La Repubblica, 16 aprile 2015
LA PAROLA genocidio pronunciata da Francesco e la reazione turca hanno fatto precipitare questioni cruciali. C’è un problema comune alla definizione del genocidio e della tortura. C’è un’affinità fra il modo in cui la Turchia reagisce all’imputazione di genocidio e l’Italia all’imputazione di tortura. C’è un legame decisivo fra la ferita aperta del 1915 e la persecuzione dei cristiani di oggi. C’è un rapporto fra una disputa che si vuole irriducibile su un genocidio di cento anni fa, e il modo in cui si tratta un genocidio di oggi.
1.
È paradossale che lo sterminio degli armeni, sul quale è stata coniata la nozione di genocidio, non possa chiamarsi genocidio. Il genocidio degli ebrei ha un nome, Shoah, quello degli zingari, Porrajmos, quello degli armeni, Meds Yeghern — ma agli armeni manca il riconoscimento del genocidio. Non so se Francesco avesse messo in conto per intero la reazione turca: il suo discorso è comunque un complemento della denuncia angosciata della persecuzione dei cristiani. Dopo aver esitato, il Papa ha preso una via dalla quale non si torna indietro. Non c’è mai stata una ragione più stringente per non poter non dirci cristiani.
2.
La Corte europea ha condannato l’Italia. Lo farà più inesorabilmente sulla caserma di Bolzaneto, dove si attuò una tortura metodica, prolungata, sessista e fascista. La Corte, all’unanimità, ci ha condannati per il crimine di tortura. Credo che abbia superato i propri precedenti, e che potesse sanzionare le nefandezze di polizia alla scuola Diaz come “trattamenti inumani e degradanti”, rientranti anch’essi nell’art.3 della Convenzione, imprescrittibili al pari della tortura. Per la Corte la sensibilità sulla tortura si affina col tempo, e le minacce — il terrorismo islamista, i venti di guerra — non devono attenuare i principii inderogabili che vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Ha scelto la sanzione più severa — non negli effetti pratici, che si equivalgono, ma in quello morale — rinunciando a una determinazione più specifica della tortura (una violenza individuata e distillata e non collettiva e improvvisa, il fine di ottenere confessioni, il ricorso a tecniche di distruzione della resistenza…) per assicurarne il peculiare marchio di infamia. Ha mirato al paradosso di un Paese, l’Italia, che per trent’anni ha rifiutato di riconoscere tortura e trattamenti inumani o degradanti nel suo codice, mandando impuniti gli autori di crimini per i quali la legge internazionale impone l’imprescrittibilità. Fatte le proporzioni, l’Italia si è comportata con la tortura come la Turchia col genocidio.
3.
Tuttavia è dubbio che allargando le maglie della definizione di tortura se ne rafforzi la sanzione: può derivarne una banalizzazione. Qualcosa di simile avviene con la nozione di genocidio. Il genocidio sta agli altri “crimini di guerra e contro l’umanità” come la tortura sta ai “trattamenti inumani e degradanti”. Anche l’evocazione del genocidio segna un incomparabile marchio di infamia, benché i crimini che “tecnicamente” non vi rientrino siano a loro volta imperdonabili. Il crescente ricorso generico al nome di genocidio sta in proporzione inversa alla sua persecuzione là dove materialmente avviene: lo banalizza.
L’affinità fra tortura e genocidio è più profonda, intima. Sono ambedue difficili da definire con esattezza; ad ambedue è indispensabile il superamento di una soglia di gravità, di dimensione, ma non sufficiente. Che cosa fa della Shoah un genocidio, e dello sterminio dei kulaki no? (La discriminazione “di classe” fu espunta dalla Convenzione sul genocidio del 1948). Che cosa fa dello sterminio dei tutsi in Ruanda un genocidio e dello sterminio delle tribù del Darfur da parte del Sudan e delle milizie Janjaweed “solo” un crimine contro l’umanità? Il genocidio, avvertiva Antonio Cassese, è diventato un “ Magic Word ” cui non si vuole rinunciare, benché i crimini di guerra e contro l’umanità siano atroci a loro volta e abbiano le stesse sanzioni. Per lo sterminio degli armeni si impiega la formula “G-Word”: la parola G. Un tabù proibisce di pronunciarlo intero: come il divieto di nominare Dio, alla rovescia. A questo “G-Word” sono appesi i rapporti fra la Turchia e il resto del mondo.
4.
C’è una montagna, fra Mosul e il Kurdistan, l’abbiamo nominata tante volte, si chiama Sinjar. Vi hanno cercato scampo dopo un’odissea tremenda, decine di migliaia di yazidi. È un popolo antico che ha subito infinite persecuzioni di invasori, così superstiziosi da chiamarlo adoratore del demonio. Il cosiddetto Stato Islamico ha mirato a finire l’opera, uccidendo gli uomini, rapendo violando e commerciando bambine e donne. Era inevitabile, ascoltando i racconti degli scampati, citare I 4-0 giorni del Mussa Dagh, l’epopea degli armeni cristiani rifugiati su quel massiccio montagnoso, scritta da Franz Werfel. Da noi uscì nel 1935, nella Medusa Mondadori: generazioni di italiani conobbero là la tragedia armena.
Oggi i cristiani subiscono le persecuzioni più vaste. Minoranze come gli yazidi subiscono un tentativo di annientamento che non lascia dubbi sulla definizione, per quanto la si setacci, di genocidio. C’è una diaspora yazida che vivrà per vedersi riconosciuta la propria catastrofe. Che non è avvenuta cento anni fa: sta avvenendo. L’abbiamo documentata, abbiamo visto e ascoltato le ragazze fuggite dalla prigionia jihadista, come la bambina di nove anni incinta di cui due giorni fa ancora dicevano le cronache.
Ebbene, a Dohuk, provincia estrema del Kurdistan gremita di profughi, due magistrati hanno costituito una Commissione d’inchiesta per il crimine di genocidio. Sono Sail Khider Khalaf, procuratore, e Ayman Mostafa, giudice. «Vogliamo impedire che il tempo confonda le tracce. Raccogliamo le testimonianze, sugli stupri, i suicidi, gli ammazzati e scomparsi, la compravendita di esseri umani. Un australiano venuto a unirsi all’Is con la famiglia ha comprato 7 persone a Raqqa per 15 mila dinari — 13 euro! Cataloghiamo le fosse comuni man mano che si riconquista il Sinjar; un testimone ha seppellito 64 persone; un altro ha raccontato di averne dovuto coprire 70 col suo bulldozer. Intendiamo portare le prove al Tribunale penale dell’Aia, e riportare da noi la giustizia. Lavoriamo anche coi video dell’Is, e coi selfie che gli uomini di Daesh si fanno sopra le vittime, e li ritroviamo sui loro cadaveri. Manchiamo di risorse e competenze: per la mappatura satellitare, le indagini genetiche, com’è avvenuto in Argentina, a Srebrenica… Voi avete periti, e strumenti adeguati, sappiano che li aspettiamo. Abbiamo a malapena un ufficio. Non c’è un team forense. Ma noi proveremo la volontà genocida, e il mondo dovrà riconoscerla».
«Pierre Bourdieu. Tradotta "La miseria del mondo", l’opera del sociologo francese sugli smottamenti che hanno investito la società negli ultimi decenni. E che vede nella precarietà il principio regolatore del dominio esercitato dal capitalismo».
Il manifesto, 16 aprile 2015
«Dove hanno fatto il deserto, quello chiamano pace». Con queste parole si concludeva il discorso di Calgaco, re dei Caledoni, nel De Agricola di Tacito, dove il grande storico romano, raccontando la vita del suocero Giulio Agricola governatore della Britannia, esprimeva una delle più feroci critiche di sempre a quell’imperialismo e quella corruzione dei romani che li aveva condotti ad assoggettare il mondo, chiamando ordine e civiltà ciò che era dominio e sottomissione. Nel mondo moderno e contemporaneo qual è il nostro «deserto chiamato pace»? Attraverso un’inchiesta corale (sia per la pluralità dei soggetti presi in considerazione che per il grande numero di studiosi coinvolti) sulla scia ma anche al di là dei grandi romanzieri e intellettuali impegnati del XIX secolo, una risposta possibile l’ha offerta Pierre Bourdieu con il suo ormai classico La miseria del mondo; frutto di tre anni di lavoro, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1993 e da allora al centro di vivaci discussioni e persino ispirazione per innumerevoli spettacoli teatrali, esce oggi in Italia per i tipi di Mimesis, in una bella edizione tradotta e curata da Antonello Petrillo e Ciro Tarantino.
La miseria al centro del libro di Pierre Bourdieu non è la povertà assoluta (una condizione materiale documentabile e certificabile), bensì la «miseria di posizione», cioè la miseria che nasce e si riproduce in uno spazio fisico e sociale degradato, precario, instabile, cui si appartiene e in cui si è coinvolti senza possibilità reale di uscirne: insomma, la miseria contemporanea è innanzitutto un sistema di relazioni sociali che influenza negativamente il modo in cui le persone pensano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a disposizione. In questo senso, l’apparentemente improbabile parallelismo tra Tacito e il sociologo francese va al di là della suggestione retorica: la miseria che emerge dalle analisi di Bourdieu e collaboratori è frutto di una desertificazione sociale, vale a dire dell’impoverimento materiale e della contemporanea pauperizzazione sociale.
Un universo fantasmatico
Il declino di un vecchio mondo (quello della società del benessere) e il sorgere di un nuovo universo, più spietato, meno civico e solidale. All’interno di questo ordine che possiamo chiamare neo-liberista lo Stato si è ritirato e ha perso (per scelta politica) autorevolezza e capacità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono frantumate le istituzioni sociali intermedie che assicuravano sostegno agli individui (la famiglia) ma anche mediazione dei conflitti (le associazioni), sintesi e organizzazione delle diversità culturali e delle aspirazioni individuali (i partiti, i sindacati). Bourdieu e la sua equipe analizzano le manifestazioni di questa miseria contemporanea (che è anche diffusione della violenza e dell’intolleranza) mettendola in collegamento con le sue radici sociali e politiche occulte (perché rimosse dal dibattito pubblico e politico) intervistando una vasta e variegata platea di soggetti: dall’anziano che vive nella banlieue al lavoratore immigrato; dalla giovane disoccupata all’assistente sociale e al piccolo commerciante. Tutte queste figure, i cui vissuti e percorsi sono ricostruiti attraverso un approccio che unisce sempre all’avvincente narrazione d’inchiesta una serrata riflessione teorica in grado di restituire i collegamenti tra le biografie individuali e le più vaste dinamiche sociali e economiche, sono accomunate dalla condivisione di un comune orizzonte e spazio sociale: quello dei ceti popolari, depotenziati nella propria dignità, nel proprio rispetto di sé e nella propria autonomia. Questo immiserimento nasce dalla precarizzazione del mercato del lavoro, dalla contrazione del welfare state, dall’esclusione sociale, dai meccanismi classisti della scuola e dall’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni pubbliche.
In questo caleidoscopio sociale «dal basso», nel quale biografia individuale e trasformazioni collettive si intrecciano costantemente, ritroviamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure professionali che rappresentano ciò che resta della rete di protezione sociale statuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il piccolo commerciante che non ce la fa più a reggere la concorrenza della grande distribuzione e che vive, ormai anziano, le sue difficoltà reagendo in modo rabbioso, facendo appello ad un nuovo nazionalismo che lo possa proteggere dalle conseguenze della globalizzazione. Un’ampia galleria di giovani, dall’operaio precario che guarda come inutile residuo del passato il sindacato pur vivendo una situazione di forte precarietà lavorativa, al giovane studente marginalizzato e taciturno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruolarsi come volontario nelle milizie croate. E i continui conflitti, ormai diffusi ovunque nel tessuto della vita quotidiana delle banlieue, tra francesi di nascita e francesi naturalizzati (cioè migranti), praticamente per ogni cosa: dagli odori provenienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai giochi nei cortili. Indicatore di una lotta per il controllo del territorio (ormai in fasce di declassamento) tra gruppi che condividono poco, ma anche risultato del deciso indebolimento dell’autorità nelle famiglie naturalizzate, che conduce i giovani ad assumere comportamenti sempre più fuori controllo.
La prateria della politica
Su questo variegato fronte di guerra – nel quale sindacati e partiti di sinistra sono oramai assenti anche come terreno di incontro e di mediazione tra vari tipi di ceti popolari – ritroviamo anche gli assistenti sociali e i giudici minorili, che non vivono semplicemente le pur tante difficoltà connaturate al loro lavoro ma la sempre più ampia sensazione di essere svalutati socialmente e professionalmente, proprio da quello Stato per cui lavorano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La miseria del mondo di Bourdieu fa emergere così tre aspetti molto interessanti: la differenziazione e frammentazione soprattutto per linee etniche e generazionali dei ceti popolari contemporanei; l’abbandono sistematico dei più deboli da parte della politica e delle classi dirigenti, che apre la strada ad una visione sempre più darwiniana della vita sociale; l’apertura di una prateria politica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampiamente sottovalutata) sia per il nazionalismo populista che per la radicalizzazione islamista, in conseguenza del dissolvimento della sinistra e del suo radicamento popolare.
La miseria è stato uno dei temi dominanti nella vita delle masse popolari nel corso della storia fino ad emergere come un attributo fondamentale di quella questione sociale (e non più semplicemente religiosa) che, a partire dall’ascesa della società industriale, ha dominato la scena politica e il dibattito pubblico della modernità. La miseria è una categoria e uno stato diverso dalla «semplice» povertà: la miseria è penuria di risorse ma anche meschinità morale, condizione materiale deprivata ma anche sofferenza e bassezza spirituale, in termini sociologici quella fine della coesione sociale retta da valori non solo condivisi ma anche capaci di dare una meta e un orizzonte di miglioramento alla vita individuale e collettiva. Così, la miseria non è mai il contrario dell’opulenza ma della «vita buona» e della possibilità di realizzarla in qualche luogo. Come tale la possiamo ritrovare tanto nei ghetti e nelle favelas quanto nei grattaceli scintillanti di Manhattan, ogniqualvolta la deprivazione materiale si accompagna ad un eterno presente senza speranze di riscatto morale, civile e materiale.
L’utopia del socialismo – e poi la stessa ideologia dello Stato sociale, compreso quello di marca liberaldemocratica – è consistita nel ritenere che la società industriale fosse la dimensione all’interno della quale offrire una soluzione a questo problema, una volta eliminato o messo sotto controllo il capitalismo; e, per questa via, in questo mondo, riscattare dalla miseria l’umanità intera, tanto il proletariato quanto gli stessi borghesi. La miseria contemporanea è negazione di questa utopia ed estraneazione della sinistra dai ceti popolari; ed è stata occultata, anche durante e nonostante la grande crisi del 2007. Rileggere l’attualissima ricerca di Pierre Bourdieu ce ne fa capire il perché: non si tratta solo di mera convenienza politica.
Eclisse della sinistra
Ci troviamo di fronte alla scomparsa dal dibattito pubblico della società stessa e dei ceti popolari ora che, dopo la fine del fordismo e della società del benessere, si fanno più differenziati, estesi e precari: fine della società perché la miseria quando è raccontata e messa a tema lo è sempre come questione individuale, disturbo psicosomatico, male esistenziale senza radici sociali, che invece persistono e sono resistentissime, radicate nei meccanismi di funzionamento economico e nei poteri sociali. Abbandono dei ceti popolari perché questi non sono più coinvolti in un progetto di riscatto e progresso sociale ma lasciati in balia dei meccanismi più selvaggi del mercato e di una narrazione mediatica e politica che ne esalta le reazioni di pancia, funzionali al mantenimento di quell’ordine sociale che li priva, contemporaneamente, della prospettiva della «vita buona» (populismo e radicalismo a sfondo religioso). Si pensi a questo proposito al racconto pietistico che in Italia si fa a volte dei disoccupati o dei pensionati rovinati da videopoker o videolottery: in tutti questi casi si cede alla commiserazione, si parla di psicopatologia ma si occulta il fatto che quelle miserie sono funzionali a precisi interessi economici (anche di stampo mafioso), possibili e promossi dalle leggi dello Stato. La miseria del mondo di Bourdieu mostra la possibilità di rendere reversibile (perché prodotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scambiato per un destino senza scampo: la miseria dei tempi presenti in tutte le sue complesse ed articolate forme.
Riferimenti
Nell'icona, e qui sotto, un murale di Ernest Pignon dipinto in una prigione di Lione
aggio che alterna inchiesta e riflessione a decrittare l’universo neoliberista». Tradotto un testo significativo sulla dimensione della divisione in classi della società. Il manifesto, 16 aprile 2015
Finalmente l’opera di Pierre Bourdieu La miseria del mondo è stata tradotta. Al di là del fatto che va a mettere un importante tassello nel puzzle italiano dell’intera opera del sociologo francese — per completarlo mancano solo i corsi tenuti all’università, in traduzione da Feltrinelli -, il volume è un esempio di un pensiero critico che alterna inchiesta sul campo e riflessione di lunga durata. Sin dai primi studi sull’Algeria Bourdieu ha scelto l’inchiesta come chiave di accesso alla comprensione dei meccanismi alla base del potere nelle società moderna. Ha poi continuato con opere che lo hanno proiettato sulla scena europea come uno maggiori studiosi della contemporaneità.
Illuminante continua ad essere il saggio sulla Distinzione (Il Mulino), dove Bourdieu analizzava come la divisione in classi della società non si limitava solo nei luoghi del lavoro, ma investiva i consumi culturali, l’accesso alla formazione, garantendo così la riproduzione dei rapporti sociali capitalisti. Sarebbe però sbagliato considerare Bourdieu un marxista ortodosso. Anzi, il sociologo francese ha sempre avuto un rapporto conflittuale con il marxismo occidentale. Ne riconosceva la capacità interpretativa, ma ne ha caparbiamente respinto una della sua caratteristiche più rilevanti, cioè quello di essere una prassi teorica tesa a trasformare la realtà.
Per Bourdieu, infatti, i filosofi, e i sociologi, dovevano limitarsi a interpretare il mondo. Solo in piena vento neoliberista ha mostrato interesse per i movimenti sociali e i conflitti del capitalismo. Ci sono foto divenute famose di un Pierre Bourdieu che parla a un megafono durante lo sciopero del 1994 che paralizzò per oltre un mese Parigi. Sciarpa rossa e una postura del corpo da militante, esprime la solidarietà ai dei lavoratori, sostenendo che la posta in gioco del loro sciopero non erano solo le pensioni o il salario — temi già rilevanti in se — ma degli assetti di potere della società.
Il teorico dell’homo academicus e l’«inventore» del concetto, da molti ritenuto criptico, di «campo» abbandonava le aule universitarie non solo per distribuire neutri questionari ma per «sporcarsi le mani» con l’oggetto del suo lavoro teorico. Per uno che aveva sempre guardato con sospetto, se non ostilità, la figura del maître à penser era un cambiamento che non poteva passare inosservato. Sono però proprio quegli gli anni durante i quali Bourdieu analizza la precarietà avanzante e la dissoluzione delle istituzioni che avevano garantito lo sviluppo del capitalismo dopo la seconda guerra mondiale. I «trenta anni gloriosi» avevano lasciato il passo al lungo inverno neoliberista.
È in questo cambiamento che ha le sue radici La miseria del mondo, dove Bourdieu non esista a parlare della violenza insite nei rapporti sociali capitalistici. Una violenza che ha come risultato non solo l’impoverimento o l’esclusione sociale di una parte della popolazione, ma che è immanente in tutte le relazioni sociali. Ne sono vittime tanto gli sfruttati, ma anche gli sfruttatori. È quest’ultimo l’aspetto che in Francia ha provocato rigetto da molti teorici gauchiste . Ma al di là delle polemiche contingenti, La miseria del mondo rimane un fertile lascito teorico di Bourdieu che può aiutare le scienze sociali italiane a uscire dall’afasia che le contraddistingue.

«Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi». Left, 14 aprile 2015
Come ha osservato di recente Thomas Piketty, i partiti di centrosinistra al governo hanno cessato da tempo di difendere le classi popolari: davanti alla crisi della deindustrializzazione, invece di rafforzare le istituzioni pubbliche e i sistemi di protezione sociale esistenti, i partiti di governo hanno scelto di abbandonare le classi popolari e i ceti medi.
Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della “patrimoniale”, da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le “pensioni d’oro” e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell’art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell’abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali – si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all’università, ai beni culturali e al paesaggio.
Si capisce perché le classi popolari votino per le destre, osserva Piketty pensando al caso francese. Ma in Italia le cose vanno in altra direzione: un partito che si definisce ancora di centrosinistra continua a riscuotere la maggioranza dei consensi, almeno di coloro che ancora pensano di partecipare alle elezioni.
Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tomasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com’era è l’ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà.
Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l’ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d’animo diffuso è lo scoramento. Una volta l’orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de France. Oggi che la Ferrari è un’azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l’esultanza del tifo.
Ma c’è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com’era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell’uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana.
Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c’era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno.
Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi.

Il manifesto, 14 aprile 2015
La spesa militare italiana, calcolata al tasso di cambio corrente dollaro/euro, è salita da 65 milioni di euro al giorno nel 2013 a circa 70 nel 2014.
Anche nell’ipotesi che resti invariata nel 2015 (cosa impossibile perché la Nato preme per un aumento), la spesa annuale del 2014 equivale, all’attuale tasso di cambio, a 29,2 miliardi di euro, ossia a 80 milioni di euro al giorno.
Ciò emerge dai dati sulla spesa militare mondiale, pubblicati ieri dal Sipri. Più precisi di quelli del Ministero della difesa, il cui budget ufficiale ammonta nel 2014 a 18,2 miliardi di euro, ossia a circa 50 milioni di euro al giorno. Ad esso si aggiungono però altre spese militari extra-budget, che gravano sul Ministero dello sviluppo economico per la costruzione di navi da guerra, cacciabombardieri e altri sistemi d’arma e, per le missioni militari all’estero, su quello del Ministero dell’economia e delle finanze. L’Italia è al 12° posto mondiale come spesa militare
Nettamente in testa restano gli Stati uniti, con una spesa nel 2014 di 610 miliardi di dollari (equivalenti, all’attuale tasso di cambio, a 575 miliardi di euro).
Stando ai soli budget dei ministeri della difesa, la spesa militare dei 28 paesi della Nato ammonta, secondo una sua statistica ufficiale relativa al 2013, ad oltre 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti al 56% della spesa militare mondiale stimata dal Sipri. In realtà la spesa Nato è superiore, soprattutto perché al bilancio del Pentagono si aggiungono forti spese militari extra budget: ad esempio, quella per le armi nucleari (12 miliardi di dollari annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’energia; quella per gli aiuti militari ed economici ad alleati strategici (47 miliardi annui), iscritta nei bilanci del Dipartimento di stato e della Usaid; quella per i militari a riposo (164 miliardi annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento degli affari dei veterani. Vi è anche la spesa dei servizi segreti, la cui cifra ufficiale (45 miliardi annui) è solo la punta dell’iceberg.
Aggiungendo queste e altre voci al bilancio del Pentagono, la spesa militare reale degli Stati uniti sale a circa 900 miliardi di dollari annui, circa la metà di quella mondiale, equivalenti nel bilancio federale a un dollaro su quattro speso a scopo militare.
Nella statistica del Sipri, dopo gli Stati uniti vengono la Cina, con una spesa stimata in 216 miliardi di dollari (circa un terzo di quella Usa), e la Russia con 85 miliardi (circa un settimo di quella Usa). Seguono l’Arabia Saudita, la Francia, la Gran Bretagna, l’India, la Germania, il Giappone, la Corea del sud, il Brasile, l’Italia, l’Australia, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia. La spesa complessiva di questi 15 paesi ammonta, nella stima del Sipri, all’80% di quella mondiale.
La statistica evidenzia il tentativo di Russia e Cina di accorciare le distanze con gli Usa: nel 2013–14 le loro spese militari sono aumentate rispettivamente dell’8,1% e del 9,7%. Aumentate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polonia (13% in un anno), Paraguay (13%), Arabia Saudita (17%), Afghanistan (20%), Ucraina (23%), Repubblica del Congo (88%).
Ogni minuto si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno
I dati del Sipri confermano che la spesa militare mondiale (calcolata al netto dell’inflazione per confrontarla a distanza di tempo) è risalita a un livello superiore a quello dell’ultimo periodo della guerra fredda: ogni minuto si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno. Ed è una stima per difetto della folle corsa alla guerra, che fa strage non solo perché porta a un crescente uso delle armi, ma perché brucia risorse vitali necessarie alla lotta contro la povertà.
Il manifesto, 14 aprile 2015
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Può un paese, che ha appena ricevuto la condanna della corte di Strasburgo, permettersi di giocare sulle delicate materie elettorali e costituzionali affidandosi alla giuliva esuberanza di Boschi e di Renzi, che scommettono sull’adozione in ogni angolo del continente delle loro splendide riforme illiberali?
Per ora l’Europa, nel campo del diritto pubblico, ha ricevuto dalla politica italiana solo la riesumazione della tortura di Stato, la fioritura delle leggi ad personam, la comparsa della giustizia penale con ben scolpito un volto di classe. Un’ennesima legge elettorale di segno illiberale e completo sarebbe il quadro della deriva dell’ordinamento.
Al posto di tante chiacchiere di ministri e relatori incompetenti chiamati a redigere le nuove norme per il voto, il parlamento dovrebbe confezionare una legge elettorale non sulla base dei sogni di successo del leader attuale, ma avendo un qualche disegno di sistema. I calcoli di intascare una vittoria certa, manovrando a piacimento le tecniche elettorali, peraltro non portano bene.
Ne fece le spese già un De Gasperi minore, che pagò la forzatura illiberale della legge truffa (premio del 65 per cento dei seggi al “polipartito” coalizzato) con una sconfitta, che accelerò il tramonto di un leader.
In nome della democrazia protetta e dello Stato forte, aveva sospinto il paese nelle incertezze di un conflitto radicale (clima di stato d’assedio a Roma, incidenti alla camera, Ingrao fu manganellato dalla celere, i deputati d’opposizione abbandonarono l’aula cantando l’inno della repubblica). E anche la strana coppia Occhetto-Segni, che aveva ottenuto il permesso di scrivere la nuova legge elettorale sotto dettatura referendaria, uscì di scena con le prime consultazioni maggioritarie. All’ingegneria elettorale di Calderoli non andò meglio.
Una democrazia malata che scrive tre leggi elettorali in vent’anni, e che da dieci lustri convive con una formula giudicata dalla Consulta incostituzionale, dovrebbe muoversi con ben altra responsabilità e cultura delle regole.
Il tempo per un consenso allargato del parlamento dovrebbe essere un imperativo irrinunciabile. E invece il mestiere delle riforme è appaltato a politici dell’improvvisazione che pretendono, con il 25 per cento dei voti, di imporre ad ogni costo, al restante 70 per cento, la regola del gioco fondamentale, quella elettorale escogitata per vincere.
Qualche solerte giurista all’odor di regime incoraggia il premier ad affrontare lo scontro in campo aperto, non esitando a ricorrere al voto di fiducia, che sarebbe un passaggio legittimato dal precedente della legge truffa, quando peraltro il parlamento aveva altri regolamenti. E’ vero che De Gasperi in aula pose la questione di fiducia ma, con il suo gesto (si appellò a «impellenti ragioni di calendario» e a «circostanze straordinarie»), provocò una crisi istituzionale lacerante, che nessuno statista lungimirante può permettersi di scatenare. Lo stesso presidente del consiglio riconobbe che «la fiducia su un disegno di legge non appartiene alla procedura usuale». Il presidente del senato Paratore lo interruppe scandendo: «e non costituisce precedente!».
Colpito dalle accuse del governo, in merito ai suoi sforzi di mediazione, e anche ai suoi cenni di apertura all’ipotesi di un referendum ventilata da Togliatti (si avviò la raccolta di 500 mila firme per la richiesta del referendum, da abbinare alle elezioni politiche con la scelta affidata agli elettori tra l’attribuzione dei seggi secondo la nuova o la vecchia legge), Paratore rassegnò le dimissioni.
Secondo il governo d’allora, il senato avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della legge che riguardava solo le modalità di elezione della camera dei deputati. Ma, come rammentò Umberto Terracini, i precedenti storici smentivano la fretta del governo. Nel 1881–82 il senato non solo discusse i ritocchi alla legge elettorale ma votò emendamenti di cui fu tenuto conto. Le opposizioni si scagliarono contro la pretesa dell’esecutivo centrista di stabilire una data per l’approvazione del testo.
Il senso illiberale della legge truffa, disegnata per arginare quelli che Scelba chiamava «i massicci partiti totalitari», lo colse in pieno il giurista Vittorio Emanuele Orlando che stigmatizzò un’arbitraria propensione del potere in carica, quella di inventare le nuove regole a ridosso delle consultazioni elettorali (il progetto di legge fu presentato solo il 21 ottobre del 1952, con elezioni previste nella primavera del 1953), che purtroppo farà scuola. In una lettera Orlando ammonì: «Considero come disonesta ogni legge elettorale che sia precedente immediatamente le elezioni». E aggiunse: «Ora siccome il governo attuale vuole questo atto disonesto, precede la mia ribellione su questo punto».
I riscontri storici mostrano che non può esserci il sospetto, in un sistema democratico appena decente, di scrivere le regole “disoneste” della contesa sull’abito delle convenienze del detentore congiunturale del potere.
Le riforme, soprattutto se varate da un parlamento illegittimo quanto alla sua composizione alterata dal premio di maggioranza, non si definiscono seguendo le sirene del trionfo annunciato ma ipotizzando anche argini alla banalità del male. In un sistema tripolare, con partiti liquidi e forze a vocazione antisistema, è segno di pura incoscienza contemplare la possibilità che dal ballottaggio esca con i galloni del comando una formazione con il 20 per cento o anche meno dei consensi.
Nell’attuale sistema tutto si è sciolto e non esistono le condizioni reali per una competizione bipolare. Per questo la trovata del ballottaggio di lista perde ragionevolezza, efficacia. Lo scivolamento plebiscitario del Pd, che invoca i presunti mandati imperativi scaturiti dai gazebo, rivela un deterioramento del quadro istituzionale.
Costituisce «un pensiero aberrante», ha scritto Gianfranco Pasquino, l’idea di invocare la disciplina parlamentare sulle riforme, come hanno fatto Renzi, Boschi, persino i giovani turchi. «La disciplina di partito –spiega Pasquino– può essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli elettori».
Se non una deriva autoritaria, un grave clima di degenerazione dello spirito costituzionale è già operante. Non c’è specialista di sistemi elettorali che non abbia mostrato i limiti strutturali dell’Italicum. Anche tra i giuristi non ostili verso il riformismo di Renzi si riconosce che l’Italicum «è molto simile al Porcellum» e non supera «le obiezioni sostanziali» mosse dalla Consulta, che anzi nel quadro tripartitico «risultano forse aggravate» (A. Marrone, “Il Mulino”, 2014 n. 4, p. 555).
Senza partiti funzionanti, in grado cioè di censurare il leader, di sfidarlo alla pari e di non essere dei passivi nominati agli ordini di chi ha lo scettro, l’Italicum oscilla tra cadute assembleari e velleità cesaristiche. All’elezione diretta del capo di governo, il congegno aggiunge anche il controllo del 55 per cento della camera delineando così un premierato illimitato. Una postmoderna repubblica delle banane con la leadership creata dai salotti della tv.
In questo quadro, è indispensabile la vigilanza critica del Colle, che dovrebbe essere allertato dal costoso precedente della mancata censura preventiva che nel 2006 consegnò il Porcellum viziato dai guasti illiberali denunciati dalla Consulta.
Non si tratta della consueta arte di tirare per la giacca il presidente coinvolgendolo nel gioco politico.
E’ invece l’attesa della rigorosa copertura del ruolo tracciato dalla Carta e che implica l’esercizio del rinvio per regole che emanano il solo dubbio di incostituzionalità. Dinanzi alla volontà di potenza di un partito (diviso) del 25 per cento, che ripropone una legge con antichi vizi (nessuna soglia è prevista per l’accesso al ballottaggio), tocca al Quirinale ripristinare le condizioni minimali di un confronto democratico così gravemente alterato.
«L’impoliticità di papa Francesco mette a nudo l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici». La Repubblica, 14 aprile 2015
L’OSTINAZIONE con cui Ankara proibisce ai suoi cittadini di fare i conti con lo sterminio armeno si scontra con il candore di Francesco. Cioè il papa che meno di qualunque altro fra i suoi predecessori si concepisce capo di Stato, assoggettato come tale ai vincoli della realpolitik.
Quasi tutti gli storici concordano nel ritenere la cifra delle vittime, persone uccise o morte di stenti nel corso della deportazione di massa che nel 1915 le ha strappate alle loro case, ampiamente superiore al milione. È altrettanto incontestabile che quel massacro sistematico di un popolo intero, svolse una funzione decisiva nell’ispirare Adolf Hitler: gli fece cioè balenare la possibilità concreta, anche nell’età contemporanea, di concepire una “soluzione finale” di sterminio industrialmente pianificato. A partire dal 1951, dopo un ampio dibattito, le Nazioni Unite hanno deliberato che crimini di questo tipo, miranti all’eliminazione fisica di un’intera popolazione, debbono essere definiti con il termine “genocidio”. Fu un avvocato ebreo di Leopoli, prima ancora che la sua famiglia scomparisse nel gorgo della Shoah, a coniare la parola “genocidio” che gli venne ispirata dalla fine degli armeni nell’indifferenza della comunità internazionale. Lemkin condusse per decenni, in solitudine e con pochissimi mezzi, la sua battaglia per un diritto internazionale adeguato al ripetersi di crimini di Stato. Trovò udienza solo al termine della seconda guerra mondiale, dopo che quella tragedia si era replicata, su scala ancora maggiore, nel cuore dell’Europa.
L’impoliticità di papa Francesco e la reazione furiosa delle autorità turche, stanno provocando un sano cortocircuito. A dimostrazione del fatto che le ferite della storia non si rimarginano mai spontaneamente, che l’atavica legge del più forte non basta più a seppellire la memoria dei vinti. È orribile l’insinuazione di Ankara, secondo cui a influenzare Bergoglio sarebbe stata niente meno che la “lobby armena” insediatasi a seguito della diaspora novecentesca in Argentina. È il solito bieco argomento rivolto contro le vittime che non accettano di rassegnarsi in silenzio, alle quali viene attribuito subdolamente chissà quale potere e volontà sopraffattrice.
Ma l’impoliticità di papa Francesco mette a nudo anche l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici. Per fortuna ieri sera il ministro Gentiloni è intervenuto, sia pure con estrema cautela, a rettificare l’infelice sortita di un sottosegretario che non aveva trovato di meglio che bacchettare le parole di Francesco. Rivendicando l’opportunità che il governo italiano, per quieto vivere, releghi il genocidio armeno a mera controversia storica. Niente male per un Paese come il nostro che ha appena introdotto con voto parlamentare il (discutibilissimo) reato di negazionismo storico.
Sappiamo bene quanto sia delicato il tema delle nostre relazioni con la Turchia, soprattutto oggi che l’offensiva jihadista divampa sulle coste del Mediterraneo. Il genocidio armeno fu portato a termine da un regime che stava assumendo il nazionalismo più esasperato come nuova politica di potenza, in sostituzione del Califfato islamico morente, quando ormai stava venendo meno la secolare funzione imperiale del Sultano di Istanbul.
Di nuovo oggi Erdogan aspira a disseppellire il miraggio dell’impero ottomano. Fallito il tentativo di presentarsi come riferimento di nuovi modelli statali islamici, fondati sull’integralismo dei Fratelli Musulmani sconfitti in Egitto e Tunisia, il presidente turco non rinuncia a proporsi come leader del mondo sunnita. Fino al punto di avere intrattenuto una relazione ambigua con l’Is, che troppo a lungo ha potuto utilizzare la penisola anatolica come retrovia. Anche l’inusitata durezza con cui Ankara reagisce alle parole di Francesco, sembra mirata a trasformare la questione armena in fattore di contrapposizione religiosa fra mondo islamico e mondo cristiano.
Evitare di cadere in questa trappola, non ci esime dal tenere duro sui principi su cui si fonda la nostra civiltà occidentale. La quale, per sua natura, di fronte a un genocidio si fa carico del punto di vista delle vittime. Opponendosi alla pretesa di chi vorrebbe rimuovere con la prepotenza una memoria insanguinata. Anche chiamando col suo nome un genocidio.
La candida potenza di Francesco, il vescovo di Roma che rimette in discussione le logiche statuali con cui si è mossa per secoli la Chiesa cattolica, è una potenza davvero inerme. Ma è un richiamo di verità cui neanche la più machiavellica delle diplomazie europee può sottrarsi.
L'introduzione del concetto di invariante strutturale nella pianificazione territoriale ed urbana ha incontrato numerosi problemi applicativi. Lo scopo del libro è indagarne le ragioni e formulare una nuova definizione capace di superarli. Al centro dell’analisi si trova il rapporto fra concetti cruciali nell’interpretazione del territorio: sostenibilità dello sviluppo, risorsa, spazio, luogo, identità di luogo, statuto, strutture territoriali spazio-temporali, e le invarianti strutturali intese come strumento per produrre e riprodurre identità e qualità sociali e ambientali del territorio. Il fulcro sono l’organizzazione e i funzionamenti del territorio, i processi spazio- temporali e gli attori che se ne sono artefici. E dai valori immateriali, ma oggettivi, è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dai differenti gruppi di popolazione, in termini di memoria, attribuzione di senso e identità.
Il significato profondo del lavoro risiede nella volontà di conservare e riprodurre dei valori, che non sono solo rapporti e relazioni spaziali, né sono solo rapporti o relazioni sociali, ma sono invece relazioni spaziali-temporali che mettono in rapporto natura storia e società.
L'invariante strutturale è in primo luogo il rapporto fra gruppi sociali e territori, nella sua articolazione storica. La tesi è che non ci si possa limitare agli oggetti situati nello spazio e alle relazioni spaziali ma si debbano indagare anche le relazioni ed i processi sociali che formano quelle strutture spaziali.
Non si tratta di privilegiare le relazioni sociali rispetto alla materialità del territorio ma di considerarle entrambe e quindi allargare l’orizzonte dell’analisi su due fronti: considerare accanto allo spazio assoluto quello relativo e relazionale, e assumere nell’analisi la contemporanea presenza di relazioni sociali e strutture spaziali.
Per capire le strutture spaziali è necessario conoscere il processo di urbanizzazione e quindi le relazioni sociali spaziali e temporali che lo producono. Contemporaneamente indicare come invariante strutturale un elemento sociale o culturale o economico avulso dalle sue caratteristiche spaziali cioè senza capirne e mostrane gli effetti spaziali è altrettanto problematico. L’aggancio spaziale è necessario, si tratta di due elementi, spazio e relazioni sociali, che è necessario trattare insieme, se si vuole governare il territorio.
Se dobbiamo governare il territorio dobbiamo agire sui meccanismi e sui processi che lo producono: quelli locali e quelli sovra locali, quelli materiali e quelli immateriali. Infatti la produzione del territorio non deriva solo dagli aspetti materiali, ma anche da quelli immateriali. E al centro spicca il valore delle aree, immateriale ma oggettivo, che è determinante per la sua influenza sul processo di urbanizzazione.
Gli elementi immateriali come la memoria o i valori d’uso e di scambio, non possono certo essere localizzati sul territorio al pari di una funzione, eppure giocano un ruolo fondamentale nella trasformazione territoriale e nel processo di urbanizzazione.
Le invarianti strutturali sono le strutture, contemporaneamente sociali e spaziotemporali, costitutive e relazionali che danno forma ad un territorio e ne segnano identità, qualità e riconoscibilità. Ogni invariante strutturale è caratterizzata da una propria struttura, organizzazione e funzionamento ed è prodotta dalle interazioni fra natura / storia / società. È definita dalle relazioni interne e dalle relazioni con l’esterno.
Si possono individuare tre componenti dell’invariante strutturale. La prima è la componente materiale. Comprende le conformazioni e le configurazioni territoriali; le caratteristiche fisiche ed ecologiche, i caratteri lito-idro-geo-morfologici, ecosistemici, le strutture insediative e infrastrutturali, i sistemi agroforestali, la presenza di beni comuni; le caratteristiche qualitative e gli elementi fondanti. Sono alcuni degli aspetti studiati dalla geografia, geologia, fisiografia. Concettualmente è lo spazio assoluto (Harvey 2006), in cui si situano gli oggetti materiali, gli eventi e le pratiche. È quello dove si trovano muri, ponti, porte, scale, strade, edifici, città, montagne, bacini idrografici, confini fisici e barriere ma anche le attività lavorative e di trasformazione.
La seconda componente riguarda i processi sociali, economici e naturali nel loro specifico intreccio: essi conformano i funzionamenti e l’organizzazione dell’invariante strutturale, le relazioni interne e con l’esterno; esprimono e pongono le condizioni (regole) generative e di riproduzione; sono retti dagli attori sociali attivi nella loro produzione. In base a queste modalità di funzionamento (spazio-temporale e sociale) dovranno essere definite le regole di manutenzione, d’uso e di trasformazione che ne consentono la riproduzione. Concettualmente è lo spazio relativo, quello della frizione della distanza, della circolazione e del flusso dell’energia, dell’acqua, dell’aria, delle merci, delle persone, dell’informazione, dei soldi, del capitale.
Una terza riguarda le componenti immateriali: è lo spazio relazionale, quello della memoria, della cultura e dei valori attribuiti dalla popolazione colta nelle sue differenti espressioni.Concettualmente è lo spazio relazionale, quello delle relazioni sociali, in cui le persone sono presenti nella loro pienezza, è lo spazio vissuto, ma è anche lo spazio del valore, immateriale ma oggettivo, e quindi dei differenziali di valore immobiliare che generano processi di valorizzazione e tanto peso hanno sulle trasformazioni territoriali.
Queste tre componenti rimandano ai tre concetti di spazio: assoluto, relativo e relazionale (Harvey 2006). Si tratta di strutture della spazialità che sono sempre presenti anche se pratiche sociali differenti assegnano un peso differenziato ad ognuna di esse. La semplificazione più deleteria nell’interpretare il territorio e nell’identificare le invarianti strutturali è dare preminenza ad una sola delle componenti invece che alla loro strutturante compresenza.
Ne consegue che le regole di insediamento e di trasformazione del territorio per le invarianti strutturali dovranno contemporaneamente: garantire la riproduzione degli aspetti materiali a cui si è riconosciuto carattere strutturale; preservare l’organizzazione e il funzionamento; infine dovranno gestire e governare i valori in gioco, sia quelli sociali che quelli economici. In altri termini le regole di utilizzazione e di trasformazione dovranno governare la trasformazione territoriale che riguarda questi valori.
E proprio dai valori immateriali è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dalla popolazione compresa la questione della memoria, dell’attribuzione di senso e dell’identità. È essenziale la conoscenza del mercato immobiliare e di come i suoi valori si sono costituiti nel rapporto fra mercato e governo pubblico del territorio.
Un secondo passo è conoscere come questi valori e queste memorie si esprimono nel processo di urbanizzazione e trasformazione territoriale in corso, in modo tale da sapere su quali processi bisogna agire per permettere ai valori individuati come invarianti di riprodursi e quali regole di funzionamento socio-spaziali devono essere attivate.
Infine bisogna guardare alle strutture spazio-temporali che si sedimentano sul territorioindicando quali di loro devono essere preservate perché racchiudono il senso e il valore di quel territorio e perché possono essere considerate perni su cui ruota il funzionamento di quel territorio.
Le regole di trasformazione e di funzionamento debbono vertere su tutti e tre gli aspetti dell’invariante strutturale. Il maggior limite nella definizione delle invarianti strutturali nei piani ai vari livelli è stato di relegarle nel materiale, dimenticando l’immateriale, come se tutto fosse forma ed immagine e non anche contenuto.
Harvey D. (2006), Spaces of global capitalism, Verso, London - New York.
Il libro Invarianti strutturali nel governo del territorio è scaricabile gratuitamente dal sito dell'editore Firenze University Press:
«Il conflitto. Riunione informale ieri a Roma con associazioni, centri sociali, partite Iva e precari della Coalizione 27 febbraio. Nella Cgil lo scontro sul futuro del sindacato è duro. La segretaria Camusso definisce la coalizione "una scorciatoia": "Non andrà da nessuna parte. Restiamo della nostra idea"».
Il manifesto, 12 aprile 2015
La prossima settimana il manifesto della coalizione sociale sarà diffuso in vista di un’assemblea di due giorni programmata a metà maggio. Nelle intenzioni del segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe chiarire che la «coalizione sociale» non è un partito ma «un processo aperto e in divenire». Nella bozza distribuita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quartiere Centocelle di Roma, poi diffusa dall’Ansa, si legge che la coalizione vuole «dimostrare che si può fare politica attraverso un agire condiviso, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».
La coalizione sociale sarebbe dunque il risultato di un «agire condiviso», «fuori e non in competizione» con i partiti. Probabilmente la precisazione serve a raffreddare le reazioni della «sinistra Pd» o dei Cinque Stelle, che vedono con insofferenza l’esperimento di Landini. Si punta a fare coalizione con tutti i lavoratori, precari e «nuovi poveri» con la partita Iva, sul «territorio» e «nei luoghi di lavoro», non tra gli schieramenti.
All’incontro hanno partecipato associazioni come Act, movimenti come il Forum dell’acqua e centri sociali dell’Emilia Romagna. È intervenuto anche Stefano Rodotà che ha ribadito il giudizio contro la «zavorra» dei partiti. Una posizione, ha ammesso, che ha innervosito molti nei partiti. A suo avviso la «coalizione sociale» ha «una carica polemica positiva»: registra la crisi della rappresentanza della politica e intende restituire rappresentanza sociale e politica al lavoro. Per Rodotà questa è la base di un’altra cultura e agenda politica da sottoporre anche a chi, nei partiti, è sensibile ai beni comuni o alla proposta di legge d’iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione.
L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pomeriggio le agenzie hanno riportato le dichiarazioni di Landini e dei partecipanti. Dopo le 13,30 sugli smartphone sono apparse le dure parole della segretaria Cgil Susanna Camusso. La coalizione sociale è una «scorciatoia – ha detto — non mi pare che vada da nessuna parte». Per la segretaria la strada è diversa: primato del sindacato e autonomia dai soggetti sociali e politici. Obiettivo: ritrovare «l’unità tra i lavoratori e le organizzazioni sindacali».
Per Landini, invece, il sindacato da solo non basta nel momento in cui Renzi è determinato a cancellare tutti i corpi intermedi, agevolando così il processo di rivoluzione dall’alto in corso nell’Europa dell’austerità. Il suo è un deficit di rappresentanza, e di potere sociale, che va recuperato facendo coalizione con i mondi del lavoro non dipendente e precario, oltre che nella società. Differenze che torneranno a farsi sentire in vista della conferenza di organizzazione della Cgil.
Su questo scontro tra Landini e Camusso si sta giocando il futuro del sindacato. La sua proposta di coalizione sociale vuole costruirne uno diverso, mettendo in comune «saperi e esperienze» con la società, anche attraverso il «mutualismo», altra parola chiave. Ai soggetti che la compongono sono state proposte «campagne per obiettivi comuni» contro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pensione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinunciare a ciò che sono, ma di partecipare a quelle su cui sono d’accordo.
Gli avvocati di Mga, i farmacisti di Fnpi, gli attivisti dello sciopero sociale che fanno parte della «Coalizione 27 febbraio» hanno sostenuto le ragioni di una campagna contro il «business» della Garanzia giovani, fisco e previdenza equi per i precari e le partite Iva, il reddito di base. Su questo manifesteranno il 24 aprile alla sede centrale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coalizioni in formazione – sostengono – Bisogna determinare le combinazioni che aumentano la forza di tutti ed evitare di definire subito il perimetro di una sola».
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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa parliamo quando parliamo di coalizione sociale?

COMINCIO con una citazione dello storico francese Jacques Julliard ne “Le Monde” di venerdì scorso: «Que serait une gauche sans le peuple? Le socialisme, certes, c’est une moral mais doublée d’une empathie populaire. Or une partie du peuple des gauche fait sécession et exprime un vote de désaffiliation. Il y a surtout 50 pour cent d’abstensions, c’est-à-dire une gigantesque crise du politique, un incontestable malaise dans la représentation. Les professionnels de la politique ont rongé la vie democratique».
Non si poteva descrivere meglio quello che sta accadendo in Francia: «Un paysage bouleversé» che anche in Italia presenta esattamente la stessa crisi: i professionisti della politica stanno distruggendo la democrazia, la sinistra sta perdendo l’appoggio popolare e la sinistra senza il suo popolo non esiste più.
Ed ora citerò un grande discorso che De Gasperi tenne in Parlamento il 17 gennaio del 1953, alla vigilia del voto sulla legge elettorale che pochi mesi dopo fu battuta dalle opposizioni di destra e di sinistra. Fu chiamata legge truffa, ma non lo era affatto; dava un premio al partito o alla coalizione che aveva ottenuto il 50,1 per cento dei voti. «Questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia. Si limita a rafforzare la maggioranza affinché sia più solida e possa governare come è suo diritto. Ma se perdesse il 50 meno un voto sarebbe sconfitta da chi invece prendesse due voti di più. Vi sembra che questa sia un’intollerabile sopraffazione?».
COSÌ diceva De Gasperi. Mettete insieme questi concetti espressi cinquantuno anni fa e quelli de Le Monde di tre giorni fa e vedrete una perfetta identità di ragionamento che descrive in tutta la sua evidenza lo stato della democrazia nel nostro Paese, aggravato in più da altri due fatti salienti: l’abolizione del Senato e una legge elettorale che non solo trasforma in maggioranza una minoranza cui mancano dieci punti percentuali per arrivare al 50 più uno, ma che è anche una legge di «nominati».
Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l’abolizione della democrazia parlamentare. Un Parlamento di «nominati» in un sistema monocamerale è una «dependance» del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale.
Resta naturalmente la Corte costituzionale ma anch’essa può finire con l’essere una Corte nominata dall’esecutivo se desse troppa noia all’autoritarismo d’un governo a sua volta sottomesso alla decisione d’un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l’essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato?
Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare.
Detto questo ci sono questioni economiche e sociali altrettanto urgenti e importanti da affrontare. Comincerò spiegando che cosa è e da dove proviene quel cosiddetto tesoretto di un miliardo e 600 milioni che improvvisamente il presidente del Consiglio ha estratto venerdì scorso dal cilindro tra la sorpresa del Consiglio dei ministri che stava esaminando la legge di stabilità presentata dal ministro dell’Economia.
A leggere la maggior parte dei giornali le madri del tesoretto sarebbero il miglioramento del Pil, la ripresa dell’occupazione, il mutamento delle aspettative e gli effetti che questo determina sui consumi e sulla domanda. Ebbene, non è così. Il tesoretto viene dagli effetti della manovra monetaria di Mario Draghi che come primo risultato ha prodotto un ribasso consistente del rendimento dei titoli pubblici e quindi una diminuzione di circa due miliardi di euro negli oneri che il Tesoro sopporta per pagare gli interessi sui titoli in circolazione.
Due settimane fa avevo chiuso il mio articolo scrivendo «meno male che Draghi c’è». Non voglio ripetermi, del resto i fatti stanno a provarlo e non solo per quanto riguarda l’Italia ma l’Eurozona nel suo complesso.
Un altro problemino da chiarire riguarda il Jobs act e il ministro Poletti, che chiacchiera molto e spesso a sproposito. Quale giorno fa, citando fonte Istat e interpretandola a suo modo, informò la pubblica opinione che il primo bimestre di quest’anno, paragonato al corrispondente bimestre dell’anno scorso, registrava una crescita dell’occupazione di oltre 79 mila unità. Poco ma buono, un inizio d’anno comunque confortante.
Gli fu obiettato che doveva tener conto dei contratti stipulati sulla base del Jobs act ma non aveva tenuto conto dei licenziamenti che erano stati nel frattempo effettuati. E così si scoprì che, fatte le debite sottrazioni, il saldo tra nuove assunzioni di precari e licenziamenti era di 44 mila occupati in più.
Molto poco ma pur sempre una cifretta positiva e comunque un indizio confortante che sarebbe certamente aumentato con rapidità. Ma poi, impietosamente, ieri sono usciti i dati dell’Inps sull’occupazione nel suo complesso. Va infatti chiarito che i contratti sulla base del Jobs act non sono vere e proprie assunzioni ma semplicemente un consolidamento di alcune forme di precariato con contratti a tempo indeterminato per tre anni, salvo la facoltà di licenziamento alla scadenza del triennio.
L’Inps invece parla di occupazione e disoccupazione vera e propria, chi lavora sotto qualunque forma contrattuale e chi non lavora affatto. Anche qui il saldo è positivo e sapete qual è la cifra: 13 persone in più. La scrivo in lettere per esser sicuro che la lettura sia corretta: tredici persone in più. Una cifra che percentualmente è espressa con il numero zero perché non è matematicamente percepibile come percentuale.
Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane.
Salvo un punto: ha abolito l’articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc’anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui.
Io speriamo che me la cavo, è un vecchio detto sempre attuale di fronte a rischi di tal genere.
In questi ultimi venti giorni sono accaduti fatti orrendi nel mondo: la strage di massa del cosiddetto Califfato che avviene in tutto l’agitatissimo Medio Oriente ma anche in Europa; il fondamentalismo nelle religioni, la strage-suicidio nell’aereo della Lufthansa voluta da un pazzo; il massacro di un altro pazzoide al tribunale di Milano, il tema della tortura e quello della corruzione.
Secondo me c’è stata una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella è papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro. Chi vive il presente e non vede il tempo lungo, chi ama il potere per il potere e non guarda al bene dei figli e dei nipoti, rischia di annaspare in una palude di acque morte.
È quello il rischio, è quello il pericolo che ci sovrasta e neppure Francesco riuscirà ad evitarlo.
Noi abitiamo un Paese di grandi individui e di grande civiltà ma pochi ne hanno goduto. Una aristocrazia di geni che ha educato attraverso i secoli un popolo di persone consapevoli e responsabili, un popolo sovrano ma minoritario in patria. Il resto era plebe fatta di poveri, di deboli, di esclusi, ma anche di corrotti, di tiranni, d’avventurieri, di buffoni e di voltagabbana.
Questo avviene in tutto il mondo, la violenza, la cupidigia, l’avidità, l’avarizia di sé sono dovunque è l’animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l’istintoanimalesco e la coscienza, il bene suo e il bene degli altri. Stiamo attraversando un fine d’epoca dominata dall’egoismo. Non potrebbe essere altrimenti, quando un’epoca tramonta e la nuova non ha ancora preso forma e creato nuovi valori.
Ho scritto molte volte queste riflessioni e mi scuserete se le ripeto. Non sono certo un oracolo e spero sempre di sbagliarmi, ma i fatti purtroppo mi danno ragione o almeno così mi sembra.
Può darsi che la comunicazione di massa che mai prima d’ora aveva raggiunto questa intensità, sottolinei le cattive notizie e trascuri le buone. Comunque suscita nuovi istinti e nuovi pensieri.
L’elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente ma richiede tempo lungo per essere costruito a misura dell’uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».
il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla
Quando parliamo di sociale, ci riferiamo alle relazioni tra le persone — e, da qualche tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel linguaggio politico, sociale si riferisce alle modificazioni di quei rapporti con l’azione collettiva: iniziative condivise da una pluralità di attori che indichiamo con il termine generico di movimenti.
Con il termine politico ci riferiamo invece in modo esplicito ai rapporti di potere, cioè alla gerarchia che contraddistingue l’assetto sociale: sia che l’azione politica sia diretta alla sua conservazione, sia che sia diretta alla sua modificazione.
Quella tra sociale e politico è una distinzione che nel corso del tempo ha subito molte modificazioni in relazione al contesto e oggi tende a sfumare: è venuta meno “l’autonomia del politico”, nel senso che la politica non viene più percepita come una sfera disincarnata, dotata di una sua logica interna, dove si confrontano visioni del mondo, obiettivi, strategie e tattiche differenti; viene invece considerata sempre più un aggregato sociale, dotato di una propria dinamica — a cui ci si riferisce spesso con il termine “casta” — da analizzare e spiegare in termini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i connessi privilegi — di mediare il rapporto tra i centri del potere finanziario mondiale che dominano sull’economia globale e chi ne subisce il comando. Viceversa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movimenti per trasformare la realtà, viene da tempo riconosciuta una dimensione intrinsecamente politica, perché non si ritiene più possibile modificare quei rapporti, anche nei suoi aspetti più parziali, senza mettere in discussione il potere, la struttura gerarchica da cui dipendono.
Ma è comunque un salto logico identificare sociale con sindacale e politico con partitico (Marco Revelli, il manifesto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà possono solo intercorrere rapporti analoghi a quelli configuratisi nel corso del Novecento: il modello socialdemocratico, quello laburista e quello “francese”. Se questi “tipi ideali” sono accettabili in riferimento al secolo scorso, ora il sociale non è più riconducibile al solo sindacale; né il politico al solo partitico. Questa era peraltro la ragione che aveva indotto Revelli a teorizzare l’impasse del suo “Finale di partito”. Per questo il dibattito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sempre allontanati, non può essere usato, come suggeriscono Favilli e Revelli, per definire le opzioni che abbiamo di fronte, né per raccomandare — troppo facile dirlo senza praticarlo — di “cercare ancora”.
La situazione odierna non è più quella in cui si era andato costituendo il movimento operaio dell’Occidente; né quella in cui aveva imposto alla controparte capitalistica e statuale le innovazioni dello Stato sociale: contrattazione collettiva con valenza normativa e gestione statuale dei servizi sociali: sanità, istruzione, pensioni e, in parte, abitazione.
La prima era caratterizzata da una contiguità fisica delle abitazioni dei lavoratori tra di loro e con il luogo di lavoro, sicché la vita sociale che si svolgeva nelle une faceva da retroterra anche alle lotte nelle fabbriche. Di qui la reciproca integrazione tra lotte rivendicative e sforzi per costruire, con il mutualismo e il movimento cooperativo, una alternativa sociale autonoma e autogestita alla miseria indotta dall’industrializzazione.
La seconda, che ha avuto il suo apogeo quando ormai le principali misure di autotutela promosse con il mutualismo erano state sussunte dallo Stato e gestite da entità pubbliche in forme universalistiche, aveva comunque trovato la sua base sociale nell’omogeneità della condizione lavorativa di una manodopera ammassata nei grandi impianti della produzione fordista.
Entrambi questi retroterra sono venuti meno, anche se nessuno dei due è scomparso del tutto. La condizione con cui deve misurarsi il “sociale” oggi è una elevatissima dispersione e differenziazione dei poveri e delle classi lavoratrici sia sul territorio che nei luoghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psichico ed esistenziale, a contrassegnare i rapporti sociali del giorno d’oggi; ancora più importante è il predominio culturale del pensiero unico; della competizione universale di tutti contro tutti e della “meritocrazia”, intesa come legittimazione del diritto del più forte a lasciare indietro e schiacciare il più debole.
Certo questa ideologia e la sua egemonia hanno una base materiale nella dispersione imposta dallo sviluppo capitalistico e dalla sua globalizzazione. Ma proprio per questo l’impegno della politica nel contesto odierno deve essere un lavoro di ricostruzione di relazioni sociali solidali e paritarie, mettendo al primo posto i diritti e la dignità delle persone: una pratica che riguarda soprattutto la costruzione di movimenti, le relazioni sociali dentro i movimenti e i rapporti tra movimenti di orientamento o ispirazione diversi.
Per far sì che quei movimenti, intesi nel senso più ampio, si diano una rappresentazione, e una rappresentanza, più ampia possibile della propria collocazione sociale e politica, e con ciò stesso dei propri obiettivi e delle proprie finalità — è questo il senso della coalizione sociale — e non perché si riconoscano in una rappresentanza politica precostituita.
Vano è limitarsi a guardare a un presunto “spazio a sinistra” del Pd che — affidandosi a una “topologia politica” che non ha riscontro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evoluzione dei partiti socialdemocratici europei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sintomatico. Quello spazio è in gran parte immaginario, o non “a disposizione” del primo arrivato per costruire qualcosa di solido; e meno che mai a disposizione di organizzazioni già in fila da anni, senza risultati, per riempirlo.
Quel “cercare ancora” deve essere un nuovo modo di fare politica; ma anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra. Le classi non esistono più? Sì, esistono, ma bisogna farle emergere alle luce del sole percorrendo strade nuove e non la riproduzione dell’ennesima riaggregazione dei resti della “sinistra radicale”.
P.S. A beneficio di Luciana Castellina e di chi ha letto il suo articolo (il manifesto, 7 aprile), preciso che non ho mai scritto che «i partiti sarebbero tutti ceto politico» (lo sono in gran parte i loro dirigenti più o meno permanenti e molti loro rappresentanti nei corpi elettivi e nelle società partecipate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le organizzazioni che operano nella società civile sarebbero tutte illibate» (ho scritto che hanno anche loro le loro piccole burocrazie). Sono inoltre radicalmente critico nei confronti «dell’idea negriana della moltitudine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esempio: “Virtù che cambiano il mondo”, 2013). Sono peraltro convinto sostenitore della necessità e dell’urgenza dell’azione politica, come dimostra la mia partecipazione alla fondazione di Alba, di Cambiare si può (ma non di Rivoluzione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva burocratica e autoritaria).
postilla
C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.
«
Il progetto costituzionale dell’uguaglianza, un libro a cura di Chiara Giorgi, per Ediesse. Come la crisi ha eroso la democrazia e i diritti sociali». Il manifesto, 9 aprile 2015
Nell’età del capitalismo trionfante, segnata dalla retorica del merito e dalle virtù della competizione, le ragioni dell’eguaglianza sembrano non avere più ragione di esistere. Eppure tutti noi sappiamo che una democrazia non può vivere senza eguaglianza e che lo stesso costituzionalismo rischierebbe fatalmente di deperire semmai dovesse rinunciare ad affermare le ragioni dell’égaliberté, come definita da Etiénne Balibar in un suo recente volume. Di qui, il bisogno di rilanciare nell’immediato «il progetto costituzionale dell’uguaglianza».
È questo l’appassionato appello contenuto nel volume collettaneo, curato da Chiara Giorgi, docente di Storia delle Istituzioni politiche all’Università di Genova (Il progetto costituzionale dell’uguaglianza, prefazione di Stefano Rodotà, Ediesse, euro 13). Un appello divenuto tanto più urgente quanto più la crisi economica tende drammaticamente ad abbattersi su vaste aree della società cancellando, giorno dopo giorno, diritti, garanzie sociali, lavoro.
Siamo in presenza di una drammatica e irrisolta estensione delle aree del disagio sociale che ha, in questi anni, determinato un’inedita e dilaniante «esplosione delle diseguaglianze» (così come definita da Laura Pennacchi). Eppure la povertà — avverte Enrico Pugliese – continua ad essere la grande «questione rimossa». Né vi è da sorprendersi: ci troviamo a vivere una fase storica che ha fatto della competizione il motore dell’organizzazione sociale e del mercato il modello etico sul quale costruire le relazioni umane.
Una vera e propria offensiva politica e culturale che ha le sue origini agli inizi degli anni Ottanta quando, in nome del dogma liberista, si diede vita (con gli esecutivi Thatcher e Reagan) a una nuova fase del governo dell’Occidente. È da questa svolta neoconservatrice, teorizzata sin dagli anni Settanta dalla Trilateral, che trarrà forza quel lento (ma pervasivo) processo di dissoluzione del costituzionalismo democratico che rischia di oggi di consumarsi sotto nostri occhi. Bersaglio privilegiato di questa offensiva sarà, non a caso, l’idea costituzionale di eguaglianza e la convinzione, ad essa sottesa, che «senza eguaglianza la libertà si chiama privilegio».
Di qui l’esigenza — espressa con toni marxiani da Gaetano Azzariti — di riprendere «la lotta rivoluzionaria per l’uguaglianza di ognuno come condizione necessaria per il libero sviluppo di tutti», coinvolgendo in questo movimento storico non solo i cittadini, ma anche i migranti. Per il costituzionalista Azzariti, l’eguaglianza — per inverarsi nuovamente nella storia — ha pertanto bisogno di tornare ad essere il terreno prioritario di azione di tutti gli esclusi, gli stranieri, i discriminati per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Sono questi, d’altronde, i soggetti a cui si rivolge l’art. 3 della Costituzione repubblicana: il «capolavoro istituzionale» di Lelio Basso.
Ed è proprio all’impegno costituente di Basso e al suo «capolavoro» che Chiara Giorgi dedica il suo saggio, disvelandone accuratamente, pagina dopo pagina, genesi e sviluppi di questa norma-principio. Norma dalla quale trarranno consistenza, a partire dalla fine degli anni sessanta, non solo i diritti sociali, ma più in generale, i processi di costruzione dello Stato democratico-sociale (sulla «portata rivoluzionaria del principio dello Stato sociale», con particolare riferimento alla Legge fondamentale tedesca, il volume contiene un interessante contributo di Erhard Denninger).
Ma il tentativo di coniugare libertà ed eguaglianza, diritti e democrazia è espressione di un’asfittica (in quanto di matrice esclusivamente occidentale) e oramai decadente pretesa del costituzionalismo o può tornare, anche nel mondo globalizzato, ad assumere pregnanza politica e legittimità culturale? Quale è la forza propulsiva di cui dispone oggi il «progetto costituzionale dell’uguaglianza» in Europa e nel resto del mondo?
A queste tematiche il libro dedica la sua parte centrale, ospitando un «confronto tra le esperienze costituzionali dell’Unione europea e dell’America Latina»: dalla vicenda costituzionale brasiliana, ricostruita da Marcelo Cattoni a partire dall’art. 3 della Carta che affida alla Repubblica federale il compito di «sradicare la povertà e l’emarginazione e ridurre le diseguaglianze sociali e regionali», al caso argentino alle prese con la «mutazione antiegualitaria» e la «secessione degli ultraricchi» (ricostruito da Isidoro Cheresky).
Il volume contiene, altresì, due pregevoli saggi di Pietro Costa e di Luigi Ferrajoli. Costa, dopo aver ricostruito i traguardi storici del principio di eguaglianza, si confronta con le drammatiche conseguenze prodotte dalla crisi economica sui diritti sociali, sulla crescita delle diseguaglianze e, più in generale, sulla tenuta degli assetti costituzionali. Sulla stessa scia, si colloca anche il contributo di Luigi Ferrajoli che vede nel principio di eguaglianza sociale il connotato fondamentale del costituzionalismo, l’asse di contatto che ha sempre legato e «lega le tre classiche parole della Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité, rivelandosi così, allo stesso tempo, presupposto dei diritti di libertà e fondamento del principio di fratellanza (inteso soprattutto come solidarietà sociale).
Il significato rivoluzionario del motto dell’89 francese è però progressivamente deperito nel corso degli anni. Anche perché queste parole sono state, nel tempo recente, surrettiziamente utilizzate l’una contro l’altra dalle politiche liberiste e dalla travolgente avanzata della cultura delle destre. Gli esiti sono sotto i nostri occhi: compressione degli spazi democratici di libertà, esplosione delle disuguaglianze e delle aree di povertà, rigurgiti antisolidaristici con forti connotati razzisti e neofascisti.
A fronte di tale contesto, spetta pertanto alla sinistra tentare di stabilire un nuovo terreno di connessione tra questi principi, rifondandone coerentemente le istanze, salvaguardandone i valori, modulandone gli obiettivi. Dal perseguimento del «progetto costituzionale dell’uguaglianza» dipende anche il suo futuro.
La Repubblica, 9 aprile 2015
Quale onta peggiore per uno Stato della condanna per aver torturato suoi cittadini? E cos’altro deve accadere per affermare un elementare principio di responsabilità? Quale azienda, quale gruppo sociale lascerebbe ai suoi vertici chi era alla guida del corpo che ha scritto una pagina così vergognosa da procurare la più infamanti delle censure? Per questo il j’accuse di Matteo Orfini verso De Gennaro non dovrebbe destare scalpore. Essendo se mai il minimo sindacale già all’indomani dei terribili fatti di Genova, e tanto più oggi dopo la vergogna nazionale subita con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Non si tratta qui di responsabilità penale, visto che De Gennaro è stato assolto con l’applicazione degli strumenti a disposizione dei giudici. Si tratta, ben più semplicemente, di responsabilità senza aggettivi. Se guido un corpo dello Stato che può essere anche il più meritevole, e se pure io stesso fossi il più medagliato dei funzionari, e quel corpo si rende attore di una così grave nefandezza, non ci sono alternative, la mia responsabilità deve essere pubblicamente riconosciuta al di fuori e a prescindere da ogni profilo civilistico, penalistico o contabile. Responsabilità, appunto, senza aggettivi. È una regola che dovrebbe valere per tutti.
Non solo: la Corte di Strasburgo ha messo all’indice anche l’inqualificabile condotta successiva della polizia, di autentico ostruzionismo nella individuazione delle responsabilità dei “torturatori”. I giudici europei hanno infatti censurato come la mancata identificazione degli autori dei pestaggi sia derivata dalla «mancanza di cooperazione della polizia», essendo costretta la Corte ad aggiungere il suo autentico stupore «che la polizia italiana abbia potuto rifiutarsi impunemente di apportare alle autorità competenti la cooperazione necessaria all’identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura».
Anche di questa clamorosa omissione di collaborazione con lo stesso Stato che la polizia rappresenta, è possibile che nessuno debba pagare? Matteo Renzi dice che la risposta sarà l’approvazione della legge sul reato di tortura. Ma si tratta di risposta a metà perché abbandona del tutto il campo del principio di responsabilità che Stato e Governo dovrebbero mettere al primo posto, per non perdere ogni credibilità nei confronti dei cittadini. Peraltro anche la legge, dopo inaccettabile ritardo, rischia di nascere claudicante con il testo uscito dalla commissione della Camera che appare confondere quello approvato dal Senato, allungando peraltro i tempi del varo definitivo. Già a Palazzo Madama infatti si trovò un punto di equilibrio tra la iniziale proposta di Luigi Manconi, che voleva una fattispecie dedicata esclusivamente all’abuso di violenza delle forze dell’ordine, e le esigenze manifestate dai sindacati di polizia di evitare una sommaria criminalizzazione.
Ora però la commissione di Montecitorio chiede all’Aula di condizionare l’accertamento del reato ad una indagine sulle finalità della “tortura” (per estorcere dichiarazioni ovvero per irrogare una impropria punizione), con il rischio paradossale di lasciare fuori la peggiore delle ipotesi che è quella dell’accanimento sadico fine a se stesso, della violenza puramente bestiale. Esattamente come quella avvenuta a Genova. Rischiamo quindi dopo il danno, la beffa di varare una legge che avrebbe difficoltà a punire proprio vicende come quella sanzionate da Strasburgo. Dipende tutto dal Pd che alla Camera può molto semplicemente approvare il testo così come uscito dal Senato, dando almeno una delle risposte che non solo l’Europa ma una elementare coscienza civica ci impone. È lecito attendersi qui da Renzi una determinazione almeno analoga a quella che manifesta sul ben più controverso Italicum.
È il minimo che possiamo pretendere dallo Stato dopo che si è troppo a lungo aspettato, troppo a lungo negato. Affidandoci ancora una volta solo alla supplenza della magistratura peraltro privata di strumenti e ostacolata nei suoi accertamenti, come Strasburgo ha dovuto infine censurare. E pure sarebbe bastato, davanti alla clamorosa evidenza dei fatti, dire «lo Stato chiede scusa ai suoi cittadini, rimuove e non promuove chi aveva posti di responsabilità ». Ed essere per una volta conseguenti. Sarebbe stata a ben vedere anche la migliore autentica difesa dello Stato e della sua Polizia.
l manifesto, 9 aprile 2-15
Ad Auschwitz, uno dei monumenti più notevoli tra quelli dedicati alle varie comunità degli internati è il cosiddetto «Memoriale Italiano». Un paio di anni or sono le autorità polacche decisero di chiuderlo al pubblico, nel silenzio del governo italiano, e dell’Aned, in teoria proprietaria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrintendenza del campo, ormai museo, ha deciso di procedere alla rimozione del Memoriale. La sua colpa? Quella di ricordare che nei lager non furono soltanto deportati e sterminati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comunisti insieme a socialdemocratici e cattolici, gli omosessuali, i disabili. Quel Memoriale opera egregia, alla cui ideazione, su progetto dello studio BBPR (Banfi Belgiojoso Perussutti Rogers, il prestigioso collettivo milanese di cui faceva parte Ludovico Belgiojoso, già internato a Buchenwald) collaborarono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiuntivi, come l’accogliere fra le sue tante decorazioni e simbologie anche una falce e martello, e una immagine di Antonio Gramsci, icona di tutte le vittime del fascismo.
Ora, ai governanti polacchi, desiderosi di rimuovere il passato, disturbano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monumento
metta in crisi «l’esclusiva» ebraica relativa ad Auschwitz. Ed è grave che una città italiana, Firenze, si sia detta pronta ad accoglierlo. Contro questa scellerata iniziativa si sta tentando da tempo una mobilitazione culturale, che si spera possa avere un riscontro politico forte e oggi su questo si svolgerà nel Senato italiano una iniziativa di denuncia promossa da Gherush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spostare quel monumento dalla sua sede naturale, equivale a trasformarlo in mero oggetto decorativo, mentre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pensato, a ricordare, proprio là, dietro i cancelli del campo di sterminio, cosa fu il nazismo e il suo lucido progetto di annientamento, che, appunto, non concerneva solo gli ebrei, collocati in fondo alla gerarchia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giudicati essere «razze inferiori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comunisti in testa, o ancora gli «scarti» di umanità, secondo le oscene teorie degli «scienziati» di Hitler.
Insomma, la rimozione del Memoriale, è una rimozione della memoria e un’offesa alla storia. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comunità israelitiche italiane, che o hanno taciuto, o hanno approvato la rimozione del Memoriale (in attesa della sua sostituzione con un bel manufatto politicamente adattato ai tempi nuovi), appare grave.
E in qualche modo richiama le polemiche di questi giorni relative alla manifestazione romana del 25 aprile.
Premesso che la cosa «si svolgerà di sabato», e dunque, come ha pretestuosamente precisato il presidente della Comunità israelitica romana, gli ebrei non avrebbero comunque partecipato, la denuncia che «non si vogliono gli ebrei», è un rovesciamento della verità: non si vogliono i palestinesi. Ed è grave l’assenza annunciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è scatenata sull’assenza della «Brigata Ebraica». La quale ha le sue origini remote niente meno in Vladimir Jabotinsky, sionista estremista di destra con legami negli anni ’30 mai smentiti con Mussolini, che convinse le autorità britanniche, nella I guerra mondiale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II conflitto mondiale, fu Churchill a lasciarsi convincere a organizzare un Jewish Brigade Group, inquadrato nell’esercito britannico: 5000 uomini che operarono in particolare nell’Italia centrale, contribuendo alla liberazione di Ravenna e di altri borghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glorie. Bene dunque celebrarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo eminente, come sembrerebbe a leggere certe dichiarazioni. Ma il fuoco mediatico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come storico ho il dovere di ricordarlo. Quei soldati divennero il nucleo iniziale delle milizie dell’Irgun e del Haganah — quelle che cacciarono i palestinesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neonato Stato di Israele, al quale offrirono anche la bandiera.
Si capisce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il martello. Ma quando leggo che il suo presidente afferma che «i palestinesi non c’entrano con lo spirito della manifestazione», mi vien voglia di chiedergli se gli amici di Netanyahu c’entrino di più. Altri hanno dichiarato in questi giorni che bisogna lasciar parlare solo chi ha fatto la guerra di liberazione; ma se così intanto andrebbero cacciati dai palchi tanti tromboni in cerca di applausi; e soprattutto se si adotta questa logica è evidente che tra poco non ci sarà più modo di festeggiare il 25 aprile, perché, ahimè, i partigiani saranno tutti scomparsi.
E allora — visto l’articolo 2 dello Statuto dell’Anpi che rivendica un profondo legame con i movimenti di liberazione nel mondo — come non dare spazio a chi oggi lotta per liberarsi da un regime oppressivo, discriminatorio come quello israeliano, rappresentato ora dal governo di destra di Netanyahu? Chi più dei palestinesi ha diritto oggi a reclamare la «liberazione»? E invece temo si vada verso questo (addirittura in queste ore in forse a Roma) e i prossimi 25 Aprile ingessati e reistituzionalizzati.
Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il manifesto, 8 aprile 2015
Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come «tortura», alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi.
Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana».
La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come «trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: «La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani».
La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne.
«Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla «mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.
La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta».
Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili».
Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e indulto.
La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo».
Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.
«I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda «bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno».
La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente».
«La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria — riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco — non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione».
L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc.
«Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu».
Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.
Il video del Tg3 Liguria la mattina dopo la mattanza alla Diaz.

Il manifesto, 4. aprile 2015
Abbiamo raggiunto al telefono negli Stati uniti Noam Chomsky. Linguista, anarchico e filosofo del Massachusettes Institute of Technology, Chomsky è autore di pietre miliari del pensiero moderno e teorico per una profonda critica del sistema mediatico. Memorabile è il suo dibattito sulla natura umana con Michel Foucault (1971). Abbiamo discusso con Chomsky dell’intesa preliminare sul programma nucleare iraniano, raggiunta giovedì a Losanna e della situazione del Medio Oriente.
Che ne pensa di questa danza sul nucleare iraniano, andata avanti per dodici anni?
L’Iran sospetta che nonostante l’accordo, i Repubblicani si rifiuteranno di cancellare le sanzioni. E così l’obiettivo principale delle autorità iraniane è che le sanzioni non siano sotto il controllo del Congresso: questa sarebbe una tragedia. Vedremo se questo punto ci sarà nel testo definitivo. La mia sensazione è che tutto il negoziato sul nucleare sia una farsa. Non c’è nessun motivo per cui l’Iran non possa avere un programma nucleare secondo il Trattato di non proliferazione (Tnp) che ha sottoscritto.
Perché parla di farsa in riferimento ai colloqui sul nucleare?
Gli Stati uniti e i suoi alleati affermano che la comunità internazionale ha chiesto all’Iran di fare delle concessioni per arrivare a un’intesa. Ma i Paesi non allineati, che rappresentano il 70% della popolazione mondiale, hanno sempre sostenuto gli sforzi nucleari iraniani. Eppure la propaganda occidentale è uno strumento potente, per questo è andata avanti per tanto tempo questa farsa.
La soluzione della controversia potrebbe disinnescare il settarismo che infiamma il Medio Oriente?
La questione centrale è che gli stati sunniti sono i principali alleati degli Stati uniti. Gli amici degli Usa sono i fondamentalisti più estremisti e vogliono dominare la regione. L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Saudita non vuole mai e poi mai un antagonista, un deterrente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la preoccupazione per gli Stati uniti? Si tratterebbe solamente di un deterrente. Nessuno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, perché il paese sarebbe vaporizzato all’istante e gli ayatollah di certo non vogliono suicidarsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deterrente contro l’aggressività di Israele nella regione. È questo che gli Stati uniti non vogliono.
Ma Netanyahu non passa giorno che non gridi contro l’intesa con l’Iran e ora la respinge?
Israele persegue una politica sistematica di conquista di tutto quello che vuole per integrarlo nella Grande Israele in violazione dei trattati di Oslo. Gaza è devastata. Queste politiche sono appoggiate dagli Stati uniti e, se continueranno a sostenere Israele, non cambieranno mai. In queste settimane, tutta la stampa mainstream Usa ha pubblicato articoli in cui si chiedeva agli Stati uniti di attaccare l’Iran. Perché la stampa iraniana non fa lo stesso? Il presupposto occidentale è l’imperialismo. In nome di questo principio all’Occidente tutto è permesso.
Esistono due posizioni opposte tra Repubblicani e l’amministrazione Obama nei conflitti in Medio oriente?
I Repubblicani sono un partito fascista. Lo stesso Barack Obama è terribile ma meno dei Repubblicani. Il principale errore di Obama però è la sua campagna con i droni. Se l’Iran facesse lo stesso contro gli ufficiali citati negli articoli della stampa Usa, come reagirebbero gli Stati uniti? La guerra dei droni è la più grande operazione terroristica mai esistita: programmata per uccidere chiunque sia sospettato di poterci danneggiare. Le operazioni con droni in Pakistan faranno crescere il numero dei jihadisti. Quando hanno iniziato, al-Qaeda era solo nelle zone tribali di Afghanistan e Pakistan ora è in tutto il mondo. Ma di questo non si può parlare nei media occidentali.
Crede che bisogna temere l’avanzata degli Houthi in Yemen?
In Yemen è vero che l’Iran dà sostegno agli Houthi, lo stesso fa l’Arabia Saudita con i suoi, sebbene alla fine si tratti di un conflitto interno. Nella propaganda occidentale però se gli Stati uniti sostengono una forza quella è legittima. In Iraq, l’Iran sostiene il governo eletto. I consiglieri iraniani formano la classe dirigente irachena e sono protagonisti delle principali battaglie nel paese. Il governo iracheno ha chiesto l’aiuto iraniano e ringrazia le sue autorità. Ma gli Stati uniti condannano l’influenza iraniana in Iraq: è davvero comico.
Crede che questo atteggiamento occidentale alimenti il terrorismo dello Stato islamico?
Lo Stato islamico è una mostruosità, ma non è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Saudita che propaga una versione estremista, wahabita, dell’Islam. Da Riad arrivano tonnellate di soldi e l’ideologia per diffondere il fondamentalismo nel mondo arabo. Certo a questo punto neppure ai sauditi piace quello che hanno creato. Questa è la conseguenza diretta dei devastanti attacchi degli Stati uniti in Iraq del 2003 e degli attacchi della Nato in Libia del 2011 che hanno esasperato il conflitto sunniti-sciiti diffondendolo in tutta la regione. In Libia questo ha comportato l’incremento del numero di milizie e una quantità di armi senza precedenti che provengono da Africa e Medio oriente. I bombardamenti della Nato hanno fatto aumentare il numero delle vittime di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Arabia Saudita ed Emirati stanno uccidendo una grande quantità di persone nei campi profughi. Ma anche questa guerra è destinata a fallire e non può comportare altro che la diffusione del jihadismo.
Pochi mesi fa non parlavamo di terrorismo ma di «primavere». Esiste un rapporto tra i movimenti sociali europei e le rivolte in Medio Oriente?
Ci sono delle similitudini. Il maggior esempio del passato è l’America latina: completamente sotto il controllo degli Stati uniti che imponevano dittatori dappertutto. Ora il Sud America è abbastanza libero dal controllo straniero. Questo è uno sviluppo di grande importanza. Molti politici latino-americani sono legati ai partiti Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Combattono tutti la stessa battaglia contro il neo-liberismo. Ma la reazione tedesca alla vittoria di Tsipras in Grecia è selvaggia, ipocrita. Nel 1953 l’Europa concesse alla Germania di tagliare gli interessi sul debito. Ma ora impone misure repressive alla Grecia dopo che Berlino l’ha devastata nella seconda guerra mondiale.
Mentre i movimenti in Medio Oriente sono finiti con il ritorno dei dittatori, come il presidente egiziano al-Sisi?
Stati uniti ed Europa hanno sostenuto i più brutali dittatori in tutto il mondo. In questo momento in Egitto si vivono i giorni più bui della sua storia moderna. Questo è l’imperialismo tradizionale, il potere della propaganda non è cambiato. I giornali in Europa lo descrivono come un modello nonostante sia un assassino brutale, un dittatore duro che ha represso la popolare organizzazione dei Fratelli musulmani mentre nel Sinai si continua a consumare una guerra.
L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».
Il manifesto, 4 aprile 2015
«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».
E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.
Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme. Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi - o che cosa - quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo.
Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle. È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare.
Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio - così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione - tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito - il Labour, appunto - è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure - e le ipotesi possono moltiplicarsi - non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema - irrisolto - di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.
Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!
La Repubblica, 3 aprile 2015
Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».
Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».
La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».
Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».
Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».
Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».
Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».
Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».
Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»
Il manifesto, 3 aprile 2015
RIPENSIAMO ALL’IRI
di Valentino Parlato
La notizia economica e politica di queste settimane è che la Cina (quella una volta rossa di Mao Tse Tung) è diventata padrona della nostra storica e famosa Pirelli. La nostra stampa, dopo aver cercato di assicurarci che la Cina sarà rispettosa dei nostri interessi, conclude rassegnata: è la globalizzazione. Come a dire: è il destino, la storia, guardandosi bene dal precisare che siamo al capitalismo globale. Anche la Cina “rossa” ha un suo capitalismo che dice di governare, ma chissà se è vero.
L’acquisto della Pirelli da parte della Cina, oltre che un po’ di paura, ha suscitato anche l’invidia del capitalismo nostrano, che si è subito affrettato a dire che anche noi capitalisti italiani facciamo acquisti all’estero. Così il
Corriere della Sera di lunedì 30 marzo, nelle sue pagine economiche, fa un titolo preoccupato nella prima riga («Made in Italy in vendita?») per poi rassicurarci nella seconda riga («Ma c’è chi compra all’estero»). Ci dice che anche noi italiani facciamo acquisti all’estero e spiega: è vero che i cinesi si sono comprati la grande e storica Pirelli, ma imprese italiane come Campari, Recordati, Luxottica, Brembo, Ampliphon e Ima hanno a segno ben 85 operazioni di acquisto all’estero. Insomma, leggere sulla nostra stampa che non siamo da meno della Cina mi pare piuttosto patetico. Ma ci sono ancora due obiezioni. La prima è che i nostri investimenti non sempre ci fanno padroni delle imprese nelle quali sono stati messi i soldi. La seconda obiezione mi pare ancora più seria: nella situazione di crisi della nostra economia la Campari, invece di investire all’estero i soldi guadagnati in Italia, avrebbe dovuto investirli nel nostro paese per alleggerire la disoccupazione degli italiani, il cui lavoro ha fatto guadagnare alla Campari i soldi che poi è andata a spendere all’estero. In ogni modo complimenti per il Campari Soda.
Ma torniamo all’attuale grave crisi, che né il calo del prezzo del petrolio, né la svalutazione dell’euro hanno frenato. La globalizzazione è cosa troppo grande e complessa per le nostre imprese in difficoltà e che hanno bisogno di soldi, come afferma anche Matteo Renzi. E i soldi (nonostante le difficoltà di bilancio, può darli solo lo Stato, anche attraverso la Banca centrale europea (il bravo Draghi un po’ di soldi li sta dando, ma non basta).
Ci vuole un serio e forte intervento pubblico, mandando al diavolo l’austerità della Troika e di quant’altri. Altrimenti – va detto ad alta voce – anche l’Italia seguirà la Grecia, il cui governo sta facendo una lotta disperata per salvare il paese. La questione di un serio e deciso intervento pubblico va messa all’ordine del giorno.
Quando si parla di serio intervento pubblico il pensiero va subito all’Iri, nato nel 1933 e morto nel 2002. L’Iri (Istituto ricostruzione industriale) salvò l’industria italiana dalla crisi del 1929 e produsse, nel secondo dopoguerra, il famoso «miracolo italiano». Ripensiamo all’Iri e vediamo se si può aprire una seria discussione sull’opportunità o meno di rimetterlo in campo. A tal fine, sono di grande utilità i sei volumi sulla storia dell’Iri pubblicati da Laterza. Ultimamente sono arrivati in libreria il quinto, a cura di Franco Russolillo, con interventi di numerosi autori, e “L’Iri nell’economia italiana” di Pierluigi Ciocca, al quale soprattutto faccio riferimento perché libro costituisce una conclusione di tutto il lavoro di ricerca sull’Iri e, ancora di più, per la sua esperienza nel Direttorio della Banca d”Italia e la sua seria conoscenza dell’economia italiana.
Vengo al capitolo finale del libro di Ciocca, che già nel titolo pone il problema che vorrei porre ai lettori: «Una nuova Iri?» Riporto di seguito le prime parole, per me assai significative, di questo capitolo: «Avrebbe giovato conservare l’Iri? Ovvero, avrebbe giovato — potrebbe giovare una nuova Iri? La risposta è positiva, qualora si spinga l’immaginazione a un controfattuale che includa l’Iri nella sua migliore stagione: l’Iri meccanismo e non strumento, l’Iri dotato di capitale del suo principale azionista e ampiamente partecipato da privati in minoranza, l’Iri compreso dalla politica e accettato nella sua autonomia, l’Iri capace di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, l’Iri impegnato nelle attività di R&S, fonte di innovazione e progresso tecnico diffusi nella filiera del sistema produttivo».
Su queste parole di Pierluigi Ciocca vorrei concludere. La situazione è brutta. Si dovrebbe provare a mettere in campo l’Iri. Vorrei aggiungere che converrebbe anche a Matteo Renzi, ma sarebbe un progetto troppo complesso per le sue semplificazioni di breve periodo. Vogliamo discuterne
FINANZCAPITALISMO ALLA PROVERA
di Enrico Carucci
Globalizzazione. Le strategie finanziarie del manager italiano e le prospettive della vendita ai cinesi
A pochi giorni dall’annuncio dell’acquisto di AnsaldoSts e AnsaldoBreda da parte di Hitachi, un altro pezzo importante dell’industria Italiana passa in mani straniere: la Pirelli ha infatti reso noto l’accordo per il passaggio di proprietà al colosso cinese ChemChina. Si tratta dell’ennesima acquisizione di aziende italiane da parte di gruppi stranieri, un fenomeno che investe la totalità del sistema industriale, dal tessuto di piccole medie imprese ai grandi marchi. Parmalat, pastificio Luciano Garofalo, Pernigotti, Ducati, Indesit, Loro Piana, Krizia: solo qualche esempio, preso in ordine sparso ma non a caso, per mostrare come tutti i settori chiave dell’economia italiana ne siano interessati, dall’agroalimentare alla meccanica ai prodotti di lusso.
Se si presta fede al mantra del «è necessario attirare capitali stranieri», si potrebbe concludere che ci troviamo di fronte a un fenomeno positivo: il nostro Paese è in grado di attrarre finanziatori stranieri. Bene, siamo competitivi e ciò ci permetterà di riprendere il sentiero della crescita sostenuta. Altre voci, più scettiche, vedono in queste acquisizioni l’impoverimento e lo smembramento del tessuto industriale italiano.
Pur non entrando in questo dibattito, ci limitiamo a far notare che il passaggio di proprietà (o della maggioranza delle azioni) a una società in mano straniera ha delle implicazioni innegabili per quanto riguarda i flussi finanziari a livello paese. A un’entrata una tantum nel momenti della cessione, fa seguito infatti un’uscita continuativa di flussi finanziari tramite i profitti rimpatriati.
La differenza tra investimenti e acquisizioni è cruciale. Non si sta parlando di flussi di denaro che entrano per aumentare la capacità produttiva della nostra economia, bensì di un cambio di proprietà. Inoltre, nell’ipotetico caso di un governo che decidesse di riprendere a fare politica industriale, confrontarsi con partner stranieri o italiani non sarebbe chiaramente la stessa cosa in termini di agenda e priorità.
Chiaramente la nuova leadership cinese presenta della potenzialità da non sottovalutare, come la possibilità di allargare significativamente il mercato di Pirelli, aprendolo ai paesi asiatici. La questione chiave, tuttavia, sarà capire che parte di questi benefici rimarrà in Italia.
All’annuncio di Pirelli sono seguite alcune (poche in realtà) critiche sulla pressoché totale assenza di un’adeguata politica industriale da parte del governo, una considerazione fatta tra gli altri non solo dalla leader della Cgil Susanna Camusso, ma anche da una figura non esattamente vicina ai sindacati come Cesare Romiti. Questa critica è stata liquidata come «nazionalismo di maniera» da Marco Tronchetti Provera, il Presidente nonché amministratore delegato della Pirelli, tra le altre cose uno dei manager più pagati di Italia.
Per capire la figura di Provera, è utile far riferimento a un termine in voga nella teoria economica: la finanziarizzazione dell’economia. Si tratta di un concetto non semplice da spiegare, che ha confini poco chiari anche all’interno del dibattito accademico. In poche battute, è un processo che porta la sfera finanziaria dell’economia a prevalere su quella reale: la finanza, la borsa, la speculazione che prevalgono sulla industria, l’imprenditoria e la produzione. Da un punto di vista manageriale, ci si focalizza più sul valore di borsa delle azioni che sulle performance commerciali dell’azienda. Questo significa avere un orizzonte temporale assai limitato. La finanza, è risaputo, corre molto, ha tempi brevi e poco si adatta a complessi progetti imprenditoriali di lungo respiro.
La linea manageriale di Provera si è mossa in questo solco. Provera controlla la Pirelli tramite un sistema piramidale (con del capitale crea una società che si indebiterà e potrà comprare una società più grande che si indebiterà, potendo a sua volta comprare una società più grande e così via) e ha concentrato tutti i suoi sforzi sul valore di Borsa dell’azienda, indubbiamente con qualche successo.
Le azioni di Pirelli hanno incrementato considerevolmente il loro valore da quando ne ha assunto la Presidenza. Il lato imprenditoriale è stato però messo in secondo piano. Gli investimenti sono diminuiti, cosi come le spese in ricerca. Ciò, unito alla compressione salariale, può aver favorito la reddittività di Pirelli nel breve termine ed aver quindi facilitato la distribuzione di dividendi, contribuendo a determinare il valore di borsa di un titolo, ma senza coniugarsi a una concorrenza industriale in mercati sempre più aperti e competitivi.
Perché le aziende e l’economia italiana possano fare fronte alle sfide e alle opportunità dell’economia globale e dei mercati emergenti, è fondamentale avere una classe imprenditoriale capace e lungimirante, nonché una finanza paziente che sia funzionale all’impresa. E ci vorrebbero governi capaci di fare vera politica industriale.
Le scatole cinesi all’italiana, il capitalismo da salotto, una finanza basata sulle relazioni, i Tronchetti Provera non sono adatti ai mercati mondiali, perché non ne sono all’altezza. A vederli decidere di sottrarsi ai mercati globalizzati e vendere un pezzo importante dell’industria italiana dopo essersi arricchiti spropositatamente, verrebbe da pensare a Schettino e urlare «torni a bordo, cazzo». Ma probabilmente è meglio di no.
È meglio che i manager di corto respiro, quelli che spolpano le aziende — si veda anche il caso Telecom — e che andavano di moda tra i venti e i trenta anni fa negli Stati Uniti (si pensi al Gordon Gekko di Wall Street di Oliver Stone), si levino di torno. In un paese con una lunga storia di produzione manifatturiera come il nostro, bisognerebbe che i bonus dei manager non fossero pagati sulla base di obiettivi finanziari, come nel caso di Marchionne, ma sulle performance industriali e gli obiettivi di lungo periodo.
In assenza di una classe imprenditoriale all’altezza, ci si dovrebbe poter rivolgere a un governo che intervenga tramite politiche industriali. Ma avrebbe senso aspettarsi ciò da un esecutivo che si rifà a strategie che erano in auge in Inghilterra vent’anni fa.
Nel dibattito sulla sinistra ieri, oggi e domani un interessante intervento da un punto di vista di destra. Peccato che guardi solo nella sinistra di governo, e consideri (anche lui) il Pd un partito della sinistra socialdemocratica.
La Repubblica, 3 aprile 2015
NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.
Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.
Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.
Questa è l’unica sinistra che rimane, ma non versa affatto in buona salute. L’offensiva neoliberista l’ha svuotata, al punto che appare ridotta a un’esistenza residuale. Certo, è ancor sempre in Europa una forza elettorale tutt’altro che trascurabile. Ma, come sta dimostrando la Francia, non morde, si limita a resistere in una condizione di crescente affanno. A indebolire la socialdemocrazia sono fattori come il cedimento dei modi di produzione basati sulle grandi fabbriche e sulla concentrazione in queste ultime delle masse dei lavoratori metalmeccanici e siderurgici, l’avvento delle tecniche produttive legate all’automazione e all’informatica, l’indebolimento dei sindacati; il che ha privato i partiti socialdemocratici di quelli che erano i suoi tradizionali ancoraggi. Aggiungasi che questi partiti operavano in Stati in cui le decisioni politiche ed economiche erano nelle mani di Parlamenti e governi nazionali che poggiavano su sistemi di “economia nazionale”. La globalizzazione economica ha spostato tali leve a favore delle oligarchie sovranazionali, capaci di dettare legge in campo economico, orientare politica ed economia, di influenzare l’opinione pubblica e il corpo elettorale. Qui sta la radice dello svuotamento della sinistra socialdemocratica, costretta a una difensiva difficile e inconcludente.
Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.
Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.
Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.
Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.
Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.

La Repubblica, 3 aprile 2015
L’ATTACCO rivendicato dagli Shabab nel campus universitario di Garissa, di certo il più micidiale da loro compiuto, è un atto d’accusa non solo contro la loro deriva criminale, ma anche contro la spaventosa irresponsabilità dei governanti keniani. Partiti in guerra contro gli islamisti somali nell’ottobre 2011, con l’intento dichiarato di proteggere i propri confini dalle incursioni lanciate nel remoto nord-est del Paese a partire dal territorio confinante, essi si ritrovano tre anni e mezzo dopo con la guerra in casa.
Hanno imposto di recente a un Parlamento in subbuglio leggi antiterrorismo considerate da molti liberticide, ma appaiono incapaci di proteggere i propri cittadini dalla minaccia di attacchi armati, o disinteressati a farlo. Hanno coltivato un sogno di egemonia regionale costruita anche con le armi, e sono finiti in uno scacco mortale in casa propria. Nel campus di Garissa il rettore aveva addirittura messo in guardia gli studenti, invitandoli a rientrare a casa per le festività: c’era qualcosa nell’aria, ma le autorità di polizia non avevano preso alcun provvedimento. Viceversa, soltanto l’altro ieri, il presidente Uhuru Kenyatta se l’era presa contro le allerta lanciate ai turisti australiani e britannici dai governi di Canberra e Londra: un imperdonabile autogol.

La parabola degli Shabab somali è unica nella galassia del terrorismo islamico perché, nati e lungamente cresciuti nella Somalia della guerra civile attraverso una serie di spaccature e scissioni sempre più radicali, essi appaiono ormai sconfitti e residuali in quel Paese — dove tuttavia ancora sono in grado di mettere a segno azioni militari, l’ultima all’hotel Makka Al Mukarama di Mogadiscio il 27 marzo, 14 morti e numerosi feriti — mentre la loro azione si va facendo più minacciosa in Kenya. Anche i Taliban si muovono da sempre a cavallo della frontiera afgano- pachistana; ma in Pakistan erano nati, negli anni 1980, prima di arrivare a prendere il potere a Kabul. Viceversa la matrice degli Shabab è puramente somala.
Durante i lunghi anni della guerra civile somala, attraverso l’ultima decade del secolo scorso e la prima di questo, mentre i signori della guerra combattevano tra di loro un conflitto per bande motivato sostanzialmente dalla brama di controllo territoriale e di guadagno, il movimento islamista cresceva lentamente, a sua volta originato dalla variegata galassia di organizzazioni, partiti e singoli esponenti fondamentalisti, in un processo di continue scissioni e ricomposizioni. Cristallizzatosi nelle cosiddette Corti Islamiche, approfittò dell’estenuazione degli abitanti, ormai stremati dalla costante insicurezza, per imporre il proprio controllo e la sharia sulla quasi totalità del sud somalo. Legge, ordine e mani mozzate. Così le Corti amministrarono per qualche anno Chisimaio e dintorni, poi nel 2006 giunsero fino a Mogadiscio. Ma la conquista della capitale causò l’intervento militare etiopico e l’inizio della loro fine.
Da quella rotta e dalla dissoluzione delle Corti Islamiche emersero gli Shabab, “i giovani”, un movimento più radicale, militarizzato e feroce, sul modello qaedista. Infatti nel febbraio del 2012 annunciarono l’affiliazione ad Al Qaeda, anche se — a differenza di Al Qaeda, portatrice di una visione di “guerra globale” — l’orizzonte degli Shabab è sempre stato somalo. Finché, accusandoli di essere i responsabili di incursioni oltre confine che avevano preso di mira turisti e operatori umanitari, il Kenya non è a sua volta intervenuto in armi in Somalia.
L’operazione Linda Nchi (“proteggere la patria” in swahili) fu lanciata nell’ottobre 2011. Sulle prime rischiò la catastrofe. Poi il coordinamento con gli etiopici e soprattutto con il contingente internazionale dell’Unione Africana che sosteneva il governo provvisorio somalo, fece rapidamente migliorare la situazione. Gli Shabab furono presto in ritirata ovunque, costretti ad abbandonare un centro abitato dopo l’altro. Passati dal controllo territoriale al terrorismo puro, cominciarono a colpire in Kenya, in un crescendo di attentati culminati nell’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi (21-24 settembre 2013, almeno 68 morti). E, oggi, all’università di Garissa.
«Un forte richiamo a non dimenticare il senso della parola "politica" e a comprendere qual'è il focus di una nuova sinistra: a uperare le contraddizioni che dividono le sinistre non può che essere la lotta contro l’incarnazione attuale del capitalismo, il neoliberismo
». Il manifesto, 2 aprile 2015
Dalla polemica aperta su che cosa dovesse essere la “coalizione sociale” e che cosa non dovesse essere o diventare è emersa una questione che è di fondo. Nientemeno che quella di … che cosa sia la politica, fin dove si estenda, chi debba farla e chi no. Ed è sconfortante che sul significato, la portata, il denotato del termine la sinistra si possa dividere.
Sconfortante perché rivela che si è lasciata pervadere da una grossa mistificazione Quella che ritaglia la politica, la spezza, ne recinge l’estensione, il campo, ne limita l’oggetto per ridefinire il soggetto. E, conseguentemente, ne sceglie i contenuti definendoli leciti e li separa da quelli che condanna come illeciti, per poi dettare le forme attraverso cui solo la politica può dispiegarsi, selezionando in tal modo gli attori. Li divide, li separa, e, separandoli, fraziona insieme l’oggetto e il soggetto della politica. Soggetto ed oggetto che da Aristotele a Gramsci cento volte è mutato nei modi di configurarsi, mai nella sua essenza di pluralità umana accomunata da una storia e da un destino. La cui composizione ed il modo come si configura è l’oggetto della politica così come il suo soggetto. È chi, con chi e per chi e come gestisce, riproduce o modifica la configurazione di tale oggetto.
Sappiamo che dire soggetto e oggetto della politica è lo stesso che dire forma di stato e di governo. Sappiamo anche che da due secoli almeno la soggettività della politica ha varcato le soglie che la rinchiudevano negli ambienti prossimi ai troni e non è più prerogativa esclusiva dei re, dei loro ministri e cortigiani, dei “consigli delle corone”. La borghesia se ne impadronì ma fu poi costretta ad accettare che questa soggettività si estendesse, in modo più o meno ampio, fino a comprendere tutti i destinatari delle scelte che la politica avrebbe potuto compiere.
Estensione che poteva però essere virtuosa o truffaldina, quanto a forma, quanto cioè a sua reale e leale corrispondenza all’universo dei soggetti. Quell’universo che, nel definire il suffragio, ne comprende la composizione. Composizione che è plurale sì, ma di una pluralità articolata, se reale, effettiva, autentica, e perciò rivelatrice delle differenze, le tante differenze, da quella di classe, a tutte le altre rilevanti in una società complessa. Meno una sola, quella individuale. Perché è quella che disarticola la soggettività, la sminuzza, per neutralizzarla, liquidarla, dissolverla.
Sminuzzata, neutralizzata, liquidata e dissolta è oggi la soggettività popolare in Italia. Le leggi elettorali vigenti da venti anni (e con esse quella che Renzi sta imponendo all’Italia) non soltanto hanno distorto la rappresentanza, hanno dissolto il “rappresentato”. La trasformazione è stata duplice. Da strumento di espressione dei bisogni, delle aspettative, dei progetti di vita delle donne e degli uomini, la rappresentanza è stata convertita in dispositivo di appropriazione del potere di governo per uno uomo solo. Ne è derivata irrimediabilmente la dispersione del rappresentato e la sua condanna alla solitudine nel subire o il ricatto nelle fabbriche, o la degradazione nel precariato, o la disperazione nella disoccupazione permanente.
La solitudine ha prodotto la rottura del legame sociale. Il ricatto ha neutralizzato l’istanza a rivendicare nel luogo di lavoro condizioni di dignità. La degradazione e la disperazione hanno generato o rassegnazione e rinunzia a lottare per una prospettiva di uscita dallo stadio di depressione o concorrenza tra i degradati e i disperati nell’offrire forza-lavoro al prezzo più basso.
È questo lo stadio di regressione della condizione umana in Italia. Si sa che a determinarla contribuisce enormemente l’Europa della sovranità dei mercati. Ma è dal soggetto della politica e perciò della democrazia che bisogna partire ricostruendolo nella sua autenticità plurale e rifondandolo alla base della società come titolare di una rappresentanza che si imponga nel quotidiano della politica, rappresentandosi dove si decide. Ad unire, a superare le contraddizioni che dividono le sinistre non può che essere la lotta contro l’incarnazione attuale del capitalismo, il neoliberismo, dominante in Europa ed attuato in Italia. Il compito, la ragion d’essere della coalizione sociale dovrebbe essere proprio questo, la rifondazione nella società del soggetto che si oppone al capitalismo neoliberista e lo sfida

La Repubblica, 2 aprile 2015
C’È POCO da aggiungere a quello che ha dichiarato nei giorni scorsi Raffaele Cantone, le norme approvate al Senato sono utili ma solo una parte di quel che sarebbe necessario. Non c’è da attendersi miracoli insomma da norme varate dopo un iter tormentatissimo. Difficile nascondersi poi un altro aspetto: non è più rinviabile il risanamento radicale e drastico di un partito che troppo spesso, da Roma a Ischia, a quel futuro sembra attentare più che contribuire. Forse l’indagine svolta nella capitale per il Pd da Fabrizio Barca andrebbe conosciuta meglio ed estesa ad altre realtà: solo per iniziare.
Un iter di oltre due anni e con il governo spesso in grave rischio. Norme, comunque: torna — per un soffio — il falso in bilancio cancellato negli anni berlusconiani ma sono state escluse le intercettazioni per le società non quotate in Borsa. E aumentano le pene per i reati di mafia e per la corruzione nella pubblica amministrazione, e al tempo stesso i poteri dell’Authority. Forse era difficile aspettarsi di più e in questo Parlamento poteva davvero andare peggio, con il Nuovo centrodestra di Alfano (Angelino, lo stesso del lodo) obbligatoriamente all’interno del governo e un Movimento cinquestelle perso nelle sue onnipotenti impotenze.
È evidente la sproporzione fra quel che è rimasto del testo originario e il salto di qualità, lo scatto morale e legislativo che sarebbe necessario. Sulle misure legislative possibili pesano ancora una volta i risultati delle elezioni del 2013, un caso probabilmente unico: con il partito di maggioranza che perde più di sei milioni di voti e il partito di opposizione che non ne guadagna neppure uno ma ne perde a sua volta oltre tre milioni (conseguenza quasi inevitabile di una campagna elettorale totalmente incapace di rivolgersi agli italiani).
Per il Partito democratico, costretto ad innaturali alleanze (anche — di nuovo — per il nullismo grillino), erano le condizioni peggiori per ripartire e non è possibile dimenticarlo.
Anche per questo, leggi inevitabilmente monche devono esser accompagnate e integrate dal centrosinistra con scelte nettissime e costanti sul terreno della moralità e delle regole della politica. Scelte generalissime ma innervate da decisioni quotidiane, da gesti limpidi e da comportamenti coerenti, in un Paese travolto periodicamente da ondate di spaventosa corruzione. È difficilissimo oggi anche solo indicare gli ambiti risparmiati sin qui dai miasmi. O ricordare quanto spesso riemergano quelli già noti, a partire dalle Regioni o dal mondo delle cooperative.
In questo scenario anche le scelte meno rilevanti sono significative, e se ne consideri una non proprio marginale: è una vera indecenza la candidatura in Campania del condannato De Luca, che in base alla legge Severino non potrebbe neppure esercitare il suo mandato. In Campania, luogo non irrilevante nella guerra alle corruttele: e la vicenda suona al tempo stesso come irrisione all’abituale “decisionismo” di Renzi, che in questo caso è apparso afasico e in balia degli eventi. È difficile chiedere disciplina di partito quando si tollera un vulnus così grave, e si consideri anche il coinvolgimento di alcuni sottosegretari in differenti indagini.
Certo, nella normalità della democrazia l’avviso di garanzia non è una condanna (eppure un avviso di garanzia segnò la fine del regno craxiano) ma l’Italia vive da anni una situazione totalmente anomala. È sommersa quotidianamente da scandali che crescono costantemente di intensità. Una anormalità normale, e non ha avuto sufficiente rilievo una notizia di cronaca che sembra segnare negativamente un cambio d’epoca (e speriamo davvero che non sia così): un giudice ha appena assolto i consiglieri regionali della Valle d’Aosta perché... non sapevano di commettere reato usando denaro pubblico per ragioni privatissime (feste, viaggi di familiari, divise da calciatore, cene, modesti gioielli e così via). Andrebbe riletto ogni giorno un lucidissimo articolo di qualche anno fa di Roberto Saviano che indicava proprio nella “corruzione inconsapevole” il salto di qualità che si era compiuto: corruzione inconsapevole, praticare la anormalità come se fosse normale. Smarrire l’idea stessa di confine. Non è una bella notizia che un tribunale della Repubblica la assolva.
Lo storico di domani farà qualche fatica a comprendere le differenti fasi della perversa escalation che abbiamo vissuto: dall’apparente ritorno alla normalità dopo Mani pulite sino al riemergere e all’esplodere di fenomeni che hanno offuscato quelli precedenti. Fenomeni che evocano una colossale e diffusa metastasi nazionale, quasi senza rimedio agli occhi di molti cittadini. Questa era la prima realtà che Renzi doveva “rottamare” e anche su questa base aveva costruito il suo consenso, ma da tempo quella battaglia sembra sbiadita e appannata. Inadeguata. Non assente, certo, e corroborata da scelte importanti come quella dell’Authority anti-corruzione. Non sostenuta però da un tessuto quotidiano di decisioni, dalla riconquista continua dei cittadini alla fiducia nella democrazia: eppure essa è un obbligo assoluto in un Paese che ha visto crollare la partecipazione al voto e quasi trionfare guitti di quart’ordine. Il crescere dell’astensione e il poco declinante credito di Beppe Grillo dovrebbero essere per Renzi un drammatico segnale di sconfitta. Dovrebbero imporre una decisa volontà di rivincita su questo terreno, ma troppo spesso essa sembra latitare: eppure proprio su questo, non sulle preferenze, si gioca il futuro della democrazia italiana.
Il manifesto, 2 aprile 2015
Reddito minimo garantito, questo sconosciuto. Lo si confonde con il reddito di cittadinanza, oppure con il salario minimo. In Italia, in realtà, non si sa ancora cos’è. Anche questo è il segno dell’arretratezza sociale in cui affoga questo paese, mentre questa misura elementare di lotta contro la povertà e la precarietà esiste in tutta Europa, tranne che in Grecia. E da noi. Negli ultimi mesi l’infosfera si è fatta trarre in inganno dalla confusione concettuale creata dai Cinque Stelle. Per il movimento, infatti, la sua proposta di 600 euro mensili (e non i mille promessi da Grillo) sarebbero un «reddito di cittadinanza». Si tratta invece di un reddito minimo che corrisponde al 60% del reddito mediano previsto dalla risoluzione del Parlamento europeo del 10 ottobre 2010. Non è una misura incondizionata e universale – come il reddito di cittadinanza che viene erogato a tutti i residenti – ma è condizionata e selettiva, per di più poco garantista della libertà dell’individuo e non del tutto congruente con i parametri europei sul rispetto della dignità personale.
Nella commissione lavoro al Senato sono in corso le audizioni sulle tre proposte di legge presentate da M5S, dal Pd e da Sel. Quest’ultima ha raccolto l’eredità della proposta di legge di iniziativa popolare che ha raccolto più di 50 mila firme grazie allo sforzo di più di 170 associazioni e movimenti da tempo impegnati nella lotta per il reddito minimo garantito. Nel frattempo Libera, il Basic Income Network-Italia e il Cilap hanno promosso la campagna «reddito per la dignità». La petizione ha raccolto fino ad oggi 75 mila firme e punta a raggiungerne 100 mila. Chiede che il parlamento discuta e approvi una legge sul reddito minimo (e non di cittadinanza) entro 100 giorni. La petizione è stata firmata anche da esponenti dei Cinque Stelle come Luigi Di Majo, oltre che dalla Fiom di Maurizio Landini. Si tratta di una proposta di mediazione, considerata anche la dicitura “reddito minimo o di cittadinanza”.
L’espressione è destinata a produrre altri equivoci. In compenso propone quattro principi per un accordo tra le parti in causa: il reddito dev’essere individuale, sufficiente, congruo e riservato a tutti i residenti. Per queste ragioni non va considerato come una misura alternativa al sussidio di disoccupazione (la «Naspi» o il «Dis-Coll» nel Jobs Act). Non è un sussidio contro la povertà assoluta e non è un salario minimo, cioè la paga oraria più bassa, giornaliera o mensile, che i datori di lavoro corrispondono agli impiegati o agli operai. Il reddito minimo non va ristretto ad un periodo entro il quale un lavoro «purché sia» dev’essere accettato, ma al miglioramento complessivo della situazione individuale. Come dimostrano le esperienze europee, si rischia sempre di adottare misure vessatorie che danneggiano i beneficiari.