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«La vit­to­ria di Tsi­pras gene­ra entusiasmo. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

Ad unirla, per il momento, è il suc­cesso poli­tico di Ale­xis Tsi­pras e di Syriza in Gre­cia. Riu­nita ieri al tem­pio di Adriano a Roma, la sini­stra ita­liana isti­tu­zio­nale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune com­po­nenti della «sini­stra Pd», si è espressa con le maiu­scole com­men­tando l’intervista che il primo mini­stro greco ha rila­sciato in un libro di Teo­doro Andrea­dis (Bor­deaux edizioni).

Per Ven­dola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo pro­cesso poli­tico con­ti­nen­tale che può sal­vare la civiltà euro­pea dai disa­stri eco­no­mici e sociali pro­dotti dalle poli­ti­che di auste­rity». Per Sme­ri­glio (Sel) «Tsi­pras dimo­stra che si può vin­cere fuori dalle com­pa­ti­bi­lità poli­ti­che». Sme­ri­glio ha anche riven­di­cato la scelta di avere schie­rato il con­gresso di Sel dalla parte di Tsi­pras, e non dei socia­li­sti for­mato «lar­ghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsi­pras alle Euro­pee».

Nes­sun rife­ri­mento al caso «Spinelli-Furfaro» che ha oppo­sto i quar­tier gene­rali dell’Altra Europa e Sel che, dopo vari scos­soni, con­ti­nuano un per­corso che ricorda l’antico motto delle «con­ver­genze paral­lele». Di Tsi­pras si apprezza il «prag­ma­ti­smo» e il «rea­li­smo». E poi «una radi­ca­lità che non si con­fonde con il mas­si­ma­li­smo». L’entusiasmo gene­rato della sua vit­to­ria può por­tare ad un «pro­cesso nuovo». Per que­sto «non pos­siamo stare sull’uscio del Pd per vedere se escono Civati o Fas­sina– ha detto Ven­dola –La novità è la ripresa del con­flitto sociale archi­viato da tempo in Ita­lia».
Un con­flitto iden­ti­fi­cato con la Cgil che si è oppo­sta al Jobs Act. Per Ven­dola biso­gna rac­cor­dare il «sociale» e il «poli­tico» in vista di una o più «coa­li­zioni». Di «uscire dal Pd» Civati e Fas­sina (Pd) in effetti non ci pen­sano pro­prio. Al netto di bat­tute di buon gusto che hanno fatto sor­ri­dere una pla­tea di almeno 500 per­sone, il primo ha riba­dito le sue cri­ti­che a Renzi («Per lui non ci sono alter­na­tive al pen­siero unico, ma qui non c’è nes­sun pen­siero, è rima­sto solo l’unico») e al «tratto equi­voco» del rap­porto tra il Pd e i socia­li­sti euro­pei. Civati ha alluso al ful­mi­nante giu­di­zio di Tsi­pras sul Pd «libe­ri­sta in Ita­lia e social­de­mo­cra­tico in Europa, a dimo­stra­zione di una per­so­na­lità scissa». Una defi­ni­zione che descrive chi si col­loca a sini­stra di que­sto par­tito e vota la riforma del lavoro del «Jobs Act».

In que­sto con­te­sto malin­co­nico e autoi­ro­nico in cui è dif­fi­cile riu­nire per­so­na­lità scisse, Fas­sina si è impe­gnato a ren­dere «il governo ita­liano proat­tivo rispetto alla piat­ta­forma di Syriza. Le sue pro­po­ste non sono utili solo alla Gre­cia. Il pro­blema del debito non riguarda solo la Gre­cia». E ha pro­po­sto una «piat­ta­forma di con­sul­ta­zione siste­ma­tica». Pro­po­ste in cui non sono mai stati citati i movi­menti (Ita­lia sulla casa, con­tro lo Sblocca Ita­lia o dello scio­pero sociale). Gli stessi (o ana­lo­ghi) che rap­pre­sen­tano invece la base di Syriza in Gre­cia. La pro­spet­tiva sem­bra essere un’altra. L’ex vice­mi­ni­stro dell’Economia del governo Letta ha sug­ge­rito di con­si­de­rare la «cri­tica radi­cale ma non estrema al capi­ta­li­smo» di Papa Francesco.

Ad aprire, e chiu­dere, l’incontro mode­rato dalla gior­na­li­sta Lucia Goracci è stata Luciana Castel­lina che ha messo da parte le media­zioni pun­tando dritto all’entusiasmo «che la vit­to­ria di Tsi­pras ha gene­rato. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza demo­cra­tica dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

«Riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza».

Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014

La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.

Perché lei non sarà lo Tsipras italiano?
«Perché mi chiamo Maurizio Landini e faccio il segretario della Fiom e un’esperienza come quella greca non è riproducibile in Italia. Semmai il modello più interessante per la nostra situazione è quello spagnolo di Podemos». Landini ci riceve nel suo studio e fa bella mostra dell’ultimo libro di Papa Bergoglio: «È quello che oggi in Italia fa il discorso più di sinistra. Il problema oggi è proprio quello della scomparsa della sinistra».
Un giudizio drastico.
«Un giudizio vero. La politica si è trasformata in logica di potere e non in strumento di partecipazione. La crisi colpisce tutti, anche i partiti della sinistra se è vero che il 60% non va a votare».

Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».

Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».

È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.

Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.

Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti ‍con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca ‍per vincere.

Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.

Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.

Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.

Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.

E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.

Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.

Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.

Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.

«Non c’è stata nessuna istigazione. De Luca ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente».

Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 (m.p.r.)


Marco Revelli, piemontese, torinese, anti Tav, è storico, sociologo, autore di centinaia di pubblicazioni. Docente universitario. Un intellettuale, insomma. Contrario al Tav, anche lui. «Sì», dice al Fatto, «anche io oggi mi sento sotto processo, proprio come Erri. Credo che quella contro di lui sia una follia giudiziaria, un fatto di costume, se vogliamo. È una brutta pagina, quella che si apre. E indica il decadimento di una città, Torino, di una regione, il Piemonte, e di un’intera popolazione, quella della Val di Susa, che è obbligata a disobbedire. Non ha scelta, deve difendersi».

Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.

Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.

È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.

Lei le ripete quelle parole?
Certo che sì, sono anche mie. Ma le ho ripetute più volte, in altre sedi, forse in altri termini, ma con lo stesso fine di Erri.

Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.

Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.

Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.

Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.

Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.

De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto «non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota». Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.

La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

«Mattarella? Ma se lei va a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?». Forse ha ragione Pino Pisicchio, che conosce bene i suoi colleghi parlamentari: a Montecitorio lo conoscono in pochi, l’uomo che potrebbe diventare il dodicesimo presidente della Repubblica. Perché in Transatlantico lui non si fa vedere da sette anni, e da allora qui dentro è cambiato quasi tutto: a cominciare dalle facce dei deputati. Però si fa presto a descriverlo. Avete presente Renzi? Bene, Sergio Mattarella è il suo esatto contrario. E’ uno che ama il grigio, evita le telecamere, parla a bassa voce e coltiva le virtù della pacatezza, dell’equilibrio e della prudenza. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista » disse una volta Ciriaco De Mita, che lo conosce meglio di tutti perché 28 anni fa lo nominò ministro.

Ma proprio De Mita sa che sotto quel vestito grigio e dietro quei modi felpati c’è un uomo con la schiena dritta, un hombre vertical capace di discutere giorni interi per trovare un compromesso con l’avversario, ma anche di diventare irremovibile se deve difendere un principio, una regola o un imperativo morale. Come fece la sera del 26 luglio 1990, quando – con un gesto che ancora oggi Berlusconi ricorda – si dimise da ministro della Pubblica Istruzione perché Andreotti aveva posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sanava definitivamente le tre reti televisive del Cavaliere. Si dimisero in cinque (c’erano anche Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino) ma fu lui a spiegare quel gesto di rottura senza precedenti, e lo fece a bassa voce e senza usare un solo aggettivo polemico: «Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile…». Poi, quella sera, incrociò Martinazzoli e gli chiese: «Hai consegnato la lettera di dimissioni?». «Certo, l’ho appena fatto». «E hai fatto una fotocopia?». «No, perché? ». «Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera, pur di farla scomparire…».

Nato settantaquattro anni fa a Palermo, figlio di Bernardo che era stato ministro, deputato e potente democristiano in Sicilia, Sergio Mattarella voleva fare il professore di diritto pubblico. L’eredità politica del padre era stata raccolta dal fratello maggiore, Piersanti, che era rapidamente arrivato alla poltrona più potente dell’isola: la presidenza della Regione. Ma quando la mafia capì che quel politico quarantacinquenne non si sarebbe piegato alle sue regole, decise di toglierlo di mezzo con il piombo di una pistola. Sergio vide morire il fratello tra le sue braccia – era il 6 gennaio 1980 – e fu forse in quel momento che fece la sua scelta: avrebbe fatto politica per non darla vinta a chi aveva ordinato l’assassinio.
Così tre anni dopo fu eletto deputato (in quota Zaccagnini), e l’anno dopo De Mita – diventato segretario – scelse proprio lui come plenipotenziario del partito in Sicilia. La missione era chiara: doveva bonificare la Dc di Lima e Ciancimino. La mossa di Mattarella arrivò quando si trattò di scegliere il nuovo sindaco di Palermo. Lui scelse, e riuscì a far eleggere, un giovane professore che era stato tra i consiglieri del fratello: Leoluca Orlando. Poi De Mita, quando arrivò a Palazzo Chigi, lo richiamò a Roma. Ministro dei Rapporti col Parlamento. Andreotti lo nominò alla Pubblica Istruzione, e finì come sappiamo. Mattarella tornò a fare il deputato. Ripensarono a lui quando si trattò di riscrivere la legge elettorale per adeguarla all’esito del referendum di Mario Segni. Così nacque quell’incastro tra collegi uninominali e quote proporzionali che fu poi battezzato da Giovanni Sartori con il nome del suo autore: Mattarellum.
Il destino volle che fosse proprio quella legge, sotto il ciclone di Tangentopoli, a far crollare il partito di Mattarella, la Dc. Ma lui fu uno dei pochi che sopravvissero alla Prima Repubblica, perché l’unica macchia che erano riusciti a trovargli era una vecchia storia di buoni benzina regalatigli da un costruttore siciliano (assoluzione piena, «il fatto non sussiste»). Nel Partito popolare che prende il posto della Dc, Mattarella fu uno degli oppositori della linea filo-berlusconiana di Buttiglione («Vuole uccidere il partito» disse) e anche uno dei sottoscrittori della candidatura a premier di Romano Prodi, schierando il partito con il centro-sinistra. Poi vennero l’Ulivo, la Margherita e infine il Partito democratico, del quale Mattarella scrisse (con Pietro Scoppola e altri quattro) il manifesto fondativo.
Non fu Prodi però a farlo tornare al governo, ma Massimo D’Alema. A Mattarella toccava la guida del gruppo dei ministri del Ppi, e dunque la vicepresidenza del Consiglio. Poi arrivò anche il ministero: la Difesa. E lui realizzò l’impresa che non era riuscita a nessuno dei suoi predecessori: l’abolizione della naja, il servizio militare obbligatorio. Restò anche con il governo Amato, poi lasciò il governo e, nel 2008, anche il Parlamento. Che però si è ricordato di lui quando, quattro anni fa, bisognava trovare il nome di un giudice costituzionale che avesse un ampio consenso. E lui fu eletto. Sembrava che non ce l’avesse fatta, che avesse mancato il quorum per un solo voto, ma quando le schede furono ricontate si scoprì che quel voto in più c’era. Era il 5 ottobre 2011. Dopo tre anni e quattro mesi, si voterà ancora una volta sul suo nome. E lui non sarà il solo ad aspettare lo spoglio con il fiato sospeso.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

I primi segni del nuovo corso elle­nico sono minimi, sim­bo­lici, ma già signi­fi­ca­tivi. Da ieri mat­tina, primo giorno di lavoro del nuovo governo Tsi­pras, sono spa­rite le tran­senne davanti al Par­la­mento e con loro i Mat, le forze spe­ciali anti­som­mossa che pre­si­dia­vano i mini­steri, in par­ti­co­lare quello della Cul­tura. Il nuovo inqui­lino della sede di Exar­chia ha poco da temere da anar­chici e ribelli vari.

Si tratta di Ari­sti­dis Bal­tas e gode di un pre­sti­gio asso­luto: filo­sofo althus­se­riano, è con­si­de­rato uno dei mag­giori pen­sa­tori mar­xi­sti in Gre­cia, pro­viene dall’Istituto Nikos Pou­lan­tzas (di cui è pre­si­dente) ed è noto per i suoi studi su Wittng­stein, Der­rida, Spi­noza, Ben­ja­min. Ad affian­carlo, come sot­to­se­gre­tari, ci saranno un noto gior­na­li­sta, Nikos Xio­la­kis, respon­sa­bile delle pagine cul­tu­rali del quo­ti­diano Kathi­me­rini, e Tas­sos Kou­ra­kis, un docente della Facoltà di Medi­cina di Salo­nicco sem­pre pre­sente alle mani­fe­sta­zioni con­tro l’austerità e nelle lotte sociali (in par­ti­co­lare quella con­tro l’estrazione dell’oro nella peni­sola Calcidica).

Un segnale meno sim­bo­lico è invece arri­vato dal primo con­si­glio dei mini­stri. Al ter­mine Pana­io­tis Lafa­za­nis, un mate­ma­tico che abban­donò il Kke nel ’91 quando i «rin­no­va­tori» per­sero la bat­ta­glia con­tro gli «orto­dossi» e lea­der della cor­rente di sini­stra di Syriza, Ari­ste­ria Plat­forma (Piat­ta­forma di sini­stra), che Tsi­pras ha messo alla testa del super­mi­ni­stero alla Rior­ga­niz­za­zione pro­dut­tiva, all’Ambiente e all’Energia, ha annun­ciato il blocco della pri­va­tiz­za­zione del porto del Pireo. I por­tuali avranno anche un sot­to­se­gre­ta­rio a loro molto vicino. Si tratta di Tho­do­ris Dri­tsas: pireota doc, impie­gato nella far­ma­cia di fami­glia, durante la dit­ta­tura mili­tava in un gruppo deno­mi­nato «Rivo­lu­zione socia­li­sta» ed è tra i fon­da­tori di Syriza. Di lui si ricor­dano le man­ga­nel­late prese dalla poli­zia ita­liana al porto di Bari nel luglio 2001, quando la nave degli anti-G8 diretti a Genova fu respinta in Grecia.

Nel suo primo giorno di lavoro il mini­stro delle Finanze Yan­nis Varou­fa­kis, eco­no­mi­sta di fama inter­na­zio­nale, ha incon­trato davanti al mini­stero le donne delle puli­zie che da un anno e mezzo chie­dono di essere rein­te­grate, dive­nute un sim­bolo della lotta con­tro l’austerità. «Taglie­remo le spese al mini­stero e le rias­su­me­remo», ha pro­messo loro. Ma Varou­fa­kis non rimarrà da solo ad affron­tare i nodi prin­ci­pali che il governo dovrà scio­gliere: la rine­go­zia­zione del debito e la solu­zione dei gra­vis­simi pro­blemi sociali cau­sati dalla crisi.

Per que­sto Tsi­pras ha pre­di­spo­sto una vera e pro­pria linea di fuoco. A coor­di­narla ci sarà il vice­pre­si­dente del Con­si­glio Yan­nis Dra­ga­sa­kis, un altro per­so­nag­gio di asso­luto spes­sore. Eco­no­mi­sta, già mini­stro dell’Economia nel governo di unità nazio­nale del 1989, fino al ’91 espo­nente di spicco del Kke, che abban­donò quando perse la segre­te­ria per appena quat­tro voti (57 a 53), Dra­ga­sa­kis è con­si­de­rato l’ispiratore della poli­tica eco­no­mica di Syriza. Il terzo espo­nente della troika di Tsi­pras è Yor­gos Sta­fa­kis. Il neo­ti­to­lare dell’Economia pro­viene da una fami­glia dell’alta bor­ghe­sia, è un pupillo di Dra­ga­sa­kis dai tempi del Kke (all’epoca era nel Kne, i Gio­vani comu­ni­sti), ma nel tempo si è spo­stato su posi­zioni rifor­mi­ste, susci­tando anche mugu­gni per alcune ester­na­zioni, come quando affermò che il «debito odioso» dei greci, vale a dire quello pro­vo­cato dalla spe­cu­la­zione finan­zia­ria, non supera il 5 per cento. Tsi­pras l’ha voluto al governo per le sue posi­zioni fer­ma­mente con­tra­rie al ritorno alla dracma e per­ché è con­si­de­rato un pro­fondo cono­sci­tore dell’economia reale.

Al ter­zetto di eco­no­mi­sti il neo­pre­mier ha affian­cato due sot­to­se­gre­tari che rispon­dono diret­ta­mente a lui: quello alle Rela­zioni eco­no­mi­che inter­na­zio­nali, affi­dato a Euclide Tha­ka­lo­tos, un rap­pre­sen­tante del par­tito degli «inglesi» (si è lau­reato a Oxford e ha inse­gnato a Cam­bridge, men­tre Varou­fa­kis si è for­mato nell’Università dell’Essex così come la Gover­na­trice dell’Attica Rena Dou­rou, brac­cio destro di Tsi­pras, e il depu­tato di Corfù Fotini Vaki), e l’altro agli Affari euro­pei, messo nelle mani di Nikos Kun­dos, un euro­de­pu­tato dell’ala comu­ni­sta di Syriza, noto per il suo atti­vi­smo a Bru­xel­les (di lui si con­tano 300 inter­venti e un migliaio di inter­ro­ga­zioni, anche su argo­menti molto scot­tanti come quello della sven­dita dell’aeroporto di Atene e sul caso Siemens). Tha­ka­lo­tos, for­ma­tosi nei gio­vani labu­ri­sti inglesi, è invece un key­ne­siano puro. Ottimo cono­sci­tore di Gram­sci, soste­ni­tore del com­mer­cio equo e soli­dale, è con­vinto che il debito della Gre­cia non sia soste­ni­bile e che la ricetta per l’uscita dalla crisi abbia un solo nome: socialdemocrazia.

Il secondo pila­stro del governo, dopo l’economia, è quello sociale. Alla testa tro­viamo Nikos Vou­tzis, a capo del secondo super­mi­ni­stero (dopo l’Economia): agli Interni e alla rior­ga­niz­za­zione dell’amministrazione sta­tale. Vou­tzis, pro­ve­niente dal Par­tito comu­ni­sta dell’interno ed ex capo della segre­te­ria poli­tica di Syriza, sarà affian­cato da un mini­stro ad hoc per la lotta alla cor­ru­zione, l’ex magi­strato (dalla fama di duro) Pana­io­tis Nico­lou­dis, un indi­pen­dente voluto diret­ta­mente da Tsi­pras. Prima pro­messa: la chiu­sura delle car­ceri spe­ciali. Con­tem­po­ra­nea­mente la sua vice­mi­ni­stra con delega all’Immigrazione, Tasia Chri­sto­dou­lo­pou­lou, si è impe­gnata a dare la cit­ta­di­nanza a tutti i figli degli immi­grati nati in Grecia.

Tra­la­sciando le con­ces­sioni all’Anel (l’istrionico e discusso segre­ta­rio Panos Kam­me­nos alla Difesa, un sot­to­se­gre­ta­rio con delega alla Mace­do­nia e un’ex cam­pio­nessa di salto in alto e 100 metri a osta­coli che la Cnn nel ’91 scelse tra le migliori dieci modelle al mondo alla quale è stata affi­data la delega al Turi­smo), il terzo pila­stro del governo Tsi­pras sarà il lavoro. Tra i pri­mis­simi prov­ve­di­menti ci saranno il ritorno alla con­trat­ta­zione col­let­tiva e l’aumento del sala­rio minimo a 751 euro. Anche qui la squa­dra messa in campo è di tutto rispetto. Il nuovo mini­stro, Panos Skou­le­tis, è stato per anni respon­sa­bile della comu­ni­ca­zione di Syriza. Sarà affian­cato da Teano Fotiou (con delega alla Soli­da­rietà sociale), una docente di Archi­tet­tura al Poli­tec­nico attiva in Solidarity4all, la rete che gesti­sce gli ambu­la­tori e le mense sociali, e da Mania Anto­no­pou­lou (con delega spe­ci­fica per la lotta alla disoc­cu­pa­zione). Docente alla New York Uni­ver­sity e al Bard Col­lege, con­si­gliere all’Onu sui temi dell’uguaglianza di genere, Anto­no­pou­lou è defi­nita “la signora dei 300 mila posti di lavoro” per aver cri­ti­cato dura­mente i fondi euro­pei per la riqua­li­fi­ca­zione pro­fes­sio­nale (poi­ché, ha soste­nuto, il pro­blema in que­sto momento è l’assenza di offerta di lavoro), e per aver teo­riz­zato, in uno stu­dio per il Levy Insti­tute, il ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza per garan­tire la piena occu­pa­zione. Ora è chia­mata a met­terlo in pratica.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

Aiuti imme­diati alle fami­glie povere, rias­sun­zioni dei licen­ziati dalla Troika e dai governi pre­ce­denti, blocco alle pri­va­tiz­za­zioni del porto di Pireo e di Salo­nicco, allon­ta­na­mento della rin­ghiera che cir­con­dava il par­la­mento, desti­tu­zione dei poli­ziotti in tenuta anti­som­mossa dagli ate­nei, attri­bu­zione di cit­ta­di­nanza a tutti i figli di migranti nati in Grecia.

Sono alcune delle misure che già sono state prese o sono in corso di essere rea­liz­zate dal dream team di Ale­xis Tsi­pras, che comin­cia ad incon­trarsi con i mas­simi diri­genti dell’ Ue per discu­tere sul pro­gramma del nuovo governo. Il pre­mier ha poi pro­po­sto Zoi Kon­stan­to­pou­lou, figlia di un ex lea­der del Syna­spi­smos (Coa­li­zione della sini­stra), ascen­dente del Syriza, e nota diri­gente della sini­stra radi­cale come can­di­data alla pre­si­denza del parlamento.

Nell’ epi­cen­tro dei col­lo­qui del governo - oggi con il pre­si­dente dell’ euro­par­la­mento, Mar­tin Schulz e domani con il pre­si­dente dell’ euro­gruppo, Jeroen Dijs­sel­bloem - il taglio del debito e l’annulamento del memo­ran­dum. «Non vogliamo andare allo scon­tro fron­tale con i nostri cre­di­tori, ma que­sta cata­strofe sociale non può andare avanti. Siamo con­trari a un con­flitto distrut­tivo» ha detto Ale­xis Tsi­pras nel suo discorso di aper­tura del primo con­si­glio dei mini­stri. Per aggiun­gere poi che «siamo un governo di sal­vezza sociale, il popolo ci chiede di lavo­rare dura­mente per difen­dere la sua dignità».

Sono appena pas­sati tre giorni dalle ele­zioni, nem­meno 24 ore dal giu­ra­mento dei mini­stri di Syriza e Anel e un’ aria diversa, di otti­mi­smo e di spe­ranza, di rivo­lu­zione (con o senza vir­go­lette), di dignitá e di grinta, sta attra­ver­sando la capi­tale greca. Si sente nei discorsi della gente, nelle dichia­ra­zioni dei neo ministri. Anche se appa­ren­te­mente nulla ancora è cam­biato e non man­cano le lamen­tele da parte di chi ha ancora paura di per­dere il suo sti­pen­dio o la pen­sione «per­ché c’é il peri­colo che le ban­che chiu­dono», i greci sono di nuovo in mar­cia, per­ché se ne ren­dono conto che - parole loro - «que­sti qui al governo non scher­zano», «il modo che hanno di fare poli­tica è diverso». Gli unici nella capi­tale greca a rea­gire nega­ti­va­mente - un segnale per le trat­ta­tive in corso da oggi - sono i mer­cati. La Borsa di Atene ha chiuso regi­strando un calo di 9,24% (le azioni delle ban­che hanno con­ti­nuato a colare a picco, meno 27%), men­tre il ren­di­mento dei titoli di stato a tre anni ha supe­rato il 16%.

«I greci sanno che non potremo cam­biare lo stato della nostra eco­no­mia in un giorno. Ma di una cosa pos­sono essere certi: l’unico punto di rife­ri­mento di que­sto governo é il popolo» ha sot­to­li­neato il nuovo pre­mier greco. Stessa lun­ghezza d’onda anche al primo discorso del mini­stro delle finanze, Yanis Varoufakis.

«I col­lo­qui con i nostri cre­di­tori saranno dif­fi­cili, ma rite­niamo che i nostri part­ner ci pos­sano dare una chance». Varou­fa­kis che ha già par­lato tele­fo­ni­ca­mente con il pre­si­dente dell’eurogruppo e la set­ti­mana pros­sima si incon­trerà con i suoi omo­lo­ghi ita­liano e fran­cese. Il neo mini­stro ha affer­mato che ci sono «diversi punti di accordo» e non «di scon­tro» con gli altri mem­bri dell’ euro­gruppo, ma se le cose vanno male Atene «non accet­terà più i trat­tati dell’Ue».

La rea­zione é arri­vata pro­prio ieri prima da Bru­xel­les e poi da Ber­lino. La Com­mis­sione europea, con il vice-presidente dell’ ese­cu­tivo, Jyrki Katai­nen, fede­lis­simo della can­cel­liera Ankela Mer­kel, ha ripe­tuto che Atene «si é assunta degli impe­gni e ci aspet­tiamo che man­tenga le pro­messe», men­tre il mini­stro dell’economia tede­sco, Sig­mar Gabriel, ha ricor­dato ad Atene che «il nuovo governo deve essere giu­sto verso i con­tri­buenti in Ger­ma­nia e in Europa che hanno mostrato solidarietà». Tutti i part­ner euro­pei chie­dono al governo Tsi­pras di man­te­nere i patti, esclu­dendo ogni dia­logo per un even­tuale taglio del debito pub­blico greco. Un atteg­gia­mento che, se da una parte serve le politiche di rigore di Ber­lino, dall’altra nasconde due fat­tori non trascurabili.

Innan­zi­tutto ciò che sot­to­li­neano tutti gli eco­no­mi­sti del mondo e che die­tro le quinte ammet­tono pure i diri­genti euro­pei: il debito non è soste­ni­bile, non solo in Gre­cia, ma anche in Ita­lia, in Spa­gna e altrove. Per­ciò - ed è que­sta la pro­po­sta di Atene - biso­gna affron­tare la que­stione in una con­fe­renza euro­pea. In secondo luogo, rife­ren­dosi ai con­tri­buenti euro­pei, Ale­xis Tsi­pras che si incon­trerà anche con il pre­si­dente fran­cese, Fran­cois Hol­lande, varie volte ha sot­to­li­neato che un even­tuale hair-cut del debito pub­blico non toc­cherà i con­tri­buti dei pri­vati. «L’Europa e la Gre­cia pos­sono avan­zare insieme» ha detto più cauto ieri il com­mis­sa­rio euro­peo agli Affari eco­no­mici, Pierre Mosco­vici. Infine, a Tsi­pras, è arri­vata anche la tele­fo­nata di Obama, che si è detto dispo­sto ad aiu­tare il paese: «Pure io ero gio­vane come te quando sono stato eletto e ora ho i capelli grigi», avrebbe detto al lea­der greco il pre­si­dente Usa.

Il manifesto, 28 gennaio 2015

La prima viene dal «super­can­guro». L’approvazione dell’emen­da­mento 01.103, a firma Espo­sito, ha fatto cadere – a quanto si legge — decine di migliaia di emen­da­menti. Magia par­la­men­tare? In realtà il trucco c’è, e si vede. In prin­ci­pio, un emen­da­mento sosti­tui­sce un con­te­nuto nor­ma­tivo. Da qui la tipica for­mula: «sosti­tuire le parole A, B, C con le parole D, E, F». Per l’art. 72 Cost. la legge elet­to­rale è neces­sa­ria­mente discussa e appro­vata in assem­blea arti­colo per arti­colo. Per l’art. 100 del rego­la­mento senato gli emen­da­menti seguono la stessa logica.

L’emendamento 01.103 pre­met­teva all’art. 1 dell’Italicum un arti­colo 01 recante in sin­tesi indi­rizzi gene­rali per l’intera pro­po­sta. Non richia­mava altri arti­coli, commi, emen­da­menti, e non ne toc­cava quindi il con­te­nuto nor­ma­tivo spe­ci­fico. Nem­meno poneva norme auto­no­ma­mente appli­ca­bili. Né infine rispet­tava il prin­ci­pio della discus­sione e appro­va­zione arti­colo per arti­colo, come è pro­vato pro­prio dalla deca­denza di emen­da­menti a mol­te­plici arti­coli del dise­gno di legge.

Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto con­fi­gu­rarsi come ordine del giorno.

Seguendo la logica dell’emendamento Espo­sito baste­rebbe — sotto le men­tite spo­glie di emen­da­mento — ante­porre a qual­siasi dise­gno di legge un rias­sunto dei suoi con­te­nuti e appro­varlo per far rite­nere pre­clusi tutti gli emen­da­menti. Un bava­glio istan­ta­neo e, se fatto dal governo, una sostan­ziale ghi­gliot­tina dispo­ni­bile ad libi­tum. Basta e avanza a pro­vare il tra­di­mento della let­tera e dello spi­rito della Costi­tu­zione e del rego­la­mento, e per di più in una mate­ria cru­ciale, come è quella elet­to­rale. L’emendamento 01.103 doveva essere dichia­rato inam­mis­si­bile, in quanto privo di «reale por­tata modi­fi­ca­tiva» (art. 100.8 reg. sen.). Appro­vato, avve­lena l’intero testo, aggiun­gendo motivi a una futura impu­gna­tiva davanti alla Corte costituzionale.

La seconda macro­sco­pica vio­la­zione viene dalla con­cla­mata inos­ser­vanza della sen­tenza della Con­sulta 1/2014, che si incar­dina nella indi­scu­ti­bile natura del voto libero e uguale come diritto fon­da­men­tale e invio­la­bile. Even­tuali limiti devono essere neces­sari per il rag­giun­gi­mento di fini costi­tu­zio­nal­mente rile­vanti, pro­por­zio­nati ad essi, e giu­sti­fi­cati dall’assenza di alter­na­tive meno lesive.

Tali prin­cipi sono lesi dai capi­li­sta bloc­cati. Di fatto, solo gli elet­tori dei mag­giori par­titi potranno espri­mere util­mente la pre­fe­renza. Ciò rende il voto dise­guale, tra elet­tori di par­titi diversi, e lo rende altresì per tutti non libero, con­cor­rendo comun­que il voto ad eleg­gere un capo­li­sta che potrebbe essere non voluto. In ultima ana­lisi, è la stessa lesione cen­su­rata dalla Corte nel por­cel­lum. E il con­trollo della rap­pre­sen­tanza che la norma per­se­gue non è obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente apprezzabile.

Inol­tre, nell’Italicum non è neces­sa­ria e pro­por­zio­nata la ridu­zione della rap­pre­sen­ta­ti­vità dell’assemblea. Anche assu­mendo la stabilità/governabilità come inte­resse costi­tu­zio­nal­mente rile­vante e bilan­cia­bile con il diritto di voto – e per­so­nal­mente non con­cordo con l’avviso in tal senso della Corte – è ovvio che l’obiettivo si rag­giunge pie­na­mente già con il mega­pre­mio e il bal­lot­tag­gio. È certo che una mag­gio­ranza par­la­men­tare esi­ste. Postic­cia magari, e con l’aggiunta di seggi non con­qui­stati nelle urne: ma c’è. Que­sto rende le soglie di sbar­ra­mento, ancor­ché abbas­sate, un limite inu­tile ed eccessivo.

La sem­pli­fi­ca­zione del sistema poli­tico non è un obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente apprez­za­bile, e anzi si pone in con­tra­sto con l’art. 49 Cost. Lo stesso argo­mento vale per il pre­mio alla sola lista, che col­pi­sce altresì il voto uguale. Nel caso di una coa­li­zione vin­cente, l’elettore – pur avendo scelto lo stesso schie­ra­mento — si tro­verà sotto o sovra rap­pre­sen­tato a seconda che abbia votato per il par­tito mag­giore o quello minore. Sarà inol­tre favo­rita l’invenzione di listoni unici di fac­ciata buoni solo per il voto. E che però accen­tue­ranno la deci­sione oli­gar­chica e cen­tra­li­stica delle can­di­da­ture, posto che listoni sif­fatti richie­dono media­zioni com­ples­sive impos­si­bili in periferia.

Esi­ste­vano alter­na­tive meno dannose? Cer­ta­mente sì. Abbiano assi­stito a una distru­zione voluta per obiet­tivi non con­di­vi­si­bili e motivi abietti. Se tutto que­sto andasse avanti, diremmo addio alla Repub­blica demo­cra­tica e alla Costi­tu­zione come le abbiamo cono­sciute. Addo­lora che ciò accada nel disin­te­resse dell’opinione pub­blica, per mano di un par­la­mento dele­git­ti­mato per l’incostituzionalità dichia­rata della legge elet­to­rale, sele­zio­nato al peg­gio da tre turni con­se­cu­tivi di Por­cel­lum, e ormai privo di qua­lità e di nerbo.

Durante il ven­ten­nio tanti non vol­lero vedere, ascol­tare, par­lare. Ma nac­que anche un ceto poli­tico che seppe rischiare il pro­prio futuro, e per­sino la vita, anche quando sem­brava non esserci speranza. Se que­gli uomini e quelle donne aves­sero sof­ferto le debo­lezze di quelli che oggi popo­lano le isti­tu­zioni, saremmo ancora tutti in cami­cia nera

Il manifesto, 28 gennaio 2015

È molto stretta l’inquadratura del pro­getto delle sini­stre unite. Rita­glia le facce note, lea­der di pic­coli par­titi, di cor­renti di un grande par­tito, di asso­cia­zioni. Un rac­conto cono­sciuto, bat­tuta per bat­tuta, e non è solo abi­tuale pigri­zia da sistema media­tico. È vera­mente que­sta la sini­stra unita – tutta di uomini – che in Ita­lia si mette in cammino?

C’è una dire­zione posi­tiva nel coor­di­na­mento delle sini­stre pro­po­sto Nichi Ven­dola, cam­bia il clima dopo il risul­tato con­se­guito con la lista L’Altra Europa con Tsi­pras, ori­gi­nato dalla giu­sta intui­zione dell’Europa come reale spa­zio dei con­flitti, e la bat­tuta d’arresto suc­ces­siva. Ma cosa garan­ti­sce – al di là delle inten­zioni – che non si per­cor­rano le solite strade di ste­rili patti tra ceti politici?

Pro­viamo a rove­sciare l’inquadratura e il rac­conto. A quale popolo si rivolge la sini­stra? Sì, popolo, uso per scelta una parola diven­tata un tabù, come se popolo fosse di per sé sino­nimo di destra, di pul­sioni rea­zio­na­rie. E la uso, que­sta parola, per­ché il sociale – nell’uso cor­rente e quasi auto­ma­tico dei dibat­titi poli­tici – rischia di essere senza carne e san­gue. E soprat­tutto rischia di lasciare senza corpo chi fa poli­tica, come è capi­tato nei cam­bia­menti che hanno segnato le grandi orga­niz­za­zioni di un tempo. Per­fino i movi­menti – che del sociale dovreb­bero essere l’espressione — rischiano di per­dere la spinta ori­gi­na­ria che li ha resi tali, chiusi in un’autorappresentazione che con­ti­nua ad ali­men­tarsi di stessa.

Allora, popolo. Popolo di sini­stra. Per me sono donne e gio­vani, prima di tutto. Pre­cari e pre­ca­rie che com­bat­tono con un lavoro fram­men­tato e sot­to­pa­gato. Madri sin­gle che comuni sem­pre più impo­ve­riti non rie­scono più a soste­nere, nean­che con gli asili. Chi vede minac­ciato il pro­prio posto di lavoro. E natu­ral­mente pen­sio­nati a cui ven­gono erosi passo dopo passo i diritti. Per­sone che con affitti che non rie­scono più a pagare, ma anche case di pro­prietà troppo costose per red­diti sem­pre più bassi. E costi sani­tari sem­pre più alti. Oppure fami­glie costrette a con­di­vi­dere spazi pic­coli, o con­vi­venze di estra­nei nean­che gio­vani, in una cul­tura che non pre­vede i mono­lo­cali a basso costo. Sono povertà che ven­gono nasco­ste dalla nar­ra­zione cor­rente dei media, ma anche dalla poli­tica mainstream.

Det­ta­gli, mi si potrebbe obiet­tare, una per­dita di tempo. Que­sto è il punto. Non si tratta di minu­zie da lasciare alle asso­cia­zioni, al più alla pas­sione più o meno soli­ta­ria di mili­tanti di base. Que­sta è vita. Que­ste sono le per­sone, que­ste è il popolo con cui fare poli­tica. Que­sto è lo spa­zio lasciato vuoto da un Pd sem­pre più sepa­rato dal mondo del lavoro.

È un popolo che ha paura, come sanno bene Mat­teo Sal­vini e tutte le destre popu­li­ste euro­pee. È a loro che vogliamo lasciarlo? Più che la paura, del popolo oggi temo l’indifferenza. Come difesa dalla man­canza di spe­ranza. Spe­ranza di cam­biare. Per­ché esi­stono forme di reci­proco aiuto, una rete di affetti – tra i gio­vani ma non solo – che regge l’urto vio­lento del neo-liberismo. È che non basta più. È un po’ come il Distretto 12 di Hun­ger Games, prima che Kat­niss par­te­cipi ai gio­chi. Il potere per­vade tutto. Si può riu­scire a non morire di fame, ci si vuole molto bene, ma non basta. Occorre una spe­ranza, occorre lottare.

Fare poli­tica oggi è lavo­rare per creare spazi comuni, in cui tutti pos­sano incon­trarsi. Chi lotta per la casa, come chi sa tutto delle poli­ti­che di genere, o del Ttip. Chi orga­nizza cam­pa­gne o rac­co­glie firme, come chi è se stesso, con la pro­pria fatica di vivere e di rico­no­scersi nei pro­blemi comuni. Aspetto non secon­da­rio di una pro­po­sta e una pra­tica poli­tica. Spazi sparsi nelle città, nei quar­tieri. Luo­ghi fisici, in cui incon­trarsi, scam­biare, orga­niz­zare e orga­niz­zarsi. Acco­gliere ciò che esi­ste senza inglo­barlo, ela­bo­rare idee, soste­nere lotte, ren­dere visi­bili nuove facce, di donne e anche di uomini. Luo­ghi sim­bo­lici delle mol­te­plici con­nes­sioni in Ita­lia e in Europa, a cui inter­net può dare stru­menti uti­lis­simi di con­fronto, comu­ni­ca­zione e demo­cra­zia. Senza pre­ten­dere di gui­dare dall’alto, senza lasciare tutto all’irresponsabilità del caso. C’è un enorme lavoro da fare. Ne vale la pena

«Una cosa è certa: la troika, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica». La Repubblica, 28 gennaio 2015

Prima gli auguri formali al nuovo governo greco, seppur fatti pervenire con due giorni di ritardo. Subito dopo, riunita con i vertici del suo partito, Angela Merkel tiene il punto: la Germania è contraria ad ogni revisione del debito ellenico. Così come il presidente dell’Europarlamento, il socialista Martin Schulz, che domani incontrerà Tsipras: «Bisogna attenersi agli impegni presi». Una doppia risposta al nuovo viceministro dell’Esteri Euclid Tsakalotos che poche ore prima aveva ribadito la linea di Syriza: «Sappiamo tutti che ripagare il nostro debito pubblico è irrealistico». E così nel giorno della nomina dei ministri lo scontro tra i rigoristi e gli anti-austerity sembra già surriscaldarsi.

Ma il neo presidente e i suoi tirano dritto, almeno a parole. «Altro che spread e troika, il mio primo pensiero andrà ai nostri nuovi poveri», si presenta il nuovo ministro delle Finanze greco, l’economista Yanis Varoufakis. Il dicastero più importante del governo è andato a questo professore universitario di 53 anni fuori dagli (attuali) schemi: un comunista a metà tra utopia e pragmatismo, passaporto greco e australiano, capace di giurare davanti al capo dello Stato con il look di sempre, giacca e camicia fuori dai pantaloni. E che, prima ancora della nomina ufficiale, ha commentato così la notizia sul proprio blog: «Volete sapere cosa penserò quando varcherò per la prima volta l’ingresso del ministero? Alla troika? Allo spread? Sbagliato. Nel mio cuore — scrive Varoufakis — ci sarà il ricordo dell’interprete che ho incontrato nei giorni scorsi. Prima di congedarsi è scoppiata in lacrime: “Facevo l’insegnante di lingue ma sono rimasta senza lavoro. Ora vivo per strada, me la cavo con lavoretti saltuari, mi hanno tolto il figlio che vedo una volta al mese. Non le chiedo di fare qualcosa per me. Per me è finita. Ma fate quel che potete per chi riesce a stare ancora in piedi”. Da ministro mi occuperò di questo». Come a dire: dietro ai vincoli e agli indici economici ci sono le persone in carne e ossa e noi penseremo a quelle.

L’esecutivo varato da Alexis Tsipras è composto da dieci ministri (nessuno è donna), un taglio di sei rispetto a quelli del suo predecessore Antonis Samaras. E a parte la Difesa, che come previsto è andata all’alleato di governo Anel e al suo leader Panos Kammenos (sognava quel posto da una vita), sono tutti esponenti vicini a Syriza. Anche se due di loro provengono dal Pasok; nomine che, insieme ovviamente all’alleanza ibrida con i nazionalisti di Anel, hanno creato qualche malumore nella base del partito, che da sempre guarda con sospetto gli ex socialisti folgorati sulla via di Tsipras. Il quale ha nominato «ministro di Stato» — una sorta di sottosegretario alla presidenza del Consiglio — Nikos Pappas, prima amico e poi uomo ombra del premier praticamente da sempre, sin dai tempi dei social forum a cavallo del Duemila.

È una donna Zoi Constantopoulou, che diventa presidente del Parlamento. Alla sinistra interna di Syriza, quella che una volta era la minoranza anti-euro, va il ministero dell’Ambiente con Panayotis Lafazanis. Nella lista poi ci sono due ministri filo-russi. Non a caso sulle sanzioni a Mosca per il caso ucraino il nuovo esecutivo ha subito espresso il proprio dissenso rispetto alla posizione della Ue. A conti fatti Tsipras ha scelto un profilo di governo rispettoso di tutti i delicati equilibri interni al partito e alla maggioranza. Una cosa è certa: la troika, conosciuti i suoi avversari, dovrà abituarsi al fatto che il salvataggio della Grecia non è solo una questione di tassi d’interesse, bond, rate di prestiti, sostenibilità dell’esposizione e rapporti debito/Pil. Tsipras, Varoufakis & C. metteranno sul tavolo delle trattative anche le lacrime dell’interprete senzatetto. Sono quelle il nuovo parametro su cui la Ue dovrà imparare a ridisegnare la sua politica economica.

Tsipras ha fatto davvero la cosa giusta. Perché le decisioni greche riguardano tutti noi». Il manifesto, 28 gennaio 2015, con postilla, rafforzativa

Appena rice­vuto l’incarico per for­mare il nuovo governo, Tsi­pras ha fatto due cose per niente for­mali: è andato a Kesa­rianì, dove, nel 1944 200 par­ti­giani greci furono fuci­lati da fasci­sti e nazi­sti, e si è rifiu­tato — primo pre­si­dente del con­si­glio nella sto­ria del paese – di baciare la Bib­bia e ingi­noc­chiarsi davanti al capo della Chiesa Orto­dossa. Tanto per chia­rire gli equi­voci che avreb­bero potuto nascere sulla scelta com­piuta: l’accordo con Panos Kam­me­nos, lea­der di Anel, i greci indi­pen­denti fuo­ru­sciti da «Nuova Demo­cra­zia», 13 depu­tati deci­sa­mente di destra e osse­quienti alla religione.
Equi­voci infatti nell’immediato ce ne sono stati. Quando la noti­zia della deci­sione ha comin­ciato a dif­fon­dersi ero ancora ad Atene e ho così potuto con­di­vi­dere con qual­che com­pa­gno di Siryza le rea­zioni all’accaduto. Inu­tile negare: sor­presa, imba­razzo, anche incom­pren­sione. Peg­gio quando ho incro­ciato gli ita­liani della Bri­gata Kali­mera che si erano attar­dati a rien­trare in patria dopo la festosa not­tata di dome­nica. Dio mio, il patto del Nazareno?

Io credo che il nostro com­pa­gno Ale­xis abbia fatto la cosa giu­sta. E da quel che mi dicono al tele­fono gli stessi che lunedì mat­tina mani­fe­sta­vano le loro per­ples­sità mi sem­bra che, nel suo insieme, il par­tito, pas­sato il primo momento, abbia capito il senso della scelta com­piuta da Tsipras-primo mini­stro. Che peral­tro non tra­di­sce il man­dato del comi­tato cen­trale di Siryza, l’ultimo prima del voto: nes­sun com­pro­messo con chi ha fir­mato l’odioso Memo­ran­dum della Troika. Gli unici a non averlo fatto – se si esclu­dono i fasci­sti di Alba dorata – sono pro­prio quelli di Anel. Anche il Kke, natu­ral­mente, che con i suoi ben 15 depu­tati avrebbe potuto costi­tuire la più ovvia delle alleanze. Ma sapete tutti che gli ultimi filo­so­vie­tici (chissà di quale Urss), sin dall’inizio hanno detto che non avreb­bero mai col­la­bo­rato con un governo di Siryza per­ché pro-europea. Salvo, subito dopo la sua cla­mo­rosa vit­to­ria, aprire uno spi­ra­glio ad un voto posi­tivo su sin­goli prov­ve­di­menti che «il popolo» (cioè il Kke) giu­di­cherà buoni. Troppo poco per for­mare il governo, che aveva biso­gno, subito, di almeno altri due depu­tati, non male in prospettiva.

Lasciamo da parte l’equazione più assurda ( quella Tsi­pras = Renzi), pur evo­cata da qual­che scon­si­de­rato twit­ter, e per due buone ragioni: Siryza ha fatto una cam­pa­gna elet­to­rale in cui la sua iden­tità di sini­stra è stata sem­pre riaf­fer­mata con grande forza e , coe­ren­te­mente, il suo pro­gramma è tutto mirato a dare rap­pre­sen­tanza agli inte­ressi dei più poveri (il con­tra­rio del job act, come è stato scritto). Inol­tre il com­pro­messo con Anel è lim­pido e «di scopo»: chia­ra­mente limi­tato alla duris­sima con­trat­ta­zione con la troika.

Si tratta di una scelta molto dura, corag­gio­sis­sima e anche rischiosa come tutto ciò che si fa per corag­gio. Sarebbe stata più facile una pru­dente alleanza con i cen­tri­sti, che avreb­bero però con­di­zio­nato il governo pesan­te­mente, spin­gen­dolo ad una logo­rante media­zione, e poi a un par­ziale cedi­mento. Era quello che auspi­cava Bru­xel­les. Tsi­pras ha deciso invece di andare al brac­cio di ferro. Per­chè quello che Siryza chiede non è un aggiu­sta­mento un po’ meno rigo­roso, ma un muta­mento sostan­ziale della linea di poli­tica eco­no­mica dell’Unione Euro­pea. Per que­sto non si è limi­tata a chie­dere una dila­zione nel paga­mento del pro­prio debito ma una Con­fe­renza straor­di­na­ria che affronti il pro­blema della crisi, non solo della Gre­cia, in tutta la sua com­ples­sità. Vale a dire l’occasione per affron­tare non solo le maga­gne gre­che, ma anche quelle degli altri paesi, per varare regole nuove e diverse da quelle sta­bi­lite nel 2012 dal trat­tato sui bilanci. A comin­ciare da una uni­fi­ca­zione della poli­tica fiscale, per porre fine alla pra­tica del dum­ping alle­gra­mente usata dai più forti, e di un più intel­li­gente rap­porto fra livello del defi­cit e livello degli investimenti.

È ben para­dos­sale che la troika, e con lei tutti i c.d. ben­pen­santi euro­pei­sti, stia facendo due cose asso­lu­ta­mente con­trad­dit­to­rie: accu­sare la Gre­cia di aver sper­pe­rato danaro e per­fino di aver fal­si­fi­cato i pro­pri bilanci e insieme auspi­care che restino al comando pro­prio gli stessi col­pe­voli di que­sta ban­ca­rotta frau­do­lenta.

Non potrebbe esserci prova migliore che quanto inte­ressa Bru­xel­les non è la sorte dell’Europa, ma la sal­va­guar­dia degli inte­ressi che difen­dono, gli stessi che serve Sama­ras e i governi che oggi det­tano legge nell’Unione. I quali sono respon­sa­bili di gran parte del debito accu­mu­lato da Atene: la tra­ge­dia di Ace­bes, dove un F16 greco è pre­ci­pi­tato pro­du­cendo un disa­stro, è dram­ma­ti­ca­mente lì a ricor­dar­celo nel giorno in cui Ale­xis diventa primo mini­stro. Chi mai ha insi­stito per­ché que­gli aerei venis­sero acqui­stati? La logica è sem­pre la stessa, da quando il pro­blema del debito, negli anni ’80, è esploso in Africa e Ame­rica latina: i governi occi­den­tali hanno agito come i «puscher» con la droga, aprendo le loro borse al cre­dito per­ché paesi che ave­vano ben altre prio­rità acqui­stas­sero merci e ser­vizi super­flui, impe­gnan­dosi il patri­mo­nio pub­blico.

Ho detto che la scelta di non annac­quare il con­fronto con Bru­xel­les è molto corag­giosa, per­chè c’è da atten­dersi una rispo­sta duris­sima. Le prove per Tsi­pras e l’intera sini­stra greca saranno dif­fi­ci­lis­sime e la nostra soli­da­rietà — se saprà essere det­tata dalla testa oltre che dal cuore — essen­ziale. Ben sapendo tutti che per vin­cere non basterà respin­gere il dik­tat della troika, ma avviare un modello di pro­du­zione, di con­sumo, di orga­niz­za­zione della società diverso da quello attuale: una mag­giore liqui­dità se si con­ti­nue­ranno a fare le stesse cose — super­mar­ket, spe­cu­la­zione edi­li­zia, spreco — non ser­virà a molto. Per que­sto non basta invo­care poli­ti­che key­ne­siane di inter­vento pub­blico, occorre anche indi­care quale e per quale tipo di svi­luppo. A que­sto pro­getto Anel non ser­virà, ma c’è tempo per creare, nella società oltre che in par­la­mento, un con­senso sui pro­getti di più lungo periodo. È un tema che dovrà essere al cen­tro della rifles­sione di tutta «L’altra Europa», per­ché non riguarda solo la Gre­cia, ma tutti noi. Ne abbiamo abba­stanza per i pros­simi anni.

Intanto, forza com­pa­gni di Siryza, per ora si è almeno sve­lata la stu­pi­dità di Bru­xel­les che si com­porta come Buri­dano (o Mel­chi­se­decco, non ricordo) col suo asino: «Che pec­cato — aveva escla­mato — pro­prio ora che gli avevo inse­gnato a non man­giare, è morto».
P.S. Il mini­stero della difesa in mano ad Anel? Vista la tra­di­zione greca, crearsi qual­che punto d’appoggio con­tro even­tuali avven­ture dei mili­tari, non è un brutta idea.

postilla

Parole di saggezza quelle di Castellina. Anzi, di semplice buonsenso. La priorità assoluta della politica di Syriza non può non essere una trattativa vincente con l'Unione europea: se in questa trattativa Tsipras non porta a casa un successo il suo governo non è in grado di mantenere nessuno degli altri impegni. Se l'Anel è l'unico dei gruppi parlamentari contrario all'austerity, e se il PKK ha risposto "forse domani, chissà" che altro si poteva fare? Del resto, in un accordo politico (in un compromesso tattico) il confronto tra i 149 deputati di Syriza e i 13 di Anel non lascia dubbi sulla direzione di marcia del governo Tsipras. Chi poi faccia confronti tra l'alleanza parlamentare di Tsipas e le "larghe intese"di <renzu non ha capito nè chi è l'uno nè chi è l'altro.

La Repubblica, 27 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.

Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.
Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato.
La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).
Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso. Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.
E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale.
Traduzione di Fabio Galimberti

La Repubblica, 27 gennaio 2014 (m.p.r.)

Grosseto. Al suo posto, una sedia vuota. Francesco Schettino non si è presentato ieri in aula al teatro Moderno di Grosseto, ma il conto è arrivato lo stesso. Il pm Maria Navarro, si ferma un momento nella requisitoria, mezzogiorno passato da poco. Riprende fiato, un sorso d’acqua da un bicchiere e comincia l’affondo: chiede una condanna a 26 anni per il comandante di Costa Concordia, più tre mesi di arresto, più una misura cautelare «per il pericolo di fuga». «Schettino ha girato il mondo, potrebbe non avrebbe difficoltà a trovare un appoggio fuori dall’Italia» spiega alla corte.

Su quella sedia vuota pesa l’assenza del comandante, nei momenti difficili lui non c’è. È stato così anche la notte del 13 gennaio 2012, «quando pensava che la nave si sarebbe potuta ribaltare, è salito con gli ufficiali sulla lancia abbandonando i passeggeri al loro destino» ha detto uno dei tre pm nelle udienze che hanno portato qui. Nove anni per naufragio colposo, «solo per caso o per la provvidenza» quel disastro costato 32 morti, centinaia di feriti e milioni di danni, «non è sfociato in un’ecatombe» ha aggiunto Navarro ricordando che a bordo del transatlantico c’erano 4.229 persone. Quattordici anni per omicidio e lesioni plurime colpose (la pena più grave, la morte della piccola Dayana Arlotti), tre per abbandono di incapaci e della nave (delitti dolosi). Infine tre mesi di arresto per le bugie alla capitaneria: «Abbiamo un black out a bordo» fece dire ai suoi ufficiali quando la pancia della nave era già squarciata dalla roccia del basso fondale dell’isola del Giglio sul quale Concordia arrivò a 16 nodi.
«Dio abbia pietà di Schettino perché noi non possiamo averne alcuna» ha scandito il pm Stefano Pizza. Le «menzogne spudorate», la «mancanza di pentimento», l’aver cercato «di scaricare la responsabilità sui suoi collaboratori o sul timoniere che non aveva eseguito gli ultimi confusi ordini», la rotta cambiata per «fare un favore al capocameriere », l’emergenza data in ritardo, gli estranei in plancia, la violazione di altre regole, sono alcune delle cause che hanno portato al disastro e che sono state ricostruite dai tre pm (aveva cominciato Alessandro Leopizzi due udienze fa).
Schettino è stato definito ieri da Pizza «un incauto idiota », il pubblico ministero ha sottolineato che «l’abbandonare per ultimo la nave da parte del comandante non è solo un obbligo dettato dall'antica arte marinaresca, ma un dovere giuridico per ridurre al minimo i danni alle persone ». Ha persino citato Gramsci e i Quaderni del carcere. L’elenco delle violazioni contestate è lungo e approda alla richiesta complessiva di 26 anni di reclusione: «Quasi un ergastolo - ha commentato uno dei legali di Schettino, Donato Laino - Siamo rimasti tutti quanti sorpresi, qui si dà addosso a uno solo, è un processo snaturato. E poi la Cassazione ha già respinto tre anni fa la richiesta di arresto per pericolo di fuga». Laino parlerà nell’udienza del 5 febbraio. La sentenza potrebbe arrivare la settimana del 9.
Fra rabbia e dolore, le reazioni dei familiari delle vittime: «Dovevano chiedere 32 anni di reclusione, uno per ogni morto» ha scritto su Facebook, Brigitte Litzler, madre di Mylene Litzler, 23 anni, fidanzata di Michel Blemand, 25 anni, scomparsi nel naufragio. «Ventisei anni forse sono pochi» ha aggiunto il padre di Giuseppe Girolamo, il musicista pugliese che era sceso da una scialuppa per far posto a un bambino. E il marito di Maria Grazia Trecarichi, Elio Vincenzi dice sconsolato: «Ho provato per mesi a capire Schettino, ma credo abbia ragione il pm quando lo definisce un menefreghista», uno che pensa prima a se stesso.

fiscal compact». Lavoce.info, 26 gennaio 1014 (m.p.r.)

Chi ha "votato" per Syriza. E cho no

Certo, grazie all’euro, il mondo è diventato un posto ben singolare. Un partito di sinistra estrema prende il potere in Grecia, e di fatto la sua vittoria viene salutata positivamente da vari ambienti finanziari e accademici main stream, oltre che da governi e partiti politici europei che più lontani di così sul piano ideologico da Alexis Tsipras non potrebbero essere. Perfino il Financial Times – un giornale non esattamente noto per le sue posizioni filo-marxiste – ha di fatto caldeggiato la vittoria di Syriza, così come un serissimo economista dell’università di Oxford, per non dire di Thomas Piketty che ha affermato: «Syriza vuole costruire un’Europa democratica, che è proprio quello di cui tutti abbiamo bisogno».

Specularmente, alla faccia del riserbo e della correttezza istituzionale che dovrebbe caratterizzarne l’azione, il primo a esprimersi ufficialmente in merito ai risultati dell’elezioni greche non è stato un politico, ma il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ovviamente solo per dire che le elezioni greche non cambiano nulla e che pacta sunt servanda da qualsiasi governo. Un altro elemento paradossale è che tutto ciò c’entra relativamente poco con la Grecia e anche con la questione della fondatezza o meno della richiesta di Syriza di ristrutturare il debito. Su questo punto, e sul come eventualmente realizzarlo sotto il profilo tecnico, le opinioni divergono ancora.
La spiegazione è un’altra. La verità è che a parte un gruppo di inossidabili (ma assai influenti in patria) economisti ordo-liberali tedeschi, la stragrande maggioranza degli accademici e degli ambienti economici internazionali, compresi i principali governi dei paesi occidentali non appartenenti all’euro, si sono oramai convinti che così com’è l’Unione monetaria europea non va da nessuna parte, salvo che verso l’abisso.

La filosofia dell’austerity si è tradotta in politiche fiscali pro-cicliche (cioè eccessivamente restrittive) in un momento in cui ci sarebbe bisogno di tutt’altro, come non si stanca di ripetere Mario Draghi. È un’Unione monetaria sempre sull’orlo della deflazione e della recessione, che in due anni (2013-2014) ha buttato via circa il 10 per cento del suo Pil aggregato e lasciato a casa molti milioni di lavoratori in più di quanti “necessari” a mantenere il tasso di inflazione al 2 per cento (oggi siamo allo 0,3 per cento). Oltretutto, un’Unione monetaria sempre a rischio di dissolversi al suo interno, con impatti devastanti sul resto del mondo, non conviene a nessuno. La piccola Grecia, con tutti i suoi problemi e anche le sue responsabilità, è diventata dunque il simbolo di una modifica possibile nella conduzione della politica economica europea.

Le difficoltà di un compromesso possibile

Ma proprio questo è il problema. Ci sono ovvie ragioni economiche e di buon senso per trovare un accordo tra le richieste del nuovo governo greco, la Troika - cioè la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario - e il resto dei paesi europei. Del resto, da quello che si capisce dal programma di Syriza, le sue proposte non sono poi molto dissimili da quelle che erano già state considerate da funzionari dell’area euro nel 2012 e che sono più volte riemerse nella discussione successiva, cioè la cancellazione di parte del debito e un allungamento delle scadenze per il residuo (una sorta di piano Brady). Non sappiamo quanto sia chiaro a qualche plaudente o preoccupato politico di casa nostra, ma Tsipras non pretende (o almeno non pretende più e non pretende ora) un default totale della Grecia sul debito con soggetti esteri, quindi tutto a carico degli altri paesi europei. Default che sarebbe invece l’ovvia conseguenza di una eventuale (ma non desiderata da Syriza) uscita o “espulsione” della Grecia dall’euro (ammesso e non concesso che una espulsione sia possibile).

Di fatto, nessuno capisce davvero come la Grecia, anche con interessi artificialmente bassi e scadenze allungate, potrà mai restituire un debito che viaggia attorno al 180 per cento del Pil. Ma il punto è che tutti sanno che non si sta discutendo affatto della Grecia, e che un allentamento dei programmi di risanamento per questo paese si porterebbe inevitabilmente dietro una revisione delle politiche per tutta l’area, rimettendo in discussione i capisaldi del fiscal compact europeo e di conseguenza rilanciando l’idea di una politica espansiva, coordinata a livello europeo, che vada oltre il fumoso piano Juncker e i piccoli passi in merito alla flessibilità introdotti dalla Commissione europea.

Sul piano politico, questa revisione toglierebbe il fiato ai vari movimenti anti-euro nei paesi del Sud d’Europa, ma ne amplificherebbe i toni nel Nord e soprattutto in Germania, una cosa che non è chiaro se Angela Merkel può permettersi, dopo aver già dovuto ingoiare il Quantitative easing della Bce e dovendo fronteggiare i possibili veti della Corte costituzionale tedesca. Dunque, la partita è aperta e non è affatto detto che un compromesso, per quanto ragionevole sarebbe sperarlo, alla fine si trovi.
Resta il rammarico che tutto questa complessa battaglia politica ed economica avvenga sulle spalle di un paese che ha già pagato duramente per il sostegno dell’ortodossia economica europea.

La Repubblica, 26 gennaio 2015

«Quando lo scorso autunno, invitato da Alexis, sono andato ad Atene alla festa di Syriza mi ha colpito il fatto che quel movimento non è nato con l’idea di dar vita a un nuovo partito, bensì dalla necessità di dare risposte materiali (le cure sanitarie, i pasti quotidiani) alle persone. Questa è la grande novità. Questa è la forza di Syriza ma anche di Podemos in Spagna».

Maurizio Landini, leader della Fiom, è da molti considerato lo “Tsipras italiano”, pensa che pure in Italia si debba fare qualcosa di simile, porsi l’obiettivo - come dice - «di cambiare i processi e, contemporaneamente, puntare a governare il Paese con un progetto alternativo a quello della Bce e della Troika». In questo processo («che va oltre i partiti») - assicura - la Fiom ed egli stesso ci saranno.

Cosa significa, dal suo punto di vista, la vittoria di Tsipras per l’Europa e per l’Italia?
«Che finalmente, con un voto popolare e libero, si dimostra che le politiche di austerity della Troika non hanno il consenso delle persone. Questo non può non riaprire una discussione non sull’uscita dall’euro ma sulla costruzione di un’Europa fondata sull’uguaglianza e la giustizia sociale, cioè sui bisogni e le condizioni reali delle persone».

E per l’Italia cosa può voler dire?
«Il popolo greco ha scelto una piattaforma che è esattamente opposta a quella del governo italiano. Il governo Renzi sta completando il programma indicato dalla Bce nella famosa lettera dell’agosto 2011 e avviato con il governo Monti. Non c’è stata alcuna discontinuità. E d’altra parte Renzi è stato il presidente di turno dell’Europa ma nessuno se n’è accorto».

Lei ha inviato un messaggio alla convention di Sel sostenendo che serve «un progetto di cambiamento che nasca dalla società». Sta pensando a un nuovo partito o movimento della sinistra?
«In Italia è innanzitutto necessario recuperare la partecipazione delle persone alla politica. Poi bisogna ridare una rappresentanza ai problemi sociali ed essere in grado di porsi obiettivi di maggioranza».

Sembra Syriza... Ma la Fiom cosa c’entra? Non è un sindacato?
«Nella sua autonomia la Fiom, che continua ad essere e a fare il sindacato, è dentro questo processo perché è interesse anche della Fiom un cambiamento radicale delle politiche europee».

Dunque la Fiom e Landini potrebbero aderire al coordinamento della sinistra che ha lanciato Vendola?
«Non è questo il punto, non è questo che mi interessa. Guardi, l’unica iniziativa che è stata in grado di esprimere una opposizione alle politiche economiche e sociali del governo è stato lo sciopero generale della Cgil del 12 dicembre scorso. Ecco, si deve dare continuità a quella mobilitazione ».

Lei si candida a diventare lo Tsipras italiano?
«Non ci ho mai pensato».

Pensa, in ogni caso, che l’esperienza di Syriza possa essere replicata in Italia?
«Ogni Paese ha la sua storia, le cose non si replicano mai. Ma certo anche in Italia non c’è consenso sulle politiche di austerity. Ecco io mi domando: cosa posso fare, cosa può fare la Fiom per cambiare le politiche di un governo che non ha scelto nessuno e che ha fatto i patti con i poteri forti? ».

Una scissione nel Pd aiuterebbe la formazione di un movimento alternativo di sinistra?
«Non so, né mi interessa. I processi nei partiti li decideranno i partiti stessi. Voglio dirlo in maniera secca: la ragione della crisi della sinistra risiede nel fatto che non c’è più la sinistra».

Dunque il Pd di Renzi non è di sinistra?
«Beh, è di sinistra chi cancella lo Statuto dei lavoratori? Chi dice che si può liberamente licenziare? Chi propone e poi ritira la depenalizzazione della frode fiscale? Tutto questo non ha nulla a che fare con la sinistra. La sinistra o è sociale o non è».

Il Financial Times si è domandato se Tsipras è un realista o un radicale. Secondo lei?
«Mi sembra un realista radicale. Mentre radicali ed estremiste sono le politiche di austerity frutto del pensiero unico europeo».

Il manifesto, 26 gennaio 2015

Per tutta la vita Glazo si è sfor­zato di imma­gi­nare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desi­de­rio di andare a vedere Ausch­witz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata ster­mi­nata parte della mia fami­glia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accon­tenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bic­chiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più gio­vane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viag­gio della memo­ria, orga­niz­zato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 stu­denti e inse­gnanti imbar­cati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno rico­no­sciuto il nome di qual­che parente, nel lungo elenco espo­sto nel Blocco 13 del primo Campo.

In fuga perenne

Fu suo zio a sopran­no­mi­narlo Glazo, «da glas, bic­chiere, per­ché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle per­sone il nome delle cose che li cir­con­dano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Gal­liano, classe 1949, di Prato ma mila­nese di nascita, per sal­varsi la vita hanno dovuto pren­dersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liu­taio Nello Leh­mann, sce­gliendo il nome di un vio­lino di ori­gine napo­le­tana e sfug­gendo così al Por­ra­j­mos, la «Deva­sta­zione», lo ster­mi­nio delle mino­ranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludo­vico Leh­mann, anch’egli liu­taio, all’inizio del ’900 lasciò Ber­lino con i suoi cin­que figli per sfug­gire alla repres­sione della poli­zia tede­sca. Discen­dente della nume­rosa fami­glia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 per­sone in tutta Ita­lia e alcune cen­ti­naia in giro per l’Europa», Paolo Gal­liano è cre­sciuto giro­vago tra arti­sti, arti­giani e musi­ci­sti, e si è sta­bi­liz­zato a Prato solo una tren­tina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascol­tato le sto­rie dei suoi parenti dai nomi tede­schi — anche Rosen­feld, Win­ter, Hof­f­mann — impri­gio­nati nei campi di con­cen­tra­mento per zin­gari di Agnone o di Bol­zano e poi spe­diti a Mathau­sen o diret­ta­mente ad Ausch­witz. «Non è tor­nato nes­suno, solo una volta ho cono­sciuto una cugina di mio padre che aveva sul brac­cio il numero degli inter­nati e mi rac­con­tava di aver visto tutta la sua fami­glia in fila verso i forni cre­ma­tori». La parente del signor Gal­liano è una dei rari testi­moni diretti del “geno­ci­dio degli zin­gari”, mira­co­lo­sa­mente scam­pata e libe­rata dai sovie­tici nel giorno di cui ricorre domani il set­tan­te­simo anniversario.

Lo ster­mi­nio

Una sto­ria quasi sco­no­sciuta, quella del Por­ra­j­mos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricer­ca­tore di Sto­ria presso l’Università di Chieti che ha accom­pa­gnato in viag­gio gli stu­denti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popo­la­zione pre­sente nei ter­ri­tori occu­pati dal Reich in quel periodo». E «non è un con­teg­gio pre­ciso per­ché all’inizio del 1942, prima dei campi di ster­mi­nio veri e pro­pri, come gli ebrei, gli zin­gari veni­vano fuci­lati sul posto, appena arre­stati». Solo «ad Ausch­witz sono morti in 23 mila e lo sap­piamo per­ché un pri­gio­niero riu­scì a sal­vare il libro mastro dove veni­vano anno­tati i nomi delle per­sone che vive­vano nello Zigeu­ner­la­ger di Bir­ke­nau prima della sua liqui­da­zione totale, che avvenne nella notte del 2 ago­sto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».

La «razza pericolosa»

Abo­mini com­messi in nome dell’«igiene raz­ziale» garan­tita in Ger­ma­nia dalle unità del Reich dirette dallo psi­chia­tra infan­tile Robert Rit­ter che, rac­conta ancora Bravi, «dedicò anni a stu­diare la peri­co­lo­sità sociale di que­ste popo­la­zioni, indi­vi­duata in una carat­te­ri­stica ere­di­ta­ria che era l’istinto al noma­di­smo e l’asocialità». Stesse tesi soste­nute in Ita­lia dall’antropologo Guido Lan­dra, i cui “studi” soste­ne­vano le leggi raz­ziali di Mus­so­lini.

Tra il 1940 e il ’43 il regime fasci­sta emana l’ordine di arre­sto di tutti i Rom e Sinti ita­liani e non, e il loro tra­sfe­ri­mento in spe­ci­fici campi di con­cen­tra­mento. «Se non fosse arri­vato l’8 set­tem­bre quelle per­sone sareb­bero sicu­ra­mente tran­si­tate verso i campi di ster­mi­nio tede­schi, i col­le­ga­menti c’erano e i docu­menti pro­vano que­sta linea­rità - spiega Bravi - Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fasci­sti salta com­ple­ta­mente, rie­scono a fug­gire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di com­pe­tenza della Repub­blica sociale, ven­gono arre­stati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathau­sen». Qual­cuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai par­ti­giani, come dimo­strano le sto­rie del pie­mon­tese sinto Amil­care Debar o di Wal­ter Vampa Cat­ter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre cir­censi, gio­strai e tea­tranti tru­ci­dati dalle Ss tra i dieci mar­tiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».

Una memo­ria taciuta

Eppure del Pur­ra­j­mos restano poche tracce nella memo­ria col­let­tiva. Per­ché, fa notare Bravi, «la memo­ria ha biso­gno di un con­te­sto sociale dispo­sto ad ascol­tare». In Ger­ma­nia, «lo ster­mi­nio raz­ziale degli zin­gari è stato rico­no­sciuto solo negli anni ’90 e il primo memo­riale è stato inau­gu­rato alla pre­senza di Angela Mer­kel vicino al Rei­ch­stag di Ber­lino solo due anni fa». In Ita­lia invece «la per­ma­nenza dello ste­reo­tipo dei Rom come nomadi, e quindi come peri­co­losi, ali­menta la poli­tica dei campi che con­ti­nua a tenere que­ste per­sone distanti, ad esclu­derle, anche dai diritti di cit­ta­di­nanza. I pre­giu­dizi di oggi sono esat­ta­mente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca sto­rica è «par­tita in ritar­dis­simo»: «Da noi i docu­menti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, gra­zie al pro­getto Memors finan­ziato dall’Unione euro­pea che ha per­messo anche l’apertura del primo museo vir­tuale ita­liano sul tema, www.porrajmos.it».

Eppure, con­clude Bravi, «il rac­conto del geno­ci­dio dei Sinti e dei Rom c’è sem­pre stato all’interno delle comu­nità ma dif­fi­cil­mente viene ripor­tato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di que­sta memo­ria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che que­sta nostra sto­ria possa essere trat­tata come spaz­za­tura, come trat­tano noi”».

La Repubblica, 26 gennaio 2015, con postilla

Sventolano ad Atene le bandiere rosse, si levano i pugni chiusi, si cantano “Bella Ciao” e altri inni partigiani. C’è molta Italia a festeggiare Alexis Tsipras e del resto il leader oggi trionfante aveva attraversato l’Adriatico e offerto se stesso, in occasione del voto europeo, per fare opera di contaminazione. Poi tutto era stato ridimensionato dal 40,8 per cento di Renzi, con quella promessa di «cambiare verso all’Europa» che in quel momento aveva fatto del giovane premier in carica da tre mesi lo Tsipras italiano.

In realtà la nuova sinistra che guarda adesso alla Grecia come a un ricostituente, magari a un bagno di gioventù, è reduce da una lunga serie di insuccessi. Per cui non basterà gridare «facciamo come loro» per sentirsi pervasi da un benefico flusso di energia greca. Luciana Castellina ha detto con un filo di ironia che assistere agli straordinari eventi ateniesi equivale a «farsi una canna politica». Senza dubbio è così, ma quando si esaurisce l’effetto allucinogeno delle emozioni, resta un bilancio amaro.

Se si vuole riavvolgere il nastro, si incontrano le varie tappe di una storia italiana che è ben diversa da quella greca. La non-vittoria di Bersani nelle elezioni del 2013, il progressivo appannamento della sinistra del Pd, il fallimento della lista Ingroia (Rivoluzione Civile), l’esclusione della sinistra radicale dal Parlamento nel 2008, quando l’alleanza Arcobaleno, mal pensata e mal costruita, rimase al di sotto della soglia. Per trovare una storia di successo bisogna tornare a Bertinotti e agli anni d’oro di Rifondazione Comunista, in una cornice storica forse non ripetibile. Poi fu lo stesso Bertinotti a capire che quell’esperienza si era esaurita e che nel futuro occorreva un’intuizione, un colpo d’ala. Ma l’idea l’ha avuta Tsipras in Grecia - aiutato dalle circostanze - invece di uno dei tanti piccoli leader delle varie sinistre italiane.

Ieri Nichi Vendola, a lungo considerato un fantasioso costruttore di geometrie politiche, ha concluso i tre giorni di Human Factor, tentativo di fare del “surf” sull’onda greca e di accendere qualche entusiasmo anche qui da noi. Ma non sembra che l’operazione abbia dato i frutti sperati. Si è capito che la nascita di un nuovo raggruppamento alla sinistra del Pd, in grado di riunire tanti spezzoni incapaci di espandersi, non è per domani e nemmeno per dopodomani.

Gli stessi scissionisti del Pd sono entità misteriose, a cominciare da Civati che preferisce restare nel partito renziano alla pari di Bersani e di tanti altri. E poi nessuno è sicuro che l’ennesima scissione ovvero una nuova alleanza tra personaggi più o meno logorati sia la ricetta giusta. Probabilmente sarebbe solo un’altra edizione della Sinistra Arcobaleno già sconfitta nelle urne: magari stavolta sarebbe salvata dalla soglia del 3 per cento, ma c’è da credere che non è questo il sogno dei sostenitori nostrani di Tsipras.

La verità è che il leader greco ha completamente rovesciato il paradigma politico, non si è limitato a battere vecchie strade. Che mantenga o no le sue promesse, lo vedremo. Il fatto che il terzo partito ad Atene siano i neo-nazisti di Alba Dorata è inquietante per tutti e soprattutto per il vincitore. In ogni caso Syriza non è una riedizione di Rifondazione Comunista, come vorrebbero suggerire alcune bandiere esposte nella serata della vittoria. Syriza è un esperimento che ha puntato tutte le carte sulla lotta alla politica tedesca dell’austerità e del rigore economico.

In Italia nessuno ha avuto il coraggio di imboccare lo stesso cammino con altrettanta determinazione. Del resto, al di là dei giochi di prestigio mediatici, la linea italiana non è e non può essere quella greca. Così come il renzismo è una prassi politica assai diversa da quella a cui pensa il vincitore di Atene. Semmai l’abilità di Renzi è di impedire che nasca qualcosa di rilevante alla sua sinistra, una Syriza italiana.

postilla

Di questa analisi, indubbiamente acuta, del confronto tra l'evento greco e la sinistra italiana, colpiscono due cose: 1) nella descrizione della sinistra italiana si trascura del tutto il successo, alle elezioni europee, della lista "L'altra Europa con Tsipras"; 2) si attribuisce a Renzi un ruolo e una posizione confrontabili con quelli di Alexis Tsipras.

1)Oscurare il ruolo della formazione politica guidata da Barbara Spinelli è un peccato ricorrente dei mass media italiani i quali, aiutando l'infame normativa italiana per le elezioni europee, hanno contribuito a rendere particolarmente arduo il raggiungimento del risultato elettorale nel maggio scorso. Occorre dire che la confusione che regna nell'azione dei successori di quella lista aiuta gli osservatori esterni a persistere nell'errore.
2) Sostenere invece che il renzismo sia solo «una prassi politica assai diversa» da quella di Tsipras è un grave errore di lettura della realtà. Tra Renzi e Tsipras c'è un profondo abisso culturale e pienamente politico: sono l'opposto l'uno dell'altro per quanto riguarda ideologia, strategia, proposta politica, schieramento nell'orizzonte locale, europeo e globale. Scusate se è poco.
ne presentiamo tre: di Norma Rangeri, Pavlos Nerantzis e Jacopo Rosatelli. Il manifesto, 26 gennaio 2015
MISSIONE POSSIBILE
di Norma Rangeri

Per cam­biare il voca­bo­la­rio poli­tico dell’Europa dell’era neo­li­be­ri­sta, per tagliare il ramo secco dell’austerity e tor­nare alle radici euro­pee ori­gi­na­rie, fonte della demo­cra­zia, dob­biamo tor­nare alla scuola di Atene che oggi vive la sto­rica vit­to­ria della sini­stra nuova di Syriza e del suo gio­vane lea­der Ale­xis Tsipras.

Le cro­na­che rac­con­tano che nella piazza Omo­nia di Atene, dove Tsi­pras ha tenuto l’ultimo grande comi­zio della vigi­lia, c’era tanta gente comune, lon­tana dalla poli­tica attiva, senza ban­diere né slo­gan. Era il segnale tan­gi­bile che qual­cosa si era mosso nelle pro­fon­dità della società greca. Del resto i son­daggi delle ultime ore indi­ca­vano che la vit­to­ria di Tsi­pras sarebbe stata ali­men­tata da un voto che arri­vava a Syriza da tutta la popo­la­zione, anche da quei greci che alle ultime ele­zioni del 2012 ave­vano votato per la destra spe­rando di tro­vare così una via d’uscita alle loro sof­fe­renze. C’era chi pre­ve­deva che un 10 per cento dei con­sensi sareb­bero venuti da quella parte di Nuova Demo­cra­zia ostile all’estremismo libe­ri­sta del pre­mier uscente Sama­ras. Gente per nulla di sini­stra, ma che, que­sta volta, voleva punire un governo col­pe­vole di avere decur­tato pen­sioni e sti­pendi por­tan­doli a livelli di sussidi.

D’altra parte quando superi il 35 per cento dei con­sensi vuol dire che i voti ti arri­vano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di fami­glie ridotte in povertà, da quei cit­ta­dini che in massa fanno la fila per rime­diare medi­ci­nali e cibo. Se la nostra media della disoc­cu­pa­zione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfon­dato il 26 per cento, più del dop­pio, e si cal­cola che un milione e mezzo di occu­pati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di con­na­zio­nali ridotti alla sussistenza.

Ormai si orga­niz­zano viaggi di stu­dio per vedere e capire come Syriza sia riu­scita a orga­niz­zare 400 cen­tri di ero­ga­zione di ser­vizi sociali in tutto il paese. Si resta incre­duli a sen­tire che si può com­prare un appar­ta­mento per 5.000 euro, che il cata­sto è inser­vi­bile, ma che gli arma­tori sono ancora i poten­tis­simi padroni di Atene.

Que­sto paese distrutto dalla guerra eco­no­mica e gover­nato dalla Troika oggi trova la forza di riac­ciuf­fare la speranza. Dando fidu­cia a una forza di sini­stra nuova, impe­gnata in tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale a fianco dei più deboli, con un pro­gramma poli­tico che fa della rine­go­zia­zione del debito e la can­cel­la­zione dei Memo­ran­dun la leva a cui aggan­ciare un’agenda di prov­ve­di­menti molto pre­cisi: tetto minimo di 700 euro agli sti­pendi, tre­di­ce­sima per le pen­sioni minime, can­cel­la­zione di tasse sulla casa e blocco delle aste giu­di­zia­rie, ban­che con­trol­late dallo stato, patri­mo­niale sulle grandi ric­chezze cre­sciute all’ombra della crisi.

Una pro­po­sta di governo ormai cono­sciuta come il “pro­gramma di Salo­nicco” che Tsi­pras ha pro­messo di per­se­guire a pre­scin­dere da come andrà la trat­ta­tiva con le isti­tu­zioni europee. Di fronte allo sfa­scio di un paese che nella sua sto­ria recente ha cono­sciuto pagine dram­ma­ti­che fino al colpo di stato dei colon­nelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbar­rato la strada alla destra ever­siva è un risul­tato che sarebbe imper­do­na­bile sot­to­va­lu­tare anche solo sem­pli­ce­mente sotto il pro­filo della difesa democratica.

Una destra sem­pre pre­sente (con i neo­na­zi­sti di Alba Dorata che con­ten­dono il terzo posto al rag­grup­pa­mento di cen­tro­si­ni­stra To Potami), per­ché se Tsi­pras dovesse fal­lire, in Gre­cia arri­verà l’estrema destra. Lo sanno bene le can­cel­le­rie inter­na­zio­nali che si spin­gono a pur caute aper­ture verso una trat­ta­tiva, come dimo­stra la linea aper­tu­ri­sta del Finan­cial Times.

Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Fran­cia all’Ucraina, con la natura vio­lenta, iso­la­zio­ni­sta, xeno­foba, nazio­na­li­sta delle destre che si stanno rior­ga­niz­zando, potrà essere fer­mato solo da un rapido, bene­fico con­ta­gio del vento greco, da una cosmo­po­lita sini­stra euro­pea di nuova gene­ra­zione (fis­sata nell’immagine, a piazza Omo­nia, dell’abbraccio tra Tsi­pras e Igle­sias, lea­der di Podemos).

Una sini­stra che cita molto Gram­sci, che ha solide radici a sini­stra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre nove­cen­te­sche, capace di rin­no­vare radi­cal­mente modelli par­ti­tici, lea­der­ship e cul­ture politiche. La vit­to­ria di Syriza è solo l’inizio di un per­corso pieno di trap­pole, osta­coli, con­trad­di­zioni. Pren­dersi la respon­sa­bi­lità di gover­nare un paese distrutto sem­bra quasi una mis­sione impossibile.

Nel libro di Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, “Ale­xis Tsi­pras, la mia sini­stra”, il lea­der di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scom­messa enorme, simile a quella del Bra­sile di Lula» e avverte che «non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale dei nostri soste­ni­tori, abbia assor­bito idee con­ser­va­trici». Dun­que con­sa­pe­vo­lezza della prova che l’attende e deter­mi­na­zione nel per­se­guire l’obiettivo «che oggi non è il socia­li­smo ma la fine dell’austerità».

Ma que­sti sono i momenti della festa, della svolta, della vit­to­ria con­tro­mano, della bel­lis­sima rivin­cita che la Gre­cia si prende dopo sei anni vis­suti come una pic­cola cavia nel grande labo­ra­to­rio tede­sco. Un paese da punire in modo esem­plare per edu­care tutti gli altri: se non volete finire come la Gre­cia ingo­iate l’amara medi­cina dei tagli a salari e pen­sioni (anche noi abbiamo assag­giato que­sta fru­sta e ingo­iato que­sta pil­lola). Il debito vis­suto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre pos­si­bi­lità) con tutto l’armamentario dei luo­ghi comuni che ancora oggi sen­tiamo ripe­tere in tv e leg­giamo sui giornali.

Ora dob­biamo atten­derci un ampio fuoco di sbar­ra­mento con­tro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la pro­spet­tiva e rimette la realtà con i piedi per terra.

Quando nel feb­braio dello scorso anno Tsi­pras venne in Ita­lia in vista delle ele­zioni euro­pee, come prima tappa fece visita alla reda­zione del mani­fe­sto (Renzi non trovò il tempo di rice­verlo). Ci parlò a lungo del cam­mino verso una sini­stra unita e di quello che poi sarebbe diven­tato il pro­gramma di governo. Ci regalò una pic­cola barca di por­cel­lana della col­le­zione del museo Benaki, quasi un auspi­cio, un pro­no­stico. Due colo­ra­tis­sime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspi­cio e forse un pro­no­stico. Ora è una realtà sulla quale la sini­stra ita­liana dovrebbe riflet­tere molto. E anche in fretta.

NIKISSAME! È UNAVITTORIA NETTA

di Pavlos Nerantzis

«Nikis­same! Nikis­same!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeg­gia­vano ieri i greci radu­nati nei vari cen­tri elet­to­rali di Syriza ad Atene, a Salo­nicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radi­cale, un vento pro­gres­si­sta in Gre­cia, un mes­sag­gio per un’altra Europa da riflet­tere al resto del vec­chio continente.

Alle 7 di dome­nica sera, subito dopo la chiu­sura delle urne, la buona noti­zia: Syriza appa­riva chia­ra­mente come il par­tito vin­cente, secondo i primi exit-poll. La sini­stra radi­cale ha otte­nuto una vit­to­ria di dimen­sioni sto­ri­che in Gre­cia, in Europa, rac­co­gliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la cer­tezza di poter for­mare un governo monocolore. Scon­fitta la Nea Dimo­kra­tia che rac­co­glieva, sem­pre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.

Nelle ele­zioni più impor­tanti degli ultimi decenni, ha vinto la spe­ranza nel cam­bia­mento e con essa la dignità, l’ orgo­glio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacri­fici negli ultimi anni. Hanno vinto la demo­cra­zia, la giu­sti­zia sociale, la solidarietà.

Hanno perso la paura pro­mossa dai con­ser­va­tori, dai cre­di­tori inter­na­zio­nali, da chi vede nelle sini­stre il dia­volo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risa­na­mento eco­no­mico del Paese hanno pro­vo­cato que­sta crisi uma­ni­ta­ria senza pre­ce­denti, la reces­sione, la depres­sione col­let­tiva, la vio­la­zione di leggi e di vite umane.

Verso le 10 di sera i risul­tati non erano ancora defi­ni­tivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia con 76 seggi. Al terzo posto i nazi­sti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comu­ni­sti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indi­pen­denti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.

Non sono riu­sciti a supe­rare la soglia del 3% e riman­gono fuori dal par­la­mento il Movi­mento dei socia­li­sti demo­cra­tici, fon­dato dall’ ex pre­mier Yor­gos Papan­dreou (2,5%, la Sini­stra demo­cra­tica, gia com­po­nente del Syriza e ex part­ner del governo di coa­li­zione di Anto­nis Sama­ras (0,5%) e Antar­sya, for­ma­zione della sini­stra (0,6%).

Oltre alla pre­oc­cu­pa­zione che ha pro­vo­cato a tutti il man­te­ni­mento della forza elet­to­rale dei nazi­sti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riu­scita a for­mare un governo mono­co­lore e in secondo luogo se Ale­xis Tsi­pras avrebbe pre­fe­rito una mag­gio­ranza debole (150–151 seggi sui 300) e la dimi­nu­zione della sua forza di trat­tat­tiva nei con­fronti dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, oppure una col­la­bo­ra­zione con un’ altra forza poli­tica che di fatto avrebbe limi­tato la sua forza poli­tica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimi­tris Stra­tou­lis, diri­gente del Syriza, «ma se con­ti­nuano a rispon­dere nega­ti­va­mente, trat­te­remo con altre forze politiche».

Secondo fonti di Syriza, la sini­stra radi­cale esclude ogni col­la­bo­ra­zione con le forze pro-memorandum (Nea Dimo­kra­tia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ even­tua­lità di una coo­pe­ra­zione con i Greci indi­pen­denti, il par­tito di destra nazio­na­li­stico, l’ unico ad essere chia­ra­mente anti-memorandum.

A parte le even­tuali alleanze post-elettorali, a sen­tire i diri­genti di spicco del Syriza ai talk-show tele­vi­sivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sini­stra radi­cale, hanno preso una grande boc­cata di ossi­geno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono con­sa­pe­voli delle dif­fi­coltà, che il nuovo governo dovrà affron­tare; ma a sen­tire que­sta gente che ieri gri­dava vit­to­ria per le strade di Atene, «Tsi­pras durante i nego­ziati con la troika avra un ottimo alleato».

Piena sod­di­sfa­zione tra gli atti­vi­sti della «Bri­gata kali­mera» radu­nata in piazza Kla­th­mo­nos nel pieno cen­tro di Atene. Smen­tita la tele­fo­nata di Mat­teo Renzi a Tsi­pras, men­tre la prima rea­zione da Ber­lino è arri­vata da Jens Weid­mann, pre­si­dente della Bun­de­sbank, la Banca cen­trale tede­sca, da sem­pre custode del rigore del bilan­cio e avver­sa­rio di Mario Dra­ghi, il quale ha detto con toni minac­ciosi che «gli aiuti eco­no­mici verso Atene con­ti­nue­ranno sol­tanto se la Gre­cia rispetta i patti». La rispo­sta di Syriza è stata imme­diata. «Par­le­remo e trat­te­remo a livello poli­tico con la lea­der­ship euro­pea, non con i suoi rap­pre­sen­tanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ euro­par­la­mento, Dimi­tris Papa­di­mou­lis, anti­ci­pando l’ atteg­gia­mento del nuovo governo di Atene nei con­fronti della troika (Fmi, Ue, Bce).

Il risul­tato otte­nuto dalla Nea Dimo­kra­tia dif­fi­cil­mente sarà gestito dal pre­mier uscente Anto­nis Sama­ras. Sama­ras ha usato un lin­guag­gio nazio­na­li­stico adot­tato pure da Alba dorata, come per esem­pio lo slo­gan della cam­pa­gna elet­to­rale «patria, reli­gione, fami­glia» che ha fatto allon­ta­nare molti elet­tori di destra. Pro­blemi e lamen­tele si sono sen­tite ieri anche nel quar­tier gene­rale dei socia­li­sti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coa­li­zione e lea­der del Pasok, Evan­ghe­los Veni­ze­los pro­ba­bil­mente si allon­ta­nerà, ma «non come scon­fitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli

L’Unione euro­pea è quella del ten­done di piazza Klaf­th­mo­nos, dove Syriza ha chia­mato a rac­colta i suoi soste­ni­tori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insop­por­ta­bile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la ten­sione si taglia con il col­tello: facce con­cen­trate, cenni di inco­rag­gia­mento reci­proco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scio­glie in un abbrac­cio collettivo.

Greci, tede­schi, spa­gnoli, fran­cesi, inglesi, ita­liani, e chissà da quante altre parti del Vec­chio con­ti­nente: un enorme, corale urlo di gioia can­cella l’ansia e la fatica. Ora si può festeg­giare. Esi­ste un’altra Europa, è quella che si è data appun­ta­mento qui, nel cen­tro di Atene.

«Que­sto è uno di quei momenti in cui si dimo­stra che anche i pic­coli pos­sono fare la sto­ria, pos­sono cam­biare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raf­faella Bolini, l’infaticabile orga­niz­za­trice della Bri­gata Kali­mera e di mille altre avven­ture poli­ti­che inter­na­zio­nali. «C’è chi ha iro­niz­zato sul nostro viag­gio per cri­ti­carci, ma noi siamo venuti a immer­gerci nella realtà greca: non tor­ne­remo in Ita­lia uguali a come era­vamo alla par­tenza, per­ché que­sta espe­rienza ci ha dav­vero arric­chiti», afferma una rag­giante Rosa Rinaldi, tra le prin­ci­pali arte­fici del «mira­colo» della fon­da­men­tale rac­colta firme in Valle d’Aosta per la lista delle euro­pee. «Ora la spe­ranza si mate­ria­lizza: vale per i greci, ma vale anche per noi, per­ché Syriza al governo ad Atene signi­fica una rivo­lu­zione demo­cra­tica per l’intera Europa. Per­sino il nostro pusil­la­nime pre­mier Mat­teo Renzi potrà ora avere più mar­gini di mano­vra nei con­fronti dei part­ner con­ti­nen­tali, e a noi a sini­stra spetta il com­pito di costruire una vera alter­na­tiva di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straor­di­na­ria occa­sione di que­sto momento», con­clude Rinaldi.

«Il mes­sag­gio di dome­nica sera – riflette Maso Nota­rianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sini­stra ita­liana dob­biamo final­mente abban­do­nare un atteg­gia­mento mino­ri­ta­rio ancora troppo dif­fuso: qui in Gre­cia ci dimo­strano che si può fare. Biso­gna essere con­vinti che un’utopia può diven­tare realtà».

La sod­di­sfa­zione in piazza Klaf­th­mo­nos è ovvia­mente di tutti, indi­pen­den­te­mente dalla nazionalità. Cia­scuno ha però un com­pito diverso nel pro­prio Paese.

In Spa­gna lo sce­na­rio poli­tico più simile a quello greco: «La svolta nella poli­tica euro­pea è pos­si­bile. La sfida per noi è pren­dere ad esem­pio Syriza e met­tere da parte per­so­na­li­smi o divi­sioni infon­date, con­cen­tran­doci nella cosa più impor­tante, che è unire le forze», ragiona Alberto Gar­zón, il nuovo (e gio­vane) lea­der di Izquierda unida. Il mes­sag­gio che invia dal ten­done ate­niese è diretto a Pode­mos, che finora nic­chia sulla pos­si­bi­lità di costruire un car­tello uni­ta­rio alle ele­zioni di autunno.

Parole simili da Enest Urta­sun, bril­lante euro­de­pu­tato della sini­stra eco­lo­gi­sta cata­lana, «pon­tiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sini­stra uni­ta­ria euro­pea) nel par­la­mento di Stra­sburgo: «La scelta giu­sta è quella fatta a Bar­cel­lona per le pros­sime muni­ci­pali: lista uni­ta­ria di tutti quelli che si bat­tono con­tro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Pode­mos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i par­titi del ‘vec­chio sistema’, ma parlo a titolo per­so­nale». Pen­sio­nato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assi­stere alla presa della Basti­glia del ven­tu­ne­simo secolo».

I tede­schi della Linke – muniti di car­telli ine­qui­vo­ca­bili: «La nuova Europa comin­cia in Gre­cia» – usano toni meno enfa­tici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La can­cel­liera Angela Mer­kel dice sem­pre che non ci sono alter­na­tive alle attuali poli­ti­che, ma la vit­to­ria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katha­rina Dahme della dire­zione nazio­nale del par­tito. «Il nostro com­pito sarà mostrare ai cit­ta­dini del nostro Paese che la poli­tica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavo­ra­tori in Ger­ma­nia, che hanno biso­gno di salari più alti e di una poli­tica sociale dif­fe­rente», con­clude la diri­gente del prin­ci­pale par­tito dell’opposizione tedesca.

Il Fatto quotidiano, 25 gennaio 2015

Mentre gli occhi sono puntati sul voto in Grecia, sulla tre giorni vendoliana a Milano e sulla “brigata Kalimera” ad Atene, il dibattito a sinistra in Italia ha anche altri protagonisti. Di peso, anche se ora in sordina.

La testa pensante è Stefano Rodotà ma accanto a lui ci sono nomi del calibro di Maurizio Landini, Gino Strada, don Luigi Ciotti. Mentre i “kalimeriani”, vendoliani, rifondazionisti, “tsiprasiani” più o meno doc, sperano di importare in Italia il soffio di Tsipras e mentre oggi a Human Factor Nichi Vendola, Pippo Civati, Paolo Ferrero, Stefano Fassina spiegheranno la loro idea di sinistra, quegli altri studiano altre strade. Senza strappi o scontri. Senza divergenze sul ruolo catalizzatore che potrebbe avere la vittoria di Syriza. Ma con altre priorità.

Nichi Vendola, oggi, assicurerà che non ci sarà nessuna “ora X”. Ma l’ora X è nelle cose e la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd ha accelerato l’attesa e il vorticoso rito delle riunioni. Tutti in cerca di un possibile rimescolamento dei gruppi dirigenti che si conoscono da decenni. Sotto traccia, però, la discussione è più complicata.

Il perché lo spiega una intervista a Stefano Rodotà, già parte della “sinistra indipendente” quando c’era il Pci, candidatura illustre, per quanto snobbata, alla presidenza della Repubblica, che su Micromega espone una idea molto diversa dell’ipotesi assemblativa presentata finora. «La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti» risponde Rodotà: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra». Qui il giudizio è spietato: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre».

Giudizi così sferzanti spiegano, forse, perché Rodotà non sia presente alla kermesse milanese. «Rifondazione è un residuo di una storia - continua l’ex candidato al Quirinale - Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente».

Rodotà non rinuncia ad avanzare proposte: «Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency
- che ha creato ambulatori dal basso - movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».

La linea del professore ha un retroterra teorico nel suo ultimo libro, Solidarietà, il cui titolo è già un programma. Ma si nutre anche dei rapporti con i soggetti indicati anch’essi assenti dalla tre giorni vendoliana. LaFiom ha inviato alcuni suoi rappresentanti ma non Maurizio Landini che non vuole più vedere associato il suo nome, e quello del suo sindacato, alla ricostruzione della sinistra politica. Ma anche Libera di don Ciotti non è presente e così anche molti dei costituzionalisti che avevano lanciato la manifestazione “La via maestra”. La Fiom, ad esempio, sta riflettendo seriamente sulla tematica del mutuo soccorso quella che ha portato Syriza a realizzare mense autogestite o ambulatori popolari . Ci sono già collaborazioni avviate in questo senso tra Libera ed Emergency e la stessa Fiom potrebbe realizzare qualcosa di simile.

Da segnalare, poi, il canale diretto aperto da don Ciotti con Beppe Grillo, incontrato due giorni fa e con il quale l’associazione che si batte contro le mafie, ma anche contro la miseria, sta pensando di predisporre una proposta parlamentare sul reddito di cittadinanza.

C’è quindi un altro racconto a sinistra. Parla più il linguaggio del “sociale” e non si appassiona molto alle riunificazioni di altri tempi. Anche questa è una novità.

Il manifesto, 25 gennaio 2015

“Noi alle ele­zioni ci pre­sen­tiamo”. Da Siena a Prato, dall’Empolese Val­delsa a Pisa, i comi­tati toscani dell’Altra Europa annun­ciano la discesa in campo per le regio­nali di fine mag­gio. Con la spe­ranza, espli­ci­tata già in par­tenza, di far parte di un’ampia coa­li­zione unita di forze asso­cia­tive, poli­ti­che e di base: “In alter­na­tiva a chi sostiene le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste e di auste­rità”. Com­preso il Pd, che dovrebbe rican­di­dare Enrico Rossi. Die­tro la cui figura si sta­glia però l’ingombrante sagoma di Mat­teo Renzi. E di un par­tito, gui­dato sal­da­mente dal fede­lis­simo Dario Par­rini, le cui stra­te­gie d’azione guar­dano al cen­tro. Non a sini­stra. Vedi il gelo con Sel e l’accordo, già rag­giunto, con “Toscana civica rifor­mi­sta”, nuova for­ma­zione com­pren­dente ex di Psi, Udc e Idv. Per non par­lare della nuova, più che fan­ta­siosa, legge elet­to­rale. Con­te­sta­tis­sima, denun­ciata per inco­sti­tu­zio­na­lità, e redatta insieme lo scorso autunno da Par­rini e dal for­zi­sta Mas­simo Parisi, pro­con­sole locale di Denis Verdini.

I comi­tati dell’Altra Europa guar­dano peral­tro alla con­cre­tezza della vita quo­ti­diana. E qui, nono­stante il buon lavoro della giunta uscente sul piano urbanistico-paesaggistico, sulla difesa del mani­fat­tu­riero in una regione dove la crisi con­ti­nua a far chiu­dere realtà pro­dut­tive pic­cole e grandi, e su un (tar­divo) ripen­sa­mento delle poli­ti­che cul­tu­rali e turi­stico com­mer­ciali, il bic­chiere è più vuoto che pieno.

A turno, il senese Ales­san­dro Vigni e la pisana Tiziana Nada­lutti, il pra­tese Leo­nardo Becheri e l’empolese Tibe­rio Tan­zini, ricor­dano le spe­ranze disat­tese dopo il refe­ren­dum sull’acqua, ser­vizi e altri beni comuni. Lo sfrut­ta­mento delle risorse natu­rali, da quelle geo­ter­mi­che al marmo apuano, con effetti col­la­te­rali anche dram­ma­tici come le eson­da­zioni di Car­rara. La ricon­fer­mata volontà del Pd di andare avanti su grandi opere inu­tili come la Tav sot­ter­ra­nea fio­ren­tina e l’Autotirrenica. L’insulto al buon­senso del futuro aero­porto inter­con­ti­nen­tale fio­ren­tino, in una zona for­te­mente urba­niz­zata e a for­tis­simo rischio ambien­tale come la Piana. I cin­que, sei ince­ne­ri­tori già in fun­zione per poco più di tre milioni e mezzo di abi­tanti, e la costru­zione di un set­timo grande impianto sem­pre nella mar­ti­riz­zata Piana. Infine le poli­ti­che sani­ta­rie, un tempo fiore all’occhiello ma ormai impaz­zite nella cami­cia di forza dei tagli nazio­nali, tanto da indi­riz­zarsi sem­pre più verso il “pri­vato sociale”.

“Il nostro obiet­tivo – sot­to­li­neano ancora i comi­tati — è quello di met­terci a dispo­si­zione per costruire un’unica lista alter­na­tiva”. Nel solco del posi­tivo risul­tato toscano dell’Altra Europa lo scorso mag­gio, visto come ideale tram­po­lino di lan­cio per decli­nare sul ter­ri­to­rio il pro­getto com­ples­sivo di un’ “altra” Toscana pos­si­bile. E con la dop­pia varia­bile delle deci­sioni di Sel, attese per la metà di feb­braio, e delle rifles­sioni dei civici di Buon­giorno Livorno. Per i quali, natu­ral­mente, le porte della lista alter­na­tiva sono spalancate.

To Virna, il Corsera greco, al Financial Times, la stampa cambia tono. E le nuove generazioni ora pensano di avere il diritto di vincere». Il manifesto, 25 gennaio 2015

«Ieri sera, subito dopo la con­fe­renza stampa, sono andato a Creta per il comi­zio finale a Hera­clion. È stato incre­di­bile. Se quello che ho visto in piazza nella più grande isola greca, sto­rica per la sua epo­pea resi­sten­ziale, si tra­duce dav­vero in voti, allora vuol dire che abbiamo fatto dav­vero il pieno. Credo che la prin­ci­pale dif­fe­renza fra que­ste ele­zioni e quelle del 2012 sia pro­prio lo spo­sta­mento che si è veri­fi­cato nella pro­vin­cia. Nella grande regione di Atene siamo sem­pre stati forti, ma fuori fino ad oggi non ave­vamo altret­tanta adesione».

Così mi dice Ale­xis Tsi­pras, men­tre stiamo chiac­chie­rando in una pausa pranzo, nel giorno della vigi­lia, quando la cam­pa­gna elet­to­rale è chiusa e il lea­der di Syriza si con­cede un momento di nor­ma­lità. Sfo­gliamo assieme i gior­nali greci e sor­ri­diamo: il quo­ti­diano con­ser­va­tore più auto­re­vole, il Cor­riere della Sera locale, To Vima, porta in prima pagina una pic­cola foto di Sama­ras (che venerdì ha con­cluso piut­to­sto melan­co­ni­ca­mente la sua cam­pa­gna elet­to­rale) col­lo­cata in alto, quasi solo una stri­scia. A tutta pagina, invece, c’è l’immagine di Tsi­pras, sor­mon­tata da un titolo che dice: «I piani per i pros­simi giorni». Ecco: Tsi­pras viene già inter­vi­stato come capo di governo. Ai suoi pro­grammi To Vima dedica una inter­vi­sta di ben quat­tro pagine, dove si dice nel som­ma­rio: «Ale­xis parla del governo, del pre­si­dente della Repubblica, della Troika, della Mer­kel, delle ban­che». «Un vento di cam­bia­mento e spe­ranza». E, ancora: «Vogliamo costruire un’altra rela­zione con la Ger­ma­nia». Ancora ieri To Vima aveva ospi­tato una dichia­ra­zione di Sama­ras in cui il capo del governo annun­ciava che se Syriza avesse vinto le ele­zioni la Gre­cia sarebbe diven­tata come la Corea del nord.

A guar­dare la stampa la vit­to­ria sem­bra già con­sa­crata. Defe­renti i fino a ieri più offen­sivi gior­na­li­sti di Atene ora lo attor­niano e, anzi, si strin­gono a lui sor­ri­denti per una foto ricordo. Nella lun­ghis­sima inter­vi­sta di To Vima c’è per­fino spa­zio per un ammic­ca­mento ami­che­vole: «Nel 2030, quando i tuoi due bam­bini saranno al liceo – chiede il gior­na­li­sta – e tu sarai ancora parec­chio più gio­vane di quanto siano oggi Sama­ras e Veni­ze­los (segre­ta­rio del Pasok), quale Gre­cia avranno ere­di­tato? Saranno sod­di­sfatti o pronti a occu­pare le scuole come hai fatto tu negli anni ’90?». «Spero che la gene­ra­zione dei miei figli, che oggi hanno 3 e 5 anni, sia pronta a fare altret­tanto – risponde Tsi­pras – per­ché la vita è in movi­mento e devono esser pronti a cam­biare nuo­va­mente tutto».

Non è solo la stampa greca. Anche il Finan­cial Times ad Ale­xis dedi­cava ieri una pagi­nona, la sua foto con le brac­cia alzate in segno di vit­to­ria sovra­state dal titolo: «Radi­cale o rea­li­sta?». Si tratta di una rico­stru­zione det­ta­gliata della vita di Ale­xis, da quando, sedi­cenne alunno del liceo Ampe­lo­ki­poi, con­qui­stò la lea­der­ship nella bat­ta­glia che, nel 1991, oppose gli stu­denti greci – 90 per cento delle scuole occu­pate – al governo di cen­tro destra.

È una sto­ria simile a quella di molti dei nostri paesi euro­pei, salvo che dell’Inghilterra, e il gior­na­li­sta del Finan­cial Times si muove con qual­che inge­nuo diso­rien­ta­mento nel raccontarla. Ma è inte­res­sante vedere come sco­pre che con­dan­nare la vio­lenza che emerge dalle frange di ogni movi­mento non vuol dire non sfor­zarsi di capirne le ragioni; che si può avere un pro­getto molto inno­va­tore e di lungo periodo sulla scuola e però con­trat­tare risul­tati con­creti (nel caso della Gre­cia otte­nendo il ritiro della riforma pro­po­sta dal governo); che la vita quo­ti­diana delle nostre sini­stre è fatta di dis­sensi che sem­pre ruo­tano attorno all’essere troppo estre­mi­sta o troppo acco­mo­dante. Sono cose che tutti cono­sciamo. Il punto che sfugge ancora a tutti è come è potuto acca­dere che qui in Gre­cia Syriza, con Tsi­pras alla guida, abbia potuto far­cela in così poco tempo a imporsi come il più grande par­tito del paese. Ci sono le ragioni ogget­tive, evi­den­te­mente. Ma anche una buona dose di ragioni sog­get­tive: su come si è costruito il nuovo sog­getto della sini­stra greca abbiamo riflet­tuto tutti troppo poco.

Ne discu­tevo in que­sti giorni con vec­chi amici e com­pa­gni greci: per via della tre­menda espe­rienza delle gene­ra­zioni pre­ce­denti – occu­pa­zione fasci­sta e nazi­sta, guerra civile, dit­ta­tura, decenni di pri­gione – anche i migliori uomini della vec­chia sini­stra (non parlo della paz­zia set­ta­ria del Kke) ave­vano inte­rio­riz­zato il timore del peg­gio, e per que­sto mai pun­tato a vin­cere, nel timore di una rea­zione della destra estrema.

La nuova gene­ra­zione, che è nata dopo la caduta dei colon­nelli, è invece final­mente sicura di sé. Punta a vin­cere, pensa di averne il diritto. Ma non nel senso di Renzi, al con­tra­rio ripro­po­nendo come logica una pro­pria defi­nita iden­tità. «Sono favo­re­vole ai com­pro­messi per­ché ho obiet­tivi rea­li­stici – dice Ale­xis. Ma al tempo stesso - aggiunge - sono molto deciso se so che è neces­sa­ria una bat­ta­glia». In que­sti ultimi due anni ne ha dato la prova.

Gli ita­liani della bri­gata Kali­mera, intanto, sono in giro a visi­tare i quar­tieri dove si è radi­cata la forza di Syriza met­ten­dosi al ser­vi­zio dei biso­gni della gente deva­stata dalla crisi. Ne ho incon­trato un gruppo nel quar­tiere di Nea Smirne, in visita a uno dei tanti cen­tri di assi­stenza medica e far­ma­ci­stica per chi è rima­sto privo di assi­stenza sani­ta­ria pub­blica (almeno 3 milioni). Qui lavo­rano, da volon­tari, 30 medici e infer­mieri, più altret­tanti cit­ta­dini che sbri­gano le pra­ti­che orga­niz­za­tive. Una appas­sio­nante e det­ta­gliata descri­zione di un’esperienza che pro­se­gue da ormai più di due anni.

La Repubblica, 25 gennaio 2015

A CHI qualche mese fa domandava se dopo la condanna per frode fiscale emessa dalla Cassazione con sentenza definitiva Silvio Berlusconi era da considerarsi ormai fuori dal gioco politico, le risposte di quanti si occupano di queste cose come osservatori imparziali erano quasi tutte affermative: sì, ormai è fuori, è politicamente finito e non solo per la condanna ma perché delle promesse fatte e degli impegni presi con gli elettori fin dal 2001, non c’è alcuna traccia. Ha puntato sulle debolezze e la faciloneria degli italiani e non sulle loro virtù; li ha diseducati col suo esempio. Personalmente davo anche io questa risposta.

Sono passati quattordici anni da allora. La parte della risposta che riguarda la diseducazione politica e morale data da Berlusconi resta ferma, ma lui non è affatto finito. Anzi. L’accordo con Renzi da lui gestito con grande abilità, l’ha rimesso in piedi, gli ha ridato un compito importante, è allo stesso tempo all’opposizione e nella maggioranza. Ancora non è al governo, ma tra poco ci sarà.

Il partito della nazione è ormai sbocciato e lui ne fa parte integrante. Renzi — Berlusconi l’ha detto e lo ripete — è il suo figlio buono, ben riuscito. Lui è il papà, scavezzacollo come tanti padri ma pur sempre il padre che vede il figlio diventato il primo della classe, che da lui ha preso il talento di incantare la gente. E dici poco.

È pur vero che nel frattempo Forza Italia è diventata una sigla e il partito non c’è più, ma a guardar bene quel partito non c’è mai stato, nacque come la proiezione politica della sua società pubblicitaria
Ha tenuto un solo congresso, tutto è stato sempre deciso dal “boss” e dal suo “cerchio magico”, variabile secondo gli umori del Capo. Adesso è fatto da un paio di signore bellocce, molto legate a sua figlia Marina, ma è sempre lui che decide applicando la sua tecnica: prometti mille e — ben che vada — realizzi dieci e ogni giorno cambi posizione, poiché sei un bersaglio ti sposti per non esser colpito.

Adesso lui vuole tre cose: che questa legislatura duri fino al 2018 perché le elezioni oggi lo farebbero sbattere contro un muro; che la sua alleanza con Renzi sia il perno intorno al quale gira tutto il resto; che lui sia riconosciuto come il Padre della Patria e possa quindi ricevere quella clemenza che gli ridia piena agibilità politica e partecipazione personale, elezioni comprese se a lui piacerà di farle. E Renzi che ne dice?

Renzi è l’autore della riabilitazione berlusconiana. Naturalmente rifiuta d’essere il figlio buono di tanto padre. Forse dentro di sé il sospetto di esserlo ogni tanto emerge, ma non accetterà neanche sotto tortura che i berlusconiani entrino nel governo da lui presieduto. Qui però ci può essere una trappola: il Pd è alleato di Alfano, il quale però si è riavvicinato a Berlusconi. Qualche sottosegretario alfaniano potrebbe dimettersi e Alfano, che da Forza Italia proviene, potrebbe indicare dei nomi di persone di quel partito che stanno meditando di passare con lui e se ricevessero in premio un sottosegretariato lo farebbero. Come si fa a dirgli di no?

Naturalmente anche il Pd, che però è un vero partito, ora è spaccato in due e forse in tre parti. L’elezione del presidente della Repubblica sarà da questo punto di vista decisiva. Mancano cinque giorni a quell’appuntamento. Renzi deciderà con il partito o con Berlusconi? Ancora non si sa; secondo lui è la direzione che deve decidere o addirittura l’assemblea (una sorta di comitato centrale molto numeroso). Ma sono organi dominati dal leader. I gruppi parlamentari? Anche lì la maggioranza è renziana. Quindi Renzi è in quelle sedi che proporrà il nome da votare. E ancora una volta vincerà.

Tuttavia c’è un ostacolo: la minoranza si considera come un coniuge che convive con l’altro da “separato in casa”. Quello che si decide nelle sedi istituzionali del partito non può sostituirsi alla convivenza dei due separati. Debbono decidere in due, non in trecento. E poi, nel “plenum” parlamentare vige il voto segreto e ancora poi i renziani furono tra i centouno che silurarono Prodi. Perciò la partita del nome è tutta da giocare e se per caso, fin dalla prima votazione, ci fosse un pacchetto di cento voti per Prodi, sarebbe difficile che il partito rifiutasse quel nome e comunque molti che oggi sono con Renzi potrebbero cambiar posizione. Non avverrà, dipende anche da Grillo, ma insomma non si può escludere.

Nell’incontro a Firenze con la Merkel, oltre a farle vedere uno splendido Botticelli e la cupola del Brunelleschi da lui illustrati con facondia, Renzi l’ha rassicurata: metterà il turbo alle riforme. Ma quali riforme? Questo non l’hanno detto ne l’uno né l’altra. Della riforma elettorale alla Merkel non gliene importa niente. Di quella costituzionale che regola soprattutto il Senato, gliene importa ancor meno, ma quella comunque Renzi l’ha rinviata. E dunque di quali riforme si parla?

Solo Draghi ha precisato: riforme economiche che riguardano soprattutto la produttività. La sola che può far ripartire la crescita, gli investimenti, i consumi e l’occupazione.

La manovra monetaria è un grande aiuto per Renzi e Draghi, con prudenza, scommette sul coraggio del presidente del Consiglio. Ma non è una riforma semplice da attuare perché deve stare attento a non gravare sui salari dei lavoratori perché in quel caso si troverebbe a fare i conti con i sindacati. Tutti i sindacati, Cisl compresa. Personalmente credo che si cimenterà mettendo insieme rapidità (il turbo) e coraggio. Non gli mancano né l’uno né l’altro. C’è comunque uno stretto intreccio tra il nome scelto per il capo dello Stato e la riforma del lavoro (che non è il “Jobs Act”). Deve aver l’accordo dei sindacati e dei “separati in casa”. Ma molto dipende dalla scelta del primo inquilino del Quirinale. Non può essere un tecnico né un pupazzetto (o una pupazzetta) di Renzi. Deve essere un uomo politico di provata esperienza e autorevolezza, che interpreti con necessario vigore i poteri-doveri che le sue prerogative gli garantiscono e che abbia un prestigio all’estero e anche nel partito socialista europeo.

Non sono molti i nomi che corrispondono a questo identikit. I nomi è sempre rischioso farli ma forse un osservatore che si sforzi di essere oggettivo può indicarne qualcuno. Io ne vedo tre: Prodi, Veltroni, Amato. Altri nomi egregi tra i tanti dei quali in questi giorni si è parlato, certamente ci sono, ma sono poco conosciuti sia nel partito sia all’estero e quindi sembrano meno adatti e scatenerebbero i fuochi dei franchi tiratori. Nessuno ama vederli all’opera ma tutto dipende dalle scelte di Renzi. Se sceglie bene, i franchi tiratori non ci saranno e sarà merito suo. Se sceglie male sarà sua la colpa. *** Concludo con qualche cenno sull’Europa.

La manovra monetaria di Draghi, con il 20 per cento di condivisione dell’intervento sui mercati della Bce, pone il tema dei bond europei e del bilancio comune dell’Unione. Faccio osservare un aspetto che non viene mai ricordato e che invece dovrebbe avere un notevole peso: un articolo del trattato di Lisbona stabilisce esplicitamente che l’Unione europea deve avere una sua realizzazione politica, ottenuta con le necessarie cessioni di sovranità dei governi nazionali.

Perché quell’articolo non viene mai tenuto presente? Esso implicherebbe un bilancio comune, un fisco comune, una politica estera comune, una presenza permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e un debito sovrano comune, un Parlamento votato in comune dagli elettori europei.

Spetta soprattutto alla Germania assumere l’iniziativa di questo sogno e il rispetto del trattato di Lisbona ma spetta ai governi di tutti i membri dell’Ue di obbligare la Germania a prendere l’iniziata o a prenderla senza di lei.

Il vero guaio è che i capi dei governi non amano affatto cedere una parte rilevante della loro sovranità. Questo fa paventare il peggio per un futuro molto e molto prossimo: in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. I coraggiosi, caro Renzi, debbono mostrare su questo tema il loro coraggio ma finora nulla si è visto e semmai si è visto il contrario. Alla fine voi personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa. È questo che volete? La via europea è estremamente importante e bisogna percorrerla. Noi non siamo gufi, ma contro i mercanti che rivendicano i loro interessi perfino Gesù prese il bastone.

Il manifesto, 24 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il governo fa retro­mar­cia sulla ven­dita delle case popo­lari. Il prov­ve­di­mento dispo­sto dall’articolo tre del piano Lupi sulla casa è stato cam­biato a seguito di un’intesa rag­giunta dalla Con­fe­renza uni­fi­cata Stato e Regioni. La noti­zia è stata comu­ni­cata dal sin­da­cato dell’Unione Inqui­lini che si dice sod­di­sfatto: «È una vit­to­ria della mobi­li­ta­zione di inqui­lini e assegnatari».Il piano Lupi pre­ve­deva infatti la ven­dita all’asta dell’intero patri­mo­nio della case popo­lari a prezzi di mer­cato con la sola pos­si­bi­lità per l’assegnatario di eser­ci­tare la pre­la­zione sul prezzo di aggiu­di­ca­zione dell’asta. La mobi­li­ta­zione ha costretto il governo a modi­fi­care la pro­ce­dura di ven­dita e il prezzo.

Ora agli asse­gna­tari dev’essere comu­ni­cato pre­ven­ti­va­mente il prezzo fisso al valore cata­stale fino al 20%. Se non ha la capa­cità eco­no­mica di acqui­stare l’appartamento, entro il limite della deca­denza dev’essere indi­cato un allog­gio alter­na­tivo, nel comune di resi­denza. Gli anziani, i malati ter­mi­nali e i por­ta­tori di han­di­cap hanno il diritto di restare nell’appartamento nel caso in cui non siano in grado di acqui­starlo. Nel nuovo decreto non si parla più di ven­dita in blocco degli sta­bili interi.

«Per noi resta una cri­tica di fondo all’operato del governo – sostiene Wal­ter De Cesa­ris, segre­ta­rio dell’Unione Inqui­lini – In Ita­lia non c’è biso­gno di disfarsi del patri­mo­nio pub­blico ma di incre­men­tarlo. Per risol­vere la sof­fe­renza abi­ta­tiva strut­tu­rale, occorre aumen­tare l’offerta di abi­ta­zioni sociali e non dismet­tere quelle che ancora ci sono».

Il manifesto, 24 gennaio 2015

L’ha detto in piazza e l’ha riba­dito ieri alla stampa di tutto il mondo: «Da lunedì il Memo­ran­dum sarà carta strac­cia». E ancora: «Non rico­no­sce­remo la troika».

Applausi invece per Mario Dra­ghi, un baluardo con­tro le poli­ti­che di auste­rity della Ger­ma­nia: «Ha accolto le richie­ste che face­vamo da tempo». Nell’ultimo giorno di cam­pa­gna elet­to­rale, Ale­xis Tsi­pras riaf­ferma in con­fe­renza stampa, con toni pacati e la stessa sostanza del comi­zio del giorno pre­ce­dente ad Atene, quali saranno le linee guida del suo governo. Rimanda il pro­blema delle alleanze a dopo il voto («ci pen­se­remo da lunedì») e torna a chie­dere un man­dato pieno agli elet­tori, che gli con­sen­ti­rebbe di «avere più forza» per rine­go­ziare il debito con le isti­tu­zioni europee.

Quella di ieri è stata soprat­tutto la gior­nata del dopo-Bce. Ne aveva par­lato molto poco a caldo in piazza Omo­nia, l’altra sera.

Invece ora risponde alle domande dei gior­na­li­sti schie­ran­dosi con deci­sione dalla parte di Mario Dra­ghi: «Ha messo fine al cata­stro­fi­smo di Sama­ras, che avrebbe voluto la Gre­cia fuori dal pro­gramma di acqui­sto di titoli e cer­cava un appog­gio che non ha avuto. Invece ha deciso quello che noi chie­de­vamo da tempo e che Sama­ras ci diceva essere fuori dalle regole della Bce. Ci ha dato tempo fino al luglio 2016 per attuare il nostro pro­gramma e dimo­strare che la Gre­cia può tor­nare a crescere».

Tsi­pras è con­sa­pe­vole che per rea­liz­zare quello che pro­mette sono neces­sari i numeri giu­sti, anche se «dopo il voto, comun­que vada, chie­de­remo il con­senso a tutti i par­titi sul nostro piano di riforme», e ammette che sarà neces­sa­rio scon­trarsi, «sia in Europa che in Gre­cia». Ma si dice più pre­oc­cu­pato da quello che potrebbe acca­dere nel suo Paese piut­to­sto che a Bru­xel­les, dove «si scon­trano due linee, quella di Mer­kel e Schau­ble da una parte e quella di Mario Dra­ghi dall’altra». «L’Europa cam­bia, len­ta­mente ma cam­bia», per Tsi­pras. «L’importante è arri­vare forti a que­sti nego­ziati, per­ché il piano B della troika è che Syriza non ottenga la mag­gio­ranza asso­luta e sia obbli­gata a gover­nare con i pro­pa­gan­di­sti che difen­dono le sue posi­zioni», ha spiegato.

La par­tita più dif­fi­cile Tsi­pras la gioca invece in Gre­cia, con­sa­pe­vole che se non man­terrà le pro­messe della vigi­lia il con­senso rischierà di eva­po­rare, facendo un danno gigan­te­sco all’intera sini­stra: cosa acca­drà quando, come annun­ciato, tirerà fuori le liste degli eva­sori e tas­serà i grandi patri­moni, «le ville con due, tre, quat­tro piscine nelle mani di società off­shore», quando sarà col­pita la grande pro­prietà, quando si met­terà mano a una riforma della poli­zia, che «dovrà difen­dere la sicu­rezza dei cit­ta­dini nei quar­tieri e non repri­mere le mani­fe­sta­zioni paci­fi­che»? Come rea­gi­ranno i poteri forti locali all’annuncio che «il trian­golo del pec­cato», quei legami opa­chi tra poli­tica, grande impren­di­to­ria e media sarà messo in discussione?

Un primo assag­gio di quanto possa essere com­pli­cato met­tere mano a ciò che non fun­ziona in Gre­cia è arri­vato pro­prio in que­sti giorni: ban­chetti e gazebo del par­tito sono stati presi di mira a più riprese da ultras dell’Aek Atene. Tutto è legato al fatto che Syriza si oppone a una spe­cu­la­zione edi­li­zia legata alla costru­zione del nuovo sta­dio a Nea Phi­la­del­phia, un comune della Grande Atene gover­nato dalla coa­li­zione della sini­stra radi­cale. In più occa­sioni gli atti­vi­sti di Syriza si sono tro­vati accer­chiati da bande di gio­vani con le sciarpe gial­lo­nere dell’Aek, ma il par­tito ha deciso di non ali­men­tare ten­sioni in cam­pa­gna elet­to­rale e non ha denun­ciato pub­bli­ca­mente i fatti.

«Ci scon­tre­remo con l’establishment, con la cor­ru­zione, con chi ha preso deci­sioni che hanno por­tato a que­sta situa­zione, con le regole dei mezzi di comu­ni­ca­zione», afferma con sicu­rezza Tsi­pras. Ma ammette che non sarà facile. «Ho l’impressione che cer­che­ranno di inde­bo­lire Syriza. Cree­ranno delle situa­zioni molto dif­fi­cili», sostiene Tsi­pras, per il quale «solo la forza potrà garan­tirci», quella che sarà deter­mi­nata dal suc­cesso elet­to­rale. In ogni modo, «la sini­stra non ha mai avuto un’occasione sto­rica come que­sta. Ed è anche l’ultima occa­sione per il Paese. Se fal­li­remo, tutti saremo giu­di­cati dalla sto­ria», dice rivolto a quelle forze che a sini­stra rifiu­tano qual­siasi alleanza, in par­ti­co­lare ai comu­ni­sti del Kke (e pure all’altro par­tito dell’ultrasinistra Antar­sya), ai quali lan­cia un amo: «Anche se doves­simo avere la mag­gio­ranza asso­luta, cer­che­remo alleanze e col­la­bo­ra­zioni con chi si è oppo­sto ai Memo­ran­dum e alla troika».

Ma, se pur l’aspirante pre­mier ha riba­dito che i primi passi saranno il soste­gno alle classi disa­giate, che più hanno sof­ferto la crisi, e le misure a favore della classe media impo­ve­rita (dalla riforma fiscale al tetto dei 12 mila euro al di sotto del quale non si paghe­ranno tasse, una misura richie­sta in par­ti­co­lare da con­ta­dini e liberi pro­fes­sio­ni­sti, fino all’abolizione della tassa sulla prima casa), le novità di ieri riguar­dano essen­zial­mente il rap­porto con l’Europa. «Ono­re­remo tutti i trat­tati per­ché siamo mem­bri dell’Ue, ma non rispet­te­remo gli impe­gni presi dai governi pre­ce­denti. Con i Memo­ran­dum non sono stati rispet­tati i patti fon­da­men­tali, non è pos­si­bile che la Gre­cia sia gover­nata da pic­coli fun­zio­nari di Bru­xel­les. Vogliamo nego­ziare con pari diritti. E’ una que­stione di dignità», dice Tsi­pras, che non si spiega per­ché la Com­mis­sione euro­pea abbia lasciato tanto potere a un’istituzione come la troika, non pre­vi­sta da nes­sun trat­tato e che non può controllare.

Syriza si dice pronta ad aprire anche un altro fronte di scon­tro in Europa: quello sui debiti di guerra. «La Ger­ma­nia deve pagare per l’occupazione nazi­sta, è un impe­gno che abbiamo nei con­fronti della gene­ra­zione che ha fatto la Resi­stenza. Riven­di­che­remo que­sto cre­dito verso tutti i Paesi euro­pei. Su que­sto non pos­siamo fare com­pro­messi, si tratta di un debito sto­rico. Vogliamo che non sia una richie­sta greca, ma che si fac­cia all’interno degli organi euro­pei». Non sarà facile nep­pure que­sto, con Ber­lino sul banco degli impu­tati. E’ un brac­cio di ferro annun­ciato, quello tra Mer­kel e Tsi­pras. Che avverte i tede­schi: «In Fran­cia Marine Le Pen rischia di vin­cere le ele­zioni, qui Alba Dorata avrà un risul­tato impor­tante. C’è il rischio di un ritorno del fasci­smo in tutta Europa. Devono capire che non pos­sono con­ti­nuare così»

Corriere della Sera, 23 gennaio 2014 (m.p.r.)

Milano. Sarà la Corte costituzionale a stabilire se sia legittima la scelta del Politecnico di Milano, che ha deciso di passare all’inglese come lingua esclusiva per i corsi e gli esami delle lauree magistrali e dei dottorati. Il passaggio (nelle intenzioni dell’Università) a un’istruzione internazionale e all’avanguardia è stato bocciato da una sentenza del Tar del 2013. Nei mesi successivi, con un contro-ricorso del Politecnico e del ministero dell’Istruzione, la questione è arrivata al Consiglio di Stato. Che ora, con un’ordinanza pubblicata ieri, sospende il giudizio e trasferisce tutto alla Consulta. Affermando però alcuni punti: il Politecnico ha fatto una scelta del tutto legittima con la legge di riforma dell’università del 2010, ma allo stesso tempo quella legge presenta profili potenzialmente contrari alla Costituzione, che devono essere quindi approfonditi.

Per mettere ordine in questa contesa che riguarda il futuro del mondo universitario italiano bisogna riannodare i fili dall’inizio. Una delibera del senato accademico del Politecnico (21 maggio 2013) stabilisce che l’inglese diventi lingua obbligatoria per lauree superiori e dottorati, attuando «l’obiettivo di internazionalizzazione degli atenei» fissato nel 2010. Un corposo numero di professori presenta un ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia. E il Tar boccia il Politecnico: l’ateneo avrebbe «marginalizzato in maniera indiscriminata l’uso della lingua italiana, che il sistema normativo vuole, invece, preminente e che è funzionale alla diffusione dei valori che ispirano lo Stato italiano». Non solo. Il Politecnico, secondo i giudici amministrativi, «avrebbe dovuto consentire la scelta tra l’apprendimento in italiano e quello in lingua straniera». Dopo questa decisione, il progetto del Politecnico va avanti, ma non si completa: circa un quarto dei corsi, oggi, è ancora in italiano.

Con la decisione pubblicata ieri, il Consiglio di Stato ribalta in parte le conclusioni del Tar lombardo. E afferma: se si considera la legge del 2010, la decisione del Politecnico, «che appartiene alla libera scelta dell’autonomia universitaria», è stata pienamente legittima. Il dubbio però non scompare, e anzi si sposta alla radice: il quadro legislativo entro il quale si è correttamente mosso il Politecnico rispetta la Costituzione? Cambiando il piano di giudizio, il Consiglio di Stato manifesta notevoli perplessità. E lo fa su tre punti. Pur con complicate forme linguistiche, i giudici sostengono che «l’attivazione generalizzata ed esclusiva di corsi in lingua straniera, non appare manifestamente congruente, innanzitutto, con l’articolo 3 della Costituzione».

Certo, la formula «non manifestamente congruente» non vuol dire contrario. Il tema è questo: un conto è insegnare in inglese «tecnica delle costruzioni», un altro è usare esclusivamente la lingua straniera per la storia dell’arte. In quest’ottica «appare ingiustificata - dicono i giudici - l’abolizione integrale della lingua italiana». Altro nodo controverso è la tutela delle minoranze linguistiche assicurata dall’articolo 6 della Costituzione: siamo sicuri, sembrano chiedersi i giudici, che si possa passare all’inglese come lingua unica ed eliminare l’italiano, che si ritroverebbe così senza nemmeno la tutela riservata alle minoranze? Sotto esame sarà infine la conformità con il valore della libertà di insegnamento (articolo 33). L’obbligo dell’inglese «non appare rispettoso della libera espressione della comunicazione con gli studenti, dal momento che elimina qualsiasi diversa scelta, eventualmente ritenuta più proficua da parte dei professori, ai quali appartiene la libertà, e la responsabilità, dell’insegnamento».
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