Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.
«Dalla Toscana alla Puglia: “Noi fermiamo il cemento, lui no” E dopo le polemiche Palazzo Chigi frena: “Ora pensiamo ai danni”». Solito scarica barile all'italiana, e alla fine nessuno ha colpa e nessuno deve dar conto di quanto fatto o non fatto.
La Repubblica, 17 novembre 2014 (m.p.r.)
«A sorpresa è arrivata l’intesa Usa-Cina sulla riduzione delle emissioni, con il gigante asiatico che per la prima volta accetta il principio di limitare le proprie. Crescono così le possibilità di un vero accordo globale sul clima. Ma alle parole devono seguire i fatti, soprattutto a Occidente».
Lavoce.info, 14 novembre 2014 (m.p.r.)
Verso Parigi con una delusione non dimenticata
Gli esperti e l’opinione pubblica ricordano ancora la grande delusione di Copenhagen 2009. Da quella riunione si ci aspettava che sbocciasse il nuovo accordo globale sul clima fatto di target di riduzione delle emissioni di gas-serra vincolanti per ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India all’Europa, dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada. Si trattava della quindicesima riunione della Conferenza delle parti (Cop15), il summit sul clima che ogni anno riunisce attorno a un tavolo oltre 190 paesi. Molti avevano vissuto l’attesa di quel vertice Onu nella convinzione, rivelatasi poi illusione, che quanto gli scienziati indicavano come necessario per ridurre la crescita della temperatura globale fosse di per sé sufficiente a convincere i principali emettitori a firmare un accordo vincolante.
Nonostante questi chiari messaggi, molti, tra cui chi scrive, non si aspettavano uno storico risultato da Parigi 2015. A ben guardare, non sembra che sia cambiato significativamente lo schema dei benefici netti (i payoffs) percepiti da ciascun paese derivanti da un’azione coordinata di mitigazione delle emissioni. In altre parole, le condizioni del dilemma del prigioniero sono ancora lì, sostanzialmente inalterate. Poiché l’orizzonte temporale in cui si determinano i danni del cambiamento climatico è nell’ordine dei decenni e centinaia d’anni, mentre l’orizzonte in cui vanno decise le politiche di mitigazione spesso coincide con il ciclo politico-elettorale, appare difficile attendersi risultati eclatanti. Un’azione più incisiva da parte dei nostri Governi potrà essere indotta solo da un’anticipazione dei danni futuri, come certi episodi di eventi climatici estremi che già si registrano oggi in giro per il mondo, e da un’accresciuta consapevolezza del problema fornita da risultati scientifici sempre meno incerti e più precisi.
Il miracolo inatteso
Chi si occupa di politica, tuttavia, sa che a volte si può produrre all’improvviso il miracolo. E questo potrebbe essere avvenuto nei giorni scorsi. O almeno si sono forse poste le premesse per un miracolo parigino. Al termine del vertice Apec, il presidente americano Barack Obama ha annunciato a sorpresa (sembra dopo mesi di trattative segrete) un accordo con il presidente cinese Xi Jinping secondo cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas-serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. In particolare, gli Usa ridurrebbero le emissioni del 26-28 per cento entro il 2025 relativamente ai livelli del 2005 con una netta accelerazione rispetto al livello precedentemente dichiarato del 17 per cento (tabella 1). Per parte sua la Cina “intende” cominciare a ridurre le emissioni nel 2030 e fare “del suo meglio” per far sì che in quell’anno raggiungano il picco. Ha anche concordato di aumentare la quota di consumo di energia da fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) a circa il 20 per cento entro il 2030. In particolare, il paese procederà a installare 800-1,000 gigawatts aggiuntivi di capacità di generazione elettrica nucleare, eolica, solare e altre tecnologie a emissioni zero entro il 2030, più di tutti gli impianti a carbone esistenti oggi in quel paese.
La questione politica
Rimane ovviamente in piedi la principale questione politica. Riuscirà l’amministrazione Obama a rispettare questo impegno? Qualche tempo fa, l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha proposto nuove norme per ridurre le emissioni delle centrali elettriche esistenti. È molto poco probabile che sia sufficiente per ottenere una diminuzione del 28 per cento. E da dove verranno gli ulteriori tagli? Il Congresso a maggioranza repubblicana aspetta una risposta, avversa questa mossa perché è scettico sui cambiamenti climatici e ne sottolinea solo i costi economici: non è detto che il presidente Obama abbia tutte le carte in mano per potere fare da solo.
’Espresso, 17 novembre 2014
Maledetto liceo classico. Tutta colpa sua: il degrado del Paese, l’inconcludenza dei politici, la poca competitività delle aziende, la credulità della gente... Tutti i mali d’Italia nascono da qui. Anche se ormai lo sceglie solo il sei per cento degli studenti (e per la maggioranza ragazze, statisticamente destinate più a una carriera da insegnanti che a manovrare le leve del potere) è comunque considerato la fucina delle élite intellettuali di un Paese che ormai, delle élite e degli intellettuali, pensa di poter fare una sola cosa: rottamarli.
Benedetto liceo classico. È l’anima dell’Italia migliore. Prepara alle professioni del futuro (Umberto Eco), insegna a ragionare e a resistere (Luciano Canfora), e questo perché grazie alle “lingue morte” propone veri “ problemi da risolvere ” e non semplici “esercizi da eseguire” (Dario Antiseri). Gli dobbiamo gran parte di quello che di buono ha ancora l’Italia: da Fabiola Gianotti a Daniele Dorazio , fisico incompreso chiamato dal Cern ma bloccato dal suo liceo di Brindisi, ben più del sei per cento degli italiani che fanno fortuna all’estero hanno in tasca una maturità classica.
Eppure ogni volta che si parla di limiti della scuola italiana, il primo imputato è il liceo classico: protagonista in questi giorni di un vero “ Processo”, organizzato dalla Fondazione San Paolo al Teatro Carignano di Torino (all’accusa l’economista Andrea Ichino , alla difesa Eco). Critiche periodiche che sono destinate a riattizzarsi con la scadenza (il 15 novembre) dei termini per commentare il progetto di riforma per “ La buona scuola ” del governo Renzi. Il 3 dicembre saranno presentati i nuovi dati sullo stato delle scuole superiori raccolti dal consorzio Almalaurea, il 4 e 5 dicembre e si farà il punto su dieci anni di test Invalsi per la valutazione dell’istruzione scolastica.
Di certo un pregio ce l’ha, il classico, e dovrebbero riconoscerglielo anche i suoi detrattori più accaniti: basta sparargli contro per conquistare ben più di un quarto d’ora di attenzione.
«Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elettorale, ha diritto ad essere descritto da un marrano della storia del mondo» Non solo volgarità, ma demolizione della democrazia rappresentativa.
Il manifesto, 17 novembre 2014, con postilla
«Un vincitore certo la sera delle elezioni», questa è la filosofia vagamente crepuscolare che ispira l’accordo del Nazareno e ora ribadita nel testo finale siglato dopo l’ennesimo incontro. Già qui, nel riecheggiare come cultura istituzionale i versi di Ed è subito sera, sorgono problemi enormi di interpretazione politica. Il nome Italicum è appropriato al congegno in via di perfezionamento perché trattasi di un rimedio da strapaese. In nessun sistema politico, di antica o nuova costituzione, la volontà di predeterminare un vincitore perviene ad esiti così grotteschi.
La governabilità come mito assume al Nazareno inquietanti tinte crepuscolari. Ed è la sera della democrazia rappresentativa quella che si annuncia con l’apporto creativo di due simili riformatori. Nessun sistema elettorale al mondo attribuisce la vittoria certa perché è solo attraverso la definizione della rappresentanza che si esprimono le forme di governo.
Se entro la scelta della rappresentanza nessuno ce la fa ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, si fa ricorso a coalizioni. Avviene così in tutta Europa. In Germania ci hanno fatto ormai il callo. E persino nel preteso universo del bipartitismo perfetto, che è l’Inghilterra, vige un governo di coalizione.
Un vincitore certo si ha solo con l’elezione diretta di una carica monocratica. Ma, in un regime parlamentare, non può esistere la simulazione di una elezione diretta del governo senza con ciò procurare profonde distorsioni e palesi forzature istituzionali. L’Italicum continua invece a marciare nella via fallimentare di un presidenzialismo di fatto. E, a sorreggere questo presidenzialismo mascherato, risulta del tutto funzionale la scomparsa delle circoscrizioni uninominali e il maltrattamento delle preferenze. I nominati sono privi di autorevolezza e autonomia politica, perché nel disegno dei riformatori proprio così servono: semplici numeri a fare da contorno. Essi compaiono come equivalenti degli eletti alle convention nei regimi presidenziali. Fanno cioè da accompagnamento scenografico ad un capo che presume (e nel caso italiano si tratta solo di presunzione) di avere un contatto mistico con il popolo.
Il congegno del Nazareno, che prevede 100 circoscrizioni con altrettanti capilista bloccati, è l’espediente maldestro per consentire al capo di affidarsi a persone ad elevata fedeltà e comprovato spirito di servitù. Questa logica di un dominio a base privata peraltro non risponde in alcun modo alle obiezioni che hanno indotto la Consulta alla pronuncia di incostituzionalità della vecchia legge elettorale Calderoli. Infatti, con il ritrovato delle 100 circoscrizioni, si perviene, sulla base degli attuali rapporti di forza, a nominare senza alcuna scelta degli elettori circa 450 deputati (300 per i tre grandi partiti, circa 60 per la Lega e tutti gli eletti dei cespugli che varcano la soglia del 3 per cento).
Le preferenze reintrodotte riguarderebbero, nel migliore dei casi, non più di 200 deputati. Va aggiunto poi che il ricorso a micro circoscrizioni non incentiva in alcun modo il rapporto diretto tra il territorio e il singolo parlamentare. Infatti sembra che nel congegno in gestazione non è dalla vittoria nei territori che si aggiudica il seggio, determinando dal basso la governabilità. Ma è dalla quota nazionale spettante a ciascuna lista che si perviene poi alla ripartizione nei vari collegi plurinominali dei seggi spettanti. E questo attribuire i seggi dall’alto è davvero paradossale. Manca ogni collegamento tra la volontà dell’elettore e l’esito della competizione nella sua circoscrizione.
Un candidato potrebbe persino raggiungere la maggioranza assoluta dei voti nel proprio collegio e però non agguantare il seggio se la sua lista poi non supera lo sbarramento nazionale. E ci sarebbero circoscrizioni con un esercito di eletti ed altre con il rischio di risultare sottorappresentate. Insomma, un guazzabuglio. Un concentrato così informe di filosofie elettorali crepuscolari e di improvvisazione tecnica che si spinge ai limiti del dilettantismo terrà bloccata la politica per altri mesi ancora.
Un aforisma di Kraus rende bene il senso dell’occupazione renziana dell’agenda politica con obiettivi fasulli di riforma istituzionale (dal senato a costo zero all’Italicum). «Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elettorale, ha diritto ad essere descritto da un marrano della storia del mondo»
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Se rileggiamo la poesia di Salvatore Quasimodo, il riferimento non è alla vittoria, ma alla disperazione: "Ognuno è solo sul cuore della terra// trafitto da un raggio di sole// ed è subito sera"
Sciopero sociale. Migliaia di studenti e precari sfilano a Milano sfidando i manganelli. La cattiva gestione della piazza della polizia non rovina la strana giornata milanese percorsa da tre cortei, diversi ma uniti dalla stessa voglia di tornare a lottare per difendere i diritti ed estenderli a tutti».
Il manifesto 15 novembre 2014 (m.p.r.)
Non per enfatizzare le solite mazzate che «rovinano» i giorni di lotta, ma le cariche democratiche distribuite gratuitamente ieri a Milano dimostrano ancora una volta che in questo paese c’è una gran voglia di menare le mani. Sul campo è rimasto qualche contuso e un punto interrogativo sul perché a un certo punto la polizia abbia deciso di dare una’energica riordinata alla strana giornata milanese, con tre cortei diversi (ma non troppo) che per tutta la mattina hanno girato intorno alla questione «più diritti per tutti». A volte incrociandosi, spesso ignorandosi, e sempre desiderando di convergere tutti insieme chissà dove, forse in un mondo nuovo con un popolo nuovo che ha perso memoria di sigle, sette, sommatorie e impossibili «unità» a sinistra. Erano tutti lì, concentrati in pochi chilometri quadrati. Decine di migliaia griffati Fiom diretti in Duomo, qualche migliaio dietro agli striscioni dei sindacati di base sbucati in piazza San Babila dopo tanto girovagare e più di 5.000 scioperanti sociali, una prima assoluta, un esperimento tanto suggestivo quanto complicato che ha anche emozionato alcuni lavoratori — «ho preso mezza giornata, questo è il mio primo sciopero». A 32 anni, sono conquiste.
«Roma e la Liberazione. La Resistenza viene conservata come in una teca. Da tenere da conto, sempre, anche se ormai fuori moda». In calce, la postilla con i riferimenti a un evento, l'attentato di via Rasella, attorno al quale fu imbastita una colossale mistificazione.
Il manifesto, 26 settembre 2014
Nella notte tra il 22–23 settembre qualcuno, qualcuna di noi ha ricevuto questo sms: «Oggi alle 10.30 con il tricolore Anpi… a Ponte Garibaldi fiori per Carla Capponi e Sasà Bentivegna. Vergogna. Solo il Tevere ha accolto ieri le loro ceneri…».
Ciò che era nell’aria da tempo è avvenuto. Ma come? Cerchiamo invano una cronaca. Un Tevere limaccioso inesorabilmente deserto è comparso per qualche secondo sul Tg Lazio del giorno 23, fuori campo la voce del sindaco Marino recitava che Roma non avrebbe mai dimenticato i due protagonisti della Resistenza romana…Le ceneri di Carla Capponi (morta nel 2000) e del suo compagno Sasà Bentivegna (morto nel 2012) erano custodite dalla figlia Elena nella sua casa di Zagarolo (Roma) in attesa di una degna sepoltura.
Si è capito ben presto dal «No» del Cimitero acattolico di Testaccio, su cui Elena contava per esaudire un desiderio dei genitori, che trovare una degna sepoltura per i due gappisti non sarebbe stata un’impresa semplice. Passi da parte delle autorità locali ne sono stati fatti, ma evidentemente privi di quel convincimento interiore necessario per portare a compimento il riconoscimento di un merito che nel clima politico di questi ultimi anni, una sorta di disagio crescente lo creava.
In soccorso dello scoramento di Elena si era mosso all’inizio dell’estate il Museo di via Tasso offrendo ospitalità alle ceneri, finché non si fosse trovata la sede definitiva per la sepoltura. L’Anpi di Roma da parte sua aveva proposto che i due protagonisti della Resistenza romana fossero accolti nel monumento dedicato ai caduti per la Liberazione di Roma…
I vincoli burocratici, l’inerzia che caratterizza da noi ogni procedimento amministrativo divengono un utile alibi quando un’azione è meglio rimandarla: «queta non movere»… Elena, alla fine l’ha capito, e ha dato corso a quella che definiva «la seconda scelta» dei suoi genitori: le loro ceneri affidate alle acque del Tevere.
Nulla sappiamo di come ciò sia avvenuto. Forse quei papaveri rossi che Carla tanto amava saranno stati gettati nel Tevere insieme a ciò che restava di lei, della sua luminosa bellezza, che i meno giovani tra noi ben ricordano….Già negli anni del compromesso storico Carla cominciava a creare imbarazzi: il suo coraggio ardente, il suo indomito antifascismo vissuto «con cuore di donna» suscitava nei comizi l’entusiasmo dei giovani (e lo sgomento palpabile dei segretari delle sezioni del Pci, preoccupati delle reazioni degli scout, i nuovi invitati).
Il clima politico stava cambiando. La cultura sempre più accreditata della non violenza rendeva difficile difendere l’azione dei Gap dall’accusa di terrorismo, sostenere la sua collocazione tra gli atti di guerra, considerare via Rasella un atto di eroismo, uno scatto di dignità contro la ferocia nazifascista sulla popolazione romana che l’aveva determinato.
Carla Capponi fu medaglia d’oro della Repubblica, parlamentare del Pci eletta con un vastissimo consenso, riconosciuta protagonista di quella Resistenza che tuttavia, benché condivisa da donne e uomini di diverse tendenze e idealità uniti nella lotta al fascismo, era divenuta nei decenni sempre più patrimonio rivendicato dalla sinistra.
Furono le forze di sinistra a battersi per il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali, le amministrazioni di sinistra a tenere vivo nei decenni l’esempio di chi aveva dato la vita per la democrazia nel nostro paese. Ma proprio questa fedeltà rischia di essere travolta nel folle volo compiuto dal Pci nella sua corsa verso il «nuovo», un «nuovo» che è sfumatura delle differenze, annullamento di tutto ciò che può rendere meno piatto il presente…
Gli eroi della Resistenza acquistano il sapore di un reperto oleografico: sono da conservarsi in una teca, come i gioielli di famiglia, da tenere da conto, ma rimasti fuori moda. Battersi per una degna sepoltura di Carla e Sasà avrebbe comportato riportare a galla recriminazioni mai sopite, schierarsi in una difesa a tutto campo di valori riconosciuti come attuali… I nostri governanti, i nostri amministratori non se la sono sentita. Questa è la verità. Ha detto bene il presidente dell’Anpi di Roma: «Le ceneri dei due protagonisti della Resistenza romana finite nel Tevere, sono un buco nero per la democrazia»
Per conoscere la reale storia di Via Rasella e comprendere la colossale mistificazione che fu costruita per falsificare la storia e convincere gli italiani che la Resistenza era stata il succedersi di vigliacchi eccidi compiuti dai "comunisti badogliani" , si vedano le informazioni fornite da Repubblica e riprese e integrate da eddyburg da il 6 febbraio 2006 e il 9 febbraio 2006. Qui sotto un'immagine del giornale che, due giorni dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, invitava i partigiani a presentarsi
«». Il manifesto
Il capitolo Ue si è chiuso senza grandi risultati per l’Italia, e le schermaglie verbali che continuano – l’ultima con Juncker – sono puro teatro. I trionfalismi governativi sono stati rapidamente spenti non da gufi e parrucconi, ma dalle valutazioni Istat e Bankitalia. Le misure messe in campo non daranno risultati importanti per la crescita, e soprattutto non ci saranno miglioramenti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cambiare rotta, ma il timone non risponde.
E allora chi comanda, a chi? A nulla servono gli interventi volti a concentrare sulle stanze di Palazzo Chigi strumenti di controllo apparente, come si fa quando si vuole riportare la dirigenza pubblica — con la riforma della Pubblica amministrazione — sotto l’ombrello della presidenza del consiglio. Certo può servire a rafforzare il premier e la cerchia a lui più vicina, indebolendo ancora un consiglio dei ministri popolato di esangui coristi. Ma è un potere spicciolo per l’uomo al comando che non comanda.
Inoltre, Renzi non sembra considerare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a rigettare l’accusa di eccessiva personalizzazione. Né basta il consenso di sedi di partito che non hanno più alle spalle un’organizzazione radicata negli iscritti e nel territorio, sono drogate da selezioni populistiche del ceto politico come le primarie aperte, vedono la minoranza interna ridursi alla passiva accettazione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di platee di imprenditori attenti solo – come è persino giusto che sia – al profitto delle proprie aziende e ai vantaggi che possono trarre dalla benevolenza governativa. Né ancora basta richiamare un partito della nazione, con ciò implicitamente spingendo il dissenso nella categoria del tradimento piuttosto che del confronto necessario con opinioni, idee, progetti di cui bisogna tener conto. Né infine basta l’accusa che altri lavorino per spaccare il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiutare, con questa e altre fantasiose motivazioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle mediazioni possibili.
Come si può affermare che miri alla rottura chi vuole uguali – e maggiori – diritti per tutti? O ritenere che lavori invece per l’unità chi legge l’eguaglianza – pilastro della Costituzione — come livellamento verso il basso, minore dignità e qualità di vita, più debole difesa dei propri diritti? È questo lo scenario verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.
Il premier è palesemente infastidito che intorno al suo progetto non crescano entusiastici e unanimi consensi, e che anzi si prepari una stagione di forti contrasti. Ma era scritto. Si possono chiedere a un paese sacrifici anche gravi, che però i tweet o facebook non bastano a far metabolizzare.
Ci vorrebbero partiti radicati, capaci di portare motivazioni e capacità di convincimento dal ponte di comando ai luoghi di lavoro, nelle case, nelle famiglie. Ma quei partiti sono stati smantellati, con il plauso miope di molti. Ci vorrebbero organizzazioni capillari come i sindacati, con i quali ci si vanta invece di rifiutare ogni dialogo. Ci vorrebbero istituzioni capaci di dare voce a tutte le posizioni, anche le più lontane, perché l’azione di governo ne tenga per quanto possibile conto. Invece, si fa l’esatto contrario, cancellando spazi di rappresentanza, tagliando presenze politiche vitali con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, riducendo all’obbedienza i riottosi e dando all’esecutivo il controllo dei lavori parlamentari.
Quel che accade è quanto un certo costituzionalismo della crisi riteneva e ritiene necessario per fronteggiare l’emergenza economica e il riaggiustamento delle ragioni di scambio tra nord e sud del mondo. Non funziona, in specie quando l’inversione di rotta nella crisi non è vicina come si sperava. Come si pensa di spiegare, di convincere, di governare e contenere il malessere sociale? Sono false le gioie di una politica senza corpi intermedi, partiti, sindacati. Non serve dare la scalata a un partito con il leveraged buyout delle primarie aperte. È mera rappresentazione teatrale che basti l’investitura di un turno elettorale per garantire a qualsiasi esecutivo una effettiva e duratura capacità di governo. Né ovviamente suppliscono cariche di polizia e manganelli. Che serve manganellare le speranze perdute?
Renzi non può cavarsela con le invettive o le comparsate televisive. Dovrebbe leggere la Costituzione, a partire dall’art. 2 per cui la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale. Se poi studiare la Costituzione fosse troppo, potrebbe leggere il discorso di Papa Francesco ai Movimenti popolari del 28 ottobre. Solidarietà – dice il Papa – «è anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi … intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia … ».
È proprio questo elemento di solidarietà che manca nel messaggio del premier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe politicamente corretto che i Papi avessero tessere di partito. Del resto, a veder bene, se Papa Francesco la chiedesse al Pd probabilmente gliela rifiuterebbero. È un comunista
«Le ragioni di un’opposizione comune allo sfacelo democratico prevalgono persino, all’inizio, su quelle del progetto rinnovatore. Più che altro si tratta di difendere la possibilità di un futuro, non di salvare e proseguire un dignitoso passato».
Il manifesto, 13 novembre 2014
Fortunatamente, dopo mesi di approssimazioni e di confusione, il quadro politico italiano si è inequivocabilmente chiarito.
È vero, abbiamo all’inizio sottovalutato Matteo Renzi, scambiandolo per un piccolo avventuriero di provincia. Forse lo è, e lo resta; ma nelle dimensioni e caratteristiche della crisi italiana, la sua statura tende indubbiamente a crescere. Ad esempio: la «rottamazione». Sembrava una battuta propagandistica per far fuori, anche agli occhi di un’opinione pubblica stanca e disincantata, la vecchia dirigenza di centro-sinistra.
Renzi non si limita ad auspicare e perseguire la rottamazione della vecchia dirigenza del centro-sinistra. Renzi auspica e persegue la rottamazione di tutto il «sistema» che secondo lui l’avrebbe prodotta e resa possibile:
Né più né meno, dunque, che il programma di Silvio Berlusconi, ma radicalizzato ed efficacizzato dal fatto di portarlo avanti non da una posizione di destra, - laddove appariva troppo scopertamente per quel che era, e cioè un programma di destra, - ma da una posizione di centro-sinistra, - laddove può più facilmente esser gabellato per quel che non è, e cioè, un programma riformatore di centro-sinistra. Ma non c’è solo questo.
Recentemente ho assistito alla proiezione di un bellissimo documentario sui rapporti fra lingua italiana e fascismo, prodotto dall’Istituto Luce ed elaborato da una linguista del calibro di Valeria della Valle. Il documentario s’intitola: «Me ne frego», riprendendo uno stilema classico, uno stereotipo esemplare, del modo di parlare, e dunque di pensare, del fascismo. Visionando il documentario, mi è accaduto di pensare che ogniqualvolta in Italia c’è una profonda crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti il leader che mira a impadronirsi senza remore né condizionamenti del gioco, adotta mentalmente, prima che linguisticamente, il motto fascista «Me ne frego».
È innegabile altresì che tale modo di pensare e di esprimersi, quando si è in presenza, ripeto, di una profonda e reale crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti, risulta estremamente seduttivo presso le masse popolari italiane disorientate e sconfitte. Del resto il «Vaff…» di Grillo appartiene, più o meno, alla stessa specie, - mentale e oggi, ahimè, anche politica (su questo si potrebbe e dovrebbe aprire un lungo discorso di natura storico-culturale, che rimandiamo a un tempo migliore).
Una prima considerazione che si può trarre da questa sommaria ricostruzione degli eventi è che non ci si può opporre, - come giustamente occorre fare, - alla rottamazione del sistema democratico-costituzionale, senza cogliere al tempo stesso, e denunciare, e chiederne il superamento, di tutte le sue, attualmente, incomparabili deficienze e brutture e insufficienze, e talvolta indescrivibili, sovrumane defaillances. Il rinnovamento, se dev’essere concepito e passare, passa per due fronti, contemporanei e convergenti, non alternativi: la lotta contro la tendenza autoritaria, leaderistica, filoproprietaria, del renzismo; e la lotta contro le degenerazioni endemiche e in taluni casi il vero e proprio spappolamento del sistema democratico-costituzionale, che, in linea di principio, vorremmo difendere. Chi separa le due cose, va alla sconfitta.
Nel secondo versante, è emersa nel paese, nel corso degli ultimi mesi, una consistente resistenza di natura sociale. Ma guarda un po’: il lavoro, i lavoratori, la classe operaia… O non erano azzittiti per sempre, anzi seppelliti, da un bel pezzo? Pare di no. E quest’osso è duro da rodere, non si sbriciola, come è accaduto ad altri, facilmente. Anche il fatto che la Cgil, i sindacati, siano scesi (siano stati costretti a scendere?) in campo è un dato tutt’altro che irrilevante. E a questo proposito: le puzze sotto il naso in questa fase storica, sono da considerare mortali, e perciò evitate con la massima cura. E questo soprattutto quando entra in gioco quell’elementare principio discriminante, per cui si sta o da una parte o dall’altra. E qui, in questo momento, l’aspetto determinante, decisivo, è stare inequivocabilmente o da una parte o dall’altra.
Certo, un’opposizione sindacal-sociale senza un’opposizione politica è un’opposizione monca, indebolita proprio sul terreno, quello parlamentar-governativo, sul quale nei prossimi mesi accadranno cose decisive (la legge elettorale e, massimo dei massimi, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica). Qui vorrei dire una cosa inutile ma doverosa. Desta stupore, e indignazione, che la massa degli eletti Pd alla camera e al senato (non parlo di alcune ristrette minoranze ma, precisamente, della grande massa degli iscritti eletti), mandati a governare il paese con una diversa maggioranza di partito e con un diverso, diversissimo programma, abbia seguito, e accompagnato, l’instaurazione a capo assoluto di Matteo Renzi, e poi le sue alleanze, ipotesi istituzionale e costituzionali, e persino la fredda distruzione del loro stesso partito, il Pd, con la passività più assoluta.
Evidentemente la degenerazione precede la rottamazione e l’aiuta, anzi, da un certo momento in poi, non solo la giustifica ma la rende necessaria. Se non si riparte con il massimo del rigore dalla formazione delle élites politiche, e dalle loro nuove persuasioni e abitudini, anche in questo caso non si cava un ragno dal buco.
Tutto ciò, com’è evidente, non fa che riprendere considerazioni e ammonimenti che circolano ormai da tempo nel campo della sinistra non (ancora?) logorata, o non del tutto, dal contatto con il potere. Che sia arrivato il momento di ridare vita a una Camera di consultazione della sinistra, sperando che questa volta non ci sia qualcuno che la manda in vacca per assicurarsi una vecchiaia decente, anzi di grande benessere economico?
Oppure esistono le condizioni per convocare, più ambiziosamente (e forse prematuramente) una vera e propria Costituente della sinistra? Ma anche qui: tutto inutile, se si tenta di farla passare per la cruna dell’ago di un’estrema coerenza ideologica e storica. Le ragioni di un’opposizione comune allo sfacelo democratico prevalgono persino, all’inizio, su quelle del progetto rinnovatore. Più che altro si tratta di difendere la possibilità di un futuro, non di salvare e proseguire un dignitoso passato.
P.S. Last but no least: «il manifesto». Io dico: se non ci fosse, tutto quello che s’è detto finora, e che altri come noi dicono e fanno, e diranno e faranno, non avrebbe né senso né dimensione. Questa persuasione deve passare «per li rami», diffondersi universalmente, arrivare a tutti quelli che lottano, e da lì ripartire per tornare al giornale, insostituibile tribuna e palestra di una sinistra nonostante tutto ancora in movimento. Speriamo che in molti condividano quest’appello che parte dal giornale e, coerentemente con quello che fanno nelle lotte sociali e politiche, si comportino di conseguenza.
Forse si comincia a comprendere che lo sfruttamento non avviene piú solo in fabbrica e sui campi, che gli sfruttati non sono soltanto gli operai e i braccianti, ma che lo sono tutti gli abitanti del pianeta nelle loro città e nei loro territori.
Il manifesto, 12 novembre 2014
Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza. I bersagli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le rivendicazioni perfettamente comprensibili: dal salario minimo europeo al reddito di cittadinanza. Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere.
Come la quadratura del cerchio nessuna approssimazione esaurisce il problema, tanto da lasciarne sospettare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gordiano consiste, in sintesi, nel fatto che la produzione di valore e la sua appropriazione avvengono in larga misura al di fuori del lavoro dipendente e perfino al di fuori da una sfera di attività agevolmente identificabili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il termine «sciopero» rischia di assumere un significato sinistro.
Una larga parte della società resta comunque esistenzialmente esposta all’ «estrazione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinunciato, chi va a ingrossare gratuitamente le schiere governate dall’economia politica della promessa, chi si ingegna nell’individuare nuove forme produttive, chi agisce semplicemente la propria socialità è condannato ad alimentare i dispositivi dell’accumulazione e della diseguaglianza in una condizione di «autonomia eterodiretta» e indebitata.
Per il lavoratore precario lo sciopero può costare lo straccio di lavoro con cui sbarca il lunario, per il lavoratore gratuito la perdita di una pur fievole speranza, per chi cerca di inventare la propria strada una perdita di tempo. Quanto a chi smettesse di cercare lavoro, a chi importerebbe? Esistono naturalmente, e non sono affatto pochi, i lavoratori salariati, fabbriche, uffici, servizi che, per quanto sotto crescente ricatto, possono essere fermati.
Il 14 novembre sciopererà la Fiom e questo sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la solidarietà e una partecipazione alle manifestazioni di piazza per affermare «ci siamo anche noi, siamo tanti, produttivi e privi di reddito e diritti».
È una occasione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza propria, poiché è su quella del lavoro salariato che si continua a poggiare chiedendo (non senza ragioni che lo riguardino direttamente) di veicolare i bisogni e le rivendicazioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa politica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.
Lo «sciopero sociale» rimane una affermazione di principio, la «generalizzazione dello sciopero» un fatto argomentativo che spesso si risolve in azioni generose ma frequentemente rituali e che non varcano i confini del simbolico. Si può puntare alla sospensione di stage e tirocini, si può immaginare il picchettaggio dei luoghi del lavoro gratuito, ma spesso quest’ultimo non ha luoghi o è talmente disperso e frammentato da risultare fisicamente irrintracciabile, cosicché l’astensione stessa da queste forme di prestazione d’opera rischia di rimanere invisibile, salvo assumere dimensioni tanto estese che è difficile immaginare nella condizione di estrema ricattabilità in cui versano.
Si può conquistare come palcoscenico delle proprie ragioni qualche luogo di visibilità, un monumento, una piazza, ma anche questo non risolverebbe il problema dello «sciopero» inteso come sottrazione temporanea della propria capacità creativa alla produzione di ricchezza e al funzionamento della macchina economica. Per dirla in modo classico, servirebbe uno sciopero del valore d’uso contro il valore di scambio.
Il fatto è che «sciopero sociale», preso alla lettera, significa smettere di fare società, sospendere cioè quelle azioni e interazioni che caratterizzano il normale svolgimento della vita sociale, mantenendo quest’ultima, depurata dei suoi caratteri «funzionali», in una dimensione altra che ne contraddica l’asservimento alla condizione del lavoro e della produzione in senso più generale. Un altro tempo e un altro spazio.
Senza alcun intento blasfemo o irrispettoso, semmai il contrario, un modello assai radicale lo indicherei nello Shabbat ebraico. In quella festività, sebbene nella forma del divieto religioso che non coincide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e attività che caratterizzano il normale funzionamento della macchina sociale. Shabbat esclude appunto, con una geniale intuizione, tutti quegli aspetti della vita che sono sospettati di essere «messi al lavoro», valorizzando invece quei tratti della vita umana privi di significato strumentale.
Non si tratta certo di stilare una lista di attività (Shabbat ne prevede 39) proibite ma di cercare di individuare, con la massima fantasia e inventiva, i terreni della sottrazione possibile e quelli di pieno esercizio della libertà individuale e collettiva. Il paragone è decisamente strampalato e vale semplicemente come suggestione, tuttavia mi sembra utile a orientare lo sguardo in una materia che è finora rimasta oscura o del tutto indefinita.
Tornando, però, alle più consuete categorie laiche, lo «sciopero sociale» non può che trasformarsi in una nuova forma di «sciopero politico» che, messo da parte il miraggio della presa del potere, riesca a esercitarne il più possibile, rendendo ogni gesto di sottrazione una critica esplicita dell’ordine sociale ed economico esistente.
Perfino nella regione italiana celebrata per il tradizionale buongoverno il decadimento morale degli eletti è causa rilevante del distacco dei cittadini dalla politica dei partiti.
La Repubblica, 12 novembre 2014
LA CRISI di legittimità della politica sta raggiungendo il suo acme. E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città. Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica. Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto. Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.
Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce. Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata. Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire. Anche per il “popolo delle feste dell’Unità” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà difficile dimenticare tutto questo. Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà la fine delle indagini. La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perché nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.
La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente. Alcune avvisaglie emersero già un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine. Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali. Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante. Perché una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà. Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale. Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità, spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.
E per molti elettori sarà più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi. Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione. In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori. Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità morale che è gravissimo. Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale. Anche perché non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità di scelta. Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.
Un evidente caso di manipolazione dell'informazione e di conflitto di interesse: dopo il flop per i ritardi, gli unici articoli indulgenti sono sul "Messaggero" che è il quotidiano del costruttore coinvolto nei lavori».
Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014
Nel gergo dei giornali il “buco” è una notizia bella grossa che i concorrenti hanno in pagina e di cui in redazione nessuno si è accorto. Capita, purtroppo, è uno degli incerti del mestiere e non fa mai piacere. Da ultimo è capitato al Messaggero, giornalone romano sempre bene informato sui fatti della capitale. Al Messaggero non si sono accorti che la tanto sospirata inaugurazione della linea metropolitana C da Pantano a Centocelle all'alba di domenica 9 novembre è stata una specie di festa al cardiopalma con brivido incorporato perché il primo treno, quello con a bordo le autorità cittadine e i capoccioni responsabili dell'opera, non è manco riuscito ad arrivare al capolinea, ma si è mestamente adagiato sui binari quattro fermate prima del dovuto. Mentre tecnici e responsabili dell'inaugurazione rischiavano l'infarto, il convoglio è rimasto in panne per ben undici minuti. E considerando che si tratta di un treno “driveless”, senza guidatore a bordo, quella sosta imprevista è apparsa il prodromo di una colossale figuraccia, l'ennesima maledizione della Metro C, un'opera sfigata, nata male e cresciuta peggio.
Tutti si sono ovviamente accorti del guasto che era una bella notizia dal punto di vista giornalistico, anche se poi l'inconveniente è stato superato. E infatti ne hanno parlato tutti, dai giornali alle televisioni alle agenzie di stampa ai siti web. Con accenti diversi, naturalmente, con più o meno enfasi, con toni più o meno preoccupati, più o meno sorpresi. L’unico giornale che non ha visto né sentito è stato proprio il quotidiano principe della cronaca romana, Il Messaggero, che ha presentato l'inaugurazione della metro C come una radiosa festa senza nubi, tutta sorrisi e selfie. E il buco è apparso così vistoso che si fa fatica a capire che cosa sia successo in redazione.
A meno che non si voglia pensar male. Perché Il Messaggero è il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo d'affari potente e ricchissimo che non è solo un editore, ma anche un costruttore, un immobiliarista, un finanziere. E pure il socio più influente del Consorzio metro C, il raggruppamento di imprese a cui il comune di Roma il 13 aprile 2006 affidò il compito di costruire la nuova metropolitana romana. Caltagirone possiede con la Vianini il 34,5 per cento della società, la stessa quota del gruppo Astaldi, mentre gli altri soci sono comprimari: Ansaldo 14 per cento, Cooperative 17 (Cmb 10 più Ccc 7). Ma mentre negli ultimi tempi Astaldi sembra sempre più prudente, considerato il bailamme che accompagna l'opera, Caltagirone ha moltiplicato i suoi sforzi con il presidente del consorzio, l'ingegner Franco Cristini. Insomma, la metro C è sempre più Caltagirone dipendente. Visto da questa angolazione e volendo malignare, il buco del Messaggero non sarebbe un buco vero, ma un autobuco, un autogol, il deliberato occultamento di una notizia che al padrone non piace.
Tutti si augurano, ovviamente, che l'improvvido guasto dell’inaugurazione resti un episodio circoscritto ed isolato. Anche se i guai strutturali della metro C sembrano tutt'altro che superati. Proprio nel giorno del viaggio inaugurale, infatti, sono spuntati nuovi inconvenienti, di cui finora nessuno si era accorto. Un assessore comunale, Luca Pancalli, che da paraplegico ha un’attenzione speciale per le esigenze dei portatori di handicap, ha fatto notare che “il dislivello tra i treni e la banchina crea problemi per i disabili”. Che non sembra un problemino, per la verità. E poi ci sono i mille giganteschi difetti elencati negli ultimi mesi dal Fatto Quotidiano. Prima di tutto i costi, cresciuti del 75 per cento, da 1,9 miliardi di euro a 3,3 da Pantano a piazza Venezia.
Ripoli (Bologna). A Ripoli quella di ieri è stata una giornata come le altre. La pioggia, l’umido, la nebbia sulle cime dell’Appennino a creare un paesaggio mozzafiato. E poi quelle case sbarrate e sgomberate, le crepe sui muri, gli edifici imbragati, la chiesetta interdetta ai fedeli. A valle, dentro quella galleria che è andata a risvegliare la frana su cui il paesino poggia, si è fatto festa. Ieri è arrivato il premier Matteo Renzi che ha partecipato alla cerimonia per l’abbattimento dell’ultimo diaframma del tunnel Val di Sambro. Quello che mancava per terminare gli scavi della Variante di valico, l’autostrada da 60 chilometri e quasi 4 miliardi di euro che dal 2015 dovrebbe affiancare l’Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze. «Il lavoro che è stato fatto è il simbolo del Paese, che è in una galleria, in un tunnel di rassegnazione, ma ha la capacità per uscirne», ha spiegato Renzi.
«Si erano opposti alla costruzione di ville e di un approdo nell’area protetta. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto».
Corriere del Sera, 8 novembre 2014
Festa grande, brindisi e «urrah!» tra i cementieri di Siracusa. Ricordate Rosa Lanteri e gli altri due soprintendenti che si videro chiedere 100 milioni di danni, poi saliti a 423, per aver bloccato speculazioni in zone archeologiche? Li hanno rimossi. Via. Sciò. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto.
Ma partiamo dall’inizio. Cioè dalla decisione dei tre funzionari della Soprintendenza Rosa Lanteri (beni archeologici) Alessandra Trigilia (paesaggistici) e Aldo Spataro (architettonici) di mettersi di traverso ad alcuni pesanti interventi in alcune delle aree più importanti ed esposte della città di Dionisio. Rileggiamo il decreto del 1988 intitolato «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Dice che poiché «lungo la costa che dal castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l’area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, dall’altopiano dell’Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e poiché questo «spettacolo di mare , oltre ad essere ricordato da Tucidide, Diodoro e Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza» il bacino va considerato «un insieme unico al mondo». Quindi va vincolato.
Eppure, da anni c’è chi vorrebbe piazzarci dei porti turistici. Come il «Marina di Archimede» (un nome che suoni «storico» è vitale, se metti cemento) che «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000» per 500 posti barca. O il «Marina di Siracusa», che avrebbe addirittura un’isola artificiale di 40mila metri quadri e usando i ruderi d’una vecchia fabbrica di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.
Il primo dei due porti, passato ai tempi di Totò Cuffaro grazie ad un accordo di programma e a soprintendenti poco battaglieri, è ormai arduo da fermare. Il secondo è stato stoppato. Così come sono stati stoppati 71 villini e due centri direzionali sul Pianoro dell’Epipoli, in zona di inedificabilità assoluta. E un mega-piano per 501 abitazioni ai piedi dell’Epipoli. E un impianto di «co-combustione» in un’area vincolata a ridosso di Megara Eblea. E altro ancora.
Un argine in controtendenza con certe gestioni del passato. Come quella di Mariella Muti, la soprintendente moglie di un architetto progettista di un condominio di lusso poi stoppato sulla Balza Acradina, soprintendente che a un certo punto, dato il via libera al piano regolatore che consentiva una concentrazione volumetrica nell’area tutelata dell’Epipoli, si pensionò usando la legge 104 (assistenza a familiari disabili) per giurare cinque giorni dopo come assessore comunale.
Va da sé che i costruttori, abituati a «vigilanti» di manica così larga, accolsero i «no» dei tre funzionari della nuova Soprintendenza, motivati dal rispetto dei vincoli ribaditi successivamente da varie sentenze del Tar, come una sorta di insubordinazione. Peggio: come un ostacolo al «progresso» cementizio. Al punto di pretendere dalla Lanteri, dalla Trigilia e da Spataro, rei di aver imposto il rispetto delle tutele, 268 milioni di euro per lo stop al porto e altri 155 per il blocco alle villette e ai centri direzionali. Per un totale, come dicevamo, di 423 milioni. Una somma così spropositata che i tre dipendenti pubblici, non arrivando ciascuno a tremila euro al mese i, impiegherebbero a pagare tre millenni e mezzo.
Una intimidazione. Davanti alla quale uno Stato serio e una Regione seria avrebbero dovuto schierarsi a muso duro dalla parte dei dirigenti. Mettendo loro a disposizione i migliori avvocati su piazza. Macché: le difese, i tre, hanno dovuto prepararsele quasi da soli. Contando sull’appoggio di tutti gli ambientalisti, di destra e di sinistra, del giornale on-line «la Civetta» e soprattutto di Italia Nostra, che un anno fa assegnò a Rosa Lanteri (e idealmente ai suoi colleghi) il «Premio Zanotti Bianco» per la difesa del «patrimonio culturale e paesaggistico in particolare nei territori del Sud, contro mille difficoltà, tra cui criminalità e malaffare».
In questo contesto, sui tre dirigenti siracusani lo Stato avrebbe dovuto dire: questi non si toccano. Macché, saltate prima l’assessore Maria Rita Sgarlata e poi la soprintendente Beatrice Basile, i tre sono stati infine tolti di mezzo. Normale avvicendamento, ha spiegato la Regione. Non dice forse la legge regionale che «nell’ambito delle misure dirette a prevenire il rischio di corruzione, assume particolare rilievo l’applicazione del principio di rotazione del personale»?
Giusto. La norma dice però che «la durata dell’incarico dovrebbe essere fissata in cinque anni rinnovabili preferibilmente una sola volta». Traduzione: massimo dieci anni. E la Lanteri, la Trigilia e Spataro, i primi spostati a svernare in questo o quel museo, non arrivano a cinque: le soprintendenti di Caltanissetta e Trapani sono lì da dieci e a Messina e a Palermo ci sono dirigenti imbullonati da dodici... E allora? Come la mettiamo? Qual è, il messaggio, a chi combatte il cemento nelle aree archeologiche protette?
Forse, tra quelle riprese su eddyburg, la più bella e condivisibile testimonianza e la piú convincente analisi di un evento e un momento che segnarono la crisi del mondo al di qua e al di lá del Muro di Berlino.
Il manifesto, 8 novembre 2014
Un pezzetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scrivania: un frammento di intonaco colorato che strappai con le mie mani quando accorsi anche io a Berlino mentre ancora, a frotte, quelli dell’est esondavano verso l’agognato Occidente. Furono giornate gioiose attorno a quel simbolo di una guerra – quella fredda – che era scoppiata meno di due anni dopo la fine di quella calda.
Per oltre quarant’anni quella frontiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attraversata solo illegalmente: negli anni ’50 perché il mio governo non mi dava un passaporto valido per i paesi oltre la cortina di ferro (dovevamo rimanere chiusi nell’area della Nato) e perciò per parlarsi con tedeschi della Ddr, ungheresi o bulgari si prendeva il metro a Berlino e dall’altra parte ti fornivano una sorta di passaporto posticcio.
Poi, dopo la costruzione del muro, quando noi potevamo legalmente andare ad est e invece quelli di Berlino est non potevano più venire a ovest, ridiventammo clandestini: per potere incontrare, senza incappare nella sorveglianza della Stasi, i nostri compagni pacifisti del blocco sovietico, dissidenti rispetto ai loro regimi, ma convinti che a una evoluzione democratica non sarebbero serviti i missili perché solo il disarmo e il dialogo avrebbero potuto facilitarla.
Per questo, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgoglio per il merito che per questo esito aveva avuto anche il nostro movimento pacifista, l’End «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». Avevamo prodotto una deterrenza politica, contribuendo ad isolare chi, per abbattere il muro, avrebbe voluto scegliere la più sbrigativa via delle bombe.
E però l’89 non fu solo gioiosa rivoluzione libertaria. Fu un passaggio assai più ambiguo, gravido di conseguenze, non tutte meravigliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolorosamente nella memoria che evoca in me. Peraltro quel 9 novembre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dissociabile dalle date che seguirono di pochi giorni: il 12 novembre, quando Achille Occhetto, alla Bolognina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comunicò ufficialmente alla traumatica riunione della direzione del partito di cui, dopo che il Pdup era confluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così imponendoci – a tutti – la vergogna di passare per chi sarebbe stato comunista perché si identificava con l’Unione sovietica e le orribili democrazie popolari che essa aveva creato.
Non c’era bisogno della caduta del muro per convincersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo possibile che volevamo, non solo per noi che avevamo dato vita al Manifesto, ovviamente, ma nemmeno più per la stragrande maggioranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trattava soltanto della sinistra italiana, il mutamento che segnò l’89 ha avuto portata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vittoria a livello mondiale di questa globalizzazione che tuttora viviamo, accelerata dalla conquista al dominio assoluto del mercato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riuscito a fare il socialismo gli era tuttavia rimasto estraneo.
Ci fu, certo, liberazione da regimi diventati oppressivi, ma solo in piccola parte perché non aveva vinto un largo moto animato da un positivo disegno di cambiamento: c’era stata, piuttosto, la brutale riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Tatcher, Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio, sradicando valori e aggregazioni nella società civile, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, corruzione, violenza. Il coraggioso tentativo di Gorbaciov non era riuscito, il suo partito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rimasero passive.
E così il paese anziché democratizzarsi divenne preda di un furto storico colossale, ci fu un vero collasso che privò i cittadini dei vantaggi del brutto socialismo che avevano vissuto senza che potessero godere di quelli di cui il capitalismo avrebbe dovuto essere portatore. (A proposito di democrazia: chissà perché nessuno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liquidato Gorbaciov, arrivò a bombardare il suo stesso Parlamento colpevole di non approvare le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hobsbawm nel ventesimo anniversario del crollo «il socialismo era fallito, ma il capitalismo si avviava alla bancarotta».
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte)E allora è lecito dire che c’erano altri possibili scenari e che se la storia ha preso un’altra strada non è perché il «destino è cinico e baro», ma perché a quell’appuntamento di Berlino si è giunti quando si era già consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le responsabilità sono molteplici. Perché se è vero che il campo sovietico non era più riformabile e che una rottura era dunque indispensabile, altro sarebbe stato se i partiti comunisti , in Italia e altrove, avessero avanzato una critica aperta e complessiva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limitarsi – come avvenne nel ’68 in occasione dell’invasione di Praga – a parlare solo di errori.
In quegli anni i rapporti di forza stavano infatti positivamente cambiando in tutti i continenti ed era ancora ipotizzabile una uscita da sinistra dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata. E così nell’89, anziché avviare finalmente una vera riflessione critica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socialismo che proprio non si poteva fare.
Gorbaciov restò così senza interlocutori per portare avanti il tentativo di dar almeno vita, una volta spezzata la cortina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva perseguito con tenacia, offrendo più volte lui stesso alla Germania la riunificazione in cambio della neutralizzazione e denuclearizzazione del paese.
Fu l’Occidente a rifiutare. Mancò all’appello, quando unilateralmente il presidente sovietico diede via libera all’abbattimento della cortina di ferro, il più grande partito comunista d’occidente, quello italiano, frettolosamente approdato all’atlantismo e impegnato ad accantonare, quasi con irrisione, il tentativo di una “terza via” fondata su uno scioglimento dei due blocchi avanzata da Berlinguer alla vigilia della sua morte improvvisa.
E mancò la socialdemocrazia, che aveva in quell’ultimo decennio marginalizzato gli uomini che pure si erano con lungimiranza battuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Kreiski. È così che l’89 ci ha consegnato un’altra sconfitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi finalmente un ruolo e una soggettività autonome, quella “Casa comune europea” che Gorbaciov aveva sostenuto e indicato, e che trovò solo un simpatizzante – ma debolissimo — in Jaques Delors, allora presidente della Commissione europea.
Nell’89 l’Unione Europea avrebbe finalmente potuto coronare l’ambizione di liberarsi dalla sudditanza americana che l’esistenza dell’altro blocco militare aveva facilitato, e invece si ritrasse quasi spaventata. Avviandosi negli anni successivi lungo la disastrosa strada indicata dalla Nato: ricondurre al vassallaggio le ex democrazie popolari per poter estendere i propri confini militari fino a ridosso della Russia.
Non andò molto meglio neppure in Germania. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riunificazione del paese che aveva vissuto la dolorosissima ferita della divisione, ma anche qui, più che di un nuovo inizio, si trattò di una annessione condotta secondo le regole di un brutale vincitore.
A 25 anni di distanza la disuguaglianza fra cittadini tedeschi dell’ovest e dell’est è più profonda di quella fra nord e sud d’Italia, perché la «Treuhand» incaricata di privatizzare quanto era pubblico nell’economia della Ddr preferì azzerare le imprese per lasciar il campo libero alla conquista di quelle della Rft. Cinque anni fa nel commemorare il crollo del muro il settimanale Spiegel rese noti i risultati di un sondaggio: il 57% degli abitanti della ex Germania dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne avevano nostalgia
Oggi probabilmente quella che viene chiamata «Ostalgie» è cresciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scomparsa: tornava da un giro ad est in occasione della prima campagna elettorale del paese riunificato ed era desolato per come la riunificazione era stata condotta. La Spd non aveva del resto nascosto, sin dall’inizio, la sua contrarietà a come era stato avviato il processo).
Per tutte queste ragioni non condivido la spensierata (agiografica) festosità che accompagna, anche a sinistra, la celebrazione del crollo del Muro. Soprattutto perché – e questa è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende fine la speranza – e persino la voglia – di cambiare il mondo, quasi che il socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via è finita per passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo anche da noi era stata vana perdita di tempo.
Un colpo durissimo inferto alla coscienza e alla memoria collettiva, alla soggettività di donne e uomini che per questo avevano lottato. E nessuno sforzo per riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato nuovo progetto. Non è un caso che anche i posteriori tentativi di dar vita a nuovi partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto impasticciate: perché incapaci di fare davvero i conti con la storia. E perciò qualche ristagno ideologico o la resa a un pensiero unico che indica il capitalismo come solo orizzonte della storia.
Nel dire queste parole amare rischio come sempre di fare la nonna noiosa che continua a rimuginare sul passato senza guardare al presente. So bene che ci sono oggi nuovi movimenti animati da generazioni nate ben dopo la famosa storia del Muro che si propongono a loro modo di inventarsi un mondo diverso.
Ma non mi rassegno a subire senza reagire il disinteresse che avverto in tanti di loro per il nostro passato, non perché vorrei ci assolvessero dai nostri errori, ma perché non sono convinta si possa andar lontano se non si ha rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella ufficialmente celebrata in questo venticinquennale del Muro — così meschina da apparire arretrata persino rispetto alla rivoluzione francese dove almeno era stato aggiunto uguaglianza e fraternità, ormai considerati obiettivi puerili e controproducenti: il mercato, infatti, non li può sopportare.
Non ho molta credibilità nel proporre la creazione di partiti, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straordinario successo. E tuttavia ora ne vorrei davvero fare uno: il partito dei nonni. Non perché insegnino ai giovani cosa devono fare, per carità, ma perché vorrei che almeno due generazioni uscissero dal mutismo in cui hanno finito per rinchiudersi, intimiditi da rottamatori di destra e di sinistra.
Vorrei che riprendessero la parola, riacquistassero soggettività: per dire che sulla storia di prima del crollo del muro vale la pena di riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie ( a cominciare dalla rivoluzione d’ottobre di cui giustamente Berlinguer disse che aveva perso la sua spinta propulsiva, non che era meglio non farla). Buttare tutto nel cestino significa incenerire ogni velleità di cambiamento, di futuro.
Per finire: da quando è caduto il muro di Berlino ne sono stati eretti altri mille, materiali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disuguaglianza globale e i muri europei «a mare» nel Mediterraneo e di terra a Melilla, contro i migranti). Non proprio una festa.
«La sinistra e i giovani. Con i 10 miliardi spesi da Renzi per gli 80 euro si potrebbero creare subito 250mila posti di lavoro». Il manifesto, 7 novembre 2014 (m.p.r.)
Il Mezzogiorno è oggi una grande riserva di forza-lavoro congelata, inutilizzata, destinata al macero, come per molto tempo sono state le arance, le clementine, i pomodori.Una condizione che ricorda da vicino quella categoria del «pauperismo» definito da Marx come «il peso morto dell’esercito industriale di riserva», che si traduce oggi, nel XXI secolo, in una condizione paragonabile a quella di una «riserva di indiani» nel nord America, dove impera l’alcol ed i casinò, ma la cultura locale, l’identità, le aspettative di riscatto sono state cancellate.
È noto che in Italia su circa 2,3 milioni di giovani “neet” (not employment, education, training) circa due terzi risiedono nel Sud. Meno noto è il fatto che molti giovani meridionali sono stati costretti dalla Lunga Recessione a ritornare nel paesello natio dopo aver sperimentato lavoro precario ed alti costi di inurbamento nel Nord-Italia. Così come molte giovani coppie sono state costrette dalla crisi a lasciare le città meridionali per tornare al paese del padre o del nonno dove possono usufruire di una casa in proprietà, e magari un appezzamento con animali (galline, maiali, ecc.). Non c’è niente di bucolico o romantico in queste scelte ma una dura necessità di sopravvivenza. Perfino nelle Università meridionali troviamo oggi giovani che sono tornati dalle più prestigiose università del Centro-Nord perché i genitori non li potevano più mantenere. Ancora di più sono gli studenti che si iscrivono in alcune università del Mezzogiorno per necessità in quanto i genitori non si possono permettere di mantenerli «fuori».
Chi resta oggi nel Mezzogiorno lo fa o perché ha un lavoro (una esigua minoranza) o perché è costretto. Sono giovani carichi di rabbia e frustrazione che in maggioranza hanno votato per Grillo e Renzi, che non gliene frega niente dell’art. 18 , che vivono la loro disperazione in solitudine, che non credono più a niente. Una condizione estrema che ormai colpisce quasi un giovane su due e che meriterebbe una risposta politica adeguata. C’è un solo modo, una sola politica che possa fare uscire immediatamente una parte dei giovani meridionali dalla «riserva», che gli possa dare un’alternativa di vita e di lavoro. Si chiama posto pubblico. Una bestemmia, lo so, dopo decenni in cui è stato propagandato il mito della mobilità del lavoro come valore, dell’inventarsi un lavoro, dell’essere imprenditori di se stessi, del dipendente pubblico come un parassita.
L’ideologia neo liberista, di cui Renzi è un paladino, sostiene che i posti di lavoro si possono e si debbano creare solo dando incentivi alle imprese, e riducendo la spesa pubblica. Ma in tutti i paesi in cui questa ricetta è stata applicata ne è risultato un aumento dei posti di lavoro precari e sottopagati, mentre sono peggiorati tutti i servizi pubblici con danno grave per la maggioranza della popolazione. Inoltre, le imprese private possono assumere nuovi giovani solo se c’è una domanda crescente in quello specifico settore economico.
Per esempio l’hanno già fatto nei call center, con salari da fame, stress micidiali e precarietà assoluta, avevano creato fino a cinque anni fa quasi 80.000 nuovi posti di lavoro. Poi, hanno scoperto che era meglio far svolgere questo servizio in Albania o in Romania, con salari ancora più bassi e condizioni di lavoro estreme.
Pertanto, se è vero che la condizione giovanile nel Mezzogiorno è disperata, come sostengono tutti gli analisti e gran parte delle forze politiche, allora diciamo basta con il lamento e proviamo a dare delle risposte credibili ed immediate.
Se pensiamo che gli 80 euro distribuiti a chi aveva già un lavoro ed un reddito inferiore ai 1500 euro costano al bilancio dello Stato circa 10 miliardi l’anno, e non creano un solo posto di lavoro in più , allora diciamo che con la stessa cifra si potevano e si possono creare circa 250.00 posti di lavoro a tempo indeterminato nella Scuola, Università, Sanità, trasporti locali, servizi sociali, ecc. Basterebbe tagliare la spesa militare previsti per gli F35 o per qualche grande opera per trovare queste risorse, lasciando immutato il bilancio dello stato.
Si tratta semplicemente di riprendersi una parte dei 450.000 posti di lavoro cancellati nella Pubblica Amministrazione bloccando il turnover negli ultimi sei anni. Se la Cgil e la Fiom volessero davvero diventare un punto di riferimento per i giovani meridionali inoccupati, precari, sottopagati, dovrebbero aprire una seria vertenza con il governo — a partire dal prossimo sciopero generale — chiedendo che vengano ripristinati questi posti di lavoro che sono oggi assolutamente necessari per avere una Scuola decente, una Università dove si investa sui giovani ricercatori e docenti, il ripristino delle ferrovie e del trasporto pubblico nelle aree esterne all’asse Milano-Napoli, servizi sociali per gli inabili, i non autosufficienti, anziani, ecc.
Il vecchio, famigerato, posto fisso nella Pubblica Amministrazione, che intere generazioni di meridionali hanno sempre sognato per i propri figli, è oggi una necessità – per avere servizi essenziali dignitosi — e anche una opportunità. Non solo per rispondere al bisogno impellente di occupazione stabile, ma perché ci potrà essere una rinascita del nostro Sud solo se Stato ed Enti Locali saranno in grado di offrire servizi che in parte sono stati privatizzati e devono tornare sotto l’egida pubblica, anche perché costano meno di quelli privati!
Certo, nella Pubblica Amministrazione, specie nel comparto delle strutture regionali, ci sono sacche di parassitismo che possono e devono essere rimosse. Ma, non è più accettabile la criminalizzazione del pubblico impiego, dove esistono soggettività che si spendono per il bene comune, spesso marginalizzate e penalizzate. E senza servizi pubblici efficienti non ci può essere nessuna ripresa economica, ma solo nuove ondate migratorie.
Questo non significa non battersi per una riduzione dell’orario di lavoro, un reddito minimo garantito ai giovani inoccupati, come sostiene da tempo Piero Bevilacqua, o spendersi per un piano di salvaguardia dal dissesto idrogeologico, o rinunciare all’indispensabile riconversione ecologica della nostra struttura produttiva (Guido Viale), o accettare che il governo Renzi tagli 8 miliardi alle regioni meridionali obiettivo 1, come ha giustamente denunciato Andrea del Monaco su questo giornale (domenica scorsa). Tutte scelte e obiettivi più che condivisibili, ma che richiedono un tempo indefinito e non rispondono al bisogno immediato di un lavoro utile e garantito.
Se un giorno risorgerà una forza politica di sinistra in questo paese senza memoria, se vorrà dire qualcosa di comprensibile ai giovani meridionali, non potrà non partire da questa proposta. Se si vuole uscire dalla marginalità politica bisogna avere obiettivi chiari e raggiungibili nel breve periodo, all’interno di un quadro più generale di cambiamento radicale di questo modello di impoverimento sociale e culturale.
«». Il manifesto
È come quando la Protezione civile avverte che pioverà forte, ma non sa dire esattamente quanto forte e quali saranno i danni. Le previsioni avevano preannunciato la vittoria dei Repubblicani e i risultati dicono che la vittoria c’è stata, di dimensioni superiori ai timori o alle aspettative. E tuttavia, per certi versi, non senza qualche elemento che in prospettiva ne smorza l’impatto politico concreto.
Il dato politico immediato è l’isolamento del Presidente: il nuovo Congresso è tutto contro di lui. Quindi sarebbe lecito pensare che saranno ancora più forti gli sbarramenti che i Repubblicani avevano già opposto, per esempio, a progetti come l’innalzamento del salario minimo e la riforma dell’immigrazione. Ed è più che probabile che il loro attacco alla presidenza democratica si concentrerà su due obiettivi principali: la riforma sanitaria, per boicottare la quale hanno fatto ogni possibile battaglia in tutte le sedi legali; l’altrettanto invisa «legge Dodd-Frank», che ha sottoposto a norme e controlli le attività del mondo finanziario. Di entrambe i Repubblicani hanno detto di volere la cancellazione.
Non è detto, però, che nei prossimi due anni essa venga perseguita con la stessa determinazione mostrata finora. A Obama resta comunque il potere di veto, ed è con questo in mente che il nuovo speaker di maggioranza, l’appena rieletto Mitch McConnell, si è affrettato a dichiarare la disponibilità a «lavorare insieme» con il Presidente. In sostanza, l’unica possibilità che il Congresso eviti la paralisi è la pratica del compromesso.
La paralisi – quello che vogliono i Repubblicani viene bloccato da Obama; quello che vuole lui viene fermato da loro – fermerebbe sì il Presidente, che potrebbe agire solo con gli “Ordini esecutivi”, ma direbbe al paese che la maggioranza stessa è inetta. Il che metterebbe poi in forse la prospettiva di una presidenza repubblicana nel 2016.
Ma non succederà, perché «gli adulti», come ha scritto Thomas Edsall, hanno ripreso le redini del Partito repubblicano e della sua agenda politica. Quindi, se città e Stati continueranno a innalzare a 8–9 dollari l’ora o più il salario minimo (adesso a 7,25) che Obama voleva portare a oltre 10 dollari, diventa probabile che anche i Repubblicani proporranno un rialzo. Sull’immigrazione, se vogliono sottrarre i voti ispanici ai Democratici – a cui anche questa volta sono andati in massa – dovranno presentarsi con qualcosa di fatto alle prossime presidenziali, magari aggiornando le proposte di George W. Bush. La riforma sanitaria e la legge Dodd-Frank saranno attaccate e indebolite entrambe, ma sarà più difficile cancellare la prima che la seconda.
In tutto questo disfare e rifare i Repubblicani non saranno soli. Tra i Democratici, la disponibilità al compromesso verrà certamente, più che da Obama, dai suoi compagni di partito. L’isolamento del Presidente, infatti, si è verificato ed è stato sbandierato anche nel suo stesso schieramento.
Obama è stato ridimensionato – reso «piccolo», da grande che era, ha scritto il New York Times – dal successo della propaganda avversaria, che ne ha fatto il primo destinatario dell’offensiva preelettorale, e dalla presa di distanza di una parte del suo partito.
Tutti i giornali hanno scritto dei candidati che non lo hanno voluto al loro fianco nella campagna per non compromettere le proprie poss<CW-17>ibilità di successo. È troppo presto per controllare come è andata a costoro. Il problema politico però è reale e con esso Obama dovrà fare i conti.
La distribuzione geografica del voto conferma, per quanto possibile (per Senato e Governatori i rinnovi erano 36), che il Sud e le grandi aree rurali sono repubblicane, mentre le aree metropolitane in tutto il paese e le zone di antica industrializzazione rimangono prevalentemente democratiche.
Stando ai sondaggi per gruppi sociali, invece, risulterebbe che le donne, i giovani, gli ispanici e gli afroamericani hanno votato in maggioranza, in proporzioni diverse, per i Democratici, mentre gli anziani, i maschi bianchi e i residenti dei suburbs hanno preferito i Repubblicani. In molti casi il distacco tra vincente e sconfitto non è stato grande.
Questo andamento del voto, come ricorda una parte dei commentatori, è in buona misura «fisiologico»: l’amministrazione in carica è sempre sfavorita nelle elezioni di midterm. E l’esito ha anche a che fare con i tanti ridisegni delle circoscrizioni elettorali effettuate negli anni scorsi, soprattutto negli Stati governati dai Repubblicani e naturalmente a proprio vantaggio. Inoltre, va sottolineato che molti sono disposti a mobilitarsi quando in ballo è la presidenza, ma non quando si tratta di Congresso e governatori. Infatti nelle elezioni di midterm la percentuale dei votanti non arriva mai al 40 per cento. Queste considerazioni non sono consolatorie, servono a ricordare che nel 2016 i Repubblicani dovranno guadagnarsela la presidenza. Questo voto, di per sé, non gliela promette.
Rimane il fatto che è un elettorato «scontento», come ha scritto Dan Balz sul Washington Post, ad avere decretato la sconfitta dei Democratici. Non sono tanto le questioni legate a una politica estera «debole» e incerta, su cui pure i Repubblicani hanno battuto pesantemente. Ancor più che nelle presidenziali, in queste elezioni conta il contesto locale e nazionale.
E qui hanno pesato le contraddizioni attuali.
La ripresa economica c’è stata, la crescita è buona (superiore al 3,5 per cento), la disoccupazione è bassa (al 5,9 per cento, appena sopra quel 5,5 considerato «piena occupazione»). Ma: le disuguaglianze sono aumentate, il lavoro è fatto di sottoccupazione precaria e sottopagata e mentre i salari sono fermi i redditi dei grandi ricchi hanno continuato a salire.Non importa che siano stati in parte i Repubblicani a bloccare l’azione presidenziale (sui salari minimi, sui lavori pubblici, sull’ambiente, sull’estensione del sussidio di disoccupazione…).
La loro propaganda è riuscita nell’opera di attribuire le mancate realizzazioni legislative all’inettitudine di Obama e a costruire intorno a lui un alone di fallimento. Una sorta di senso comune a cui ha aderito una parte del suo stesso partito, come s’è detto: debolezza della politica, volubilità delle convinzioni e potere della comunicazione, vale a dire dei milioni spesi nella campagna elettorale di midterm più costosa della storia.
Quest'anno non è fuggito nessuno, e nessuno stamani si è sdegnato per quella grande bandiera pacifista che il sindaco di Messina ha voluto riesporre in piazza per la festa delle Forze armate, concedendo il bis dopo le polemiche di dodici mesi fa. Nel 2013, dinanzi a quell'arcobaleno srotolato e sventolato a braccia aperte, due generali dei carabinieri abbandonarono la platea. Già, perché la prima volta "fu uno shock, e alla fine presi la parola anche se non era previsto", racconta lui, il primo cittadino Renato Accorinti, ex insegnante di educazione fisica, anarchico, attivista anti-mafia e anti-ponte sullo Stretto.
Ma a furia di insistere, dice, "il messaggio in qualche modo passa. Oggi, poi, non ho neanche chiesto la parola...". Tuttavia, parlano per lui le due citazioni di Sandro Pertini che incorniciano il centro del drappo: "Svuotiamo gli arsenali, strumenti di morte. Coltiviamo i granai, fonte di vita". Il messaggio è racchiuso tutto lì. E l'iniziativa silenziosa - che l'anno scorso il governo definì una "provocazione demenziale" - varca i confini geografici della Sicilia per approdare in Campidoglio a Roma, dove il sindaco Ignazio Marino decide di accogliere l'appello e di esporre lo stesso vessillo.
La ricorrenza scelta per portare avanti "una lotta pacifista e non violenta che rappresenta le fondamenta della politica alta" è quella del 4 novembre, giorno dell'Unità nazionale e giornata delle Forze armate. In piazza Unione europea a Messina oggi anche i rappresentanti di 'Cambiamo Messina dal basso' - il movimento che ha sostenuto Accorinti alla guida della città - che hanno voluto sventolare bandiere multicolori durante la manifestazione. I rappresentanti istituzionali presenti alla cerimonia non hanno risposto in alcun modo al gesto, tuttavia alcuni consiglieri comunali hanno esposto la bandiera italiana, forse irritati dall'atteggiamento del sindaco pacifista.
"Attenzione - sottolinea Accorinti -, io alle spalle ho anni di lotte sociali e questa non è una sceneggiata. Non voglio che si parli della mia bandierina, io qui sto facendo una analisi di condanna dell'economia dell'Occidente e di come stiamo vivendo. La guerra è il braccio armato della finanza, e la via del disarmo è un percorso di grande maturità. Da Gandhi a Martin Luther King, passando per Francesco d'Assisi che quando parla di pace fa un discorso politico, sul pacifismo c'è un percorso serio e maturo".
Jobs Act. Danilo Barbi, vice di Camusso: "Risponderemo a chi attacca l’articolo 18". Il sindacato ha una finanziaria alternativa: "Patrimoniale sui ricchi per 10 miliardi: sarebbero 740 mila nuovi posti"».
Il manifesto, 5 novembre 2014
Subito dopo il segretario ha precisato: «Ci opporremo con la stessa brutalità di chi ha cambiato l’agenda politica introducendo modifiche all’articolo 18 mai proposte nelle dichiarazioni programmatiche nè nelle campagne elettorali». Ad arroventare il linguaggio, a fine settembre, era stato lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, che dalla sua missione negli Usa aveva parlato della necessità di un «cambiamento violento» per l’Italia.
La Cgil e il premier restano per il momento su due opposte barricate: la prima impegnata nel percorso di mobilitazioni che oggi vede schierati i pensionati e sabato i lavoratori del pubblico impiego (entrambe le iniziative sono unitarie, con Cisl e Uil), mentre il 14 e il 21 la Fiom aprirà la stagione degli scioperi generali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri l’apparizione a Ballarò, e subito dopo la riunione con la minoranza Pd per un possibile accordo su Jobs Act e articolo 18 che possa isolare il sindacato.
Quanto alla legge di stabilità, Barbi ha spiegato che secondo la Cgil il governo «sta programmando il disastro sociale».
La manovra «è inadeguata e insufficiente in termini di investimenti e politiche di sostegno alla crescita», spiega la Cgil. Servirebbe al contrario un «Piano per il lavoro»: quello che il sindacato ha già presentato da tempo, ma che non riesce a discutere con il governo, visto che qualsiasi tipo di concertazione, o anche solo di dialogo, è sparito del tutto dal panorama dell’Italia renziana.
Il governo, prosegue Barbi, «scommette su una forte riduzione delle tasse alle imprese (taglio generalizzato dell’Irap sul costo del lavoro e sgravi contributivi per nuovi contratti a tempo indeterminato) e sulla svalutazione del lavoro (Jobs Act, come “collegato” alla legge di stabilità) sperando che, senza vincoli e con meno tutele, aumentino gli investimenti privati e, per questa via, l’occupazione». «Ma non succederà – è l’analisi della Cgil – perché il permanere di una crisi di domanda scoraggia le imprese».
Anche gli incentivi direttamente legati alla stipula di nuovi contratti a tempo indeterminato realizzeranno, secondo il sindacato, «più stabilizzazioni e sostituzioni che nuovi occupati». Le politiche per le imprese e le misure fiscali per lo sviluppo, inoltre, «non sono adeguate e manca una vera politica industriale. In più sottendono una politica concettualmente antimeridionale, determinando un’ulteriore differenziale nella coesione del Paese».
Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di investimenti, valorizzazione del lavoro e dei servizi pubblici, tasse sulla ricchezza. Il sindacato ribadisce la necessità che per creare posti di lavoro si debbano coinvolgere, con uno speciale contributo, i milionari: il 5% delle famiglie più ricche del Paese, quelli che la crisi non l’hanno percepita lontanamente, neanche con il cannocchiale. Quei “poteri forti” che il buon Renzi potrebbe decidersi finalmente di scomodare.
La Cgil propone «un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pubblici e privati), aggiuntivi, in tre anni».
E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova politica industriale per l’innovazione, con il sostegno delle grandi imprese pubbliche nazionali e della Cassa depositi e prestiti; una forte riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e da pensione, attraverso un piano di lotta per la riduzione strutturale dell’evasione fiscale e della corruzione, recuperando le risorse utili ad aumentare ed estendere il bonus Irpef».
L’ultimo punto, sono quegli 80 euro che da tempo i sindacati (anche Cisl e Uil) vorrebbero fossero estesi a categorie come i pensionati e gli incapienti. Ma finora Renzi non li ha ascoltati.
Ci si affatica a cercare paralleli tra la leadership di Matteo Renzi e il passato più o meno recente. Le comparazioni con Bettino Craxi e con Silvio Berlusconi sono consuete. Ma sono utili ad una condizione: che non si riducano a un parallelo statico tra personalità, ma mostrino come il successo di Renzi nell'Italia di oggi sia l'esito del lungo cammino cominciato da quei due leader. La forma plebiscitaria della leadership di Renzi sarebbe in questo modo studiata nel merito, non meramente criticata.
L'Italia democratica, cosi com'è, è stata modellata anche dalla politica di Craxi e di Berlusconi: questa mi sembra una base di partenza per incorniciare la leadership consensuale e plebiscitaria di Renzi, che vuole avere un partito a sua immagine e fa di tutto per riuscire in questo intento. In che cosa consiste questo nuovo partito funzionale al ? La sua identità è l'esito di un'Italia segnata da due progetti tra loro correlati: l'affossamento definitivo del fattore K (ovvero della questione comunista) e il superamento della democrazia dei partiti (ovvero del sistema parlamentare come fu disegnato dai costituenti). Entrambi questi progetti devono per riuscire ad andare ai fondamenti della nostra democrazia uscita dalla guerra.
Cominciamo dal fattore K. Esso è rappresentato dalla cultura politica del Partito comunista, una cultura centrata sul coinvolgimento dei cittadini-via partito e su politiche di sociali centrate sul ruolo sociale del lavoro. Il fattore K corrispondeva quindi a una strategia politica che si innervava nella società con una rete organizzativa del mondo del lavoro nelle sue varie forme, autonome e salariate. Su questi corpi intermedi si è strutturata la democrazia parlamentare.
La leadership di Renzi giunge alla fine di un lavoro ai fianchi che ha atterrato il forte pugile: e si sta concretizzando proprio in quei due settori nei quali da Craxi a Berlusconi il fattore K è stato eroso: ovvero l'abolizione dell'articolo 18 e riforma in senso 'esecutivista' della Costituzione. Con la prima - che è tutta simbolica e con quasi nessuna ricaduta sulla situazione occupazionale, - ci dicono gli esperti - si mette fine alla filosofia della responsabilità sociale dell'economica, con la seconda alla pratica della rappresentanza politica fondata sul partito: liberismo e comitati elettorali (che si trovano non a caso a loro agio nello spazio della Leopolda), sono le due facce di una rivoluzione individualistica della società e personalistica della politica. In sostanza: Renzi ha messo una pietra tombale sul fattore K.
E questo spiega il suo consenso trasversale e anche nell'opinione intellettuale moderata, di coloro che hanno considerato il Pci e i suoi successori più o meno mascherati come il "problema italiano", la non "normalità" del paese. Ora siamo normali: apatici (declino della partecipazione elettorale), indifferenti alle lealtà ideologiche (nonostante un'irrisoria resistenza, come si è visto con le recenti primarie in Emilia-Romagna dove molti sono andati al voto per 'fedeltà' alla sigla Pd), con una democrazia plebiscitaria gestita da un partito-macchina dell'opinione orchestrata. Ma siamo un paese normale anche sul fronte del pensiero sociale: il lavoro non è associato ai diritti sociali e alle garanzie ma alla monetizzazione e a un impiego qualunque. Non è associato soprattutto all'organizzazione che sola dà potere di trattativa a chi individualmente non ha forza, come i lavoratori dipendenti (tra i progetti di Renzi vi è il superamento del contratto nazionale, e la sua dura opposizione alla Cgil è coerente, non un incidente di percorso).
Se si dovesse riassumere con una frase l'Italia renziana si potrebbe dire che essa rappresenta la conclusione della lunga parabola che ha portato dalla socialdemocrazia-modello italiano (con il Pci a guidarla, nella pratica se non nella teoria) al liberismo umanizzato dalla solidarietà cristiana. Liberalismo economico e terzo settore o cattolicesimo sociale: questi i due pilastri dell'ideologia che meglio si accorda con la cultura dominante del nostro paese e che mette insieme un'audience molto larga che va dalla piccola e media impresa, ai professionisti, alla grande impresa. I lavoratori dipendenti non sono il gruppo determinante di questo Pd e Renzi è disposto a fare a meno dei loro consensi.
L'Italia di Renzi all'avanguardia nell'Europa di Renzi nello sporco lavoro per trasformare il Mediterraneo da cerniera in frontiera e l'Antico continente in moderna fortezza.
Comune.info, 31 ottobre 2014
Oltre cento mila persone non sono morte. Difficilmente sarebbero arrivate tutte vive. Forse la maggior parte non si sarebbe salvata. Grazie all’operazione Mare Nostrum sono salite su navi attrezzate con cibo, coperte e vestiti, medicinali e spesso anche con mediatori culturali e addetti al riconoscimento e alla richiesta d’asilo. Questa dovrebbe essere una notizia della quale andare orgogliosi. Una strada buona che il governo ha imboccato un anno fa, una scelta che avrebbe dovuto rivendicarsi. E infatti sono tutti molto contenti di come è andata. Ciononostante l’operazione Mare Nostrum è destinata ad essere chiusa.
Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa, ce lo ricordava qualche giorno fa durante il festival Sabir che “lo Stato siamo noi, ogni cittadino, io sono lo Stato, il sub che è andato sott’acqua a prendere i cadaveri, l’uomo dell’esercito che li trasportava dalla banchina al camion, l’uomo che trasportava i morti col camion frigo, il poliziotto della scientifica che prelevava il dna, l’uomo della guardia costiera che ha rischiato la sua vita per salvare quella dei migranti: questo è lo Stato”, mentre i governi sono un’altra cosa “possono sbagliare o cambiare i destini delle persone in meglio”.
Ecco! Vedere i soldati che invece di essere pagati per ammazzare la gente ricevono uno stipendio per salvarla me li fa sentire più vicini al sub, all’uomo col camion frigo e anche a me: più vicini all’idea di Stato. E invece il governo decide di chiudere Mare Nostrum. Non la sostituisce Triton. Le navi che verranno usate in questa nuova operazione sono probabilmente molto diverse e meno attrezzate perché la sua missione è controllare i confini, non salvare esseri umani. Infatti si fermeranno ad una trentina di miglia dalle coste. Non accadrà quello che è accaduto per un anno con le grandi navi della marina italiana che arrivavano a poche miglia dall’Africa e di fatto creavano una sorta di corridoio umanitario.
Qualcuno dirà che proprio questa vicinanza è un incentivo ad organizzare barconi, ma non è così. Chi parte in cerca di lavoro normalmente vive in un paese povero, ma con la possibilità di spostarsi in treno o in aereo. I cinesi non vengono in barca e spendono meno di un eritreo che fugge dal suo paese. Chi affronta un viaggio da incubo durante il quale deve difendersi da ogni tipo di violenza non rischia la vita affrontando il mare col barcone perché sa dell’operazione Mare Nostrum. Lo fa e basta, non ha alternative. E gli scafisti sfrutteranno la maggior difficoltà nel raggiungere le nostre coste per alzare il prezzo del viaggio non per rallentare il flusso.
Quando la casa è in fiamme chiunque salta dalla finestra e non resta a bruciarsi solo perché in giardino invece dei pompieri con la rete ci sta un poliziotto gli ordina di rientrare. Qualcun altro si lamenterà per i 9 milioni che l’Italia ha speso per ogni mese di Mare Nostrum. Il contribuente ha pagato 1.000 ero per ciascuna vita umana, più o meno un terzo di quanto Renzi vuole dare nei primi 3 anni di vita per i prossimi nostri concittadini che nasceranno. Qualcuno dirà che i nostri figli sono italiani, mentre quelli che arrivano in barca sono stranieri. Che insomma è meglio fare qualcosa per noi che per loro. Ma la differenza è che i nostri bambini nascono comunque, mentre loro vanno incontro alla morte.
Ce n’è un’altra di differenza: gli italiani che nascono sono scritti su un registro, gli stranieri che muoiono non li conta nessuno.
In un’altra fabbrica lì vicino, dove gli operai sono stati messi in ferie obbligate e sostituiti con piante ornamentali, mentre la polizia bastona lontani contestatori, un Renzi scuro in volto e niente spiritoso mette al corrente la platea di Confindustria e il presidente Squinzi che «c’è un disegno calcolato, studiato e progettato per dividere il mondo del lavoro». Dice qui, in Italia, «in queste settimane». E i padroni battono le mani, con l’aria di chi pratico di complotti ha capito subito che l’oscura trama scoperta dal premier non deve fare paura. Può anzi tornare utile.
Perché se Renzi denuncia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scontro» non lo fa per scoprire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la massima tensione al settimo anno di crisi e con i disoccupati che aumentano ancora? Né lo fa per riconoscere di essere stato lui a incendiare l’ultima guerra, decidendo di cancellare le garanzie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai tentato i peggiori governi di destra. Lo fa per ribadire la sua visione della modernità italiana, il suo cambio di verso: scontro è quando qualcuno non è d’accordo con lui.
È qui che si risolve l’apparente contraddizione di un presidente del Consiglio che da un lato si presenta come il fondatore del Partito Nazionale, il volenteroso capo de «l’Italia unica e indivisibile di chi vuol bene ai propri figli», e dall’altro non manca occasione di strappare, attaccare stormi di avversari «gufi», scoprirli intenti in sordidi complotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici economici e riesce ancora ad arretrare in quelli di civiltà; dietro di lui si raccontano speranza e fiducia. E poi c’è «qualcuno che vuole lo scontro verbale e non soltanto verbale». Quel qualcuno è nei fatti il suo ministro di polizia, ma non importano più i fatti. Il racconto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il racconto dei nemici. Da circondare.
Avevamo già avuto un narratore della pace sociale al cloroformio, del partito degli operai ma anche dei padroni. Oggi la versione di Renzi è assai più aggressiva di quella di Veltroni, più cattiva e più chiusa a sinistra. Risponde alle critiche con la brutalità della menzogna: ieri ai confindustriali in estasi il premier ha raccontato di una legge elettorale «pronta a essere votata» e di riforme costituzionali praticamente già fatte. Un castello, un fortino di carte che prima o poi crollerà. Meglio spingere perché crolli dal suo lato.
Una preziosa iniziativa per la conservazione e lo studio della cultura ambientalistica italiana: un'ampia antologia degli scritti di Giorgio Nebbia, curati da Luigi Piccioni , disponibili per tutti sul sito della Fondazione Luigi Micheletti. Pubblichiamo la presentazione e il sommario dell'opera .
Altronovecento, n. 26, ottobre 2014
Il “come” e i“perché” di questo libro
di Luigi Piccioni
Nella vasta produzione scientifica e civile di Giorgio Nebbia - nato a Bologna nel 1926, chimico, professore emerito di merceologia all’Università di Bari, ecologista dalla metà degli anni Sessanta e parlamentare dal 1983 al 1992 - gli scritti riguardanti la storia dell’ambiente e dell’ambientalismo occupano un posto di assoluto rilievo. Oltre a nutrire un vivo interesse per il passato, Nebbia è infatti convinto che tutti i fenomeni naturali, sociali e culturali incorporino un'imprescindibile dimensione storica e che ignorando tale dimensione ci si preclude la possibilità di comprenderli. Nebbia ha finito così col costruire dai primi anni Settanta in poi, pezzo dopo pezzo, il più ricco corpus di scritti di storia ambientale realizzato in Italia, contraddistinto da un esemplare equilibrio tra rigore, chiarezza e leggibilità. Un corpus che attende ancora di essere adeguatamente valorizzato dagli storici ma che merita di essere conosciuto e utilizzato ben al di là dei confini accademici tanto più che esso è rivolto anzitutto alla società civile nel senso più ampio.
L’antologia di 434 pagine che costituisce il quaderno n. 4 della rivista telematica “altronovecento” è composta da 54 articoli e saggi scelti tra gli oltre 350 scritti di storia ambientale pubblicati da Nebbia. L’opera è suddivisa in sette sezioni tematiche che comprendono tra l’altro la storia delle merci, dei rifiuti e delle frodi, quella delle neotecniche come la dissalazione e l’energia eolica, l’analisi in chiave ecologica di ampie fasi o di importanti processi storici, la storia dell’ambientalismo e dei suoi protagonisti, i rapporti tra ecologia e marxismo e, ultima ma non meno importante, la problematica della conoscenza storica in sè: archivi, memoria, uso della storia.
L'antologia è introdotta dal curatore dell’'opera, Luigi Piccioni dell’Università della Calabria, che illustra i criteri di scelta e di ordinamento degli scritti e ricostruisce il profilo del Giorgio Nebbia storico dell’ambiente dell’ambientalismo. Alla realizzazione dell’opera hanno contribuito Pier Paolo Poggio e Fabio Ghidini della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia.
Il sommario
Il "come" e i "perché" di questo libro (Luigi Piccioni)
Sezione prima. Il racconto di una vita
La natura e le merci nelle ricerche di Giorgio Nebbia. Pier Paolo Poggio intervista Giorgio Nebbia
Sono un nipote di Ciamician anch'io
Mi ricordo di Franco
Sezione seconda. Le merci: produzione, contraffazioni, rifiuti, inquinamento
Tecnica e ambiente dalle origini al Duemila
Le merci della conquista
Piccola storia delle frodi [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dei rifiuti
Il caso Bossi e la nascita dell'industria chimica a Milano
Il peggiore di tutti
Love Canal: una bomba a orologeria
Sezione terza. Per una storia delle neotecniche
Breve storia della dissalazione [con Gabriella Menozzi Nebbia]
Breve storia dell'energia solare
Sezione quarta. Fasi, processi, eventi storici
Ecologia e comunismo. Ma davvero non avevano capito niente?
Il secolo XX: per una rilettura ecologica
A ottant'anni dal New Deal
L'ingegneria dello sterminio
Hiroshima anni dopo
Bisogno di storia: crescita, declino e resurrezione (?) dell'energia nucleare in Italia
A anni dalla Populorum progressio
Il Settantatre
Seveso, anni fa
Sezione quinta. L'ecologia e l'ecologismo
Breve storia della contestazione ecologica
L'ecologismo americano. I temi fondamentali
I Limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito -
Risanamento economico-ambientale e lotta allo spreco. Ripensando il 'progetto a medio termine'
Ecologia e ecologismi
Sezione sesta. L'ambientalismo: precursori e maestri, protagonisti, esperienze collettive
George Perkins Marsh. Prevedere e prevenire, un monito disatteso
Vladimir Vernadskij
Alfred Lotka
Lewis Mumford, alla ricerca di una società neotecnica
Rachel Carson e la primavera dell'ecologia
Un pioniere dell'ecologia: Girolamo Azzi
Bertrand Russell 'ecologo'
Bertrand de Jouvenel
Scienza e pace. Linus Pauling nel centenario della nascita
Nicholas Georgescu-Roegen, un economista del dissenso
Kenneth Boulding: un ricordo
Ricordo di Barry Commoner
Mi ricordo di Aurelio
Ricordo di Laura Conti
Laura Conti, un amore per la vita
Ricordo di Antonio Cederna
Dario Paccino, un ecologo inquieto
Ricordo di Fabrizio Giovenale
Ricordo di Alfredo Todisco
25° anniversario di Italia Nostra
Io e CerviaAmbiente
Auguri Legambiente
Sezione settima. La memoria, la storiografia, gli archivi
Per una definizione di storia dell'ambiente
Importanza degli archivi e della memoria
La ricerca storica come condizione imprescindibile per affrontare il problema delle aree industriali inquinate
"Prefazione" a Walter Giuliano, La prima isola dell'arcipelago
"Prefazione" a Edgar Meyer, I pionieri dell'ambiente
"Presentazione" a Marino Ruzzenenti, Un secolo di cloro e … PCB