il loro tempo a sottolineare l’inettitudine, l’estraneità, l’anacronismo di noi assenti o fuggiaschi, facessero meglio i conti con un problema che è decisamente più loro, degli utenti, che nostro. Noi non utenti possiamo, al massimo, far presente che non c’entriamo e non vogliamo entrarci: almeno fino a che ne avremo la facoltà, meglio ancora la libertà. Ma a loro sarebbe utile cogliere, nella nostra stravagante assenza, qualche segnale utile a rendere più piacevole e veritiera la loro presenza.
Ps – Per non mettere troppa carne al fuoco accenno appena alla questione, gigantesca, dell’altrettanto gigantesco lucro che i falsi profili e i falsi account portano nelle tasche degli oligopolisti padroni dei social network. Secondo il New York Times, i falsi account su Twitter producono, da soli, utili per trecento milioni di euro all’anno.
Il Fatto quotidiano, 6 settembre 2014
Il più virtuoso esempio di sponsorizzazione del patrimonio culturale italiano
L’impeccabile stile istituzionale (e per nulla ‘aziendalistico’) della pagina rispecchia l’altissima qualità del progetto, e il suo spirito civico. E il contratto di sponsorizzazione non riserva cattive sorprese: siamo molto lontani da quello per il restauro del Colosseo, in cui lo Stato si è genuflesso di fronte aDiego Della Valle. Non per caso Eni – che è la più grande impresa italiana– non è un privato: per il 30% è ancora pubblica, e una golden share ne affida il controllo al governo italiano.
Probabilmente per questo le contropartite assicurate dallo sponsee (cioè dal Comune) sono accettabili: «Nel complesso monumentale e nell’area circostante verranno definiti dei luoghi dove, oltre alla presenza del marchio Eni, potranno essere comunicati i lavori di restauro e il loro stato di avanzamento», «a conclusione dei lavori, una targa perenne riportante il ruolo di Eni alla realizzazione del progetto sarà posizionata all’ingresso della Basilica in forme compatibili con il carattere storico-artistico, l’aspetto e il decoro dell’immobile», e ci sarà la «possibilità di organizzare eventi, nel rispetto della sacralità dei luoghi e nei tempi e modi preventivamente concordati tra le Parti, all’interno del complesso monumentale della Basilica». Semmai la richiesta di dedicare a Enrico Mattei il parco antistante alla Basilica appare, francamente, un po’ eccessiva.
Il "ma": che fa l'ENI nel mondo?
In più, Amnesty ha ricordato che «Eni ha concordato con le autorità statunitensi di pagare una somma di 365 milioni di dollari come forma di patteggiamento per il caso di corruzione relativo all’impianto di gas liquefatto di Bonny Island, nel Delta del Niger ». E che «a febbraio le autorità giudiziarie di Milano hanno comunicato ufficialmente che lo stesso AD Scaroni [oggi sostituito da Emma Marcegaglia] è sotto inchiesta per una ipotetica tangente di 197 milioni di dollari versata fra il 2009 e il 2010 per un corposo affare dal valore di oltre 11 miliardi di dollari. Anche su un possibile caso di corruzione in Kazakistan relativo all’aggiudicazione dei contratti dell’impianto di Karachaganak e del progetto di Kashagan vede attivi gli inquirenti kazaki e italiani».
Ora, il contratto dice che Eni ha sponsorizzato il restauro di Collemaggio per «un significativo ritorno di immagine volto a rafforzarne il valore e la reputazione aziendale». La domanda è: è giusto che ciò che accade nel delta del Niger venga coperto da ciò che avviene all’Aquila? È giusto che un monumento pubblico ed edificio sacro di valore simbolico straordinario sia associato perennemente al nome controverso dell’Eni? La sua carta etica proibisce al Louvre di accettare donazioni da imprese per il cui operato esista «un dubbio di legalità»: noi intendiamo porci il problema?
La parola "mecenatismo": chi era Mecenate?
Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Siamo proprio sicuri di voler tornare indietro?
. La Repubblica, 6 settembre 2014
Da qualche mese a questa parte, è diventato un luogo comune osservare come l’ascesa dello Stato islamico in Iraq e in Siria, o Is, rappresenti l’ultimo capitolo nella lunga storia del risveglio anticolonialista . E al tempo stesso un nuovo capitolo nella lotta contro il modo in cui il capitale globale mette a rischio il potere degli Stati nazione.
A causare tanta paura e costernazione è invece un altro aspetto di quel regime, ovvero le affermazioni pubbliche con cui le autorità dell’Isis precisano che l’obiettivo principale del potere statale non è quello di coordinare il benessere della popolazione. Ciò che realmente conta, dichiarano, è la vita religiosa e la capacità di garantire che ogni aspetto della vita pubblica soddisfi i precetti della religione. Ecco perché l’Isis rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie all’interno del proprio territorio.
Uno slogan che evidenzia il divario che separa la nozione di potere, così come viene praticato dall’Isis, dalla moderna nozione occidentale di quello che Michel Foucault definì “biopotere”: la legge che regola l’esistenza al fine di garantire il benessere di tutti. Il califfato dell’Isis rifiuta completamente la nozione di biopotere.
Mentre l’ideologia ufficiale dell’Isis critica aspramente il permissivismo occidentale, le sue gang praticano quotidianamente delle orge grottesche e su larga scala.
Ciò significa forse che l’Isis è premoderna? Anziché vedere nell’Isis un esempio di resistenza estrema alla modernizzazione bisognerebbe semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa, e collocarlo tra le modernizzazioni conservatrici inaugurate nel Giappone del XIX secolo dal Rinnovamento Meiji (in cui la rapida modernizzazione industriale assunse la forma ideologica di “rinnovamento”, o completo ripristino dell’autorità imperiale).
La foto che mostra Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, che indossa un pregevole orologio svizzero è emblematica: l’Isis è ben organizzata in fatto di propaganda web e transazioni finanziarie, benché si serva di questi mezzi ultramoderni per propagare e imporre una visione ideologica e politica che più che essere conservatrice rappresenta un disperato tentativo di imporre delle chiare delimitazioni gerarchiche.
Tuttavia non bisognerebbe dimenticare che anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista rigidamente disciplinata e regolamentata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) intensificata dal modo in cui le singole unità militari dell’Isis sembrano funzionare? Mentre l’ideologia ufficiale dell’Isis critica il permissivismo occidentale, nella pratica quotidiana le sue gang compiono delle vere e proprie orge a base di rapine, stupri di gruppo, tortura e uccisione degli infedeli.
A guardar bene, anche l’ostentata, eroica prontezza con cui l’Isis sembrerebbe disposta a rischiare tutto appare più ambigua. Molto tempo fa Friedrich Nietzsche scrisse che la civiltà occidentale stava imboccando la via dell’Ultimo Uomo: una creatura apatica, incapace di impegno, di grandi passioni e di sogni. Un individuo stanco della vita, che evita qualsiasi rischio e si accontenta di condurre un’esistenza confortevole e sicura. «Un po’ di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte. Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità”, dicono ammiccando gli ultimi uomini».
Si potrebbe credere che il divario tra il Primo mondo, permissivo, e la reazione fondamentalista ad esso ricalchi vieppiù la linea che separa la vita di chi conduce un’esistenza lunga e ricca di soddisfazioni, fatta di benessere materiale e culturale, da quella di chi dedica la propria esistenza a qualche causa trascendentale. Non è forse questo l’antagonismo tra ciò che Nietzsche chiamava nichilismo “passivo” e nichilismo “attivo”? Noi occidentali siamo gli Ultimi uomini di Nietzsche: immersi in sciocchi svaghi quotidiani mentre i radicali musulmani appaiono pronti a rischiare tutto, impegnati come sono nella lotta sino all’autodistruzione.
Il Secondo avvento di William Butler Yeats sembra calzare perfettamente alla difficile situazione in cui ci troviamo: «I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori si gonfiano d’ardore appassionato». È un’eccellente descrizione dell’attuale divario tra i liberali anemici e gli ardenti fondamentalisti. “I migliori” non sono più capaci di un coinvolgimento totale, mentre “i peggiori” si fanno coinvolgere da un fanatismo razzista, religioso e sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti sono davvero fondamentalisti, nel senso autentico del termine? Ciò che fa loro difetto è un tratto che si mostra invece evidente in ogni vero fondamentalista, dai buddisti tibetani agli amish degli Stati Uniti, ovvero l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi sono davvero convinti di aver trovato la via che conduce alla Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti? Perché dovrebbero invidiarli?
A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente infastiditi, incuriositi ed affascinati dal peccaminoso stile di vita dei non credenti. Si sente che nel combattere l’altro, colui che pecca, essi lottano in realtà contro le proprie tentazioni. Ecco perché i cosiddetti fondamentalisti dell’Isis rappresentano una disgrazia per l’autentico fondamentalismo.
Ed è a questo punto che la diagnosi di Yeats si distacca dalla situazione attuale: l’appassionata intensità di un’orda indica la mancanza di un’autentica convinzione. E nel loro intimo, anche i terroristi fondamentalisti non possiedono una convinzione autentica - come dimostrano le loro violente reazioni. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano, se un’insulsa caricatura pubblicata da un giornale danese a scarsa tiratura basta a farlo sentire minacciato. Il terrore fondamentalista islamico non si basa sulla convinzione che i terroristi hanno della propria superiorità o sul loro desiderio di salvaguardare la propria identità culturale e religiosa dai violenti attacchi sferrati dalla civiltà consumistica globale.
Il problema non è che consideriamo i terroristi fondamentalisti inferiori a noi, ma piuttosto che loro stessi si considerano intimamente inferiori. Paradossalmente, ciò che i fondamentalisti dell’Isis e altri come loro non possiedono affatto è proprio l’autentica convinzione della propria superiorità.
© 2-014 The New York Times Traduzione di Marzia Porta)
«Le misure per beni artistici e pubblica istruzione ricordano la
deregulation del presidente Usa. Una rivisitazione di progetti degli esecutivi di colore opposto. Che mette a rischio il nostro patrimonio».
L'Espresso, 5 settembre 2014
La resistibile ascesa di Matteo Renzi si regge su due opposte liturgie: da un lato, un nervoso movimentismo presentista fatto di quotidiane promesse e spiritosaggini (coni gelati, ice bucket). Dall’altro, il tenace attaccamento a una rendita di posizione fondata sul mantra di Mrs. Thatcher: «non c’è alternativa».
Fra l’una e l’altra liturgia, un abisso: la distanza fra le parole e i fatti. La grande sveltezza del premier, un treno in corsa dove «il traguardo è nulla, il movimento è tutto» (E. Bernstein, 1899), proclama rottamazioni, rivoluzioni, innovazioni. Ma la rendita di posizione ha una regola ferrea: venire a patti coi soliti noti. Dunque rottamare tutti, salvo il Gran Non-Rottamabile Berlusconi eleggendolo, anzi, a consorte di una Costituente a due, al servizio dei diktat della finanziaria J.P. Morgan; spacciare per rivoluzione il riciclaggio di progetti del centro-destra; sbandierare “riforme” che condannano il Paese alla stagnazione.
Principale instrumentum regni è l’effetto-annuncio, dove l’annuncio non solo precede il fatto, ma ne prende il posto. Le leggi si travestono da slide show o si comprimono in slogan, meglio se in inglese. I noiosi provvedimenti d’antan, che avevano la pessima abitudine di entrare nel merito, soppiantati da scattanti tweet: e come si può dare la copertura di bilancio in 140 caratteri? Ogni disegno di legge è preceduto da un pulviscolo di comunicati e anticipazioni: una manna per giornalisti e professori che non studierebbero mai un vero articolato, ma chiosano seriosamente i flash d’agenzia. In questa fuga in avanti non è chiaro quanto sia dovuto alla scarsa familiarità del premier con la macchina dello Stato e quanto, invece, sia calcolato per dirottare la pubblica opinione. In ogni caso, quando dopo infinite doglie fuoriesce da Palazzo Chigi un testo compiuto, ogni energia critica è già logorata dalla discussione preventiva su indiscrezioni e bozze.
Proprio questo è successo ai Beni Culturali: prima un vago schema della riforma, che poi rimbalza da un Consiglio dei Ministri all’altro, fino al trionfale annuncio: approvata il 29 agosto. E il testo? Non c’è, arriverà tra un po’, «salvo intese». Formula che, spiega il “Corriere”, vuol dire che «c’è accordo di massima nel governo ma la questione verrà definita solo nella stesura vera e propria del testo, con modifiche possibili fino alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale». Ma allora che cosa mai ha approvato il governo? E quali sono i dissidi da risolvere? Renzi, pare, vuole accrescere il ruolo dei privati: impresa disperata, dopo che perfino l’Art Bonus, che dovrebbe generare modesti introiti (2,7 milioni nel 2015), è stato sfigurato dal codicillo che consente donazioni da farsi ai concessionari privati. Una donazione fra privati avrà dunque il beneficio di uno sconto fiscale pubblico.
Identiche le impronte digitali nella riforma della pubblica amministrazione, che (per esempio) abolisce il Magistrato alle Acque, insigne istituzione veneziana fondata nel 1505 e sopravvissuta alla fine della Serenissima, ai domini francese e austriaco, ai governi italiani, ma non allo scandalo Mose. Ma dov’è la novità? Le stesse competenze sono trasferite al Provveditorato alle Opere Pubbliche (dipendente da Lupi), il numero uno della struttura è lo stesso, e tanto per proteggere la Laguna l’8 agosto il governo ha accolto le richieste degli armatori delle grandi navi, dando il via al devastante ampliamento del Canale di Contorta Sant’Angelo: una decisione «da barbari», commenta il massimo esperto degli equilibri lagunari, Luigi D’Alpaos.
Quanto alla scuola, a parte la farsa di centomila assunzioni rimangiate in un giorno, le dichiarazioni del ministro Giannini fanno trasecolare: la scuola pubblica risorgerà grazie a capitali privati; intanto, per «garantire la libertà di scelta educativa» bisogna archiviare il «pregiudizio ideologico» che privilegia la scuola pubblica su quella privata. Giannini copia impudicamente la sua predecessora Gelmini, secondo cui «la Costituzione dice che la scuola, sia statale sia paritaria, è sempre pubblica». Ma la Costituzione dice il contrario (art. 33): «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
In questi ambiti, Renzi è un innovatore o no? Non lo è, perché innovare non è riciclare i progetti del centro-destra e la deregulation reaganiana. Lo è, invece, per uno stile di governo che punta tutto sull’effimero e nulla sul permanente. Metafora dell’Italia di Renzi è Cinecittà: l’attività degli stabilimenti è quasi nulla, ma in compenso c’è una copia conforme, un parco a tema, Cinecittà World. Finzione anziché lavoro, intrattenimento in luogo della produzione. Come rivoluzione non c’è male.