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La Repubblica, 18 novembre 2014

UNO dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (CNL), in attesa di una legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna. Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.

Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.

Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.

Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.

C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.

«Dalla Toscana alla Puglia: “Noi fermiamo il cemento, lui no” E dopo le polemiche Palazzo Chigi frena: “Ora pensiamo ai danni”». Solito scarica barile all'italiana, e alla fine nessuno ha colpa e nessuno deve dar conto di quanto fatto o non fatto.

La Repubblica, 17 novembre 2014 (m.p.r.)

Ci sono vent’anni di politica del territorio da rottamare, ha detto il premier Matteo Renzi. «Anche in regioni del centrosinistra». Con il sole che torna a scaldare la Liguria dopo cinque giorni di pioggia, il presidente della Regione Claudio Burlando è il primo a rispondergli: «Il problema del territorio è legato anche ai condoni edilizi. Non li ha fatti il premier e non li abbiamo fatti noi, sono stati fatti a Roma. Tre condoni in trent’anni». La Liguria è devastata. «Abbiamo danni per un miliardo. Come enti locali potremo arrivare a cento milioni, poi deve intervenire il Patto di stabilità». L’assessore ligure al Bilancio, Pippo Rossetti, propone a Renzi: «Deve chiedere un intervento finanziario straordinario dell’Unione europea, i trattati lo consentono. E deve chiedere di togliere dai vincoli di bilancio dello Stato cento miliardi per un piano straordinario nazionale di difesa del suolo».

È duro con il premier anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi: «Noi abbiamo già rottamato», assicura, «abbiamo approvato la legge che blocca il nuovo consumo di suolo, fatto la legge per il divieto di costruire nelle aree a rischio idraulico, approveremo a breve il piano del paesaggio. La Toscana è un esempio, non mi sembra si possa dire altrettanto della proposta avanzata dal ministro Lupi». Rossi si riferisce al contestato Sblocca Italia che finanzia autostrade, trafori e allenta i vincoli ambientali sulle nuove opere. Il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, dice di non sentirsi toccato: «Sono alla guida della Regione da quattro mesi, i problemi sono parecchi e sto provando a risolverli, anche proponendo di sforare il Patto di stabilità».
I governatori leghisti non vogliono fare polemica. Luca Zaia, alla guida del Veneto: «L’Italia ha bisogno di un piano Marshall sulla tutela dal dissesto idrogeologico. In Veneto in quattro anni abbiamo messo in piedi 925 cantieri per realizzare i grandi bacini di laminazione. In un momento di emergenza servirebbero poteri speciali ed esclusivi ai governatori, più risorse ai territori». Quindi Roberto Maroni, presidente della Lombardia: «Tutti hanno responsabilità e Renzi ha un’occasione per dare una risposta concreta. Il governo deve finanziare le vasche per contenere le piene del fiume Seveso a Milano. Ci sono venti milioni della Regione e dieci del Comune, mancano gli ottanta promessi dal governo». Nichi Vendola, dallaPuglia: «Non ci sentiamo chiamati in causa dalle parole del presidente Renzi, il monitoraggio della task force di Palazzo Chigi sul rischio idrogeologico ci dava fra le regioni che avevano realizzato la quasi totalità degli interventi. Questa tipologia di lavori, molto complicata, andrebbe ripensata. Molti interventi di competenza del ministero dell’Ambiente sono bloccati e le parole di Chiamparino sono vere: gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio dovrebbero stare fuori dal Patto di stabilità».
In serata Renzi ha voluto fermare il conflitto istituzionale, ma ha ribadito che in alcune regioni si è costruito troppo e male: «Non parlino di condoni a me che da sindaco ho fatto un piano strutturale a volumi zero». Il premier ha poi ricordato di avere appena varato l’unità di missione contro il dissesto idrogeologico: «Ora mettiamo a posto i danni e poi cambieremo le regole». Il verde Angelo Bonelli ha difeso Renzi e ricordato che il presidente della Regione Liguria, Burlando, «ha approvato un piano casa che riempie di cemento la Liguria e ridotto il limite di edificazione dai fiumi a tre metri». Beppe Grillo attacca sul suo blog: «Tra un po’ Genova scivolerà in mare e nessuno avrà alcuna responsabilità. Renzie ( come chiama il premier) e Alfano hanno morti di pioggia sulla coscienza». Oggi il sottosegretario Graziano Delrio e il prefetto Franco Gabrielli saranno a Genova, Alessandria e Milano.
«A sorpresa è arrivata l’intesa Usa-Cina sulla riduzione delle emissioni, con il gigante asiatico che per la prima volta accetta il principio di limitare le proprie. Crescono così le possibilità di un vero accordo globale sul clima. Ma alle parole devono seguire i fatti, soprattutto a Occidente».

Lavoce.info, 14 novembre 2014 (m.p.r.)

Verso Parigi con una delusione non dimenticata

Gli esperti e l’opinione pubblica ricordano ancora la grande delusione di Copenhagen 2009. Da quella riunione si ci aspettava che sbocciasse il nuovo accordo globale sul clima fatto di target di riduzione delle emissioni di gas-serra vincolanti per ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India all’Europa, dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada. Si trattava della quindicesima riunione della Conferenza delle parti (Cop15), il summit sul clima che ogni anno riunisce attorno a un tavolo oltre 190 paesi. Molti avevano vissuto l’attesa di quel vertice Onu nella convinzione, rivelatasi poi illusione, che quanto gli scienziati indicavano come necessario per ridurre la crescita della temperatura globale fosse di per sé sufficiente a convincere i principali emettitori a firmare un accordo vincolante.

Non andò così. E da allora il negoziato si è trascinato nel tentativo di portare i paesi più recalcitranti – ovvero tutti i grandi emettitori tranne l’Unione Europea – a un negoziato i cui risultati possano sfociare in una nuova architettura del clima globale, come quella che fu dettata dal protocollo di Kyoto. Talvolta ci si illude che piccoli passi e accordi su punti marginali possano improvvisamente e quasi magicamente produrre il miracolo di fare uscire la situazione da quello stallo che gli economisti chiamano dilemma del prigioniero. Perché mai un paese dovrebbe fare sforzi di riduzione delle proprie emissioni se i benefici saranno goduti da tutti, anche da quelli che hanno fatto uno sforzo minore e addirittura nessuno? Così, ancora una volta, si vive questa fase nell’attesa del nuovo summit, la Cop21 di Parigi 2015 dove, per necessità, si dovrà produrre il nuovo accordo. Salvo che nel frattempo le cose sono un po’ cambiate. Quest’anno è stato pubblicato il nuovo rapporto sui cambiamenti climatici dell’Ipcc, il quinto. Allo stesso tempo i paesi avanzati sono entrati in una recessione con pochi precedenti storici e quelli in via di sviluppo hanno rallentato la loro crescita economica. La recessione ha ridotto il ritmo delle emissioni, ma non ha frenato il riscaldamento globale. È utile quindi richiamare alcuni messaggi contenuti nel rapporto dell’Ipcc, per la parte che riguarda le politiche di mitigazione:

  • l’inazione da parte dei Governi appare coerente con un incremento della temperatura nel 2100 di 3,7-4,8°C. Un aumento superiore, meno probabile, rimane possibile;
  • stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a un livello compatibile con l’incremento di temperatura a +2°C (circa 450 ppm di CO2eq) entro il 2100 richiede riduzioni delle emissioni nell’ordine del 40-70 per cento entro il 2050 rispetto ai livelli del 2010 e praticamente nulle dopo il 2100;
  • questo obiettivo implica cambiamenti radicali nei sistemi energetici, che comportino un livello triplo o quadruplo della quota di fonti di energia zero e low carbon, come rinnovabili e nucleare;
  • i propositi di riduzione al 2020 delle emissioni dichiarati dai vari paesi nella Cop16, noti come Cancún Pledges, con alta probabilità non sono consistenti con l’obiettivo +2°C (figura 1);
  • ritardare la riduzione delle emissioni al 2030 o più avanti aumenta la difficoltà della transizione e riduce le opzioni disponibili per diminuirle nella misura necessaria;
  • stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a 450ppm equivale a una riduzione nella crescita dei consumi nel corso del ventunesimo secolo di circa lo 0,06 per cento all’anno in media (rispetto a una crescita annualizzata dei consumi pari a un valore tra 1,6 e 3 per cento per anno). I costi associati a questo valore aumenterebbero sostanzialmente nel caso di azione ritardata al 2030.

Nonostante questi chiari messaggi, molti, tra cui chi scrive, non si aspettavano uno storico risultato da Parigi 2015. A ben guardare, non sembra che sia cambiato significativamente lo schema dei benefici netti (i payoffs) percepiti da ciascun paese derivanti da un’azione coordinata di mitigazione delle emissioni. In altre parole, le condizioni del dilemma del prigioniero sono ancora lì, sostanzialmente inalterate. Poiché l’orizzonte temporale in cui si determinano i danni del cambiamento climatico è nell’ordine dei decenni e centinaia d’anni, mentre l’orizzonte in cui vanno decise le politiche di mitigazione spesso coincide con il ciclo politico-elettorale, appare difficile attendersi risultati eclatanti. Un’azione più incisiva da parte dei nostri Governi potrà essere indotta solo da un’anticipazione dei danni futuri, come certi episodi di eventi climatici estremi che già si registrano oggi in giro per il mondo, e da un’accresciuta consapevolezza del problema fornita da risultati scientifici sempre meno incerti e più precisi.

Il miracolo inatteso

Chi si occupa di politica, tuttavia, sa che a volte si può produrre all’improvviso il miracolo. E questo potrebbe essere avvenuto nei giorni scorsi. O almeno si sono forse poste le premesse per un miracolo parigino. Al termine del vertice Apec, il presidente americano Barack Obama ha annunciato a sorpresa (sembra dopo mesi di trattative segrete) un accordo con il presidente cinese Xi Jinping secondo cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas-serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. In particolare, gli Usa ridurrebbero le emissioni del 26-28 per cento entro il 2025 relativamente ai livelli del 2005 con una netta accelerazione rispetto al livello precedentemente dichiarato del 17 per cento (tabella 1). Per parte sua la Cina “intende” cominciare a ridurre le emissioni nel 2030 e fare “del suo meglio” per far sì che in quell’anno raggiungano il picco. Ha anche concordato di aumentare la quota di consumo di energia da fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) a circa il 20 per cento entro il 2030. In particolare, il paese procederà a installare 800-1,000 gigawatts aggiuntivi di capacità di generazione elettrica nucleare, eolica, solare e altre tecnologie a emissioni zero entro il 2030, più di tutti gli impianti a carbone esistenti oggi in quel paese.

Si tratta di un annuncio fatto dalle due maggiori economie del pianeta, che sono anche i maggiori consumatori di energia e i maggiori emettitori di gas clima-alteranti (figura 2). Come tali, hanno una particolare responsabilità nel contribuire alla riduzione delle emissioni. L’annuncio segue a distanza ravvicinata la decisione dell’Unione Europea sul proprio nuovo target vincolante di riduzione delle emissioni del 40 per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli 1990). Un’analisi più precisa delle implicazioni dell’annuncio, soprattutto da un punto di vista numerico, saranno fornite dagli esperti nelle settimane a venire. Una prima valutazione preliminare suggerirebbe che l’intesa potrebbe evitare le emissioni per circa 640 miliardi di tonnellate di carbonio. La figura 1 riporta i nuovi scenari così come potrebbero venirsi a determinare.
Nel grafico sono riportati:
1) Uno scenario tendenziale tra i molti creati nell’ambito dell’ultimo rapporto Ipcc
2) Un secondo scenario nel quale Stati Uniti e Unione Europea implementano pienamente quanto deciso a Copenaghen, con l’Unione Europea che si spinge oltre raggiungendo il suo recente impegno in più (il 40 per cento ai livelli del 1990 entro il 2030). Gli altri paesi si muovono secondo lo scenario base.
3) Uno scenario che contiene tutto quello compreso negli scenari precedenti con Stati Uniti e Cina pronti a rispettare gli impegni annunciati.
La Cina maturerebbe un picco delle emissioni di CO2 nel 2030 e Stati Uniti riducendo le emissioni del 27 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025.

La questione politica

Rimane ovviamente in piedi la principale questione politica. Riuscirà l’amministrazione Obama a rispettare questo impegno? Qualche tempo fa, l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha proposto nuove norme per ridurre le emissioni delle centrali elettriche esistenti. È molto poco probabile che sia sufficiente per ottenere una diminuzione del 28 per cento. E da dove verranno gli ulteriori tagli? Il Congresso a maggioranza repubblicana aspetta una risposta, avversa questa mossa perché è scettico sui cambiamenti climatici e ne sottolinea solo i costi economici: non è detto che il presidente Obama abbia tutte le carte in mano per potere fare da solo.

Per la prima volta in assoluto, la Cina ha fissato un limite alle sue emissioni e questo è un buon risultato. La formulazione dell’impegno non è definita in modo stringente, ma resta una promessa importante. Affermare di voler realizzare un picco per le emissioni intorno al 2030 (non entro il 2030 ma vicino a quella data) lascia spazio per qualche ulteriore margine. Lavorare per ottenere il 20 per cento della sua energia da fonti non fossili entro il 2030 resta un secondo importante obiettivo. In queste ore, molti analisti sostengono che l’obiettivo della Cina è vago e non abbastanza ambizioso e per di più alcuni modelli suggerivano che le emissioni della Cina avrebbero in ogni caso raggiunto il picco intorno al 2030. D’altra parte, la Cina si era sempre rifiutata di indicare un termine per le proprie politiche e il fatto che ora lo abbia fatto (sebbene in modo non vincolante) rappresenta comunque un passo in avanti. Così come molto impegnativo (forse troppo) è il secondo obiettivo dichiarato: realizzare il 20 per cento della sua energia elettrica da fonti non fossili. Resta un accordo storico, che sapremo leggere meglio nelle prossime settimane. Ma sicuramente costituisce un importantissimo viatico per l’appuntamento di Cop21 a Parigi nel 2015. Per ora, bisogna credere che il bicchiere, una volta tanto, sia mezzo pieno.

«

Per chi non la conoscesse, basterebbe dire che Nadia Urbinati, riminese, è titolare della prestigiosa cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. O che nel 2008 è stata insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana, per aver «dato un significativo contributo all'approfondimento del pensiero democratico e alla promozione di scritti di tradizione liberale e democratica italiana all'estero». Pochi, meglio di lei, insomma, possono offrirci gli strumenti per leggere in filigrana quel che sta accadendo in questi difficile fase della storia dell’Italia che, sperando sia passeggera, continuiamo a definire crisi. E che più passa il tempo, più genera frustrazione, disillusione, rabbia.
Professoressa Urbinati, le botte agli operai della Thyssen, gli scontri di Tor Sapienza, l’aggressione a Salvini, l’assalto alla sede del Partito Democratico a Milano, così come le molte altre contestazioni di piazza di queste settimane. Che lettura dà dei tanti episodi di rabbia e violenza di queste ultime settimane?
Apparentemente non c’è un nulla che li lega: sono tutti fatti autonomi l’uno dall’altro, portati avanti da soggetti che rappresentano specifici problemi. Tuttavia, ognuno di loro, oltre a denunciare un problema, punta il dito verso una politica che non è in grado di risolverlo.
Come mai la politica è impotente, oggi?
Potremmo dire che la tensione sociale sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli Stati-nazione, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere.
Poi è arrivata la globalizzazione…
E’ arrivata anche la fine della Guerra Fredda. Che coi suoi Muri e le sue Cortine di Ferro, imponeva dei confini al mondo. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non era un mondo aperto, quello. Non si poteva accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo. Quei confini - per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia - hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi.
Sta dicendo che, almeno per noi, era meglio quando c’era il Muro di Berlino?

Sto dicendo che un mondo senza confini ha serie difficoltà a essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza, di cui la democrazia è fatta. E che questa, per chi ha potere economico, è un’ottima notizia. È pessima, invece, per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori come quelli cinesi o del sud est asiatico, che potere non ne hanno e nemmeno diritti sociali e sindacali. Che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti. Che sono un “nemico” lontano e invisibile.
Come mai gli stati hanno accettato questo stato di cose? Perché non hanno difeso quel benessere?
Oggi sono altre le entità che impongono i loro obiettivi e le loro agende agli stati: la Commissione Europea e ancora prima le Banche centrali e i mercati finanziari. Si tratta di decisioni, peraltro, che non hanno di mira la crescita di benessere dei cittadini dei loro stati, ma il profitto per pochi e l’impoverimento per molti. In nome della stabilità monetaria, della diminuzione dei tassi d’interesse. In nome di qualcosa che è rilevante certamente per tutti, ma pesa su qualcuno molto meno che su qualcun altro. E soprattutto assomiglia a un diktat che non dà possibilità di scelta, che impone una decisione. La cosa più grave è un’altra, però.
Quale?
Che non c’è più un referente politico sovrano come lo Stato, rispetto al quale chiedere e avere diritti e sottostare a obblighi. Chi non ha altro potere se non la propria capacità lavorativa, le proprie mani o la propria mente, non può vivere senza confini; e se vuole vivere sena essere dominato dai forti deve poter contare su uno Stato che abbia il monopolio dlla forza e del potere di decisioni su alcuni dominii di vita sociale. Al contrario, la finanza e le grandi multinazionali senza confini ci vivono benone e non hanno nè stati nè patrie.
Perché senza confini è così difficile fare politica?
Perché la politica ha bisogno di uno spazio delimitato. È in luoghi circoscritti che si formano gli obblighi e diritti e che si sedimentano memorie e abiti. Affinché ci sia politica, c’è bisogno di un contraltare, di un noi e di un loro, di una dimensione definita e controllabile. Perlomeno, ad aver bisogno di luoghi è la politica democratica. Quella dispotica può farne senza problemi a meno. Come diceva Montesquieu, basta un despote per governare la grande Asia.
E chi è questo monarca dispotico?
La finanza e le grandi corporation sono i nuovi stati, giganteschi potentati globali, le nuove signorie di questo nuovo medioevo. Il problema, semmai, è che noi siamo dentro questo gioco, non ne siamo fuori. Siamo consumatori, siamo correntisti, siamo piccoli azionisti di questi nuovi poteri. Accettiamo di essere sudditi, invece di ribellarci, ma abbiamo bisogno di dare sfogo alla nostra rabbia. Così ridefiniamo gli spazi in cui possiamo agire: il pianerottolo, la vita sotto casa, il quartiere. In quei luoghi non c’è finanza, non ci sono corporation. In quei luoghi il nemico diventa il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom.
È una rabbia, questa, che può trovare risposta nel populismo?
Per alcuni è l’unica risposta. La crisi dei partiti tradizionali che rappresentano interessi ha aperto la strada a un altro tipo di rappresentanza. Se le tecnocrazie gestiscono il potere, i populismi danno voce a una domanda politica che non ha ruolo, né spazio.
La politica darà anche voce a parole, a quella domanda. Tuttavia, nella pratica, interviene a favore delle tecnocrazie e delle multinazionali. Ad esempio, pensiamo a Matteo Renzi quando dice che dobbiamo cambiare le regole del lavoro per attrarre investimenti…
Anche la politica populista è debole. Riflesso della debolezza degli stati che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici. L’unica cosa che i governi possono fare, con le corporation, è accontentarle. Certo, non possiamo offrire loro l’assenza di leggi sul lavoro che c’è nel sudest asiatico, perché qui abbiamo una tradizione di diritti e garanzie che stenta a piegarsi e a morire. Tuttavia, la direzione che stiamo prendendo è quella della contrazione dei diritti, non certo quella della loro espansione. E l’ideologia è già in moto a convincerci che quelli non sono diritti ma privilegi e che chi ha diritti è il nemico dei disoccupati.
D’accordo, però anche oggi ci sono lavoratori che hanno molti diritti e altri che non ne hanno alcuno. Non pensa che più che togliere i diritti, si stia cercando di ridefinirli?
E sicomme c’è precarietà la strada da prendere è rendere tutti precari? Creare eguaglianza nel niente? Quando sento parlare di ridiscutere o ridefinire il diritto al lavoro, mi viene da rabbrividire. Un diritto o c’è o non c’è. Se sono libero di esprimere solo alcune mie opinioni, io non godo del diritto di libertà di parola. Ridiscutere il diritto del lavoro vuol dire, molto semplicemente, che la contrattazione torna a essere un fatto privato tra deterntori di profitto e lavoratori, che non è più una relazione da stabilire secondo principi o regole pubblici, che insomma non deve sottostare a criteri d giustizia ed equità ma solo a criteri di profitto.
Non a caso tutti i sindacati, quelli dei lavoratori come quelli delle piccole imprese, sono in crisi nera…
Oggi il sindacato ha perso potere da un punto di vista contrattuale e sta tornando ad essere come lo ottocentesche società di mutuo soccorso: un’associazione di persone che si aiutano tra loro, ma che non riescono a negoziare diritti e tutele con la controparte. In altre parole: non possono chiedere perché non hanno il potere della trattativa. I lavoratori possono solo aiutare se stessi.
Di fatto, la politica sta attaccando anche il versante mutualistico, però. Nella legge di stabilità c’è un taglio di 150 milioni di euro del fondo per i patronati, che offrono servizi di assistenza e previdenza ai cittadini…
Ogni forma aggregativa, anche quella mutualistica, può diventare nel tempo una forza di negoziazione. Ecco perché anche i patronati sono sotto attacco. Quel che mi stupisce è che la sinistra non riesca a dire nulla su tutto questo. Nata sul lavoro e per rappresentare gli interessi di chi lavora (quasi tutti, cioè), oggi non sa nè pare volere elaborare un’alternativa a questa situazione.
Ad esempio?
Ad esempio, potrebbe spingere affinché l’Europa diventi una federazione politica, uno Stato post-nazionale che abbia la forza di contrattare con la finanza e con le multinazionali, invece che lasciarla morire avvitata nei trattati intergovernativi e tenuta in mano da tecnocrati.
Secondo lei è questo il destino che toccherà agli stati-nazione? Scomparire dentro nuovi stati post nazionali?
Lo stato nazione ha svolto una funzione importantissima negli ultimi secoli, sorto sulle ceneri del Sacro romano impero. Ora però gli Stati Uniti d’Europa sono una necessità: penso a Hobbes che nel Leviatano mostrava come l’unica soluzione se si voleva superare l’anarchia e la lotta di tutti contro tutti era istituire un potere sovrano; diversamente la nostra vita sarebbe stata breve, pericolosissima, terrificante e brutta. Oggi ci troviamo di fronte alla necessità di un Leviatano europeo.
Se il nostro destino non sarà l’Europa, quale sarà? Il Sudamerica dei caudillos e dei generali?
Il populismo è l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership deterninata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche autoritarie e eslusionarie, anche razziste e discriminatorie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che gode sull’appoggio di una larga maggioranza. È un appoggio che si guadagna anche con cose buone, intendiamoci: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creto per loro condizioni materiali dignitose, ha dato loro le scuole.. Il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge…
Pensa a Peron, quando sente parlare di Partito della Nazione?
Non so se chiamarlo populista, ma nel Partito Democratico di Renzi c’è la visione di una società senza conflitti, in cui ognuno deve accettare il proprio ruolo e stare al proprio posto. È una politica di ordine, in cui chi reclama qualcosa in più è da combattere, perché non accetta lo stato delle cose, si pone al di fuori del perimetro della nazione.
Ci può essere un partito della nazione senza autoritarismo?
Questa è già una proposta autoritaria. È un’idea che abbiamo in pochi, però. Perché questo è in fondo un autoritarismo blando, poco aggressivo, seducente. È come se Renzi fosse il nostro compagno di banco, l’amico di gioco, il burlone che twitta.
Parafrasando Orwell, Renzi è un po’ come una specie di «grande amico»…
La personalizzazione dei rapporti di potere è a volta pericolosa e sempre spiacevole. Sembra che non ci debba essere più distanza tra cittadini e potere e che questo sia segno del superamento di ogni forma di autoritarismo. Ma è vero il contrario: la distanza nostra dal potere è uno schermo dal potere, oltre a consentirci di vederlo e valutarlo con più riflessività, evitando il coinvolgimento emozionale. Allo stesso modo, lo è la lentezza rispetto alla mistica della decisione veloce.
Come mai la lentezza dovrebbe essere un antidoto all’autoritarismo?
Uno dei padri fondativi delle costituzioni moderne, che è Condorcet, presentando all’Assemblea nazionale la costituzione che aveva scritto disse che il problema serio del controllo democratico era (ed è) quello di impedire e smontare l’argomento dell’immediatezza. Il dispotismo vive di ideologia dell’immediatezza. Il senso del Parlamento è proprio quello di moderare la velocità delle decisioni che invece l’Esecutivo propone. Se la decisione dev’essere immediata, come sul campo di battaglia, a decidere è il generale. Lo scriveva già Macchiavelli: le deliberazioni hanno bisogno di tanti, ma la decisione spetta solo al singolo.

LLei usa molte metafore belliche. Qualche tempo fa fu proprio il New York Times a definire la crisi come la terza guerra mondiale combattuta senza armi…
Ricordo bene e credo che abbia ragione. Magari non ce ne rendiamo conto, ma siamo in guerra. E in guerra non si fanno domande, non si pongono questioni. In guerra i diritti sono privilegi. La richiesta di chiarimenti è sabotaggio. La cosa paradossale è che ci siano queste richieste di incremento del potere dell’esecutivo quando, con la crisi degli stati, l’oggetto del contendere è così esiguo e gli stati hanno davvero poco potere di decidere. In ogni caso, noi non ci opponiamo perché avvertiamo il senso della crisi e perché sappiamo che le nostre armi - dai partiti ai sindacati - sono spuntate. Infine quelle decisioni celeri sono dure negli effetti per la maggioranza non per tutti, e il decisionismo deve fare ingerire la pillola ad ogni costo, con l’ideologia del fare e del decidere, e con i manganelli se alcune frange della popolazione resistono.
Che differenza c’è, per lei, tra conflitto e rabbia?
Il conflitto politico è mediato. Dev’essere pensato, sviluppato, teorizzato. Devi convincere le persone a essere parte in causa, dar loro la visione e la speranza di un futuro migliore. La rabbia, invece, è immediata, legata al tuo bisogno “qui e ora” e non protesa al futuro. Non aspetti una rivolta che ti porti un futuro migliore: semplicemente, vuoi che i rom se ne vadano dal tuo quartiere, che i musulmani stiano a casa loro, che i vecchi cedano la pensione ai giovani. Tutto l’armamentario delle passioni identitarie viene squadernato perché l’altro versante, quello economico, è impervio. Lì non si combatte più perché la guerra è finita. Ed è persa. E i poveri sconfitti si avventano su altre prede.

’Espresso, 17 novembre 2014
Maledetto liceo classico. Tutta colpa sua: il degrado del Paese, l’inconcludenza dei politici, la poca competitività delle aziende, la credulità della gente... Tutti i mali d’Italia nascono da qui. Anche se ormai lo sceglie solo il sei per cento degli studenti (e per la maggioranza ragazze, statisticamente destinate più a una carriera da insegnanti che a manovrare le leve del potere) è comunque considerato la fucina delle élite intellettuali di un Paese che ormai, delle élite e degli intellettuali, pensa di poter fare una sola cosa: rottamarli.

Benedetto liceo classico. È l’anima dell’Italia migliore. Prepara alle professioni del futuro (Umberto Eco), insegna a ragionare e a resistere (Luciano Canfora), e questo perché grazie alle “lingue morte” propone veri “ problemi da risolvere ” e non semplici “esercizi da eseguire” (Dario Antiseri). Gli dobbiamo gran parte di quello che di buono ha ancora l’Italia: da Fabiola Gianotti a Daniele Dorazio , fisico incompreso chiamato dal Cern ma bloccato dal suo liceo di Brindisi, ben più del sei per cento degli italiani che fanno fortuna all’estero hanno in tasca una maturità classica.

Eppure ogni volta che si parla di limiti della scuola italiana, il primo imputato è il liceo classico: protagonista in questi giorni di un vero “ Processo”, organizzato dalla Fondazione San Paolo al Teatro Carignano di Torino (all’accusa l’economista Andrea Ichino , alla difesa Eco). Critiche periodiche che sono destinate a riattizzarsi con la scadenza (il 15 novembre) dei termini per commentare il progetto di riforma per “ La buona scuola ” del governo Renzi. Il 3 dicembre saranno presentati i nuovi dati sullo stato delle scuole superiori raccolti dal consorzio Almalaurea, il 4 e 5 dicembre e si farà il punto su dieci anni di test Invalsi per la valutazione dell’istruzione scolastica.

Di certo un pregio ce l’ha, il classico, e dovrebbero riconoscerglielo anche i suoi detrattori più accaniti: basta sparargli contro per conquistare ben più di un quarto d’ora di attenzione.

Ne sa qualcosa Michele Boldrin, cervello in fuga (insegna economia a St. Louis) e aspirante riformatore del Paese, anche se il suo progetto di “Fare per fermare il declino” si è schiantato sul curriculum falso di uno dei co-fondatori, Oscar Giannino. Che per ironia della sorte aveva mentito su tutto tranne che su un punto: aveva la maturità. Classica.

Qualche settimana fa Boldrin in un video sul sito di istruzione libera Oilproject ha tuonato contro « la maledetta cultura del liceo classico » che produce «mostri politici» come il ministroDario Franceschini , reo di aver risposto all’amministratore delegato di Google che accusava la scuola italiana di «non formare persone adatte al nuovo mondo» che uno studente italiano «forse sa meno di informatica ma più di storia medievale, e nel mondo questo può essere apprezzato».

Peccato che Franceschini abbia fatto il liceo scientifico, non il classico, gli ha fatto notare Tullio de Mauro, linguista e tra i massimi esperti di istruzione, dalla sua rubrica su “Internazionale”.
Ma l’attacco era già andato oltre, come ha mostrato un altro dei rottamatori “a distanza” dell’Italia di oggi, il finanziere renziano Davide Serra. Che in margine al recente raduno alla Leopolda ha trovato modo di spiegare la sua visione dell’istruzione: «La cultura umanistica ha fatto il suo tempo. Lo dico sempre ai miei bambini: bisogna essere cool, diventare matematici».


L’attacco non è più solo al liceo classico, dunque, ma a tutta la struttura dell’istruzione superiore. Che del resto è messa in gioco proprio in questi ultimi mesi da una delle riforme promesse da Renzi, quella che porterà a “La buona scuola”. Progetto di 120 pagine presentato all’inizio di settembre e disponibile sul sito del ministero della Pubblica Istruzione, commenti e proposte aperti a tutti. Cosa ne nascerà? Difficile immaginarlo anche perché solo uno dei sei punti della proposta punta a «ripensare ciò che si impara a scuola»: e infatti commenti e polemiche finora si sono concentrati su ruolo, formazione, assunzioni e carriera dei docenti.


Tra le materie da aggiungere o migliorare il progetto elenca discipline artistiche (arte, musica, disegno) e pratiche (inglese, educazione fisica, informatica). E già delinea il «punto di arrivo»: «Un sistema che permetta ad ogni scuola di progettare ciò che insegna. Partendo da un “cuore” di discipline di base snello e comune a tutti, e dando alle scuole la possibilità di modulare la propria offerta attraverso la scelta di diverse discipline opzionali».


È un “punto d’arrivo” che somiglia molto al liceo “della libera scelta” che è nei sogni di molti. Ben diverso da quello italiano impostato su una struttura ferrea, nata dal lavorìo secolare di esperti di pedagogia. «Un liceo che non è stato inventato di sana pianta da Giovanni Gentile ma che deriva dall’impostazione liberale del decennio giolittiano», ricorda De Mauro a chi considera le radici del Classico nel ventennio fascista la sua prima tara insanabile.

Comunque sembra difficile riuscire a inzeppare musica, disegno, informatica, economia, legge nei programmi liceali già sovraffollati che pesano sulle spalle dei liceali italiani. E ancora più difficile sarebbe conciliare le nuove materie ipotizzate dal “liceo Renzi” con il sogno di un corso quadriennale, già realizzato da una tormentata sperimentazione avviata dal ministro Carrozza. Il modello è il liceo francese, inglese o americano: poche materie obbligatorie e le altre a scelta. Niente più “bestie nere”, niente più “debiti”, ripetizioni, bocciature - esperienza comune nelle nostre scuole superiori - che portano l’Italia a due record non invidiabili: quello dell’abbandono scolastico e del numero di “Neet”, giovani senza scuola, senza lavoro e senza speranze.


Del resto, se nessuno dei ragazzi che tornano dall’anno di studio negli Usa o in un paese europeo rimane colpito dalla difficoltà delle scuole locali, una ragione ci sarà. Il liceo italiano è effettivamente più difficile di molti altri. «Quando sono arrivato all’università a Londra, rispetto ai miei amici inglesi il mio liceo scientifico contava come aver fatto due volte il Classico, anche perché quando ero liceale, il greco e la cultura classica mi venivano inculcati da mio padre e dalle tragedie al teatro di Siracusa», ricorda Giovanni Frazzetto , neuroscienziato di base tra Londra e Berlino e studente dello scientifico “pentito”. «Per capire fenomeni complessi come la mente e le emozioni conoscere formule non è sufficiente. Oggi in laboratorio si fanno domande come: che cos’è la mente, cosa sono le emozioni, che cos’è la moralità, che cos’è l’estetica, che cos’è l’arte o la percezione...».


Ma allora la difficoltà del curriculum classico serve davvero? Non è solo accanimento su materie inutili e metodi di insegnamento superati? Se lo chiedono con veemenza i genitori tedeschi, gli unici che condividono un liceo difficile come il nostro. E più lungo: otto o nove anni (un periodo che ingloba anche le nostre medie). Se il metro di giudizio dell’efficienza di un sistema scolastico deve essere il risultato dell’economia della nazione, non si può dire che la Germania se la cavi peggio degli Usa. Eppure nessuno propone il modello tedesco. E nemmeno quelli delle scuole superiori di paesi asiatici molto più bravi di noi nei test Invalsi. «Giappone, Cina, Corea studiano i “loro” greci e latini», nota De Mauro. «La tradizione dei loro classici viene studiata e rispettata, e si appoggia ad un sistema che non lascia per strada nessuno. La matematica va studiata bene: non “invece” della formazione storica, letteraria e umanistica, ma insieme. Niente a che vedere con le proposte di analfabeti che riecheggiano, con trent’anni di ritardo, l’antiumanesimo all’americana...».

 Del resto, le critiche al Classico nascono dall’esterno, non dall’interno: chi lo ha scelto, in 74 casi su cento lo rifarebbe. Lo dicono i dati di AlmaDiploma, la branca del consorzio AlmaLaurea dedicata alla scuola superiore. Su cento studenti delle superiori, quasi quarantacinque sono scontenti: «Un dato grave, che sarebbe più basso se si spostasse l’età della scelta dai 14 ai 16 anni», nota il direttore di AlmaLaurea, Andrea Cammelli.


Di ritorno da un convegno a Bari sul tema “Lauree umanistiche: una fabbrica di disoccupati?”, Cammelli sottolinea alcuni dati sorprendenti: in Italia ci sono più laureati in materie scientifiche che negli Usa (40% contro 26) e a cinque anni dalla laurea, per una donna laureata in materie scientifiche o umanistiche le possibilità di lavoro sono uguali (per un uomo invece calano dall’87 al 72 per cento). E sulla necessità di spendere meno e meglio anche per quanto riguarda la scuola, risponde. «Siamo in periodo di carestia, è vero, ma non dimentichiamo che anche in periodo di carestia, il contadino taglia su tutto ma non sulla semina».


Cammelli ricorda un’altra famosa frase sull’educazione: «Plutarco diceva: “I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”». Ecco, su come accendere queste fiaccole, il dibattito è aperto in tutti i paesi occidentali. Il dato di fondo è che nessuno sa definire cosa sia “utile” far studiare ai ragazzi. Materie che “formano la mente”, come il latino e il greco, o quelle “richieste dal mercato del lavoro”?


La polemica non riguarda solo l’Italia: il dibattito si è animato intorno a un libro di Martha Nussbaum, politologa americana laureata in lettere classiche (“ Non per profitto . Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, il Mulino) e “ L’utilità dell’inutile ” di Nuccio Ordine(Bompiani), pamphlet in difesa della cultura umanistica, è stato un successo ovunque sia uscito, dalla Francia alla Grecia.
«Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elet­to­rale, ha diritto ad essere descritto da un mar­rano della sto­ria del mondo» Non solo volgarità, ma demolizione della democrazia rappresentativa.

Il manifesto, 17 novembre 2014, con postilla

«Un vin­ci­tore certo la sera delle ele­zioni», que­sta è la filo­so­fia vaga­mente cre­pu­sco­lare che ispira l’accordo del Naza­reno e ora riba­dita nel testo finale siglato dopo l’ennesimo incon­tro. Già qui, nel rie­cheg­giare come cul­tura isti­tu­zio­nale i versi di Ed è subito sera, sor­gono pro­blemi enormi di inter­pre­ta­zione poli­tica. Il nome Ita­li­cum è appro­priato al con­ge­gno in via di per­fe­zio­na­mento per­ché trat­tasi di un rime­dio da stra­paese. In nes­sun sistema poli­tico, di antica o nuova costi­tu­zione, la volontà di pre­de­ter­mi­nare un vin­ci­tore per­viene ad esiti così grotteschi.

La gover­na­bi­lità come mito assume al Naza­reno inquie­tanti tinte cre­pu­sco­lari. Ed è la sera della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva quella che si annun­cia con l’apporto crea­tivo di due simili rifor­ma­tori. Nes­sun sistema elet­to­rale al mondo attri­bui­sce la vit­to­ria certa per­ché è solo attra­verso la defi­ni­zione della rap­pre­sen­tanza che si espri­mono le forme di governo.

Se entro la scelta della rap­pre­sen­tanza nes­suno ce la fa ad otte­nere la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi, si fa ricorso a coa­li­zioni. Avviene così in tutta Europa. In Ger­ma­nia ci hanno fatto ormai il callo. E per­sino nel pre­teso uni­verso del bipar­ti­ti­smo per­fetto, che è l’Inghilterra, vige un governo di coalizione.

Un vin­ci­tore certo si ha solo con l’elezione diretta di una carica mono­cra­tica. Ma, in un regime par­la­men­tare, non può esi­stere la simu­la­zione di una ele­zione diretta del governo senza con ciò pro­cu­rare pro­fonde distor­sioni e palesi for­za­ture isti­tu­zio­nali. L’Italicum con­ti­nua invece a mar­ciare nella via fal­li­men­tare di un pre­si­den­zia­li­smo di fatto. E, a sor­reg­gere que­sto pre­si­den­zia­li­smo masche­rato, risulta del tutto fun­zio­nale la scom­parsa delle cir­co­scri­zioni uni­no­mi­nali e il mal­trat­ta­mento delle pre­fe­renze. I nomi­nati sono privi di auto­re­vo­lezza e auto­no­mia poli­tica, per­ché nel dise­gno dei rifor­ma­tori pro­prio così ser­vono: sem­plici numeri a fare da con­torno. Essi com­pa­iono come equi­va­lenti degli eletti alle con­ven­tion nei regimi pre­si­den­ziali. Fanno cioè da accom­pa­gna­mento sce­no­gra­fico ad un capo che pre­sume (e nel caso ita­liano si tratta solo di pre­sun­zione) di avere un con­tatto mistico con il popolo.

Il con­ge­gno del Naza­reno, che pre­vede 100 cir­co­scri­zioni con altret­tanti capi­li­sta bloc­cati, è l’espediente mal­de­stro per con­sen­tire al capo di affi­darsi a per­sone ad ele­vata fedeltà e com­pro­vato spi­rito di ser­vitù. Que­sta logica di un domi­nio a base pri­vata peral­tro non risponde in alcun modo alle obie­zioni che hanno indotto la Con­sulta alla pro­nun­cia di inco­sti­tu­zio­na­lità della vec­chia legge elet­to­rale Cal­de­roli. Infatti, con il ritro­vato delle 100 cir­co­scri­zioni, si per­viene, sulla base degli attuali rap­porti di forza, a nomi­nare senza alcuna scelta degli elet­tori circa 450 depu­tati (300 per i tre grandi par­titi, circa 60 per la Lega e tutti gli eletti dei cespu­gli che var­cano la soglia del 3 per cento).

Le pre­fe­renze rein­tro­dotte riguar­de­reb­bero, nel migliore dei casi, non più di 200 depu­tati. Va aggiunto poi che il ricorso a micro cir­co­scri­zioni non incen­tiva in alcun modo il rap­porto diretto tra il ter­ri­to­rio e il sin­golo par­la­men­tare. Infatti sem­bra che nel con­ge­gno in gesta­zione non è dalla vit­to­ria nei ter­ri­tori che si aggiu­dica il seg­gio, deter­mi­nando dal basso la gover­na­bi­lità. Ma è dalla quota nazio­nale spet­tante a cia­scuna lista che si per­viene poi alla ripar­ti­zione nei vari col­legi plu­ri­no­mi­nali dei seggi spet­tanti. E que­sto attri­buire i seggi dall’alto è dav­vero para­dos­sale. Manca ogni col­le­ga­mento tra la volontà dell’elettore e l’esito della com­pe­ti­zione nella sua circoscrizione.

Un can­di­dato potrebbe per­sino rag­giun­gere la mag­gio­ranza asso­luta dei voti nel pro­prio col­le­gio e però non agguan­tare il seg­gio se la sua lista poi non supera lo sbar­ra­mento nazio­nale. E ci sareb­bero cir­co­scri­zioni con un eser­cito di eletti ed altre con il rischio di risul­tare sot­to­rap­pre­sen­tate. Insomma, un guaz­za­bu­glio. Un con­cen­trato così informe di filo­so­fie elet­to­rali cre­pu­sco­lari e di improv­vi­sa­zione tec­nica che si spinge ai limiti del dilet­tan­ti­smo terrà bloc­cata la poli­tica per altri mesi ancora.

Un afo­ri­sma di Kraus rende bene il senso dell’occupazione ren­ziana dell’agenda poli­tica con obiet­tivi fasulli di riforma isti­tu­zio­nale (dal senato a costo zero all’Italicum). «Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elet­to­rale, ha diritto ad essere descritto da un mar­rano della sto­ria del mondo»

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Se rileggiamo la poesia di Salvatore Quasimodo, il riferimento non è alla vittoria, ma alla disperazione: "Ognuno è solo sul cuore della terra// trafitto da un raggio di sole// ed è subito sera"

Sciopero sociale. Migliaia di studenti e precari sfilano a Milano sfidando i manganelli. La cattiva gestione della piazza della polizia non rovina la strana giornata milanese percorsa da tre cortei, diversi ma uniti dalla stessa voglia di tornare a lottare per difendere i diritti ed estenderli a tutti».

Il manifesto 15 novembre 2014 (m.p.r.)

Non per enfa­tiz­zare le solite maz­zate che «rovi­nano» i giorni di lotta, ma le cari­che demo­cra­ti­che distri­buite gra­tui­ta­mente ieri a Milano dimo­strano ancora una volta che in que­sto paese c’è una gran voglia di menare le mani. Sul campo è rima­sto qual­che con­tuso e un punto inter­ro­ga­tivo sul per­ché a un certo punto la poli­zia abbia deciso di dare una’energica rior­di­nata alla strana gior­nata mila­nese, con tre cor­tei diversi (ma non troppo) che per tutta la mat­tina hanno girato intorno alla que­stione «più diritti per tutti». A volte incro­cian­dosi, spesso igno­ran­dosi, e sem­pre desi­de­rando di con­ver­gere tutti insieme chissà dove, forse in un mondo nuovo con un popolo nuovo che ha perso memo­ria di sigle, sette, som­ma­to­rie e impos­si­bili «unità» a sini­stra. Erano tutti lì, con­cen­trati in pochi chi­lo­me­tri qua­drati. Decine di migliaia grif­fati Fiom diretti in Duomo, qual­che migliaio die­tro agli stri­scioni dei sin­da­cati di base sbu­cati in piazza San Babila dopo tanto giro­va­gare e più di 5.000 scio­pe­ranti sociali, una prima asso­luta, un espe­ri­mento tanto sug­ge­stivo quanto com­pli­cato che ha anche emo­zio­nato alcuni lavo­ra­tori — «ho preso mezza gior­nata, que­sto è il mio primo scio­pero». A 32 anni, sono con­qui­ste.

Nei din­torni di piazza Duomo, quando lo scio­pero sociale arriva al dun­que, è il caos orga­niz­zato come fuori da un for­mi­caio: un palco qui, uno spea­ker cor­ner lag­giù, un camion che fa piazza davanti a trenta per­sone e poi uno, tre, dieci comizi strada facendo. Una con­fu­sione socia­liz­zante, l’idea che tutti abbiano incro­ciato le brac­cia per dav­vero. E’ in quel momento che la poli­zia ha voluto met­terci del suo, facen­dosi sfug­gire di mano il cor­teo meno bel­li­coso degli ultimi anni. A pren­derle, in due riprese, alcuni stu­denti delle supe­riori, la massa trai­nante del primo dif­fi­cile scio­pero sociale (per chi ha uno schifo di lavoro è ancora un lusso), quasi tutti mino­renni alle prime espe­rienze di piazza.
La trap­pola è scat­tata in piazza Santo Ste­fano, a cen­to­cin­quanta metri da piazza Fon­tana, il tra­guardo che gli stu­denti ave­vano con­cor­dato con la que­stura. Sem­bra che l’altolà incom­pren­si­bile sia stato cau­sato da una non meglio pre­ci­sata pre­senza di altri mani­fe­stanti nella mede­sima piazza, «anar­chici!», o da un taf­fe­ru­glio, «momenti di ten­sione», in piazza Duomo, forse con sedici mili­tanti No Tav. In realtà nulla osta­co­lava il per­corso del cor­teo degli stu­denti. Da qui, il testa a testa, gli spin­toni e le man­ga­nel­late ai ragazzi nasco­sti die­tro allo stri­scione «La buona scuola siamo noi». Con tanto di lan­cio di lacri­mo­geni. Un fuori pro­gramma che forse ha impe­dito a Mau­ri­zio Lan­dini di incon­trare gli stu­denti dopo il comi­zio.
Fine? Mac­chè. Dopo un ripie­ga­mento in Sta­tale, il cor­teo è stato cari­cato di nuovo all’ingresso dell’Arcivescovado dove (forse) si teneva un incon­tro della Cei con un espo­nente del mini­stero della pub­blica istru­zione: ancora botte, nella stret­toia di un por­tone. «Se la forza pub­blica non rie­sce a gestire l’ordine pub­blico e carica da die­tro un cor­teo auto­riz­zato di stu­denti, rite­niamo che le dimis­sioni del que­store di Milano siano un atto dovuto», scrive l’Unione degli Stu­denti.
Prima delle man­ga­nel­late, lungo il per­corso diverse realtà hanno segnato il ter­ri­to­rio con «azioni» comu­ni­ca­tive per sot­to­li­neare quella plu­ra­lità di riven­di­ca­zioni che non tro­vano sboc­chi poli­tici o sponde sin­da­cali. Tutti die­tro lo stri­scione «Non c’è futuro nella pre­ca­rietà» in disor­dine sparso. Sto­rie, pro­getti e bio­gra­fie diverse. Gio­va­nis­simi che can­tic­chiano rime da spe­ri­men­tare nelle pros­sime occu­pa­zioni sco­la­sti­che, pre­cari over 30, disoc­cu­pati in cerca di qual­che scin­tilla, uni­ver­si­tari con passo fel­pato per un’incursione. Una rin­corsa a tappe. Sono con­te­sta­zioni con­tro le scuole pri­vate, «san­zioni» al can­tiere Expo della Dar­sena — due stri­scioni — un len­zuolo calato dal Museo del Nove­cento in piazza Duomo, «Gra­tis non vi avrei tagliato nem­meno una fetta di torta», e poi slo­gan con­tro lo scan­dalo del lavoro volon­ta­rio per l’Expo. E per finire anche un’assemblea, final­mente in piazza Fon­tana. Per spar­lare di scuola. E delle botte della polizia.
«Roma e la Liberazione. La Resistenza viene conservata come in una teca. Da tenere da conto, sempre, anche se ormai fuori moda». In calce, la postilla con i riferimenti a un evento, l'attentato di via Rasella, attorno al quale fu imbastita una colossale mistificazione.

Il manifesto, 26 settembre 2014

Nella notte tra il 22–23 set­tem­bre qual­cuno, qual­cuna di noi ha rice­vuto que­sto sms: «Oggi alle 10.30 con il tri­co­lore Anpi… a Ponte Gari­baldi fiori per Carla Cap­poni e Sasà Ben­ti­ve­gna. Ver­go­gna. Solo il Tevere ha accolto ieri le loro ceneri…».

Ciò che era nell’aria da tempo è avve­nuto. Ma come? Cer­chiamo invano una cro­naca. Un Tevere limac­cioso ine­so­ra­bil­mente deserto è com­parso per qual­che secondo sul Tg Lazio del giorno 23, fuori campo la voce del sin­daco Marino reci­tava che Roma non avrebbe mai dimen­ti­cato i due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana…Le ceneri di Carla Cap­poni (morta nel 2000) e del suo com­pa­gno Sasà Ben­ti­ve­gna (morto nel 2012) erano custo­dite dalla figlia Elena nella sua casa di Zaga­rolo (Roma) in attesa di una degna sepoltura.

Si è capito ben pre­sto dal «No» del Cimi­tero acat­to­lico di Testac­cio, su cui Elena con­tava per esau­dire un desi­de­rio dei geni­tori, che tro­vare una degna sepol­tura per i due gap­pi­sti non sarebbe stata un’impresa sem­plice. Passi da parte delle auto­rità locali ne sono stati fatti, ma evi­den­te­mente privi di quel con­vin­ci­mento inte­riore neces­sa­rio per por­tare a com­pi­mento il rico­no­sci­mento di un merito che nel clima poli­tico di que­sti ultimi anni, una sorta di disa­gio cre­scente lo creava.

In soc­corso dello sco­ra­mento di Elena si era mosso all’inizio dell’estate il Museo di via Tasso offrendo ospi­ta­lità alle ceneri, fin­ché non si fosse tro­vata la sede defi­ni­tiva per la sepol­tura. L’Anpi di Roma da parte sua aveva pro­po­sto che i due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana fos­sero accolti nel monu­mento dedi­cato ai caduti per la Libe­ra­zione di Roma…

I vin­coli buro­cra­tici, l’inerzia che carat­te­rizza da noi ogni pro­ce­di­mento ammi­ni­stra­tivo diven­gono un utile alibi quando un’azione è meglio riman­darla: «queta non movere»… Elena, alla fine l’ha capito, e ha dato corso a quella che defi­niva «la seconda scelta» dei suoi geni­tori: le loro ceneri affi­date alle acque del Tevere.

Nulla sap­piamo di come ciò sia avve­nuto. Forse quei papa­veri rossi che Carla tanto amava saranno stati get­tati nel Tevere insieme a ciò che restava di lei, della sua lumi­nosa bel­lezza, che i meno gio­vani tra noi ben ricordano….Già negli anni del com­pro­messo sto­rico Carla comin­ciava a creare imba­razzi: il suo corag­gio ardente, il suo indo­mito anti­fa­sci­smo vis­suto «con cuore di donna» susci­tava nei comizi l’entusiasmo dei gio­vani (e lo sgo­mento pal­pa­bile dei segre­tari delle sezioni del Pci, pre­oc­cu­pati delle rea­zioni degli scout, i nuovi invi­tati).

Il clima poli­tico stava cambiando. La cul­tura sem­pre più accre­di­tata della non­ vio­lenza ren­deva dif­fi­cile difen­dere l’azione dei Gap dall’accusa di ter­ro­ri­smo, soste­nere la sua col­lo­ca­zione tra gli atti di guerra, con­si­de­rare via Rasella un atto di eroi­smo, uno scatto di dignità con­tro la fero­cia nazi­fa­sci­sta sulla popo­la­zione romana che l’aveva determinato.

Carla Cap­poni fu meda­glia d’oro della Repub­blica, par­la­men­tare del Pci eletta con un vastis­simo con­senso, rico­no­sciuta pro­ta­go­ni­sta di quella Resi­stenza che tut­ta­via, ben­ché con­di­visa da donne e uomini di diverse ten­denze e idea­lità uniti nella lotta al fasci­smo, era dive­nuta nei decenni sem­pre più patri­mo­nio riven­di­cato dalla sinistra.

Furono le forze di sini­stra a bat­tersi per il rispetto e l’attuazione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali, le ammi­ni­stra­zioni di sini­stra a tenere vivo nei decenni l’esempio di chi aveva dato la vita per la demo­cra­zia nel nostro paese. Ma pro­prio que­sta fedeltà rischia di essere tra­volta nel folle volo com­piuto dal Pci nella sua corsa verso il «nuovo», un «nuovo» che è sfu­ma­tura delle dif­fe­renze, annul­la­mento di tutto ciò che può ren­dere meno piatto il presente…

Gli eroi della Resi­stenza acqui­stano il sapore di un reperto oleo­gra­fico: sono da con­ser­varsi in una teca, come i gio­ielli di fami­glia, da tenere da conto, ma rima­sti fuori moda. Bat­tersi per una degna sepol­tura di Carla e Sasà avrebbe com­por­tato ripor­tare a galla recri­mi­na­zioni mai sopite, schie­rarsi in una difesa a tutto campo di valori rico­no­sciuti come attuali… I nostri gover­nanti, i nostri ammi­ni­stra­tori non se la sono sen­tita. Que­sta è la verità. Ha detto bene il pre­si­dente dell’Anpi di Roma: «Le ceneri dei due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana finite nel Tevere, sono un buco nero per la democrazia»


Per conoscere la reale storia di Via Rasella e comprendere la colossale mistificazione che fu costruita per falsificare la storia e convincere gli italiani che la Resistenza era stata il succedersi di vigliacchi eccidi compiuti dai "comunisti badogliani" , si vedano le informazioni fornite da Repubblica e riprese e integrate da eddyburg da il 6 febbraio 2006 e il 9 febbraio 2006. Qui sotto un'immagine del giornale che, due giorni dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, invitava i partigiani a presentarsi

«». Il manifesto

Alla fine, chi comanda in Ita­lia? Uno, tutti, o nessuno? La domanda ci tor­menta da quando Renzi ha con vee­menza negato che ci sia un uomo solo al comando. Ma può acca­dere che l’uomo solo al comando ci sia, e tut­ta­via non comandi alcunché.

Il capi­tolo Ue si è chiuso senza grandi risul­tati per l’Italia, e le scher­ma­glie ver­bali che con­ti­nuano – l’ultima con Junc­ker – sono puro tea­tro. I trion­fa­li­smi gover­na­tivi sono stati rapi­da­mente spenti non da gufi e par­ruc­coni, ma dalle valu­ta­zioni Istat e Ban­ki­ta­lia. Le misure messe in campo non daranno risul­tati impor­tanti per la cre­scita, e soprat­tutto non ci saranno miglio­ra­menti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cam­biare rotta, ma il timone non risponde.

E allora chi comanda, a chi? A nulla ser­vono gli inter­venti volti a con­cen­trare sulle stanze di Palazzo Chigi stru­menti di con­trollo appa­rente, come si fa quando si vuole ripor­tare la diri­genza pub­blica — con la riforma della Pub­blica ammi­ni­stra­zione — sotto l’ombrello della pre­si­denza del con­si­glio. Certo può ser­vire a raf­for­zare il pre­mier e la cer­chia a lui più vicina, inde­bo­lendo ancora un con­si­glio dei mini­stri popo­lato di esan­gui cori­sti. Ma è un potere spic­ciolo per l’uomo al comando che non comanda.

Inol­tre, Renzi non sem­bra con­si­de­rare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a riget­tare l’accusa di ecces­siva per­so­na­liz­za­zione. Né basta il con­senso di sedi di par­tito che non hanno più alle spalle un’organizzazione radi­cata negli iscritti e nel ter­ri­to­rio, sono dro­gate da sele­zioni popu­li­sti­che del ceto poli­tico come le pri­ma­rie aperte, vedono la mino­ranza interna ridursi alla pas­siva accet­ta­zione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di pla­tee di impren­di­tori attenti solo – come è per­sino giu­sto che sia – al pro­fitto delle pro­prie aziende e ai van­taggi che pos­sono trarre dalla bene­vo­lenza gover­na­tiva. Né ancora basta richia­mare un par­tito della nazione, con ciò impli­ci­ta­mente spin­gendo il dis­senso nella cate­go­ria del tra­di­mento piut­to­sto che del con­fronto neces­sa­rio con opi­nioni, idee, pro­getti di cui biso­gna tener conto. Né infine basta l’accusa che altri lavo­rino per spac­care il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiu­tare, con que­sta e altre fan­ta­siose moti­va­zioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle media­zioni possibili.

Come si può affer­mare che miri alla rot­tura chi vuole uguali – e mag­giori – diritti per tutti? O rite­nere che lavori invece per l’unità chi legge l’eguaglianza – pila­stro della Costi­tu­zione — come livel­la­mento verso il basso, minore dignità e qua­lità di vita, più debole difesa dei pro­pri diritti? È que­sto lo sce­na­rio verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.

Il pre­mier è pale­se­mente infa­sti­dito che intorno al suo pro­getto non cre­scano entu­sia­stici e una­nimi con­sensi, e che anzi si pre­pari una sta­gione di forti con­tra­sti. Ma era scritto. Si pos­sono chie­dere a un paese sacri­fici anche gravi, che però i tweet o face­book non bastano a far metabolizzare.

Ci vor­reb­bero par­titi radi­cati, capaci di por­tare moti­va­zioni e capa­cità di con­vin­ci­mento dal ponte di comando ai luo­ghi di lavoro, nelle case, nelle fami­glie. Ma quei par­titi sono stati sman­tel­lati, con il plauso miope di molti. Ci vor­reb­bero orga­niz­za­zioni capil­lari come i sin­da­cati, con i quali ci si vanta invece di rifiu­tare ogni dia­logo. Ci vor­reb­bero isti­tu­zioni capaci di dare voce a tutte le posi­zioni, anche le più lon­tane, per­ché l’azione di governo ne tenga per quanto pos­si­bile conto. Invece, si fa l’esatto con­tra­rio, can­cel­lando spazi di rap­pre­sen­tanza, tagliando pre­senze poli­ti­che vitali con soglie di sbar­ra­mento e premi di mag­gio­ranza, ridu­cendo all’obbedienza i riot­tosi e dando all’esecutivo il con­trollo dei lavori parlamentari.

Quel che accade è quanto un certo costi­tu­zio­na­li­smo della crisi rite­neva e ritiene neces­sa­rio per fron­teg­giare l’emergenza eco­no­mica e il riag­giu­sta­mento delle ragioni di scam­bio tra nord e sud del mondo. Non fun­ziona, in spe­cie quando l’inversione di rotta nella crisi non è vicina come si spe­rava. Come si pensa di spie­gare, di con­vin­cere, di gover­nare e con­te­nere il males­sere sociale? Sono false le gioie di una poli­tica senza corpi inter­medi, par­titi, sin­da­cati. Non serve dare la sca­lata a un par­tito con il leve­ra­ged buy­out delle pri­ma­rie aperte. È mera rap­pre­sen­ta­zione tea­trale che basti l’investitura di un turno elet­to­rale per garan­tire a qual­siasi ese­cu­tivo una effet­tiva e dura­tura capa­cità di governo. Né ovvia­mente sup­pli­scono cari­che di poli­zia e man­ga­nelli. Che serve man­ga­nel­lare le spe­ranze perdute?

Renzi non può cavar­sela con le invet­tive o le com­par­sate tele­vi­sive. Dovrebbe leg­gere la Costi­tu­zione, a par­tire dall’art. 2 per cui la Repub­blica richiede l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica eco­no­mica e sociale. Se poi stu­diare la Costi­tu­zione fosse troppo, potrebbe leg­gere il discorso di Papa Fran­ce­sco ai Movi­menti popo­lari del 28 otto­bre. Soli­da­rietà – dice il Papa – «è anche lot­tare con­tro le cause strut­tu­rali della povertà, la disu­gua­glianza, la man­canza di lavoro, la terra e la casa, la nega­zione dei diritti sociali e lavo­ra­tivi … intesa nel suo senso più pro­fondo, è un modo di fare la storia … ».

È pro­prio que­sto ele­mento di soli­da­rietà che manca nel mes­sag­gio del pre­mier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe poli­ti­ca­mente cor­retto che i Papi aves­sero tes­sere di par­tito. Del resto, a veder bene, se Papa Fran­ce­sco la chie­desse al Pd pro­ba­bil­mente gliela rifiu­te­reb­bero. È un comunista

«Le ragioni di un’opposizione comune allo sfa­celo demo­cra­tico pre­val­gono per­sino, all’inizio, su quelle del pro­getto rin­no­va­tore. Più che altro si tratta di difen­dere la pos­si­bi­lità di un futuro, non di sal­vare e pro­se­guire un digni­toso passato».

Il manifesto, 13 novembre 2014

For­tu­na­ta­mente, dopo mesi di appros­si­ma­zioni e di con­fu­sione, il qua­dro poli­tico ita­liano si è ine­qui­vo­ca­bil­mente chiarito.

Su di un primo ver­sante, sap­piamo ormai con asso­luta cer­tezza di essere gover­nati da una com­pa­gine per certi versi poli­forme ma, senza ombra di dub­bio, com­ples­si­va­mente e stra­te­gi­ca­mente, di centro-destra. Che lo sia dal punto di vista delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali (Jobs act, e quant’altro), lo hanno argo­men­tato e dimo­strato molti auto­re­voli com­men­ta­tori, soprat­tutto, et pour cause, sulle colonne di que­sto gior­nale (ma, a dir la verità, non solo). Vor­rei però aggiun­gere qual­cosa in merito alle ten­denze politico-culturali cui si ispira in pro­fon­dità il nostro governo.

È vero, abbiamo all’inizio sot­to­va­lu­tato Mat­teo Renzi, scam­bian­dolo per un pic­colo avven­tu­riero di pro­vin­cia. Forse lo è, e lo resta; ma nelle dimen­sioni e carat­te­ri­sti­che della crisi ita­liana, la sua sta­tura tende indub­bia­mente a cre­scere. Ad esem­pio: la «rot­ta­ma­zione». Sem­brava una bat­tuta pro­pa­gan­di­stica per far fuori, anche agli occhi di un’opinione pub­blica stanca e disin­can­tata, la vec­chia diri­genza di centro-sinistra.

Renzi non si limita ad auspi­care e per­se­guire la rot­ta­ma­zione della vec­chia diri­genza del centro-sinistra. Renzi auspica e per­se­gue la rot­ta­ma­zione di tutto il «sistema» che secondo lui l’avrebbe pro­dotta e resa pos­si­bile:

- la pri­ma­zia del par­la­mento sul governo;
- la sepa­ra­zione dei poteri;
- l’organizzazione col­let­tiva e comu­ni­ta­ria della poli­tica (vulgo, i par­titi, o quant’altro al loro posto);
- il rispetto delle mino­ranze e l’attenzione nei loro con­fronti;
- la dia­let­tica politica/cultura (capi­rai: gli «intel­let­tuali»…).
Insomma, quanto fu ela­bo­rato e sta­tuito nella nostra «vec­chia» Costi­tu­zione, a ridosso della cata­strofe fasci­sta, allo scopo pre­ci­puo di ren­derne impos­si­bile la resur­re­zione in qual­siasi forma.

Né più né meno, dun­que, che il pro­gramma di Sil­vio Ber­lu­sconi, ma radi­ca­liz­zato ed effi­ca­ciz­zato dal fatto di por­tarlo avanti non da una posi­zione di destra, - lad­dove appa­riva troppo sco­per­ta­mente per quel che era, e cioè un pro­gramma di destra, - ma da una posi­zione di centro-sinistra, - lad­dove può più facil­mente esser gabel­lato per quel che non è, e cioè, un pro­gramma rifor­ma­tore di centro-sinistra. Ma non c’è solo questo.

Recen­te­mente ho assi­stito alla pro­ie­zione di un bel­lis­simo docu­men­ta­rio sui rap­porti fra lin­gua ita­liana e fasci­smo, pro­dotto dall’Istituto Luce ed ela­bo­rato da una lin­gui­sta del cali­bro di Vale­ria della Valle. Il docu­men­ta­rio s’intitola: «Me ne frego», ripren­dendo uno sti­lema clas­sico, uno ste­reo­tipo esem­plare, del modo di par­lare, e dun­que di pen­sare, del fasci­smo. Visio­nando il docu­men­ta­rio, mi è acca­duto di pen­sare che ogni­qual­volta in Ita­lia c’è una pro­fonda crisi delle isti­tu­zioni e degli assetti poli­tici pre­ce­denti il lea­der che mira a impa­dro­nirsi senza remore né con­di­zio­na­menti del gioco, adotta men­tal­mente, prima che lin­gui­sti­ca­mente, il motto fasci­sta «Me ne frego».

È inne­ga­bile altresì che tale modo di pen­sare e di espri­mersi, quando si è in pre­senza, ripeto, di una pro­fonda e reale crisi delle isti­tu­zioni e degli assetti poli­tici pre­ce­denti, risulta estre­ma­mente sedut­tivo presso le masse popo­lari ita­liane diso­rien­tate e scon­fitte. Del resto il «Vaff…» di Grillo appar­tiene, più o meno, alla stessa spe­cie, - men­tale e oggi, ahimè, anche poli­tica (su que­sto si potrebbe e dovrebbe aprire un lungo discorso di natura storico-culturale, che riman­diamo a un tempo migliore).

Una prima con­si­de­ra­zione che si può trarre da que­sta som­ma­ria rico­stru­zione degli eventi è che non ci si può opporre, - come giu­sta­mente occorre fare, - alla rot­ta­ma­zione del sistema democratico-costituzionale, senza cogliere al tempo stesso, e denun­ciare, e chie­derne il supe­ra­mento, di tutte le sue, attual­mente, incom­pa­ra­bili defi­cienze e brut­ture e insuf­fi­cienze, e tal­volta inde­scri­vi­bili, sovru­mane defail­lan­ces. Il rin­no­va­mento, se dev’essere con­ce­pito e pas­sare, passa per due fronti, con­tem­po­ra­nei e con­ver­genti, non alter­na­tivi: la lotta con­tro la ten­denza auto­ri­ta­ria, lea­de­ri­stica, filo­pro­prie­ta­ria, del ren­zi­smo; e la lotta con­tro le dege­ne­ra­zioni ende­mi­che e in taluni casi il vero e pro­prio spap­po­la­mento del sistema democratico-costituzionale, che, in linea di prin­ci­pio, vor­remmo difen­dere. Chi separa le due cose, va alla sconfitta.

Nel secondo ver­sante, è emersa nel paese, nel corso degli ultimi mesi, una con­si­stente resi­stenza di natura sociale. Ma guarda un po’: il lavoro, i lavo­ra­tori, la classe ope­raia… O non erano azzit­titi per sem­pre, anzi sep­pel­liti, da un bel pezzo? Pare di no. E quest’osso è duro da rodere, non si sbri­ciola, come è acca­duto ad altri, facil­mente. Anche il fatto che la Cgil, i sin­da­cati, siano scesi (siano stati costretti a scen­dere?) in campo è un dato tutt’altro che irri­le­vante. E a que­sto pro­po­sito: le puzze sotto il naso in que­sta fase sto­rica, sono da con­si­de­rare mor­tali, e per­ciò evi­tate con la mas­sima cura. E que­sto soprat­tutto quando entra in gioco quell’elementare prin­ci­pio discri­mi­nante, per cui si sta o da una parte o dall’altra. E qui, in que­sto momento, l’aspetto deter­mi­nante, deci­sivo, è stare ine­qui­vo­ca­bil­mente o da una parte o dall’altra.

Certo, un’opposizione sindacal-sociale senza un’opposizione poli­tica è un’opposizione monca, inde­bo­lita pro­prio sul ter­reno, quello parlamentar-governativo, sul quale nei pros­simi mesi acca­dranno cose deci­sive (la legge elet­to­rale e, mas­simo dei mas­simi, l’elezione del pros­simo Pre­si­dente della Repub­blica). Qui vor­rei dire una cosa inu­tile ma dove­rosa. Desta stu­pore, e indi­gna­zione, che la massa degli eletti Pd alla camera e al senato (non parlo di alcune ristrette mino­ranze ma, pre­ci­sa­mente, della grande massa degli iscritti eletti), man­dati a gover­nare il paese con una diversa mag­gio­ranza di par­tito e con un diverso, diver­sis­simo pro­gramma, abbia seguito, e accom­pa­gnato, l’instaurazione a capo asso­luto di Mat­teo Renzi, e poi le sue alleanze, ipo­tesi isti­tu­zio­nale e costi­tu­zio­nali, e per­sino la fredda distru­zione del loro stesso par­tito, il Pd, con la pas­si­vità più assoluta.

Evi­den­te­mente la dege­ne­ra­zione pre­cede la rot­ta­ma­zione e l’aiuta, anzi, da un certo momento in poi, non solo la giu­sti­fica ma la rende neces­sa­ria. Se non si riparte con il mas­simo del rigore dalla for­ma­zione delle éli­tes poli­ti­che, e dalle loro nuove per­sua­sioni e abi­tu­dini, anche in que­sto caso non si cava un ragno dal buco.

Tutto ciò, com’è evi­dente, non fa che ripren­dere con­si­de­ra­zioni e ammo­ni­menti che cir­co­lano ormai da tempo nel campo della sini­stra non (ancora?) logo­rata, o non del tutto, dal con­tatto con il potere. Che sia arri­vato il momento di ridare vita a una Camera di con­sul­ta­zione della sini­stra, spe­rando che que­sta volta non ci sia qual­cuno che la manda in vacca per assi­cu­rarsi una vec­chiaia decente, anzi di grande benes­sere economico?

Oppure esi­stono le con­di­zioni per con­vo­care, più ambi­zio­sa­mente (e forse pre­ma­tu­ra­mente) una vera e pro­pria Costi­tuente della sini­stra? Ma anche qui: tutto inu­tile, se si tenta di farla pas­sare per la cruna dell’ago di un’estrema coe­renza ideo­lo­gica e sto­rica. Le ragioni di un’opposizione comune allo sfa­celo demo­cra­tico pre­val­gono per­sino, all’inizio, su quelle del pro­getto rin­no­va­tore. Più che altro si tratta di difen­dere la pos­si­bi­lità di un futuro, non di sal­vare e pro­se­guire un digni­toso passato.

P.S. Last but no least: «il mani­fe­sto». Io dico: se non ci fosse, tutto quello che s’è detto finora, e che altri come noi dicono e fanno, e diranno e faranno, non avrebbe né senso né dimen­sione. Que­sta per­sua­sione deve pas­sare «per li rami», dif­fon­dersi uni­ver­sal­mente, arri­vare a tutti quelli che lot­tano, e da lì ripar­tire per tor­nare al gior­nale, inso­sti­tui­bile tri­buna e pale­stra di una sini­stra nono­stante tutto ancora in movimento. Spe­riamo che in molti con­di­vi­dano quest’appello che parte dal gior­nale e, coe­ren­te­mente con quello che fanno nelle lotte sociali e poli­ti­che, si com­por­tino di conseguenza.

Forse si comincia a comprendere che lo sfruttamento non avviene piú solo in fabbrica e sui campi, che gli sfruttati non sono soltanto gli operai e i braccianti, ma che lo sono tutti gli abitanti del pianeta nelle loro città e nei loro territori.

Il manifesto, 12 novembre 2014

Le ragioni dello «scio­pero sociale» del 14 novem­bre sono defi­nite con chia­rezza. I ber­sa­gli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le riven­di­ca­zioni per­fet­ta­mente com­pren­si­bili: dal sala­rio minimo euro­peo al red­dito di cit­ta­di­nanza. Eppure che cosa sia uno «scio­pero sociale» resta una domanda alla quale è molto dif­fi­cile rispondere.

Come la qua­dra­tura del cer­chio nes­suna appros­si­ma­zione esau­ri­sce il pro­blema, tanto da lasciarne sospet­tare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gor­diano con­si­ste, in sin­tesi, nel fatto che la pro­du­zione di valore e la sua appro­pria­zione avven­gono in larga misura al di fuori del lavoro dipen­dente e per­fino al di fuori da una sfera di atti­vità age­vol­mente iden­ti­fi­ca­bili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il ter­mine «scio­pero» rischia di assu­mere un signi­fi­cato sinistro.

Una larga parte della società resta comun­que esi­sten­zial­mente espo­sta all’ «estra­zione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinun­ciato, chi va a ingros­sare gra­tui­ta­mente le schiere gover­nate dall’economia poli­tica della pro­messa, chi si inge­gna nell’individuare nuove forme pro­dut­tive, chi agi­sce sem­pli­ce­mente la pro­pria socia­lità è con­dan­nato ad ali­men­tare i dispo­si­tivi dell’accumulazione e della dise­gua­glianza in una con­di­zione di «auto­no­mia ete­ro­di­retta» e indebitata.

Per il lavo­ra­tore pre­ca­rio lo scio­pero può costare lo strac­cio di lavoro con cui sbarca il luna­rio, per il lavo­ra­tore gra­tuito la per­dita di una pur fie­vole spe­ranza, per chi cerca di inven­tare la pro­pria strada una per­dita di tempo. Quanto a chi smet­tesse di cer­care lavoro, a chi importerebbe? Esi­stono natu­ral­mente, e non sono affatto pochi, i lavo­ra­tori sala­riati, fab­bri­che, uffici, ser­vizi che, per quanto sotto cre­scente ricatto, pos­sono essere fermati.

Il 14 novem­bre scio­pe­rerà la Fiom e que­sto sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la soli­da­rietà e una par­te­ci­pa­zione alle mani­fe­sta­zioni di piazza per affer­mare «ci siamo anche noi, siamo tanti, pro­dut­tivi e privi di red­dito e diritti».

È una occa­sione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza pro­pria, poi­ché è su quella del lavoro sala­riato che si con­ti­nua a pog­giare chie­dendo (non senza ragioni che lo riguar­dino diret­ta­mente) di vei­co­lare i biso­gni e le riven­di­ca­zioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa poli­tica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.

Lo «scio­pero sociale» rimane una affer­ma­zione di prin­ci­pio, la «gene­ra­liz­za­zione dello scio­pero» un fatto argo­men­ta­tivo che spesso si risolve in azioni gene­rose ma fre­quen­te­mente rituali e che non var­cano i con­fini del simbolico. Si può pun­tare alla sospen­sione di stage e tiro­cini, si può imma­gi­nare il pic­chet­tag­gio dei luo­ghi del lavoro gra­tuito, ma spesso quest’ultimo non ha luo­ghi o è tal­mente disperso e fram­men­tato da risul­tare fisi­ca­mente irrin­trac­cia­bile, cosic­ché l’astensione stessa da que­ste forme di pre­sta­zione d’opera rischia di rima­nere invi­si­bile, salvo assu­mere dimen­sioni tanto estese che è dif­fi­cile imma­gi­nare nella con­di­zione di estrema ricat­ta­bi­lità in cui versano.

Si può con­qui­stare come pal­co­sce­nico delle pro­prie ragioni qual­che luogo di visi­bi­lità, un monu­mento, una piazza, ma anche que­sto non risol­ve­rebbe il pro­blema dello «scio­pero» inteso come sot­tra­zione tem­po­ra­nea della pro­pria capa­cità crea­tiva alla pro­du­zione di ric­chezza e al fun­zio­na­mento della mac­china economica. Per dirla in modo clas­sico, ser­vi­rebbe uno scio­pero del valore d’uso con­tro il valore di scambio.

Il fatto è che «scio­pero sociale», preso alla let­tera, signi­fica smet­tere di fare società, sospen­dere cioè quelle azioni e inte­ra­zioni che carat­te­riz­zano il nor­male svol­gi­mento della vita sociale, man­te­nendo quest’ultima, depu­rata dei suoi carat­teri «fun­zio­nali», in una dimen­sione altra che ne con­trad­dica l’asservimento alla con­di­zione del lavoro e della pro­du­zione in senso più gene­rale. Un altro tempo e un altro spazio.

Senza alcun intento bla­sfemo o irri­spet­toso, sem­mai il con­tra­rio, un modello assai radi­cale lo indi­che­rei nello Shab­bat ebraico. In quella festi­vità, seb­bene nella forma del divieto reli­gioso che non coin­cide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e atti­vità che carat­te­riz­zano il nor­male fun­zio­na­mento della mac­china sociale. Shab­bat esclude appunto, con una geniale intui­zione, tutti que­gli aspetti della vita che sono sospet­tati di essere «messi al lavoro», valo­riz­zando invece quei tratti della vita umana privi di signi­fi­cato strumentale.

Non si tratta certo di sti­lare una lista di atti­vità (Shab­bat ne pre­vede 39) proi­bite ma di cer­care di indi­vi­duare, con la mas­sima fan­ta­sia e inven­tiva, i ter­reni della sot­tra­zione pos­si­bile e quelli di pieno eser­ci­zio della libertà indi­vi­duale e col­let­tiva. Il para­gone è deci­sa­mente stram­pa­lato e vale sem­pli­ce­mente come sug­ge­stione, tut­ta­via mi sem­bra utile a orien­tare lo sguardo in una mate­ria che è finora rima­sta oscura o del tutto indefinita.

Tor­nando, però, alle più con­suete cate­go­rie lai­che, lo «scio­pero sociale» non può che tra­sfor­marsi in una nuova forma di «scio­pero poli­tico» che, messo da parte il mirag­gio della presa del potere, rie­sca a eser­ci­tarne il più pos­si­bile, ren­dendo ogni gesto di sot­tra­zione una cri­tica espli­cita dell’ordine sociale ed eco­no­mico esistente.

Perfino nella regione italiana celebrata per il tradizionale buongoverno il decadimento morale degli eletti è causa rilevante del distacco dei cittadini dalla politica dei partiti.

La Repubblica, 12 novembre 2014

LA CRISI di legittimità della politica sta raggiungendo il suo acme. E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città. Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica. Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto. Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.

Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce. Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata. Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire. Anche per il “popolo delle feste dell’Unità” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà difficile dimenticare tutto questo. Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà la fine delle indagini. La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perché nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.

La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente. Alcune avvisaglie emersero già un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine. Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali. Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante. Perché una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà. Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale. Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità, spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.

E per molti elettori sarà più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi. Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione. In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori. Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità morale che è gravissimo. Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale. Anche perché non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità di scelta. Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.

Un evidente caso di manipolazione dell'informazione e di conflitto di interesse: dopo il flop per i ritardi, gli unici articoli indulgenti sono sul "Messaggero" che è il quotidiano del costruttore coinvolto nei lavori».

Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014

Nel gergo dei giornali il “buco” è una notizia bella grossa che i concorrenti hanno in pagina e di cui in redazione nessuno si è accorto. Capita, purtroppo, è uno degli incerti del mestiere e non fa mai piacere. Da ultimo è capitato al Messaggero, giornalone romano sempre bene informato sui fatti della capitale. Al Messaggero non si sono accorti che la tanto sospirata inaugurazione della linea metropolitana C da Pantano a Centocelle all'alba di domenica 9 novembre è stata una specie di festa al cardiopalma con brivido incorporato perché il primo treno, quello con a bordo le autorità cittadine e i capoccioni responsabili dell'opera, non è manco riuscito ad arrivare al capolinea, ma si è mestamente adagiato sui binari quattro fermate prima del dovuto. Mentre tecnici e responsabili dell'inaugurazione rischiavano l'infarto, il convoglio è rimasto in panne per ben undici minuti. E considerando che si tratta di un treno “driveless”, senza guidatore a bordo, quella sosta imprevista è apparsa il prodromo di una colossale figuraccia, l'ennesima maledizione della Metro C, un'opera sfigata, nata male e cresciuta peggio.

Tutti si sono ovviamente accorti del guasto che era una bella notizia dal punto di vista giornalistico, anche se poi l'inconveniente è stato superato. E infatti ne hanno parlato tutti, dai giornali alle televisioni alle agenzie di stampa ai siti web. Con accenti diversi, naturalmente, con più o meno enfasi, con toni più o meno preoccupati, più o meno sorpresi. L’unico giornale che non ha visto né sentito è stato proprio il quotidiano principe della cronaca romana, Il Messaggero, che ha presentato l'inaugurazione della metro C come una radiosa festa senza nubi, tutta sorrisi e selfie. E il buco è apparso così vistoso che si fa fatica a capire che cosa sia successo in redazione.

A meno che non si voglia pensar male. Perché Il Messaggero è il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo d'affari potente e ricchissimo che non è solo un editore, ma anche un costruttore, un immobiliarista, un finanziere. E pure il socio più influente del Consorzio metro C, il raggruppamento di imprese a cui il comune di Roma il 13 aprile 2006 affidò il compito di costruire la nuova metropolitana romana. Caltagirone possiede con la Vianini il 34,5 per cento della società, la stessa quota del gruppo Astaldi, mentre gli altri soci sono comprimari: Ansaldo 14 per cento, Cooperative 17 (Cmb 10 più Ccc 7). Ma mentre negli ultimi tempi Astaldi sembra sempre più prudente, considerato il bailamme che accompagna l'opera, Caltagirone ha moltiplicato i suoi sforzi con il presidente del consorzio, l'ingegner Franco Cristini. Insomma, la metro C è sempre più Caltagirone dipendente. Visto da questa angolazione e volendo malignare, il buco del Messaggero non sarebbe un buco vero, ma un autobuco, un autogol, il deliberato occultamento di una notizia che al padrone non piace.

Tutti si augurano, ovviamente, che l'improvvido guasto dell’inaugurazione resti un episodio circoscritto ed isolato. Anche se i guai strutturali della metro C sembrano tutt'altro che superati. Proprio nel giorno del viaggio inaugurale, infatti, sono spuntati nuovi inconvenienti, di cui finora nessuno si era accorto. Un assessore comunale, Luca Pancalli, che da paraplegico ha un’attenzione speciale per le esigenze dei portatori di handicap, ha fatto notare che “il dislivello tra i treni e la banchina crea problemi per i disabili”. Che non sembra un problemino, per la verità. E poi ci sono i mille giganteschi difetti elencati negli ultimi mesi dal Fatto Quotidiano. Prima di tutto i costi, cresciuti del 75 per cento, da 1,9 miliardi di euro a 3,3 da Pantano a piazza Venezia.

«Sopra quella galleria Ripoli ha iniziato a muoversi da quando sono partiti i lavori, perché una antica frana ha preso a muoversi diversi centimetri al mese. Nel 2011 un comitato di cittadini aveva chiesto di fermare i lavori e ripensare il tracciato. Ma Autostrade per l’Italia è andata avanti, forte del sostegno delle istituzioni». Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2014

Ripoli (Bologna). A Ripoli quella di ieri è stata una giornata come le altre. La pioggia, l’umido, la nebbia sulle cime dell’Appennino a creare un paesaggio mozzafiato. E poi quelle case sbarrate e sgomberate, le crepe sui muri, gli edifici imbragati, la chiesetta interdetta ai fedeli. A valle, dentro quella galleria che è andata a risvegliare la frana su cui il paesino poggia, si è fatto festa. Ieri è arrivato il premier Matteo Renzi che ha partecipato alla cerimonia per l’abbattimento dell’ultimo diaframma del tunnel Val di Sambro. Quello che mancava per terminare gli scavi della Variante di valico, l’autostrada da 60 chilometri e quasi 4 miliardi di euro che dal 2015 dovrebbe affiancare l’Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze. «Il lavoro che è stato fatto è il simbolo del Paese, che è in una galleria, in un tunnel di rassegnazione, ma ha la capacità per uscirne», ha spiegato Renzi.

Tuttavia da parte sua e da parte del numero uno di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, non una parola per chi di quest’opera ha subito soprattutto i disagi. Sopra quella galleria Ripoli ha iniziato a muoversi da quando sono partiti i lavori. Decine di persone hanno dovuto lasciare la loro casa sin dal 2011 perché una antica frana, che prima si muoveva 2 millimetri l’anno a un certo punto ha preso a muoversi diversi centimetri al mese. E con lei cammina ancora anche il viadotto della attuale Autostrada del Sole che si trova a monte del borgo.
Nel 2011 un comitato di cittadini guidati da un geometra in pensione, Dino Ricci, aveva chiesto di fermare i lavori e ripensare il tracciato. Ma Autostrade per l’Italia è andata avanti, forte del sostegno delle istituzioni: il paese è stato riempito di strumenti per misurare gli spostamenti dei muri. Ma la frana non si è fermata. La politica, a eccezione del consigliere regionale Andrea Defranceschi, non ha fatto nulla. Si è mossa anche la giustizia: a lungo i Carabinieri della compagnia di Vergato hanno indagato sul perché di quei movimenti. La procura di Bologna, che coordinava l’inchiesta contro ignoti, ha tuttavia chiesto l’archiviazione, ma il gip Andrea Scarpa potrebbe presto chiedere la riapertura delle indagini. I problemi per l’opera sono però anche tanti altri. La galleria Sparvo, poco più a sud, dovrà essere blindata con degli anelli d’acciaio per 400 metri perché un’altra frana è andata a pressare sulla copertura. Nella parte Toscana invece, un processo sullo smaltimento dei terreni di scavo sta bloccando tutto.
Infine una curiosità: tra gli invitati alla cerimonia, riecco Pietro Lunardi, l’ex ministro delle Infrastrutture che ha collaborato all’opera con il suo studio professionale, ma anche con il governo Berlusconi, che diede il via alla grande opera per decreto. Con lui Renzi si è fermato a lungo a parlare dopo la cerimonia: «Il premier? È grintoso come Berlusconi», la sua impressione finale.
«Si erano opposti alla costruzione di ville e di un approdo nell’area protetta. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto».

Corriere del Sera, 8 novembre 2014

Festa grande, brindisi e «urrah!» tra i cementieri di Siracusa. Ricordate Rosa Lanteri e gli altri due soprintendenti che si videro chiedere 100 milioni di danni, poi saliti a 423, per aver bloccato speculazioni in zone archeologiche? Li hanno rimossi. Via. Sciò. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto.

Ma partiamo dall’inizio. Cioè dalla decisione dei tre funzionari della Soprintendenza Rosa Lanteri (beni archeologici) Alessandra Trigilia (paesaggistici) e Aldo Spataro (architettonici) di mettersi di traverso ad alcuni pesanti interventi in alcune delle aree più importanti ed esposte della città di Dionisio. Rileggiamo il decreto del 1988 intitolato «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Dice che poiché «lungo la costa che dal castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l’area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, dall’altopiano dell’Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e poiché questo «spettacolo di mare , oltre ad essere ricordato da Tucidide, Diodoro e Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza» il bacino va considerato «un insieme unico al mondo». Quindi va vincolato.

Eppure, da anni c’è chi vorrebbe piazzarci dei porti turistici. Come il «Marina di Archimede» (un nome che suoni «storico» è vitale, se metti cemento) che «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000» per 500 posti barca. O il «Marina di Siracusa», che avrebbe addirittura un’isola artificiale di 40mila metri quadri e usando i ruderi d’una vecchia fabbrica di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

Il primo dei due porti, passato ai tempi di Totò Cuffaro grazie ad un accordo di programma e a soprintendenti poco battaglieri, è ormai arduo da fermare. Il secondo è stato stoppato. Così come sono stati stoppati 71 villini e due centri direzionali sul Pianoro dell’Epipoli, in zona di inedificabilità assoluta. E un mega-piano per 501 abitazioni ai piedi dell’Epipoli. E un impianto di «co-combustione» in un’area vincolata a ridosso di Megara Eblea. E altro ancora.

Un argine in controtendenza con certe gestioni del passato. Come quella di Mariella Muti, la soprintendente moglie di un architetto progettista di un condominio di lusso poi stoppato sulla Balza Acradina, soprintendente che a un certo punto, dato il via libera al piano regolatore che consentiva una concentrazione volumetrica nell’area tutelata dell’Epipoli, si pensionò usando la legge 104 (assistenza a familiari disabili) per giurare cinque giorni dopo come assessore comunale.

Va da sé che i costruttori, abituati a «vigilanti» di manica così larga, accolsero i «no» dei tre funzionari della nuova Soprintendenza, motivati dal rispetto dei vincoli ribaditi successivamente da varie sentenze del Tar, come una sorta di insubordinazione. Peggio: come un ostacolo al «progresso» cementizio. Al punto di pretendere dalla Lanteri, dalla Trigilia e da Spataro, rei di aver imposto il rispetto delle tutele, 268 milioni di euro per lo stop al porto e altri 155 per il blocco alle villette e ai centri direzionali. Per un totale, come dicevamo, di 423 milioni. Una somma così spropositata che i tre dipendenti pubblici, non arrivando ciascuno a tremila euro al mese i, impiegherebbero a pagare tre millenni e mezzo.

Una intimidazione. Davanti alla quale uno Stato serio e una Regione seria avrebbero dovuto schierarsi a muso duro dalla parte dei dirigenti. Mettendo loro a disposizione i migliori avvocati su piazza. Macché: le difese, i tre, hanno dovuto prepararsele quasi da soli. Contando sull’appoggio di tutti gli ambientalisti, di destra e di sinistra, del giornale on-line «la Civetta» e soprattutto di Italia Nostra, che un anno fa assegnò a Rosa Lanteri (e idealmente ai suoi colleghi) il «Premio Zanotti Bianco» per la difesa del «patrimonio culturale e paesaggistico in particolare nei territori del Sud, contro mille difficoltà, tra cui criminalità e malaffare».

In questo contesto, sui tre dirigenti siracusani lo Stato avrebbe dovuto dire: questi non si toccano. Macché, saltate prima l’assessore Maria Rita Sgarlata e poi la soprintendente Beatrice Basile, i tre sono stati infine tolti di mezzo. Normale avvicendamento, ha spiegato la Regione. Non dice forse la legge regionale che «nell’ambito delle misure dirette a prevenire il rischio di corruzione, assume particolare rilievo l’applicazione del principio di rotazione del personale»?
Giusto. La norma dice però che «la durata dell’incarico dovrebbe essere fissata in cinque anni rinnovabili preferibilmente una sola volta». Traduzione: massimo dieci anni. E la Lanteri, la Trigilia e Spataro, i primi spostati a svernare in questo o quel museo, non arrivano a cinque: le soprintendenti di Caltanissetta e Trapani sono lì da dieci e a Messina e a Palermo ci sono dirigenti imbullonati da dodici... E allora? Come la mettiamo? Qual è, il messaggio, a chi combatte il cemento nelle aree archeologiche protette?

Forse, tra quelle riprese su eddyburg, la più bella e condivisibile testimonianza e la piú convincente analisi di un evento e un momento che segnarono la crisi del mondo al di qua e al di lá del Muro di Berlino.

Il manifesto, 8 novembre 2014

Un pez­zetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scri­va­nia: un fram­mento di into­naco colo­rato che strap­pai con le mie mani quando accorsi anche io a Ber­lino men­tre ancora, a frotte, quelli dell’est eson­da­vano verso l’agognato Occi­dente. Furono gior­nate gio­iose attorno a quel sim­bolo di una guerra – quella fredda – che era scop­piata meno di due anni dopo la fine di quella calda.

Per oltre quarant’anni quella fron­tiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attra­ver­sata solo ille­gal­mente: negli anni ’50 per­ché il mio governo non mi dava un pas­sa­porto valido per i paesi oltre la cor­tina di ferro (dove­vamo rima­nere chiusi nell’area della Nato) e per­ciò per par­larsi con tede­schi della Ddr, unghe­resi o bul­gari si pren­deva il metro a Ber­lino e dall’altra parte ti for­ni­vano una sorta di pas­sa­porto posticcio.

Poi, dopo la costru­zione del muro, quando noi pote­vamo legal­mente andare ad est e invece quelli di Ber­lino est non pote­vano più venire a ovest, ridi­ven­tammo clan­de­stini: per potere incon­trare, senza incap­pare nella sor­ve­glianza della Stasi, i nostri com­pa­gni paci­fi­sti del blocco sovie­tico, dis­si­denti rispetto ai loro regimi, ma con­vinti che a una evo­lu­zione demo­cra­tica non sareb­bero ser­viti i mis­sili per­ché solo il disarmo e il dia­logo avreb­bero potuto facilitarla.

Per que­sto, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgo­glio per il merito che per que­sto esito aveva avuto anche il nostro movi­mento paci­fi­sta, l’End «per un’Europa senza mis­sili dall’Atlantico agli Urali». Ave­vamo pro­dotto una deter­renza poli­tica, con­tri­buendo ad iso­lare chi, per abbat­tere il muro, avrebbe voluto sce­gliere la più sbri­ga­tiva via delle bombe.

E però l’89 non fu solo gio­iosa rivo­lu­zione liber­ta­ria. Fu un pas­sag­gio assai più ambi­guo, gra­vido di con­se­guenze, non tutte mera­vi­gliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolo­ro­sa­mente nella memo­ria che evoca in me. Peral­tro quel 9 novem­bre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dis­so­cia­bile dalle date che segui­rono di pochi giorni: il 12 novem­bre, quando Achille Occhetto, alla Bolo­gnina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comu­nicò uffi­cial­mente alla trau­ma­tica riu­nione della dire­zione del par­tito di cui, dopo che il Pdup era con­fluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così impo­nen­doci – a tutti – la ver­go­gna di pas­sare per chi sarebbe stato comu­ni­sta per­ché si iden­ti­fi­cava con l’Unione sovie­tica e le orri­bili demo­cra­zie popo­lari che essa aveva creato.

Non c’era biso­gno della caduta del muro per con­vin­cersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo pos­si­bile che vole­vamo, non solo per noi che ave­vamo dato vita al Mani­fe­sto, ovvia­mente, ma nem­meno più per la stra­grande mag­gio­ranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.

Ma non si trat­tava sol­tanto della sini­stra ita­liana, il muta­mento che segnò l’89 ha avuto por­tata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vit­to­ria a livello mon­diale di que­sta glo­ba­liz­za­zione che tut­tora viviamo, acce­le­rata dalla con­qui­sta al domi­nio asso­luto del mer­cato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riu­scito a fare il socia­li­smo gli era tut­ta­via rima­sto estraneo.

Ci fu, certo, libe­ra­zione da regimi diven­tati oppres­sivi, ma solo in pic­cola parte per­ché non aveva vinto un largo moto ani­mato da un posi­tivo dise­gno di cam­bia­mento: c’era stata, piut­to­sto, la bru­tale ricon­qui­sta da parte di un Occi­dente che pro­prio in que­gli anni, con Rea­gan, Tat­cher, Kohl, aveva avviato una dram­ma­tica svolta rea­zio­na­ria. Al dis­sol­versi del vec­chio sistema si fece strada, arro­gante e per­va­sivo, il capi­ta­li­smo più sel­vag­gio, sra­di­cando valori e aggre­ga­zioni nella società civile, lasciando sul ter­reno solo ripie­ga­mento indi­vi­duale, egoi­smi, cor­ru­zione, vio­lenza. Il corag­gioso ten­ta­tivo di Gor­ba­ciov non era riu­scito, il suo par­tito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rima­sero passive.

E così il paese anzi­ché demo­cra­tiz­zarsi divenne preda di un furto sto­rico colos­sale, ci fu un vero col­lasso che privò i cit­ta­dini dei van­taggi del brutto socia­li­smo che ave­vano vis­suto senza che potes­sero godere di quelli di cui il capi­ta­li­smo avrebbe dovuto essere por­ta­tore. (A pro­po­sito di demo­cra­zia: chissà per­ché nes­suno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liqui­dato Gor­ba­ciov, arrivò a bom­bar­dare il suo stesso Par­la­mento col­pe­vole di non appro­vare le sue proposte?).

Come scrisse Eric Hob­sbawm nel ven­te­simo anni­ver­sa­rio del crollo «il socia­li­smo era fal­lito, ma il capi­ta­li­smo si avviava alla ban­ca­rotta».

Avrebbe potuto andare diver­sa­mente? La sto­ria, si sa, non si fa con i se, ma riflet­tere sul pas­sato si può e si deve ( e pur­troppo non lo si è fatto che in minima parte)E allora è lecito dire che c’erano altri pos­si­bili sce­nari e che se la sto­ria ha preso un’altra strada non è per­ché il «destino è cinico e baro», ma per­ché a quell’appuntamento di Ber­lino si è giunti quando si era già con­su­mata una sto­rica scon­fitta della sini­stra a livello mon­diale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.

Le respon­sa­bi­lità sono mol­te­plici. Per­ché se è vero che il campo sovie­tico non era più rifor­ma­bile e che una rot­tura era dun­que indi­spen­sa­bile, altro sarebbe stato se i par­titi comu­ni­sti , in Ita­lia e altrove, aves­sero avan­zato una cri­tica aperta e com­ples­siva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limi­tarsi – come avvenne nel ’68 in occa­sione dell’invasione di Praga – a par­lare solo di errori.

In que­gli anni i rap­porti di forza sta­vano infatti posi­ti­va­mente cam­biando in tutti i con­ti­nenti ed era ancora ipo­tiz­za­bile una uscita da sini­stra dall’esperienza sovie­tica, non la capi­to­la­zione al vec­chio che invece c’è stata. E così nell’89, anzi­ché avviare final­mente una vera rifles­sione cri­tica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socia­li­smo che pro­prio non si poteva fare.

Gor­ba­ciov restò così senza inter­lo­cu­tori per por­tare avanti il ten­ta­tivo di dar almeno vita, una volta spez­zata la cor­tina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva per­se­guito con tena­cia, offrendo più volte lui stesso alla Ger­ma­nia la riu­ni­fi­ca­zione in cam­bio della neu­tra­liz­za­zione e denu­clea­riz­za­zione del paese.

Fu l’Occidente a rifiu­tare. Mancò all’appello, quando uni­la­te­ral­mente il pre­si­dente sovie­tico diede via libera all’abbattimento della cor­tina di ferro, il più grande par­tito comu­ni­sta d’occidente, quello ita­liano, fret­to­lo­sa­mente appro­dato all’atlantismo e impe­gnato ad accan­to­nare, quasi con irri­sione, il ten­ta­tivo di una “terza via” fon­data su uno scio­gli­mento dei due bloc­chi avan­zata da Ber­lin­guer alla vigi­lia della sua morte improvvisa.

E mancò la social­de­mo­cra­zia, che aveva in quell’ultimo decen­nio mar­gi­na­liz­zato gli uomini che pure si erano con lun­gi­mi­ranza bat­tuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Krei­ski. È così che l’89 ci ha con­se­gnato un’altra scon­fitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi final­mente un ruolo e una sog­get­ti­vità auto­nome, quella “Casa comune euro­pea” che Gor­ba­ciov aveva soste­nuto e indi­cato, e che trovò solo un sim­pa­tiz­zante – ma debo­lis­simo — in Jaques Delors, allora pre­si­dente della Com­mis­sione europea.

Nell’89 l’Unione Euro­pea avrebbe final­mente potuto coro­nare l’ambizione di libe­rarsi dalla sud­di­tanza ame­ri­cana che l’esistenza dell’altro blocco mili­tare aveva faci­li­tato, e invece si ritrasse quasi spa­ven­tata. Avvian­dosi negli anni suc­ces­sivi lungo la disa­strosa strada indi­cata dalla Nato: ricon­durre al vas­sal­lag­gio le ex demo­cra­zie popo­lari per poter esten­dere i pro­pri con­fini mili­tari fino a ridosso della Russia.

Non andò molto meglio nep­pure in Ger­ma­nia. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riu­ni­fi­ca­zione del paese che aveva vis­suto la dolo­ro­sis­sima ferita della divi­sione, ma anche qui, più che di un nuovo ini­zio, si trattò di una annes­sione con­dotta secondo le regole di un bru­tale vincitore.

A 25 anni di distanza la disu­gua­glianza fra cit­ta­dini tede­schi dell’ovest e dell’est è più pro­fonda di quella fra nord e sud d’Italia, per­ché la «Treu­hand» inca­ri­cata di pri­va­tiz­zare quanto era pub­blico nell’economia della Ddr pre­ferì azze­rare le imprese per lasciar il campo libero alla con­qui­sta di quelle della Rft. Cin­que anni fa nel com­me­mo­rare il crollo del muro il set­ti­ma­nale Spie­gel rese noti i risul­tati di un son­dag­gio: il 57% degli abi­tanti della ex Ger­ma­nia dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne ave­vano nostalgia

Oggi pro­ba­bil­mente quella che viene chia­mata «Ostal­gie» è cre­sciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scom­parsa: tor­nava da un giro ad est in occa­sione della prima cam­pa­gna elet­to­rale del paese riu­ni­fi­cato ed era deso­lato per come la riu­ni­fi­ca­zione era stata con­dotta. La Spd non aveva del resto nasco­sto, sin dall’inizio, la sua con­tra­rietà a come era stato avviato il processo).

Per tutte que­ste ragioni non con­di­vido la spen­sie­rata (agio­gra­fica) festo­sità che accom­pa­gna, anche a sini­stra, la cele­bra­zione del crollo del Muro. Soprat­tutto per­ché – e que­sta è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di per­sone prende fine la spe­ranza – e per­sino la voglia – di cam­biare il mondo, quasi che il socia­li­smo sovie­tico fosse stato il solo modello pra­ti­ca­bile. E via via è finita per pas­sare anche l’idea che tutto il secolo impe­gnato a costruirlo anche da noi era stata vana per­dita di tempo.

Un colpo duris­simo inferto alla coscienza e alla memo­ria col­let­tiva, alla sog­get­ti­vità di donne e uomini che per que­sto ave­vano lot­tato. E nes­suno sforzo per riflet­tere cri­ti­ca­mente su cosa era acca­duto per trarre forza in vista di un più ade­guato nuovo pro­getto. Non è un caso che anche i poste­riori ten­ta­tivi di dar vita a nuovi par­titi di sini­stra abbiano pro­dotto for­ma­zioni tanto impa­stic­ciate: per­ché inca­paci di fare dav­vero i conti con la sto­ria. E per­ciò qual­che rista­gno ideo­lo­gico o la resa a un pen­siero unico che indica il capi­ta­li­smo come solo oriz­zonte della storia.

Nel dire que­ste parole amare rischio come sem­pre di fare la nonna noiosa che con­ti­nua a rimu­gi­nare sul pas­sato senza guar­dare al pre­sente. So bene che ci sono oggi nuovi movi­menti ani­mati da gene­ra­zioni nate ben dopo la famosa sto­ria del Muro che si pro­pon­gono a loro modo di inven­tarsi un mondo diverso.

Ma non mi ras­se­gno a subire senza rea­gire il disin­te­resse che avverto in tanti di loro per il nostro pas­sato, non per­ché vor­rei ci assol­ves­sero dai nostri errori, ma per­ché non sono con­vinta si possa andar lon­tano se non si ha rispetto sto­rico per quanto di eroico e corag­gioso, e non solo di tra­gico, c’è stato nei grandi ten­ta­tivi, pur scon­fitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella uffi­cial­mente cele­brata in que­sto ven­ti­cin­quen­nale del Muro — così meschina da appa­rire arre­trata per­sino rispetto alla rivo­lu­zione fran­cese dove almeno era stato aggiunto ugua­glianza e fra­ter­nità, ormai con­si­de­rati obiet­tivi pue­rili e con­tro­pro­du­centi: il mer­cato, infatti, non li può sopportare.

Non ho molta cre­di­bi­lità nel pro­porre la crea­zione di par­titi, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straor­di­na­rio suc­cesso. E tut­ta­via ora ne vor­rei dav­vero fare uno: il par­tito dei nonni. Non per­ché inse­gnino ai gio­vani cosa devono fare, per carità, ma per­ché vor­rei che almeno due gene­ra­zioni uscis­sero dal muti­smo in cui hanno finito per rin­chiu­dersi, inti­mi­diti da rot­ta­ma­tori di destra e di sinistra.

Vor­rei che ripren­des­sero la parola, riac­qui­stas­sero sog­get­ti­vità: per dire che sulla sto­ria di prima del crollo del muro vale la pena di riflet­tere, per­ché si tratta di una sto­ria piena di ombre, ma anche di espe­rienze straor­di­na­rie ( a comin­ciare dalla rivo­lu­zione d’ottobre di cui giu­sta­mente Ber­lin­guer disse che aveva perso la sua spinta pro­pul­siva, non che era meglio non farla). But­tare tutto nel cestino signi­fica ince­ne­rire ogni vel­leità di cam­bia­mento, di futuro.

Per finire: da quando è caduto il muro di Ber­lino ne sono stati eretti altri mille, mate­riali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disu­gua­glianza glo­bale e i muri euro­pei «a mare» nel Medi­ter­ra­neo e di terra a Melilla, con­tro i migranti). Non pro­prio una festa.

«La sinistra e i giovani. Con i 10 miliardi spesi da Renzi per gli 80 euro si potrebbero creare subito 250mila posti di lavoro». Il manifesto, 7 novembre 2014 (m.p.r.)

L’articolo di Piero Bevi­lac­qua sulle nuove gene­ra­zioni apre un dibat­tito di grande rile­vanza che non si può fer­mare alla denun­cia, ma spero con­tri­bui­sca a deli­neare delle linee poli­ti­che di inter­vento. In que­sta dire­zione vor­rei offrire un con­tri­buto che parte dall’area del nostro paese dove è più grave la con­di­zione giovanile.

Il Mez­zo­giorno è oggi una grande riserva di forza-lavoro con­ge­lata, inu­ti­liz­zata, desti­nata al macero, come per molto tempo sono state le arance, le cle­men­tine, i pomodori.Una con­di­zione che ricorda da vicino quella cate­go­ria del «pau­pe­ri­smo» defi­nito da Marx come «il peso morto dell’esercito indu­striale di riserva», che si tra­duce oggi, nel XXI secolo, in una con­di­zione para­go­na­bile a quella di una «riserva di indiani» nel nord Ame­rica, dove impera l’alcol ed i casinò, ma la cul­tura locale, l’identità, le aspet­ta­tive di riscatto sono state cancellate.

È noto che in Ita­lia su circa 2,3 milioni di gio­vani “neet” (not employ­ment, edu­ca­tion, trai­ning) circa due terzi risie­dono nel Sud. Meno noto è il fatto che molti gio­vani meri­dio­nali sono stati costretti dalla Lunga Reces­sione a ritor­nare nel pae­sello natio dopo aver spe­ri­men­tato lavoro pre­ca­rio ed alti costi di inur­ba­mento nel Nord-Italia. Così come molte gio­vani cop­pie sono state costrette dalla crisi a lasciare le città meri­dio­nali per tor­nare al paese del padre o del nonno dove pos­sono usu­fruire di una casa in pro­prietà, e magari un appez­za­mento con ani­mali (gal­line, maiali, ecc.). Non c’è niente di buco­lico o roman­tico in que­ste scelte ma una dura neces­sità di soprav­vi­venza. Per­fino nelle Uni­ver­sità meri­dio­nali tro­viamo oggi gio­vani che sono tor­nati dalle più pre­sti­giose uni­ver­sità del Centro-Nord per­ché i geni­tori non li pote­vano più man­te­nere. Ancora di più sono gli stu­denti che si iscri­vono in alcune uni­ver­sità del Mez­zo­giorno per neces­sità in quanto i geni­tori non si pos­sono per­met­tere di man­te­nerli «fuori».

Elogio del posto fisso
Sem­bra siano pas­sati secoli da quando, negli anni ’70, i gio­vani del nostro Sud gri­da­vano nei cor­tei «lot­tare per restare e restare per lot­tare». Era molto di più di uno slo­gan, era una pro­spet­tiva di vita e di impe­gno sociale e cul­tu­rale, una fede nella pos­si­bi­lità di cam­biare la società, un atto di amore per la pro­pria terra. Una spinta vitale che ha pro­dotto lotte sociali, che è con­fluita in una ribel­lione ine­dita con­tro la mafia, la ‘ndran­gheta e la camorra, che ha costruito tante ini­zia­tive nel sfera del sociale, della cul­tura, dell’economia solidale.

Chi resta oggi nel Mez­zo­giorno lo fa o per­ché ha un lavoro (una esi­gua mino­ranza) o per­ché è costretto. Sono gio­vani cari­chi di rab­bia e fru­stra­zione che in mag­gio­ranza hanno votato per Grillo e Renzi, che non gliene frega niente dell’art. 18 , che vivono la loro dispe­ra­zione in soli­tu­dine, che non cre­dono più a niente. Una con­di­zione estrema che ormai col­pi­sce quasi un gio­vane su due e che meri­te­rebbe una rispo­sta poli­tica adeguata. C’è un solo modo, una sola poli­tica che possa fare uscire imme­dia­ta­mente una parte dei gio­vani meri­dio­nali dalla «riserva», che gli possa dare un’alternativa di vita e di lavoro. Si chiama posto pub­blico. Una bestem­mia, lo so, dopo decenni in cui è stato pro­pa­gan­dato il mito della mobi­lità del lavoro come valore, dell’inventarsi un lavoro, dell’essere impren­di­tori di se stessi, del dipen­dente pub­blico come un parassita.

Ma qual è l'alternativa?

L’ideologia neo libe­ri­sta, di cui Renzi è un pala­dino, sostiene che i posti di lavoro si pos­sono e si deb­bano creare solo dando incen­tivi alle imprese, e ridu­cendo la spesa pub­blica. Ma in tutti i paesi in cui que­sta ricetta è stata appli­cata ne è risul­tato un aumento dei posti di lavoro pre­cari e sot­to­pa­gati, men­tre sono peg­gio­rati tutti i ser­vizi pub­blici con danno grave per la mag­gio­ranza della popo­la­zione. Inol­tre, le imprese pri­vate pos­sono assu­mere nuovi gio­vani solo se c’è una domanda cre­scente in quello spe­ci­fico set­tore economico.

Per esem­pio l’hanno già fatto nei call cen­ter, con salari da fame, stress mici­diali e pre­ca­rietà asso­luta, ave­vano creato fino a cin­que anni fa quasi 80.000 nuovi posti di lavoro. Poi, hanno sco­perto che era meglio far svol­gere que­sto ser­vi­zio in Alba­nia o in Roma­nia, con salari ancora più bassi e con­di­zioni di lavoro estreme.

Proposte credibili e immediate

Per­tanto, se è vero che la con­di­zione gio­va­nile nel Mez­zo­giorno è dispe­rata, come sosten­gono tutti gli ana­li­sti e gran parte delle forze poli­ti­che, allora diciamo basta con il lamento e pro­viamo a dare delle rispo­ste cre­di­bili ed immediate.

Se pen­siamo che gli 80 euro distri­buiti a chi aveva già un lavoro ed un red­dito infe­riore ai 1500 euro costano al bilan­cio dello Stato circa 10 miliardi l’anno, e non creano un solo posto di lavoro in più , allora diciamo che con la stessa cifra si pote­vano e si pos­sono creare circa 250.00 posti di lavoro a tempo inde­ter­mi­nato nella Scuola, Uni­ver­sità, Sanità, tra­sporti locali, ser­vizi sociali, ecc. Baste­rebbe tagliare la spesa mili­tare pre­vi­sti per gli F35 o per qual­che grande opera per tro­vare que­ste risorse, lasciando immu­tato il bilan­cio dello stato.

Si tratta sem­pli­ce­mente di ripren­dersi una parte dei 450.000 posti di lavoro can­cel­lati nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione bloc­cando il tur­no­ver negli ultimi sei anni. Se la Cgil e la Fiom voles­sero dav­vero diven­tare un punto di rife­ri­mento per i gio­vani meri­dio­nali inoc­cu­pati, pre­cari, sot­to­pa­gati, dovreb­bero aprire una seria ver­tenza con il governo — a par­tire dal pros­simo scio­pero gene­rale — chie­dendo che ven­gano ripri­sti­nati que­sti posti di lavoro che sono oggi asso­lu­ta­mente neces­sari per avere una Scuola decente, una Uni­ver­sità dove si inve­sta sui gio­vani ricer­ca­tori e docenti, il ripri­stino delle fer­ro­vie e del tra­sporto pub­blico nelle aree esterne all’asse Milano-Napoli, ser­vizi sociali per gli ina­bili, i non auto­suf­fi­cienti, anziani, ecc.

Il vec­chio, fami­ge­rato, posto fisso nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, che intere gene­ra­zioni di meri­dio­nali hanno sem­pre sognato per i pro­pri figli, è oggi una neces­sità – per avere ser­vizi essen­ziali digni­tosi — e anche una oppor­tu­nità. Non solo per rispon­dere al biso­gno impel­lente di occu­pa­zione sta­bile, ma per­ché ci potrà essere una rina­scita del nostro Sud solo se Stato ed Enti Locali saranno in grado di offrire ser­vizi che in parte sono stati pri­va­tiz­zati e devono tor­nare sotto l’egida pub­blica, anche per­ché costano meno di quelli privati!

Certo, nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, spe­cie nel com­parto delle strut­ture regio­nali, ci sono sac­che di paras­si­ti­smo che pos­sono e devono essere rimosse. Ma, non è più accet­ta­bile la cri­mi­na­liz­za­zione del pub­blico impiego, dove esi­stono sog­get­ti­vità che si spen­dono per il bene comune, spesso mar­gi­na­liz­zate e pena­liz­zate. E senza ser­vizi pub­blici effi­cienti non ci può essere nes­suna ripresa eco­no­mica, ma solo nuove ondate migratorie.

Que­sto non signi­fica non bat­tersi per una ridu­zione dell’orario di lavoro, un red­dito minimo garan­tito ai gio­vani inoc­cu­pati, come sostiene da tempo Piero Bevi­lac­qua, o spen­dersi per un piano di sal­va­guar­dia dal dis­se­sto idro­geo­lo­gico, o rinun­ciare all’indispensabile ricon­ver­sione eco­lo­gica della nostra strut­tura pro­dut­tiva (Guido Viale), o accet­tare che il governo Renzi tagli 8 miliardi alle regioni meri­dio­nali obiet­tivo 1, come ha giu­sta­mente denun­ciato Andrea del Monaco su que­sto gior­nale (dome­nica scorsa). Tutte scelte e obiet­tivi più che con­di­vi­si­bili, ma che richie­dono un tempo inde­fi­nito e non rispon­dono al biso­gno imme­diato di un lavoro utile e garantito.

Se un giorno risor­gerà una forza poli­tica di sini­stra in que­sto paese senza memo­ria, se vorrà dire qual­cosa di com­pren­si­bile ai gio­vani meri­dio­nali, non potrà non par­tire da que­sta proposta. Se si vuole uscire dalla mar­gi­na­lità poli­tica biso­gna avere obiet­tivi chiari e rag­giun­gi­bili nel breve periodo, all’interno di un qua­dro più gene­rale di cam­bia­mento radi­cale di que­sto modello di impo­ve­ri­mento sociale e culturale.

«». Il manifesto

È come quando la Pro­te­zione civile avverte che pio­verà forte, ma non sa dire esat­ta­mente quanto forte e quali saranno i danni. Le pre­vi­sioni ave­vano pre­an­nun­ciato la vit­to­ria dei Repub­bli­cani e i risul­tati dicono che la vit­to­ria c’è stata, di dimen­sioni supe­riori ai timori o alle aspet­ta­tive. E tut­ta­via, per certi versi, non senza qual­che ele­mento che in pro­spet­tiva ne smorza l’impatto poli­tico concreto.

Il dato poli­tico imme­diato è l’isolamento del Pre­si­dente: il nuovo Con­gresso è tutto con­tro di lui. Quindi sarebbe lecito pen­sare che saranno ancora più forti gli sbar­ra­menti che i Repub­bli­cani ave­vano già oppo­sto, per esem­pio, a pro­getti come l’innalzamento del sala­rio minimo e la riforma dell’immigrazione. Ed è più che pro­ba­bile che il loro attacco alla pre­si­denza demo­cra­tica si con­cen­trerà su due obiet­tivi prin­ci­pali: la riforma sani­ta­ria, per boi­cot­tare la quale hanno fatto ogni pos­si­bile bat­ta­glia in tutte le sedi legali; l’altrettanto invisa «legge Dodd-Frank», che ha sot­to­po­sto a norme e con­trolli le atti­vità del mondo finan­zia­rio. Di entrambe i Repub­bli­cani hanno detto di volere la cancellazione.

Non è detto, però, che nei pros­simi due anni essa venga per­se­guita con la stessa deter­mi­na­zione mostrata finora. A Obama resta comun­que il potere di veto, ed è con que­sto in mente che il nuovo spea­ker di mag­gio­ranza, l’appena rie­letto Mitch McCon­nell, si è affret­tato a dichia­rare la dispo­ni­bi­lità a «lavo­rare insieme» con il Pre­si­dente. In sostanza, l’unica pos­si­bi­lità che il Con­gresso eviti la para­lisi è la pra­tica del compromesso.

La para­lisi – quello che vogliono i Repub­bli­cani viene bloc­cato da Obama; quello che vuole lui viene fer­mato da loro – fer­me­rebbe sì il Pre­si­dente, che potrebbe agire solo con gli “Ordini ese­cu­tivi”, ma direbbe al paese che la mag­gio­ranza stessa è inetta. Il che met­te­rebbe poi in forse la pro­spet­tiva di una pre­si­denza repub­bli­cana nel 2016.

Ma non suc­ce­derà, per­ché «gli adulti», come ha scritto Tho­mas Edsall, hanno ripreso le redini del Par­tito repub­bli­cano e della sua agenda poli­tica. Quindi, se città e Stati con­ti­nue­ranno a innal­zare a 8–9 dol­lari l’ora o più il sala­rio minimo (adesso a 7,25) che Obama voleva por­tare a oltre 10 dol­lari, diventa pro­ba­bile che anche i Repub­bli­cani pro­por­ranno un rialzo. Sull’immigrazione, se vogliono sot­trarre i voti ispa­nici ai Demo­cra­tici – a cui anche que­sta volta sono andati in massa – dovranno pre­sen­tarsi con qual­cosa di fatto alle pros­sime pre­si­den­ziali, magari aggior­nando le pro­po­ste di George W. Bush. La riforma sani­ta­ria e la legge Dodd-Frank saranno attac­cate e inde­bo­lite entrambe, ma sarà più dif­fi­cile can­cel­lare la prima che la seconda.

In tutto que­sto disfare e rifare i Repub­bli­cani non saranno soli. Tra i Demo­cra­tici, la dispo­ni­bi­lità al com­pro­messo verrà cer­ta­mente, più che da Obama, dai suoi com­pa­gni di par­tito. L’isolamento del Pre­si­dente, infatti, si è veri­fi­cato ed è stato sban­die­rato anche nel suo stesso schieramento.

Obama è stato ridi­men­sio­nato – reso «pic­colo», da grande che era, ha scritto il New York Times – dal suc­cesso della pro­pa­ganda avver­sa­ria, che ne ha fatto il primo desti­na­ta­rio dell’offensiva pre­e­let­to­rale, e dalla presa di distanza di una parte del suo partito.

Tutti i gior­nali hanno scritto dei can­di­dati che non lo hanno voluto al loro fianco nella cam­pa­gna per non com­pro­met­tere le pro­prie poss<CW-17>ibilità di suc­cesso. È troppo pre­sto per con­trol­lare come è andata a costoro. Il pro­blema poli­tico però è reale e con esso Obama dovrà fare i conti.

La distri­bu­zione geo­gra­fica del voto con­ferma, per quanto pos­si­bile (per Senato e Gover­na­tori i rin­novi erano 36), che il Sud e le grandi aree rurali sono repub­bli­cane, men­tre le aree metro­po­li­tane in tutto il paese e le zone di antica indu­stria­liz­za­zione riman­gono pre­va­len­te­mente democratiche.

Stando ai son­daggi per gruppi sociali, invece, risul­te­rebbe che le donne, i gio­vani, gli ispa­nici e gli afroa­me­ri­cani hanno votato in mag­gio­ranza, in pro­por­zioni diverse, per i Demo­cra­tici, men­tre gli anziani, i maschi bian­chi e i resi­denti dei suburbs hanno pre­fe­rito i Repub­bli­cani. In molti casi il distacco tra vin­cente e scon­fitto non è stato grande.

Que­sto anda­mento del voto, come ricorda una parte dei com­men­ta­tori, è in buona misura «fisio­lo­gico»: l’amministrazione in carica è sem­pre sfa­vo­rita nelle ele­zioni di mid­term. E l’esito ha anche a che fare con i tanti ridi­se­gni delle cir­co­scri­zioni elet­to­rali effet­tuate negli anni scorsi, soprat­tutto negli Stati gover­nati dai Repub­bli­cani e natu­ral­mente a pro­prio van­tag­gio. Inol­tre, va sot­to­li­neato che molti sono dispo­sti a mobi­li­tarsi quando in ballo è la pre­si­denza, ma non quando si tratta di Con­gresso e gover­na­tori. Infatti nelle ele­zioni di mid­term la per­cen­tuale dei votanti non arriva mai al 40 per cento. Que­ste con­si­de­ra­zioni non sono con­so­la­to­rie, ser­vono a ricor­dare che nel 2016 i Repub­bli­cani dovranno gua­da­gnar­sela la pre­si­denza. Que­sto voto, di per sé, non gliela promette.

Rimane il fatto che è un elet­to­rato «scon­tento», come ha scritto Dan Balz sul Washing­ton Post, ad avere decre­tato la scon­fitta dei Demo­cra­tici. Non sono tanto le que­stioni legate a una poli­tica estera «debole» e incerta, su cui pure i Repub­bli­cani hanno bat­tuto pesan­te­mente. Ancor più che nelle pre­si­den­ziali, in que­ste ele­zioni conta il con­te­sto locale e nazionale.

E qui hanno pesato le con­trad­di­zioni attuali.

La ripresa eco­no­mica c’è stata, la cre­scita è buona (supe­riore al 3,5 per cento), la disoc­cu­pa­zione è bassa (al 5,9 per cento, appena sopra quel 5,5 con­si­de­rato «piena occupazione»). Ma: le disu­gua­glianze sono aumen­tate, il lavoro è fatto di sot­toc­cu­pa­zione pre­ca­ria e sot­to­pa­gata e men­tre i salari sono fermi i red­diti dei grandi ric­chi hanno con­ti­nuato a salire.Non importa che siano stati in parte i Repub­bli­cani a bloc­care l’azione pre­si­den­ziale (sui salari minimi, sui lavori pub­blici, sull’ambiente, sull’estensione del sus­si­dio di disoccupazione…).

La loro pro­pa­ganda è riu­scita nell’opera di attri­buire le man­cate rea­liz­za­zioni legi­sla­tive all’inettitudine di Obama e a costruire intorno a lui un alone di fal­li­mento. Una sorta di senso comune a cui ha ade­rito una parte del suo stesso par­tito, come s’è detto: debo­lezza della poli­tica, volu­bi­lità delle con­vin­zioni e potere della comu­ni­ca­zione, vale a dire dei milioni spesi nella cam­pa­gna elet­to­rale di mid­term più costosa della storia.

. La Repubblica

Quest'anno non è fuggito nessuno, e nessuno stamani si è sdegnato per quella grande bandiera pacifista che il sindaco di Messina ha voluto riesporre in piazza per la festa delle Forze armate, concedendo il bis dopo le polemiche di dodici mesi fa. Nel 2013, dinanzi a quell'arcobaleno srotolato e sventolato a braccia aperte, due generali dei carabinieri abbandonarono la platea. Già, perché la prima volta "fu uno shock, e alla fine presi la parola anche se non era previsto", racconta lui, il primo cittadino Renato Accorinti, ex insegnante di educazione fisica, anarchico, attivista anti-mafia e anti-ponte sullo Stretto.

Ma a furia di insistere, dice, "il messaggio in qualche modo passa. Oggi, poi, non ho neanche chiesto la parola...". Tuttavia, parlano per lui le due citazioni di Sandro Pertini che incorniciano il centro del drappo: "Svuotiamo gli arsenali, strumenti di morte. Coltiviamo i granai, fonte di vita". Il messaggio è racchiuso tutto lì. E l'iniziativa silenziosa - che l'anno scorso il governo definì una "provocazione demenziale" - varca i confini geografici della Sicilia per approdare in Campidoglio a Roma, dove il sindaco Ignazio Marino decide di accogliere l'appello e di esporre lo stesso vessillo.

La ricorrenza scelta per portare avanti "una lotta pacifista e non violenta che rappresenta le fondamenta della politica alta" è quella del 4 novembre, giorno dell'Unità nazionale e giornata delle Forze armate. In piazza Unione europea a Messina oggi anche i rappresentanti di 'Cambiamo Messina dal basso' - il movimento che ha sostenuto Accorinti alla guida della città - che hanno voluto sventolare bandiere multicolori durante la manifestazione. I rappresentanti istituzionali presenti alla cerimonia non hanno risposto in alcun modo al gesto, tuttavia alcuni consiglieri comunali hanno esposto la bandiera italiana, forse irritati dall'atteggiamento del sindaco pacifista.

"Attenzione - sottolinea Accorinti -, io alle spalle ho anni di lotte sociali e questa non è una sceneggiata. Non voglio che si parli della mia bandierina, io qui sto facendo una analisi di condanna dell'economia dell'Occidente e di come stiamo vivendo. La guerra è il braccio armato della finanza, e la via del disarmo è un percorso di grande maturità. Da Gandhi a Martin Luther King, passando per Francesco d'Assisi che quando parla di pace fa un discorso politico, sul pacifismo c'è un percorso serio e maturo".

Jobs Act. Danilo Barbi, vice di Camusso: "Risponderemo a chi attacca l’articolo 18". Il sindacato ha una finanziaria alternativa: "Patrimoniale sui ricchi per 10 miliardi: sarebbero 740 mila nuovi posti"».

Il manifesto, 5 novembre 2014

Si riscalda sem­pre di più lo scon­tro sul Jobs Act, adesso che il testo è in pro­cinto di essere discusso alla Camera. Ieri nel corso di un’audizione sulla legge di sta­bi­lità, il segre­ta­rio con­fe­de­rale Cgil Danilo Barbi (com­po­nente dell’esecutivo gui­dato da Susanna Camusso) è stato netto: «Noi non con­sen­ti­remo così facil­mente di modi­fi­care l’articolo 18 libe­rando un canale per i licen­zia­menti ille­git­timi come ha pro­vato a fare Ber­lu­sconi – ha dichia­rato – Ci oppor­remo bru­tal­mente a que­sto tentativo».

Subito dopo il segre­ta­rio ha pre­ci­sato: «Ci oppor­remo con la stessa bru­ta­lità di chi ha cam­biato l’agenda poli­tica intro­du­cendo modi­fi­che all’articolo 18 mai pro­po­ste nelle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che nè nelle cam­pa­gne elet­to­rali». Ad arro­ven­tare il lin­guag­gio, a fine set­tem­bre, era stato lo stesso pre­si­dente del con­si­glio Mat­teo Renzi, che dalla sua mis­sione negli Usa aveva par­lato della neces­sità di un «cam­bia­mento vio­lento» per l’Italia.

La Cgil e il pre­mier restano per il momento su due oppo­ste bar­ri­cate: la prima impe­gnata nel per­corso di mobi­li­ta­zioni che oggi vede schie­rati i pen­sio­nati e sabato i lavo­ra­tori del pub­blico impiego (entrambe le ini­zia­tive sono uni­ta­rie, con Cisl e Uil), men­tre il 14 e il 21 la Fiom aprirà la sta­gione degli scio­peri gene­rali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri l’apparizione a Bal­larò, e subito dopo la riu­nione con la mino­ranza Pd per un pos­si­bile accordo su Jobs Act e arti­colo 18 che possa iso­lare il sindacato.

Quanto alla legge di sta­bi­lità, Barbi ha spie­gato che secondo la Cgil il governo «sta pro­gram­mando il disa­stro sociale».

La mano­vra «è ina­de­guata e insuf­fi­ciente in ter­mini di inve­sti­menti e poli­ti­che di soste­gno alla cre­scita», spiega la Cgil. Ser­vi­rebbe al con­tra­rio un «Piano per il lavoro»: quello che il sin­da­cato ha già pre­sen­tato da tempo, ma che non rie­sce a discu­tere con il governo, visto che qual­siasi tipo di con­cer­ta­zione, o anche solo di dia­logo, è spa­rito del tutto dal pano­rama dell’Italia renziana.

Il governo, pro­se­gue Barbi, «scom­mette su una forte ridu­zione delle tasse alle imprese (taglio gene­ra­liz­zato dell’Irap sul costo del lavoro e sgravi con­tri­bu­tivi per nuovi con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato) e sulla sva­lu­ta­zione del lavoro (Jobs Act, come “col­le­gato” alla legge di sta­bi­lità) spe­rando che, senza vin­coli e con meno tutele, aumen­tino gli inve­sti­menti pri­vati e, per que­sta via, l’occupazione». «Ma non suc­ce­derà – è l’analisi della Cgil – per­ché il per­ma­nere di una crisi di domanda sco­rag­gia le imprese».

Anche gli incen­tivi diret­ta­mente legati alla sti­pula di nuovi con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato rea­liz­ze­ranno, secondo il sin­da­cato, «più sta­bi­liz­za­zioni e sosti­tu­zioni che nuovi occu­pati». Le poli­ti­che per le imprese e le misure fiscali per lo svi­luppo, inol­tre, «non sono ade­guate e manca una vera poli­tica indu­striale. In più sot­ten­dono una poli­tica con­cet­tual­mente anti­me­ri­dio­nale, deter­mi­nando un’ulteriore dif­fe­ren­ziale nella coe­sione del Paese».

Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di inve­sti­menti, valo­riz­za­zione del lavoro e dei ser­vizi pub­blici, tasse sulla ric­chezza. Il sin­da­cato riba­di­sce la neces­sità che per creare posti di lavoro si deb­bano coin­vol­gere, con uno spe­ciale con­tri­buto, i milio­nari: il 5% delle fami­glie più ric­che del Paese, quelli che la crisi non l’hanno per­ce­pita lon­ta­na­mente, nean­che con il can­noc­chiale. Quei “poteri forti” che il buon Renzi potrebbe deci­dersi final­mente di scomodare.

La Cgil pro­pone «un piano straor­di­na­rio per l’occupazione gio­va­nile e fem­mi­nile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da finan­ziare attra­verso un’imposta sulle grandi ric­chezze finan­zia­rie che con un get­tito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garan­tire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pub­blici e pri­vati), aggiun­tivi, in tre anni».

E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova poli­tica indu­striale per l’innovazione, con il soste­gno delle grandi imprese pub­bli­che nazio­nali e della Cassa depo­siti e pre­stiti; una forte ridu­zione del carico fiscale sui red­diti da lavoro e da pen­sione, attra­verso un piano di lotta per la ridu­zione strut­tu­rale dell’evasione fiscale e della cor­ru­zione, recu­pe­rando le risorse utili ad aumen­tare ed esten­dere il bonus Irpef».

L’ultimo punto, sono que­gli 80 euro che da tempo i sin­da­cati (anche Cisl e Uil) vor­reb­bero fos­sero estesi a cate­go­rie come i pen­sio­nati e gli inca­pienti. Ma finora Renzi non li ha ascoltati.

«». Huffington Post

Ci si affatica a cercare paralleli tra la leadership di Matteo Renzi e il passato più o meno recente. Le comparazioni con Bettino Craxi e con Silvio Berlusconi sono consuete. Ma sono utili ad una condizione: che non si riducano a un parallelo statico tra personalità, ma mostrino come il successo di Renzi nell'Italia di oggi sia l'esito del lungo cammino cominciato da quei due leader. La forma plebiscitaria della leadership di Renzi sarebbe in questo modo studiata nel merito, non meramente criticata.

L'Italia democratica, cosi com'è, è stata modellata anche dalla politica di Craxi e di Berlusconi: questa mi sembra una base di partenza per incorniciare la leadership consensuale e plebiscitaria di Renzi, che vuole avere un partito a sua immagine e fa di tutto per riuscire in questo intento. In che cosa consiste questo nuovo partito funzionale al ? La sua identità è l'esito di un'Italia segnata da due progetti tra loro correlati: l'affossamento definitivo del fattore K (ovvero della questione comunista) e il superamento della democrazia dei partiti (ovvero del sistema parlamentare come fu disegnato dai costituenti). Entrambi questi progetti devono per riuscire ad andare ai fondamenti della nostra democrazia uscita dalla guerra.

Cominciamo dal fattore K. Esso è rappresentato dalla cultura politica del Partito comunista, una cultura centrata sul coinvolgimento dei cittadini-via partito e su politiche di sociali centrate sul ruolo sociale del lavoro. Il fattore K corrispondeva quindi a una strategia politica che si innervava nella società con una rete organizzativa del mondo del lavoro nelle sue varie forme, autonome e salariate. Su questi corpi intermedi si è strutturata la democrazia parlamentare.

Come si è giunti alla erosione del fattore K? Le prime grandi sconfitte del fattore K sono state consumate negli anni '80: la marcia dei quarantamila quadri della Fiat (ottobre 1980) e il referendum abrogativo della scala mobile (giugno 1985). Due sconfitte che misero in evidenza come la cultura liberale e liberista avesse fatto breccia nel mondo della sinistra (il Psi di Craxi) erodendo l'idea di una responsabilità collettiva rispetto ai problemi del lavoro. L'idea della fine del lavoro stabile cominciò allora. A partire da quelle sconfitte, il declino della cultura politica che sosteneva il fattore K fu segnato e fatale.
L'ideologia anti-comunista usata da Berlusconi fin dalla sua prima scesa in campo, nel 1994, che a molti sembrava anacronistica (non era forse finita la Guerra fredda?) era in effetti astuta, perché in Italia la cultura del partito comunista era molto radicata e la caduta del Muro di Berlino non bastava a seppellirla. Il ventennio berlusconiano rappresentò da questo punto di vista il completamento dell'erosione egemonica. Più che fatta di decisioni e momenti eclatanti - come i menzionati appuntamenti del anni '80 - l'azione berlusconiana fu pervasiva e lenta. Certo, Berlusconi perse il referendum sulla riforma della Costituzione, ma vinse quello per la liberalizzazione della pubblicità e, soprattutto, consegnò ai cittadini un paese che avrebbe con facilità fatto la riforma della costituzione.

La leadership di Renzi giunge alla fine di un lavoro ai fianchi che ha atterrato il forte pugile: e si sta concretizzando proprio in quei due settori nei quali da Craxi a Berlusconi il fattore K è stato eroso: ovvero l'abolizione dell'articolo 18 e riforma in senso 'esecutivista' della Costituzione. Con la prima - che è tutta simbolica e con quasi nessuna ricaduta sulla situazione occupazionale, - ci dicono gli esperti - si mette fine alla filosofia della responsabilità sociale dell'economica, con la seconda alla pratica della rappresentanza politica fondata sul partito: liberismo e comitati elettorali (che si trovano non a caso a loro agio nello spazio della Leopolda), sono le due facce di una rivoluzione individualistica della società e personalistica della politica. In sostanza: Renzi ha messo una pietra tombale sul fattore K.

E questo spiega il suo consenso trasversale e anche nell'opinione intellettuale moderata, di coloro che hanno considerato il Pci e i suoi successori più o meno mascherati come il "problema italiano", la non "normalità" del paese. Ora siamo normali: apatici (declino della partecipazione elettorale), indifferenti alle lealtà ideologiche (nonostante un'irrisoria resistenza, come si è visto con le recenti primarie in Emilia-Romagna dove molti sono andati al voto per 'fedeltà' alla sigla Pd), con una democrazia plebiscitaria gestita da un partito-macchina dell'opinione orchestrata. Ma siamo un paese normale anche sul fronte del pensiero sociale: il lavoro non è associato ai diritti sociali e alle garanzie ma alla monetizzazione e a un impiego qualunque. Non è associato soprattutto all'organizzazione che sola dà potere di trattativa a chi individualmente non ha forza, come i lavoratori dipendenti (tra i progetti di Renzi vi è il superamento del contratto nazionale, e la sua dura opposizione alla Cgil è coerente, non un incidente di percorso).

Se si dovesse riassumere con una frase l'Italia renziana si potrebbe dire che essa rappresenta la conclusione della lunga parabola che ha portato dalla socialdemocrazia-modello italiano (con il Pci a guidarla, nella pratica se non nella teoria) al liberismo umanizzato dalla solidarietà cristiana. Liberalismo economico e terzo settore o cattolicesimo sociale: questi i due pilastri dell'ideologia che meglio si accorda con la cultura dominante del nostro paese e che mette insieme un'audience molto larga che va dalla piccola e media impresa, ai professionisti, alla grande impresa. I lavoratori dipendenti non sono il gruppo determinante di questo Pd e Renzi è disposto a fare a meno dei loro consensi.

Il primo documento di Renzi il giorno stesso del suo insediamento a Palazzo Chigi conferma questa lettura: contro la distinzione tra Destra e Sinistra, egli propose il modello liberale caro alla cultura cattolica. Competizione individuale da un lato e solidarietà cristiana per chi resta indietro o cade dall'altro. Nessuna meraviglia che la leadership renziana goda di un tale consenso. E soprattutto che miri a ben più che una leadership di partito - egli vuole una leadership totale, plebiscitaria, e quindi deve fare del Pd il suo partito. Chi non ci sta è semplicemente irrilevante. Per questo restare dentro per fare testimonianza non ha senso, poiché le decisioni le prende la maggioranza in un modo che non solo non riflette le posizioni della minoranza ma le nega. Egli sta facendo del suo meglio (e a quanto pare bene) per rendere la coabitazione impossibile. Dopo di che potrà perfino dire che chi lascia se ne va di sua spontanea volontà.
Riferimenti
A proposito della traiettoria Craxi-Berlusconi_Renzi vedi l' eddytoriale n. 163 . Puoi trovare gli altri numerosi articoli di Nadia Urbinati ripresi su eddyburg digitando il suo nome nella finestra a sinistra della piccola lente d'ingrandomento in alto sulla homepage
L'Italia di Renzi all'avanguardia nell'Europa di Renzi nello sporco lavoro per trasformare il Mediterraneo da cerniera in frontiera e l'Antico continente in moderna fortezza.

Comune.info, 31 ottobre 2014

Oltre cento mila persone non sono morte. Difficilmente sarebbero arrivate tutte vive. Forse la maggior parte non si sarebbe salvata. Grazie all’operazione Mare Nostrum sono salite su navi attrezzate con cibo, coperte e vestiti, medicinali e spesso anche con mediatori culturali e addetti al riconoscimento e alla richiesta d’asilo. Questa dovrebbe essere una notizia della quale andare orgogliosi. Una strada buona che il governo ha imboccato un anno fa, una scelta che avrebbe dovuto rivendicarsi. E infatti sono tutti molto contenti di come è andata. Ciononostante l’operazione Mare Nostrum è destinata ad essere chiusa.

Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa, ce lo ricordava qualche giorno fa durante il festival Sabir che “lo Stato siamo noi, ogni cittadino, io sono lo Stato, il sub che è andato sott’acqua a prendere i cadaveri, l’uomo dell’esercito che li trasportava dalla banchina al camion, l’uomo che trasportava i morti col camion frigo, il poliziotto della scientifica che prelevava il dna, l’uomo della guardia costiera che ha rischiato la sua vita per salvare quella dei migranti: questo è lo Stato”, mentre i governi sono un’altra cosa “possono sbagliare o cambiare i destini delle persone in meglio”.

Ecco! Vedere i soldati che invece di essere pagati per ammazzare la gente ricevono uno stipendio per salvarla me li fa sentire più vicini al sub, all’uomo col camion frigo e anche a me: più vicini all’idea di Stato. E invece il governo decide di chiudere Mare Nostrum. Non la sostituisce Triton. Le navi che verranno usate in questa nuova operazione sono probabilmente molto diverse e meno attrezzate perché la sua missione è controllare i confini, non salvare esseri umani. Infatti si fermeranno ad una trentina di miglia dalle coste. Non accadrà quello che è accaduto per un anno con le grandi navi della marina italiana che arrivavano a poche miglia dall’Africa e di fatto creavano una sorta di corridoio umanitario.

Qualcuno dirà che proprio questa vicinanza è un incentivo ad organizzare barconi, ma non è così. Chi parte in cerca di lavoro normalmente vive in un paese povero, ma con la possibilità di spostarsi in treno o in aereo. I cinesi non vengono in barca e spendono meno di un eritreo che fugge dal suo paese. Chi affronta un viaggio da incubo durante il quale deve difendersi da ogni tipo di violenza non rischia la vita affrontando il mare col barcone perché sa dell’operazione Mare Nostrum. Lo fa e basta, non ha alternative. E gli scafisti sfrutteranno la maggior difficoltà nel raggiungere le nostre coste per alzare il prezzo del viaggio non per rallentare il flusso.

Quando la casa è in fiamme chiunque salta dalla finestra e non resta a bruciarsi solo perché in giardino invece dei pompieri con la rete ci sta un poliziotto gli ordina di rientrare. Qualcun altro si lamenterà per i 9 milioni che l’Italia ha speso per ogni mese di Mare Nostrum. Il contribuente ha pagato 1.000 ero per ciascuna vita umana, più o meno un terzo di quanto Renzi vuole dare nei primi 3 anni di vita per i prossimi nostri concittadini che nasceranno. Qualcuno dirà che i nostri figli sono italiani, mentre quelli che arrivano in barca sono stranieri. Che insomma è meglio fare qualcosa per noi che per loro. Ma la differenza è che i nostri bambini nascono comunque, mentre loro vanno incontro alla morte.

Ce n’è un’altra di differenza: gli italiani che nascono sono scritti su un registro, gli stranieri che muoiono non li conta nessuno.

«». Il manifesto

Tra le imma­gini che cele­brano la mis­sione del pre­si­dente del Con­si­glio a Bre­scia, ce n’è una in cui Renzi si stringe accanto al pre­si­dente della Con­fin­du­stria bre­sciana Bono­metti, uomo di destra, falco delle rela­zioni indu­striali, che un attimo dopo lo scatto dichia­rerà: «Il sin­da­cato è un osta­colo sulla strada del rilan­cio dell’Italia». Sullo slan­cio, il pre­si­dente del Con­si­glio si rifiu­terà di rice­vere i rap­pre­sen­tanti Fiom nella fab­brica di Bono­metti. Per­ché tra il segre­ta­rio Pd e l’imprenditore destrorso l’estremista è il primo.

In un’altra fab­brica lì vicino, dove gli ope­rai sono stati messi in ferie obbli­gate e sosti­tuiti con piante orna­men­tali, men­tre la poli­zia bastona lon­tani con­te­sta­tori, un Renzi scuro in volto e niente spi­ri­toso mette al cor­rente la pla­tea di Con­fin­du­stria e il pre­si­dente Squinzi che «c’è un dise­gno cal­co­lato, stu­diato e pro­get­tato per divi­dere il mondo del lavoro». Dice qui, in Ita­lia, «in que­ste set­ti­mane». E i padroni bat­tono le mani, con l’aria di chi pra­tico di com­plotti ha capito subito che l’oscura trama sco­perta dal pre­mier non deve fare paura. Può anzi tor­nare utile.

Per­ché se Renzi denun­cia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scon­tro» non lo fa per sco­prire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la mas­sima ten­sione al set­timo anno di crisi e con i disoc­cu­pati che aumen­tano ancora? Né lo fa per rico­no­scere di essere stato lui a incen­diare l’ultima guerra, deci­dendo di can­cel­lare le garan­zie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai ten­tato i peg­giori governi di destra. Lo fa per riba­dire la sua visione della moder­nità ita­liana, il suo cam­bio di verso: scon­tro è quando qual­cuno non è d’accordo con lui.

È qui che si risolve l’apparente con­trad­di­zione di un pre­si­dente del Con­si­glio che da un lato si pre­senta come il fon­da­tore del Par­tito Nazio­nale, il volen­te­roso capo de «l’Italia unica e indi­vi­si­bile di chi vuol bene ai pro­pri figli», e dall’altro non manca occa­sione di strap­pare, attac­care stormi di avver­sari «gufi», sco­prirli intenti in sor­didi com­plotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici eco­no­mici e rie­sce ancora ad arre­trare in quelli di civiltà; die­tro di lui si rac­con­tano spe­ranza e fidu­cia. E poi c’è «qual­cuno che vuole lo scon­tro ver­bale e non sol­tanto ver­bale». Quel qual­cuno è nei fatti il suo mini­stro di poli­zia, ma non impor­tano più i fatti. Il rac­conto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il rac­conto dei nemici. Da circondare.

Ave­vamo già avuto un nar­ra­tore della pace sociale al clo­ro­for­mio, del par­tito degli ope­rai ma anche dei padroni. Oggi la ver­sione di Renzi è assai più aggres­siva di quella di Vel­troni, più cat­tiva e più chiusa a sini­stra. Risponde alle cri­ti­che con la bru­ta­lità della men­zo­gna: ieri ai con­fin­du­striali in estasi il pre­mier ha rac­con­tato di una legge elet­to­rale «pronta a essere votata» e di riforme costi­tu­zio­nali pra­ti­ca­mente già fatte. Un castello, un for­tino di carte che prima o poi crol­lerà. Meglio spin­gere per­ché crolli dal suo lato.

Una preziosa iniziativa per la conservazione e lo studio della cultura ambientalistica italiana: un'ampia antologia degli scritti di Giorgio Nebbia, curati da Luigi Piccioni , disponibili per tutti sul sito della Fondazione Luigi Micheletti. Pubblichiamo la presentazione e il sommario dell'opera .

Altronovecento, n. 26, ottobre 2014

Il “come” e i“perché” di questo libro
di Luigi Piccioni


Nella vasta produzione scientifica e civile di Giorgio Nebbia - nato a Bologna nel 1926, chimico, professore emerito di merceologia all’Università di Bari, ecologista dalla metà degli anni Sessanta e parlamentare dal 1983 al 1992 - gli scritti riguardanti la storia dell’ambiente e dell’ambientalismo occupano un posto di assoluto rilievo. Oltre a nutrire un vivo interesse per il passato, Nebbia è infatti convinto che tutti i fenomeni naturali, sociali e culturali incorporino un'imprescindibile dimensione storica e che ignorando tale dimensione ci si preclude la possibilità di comprenderli. Nebbia ha finito così col costruire dai primi anni Settanta in poi, pezzo dopo pezzo, il più ricco corpus di scritti di storia ambientale realizzato in Italia, contraddistinto da un esemplare equilibrio tra rigore, chiarezza e leggibilità. Un corpus che attende ancora di essere adeguatamente valorizzato dagli storici ma che merita di essere conosciuto e utilizzato ben al di là dei confini accademici tanto più che esso è rivolto anzitutto alla società civile nel senso più ampio.

L’antologia di 434 pagine che costituisce il quaderno n. 4 della rivista telematica “altronovecento” è composta da 54 articoli e saggi scelti tra gli oltre 350 scritti di storia ambientale pubblicati da Nebbia. L’opera è suddivisa in sette sezioni tematiche che comprendono tra l’altro la storia delle merci, dei rifiuti e delle frodi, quella delle neotecniche come la dissalazione e l’energia eolica, l’analisi in chiave ecologica di ampie fasi o di importanti processi storici, la storia dell’ambientalismo e dei suoi protagonisti, i rapporti tra ecologia e marxismo e, ultima ma non meno importante, la problematica della conoscenza storica in sè: archivi, memoria, uso della storia.

L'antologia è introdotta dal curatore dell’'opera, Luigi Piccioni dell’Università della Calabria, che illustra i criteri di scelta e di ordinamento degli scritti e ricostruisce il profilo del Giorgio Nebbia storico dell’ambiente dell’ambientalismo. Alla realizzazione dell’opera hanno contribuito Pier Paolo Poggio e Fabio Ghidini della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia.

Il sommario

Il "come" e i "perché" di questo libro (Luigi Piccioni)
Sezione prima. Il racconto di una vita
La natura e le merci nelle ricerche di Giorgio Nebbia. Pier Paolo Poggio intervista Giorgio Nebbia
Sono un nipote di Ciamician anch'io
Mi ricordo di Franco

Sezione seconda. Le merci: produzione, contraffazioni, rifiuti, inquinamento
Tecnica e ambiente dalle origini al Duemila
Le merci della conquista
Piccola storia delle frodi [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dei rifiuti
Il caso Bossi e la nascita dell'industria chimica a Milano
Il peggiore di tutti
Love Canal: una bomba a orologeria

Sezione terza. Per una storia delle neotecniche
Breve storia della dissalazione [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dell'energia solare

Sezione quarta. Fasi, processi, eventi storici
Ecologia e comunismo. Ma davvero non avevano capito niente?
Il secolo XX: per una rilettura ecologica
A ottant'anni dal New Deal
L'ingegneria dello sterminio
Hiroshima anni dopo
Bisogno di storia: crescita, declino e resurrezione (?) dell'energia nucleare in Italia
A anni dalla Populorum progressio
Il Settantatre
Seveso, anni fa

Sezione quinta. L'ecologia e l'ecologismo
Breve storia della contestazione ecologica
L'ecologismo americano. I temi fondamentali
I Limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito -
Risanamento economico-ambientale e lotta allo spreco. Ripensando il 'progetto a medio termine'
Ecologia e ecologismi

Sezione sesta. L'ambientalismo: precursori e maestri, protagonisti, esperienze collettive
George Perkins Marsh. Prevedere e prevenire, un monito disatteso
Vladimir Vernadskij
Alfred Lotka
Lewis Mumford, alla ricerca di una società neotecnica
Rachel Carson e la primavera dell'ecologia
Un pioniere dell'ecologia: Girolamo Azzi
Bertrand Russell 'ecologo'
Bertrand de Jouvenel
Scienza e pace. Linus Pauling nel centenario della nascita
Nicholas Georgescu-Roegen, un economista del dissenso
Kenneth Boulding: un ricordo
Ricordo di Barry Commoner
Mi ricordo di Aurelio
Ricordo di Laura Conti
Laura Conti, un amore per la vita
Ricordo di Antonio Cederna
Dario Paccino, un ecologo inquieto
Ricordo di Fabrizio Giovenale
Ricordo di Alfredo Todisco
25° anniversario di Italia Nostra
Io e CerviaAmbiente
Auguri Legambiente

Sezione settima. La memoria, la storiografia, gli archivi
Per una definizione di storia dell'ambiente
Importanza degli archivi e della memoria
La ricerca storica come condizione imprescindibile per affrontare il problema delle aree industriali inquinate
"Prefazione" a Walter Giuliano, La prima isola dell'arcipelago
"Prefazione" a Edgar Meyer, I pionieri dell'ambiente
"Presentazione" a Marino Ruzzenenti, Un secolo di cloro e … PCB

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