«La vittoria di Tsipras genera entusiasmo. Dimostra che la politica può unire e dare gioia. In Italia c’è un’emergenza dovuta alla fine dei partiti di massa come spazi deliberativi. La democrazia non rinasce senza ricostruire tali spazi, mettendo insieme sociale e politico».
Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
Ad unirla, per il momento, è il successo politico di Alexis Tsipras e di Syriza in Grecia. Riunita ieri al tempio di Adriano a Roma, la sinistra italiana istituzionale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune componenti della «sinistra Pd», si è espressa con le maiuscole commentando l’intervista che il primo ministro greco ha rilasciato in un libro di Teodoro Andreadis (Bordeaux edizioni).
Per Vendola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo processo politico continentale che può salvare la civiltà europea dai disastri economici e sociali prodotti dalle politiche di austerity». Per Smeriglio (Sel) «Tsipras dimostra che si può vincere fuori dalle compatibilità politiche». Smeriglio ha anche rivendicato la scelta di avere schierato il congresso di Sel dalla parte di Tsipras, e non dei socialisti formato «larghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsipras alle Europee».
In questo contesto malinconico e autoironico in cui è difficile riunire personalità scisse, Fassina si è impegnato a rendere «il governo italiano proattivo rispetto alla piattaforma di Syriza. Le sue proposte non sono utili solo alla Grecia. Il problema del debito non riguarda solo la Grecia». E ha proposto una «piattaforma di consultazione sistematica». Proposte in cui non sono mai stati citati i movimenti (Italia sulla casa, contro lo Sblocca Italia o dello sciopero sociale). Gli stessi (o analoghi) che rappresentano invece la base di Syriza in Grecia. La prospettiva sembra essere un’altra. L’ex viceministro dell’Economia del governo Letta ha suggerito di considerare la «critica radicale ma non estrema al capitalismo» di Papa Francesco.
Ad aprire, e chiudere, l’incontro moderato dalla giornalista Lucia Goracci è stata Luciana Castellina che ha messo da parte le mediazioni puntando dritto all’entusiasmo «che la vittoria di Tsipras ha generato. Dimostra che la politica può unire e dare gioia. In Italia c’è un’emergenza democratica dovuta alla fine dei partiti di massa come spazi deliberativi. La democrazia non rinasce senza ricostruire tali spazi, mettendo insieme sociale e politico».
«Riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza».
Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014
La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.
Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».
Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».
È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.
Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.
Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca per vincere.
Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.
Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.
Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.
Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.
E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.
Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.
Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.
Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.
«Non c’è stata nessuna istigazione. De Luca ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente».
Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 (m.p.r.)
Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.
Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.
È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.
Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.
Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.
Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.
Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.
Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.
De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto «non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota». Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.
La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
«Mattarella? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.
Il manifesto, 29 gennaio 2015
I primi segni del nuovo corso ellenico sono minimi, simbolici, ma già significativi. Da ieri mattina, primo giorno di lavoro del nuovo governo Tsipras, sono sparite le transenne davanti al Parlamento e con loro i Mat, le forze speciali antisommossa che presidiavano i ministeri, in particolare quello della Cultura. Il nuovo inquilino della sede di Exarchia ha poco da temere da anarchici e ribelli vari.
Si tratta di Aristidis Baltas e gode di un prestigio assoluto: filosofo althusseriano, è considerato uno dei maggiori pensatori marxisti in Grecia, proviene dall’Istituto Nikos Poulantzas (di cui è presidente) ed è noto per i suoi studi su Wittngstein, Derrida, Spinoza, Benjamin. Ad affiancarlo, come sottosegretari, ci saranno un noto giornalista, Nikos Xiolakis, responsabile delle pagine culturali del quotidiano Kathimerini, e Tassos Kourakis, un docente della Facoltà di Medicina di Salonicco sempre presente alle manifestazioni contro l’austerità e nelle lotte sociali (in particolare quella contro l’estrazione dell’oro nella penisola Calcidica).
Un segnale meno simbolico è invece arrivato dal primo consiglio dei ministri. Al termine Panaiotis Lafazanis, un matematico che abbandonò il Kke nel ’91 quando i «rinnovatori» persero la battaglia contro gli «ortodossi» e leader della corrente di sinistra di Syriza, Aristeria Platforma (Piattaforma di sinistra), che Tsipras ha messo alla testa del superministero alla Riorganizzazione produttiva, all’Ambiente e all’Energia, ha annunciato il blocco della privatizzazione del porto del Pireo. I portuali avranno anche un sottosegretario a loro molto vicino. Si tratta di Thodoris Dritsas: pireota doc, impiegato nella farmacia di famiglia, durante la dittatura militava in un gruppo denominato «Rivoluzione socialista» ed è tra i fondatori di Syriza. Di lui si ricordano le manganellate prese dalla polizia italiana al porto di Bari nel luglio 2001, quando la nave degli anti-G8 diretti a Genova fu respinta in Grecia.
Nel suo primo giorno di lavoro il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, economista di fama internazionale, ha incontrato davanti al ministero le donne delle pulizie che da un anno e mezzo chiedono di essere reintegrate, divenute un simbolo della lotta contro l’austerità. «Taglieremo le spese al ministero e le riassumeremo», ha promesso loro. Ma Varoufakis non rimarrà da solo ad affrontare i nodi principali che il governo dovrà sciogliere: la rinegoziazione del debito e la soluzione dei gravissimi problemi sociali causati dalla crisi.
Per questo Tsipras ha predisposto una vera e propria linea di fuoco. A coordinarla ci sarà il vicepresidente del Consiglio Yannis Dragasakis, un altro personaggio di assoluto spessore. Economista, già ministro dell’Economia nel governo di unità nazionale del 1989, fino al ’91 esponente di spicco del Kke, che abbandonò quando perse la segreteria per appena quattro voti (57 a 53), Dragasakis è considerato l’ispiratore della politica economica di Syriza. Il terzo esponente della troika di Tsipras è Yorgos Stafakis. Il neotitolare dell’Economia proviene da una famiglia dell’alta borghesia, è un pupillo di Dragasakis dai tempi del Kke (all’epoca era nel Kne, i Giovani comunisti), ma nel tempo si è spostato su posizioni riformiste, suscitando anche mugugni per alcune esternazioni, come quando affermò che il «debito odioso» dei greci, vale a dire quello provocato dalla speculazione finanziaria, non supera il 5 per cento. Tsipras l’ha voluto al governo per le sue posizioni fermamente contrarie al ritorno alla dracma e perché è considerato un profondo conoscitore dell’economia reale.
Al terzetto di economisti il neopremier ha affiancato due sottosegretari che rispondono direttamente a lui: quello alle Relazioni economiche internazionali, affidato a Euclide Thakalotos, un rappresentante del partito degli «inglesi» (si è laureato a Oxford e ha insegnato a Cambridge, mentre Varoufakis si è formato nell’Università dell’Essex così come la Governatrice dell’Attica Rena Dourou, braccio destro di Tsipras, e il deputato di Corfù Fotini Vaki), e l’altro agli Affari europei, messo nelle mani di Nikos Kundos, un eurodeputato dell’ala comunista di Syriza, noto per il suo attivismo a Bruxelles (di lui si contano 300 interventi e un migliaio di interrogazioni, anche su argomenti molto scottanti come quello della svendita dell’aeroporto di Atene e sul caso Siemens). Thakalotos, formatosi nei giovani laburisti inglesi, è invece un keynesiano puro. Ottimo conoscitore di Gramsci, sostenitore del commercio equo e solidale, è convinto che il debito della Grecia non sia sostenibile e che la ricetta per l’uscita dalla crisi abbia un solo nome: socialdemocrazia.
Il secondo pilastro del governo, dopo l’economia, è quello sociale. Alla testa troviamo Nikos Voutzis, a capo del secondo superministero (dopo l’Economia): agli Interni e alla riorganizzazione dell’amministrazione statale. Voutzis, proveniente dal Partito comunista dell’interno ed ex capo della segreteria politica di Syriza, sarà affiancato da un ministro ad hoc per la lotta alla corruzione, l’ex magistrato (dalla fama di duro) Panaiotis Nicoloudis, un indipendente voluto direttamente da Tsipras. Prima promessa: la chiusura delle carceri speciali. Contemporaneamente la sua viceministra con delega all’Immigrazione, Tasia Christodoulopoulou, si è impegnata a dare la cittadinanza a tutti i figli degli immigrati nati in Grecia.
Tralasciando le concessioni all’Anel (l’istrionico e discusso segretario Panos Kammenos alla Difesa, un sottosegretario con delega alla Macedonia e un’ex campionessa di salto in alto e 100 metri a ostacoli che la Cnn nel ’91 scelse tra le migliori dieci modelle al mondo alla quale è stata affidata la delega al Turismo), il terzo pilastro del governo Tsipras sarà il lavoro. Tra i primissimi provvedimenti ci saranno il ritorno alla contrattazione collettiva e l’aumento del salario minimo a 751 euro. Anche qui la squadra messa in campo è di tutto rispetto. Il nuovo ministro, Panos Skouletis, è stato per anni responsabile della comunicazione di Syriza. Sarà affiancato da Teano Fotiou (con delega alla Solidarietà sociale), una docente di Architettura al Politecnico attiva in Solidarity4all, la rete che gestisce gli ambulatori e le mense sociali, e da Mania Antonopoulou (con delega specifica per la lotta alla disoccupazione). Docente alla New York University e al Bard College, consigliere all’Onu sui temi dell’uguaglianza di genere, Antonopoulou è definita “la signora dei 300 mila posti di lavoro” per aver criticato duramente i fondi europei per la riqualificazione professionale (poiché, ha sostenuto, il problema in questo momento è l’assenza di offerta di lavoro), e per aver teorizzato, in uno studio per il Levy Institute, il ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza per garantire la piena occupazione. Ora è chiamata a metterlo in pratica.
Il manifesto, 29 gennaio 2015
Aiuti immediati alle famiglie povere, riassunzioni dei licenziati dalla Troika e dai governi precedenti, blocco alle privatizzazioni del porto di Pireo e di Salonicco, allontanamento della ringhiera che circondava il parlamento, destituzione dei poliziotti in tenuta antisommossa dagli atenei, attribuzione di cittadinanza a tutti i figli di migranti nati in Grecia.
Sono alcune delle misure che già sono state prese o sono in corso di essere realizzate dal dream team di Alexis Tsipras, che comincia ad incontrarsi con i massimi dirigenti dell’ Ue per discutere sul programma del nuovo governo. Il premier ha poi proposto Zoi Konstantopoulou, figlia di un ex leader del Synaspismos (Coalizione della sinistra), ascendente del Syriza, e nota dirigente della sinistra radicale come candidata alla presidenza del parlamento.
Nell’ epicentro dei colloqui del governo - oggi con il presidente dell’ europarlamento, Martin Schulz e domani con il presidente dell’ eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem - il taglio del debito e l’annulamento del memorandum. «Non vogliamo andare allo scontro frontale con i nostri creditori, ma questa catastrofe sociale non può andare avanti. Siamo contrari a un conflitto distruttivo» ha detto Alexis Tsipras nel suo discorso di apertura del primo consiglio dei ministri. Per aggiungere poi che «siamo un governo di salvezza sociale, il popolo ci chiede di lavorare duramente per difendere la sua dignità».
«I greci sanno che non potremo cambiare lo stato della nostra economia in un giorno. Ma di una cosa possono essere certi: l’unico punto di riferimento di questo governo é il popolo» ha sottolineato il nuovo premier greco. Stessa lunghezza d’onda anche al primo discorso del ministro delle finanze, Yanis Varoufakis.
«I colloqui con i nostri creditori saranno difficili, ma riteniamo che i nostri partner ci possano dare una chance». Varoufakis che ha già parlato telefonicamente con il presidente dell’eurogruppo e la settimana prossima si incontrerà con i suoi omologhi italiano e francese. Il neo ministro ha affermato che ci sono «diversi punti di accordo» e non «di scontro» con gli altri membri dell’ eurogruppo, ma se le cose vanno male Atene «non accetterà più i trattati dell’Ue».
La reazione é arrivata proprio ieri prima da Bruxelles e poi da Berlino. La Commissione europea, con il vice-presidente dell’ esecutivo, Jyrki Katainen, fedelissimo della cancelliera Ankela Merkel, ha ripetuto che Atene «si é assunta degli impegni e ci aspettiamo che mantenga le promesse», mentre il ministro dell’economia tedesco, Sigmar Gabriel, ha ricordato ad Atene che «il nuovo governo deve essere giusto verso i contribuenti in Germania e in Europa che hanno mostrato solidarietà». Tutti i partner europei chiedono al governo Tsipras di mantenere i patti, escludendo ogni dialogo per un eventuale taglio del debito pubblico greco. Un atteggiamento che, se da una parte serve le politiche di rigore di Berlino, dall’altra nasconde due fattori non trascurabili.
Innanzitutto ciò che sottolineano tutti gli economisti del mondo e che dietro le quinte ammettono pure i dirigenti europei: il debito non è sostenibile, non solo in Grecia, ma anche in Italia, in Spagna e altrove. Perciò - ed è questa la proposta di Atene - bisogna affrontare la questione in una conferenza europea. In secondo luogo, riferendosi ai contribuenti europei, Alexis Tsipras che si incontrerà anche con il presidente francese, Francois Hollande, varie volte ha sottolineato che un eventuale hair-cut del debito pubblico non toccherà i contributi dei privati. «L’Europa e la Grecia possono avanzare insieme» ha detto più cauto ieri il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici. Infine, a Tsipras, è arrivata anche la telefonata di Obama, che si è detto disposto ad aiutare il paese: «Pure io ero giovane come te quando sono stato eletto e ora ho i capelli grigi», avrebbe detto al leader greco il presidente Usa.
Il manifesto, 28 gennaio 2015
La prima viene dal «supercanguro». L’approvazione dell’emendamento 01.103, a firma Esposito, ha fatto cadere – a quanto si legge — decine di migliaia di emendamenti. Magia parlamentare? In realtà il trucco c’è, e si vede. In principio, un emendamento sostituisce un contenuto normativo. Da qui la tipica formula: «sostituire le parole A, B, C con le parole D, E, F». Per l’art. 72 Cost. la legge elettorale è necessariamente discussa e approvata in assemblea articolo per articolo. Per l’art. 100 del regolamento senato gli emendamenti seguono la stessa logica.
L’emendamento 01.103 premetteva all’art. 1 dell’Italicum un articolo 01 recante in sintesi indirizzi generali per l’intera proposta. Non richiamava altri articoli, commi, emendamenti, e non ne toccava quindi il contenuto normativo specifico. Nemmeno poneva norme autonomamente applicabili. Né infine rispettava il principio della discussione e approvazione articolo per articolo, come è provato proprio dalla decadenza di emendamenti a molteplici articoli del disegno di legge.
Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto configurarsi come ordine del giorno.
Seguendo la logica dell’emendamento Esposito basterebbe — sotto le mentite spoglie di emendamento — anteporre a qualsiasi disegno di legge un riassunto dei suoi contenuti e approvarlo per far ritenere preclusi tutti gli emendamenti. Un bavaglio istantaneo e, se fatto dal governo, una sostanziale ghigliottina disponibile ad libitum. Basta e avanza a provare il tradimento della lettera e dello spirito della Costituzione e del regolamento, e per di più in una materia cruciale, come è quella elettorale. L’emendamento 01.103 doveva essere dichiarato inammissibile, in quanto privo di «reale portata modificativa» (art. 100.8 reg. sen.). Approvato, avvelena l’intero testo, aggiungendo motivi a una futura impugnativa davanti alla Corte costituzionale.
La seconda macroscopica violazione viene dalla conclamata inosservanza della sentenza della Consulta 1/2014, che si incardina nella indiscutibile natura del voto libero e uguale come diritto fondamentale e inviolabile. Eventuali limiti devono essere necessari per il raggiungimento di fini costituzionalmente rilevanti, proporzionati ad essi, e giustificati dall’assenza di alternative meno lesive.
Tali principi sono lesi dai capilista bloccati. Di fatto, solo gli elettori dei maggiori partiti potranno esprimere utilmente la preferenza. Ciò rende il voto diseguale, tra elettori di partiti diversi, e lo rende altresì per tutti non libero, concorrendo comunque il voto ad eleggere un capolista che potrebbe essere non voluto. In ultima analisi, è la stessa lesione censurata dalla Corte nel porcellum. E il controllo della rappresentanza che la norma persegue non è obiettivo costituzionalmente apprezzabile.
Inoltre, nell’Italicum non è necessaria e proporzionata la riduzione della rappresentatività dell’assemblea. Anche assumendo la stabilità/governabilità come interesse costituzionalmente rilevante e bilanciabile con il diritto di voto – e personalmente non concordo con l’avviso in tal senso della Corte – è ovvio che l’obiettivo si raggiunge pienamente già con il megapremio e il ballottaggio. È certo che una maggioranza parlamentare esiste. Posticcia magari, e con l’aggiunta di seggi non conquistati nelle urne: ma c’è. Questo rende le soglie di sbarramento, ancorché abbassate, un limite inutile ed eccessivo.
La semplificazione del sistema politico non è un obiettivo costituzionalmente apprezzabile, e anzi si pone in contrasto con l’art. 49 Cost. Lo stesso argomento vale per il premio alla sola lista, che colpisce altresì il voto uguale. Nel caso di una coalizione vincente, l’elettore – pur avendo scelto lo stesso schieramento — si troverà sotto o sovra rappresentato a seconda che abbia votato per il partito maggiore o quello minore. Sarà inoltre favorita l’invenzione di listoni unici di facciata buoni solo per il voto. E che però accentueranno la decisione oligarchica e centralistica delle candidature, posto che listoni siffatti richiedono mediazioni complessive impossibili in periferia.
Esistevano alternative meno dannose? Certamente sì. Abbiano assistito a una distruzione voluta per obiettivi non condivisibili e motivi abietti. Se tutto questo andasse avanti, diremmo addio alla Repubblica democratica e alla Costituzione come le abbiamo conosciute. Addolora che ciò accada nel disinteresse dell’opinione pubblica, per mano di un parlamento delegittimato per l’incostituzionalità dichiarata della legge elettorale, selezionato al peggio da tre turni consecutivi di Porcellum, e ormai privo di qualità e di nerbo.
Durante il ventennio tanti non vollero vedere, ascoltare, parlare. Ma nacque anche un ceto politico che seppe rischiare il proprio futuro, e persino la vita, anche quando sembrava non esserci speranza. Se quegli uomini e quelle donne avessero sofferto le debolezze di quelli che oggi popolano le istituzioni, saremmo ancora tutti in camicia nera
Il manifesto, 28 gennaio 2015
È molto stretta l’inquadratura del progetto delle sinistre unite. Ritaglia le facce note, leader di piccoli partiti, di correnti di un grande partito, di associazioni. Un racconto conosciuto, battuta per battuta, e non è solo abituale pigrizia da sistema mediatico. È veramente questa la sinistra unita – tutta di uomini – che in Italia si mette in cammino?
C’è una direzione positiva nel coordinamento delle sinistre proposto Nichi Vendola, cambia il clima dopo il risultato conseguito con la lista L’Altra Europa con Tsipras, originato dalla giusta intuizione dell’Europa come reale spazio dei conflitti, e la battuta d’arresto successiva. Ma cosa garantisce – al di là delle intenzioni – che non si percorrano le solite strade di sterili patti tra ceti politici?
Proviamo a rovesciare l’inquadratura e il racconto. A quale popolo si rivolge la sinistra? Sì, popolo, uso per scelta una parola diventata un tabù, come se popolo fosse di per sé sinonimo di destra, di pulsioni reazionarie. E la uso, questa parola, perché il sociale – nell’uso corrente e quasi automatico dei dibattiti politici – rischia di essere senza carne e sangue. E soprattutto rischia di lasciare senza corpo chi fa politica, come è capitato nei cambiamenti che hanno segnato le grandi organizzazioni di un tempo. Perfino i movimenti – che del sociale dovrebbero essere l’espressione — rischiano di perdere la spinta originaria che li ha resi tali, chiusi in un’autorappresentazione che continua ad alimentarsi di stessa.
Allora, popolo. Popolo di sinistra. Per me sono donne e giovani, prima di tutto. Precari e precarie che combattono con un lavoro frammentato e sottopagato. Madri single che comuni sempre più impoveriti non riescono più a sostenere, neanche con gli asili. Chi vede minacciato il proprio posto di lavoro. E naturalmente pensionati a cui vengono erosi passo dopo passo i diritti. Persone che con affitti che non riescono più a pagare, ma anche case di proprietà troppo costose per redditi sempre più bassi. E costi sanitari sempre più alti. Oppure famiglie costrette a condividere spazi piccoli, o convivenze di estranei neanche giovani, in una cultura che non prevede i monolocali a basso costo. Sono povertà che vengono nascoste dalla narrazione corrente dei media, ma anche dalla politica mainstream.
Dettagli, mi si potrebbe obiettare, una perdita di tempo. Questo è il punto. Non si tratta di minuzie da lasciare alle associazioni, al più alla passione più o meno solitaria di militanti di base. Questa è vita. Queste sono le persone, queste è il popolo con cui fare politica. Questo è lo spazio lasciato vuoto da un Pd sempre più separato dal mondo del lavoro.
È un popolo che ha paura, come sanno bene Matteo Salvini e tutte le destre populiste europee. È a loro che vogliamo lasciarlo? Più che la paura, del popolo oggi temo l’indifferenza. Come difesa dalla mancanza di speranza. Speranza di cambiare. Perché esistono forme di reciproco aiuto, una rete di affetti – tra i giovani ma non solo – che regge l’urto violento del neo-liberismo. È che non basta più. È un po’ come il Distretto 12 di Hunger Games, prima che Katniss partecipi ai giochi. Il potere pervade tutto. Si può riuscire a non morire di fame, ci si vuole molto bene, ma non basta. Occorre una speranza, occorre lottare.
Fare politica oggi è lavorare per creare spazi comuni, in cui tutti possano incontrarsi. Chi lotta per la casa, come chi sa tutto delle politiche di genere, o del Ttip. Chi organizza campagne o raccoglie firme, come chi è se stesso, con la propria fatica di vivere e di riconoscersi nei problemi comuni. Aspetto non secondario di una proposta e una pratica politica. Spazi sparsi nelle città, nei quartieri. Luoghi fisici, in cui incontrarsi, scambiare, organizzare e organizzarsi. Accogliere ciò che esiste senza inglobarlo, elaborare idee, sostenere lotte, rendere visibili nuove facce, di donne e anche di uomini. Luoghi simbolici delle molteplici connessioni in Italia e in Europa, a cui internet può dare strumenti utilissimi di confronto, comunicazione e democrazia. Senza pretendere di guidare dall’alto, senza lasciare tutto all’irresponsabilità del caso. C’è un enorme lavoro da fare. Ne vale la pena
«Una cosa è certa: la troika, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica». La Repubblica, 28 gennaio 2015
Prima gli auguri formali al nuovo governo greco, seppur fatti pervenire con due giorni di ritardo. Subito dopo, riunita con i vertici del suo partito, Angela Merkel tiene il punto: la Germania è contraria ad ogni revisione del debito ellenico. Così come il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, che domani incontrerà Tsipras: «Bisogna attenersi agli impegni presi». Una doppia risposta al nuovo viceministro dell’Esteri Euclid Tsakalotos che poche ore prima aveva ribadito la linea di Syriza: «Sappiamo tutti che ripagare il nostro debito pubblico è irrealistico». E così nel giorno della nomina dei ministri lo scontro tra i rigoristi e gli anti-austerity sembra già surriscaldarsi.
Ma il neo presidente e i suoi tirano dritto, almeno a parole. «Altro che spread e troika, il mio primo pensiero andrà ai nostri nuovi poveri», si presenta il nuovo ministro delle Finanze greco, l’economista Yanis Varoufakis. Il dicastero più importante del governo è andato a questo professore universitario di 53 anni fuori dagli (attuali) schemi: un comunista a metà tra utopia e pragmatismo, passaporto greco e australiano, capace di giurare davanti al capo dello Stato con il look di sempre, giacca e camicia fuori dai pantaloni. E che, prima ancora della nomina ufficiale, ha commentato così la notizia sul proprio blog: «Volete sapere cosa penserò quando varcherò per la prima volta l’ingresso del ministero? Alla troika? Allo spread? Sbagliato. Nel mio cuore — scrive Varoufakis — ci sarà il ricordo dell’interprete che ho incontrato nei giorni scorsi. Prima di congedarsi è scoppiata in lacrime: “Facevo l’insegnante di lingue ma sono rimasta senza lavoro. Ora vivo per strada, me la cavo con lavoretti saltuari, mi hanno tolto il figlio che vedo una volta al mese. Non le chiedo di fare qualcosa per me. Per me è finita. Ma fate quel che potete per chi riesce a stare ancora in piedi”. Da ministro mi occuperò di questo». Come a dire: dietro ai vincoli e agli indici economici ci sono le persone in carne e ossa e noi penseremo a quelle.
L’esecutivo varato da Alexis Tsipras è composto da dieci ministri (nessuno è donna), un taglio di sei rispetto a quelli del suo predecessore Antonis Samaras. E a parte la Difesa, che come previsto è andata all’alleato di governo Anel e al suo leader Panos Kammenos (sognava quel posto da una vita), sono tutti esponenti vicini a Syriza. Anche se due di loro provengono dal Pasok; nomine che, insieme ovviamente all’alleanza ibrida con i nazionalisti di Anel, hanno creato qualche malumore nella base del partito, che da sempre guarda con sospetto gli ex socialisti folgorati sulla via di Tsipras. Il quale ha nominato «ministro di Stato» — una sorta di sottosegretario alla presidenza del Consiglio — Nikos Pappas, prima amico e poi uomo ombra del premier praticamente da sempre, sin dai tempi dei social forum a cavallo del Duemila.
Tsipras ha fatto davvero la cosa giusta. Perché le decisioni greche riguardano tutti noi». Il manifesto, 28 gennaio 2015, con postilla, rafforzativa
La Repubblica, 27 gennaio 2015 (m.p.r.)
La Repubblica, 27 gennaio 2014 (m.p.r.)
Grosseto. Al suo posto, una sedia vuota. Francesco Schettino non si è presentato ieri in aula al teatro Moderno di Grosseto, ma il conto è arrivato lo stesso. Il pm Maria Navarro, si ferma un momento nella requisitoria, mezzogiorno passato da poco. Riprende fiato, un sorso d’acqua da un bicchiere e comincia l’affondo: chiede una condanna a 26 anni per il comandante di Costa Concordia, più tre mesi di arresto, più una misura cautelare «per il pericolo di fuga». «Schettino ha girato il mondo, potrebbe non avrebbe difficoltà a trovare un appoggio fuori dall’Italia» spiega alla corte.
fiscal compact». Lavoce.info, 26 gennaio 1014 (m.p.r.)
Chi ha "votato" per Syriza. E cho no
Certo, grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e accademici main stream, oltre che da governi e partiti politici europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: «Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno».
La filosofia dell’austerity si è tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro, come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni (2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti “necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo di una modifica possibile nella conduzione della politica economica europea.
Le difficoltà di un compromesso possibile
Ma proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo greco, la Troika - cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario - e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non concesso che una espulsione sia possibile).
Di fatto, nessuno capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia attorno al 180 per cento del Pil. Ma il punto è che tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.
Sul piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica europea.
La Repubblica, 26 gennaio 2015
«Quando lo scorso autunno, invitato da Alexis, sono andato ad Atene alla festa di Syriza mi ha colpito il fatto che quel movimento non è nato con l’idea di dar vita a un nuovo partito, bensì dalla necessità di dare risposte materiali (le cure sanitarie, i pasti quotidiani) alle persone. Questa è la grande novità. Questa è la forza di Syriza ma anche di Podemos in Spagna».
Cosa significa, dal suo punto di vista, la vittoria di Tsipras per l’Europa e per l’Italia?
«Che finalmente, con un voto popolare e libero, si dimostra che le politiche di austerity della Troika non hanno il consenso delle persone. Questo non può non riaprire una discussione non sull’uscita dall’euro ma sulla costruzione di un’Europa fondata sull’uguaglianza e la giustizia sociale, cioè sui bisogni e le condizioni reali delle persone».
E per l’Italia cosa può voler dire?
«Il popolo greco ha scelto una piattaforma che è esattamente opposta a quella del governo italiano. Il governo Renzi sta completando il programma indicato dalla Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011 e avviato con il governo Monti. Non c’è stata alcuna discontinuità. E d’altra parte Renzi è stato il presidente di turno dell’Europa ma nessuno se n’è accorto».
Lei ha inviato un messaggio alla convention di Sel sostenendo che serve «un progetto di cambiamento che nasca dalla società». Sta pensando a un nuovo partito o movimento della sinistra?
«In Italia è innanzitutto necessario recuperare la partecipazione delle persone alla politica. Poi bisogna ridare una rappresentanza ai problemi sociali ed essere in grado di porsi obiettivi di maggioranza».
Sembra Syriza... Ma la Fiom cosa c’entra? Non è un sindacato?
«Nella sua autonomia la Fiom, che continua ad essere e a fare il sindacato, è dentro questo processo perché è interesse anche della Fiom un cambiamento radicale delle politiche europee».
Dunque la Fiom e Landini potrebbero aderire al coordinamento della sinistra che ha lanciato Vendola?
«Non è questo il punto, non è questo che mi interessa. Guardi, l’unica iniziativa che è stata in grado di esprimere una opposizione alle politiche economiche e sociali del governo è stato lo sciopero generale della Cgil del 12 dicembre scorso. Ecco, si deve dare continuità a quella mobilitazione ».
Lei si candida a diventare lo Tsipras italiano?
«Non ci ho mai pensato».
Pensa, in ogni caso, che l’esperienza di Syriza possa essere replicata in Italia?
«Ogni Paese ha la sua storia, le cose non si replicano mai. Ma certo anche in Italia non c’è consenso sulle politiche di austerity. Ecco io mi domando: cosa posso fare, cosa può fare la Fiom per cambiare le politiche di un governo che non ha scelto nessuno e che ha fatto i patti con i poteri forti? ».
Una scissione nel Pd aiuterebbe la formazione di un movimento alternativo di sinistra?
«Non so, né mi interessa. I processi nei partiti li decideranno i partiti stessi. Voglio dirlo in maniera secca: la ragione della crisi della sinistra risiede nel fatto che non c’è più la sinistra».
Dunque il Pd di Renzi non è di sinistra?
«Beh, è di sinistra chi cancella lo Statuto dei lavoratori? Chi dice che si può liberamente licenziare? Chi propone e poi ritira la depenalizzazione della frode fiscale? Tutto questo non ha nulla a che fare con la sinistra. La sinistra o è sociale o non è».
Il Financial Times si è domandato se Tsipras è un realista o un radicale. Secondo lei?
«Mi sembra un realista radicale. Mentre radicali ed estremiste sono le politiche di austerity frutto del pensiero unico europeo».
Il manifesto, 26 gennaio 2015
Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo.
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ’900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hoffmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini.
Una memoria taciuta
Eppure del Purrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza. I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».
La Repubblica, 26 gennaio 2015, con postilla
In realtà la nuova sinistra che guarda adesso alla Grecia come a un ricostituente, magari a un bagno di gioventù, è reduce da una lunga serie di insuccessi. Per cui non basterà gridare «facciamo come loro» per sentirsi pervasi da un benefico flusso di energia greca. Luciana Castellina ha detto con un filo di ironia che assistere agli straordinari eventi ateniesi equivale a «farsi una canna politica». Senza dubbio è così, ma quando si esaurisce l’effetto allucinogeno delle emozioni, resta un bilancio amaro.
Ieri Nichi Vendola, a lungo considerato un fantasioso costruttore di geometrie politiche, ha concluso i tre giorni di Human Factor, tentativo di fare del “surf” sull’onda greca e di accendere qualche entusiasmo anche qui da noi. Ma non sembra che l’operazione abbia dato i frutti sperati. Si è capito che la nascita di un nuovo raggruppamento alla sinistra del Pd, in grado di riunire tanti spezzoni incapaci di espandersi, non è per domani e nemmeno per dopodomani.
Gli stessi scissionisti del Pd sono entità misteriose, a cominciare da Civati che preferisce restare nel partito renziano alla pari di Bersani e di tanti altri. E poi nessuno è sicuro che l’ennesima scissione ovvero una nuova alleanza tra personaggi più o meno logorati sia la ricetta giusta. Probabilmente sarebbe solo un’altra edizione della Sinistra Arcobaleno già sconfitta nelle urne: magari stavolta sarebbe salvata dalla soglia del 3 per cento, ma c’è da credere che non è questo il sogno dei sostenitori nostrani di Tsipras.
La verità è che il leader greco ha completamente rovesciato il paradigma politico, non si è limitato a battere vecchie strade. Che mantenga o no le sue promesse, lo vedremo. Il fatto che il terzo partito ad Atene siano i neo-nazisti di Alba Dorata è inquietante per tutti e soprattutto per il vincitore. In ogni caso Syriza non è una riedizione di Rifondazione Comunista, come vorrebbero suggerire alcune bandiere esposte nella serata della vittoria. Syriza è un esperimento che ha puntato tutte le carte sulla lotta alla politica tedesca dell’austerità e del rigore economico.
postilla
Di questa analisi, indubbiamente acuta, del confronto tra l'evento greco e la sinistra italiana, colpiscono due cose: 1) nella descrizione della sinistra italiana si trascura del tutto il successo, alle elezioni europee, della lista "L'altra Europa con Tsipras"; 2) si attribuisce a Renzi un ruolo e una posizione confrontabili con quelli di Alexis Tsipras.
Le cronache raccontano che nella piazza Omonia di Atene, dove Tsipras ha tenuto l’ultimo grande comizio della vigilia, c’era tanta gente comune, lontana dalla politica attiva, senza bandiere né slogan. Era il segnale tangibile che qualcosa si era mosso nelle profondità della società greca. Del resto i sondaggi delle ultime ore indicavano che la vittoria di Tsipras sarebbe stata alimentata da un voto che arrivava a Syriza da tutta la popolazione, anche da quei greci che alle ultime elezioni del 2012 avevano votato per la destra sperando di trovare così una via d’uscita alle loro sofferenze. C’era chi prevedeva che un 10 per cento dei consensi sarebbero venuti da quella parte di Nuova Democrazia ostile all’estremismo liberista del premier uscente Samaras. Gente per nulla di sinistra, ma che, questa volta, voleva punire un governo colpevole di avere decurtato pensioni e stipendi portandoli a livelli di sussidi.
D’altra parte quando superi il 35 per cento dei consensi vuol dire che i voti ti arrivano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di famiglie ridotte in povertà, da quei cittadini che in massa fanno la fila per rimediare medicinali e cibo. Se la nostra media della disoccupazione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfondato il 26 per cento, più del doppio, e si calcola che un milione e mezzo di occupati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di connazionali ridotti alla sussistenza.
Ormai si organizzano viaggi di studio per vedere e capire come Syriza sia riuscita a organizzare 400 centri di erogazione di servizi sociali in tutto il paese. Si resta increduli a sentire che si può comprare un appartamento per 5.000 euro, che il catasto è inservibile, ma che gli armatori sono ancora i potentissimi padroni di Atene.
Questo paese distrutto dalla guerra economica e governato dalla Troika oggi trova la forza di riacciuffare la speranza. Dando fiducia a una forza di sinistra nuova, impegnata in tutto il territorio nazionale a fianco dei più deboli, con un programma politico che fa della rinegoziazione del debito e la cancellazione dei Memorandun la leva a cui agganciare un’agenda di provvedimenti molto precisi: tetto minimo di 700 euro agli stipendi, tredicesima per le pensioni minime, cancellazione di tasse sulla casa e blocco delle aste giudiziarie, banche controllate dallo stato, patrimoniale sulle grandi ricchezze cresciute all’ombra della crisi.
Una proposta di governo ormai conosciuta come il “programma di Salonicco” che Tsipras ha promesso di perseguire a prescindere da come andrà la trattativa con le istituzioni europee. Di fronte allo sfascio di un paese che nella sua storia recente ha conosciuto pagine drammatiche fino al colpo di stato dei colonnelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbarrato la strada alla destra eversiva è un risultato che sarebbe imperdonabile sottovalutare anche solo semplicemente sotto il profilo della difesa democratica.
Una destra sempre presente (con i neonazisti di Alba Dorata che contendono il terzo posto al raggruppamento di centrosinistra To Potami), perché se Tsipras dovesse fallire, in Grecia arriverà l’estrema destra. Lo sanno bene le cancellerie internazionali che si spingono a pur caute aperture verso una trattativa, come dimostra la linea aperturista del Financial Times.
Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Francia all’Ucraina, con la natura violenta, isolazionista, xenofoba, nazionalista delle destre che si stanno riorganizzando, potrà essere fermato solo da un rapido, benefico contagio del vento greco, da una cosmopolita sinistra europea di nuova generazione (fissata nell’immagine, a piazza Omonia, dell’abbraccio tra Tsipras e Iglesias, leader di Podemos).
Una sinistra che cita molto Gramsci, che ha solide radici a sinistra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre novecentesche, capace di rinnovare radicalmente modelli partitici, leadership e culture politiche. La vittoria di Syriza è solo l’inizio di un percorso pieno di trappole, ostacoli, contraddizioni. Prendersi la responsabilità di governare un paese distrutto sembra quasi una missione impossibile.
Nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia sinistra”, il leader di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scommessa enorme, simile a quella del Brasile di Lula» e avverte che «non possiamo permetterci il lusso di ignorare che gran parte della società greca, e anche una percentuale dei nostri sostenitori, abbia assorbito idee conservatrici». Dunque consapevolezza della prova che l’attende e determinazione nel perseguire l’obiettivo «che oggi non è il socialismo ma la fine dell’austerità».
Ma questi sono i momenti della festa, della svolta, della vittoria contromano, della bellissima rivincita che la Grecia si prende dopo sei anni vissuti come una piccola cavia nel grande laboratorio tedesco. Un paese da punire in modo esemplare per educare tutti gli altri: se non volete finire come la Grecia ingoiate l’amara medicina dei tagli a salari e pensioni (anche noi abbiamo assaggiato questa frusta e ingoiato questa pillola). Il debito vissuto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre possibilità) con tutto l’armamentario dei luoghi comuni che ancora oggi sentiamo ripetere in tv e leggiamo sui giornali.
Ora dobbiamo attenderci un ampio fuoco di sbarramento contro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la prospettiva e rimette la realtà con i piedi per terra.
Quando nel febbraio dello scorso anno Tsipras venne in Italia in vista delle elezioni europee, come prima tappa fece visita alla redazione del manifesto (Renzi non trovò il tempo di riceverlo). Ci parlò a lungo del cammino verso una sinistra unita e di quello che poi sarebbe diventato il programma di governo. Ci regalò una piccola barca di porcellana della collezione del museo Benaki, quasi un auspicio, un pronostico. Due coloratissime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspicio e forse un pronostico. Ora è una realtà sulla quale la sinistra italiana dovrebbe riflettere molto. E anche in fretta.
«Nikissame! Nikissame!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeggiavano ieri i greci radunati nei vari centri elettorali di Syriza ad Atene, a Salonicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radicale, un vento progressista in Grecia, un messaggio per un’altra Europa da riflettere al resto del vecchio continente.
Alle 7 di domenica sera, subito dopo la chiusura delle urne, la buona notizia: Syriza appariva chiaramente come il partito vincente, secondo i primi exit-poll. La sinistra radicale ha ottenuto una vittoria di dimensioni storiche in Grecia, in Europa, raccogliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la certezza di poter formare un governo monocolore. Sconfitta la Nea Dimokratia che raccoglieva, sempre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.
Nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni, ha vinto la speranza nel cambiamento e con essa la dignità, l’ orgoglio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacrifici negli ultimi anni. Hanno vinto la democrazia, la giustizia sociale, la solidarietà.
Hanno perso la paura promossa dai conservatori, dai creditori internazionali, da chi vede nelle sinistre il diavolo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risanamento economico del Paese hanno provocato questa crisi umanitaria senza precedenti, la recessione, la depressione collettiva, la violazione di leggi e di vite umane.
Verso le 10 di sera i risultati non erano ancora definitivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i conservatori della Nea Dimokratia con 76 seggi. Al terzo posto i nazisti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comunisti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indipendenti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.
Non sono riusciti a superare la soglia del 3% e rimangono fuori dal parlamento il Movimento dei socialisti democratici, fondato dall’ ex premier Yorgos Papandreou (2,5%, la Sinistra democratica, gia componente del Syriza e ex partner del governo di coalizione di Antonis Samaras (0,5%) e Antarsya, formazione della sinistra (0,6%).
Oltre alla preoccupazione che ha provocato a tutti il mantenimento della forza elettorale dei nazisti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riuscita a formare un governo monocolore e in secondo luogo se Alexis Tsipras avrebbe preferito una maggioranza debole (150–151 seggi sui 300) e la diminuzione della sua forza di trattattiva nei confronti dei creditori internazionali, oppure una collaborazione con un’ altra forza politica che di fatto avrebbe limitato la sua forza politica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimitris Stratoulis, dirigente del Syriza, «ma se continuano a rispondere negativamente, tratteremo con altre forze politiche».
Secondo fonti di Syriza, la sinistra radicale esclude ogni collaborazione con le forze pro-memorandum (Nea Dimokratia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ eventualità di una cooperazione con i Greci indipendenti, il partito di destra nazionalistico, l’ unico ad essere chiaramente anti-memorandum.
A parte le eventuali alleanze post-elettorali, a sentire i dirigenti di spicco del Syriza ai talk-show televisivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sinistra radicale, hanno preso una grande boccata di ossigeno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono consapevoli delle difficoltà, che il nuovo governo dovrà affrontare; ma a sentire questa gente che ieri gridava vittoria per le strade di Atene, «Tsipras durante i negoziati con la troika avra un ottimo alleato».
Piena soddisfazione tra gli attivisti della «Brigata kalimera» radunata in piazza Klathmonos nel pieno centro di Atene. Smentita la telefonata di Matteo Renzi a Tsipras, mentre la prima reazione da Berlino è arrivata da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, da sempre custode del rigore del bilancio e avversario di Mario Draghi, il quale ha detto con toni minacciosi che «gli aiuti economici verso Atene continueranno soltanto se la Grecia rispetta i patti». La risposta di Syriza è stata immediata. «Parleremo e tratteremo a livello politico con la leadership europea, non con i suoi rappresentanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ europarlamento, Dimitris Papadimoulis, anticipando l’ atteggiamento del nuovo governo di Atene nei confronti della troika (Fmi, Ue, Bce).
Il risultato ottenuto dalla Nea Dimokratia difficilmente sarà gestito dal premier uscente Antonis Samaras. Samaras ha usato un linguaggio nazionalistico adottato pure da Alba dorata, come per esempio lo slogan della campagna elettorale «patria, religione, famiglia» che ha fatto allontanare molti elettori di destra. Problemi e lamentele si sono sentite ieri anche nel quartier generale dei socialisti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coalizione e leader del Pasok, Evanghelos Venizelos probabilmente si allontanerà, ma «non come sconfitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli
L’Unione europea è quella del tendone di piazza Klafthmonos, dove Syriza ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insopportabile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la tensione si taglia con il coltello: facce concentrate, cenni di incoraggiamento reciproco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scioglie in un abbraccio collettivo.
Greci, tedeschi, spagnoli, francesi, inglesi, italiani, e chissà da quante altre parti del Vecchio continente: un enorme, corale urlo di gioia cancella l’ansia e la fatica. Ora si può festeggiare. Esiste un’altra Europa, è quella che si è data appuntamento qui, nel centro di Atene.
«Questo è uno di quei momenti in cui si dimostra che anche i piccoli possono fare la storia, possono cambiare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raffaella Bolini, l’infaticabile organizzatrice della Brigata Kalimera e di mille altre avventure politiche internazionali. «C’è chi ha ironizzato sul nostro viaggio per criticarci, ma noi siamo venuti a immergerci nella realtà greca: non torneremo in Italia uguali a come eravamo alla partenza, perché questa esperienza ci ha davvero arricchiti», afferma una raggiante Rosa Rinaldi, tra le principali artefici del «miracolo» della fondamentale raccolta firme in Valle d’Aosta per la lista delle europee. «Ora la speranza si materializza: vale per i greci, ma vale anche per noi, perché Syriza al governo ad Atene significa una rivoluzione democratica per l’intera Europa. Persino il nostro pusillanime premier Matteo Renzi potrà ora avere più margini di manovra nei confronti dei partner continentali, e a noi a sinistra spetta il compito di costruire una vera alternativa di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straordinaria occasione di questo momento», conclude Rinaldi.
«Il messaggio di domenica sera – riflette Maso Notarianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sinistra italiana dobbiamo finalmente abbandonare un atteggiamento minoritario ancora troppo diffuso: qui in Grecia ci dimostrano che si può fare. Bisogna essere convinti che un’utopia può diventare realtà».
La soddisfazione in piazza Klafthmonos è ovviamente di tutti, indipendentemente dalla nazionalità. Ciascuno ha però un compito diverso nel proprio Paese.
In Spagna lo scenario politico più simile a quello greco: «La svolta nella politica europea è possibile. La sfida per noi è prendere ad esempio Syriza e mettere da parte personalismi o divisioni infondate, concentrandoci nella cosa più importante, che è unire le forze», ragiona Alberto Garzón, il nuovo (e giovane) leader di Izquierda unida. Il messaggio che invia dal tendone ateniese è diretto a Podemos, che finora nicchia sulla possibilità di costruire un cartello unitario alle elezioni di autunno.
Parole simili da Enest Urtasun, brillante eurodeputato della sinistra ecologista catalana, «pontiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sinistra unitaria europea) nel parlamento di Strasburgo: «La scelta giusta è quella fatta a Barcellona per le prossime municipali: lista unitaria di tutti quelli che si battono contro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Podemos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i partiti del ‘vecchio sistema’, ma parlo a titolo personale». Pensionato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assistere alla presa della Bastiglia del ventunesimo secolo».
I tedeschi della Linke – muniti di cartelli inequivocabili: «La nuova Europa comincia in Grecia» – usano toni meno enfatici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La cancelliera Angela Merkel dice sempre che non ci sono alternative alle attuali politiche, ma la vittoria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katharina Dahme della direzione nazionale del partito. «Il nostro compito sarà mostrare ai cittadini del nostro Paese che la politica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavoratori in Germania, che hanno bisogno di salari più alti e di una politica sociale differente», conclude la dirigente del principale partito dell’opposizione tedesca.
Il Fatto quotidiano, 25 gennaio 2015
Mentre gli occhi sono puntati sul voto in Grecia, sulla tre giorni vendoliana a Milano e sulla “brigata Kalimera” ad Atene, il dibattito a sinistra in Italia ha anche altri protagonisti. Di peso, anche se ora in sordina.
La testa pensante è Stefano Rodotà ma accanto a lui ci sono nomi del calibro di Maurizio Landini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. Mentre i “kalimeriani”, vendoliani, rifondazionisti, “tsiprasiani” più o meno doc, sperano di importare in Italia il soffio di Tsipras e mentre oggi a Human Factor Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Stefano Fassina spiegheranno la loro idea di sinistra, quegli altri studiano altre strade. Senza strappi o scontri. Senza divergenze sul ruolo catalizzatore che potrebbe avere la vittoria di Syriza. Ma con altre priorità.
Nichi Vendola, oggi, assicurerà che non ci sarà nessuna “ora X”. Ma l’ora X è nelle cose e la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd ha accelerato l’attesa e il vorticoso rito delle riunioni. Tutti in cerca di un possibile rimescolamento dei gruppi dirigenti che si conoscono da decenni. Sotto traccia, però, la discussione è più complicata.
Il perché lo spiega una intervista a Stefano Rodotà, già parte della “sinistra indipendente” quando c’era il Pci, candidatura illustre, per quanto snobbata, alla presidenza della Repubblica, che su Micromega espone una idea molto diversa dell’ipotesi assemblativa presentata finora. «La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti» risponde Rodotà: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra». Qui il giudizio è spietato: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre».
Giudizi così sferzanti spiegano, forse, perché Rodotà non sia presente alla kermesse milanese. «Rifondazione è un residuo di una storia - continua l’ex candidato al Quirinale - Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente».
Rodotà non rinuncia ad avanzare proposte: «Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency
- che ha creato ambulatori dal basso - movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».
La linea del professore ha un retroterra teorico nel suo ultimo libro, Solidarietà, il cui titolo è già un programma. Ma si nutre anche dei rapporti con i soggetti indicati anch’essi assenti dalla tre giorni vendoliana. LaFiom ha inviato alcuni suoi rappresentanti ma non Maurizio Landini che non vuole più vedere associato il suo nome, e quello del suo sindacato, alla ricostruzione della sinistra politica. Ma anche Libera di don Ciotti non è presente e così anche molti dei costituzionalisti che avevano lanciato la manifestazione “La via maestra”. La Fiom, ad esempio, sta riflettendo seriamente sulla tematica del mutuo soccorso quella che ha portato Syriza a realizzare mense autogestite o ambulatori popolari . Ci sono già collaborazioni avviate in questo senso tra Libera ed Emergency e la stessa Fiom potrebbe realizzare qualcosa di simile.
Da segnalare, poi, il canale diretto aperto da don Ciotti con Beppe Grillo, incontrato due giorni fa e con il quale l’associazione che si batte contro le mafie, ma anche contro la miseria, sta pensando di predisporre una proposta parlamentare sul reddito di cittadinanza.
C’è quindi un altro racconto a sinistra. Parla più il linguaggio del “sociale” e non si appassiona molto alle riunificazioni di altri tempi. Anche questa è una novità.
Il manifesto, 25 gennaio 2015
“Noi alle elezioni ci presentiamo”. Da Siena a Prato, dall’Empolese Valdelsa a Pisa, i comitati toscani dell’Altra Europa annunciano la discesa in campo per le regionali di fine maggio. Con la speranza, esplicitata già in partenza, di far parte di un’ampia coalizione unita di forze associative, politiche e di base: “In alternativa a chi sostiene le politiche neoliberiste e di austerità”. Compreso il Pd, che dovrebbe ricandidare Enrico Rossi. Dietro la cui figura si staglia però l’ingombrante sagoma di Matteo Renzi. E di un partito, guidato saldamente dal fedelissimo Dario Parrini, le cui strategie d’azione guardano al centro. Non a sinistra. Vedi il gelo con Sel e l’accordo, già raggiunto, con “Toscana civica riformista”, nuova formazione comprendente ex di Psi, Udc e Idv. Per non parlare della nuova, più che fantasiosa, legge elettorale. Contestatissima, denunciata per incostituzionalità, e redatta insieme lo scorso autunno da Parrini e dal forzista Massimo Parisi, proconsole locale di Denis Verdini.
I comitati dell’Altra Europa guardano peraltro alla concretezza della vita quotidiana. E qui, nonostante il buon lavoro della giunta uscente sul piano urbanistico-paesaggistico, sulla difesa del manifatturiero in una regione dove la crisi continua a far chiudere realtà produttive piccole e grandi, e su un (tardivo) ripensamento delle politiche culturali e turistico commerciali, il bicchiere è più vuoto che pieno.
A turno, il senese Alessandro Vigni e la pisana Tiziana Nadalutti, il pratese Leonardo Becheri e l’empolese Tiberio Tanzini, ricordano le speranze disattese dopo il referendum sull’acqua, servizi e altri beni comuni. Lo sfruttamento delle risorse naturali, da quelle geotermiche al marmo apuano, con effetti collaterali anche drammatici come le esondazioni di Carrara. La riconfermata volontà del Pd di andare avanti su grandi opere inutili come la Tav sotterranea fiorentina e l’Autotirrenica. L’insulto al buonsenso del futuro aeroporto intercontinentale fiorentino, in una zona fortemente urbanizzata e a fortissimo rischio ambientale come la Piana. I cinque, sei inceneritori già in funzione per poco più di tre milioni e mezzo di abitanti, e la costruzione di un settimo grande impianto sempre nella martirizzata Piana. Infine le politiche sanitarie, un tempo fiore all’occhiello ma ormai impazzite nella camicia di forza dei tagli nazionali, tanto da indirizzarsi sempre più verso il “privato sociale”.
“Il nostro obiettivo – sottolineano ancora i comitati — è quello di metterci a disposizione per costruire un’unica lista alternativa”. Nel solco del positivo risultato toscano dell’Altra Europa lo scorso maggio, visto come ideale trampolino di lancio per declinare sul territorio il progetto complessivo di un’ “altra” Toscana possibile. E con la doppia variabile delle decisioni di Sel, attese per la metà di febbraio, e delle riflessioni dei civici di Buongiorno Livorno. Per i quali, naturalmente, le porte della lista alternativa sono spalancate.
To Virna, il Corsera greco, al Financial Times, la stampa cambia tono. E le nuove generazioni ora pensano di avere il diritto di vincere». Il manifesto, 25 gennaio 2015
«Ieri sera, subito dopo la conferenza stampa, sono andato a Creta per il comizio finale a Heraclion. È stato incredibile. Se quello che ho visto in piazza nella più grande isola greca, storica per la sua epopea resistenziale, si traduce davvero in voti, allora vuol dire che abbiamo fatto davvero il pieno. Credo che la principale differenza fra queste elezioni e quelle del 2012 sia proprio lo spostamento che si è verificato nella provincia. Nella grande regione di Atene siamo sempre stati forti, ma fuori fino ad oggi non avevamo altrettanta adesione».
Così mi dice Alexis Tsipras, mentre stiamo chiacchierando in una pausa pranzo, nel giorno della vigilia, quando la campagna elettorale è chiusa e il leader di Syriza si concede un momento di normalità. Sfogliamo assieme i giornali greci e sorridiamo: il quotidiano conservatore più autorevole, il Corriere della Sera locale, To Vima, porta in prima pagina una piccola foto di Samaras (che venerdì ha concluso piuttosto melanconicamente la sua campagna elettorale) collocata in alto, quasi solo una striscia. A tutta pagina, invece, c’è l’immagine di Tsipras, sormontata da un titolo che dice: «I piani per i prossimi giorni». Ecco: Tsipras viene già intervistato come capo di governo. Ai suoi programmi To Vima dedica una intervista di ben quattro pagine, dove si dice nel sommario: «Alexis parla del governo, del presidente della Repubblica, della Troika, della Merkel, delle banche». «Un vento di cambiamento e speranza». E, ancora: «Vogliamo costruire un’altra relazione con la Germania». Ancora ieri To Vima aveva ospitato una dichiarazione di Samaras in cui il capo del governo annunciava che se Syriza avesse vinto le elezioni la Grecia sarebbe diventata come la Corea del nord.
A guardare la stampa la vittoria sembra già consacrata. Deferenti i fino a ieri più offensivi giornalisti di Atene ora lo attorniano e, anzi, si stringono a lui sorridenti per una foto ricordo. Nella lunghissima intervista di To Vima c’è perfino spazio per un ammiccamento amichevole: «Nel 2030, quando i tuoi due bambini saranno al liceo – chiede il giornalista – e tu sarai ancora parecchio più giovane di quanto siano oggi Samaras e Venizelos (segretario del Pasok), quale Grecia avranno ereditato? Saranno soddisfatti o pronti a occupare le scuole come hai fatto tu negli anni ’90?». «Spero che la generazione dei miei figli, che oggi hanno 3 e 5 anni, sia pronta a fare altrettanto – risponde Tsipras – perché la vita è in movimento e devono esser pronti a cambiare nuovamente tutto».
Non è solo la stampa greca. Anche il Financial Times ad Alexis dedicava ieri una paginona, la sua foto con le braccia alzate in segno di vittoria sovrastate dal titolo: «Radicale o realista?». Si tratta di una ricostruzione dettagliata della vita di Alexis, da quando, sedicenne alunno del liceo Ampelokipoi, conquistò la leadership nella battaglia che, nel 1991, oppose gli studenti greci – 90 per cento delle scuole occupate – al governo di centro destra.
Ne discutevo in questi giorni con vecchi amici e compagni greci: per via della tremenda esperienza delle generazioni precedenti – occupazione fascista e nazista, guerra civile, dittatura, decenni di prigione – anche i migliori uomini della vecchia sinistra (non parlo della pazzia settaria del Kke) avevano interiorizzato il timore del peggio, e per questo mai puntato a vincere, nel timore di una reazione della destra estrema.
La nuova generazione, che è nata dopo la caduta dei colonnelli, è invece finalmente sicura di sé. Punta a vincere, pensa di averne il diritto. Ma non nel senso di Renzi, al contrario riproponendo come logica una propria definita identità. «Sono favorevole ai compromessi perché ho obiettivi realistici – dice Alexis. Ma al tempo stesso - aggiunge - sono molto deciso se so che è necessaria una battaglia». In questi ultimi due anni ne ha dato la prova.
Gli italiani della brigata Kalimera, intanto, sono in giro a visitare i quartieri dove si è radicata la forza di Syriza mettendosi al servizio dei bisogni della gente devastata dalla crisi. Ne ho incontrato un gruppo nel quartiere di Nea Smirne, in visita a uno dei tanti centri di assistenza medica e farmacistica per chi è rimasto privo di assistenza sanitaria pubblica (almeno 3 milioni). Qui lavorano, da volontari, 30 medici e infermieri, più altrettanti cittadini che sbrigano le pratiche organizzative. Una appassionante e dettagliata descrizione di un’esperienza che prosegue da ormai più di due anni.
La Repubblica, 25 gennaio 2015
A CHI qualche mese fa domandava se dopo la condanna per frode fiscale emessa dalla Cassazione con sentenza definitiva Silvio Berlusconi era da considerarsi ormai fuori dal gioco politico, le risposte di quanti si occupano di queste cose come osservatori imparziali erano quasi tutte affermative: sì, ormai è fuori, è politicamente finito e non solo per la condanna ma perché delle promesse fatte e degli impegni presi con gli elettori fin dal 2001, non c’è alcuna traccia. Ha puntato sulle debolezze e la faciloneria degli italiani e non sulle loro virtù; li ha diseducati col suo esempio. Personalmente davo anche io questa risposta.
Sono passati quattordici anni da allora. La parte della risposta che riguarda la diseducazione politica e morale data da Berlusconi resta ferma, ma lui non è affatto finito. Anzi. L’accordo con Renzi da lui gestito con grande abilità, l’ha rimesso in piedi, gli ha ridato un compito importante, è allo stesso tempo all’opposizione e nella maggioranza. Ancora non è al governo, ma tra poco ci sarà.
Il partito della nazione è ormai sbocciato e lui ne fa parte integrante. Renzi — Berlusconi l’ha detto e lo ripete — è il suo figlio buono, ben riuscito. Lui è il papà, scavezzacollo come tanti padri ma pur sempre il padre che vede il figlio diventato il primo della classe, che da lui ha preso il talento di incantare la gente. E dici poco.
È pur vero che nel frattempo Forza Italia è diventata una sigla e il partito non c’è più, ma a guardar bene quel partito non c’è mai stato, nacque come la proiezione politica della sua società pubblicitaria
Ha tenuto un solo congresso, tutto è stato sempre deciso dal “boss” e dal suo “cerchio magico”, variabile secondo gli umori del Capo. Adesso è fatto da un paio di signore bellocce, molto legate a sua figlia Marina, ma è sempre lui che decide applicando la sua tecnica: prometti mille e — ben che vada — realizzi dieci e ogni giorno cambi posizione, poiché sei un bersaglio ti sposti per non esser colpito.
Adesso lui vuole tre cose: che questa legislatura duri fino al 2018 perché le elezioni oggi lo farebbero sbattere contro un muro; che la sua alleanza con Renzi sia il perno intorno al quale gira tutto il resto; che lui sia riconosciuto come il Padre della Patria e possa quindi ricevere quella clemenza che gli ridia piena agibilità politica e partecipazione personale, elezioni comprese se a lui piacerà di farle. E Renzi che ne dice?
Naturalmente anche il Pd, che però è un vero partito, ora è spaccato in due e forse in tre parti. L’elezione del presidente della Repubblica sarà da questo punto di vista decisiva. Mancano cinque giorni a quell’appuntamento. Renzi deciderà con il partito o con Berlusconi? Ancora non si sa; secondo lui è la direzione che deve decidere o addirittura l’assemblea (una sorta di comitato centrale molto numeroso). Ma sono organi dominati dal leader. I gruppi parlamentari? Anche lì la maggioranza è renziana. Quindi Renzi è in quelle sedi che proporrà il nome da votare. E ancora una volta vincerà.
Tuttavia c’è un ostacolo: la minoranza si considera come un coniuge che convive con l’altro da “separato in casa”. Quello che si decide nelle sedi istituzionali del partito non può sostituirsi alla convivenza dei due separati. Debbono decidere in due, non in trecento. E poi, nel “plenum” parlamentare vige il voto segreto e ancora poi i renziani furono tra i centouno che silurarono Prodi. Perciò la partita del nome è tutta da giocare e se per caso, fin dalla prima votazione, ci fosse un pacchetto di cento voti per Prodi, sarebbe difficile che il partito rifiutasse quel nome e comunque molti che oggi sono con Renzi potrebbero cambiar posizione. Non avverrà, dipende anche da Grillo, ma insomma non si può escludere.
Solo Draghi ha precisato: riforme economiche che riguardano soprattutto la produttività. La sola che può far ripartire la crescita, gli investimenti, i consumi e l’occupazione.
La manovra monetaria è un grande aiuto per Renzi e Draghi, con prudenza, scommette sul coraggio del presidente del Consiglio. Ma non è una riforma semplice da attuare perché deve stare attento a non gravare sui salari dei lavoratori perché in quel caso si troverebbe a fare i conti con i sindacati. Tutti i sindacati, Cisl compresa. Personalmente credo che si cimenterà mettendo insieme rapidità (il turbo) e coraggio. Non gli mancano né l’uno né l’altro. C’è comunque uno stretto intreccio tra il nome scelto per il capo dello Stato e la riforma del lavoro (che non è il “Jobs Act”). Deve aver l’accordo dei sindacati e dei “separati in casa”. Ma molto dipende dalla scelta del primo inquilino del Quirinale. Non può essere un tecnico né un pupazzetto (o una pupazzetta) di Renzi. Deve essere un uomo politico di provata esperienza e autorevolezza, che interpreti con necessario vigore i poteri-doveri che le sue prerogative gli garantiscono e che abbia un prestigio all’estero e anche nel partito socialista europeo.
Non sono molti i nomi che corrispondono a questo identikit. I nomi è sempre rischioso farli ma forse un osservatore che si sforzi di essere oggettivo può indicarne qualcuno. Io ne vedo tre: Prodi, Veltroni, Amato. Altri nomi egregi tra i tanti dei quali in questi giorni si è parlato, certamente ci sono, ma sono poco conosciuti sia nel partito sia all’estero e quindi sembrano meno adatti e scatenerebbero i fuochi dei franchi tiratori. Nessuno ama vederli all’opera ma tutto dipende dalle scelte di Renzi. Se sceglie bene, i franchi tiratori non ci saranno e sarà merito suo. Se sceglie male sarà sua la colpa. *** Concludo con qualche cenno sull’Europa.
La manovra monetaria di Draghi, con il 20 per cento di condivisione dell’intervento sui mercati della Bce, pone il tema dei bond europei e del bilancio comune dell’Unione. Faccio osservare un aspetto che non viene mai ricordato e che invece dovrebbe avere un notevole peso: un articolo del trattato di Lisbona stabilisce esplicitamente che l’Unione europea deve avere una sua realizzazione politica, ottenuta con le necessarie cessioni di sovranità dei governi nazionali.
Perché quell’articolo non viene mai tenuto presente? Esso implicherebbe un bilancio comune, un fisco comune, una politica estera comune, una presenza permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e un debito sovrano comune, un Parlamento votato in comune dagli elettori europei.
Spetta soprattutto alla Germania assumere l’iniziativa di questo sogno e il rispetto del trattato di Lisbona ma spetta ai governi di tutti i membri dell’Ue di obbligare la Germania a prendere l’iniziata o a prenderla senza di lei.
Il vero guaio è che i capi dei governi non amano affatto cedere una parte rilevante della loro sovranità. Questo fa paventare il peggio per un futuro molto e molto prossimo: in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. I coraggiosi, caro Renzi, debbono mostrare su questo tema il loro coraggio ma finora nulla si è visto e semmai si è visto il contrario. Alla fine voi personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa. È questo che volete? La via europea è estremamente importante e bisogna percorrerla. Noi non siamo gufi, ma contro i mercanti che rivendicano i loro interessi perfino Gesù prese il bastone.
Il manifesto, 24 gennaio 2015 (m.p.r.)
Il governo fa retromarcia sulla vendita delle case popolari. Il provvedimento disposto dall’articolo tre del piano Lupi sulla casa è stato cambiato a seguito di un’intesa raggiunta dalla Conferenza unificata Stato e Regioni. La notizia è stata comunicata dal sindacato dell’Unione Inquilini che si dice soddisfatto: «È una vittoria della mobilitazione di inquilini e assegnatari».Il piano Lupi prevedeva infatti la vendita all’asta dell’intero patrimonio della case popolari a prezzi di mercato con la sola possibilità per l’assegnatario di esercitare la prelazione sul prezzo di aggiudicazione dell’asta. La mobilitazione ha costretto il governo a modificare la procedura di vendita e il prezzo.
Ora agli assegnatari dev’essere comunicato preventivamente il prezzo fisso al valore catastale fino al 20%. Se non ha la capacità economica di acquistare l’appartamento, entro il limite della decadenza dev’essere indicato un alloggio alternativo, nel comune di residenza. Gli anziani, i malati terminali e i portatori di handicap hanno il diritto di restare nell’appartamento nel caso in cui non siano in grado di acquistarlo. Nel nuovo decreto non si parla più di vendita in blocco degli stabili interi.
«Per noi resta una critica di fondo all’operato del governo – sostiene Walter De Cesaris, segretario dell’Unione Inquilini – In Italia non c’è bisogno di disfarsi del patrimonio pubblico ma di incrementarlo. Per risolvere la sofferenza abitativa strutturale, occorre aumentare l’offerta di abitazioni sociali e non dismettere quelle che ancora ci sono».
Il manifesto, 24 gennaio 2015
L’ha detto in piazza e l’ha ribadito ieri alla stampa di tutto il mondo: «Da lunedì il Memorandum sarà carta straccia». E ancora: «Non riconosceremo la troika».
Applausi invece per Mario Draghi, un baluardo contro le politiche di austerity della Germania: «Ha accolto le richieste che facevamo da tempo». Nell’ultimo giorno di campagna elettorale, Alexis Tsipras riafferma in conferenza stampa, con toni pacati e la stessa sostanza del comizio del giorno precedente ad Atene, quali saranno le linee guida del suo governo. Rimanda il problema delle alleanze a dopo il voto («ci penseremo da lunedì») e torna a chiedere un mandato pieno agli elettori, che gli consentirebbe di «avere più forza» per rinegoziare il debito con le istituzioni europee.
Quella di ieri è stata soprattutto la giornata del dopo-Bce. Ne aveva parlato molto poco a caldo in piazza Omonia, l’altra sera.
Invece ora risponde alle domande dei giornalisti schierandosi con decisione dalla parte di Mario Draghi: «Ha messo fine al catastrofismo di Samaras, che avrebbe voluto la Grecia fuori dal programma di acquisto di titoli e cercava un appoggio che non ha avuto. Invece ha deciso quello che noi chiedevamo da tempo e che Samaras ci diceva essere fuori dalle regole della Bce. Ci ha dato tempo fino al luglio 2016 per attuare il nostro programma e dimostrare che la Grecia può tornare a crescere».
Tsipras è consapevole che per realizzare quello che promette sono necessari i numeri giusti, anche se «dopo il voto, comunque vada, chiederemo il consenso a tutti i partiti sul nostro piano di riforme», e ammette che sarà necessario scontrarsi, «sia in Europa che in Grecia». Ma si dice più preoccupato da quello che potrebbe accadere nel suo Paese piuttosto che a Bruxelles, dove «si scontrano due linee, quella di Merkel e Schauble da una parte e quella di Mario Draghi dall’altra». «L’Europa cambia, lentamente ma cambia», per Tsipras. «L’importante è arrivare forti a questi negoziati, perché il piano B della troika è che Syriza non ottenga la maggioranza assoluta e sia obbligata a governare con i propagandisti che difendono le sue posizioni», ha spiegato.
La partita più difficile Tsipras la gioca invece in Grecia, consapevole che se non manterrà le promesse della vigilia il consenso rischierà di evaporare, facendo un danno gigantesco all’intera sinistra: cosa accadrà quando, come annunciato, tirerà fuori le liste degli evasori e tasserà i grandi patrimoni, «le ville con due, tre, quattro piscine nelle mani di società offshore», quando sarà colpita la grande proprietà, quando si metterà mano a una riforma della polizia, che «dovrà difendere la sicurezza dei cittadini nei quartieri e non reprimere le manifestazioni pacifiche»? Come reagiranno i poteri forti locali all’annuncio che «il triangolo del peccato», quei legami opachi tra politica, grande imprenditoria e media sarà messo in discussione?
Un primo assaggio di quanto possa essere complicato mettere mano a ciò che non funziona in Grecia è arrivato proprio in questi giorni: banchetti e gazebo del partito sono stati presi di mira a più riprese da ultras dell’Aek Atene. Tutto è legato al fatto che Syriza si oppone a una speculazione edilizia legata alla costruzione del nuovo stadio a Nea Philadelphia, un comune della Grande Atene governato dalla coalizione della sinistra radicale. In più occasioni gli attivisti di Syriza si sono trovati accerchiati da bande di giovani con le sciarpe giallonere dell’Aek, ma il partito ha deciso di non alimentare tensioni in campagna elettorale e non ha denunciato pubblicamente i fatti.
«Ci scontreremo con l’establishment, con la corruzione, con chi ha preso decisioni che hanno portato a questa situazione, con le regole dei mezzi di comunicazione», afferma con sicurezza Tsipras. Ma ammette che non sarà facile. «Ho l’impressione che cercheranno di indebolire Syriza. Creeranno delle situazioni molto difficili», sostiene Tsipras, per il quale «solo la forza potrà garantirci», quella che sarà determinata dal successo elettorale. In ogni modo, «la sinistra non ha mai avuto un’occasione storica come questa. Ed è anche l’ultima occasione per il Paese. Se falliremo, tutti saremo giudicati dalla storia», dice rivolto a quelle forze che a sinistra rifiutano qualsiasi alleanza, in particolare ai comunisti del Kke (e pure all’altro partito dell’ultrasinistra Antarsya), ai quali lancia un amo: «Anche se dovessimo avere la maggioranza assoluta, cercheremo alleanze e collaborazioni con chi si è opposto ai Memorandum e alla troika».
Ma, se pur l’aspirante premier ha ribadito che i primi passi saranno il sostegno alle classi disagiate, che più hanno sofferto la crisi, e le misure a favore della classe media impoverita (dalla riforma fiscale al tetto dei 12 mila euro al di sotto del quale non si pagheranno tasse, una misura richiesta in particolare da contadini e liberi professionisti, fino all’abolizione della tassa sulla prima casa), le novità di ieri riguardano essenzialmente il rapporto con l’Europa. «Onoreremo tutti i trattati perché siamo membri dell’Ue, ma non rispetteremo gli impegni presi dai governi precedenti. Con i Memorandum non sono stati rispettati i patti fondamentali, non è possibile che la Grecia sia governata da piccoli funzionari di Bruxelles. Vogliamo negoziare con pari diritti. E’ una questione di dignità», dice Tsipras, che non si spiega perché la Commissione europea abbia lasciato tanto potere a un’istituzione come la troika, non prevista da nessun trattato e che non può controllare.
Syriza si dice pronta ad aprire anche un altro fronte di scontro in Europa: quello sui debiti di guerra. «La Germania deve pagare per l’occupazione nazista, è un impegno che abbiamo nei confronti della generazione che ha fatto la Resistenza. Rivendicheremo questo credito verso tutti i Paesi europei. Su questo non possiamo fare compromessi, si tratta di un debito storico. Vogliamo che non sia una richiesta greca, ma che si faccia all’interno degli organi europei». Non sarà facile neppure questo, con Berlino sul banco degli imputati. E’ un braccio di ferro annunciato, quello tra Merkel e Tsipras. Che avverte i tedeschi: «In Francia Marine Le Pen rischia di vincere le elezioni, qui Alba Dorata avrà un risultato importante. C’è il rischio di un ritorno del fascismo in tutta Europa. Devono capire che non possono continuare così»
Corriere della Sera, 23 gennaio 2014 (m.p.r.)
Milano. Sarà la Corte costituzionale a stabilire se sia legittima la scelta del Politecnico di Milano, che ha deciso di passare all’inglese come lingua esclusiva per i corsi e gli esami delle lauree magistrali e dei dottorati. Il passaggio (nelle intenzioni dell’Università) a un’istruzione internazionale e all’avanguardia è stato bocciato da una sentenza del Tar del 2013. Nei mesi successivi, con un contro-ricorso del Politecnico e del ministero dell’Istruzione, la questione è arrivata al Consiglio di Stato. Che ora, con un’ordinanza pubblicata ieri, sospende il giudizio e trasferisce tutto alla Consulta. Affermando però alcuni punti: il Politecnico ha fatto una scelta del tutto legittima con la legge di riforma dell’università del 2010, ma allo stesso tempo quella legge presenta profili potenzialmente contrari alla Costituzione, che devono essere quindi approfonditi.
Con la decisione pubblicata ieri, il Consiglio di Stato ribalta in parte le conclusioni del Tar lombardo. E afferma: se si considera la legge del 2010, la decisione del Politecnico, «che appartiene alla libera scelta dell’autonomia universitaria», è stata pienamente legittima. Il dubbio però non scompare, e anzi si sposta alla radice: il quadro legislativo entro il quale si è correttamente mosso il Politecnico rispetta la Costituzione? Cambiando il piano di giudizio, il Consiglio di Stato manifesta notevoli perplessità. E lo fa su tre punti. Pur con complicate forme linguistiche, i giudici sostengono che «l’attivazione generalizzata ed esclusiva di corsi in lingua straniera, non appare manifestamente congruente, innanzitutto, con l’articolo 3 della Costituzione».