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La Repubblica, 16 aprile 2015

LA PAROLA genocidio pronunciata da Francesco e la reazione turca hanno fatto precipitare questioni cruciali. C’è un problema comune alla definizione del genocidio e della tortura. C’è un’affinità fra il modo in cui la Turchia reagisce all’imputazione di genocidio e l’Italia all’imputazione di tortura. C’è un legame decisivo fra la ferita aperta del 1915 e la persecuzione dei cristiani di oggi. C’è un rapporto fra una disputa che si vuole irriducibile su un genocidio di cento anni fa, e il modo in cui si tratta un genocidio di oggi.

1.
È paradossale che lo sterminio degli armeni, sul quale è stata coniata la nozione di genocidio, non possa chiamarsi genocidio. Il genocidio degli ebrei ha un nome, Shoah, quello degli zingari, Porrajmos, quello degli armeni, Meds Yeghern — ma agli armeni manca il riconoscimento del genocidio. Non so se Francesco avesse messo in conto per intero la reazione turca: il suo discorso è comunque un complemento della denuncia angosciata della persecuzione dei cristiani. Dopo aver esitato, il Papa ha preso una via dalla quale non si torna indietro. Non c’è mai stata una ragione più stringente per non poter non dirci cristiani.

2.
La Corte europea ha condannato l’Italia. Lo farà più inesorabilmente sulla caserma di Bolzaneto, dove si attuò una tortura metodica, prolungata, sessista e fascista. La Corte, all’unanimità, ci ha condannati per il crimine di tortura. Credo che abbia superato i propri precedenti, e che potesse sanzionare le nefandezze di polizia alla scuola Diaz come “trattamenti inumani e degradanti”, rientranti anch’essi nell’art.3 della Convenzione, imprescrittibili al pari della tortura. Per la Corte la sensibilità sulla tortura si affina col tempo, e le minacce — il terrorismo islamista, i venti di guerra — non devono attenuare i principii inderogabili che vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Ha scelto la sanzione più severa — non negli effetti pratici, che si equivalgono, ma in quello morale — rinunciando a una determinazione più specifica della tortura (una violenza individuata e distillata e non collettiva e improvvisa, il fine di ottenere confessioni, il ricorso a tecniche di distruzione della resistenza…) per assicurarne il peculiare marchio di infamia. Ha mirato al paradosso di un Paese, l’Italia, che per trent’anni ha rifiutato di riconoscere tortura e trattamenti inumani o degradanti nel suo codice, mandando impuniti gli autori di crimini per i quali la legge internazionale impone l’imprescrittibilità. Fatte le proporzioni, l’Italia si è comportata con la tortura come la Turchia col genocidio.

3.
Tuttavia è dubbio che allargando le maglie della definizione di tortura se ne rafforzi la sanzione: può derivarne una banalizzazione. Qualcosa di simile avviene con la nozione di genocidio. Il genocidio sta agli altri “crimini di guerra e contro l’umanità” come la tortura sta ai “trattamenti inumani e degradanti”. Anche l’evocazione del genocidio segna un incomparabile marchio di infamia, benché i crimini che “tecnicamente” non vi rientrino siano a loro volta imperdonabili. Il crescente ricorso generico al nome di genocidio sta in proporzione inversa alla sua persecuzione là dove materialmente avviene: lo banalizza.

L’affinità fra tortura e genocidio è più profonda, intima. Sono ambedue difficili da definire con esattezza; ad ambedue è indispensabile il superamento di una soglia di gravità, di dimensione, ma non sufficiente. Che cosa fa della Shoah un genocidio, e dello sterminio dei kulaki no? (La discriminazione “di classe” fu espunta dalla Convenzione sul genocidio del 1948). Che cosa fa dello sterminio dei tutsi in Ruanda un genocidio e dello sterminio delle tribù del Darfur da parte del Sudan e delle milizie Janjaweed “solo” un crimine contro l’umanità? Il genocidio, avvertiva Antonio Cassese, è diventato un “ Magic Word ” cui non si vuole rinunciare, benché i crimini di guerra e contro l’umanità siano atroci a loro volta e abbiano le stesse sanzioni. Per lo sterminio degli armeni si impiega la formula “G-Word”: la parola G. Un tabù proibisce di pronunciarlo intero: come il divieto di nominare Dio, alla rovescia. A questo “G-Word” sono appesi i rapporti fra la Turchia e il resto del mondo.

4.
C’è una montagna, fra Mosul e il Kurdistan, l’abbiamo nominata tante volte, si chiama Sinjar. Vi hanno cercato scampo dopo un’odissea tremenda, decine di migliaia di yazidi. È un popolo antico che ha subito infinite persecuzioni di invasori, così superstiziosi da chiamarlo adoratore del demonio. Il cosiddetto Stato Islamico ha mirato a finire l’opera, uccidendo gli uomini, rapendo violando e commerciando bambine e donne. Era inevitabile, ascoltando i racconti degli scampati, citare I 4-0 giorni del Mussa Dagh, l’epopea degli armeni cristiani rifugiati su quel massiccio montagnoso, scritta da Franz Werfel. Da noi uscì nel 1935, nella Medusa Mondadori: generazioni di italiani conobbero là la tragedia armena.

Oggi i cristiani subiscono le persecuzioni più vaste. Minoranze come gli yazidi subiscono un tentativo di annientamento che non lascia dubbi sulla definizione, per quanto la si setacci, di genocidio. C’è una diaspora yazida che vivrà per vedersi riconosciuta la propria catastrofe. Che non è avvenuta cento anni fa: sta avvenendo. L’abbiamo documentata, abbiamo visto e ascoltato le ragazze fuggite dalla prigionia jihadista, come la bambina di nove anni incinta di cui due giorni fa ancora dicevano le cronache.

Ebbene, a Dohuk, provincia estrema del Kurdistan gremita di profughi, due magistrati hanno costituito una Commissione d’inchiesta per il crimine di genocidio. Sono Sail Khider Khalaf, procuratore, e Ayman Mostafa, giudice. «Vogliamo impedire che il tempo confonda le tracce. Raccogliamo le testimonianze, sugli stupri, i suicidi, gli ammazzati e scomparsi, la compravendita di esseri umani. Un australiano venuto a unirsi all’Is con la famiglia ha comprato 7 persone a Raqqa per 15 mila dinari — 13 euro! Cataloghiamo le fosse comuni man mano che si riconquista il Sinjar; un testimone ha seppellito 64 persone; un altro ha raccontato di averne dovuto coprire 70 col suo bulldozer. Intendiamo portare le prove al Tribunale penale dell’Aia, e riportare da noi la giustizia. Lavoriamo anche coi video dell’Is, e coi selfie che gli uomini di Daesh si fanno sopra le vittime, e li ritroviamo sui loro cadaveri. Manchiamo di risorse e competenze: per la mappatura satellitare, le indagini genetiche, com’è avvenuto in Argentina, a Srebrenica… Voi avete periti, e strumenti adeguati, sappiano che li aspettiamo. Abbiamo a malapena un ufficio. Non c’è un team forense. Ma noi proveremo la volontà genocida, e il mondo dovrà riconoscerla».
«Pierre Bourdieu. Tradotta "La miseria del mondo", l’opera del sociologo francese sugli smottamenti che hanno investito la società negli ultimi decenni. E che vede nella precarietà il principio regolatore del dominio esercitato dal capitalismo».

Il manifesto, 16 aprile 2015

«Dove hanno fatto il deserto, quello chia­mano pace». Con que­ste parole si con­clu­deva il discorso di Cal­gaco, re dei Cale­doni, nel De Agri­cola di Tacito, dove il grande sto­rico romano, rac­con­tando la vita del suo­cero Giu­lio Agri­cola gover­na­tore della Bri­tan­nia, espri­meva una delle più feroci cri­ti­che di sem­pre a quell’imperialismo e quella cor­ru­zione dei romani che li aveva con­dotti ad assog­get­tare il mondo, chia­mando ordine e civiltà ciò che era domi­nio e sot­to­mis­sione. Nel mondo moderno e con­tem­po­ra­neo qual è il nostro «deserto chia­mato pace»? Attra­verso un’inchiesta corale (sia per la plu­ra­lità dei sog­getti presi in con­si­de­ra­zione che per il grande numero di stu­diosi coin­volti) sulla scia ma anche al di là dei grandi roman­zieri e intel­let­tuali impe­gnati del XIX secolo, una rispo­sta pos­si­bile l’ha offerta Pierre Bour­dieu con il suo ormai clas­sico La mise­ria del mondo; frutto di tre anni di lavoro, pub­bli­cato per la prima volta in Fran­cia nel 1993 e da allora al cen­tro di vivaci discus­sioni e per­sino ispi­ra­zione per innu­me­re­voli spet­ta­coli tea­trali, esce oggi in Ita­lia per i tipi di Mime­sis, in una bella edi­zione tra­dotta e curata da Anto­nello Petrillo e Ciro Tarantino.

La mise­ria al cen­tro del libro di Pierre Bour­dieu non è la povertà asso­luta (una con­di­zione mate­riale docu­men­ta­bile e cer­ti­fi­ca­bile), bensì la «mise­ria di posi­zione», cioè la mise­ria che nasce e si ripro­duce in uno spa­zio fisico e sociale degra­dato, pre­ca­rio, insta­bile, cui si appar­tiene e in cui si è coin­volti senza pos­si­bi­lità reale di uscirne: insomma, la mise­ria con­tem­po­ra­nea è innan­zi­tutto un sistema di rela­zioni sociali che influenza nega­ti­va­mente il modo in cui le per­sone pen­sano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a dispo­si­zione. In que­sto senso, l’apparentemente impro­ba­bile paral­le­li­smo tra Tacito e il socio­logo fran­cese va al di là della sug­ge­stione reto­rica: la mise­ria che emerge dalle ana­lisi di Bour­dieu e col­la­bo­ra­tori è frutto di una deser­ti­fi­ca­zione sociale, vale a dire dell’impoverimento mate­riale e della con­tem­po­ra­nea pau­pe­riz­za­zione sociale.

Un uni­verso fantasmatico

Il declino di un vec­chio mondo (quello della società del benes­sere) e il sor­gere di un nuovo uni­verso, più spie­tato, meno civico e soli­dale. All’interno di que­sto ordine che pos­siamo chia­mare neo-liberista lo Stato si è riti­rato e ha perso (per scelta poli­tica) auto­re­vo­lezza e capa­cità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono fran­tu­mate le isti­tu­zioni sociali inter­me­die che assi­cu­ra­vano soste­gno agli indi­vi­dui (la fami­glia) ma anche media­zione dei con­flitti (le asso­cia­zioni), sin­tesi e orga­niz­za­zione delle diver­sità cul­tu­rali e delle aspi­ra­zioni indi­vi­duali (i par­titi, i sin­da­cati). Bour­dieu e la sua equipe ana­liz­zano le mani­fe­sta­zioni di que­sta mise­ria con­tem­po­ra­nea (che è anche dif­fu­sione della vio­lenza e dell’intolleranza) met­ten­dola in col­le­ga­mento con le sue radici sociali e poli­ti­che occulte (per­ché rimosse dal dibat­tito pub­blico e poli­tico) inter­vi­stando una vasta e varie­gata pla­tea di sog­getti: dall’anziano che vive nella ban­lieue al lavo­ra­tore immi­grato; dalla gio­vane disoc­cu­pata all’assistente sociale e al pic­colo com­mer­ciante. Tutte que­ste figure, i cui vis­suti e per­corsi sono rico­struiti attra­verso un approc­cio che uni­sce sem­pre all’avvincente nar­ra­zione d’inchiesta una ser­rata rifles­sione teo­rica in grado di resti­tuire i col­le­ga­menti tra le bio­gra­fie indi­vi­duali e le più vaste dina­mi­che sociali e eco­no­mi­che, sono acco­mu­nate dalla con­di­vi­sione di un comune oriz­zonte e spa­zio sociale: quello dei ceti popo­lari, depo­ten­ziati nella pro­pria dignità, nel pro­prio rispetto di sé e nella pro­pria auto­no­mia. Que­sto immi­se­ri­mento nasce dalla pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, dalla con­tra­zione del wel­fare state, dall’esclusione sociale, dai mec­ca­ni­smi clas­si­sti della scuola e dall’abbandono delle peri­fe­rie da parte delle isti­tu­zioni pubbliche.

In que­sto calei­do­sco­pio sociale «dal basso», nel quale bio­gra­fia indi­vi­duale e tra­sfor­ma­zioni col­let­tive si intrec­ciano costan­te­mente, ritro­viamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure pro­fes­sio­nali che rap­pre­sen­tano ciò che resta della rete di pro­te­zione sociale sta­tuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il pic­colo com­mer­ciante che non ce la fa più a reg­gere la con­cor­renza della grande distri­bu­zione e che vive, ormai anziano, le sue dif­fi­coltà rea­gendo in modo rab­bioso, facendo appello ad un nuovo nazio­na­li­smo che lo possa pro­teg­gere dalle con­se­guenze della glo­ba­liz­za­zione. Un’ampia gal­le­ria di gio­vani, dall’operaio pre­ca­rio che guarda come inu­tile resi­duo del pas­sato il sin­da­cato pur vivendo una situa­zione di forte pre­ca­rietà lavo­ra­tiva, al gio­vane stu­dente mar­gi­na­liz­zato e taci­turno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruo­larsi come volon­ta­rio nelle mili­zie croate. E i con­ti­nui con­flitti, ormai dif­fusi ovun­que nel tes­suto della vita quo­ti­diana delle ban­lieue, tra fran­cesi di nascita e fran­cesi natu­ra­liz­zati (cioè migranti), pra­ti­ca­mente per ogni cosa: dagli odori pro­ve­nienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai gio­chi nei cor­tili. Indi­ca­tore di una lotta per il con­trollo del ter­ri­to­rio (ormai in fasce di declas­sa­mento) tra gruppi che con­di­vi­dono poco, ma anche risul­tato del deciso inde­bo­li­mento dell’autorità nelle fami­glie natu­ra­liz­zate, che con­duce i gio­vani ad assu­mere com­por­ta­menti sem­pre più fuori controllo.

La pra­te­ria della politica

Su que­sto varie­gato fronte di guerra – nel quale sin­da­cati e par­titi di sini­stra sono oramai assenti anche come ter­reno di incon­tro e di media­zione tra vari tipi di ceti popo­lari – ritro­viamo anche gli assi­stenti sociali e i giu­dici mino­rili, che non vivono sem­pli­ce­mente le pur tante dif­fi­coltà con­na­tu­rate al loro lavoro ma la sem­pre più ampia sen­sa­zione di essere sva­lu­tati social­mente e pro­fes­sio­nal­mente, pro­prio da quello Stato per cui lavo­rano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La mise­ria del mondo di Bour­dieu fa emer­gere così tre aspetti molto inte­res­santi: la dif­fe­ren­zia­zione e fram­men­ta­zione soprat­tutto per linee etni­che e gene­ra­zio­nali dei ceti popo­lari con­tem­po­ra­nei; l’abbandono siste­ma­tico dei più deboli da parte della poli­tica e delle classi diri­genti, che apre la strada ad una visione sem­pre più dar­wi­niana della vita sociale; l’apertura di una pra­te­ria poli­tica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampia­mente sot­to­va­lu­tata) sia per il nazio­na­li­smo popu­li­sta che per la radi­ca­liz­za­zione isla­mi­sta, in con­se­guenza del dis­sol­vi­mento della sini­stra e del suo radi­ca­mento popolare.

La mise­ria è stato uno dei temi domi­nanti nella vita delle masse popo­lari nel corso della sto­ria fino ad emer­gere come un attri­buto fon­da­men­tale di quella que­stione sociale (e non più sem­pli­ce­mente reli­giosa) che, a par­tire dall’ascesa della società indu­striale, ha domi­nato la scena poli­tica e il dibat­tito pub­blico della moder­nità. La mise­ria è una cate­go­ria e uno stato diverso dalla «sem­plice» povertà: la mise­ria è penu­ria di risorse ma anche meschi­nità morale, con­di­zione mate­riale depri­vata ma anche sof­fe­renza e bas­sezza spi­ri­tuale, in ter­mini socio­lo­gici quella fine della coe­sione sociale retta da valori non solo con­di­visi ma anche capaci di dare una meta e un oriz­zonte di miglio­ra­mento alla vita indi­vi­duale e col­let­tiva. Così, la mise­ria non è mai il con­tra­rio dell’opulenza ma della «vita buona» e della pos­si­bi­lità di rea­liz­zarla in qual­che luogo. Come tale la pos­siamo ritro­vare tanto nei ghetti e nelle fave­las quanto nei grat­ta­celi scin­til­lanti di Man­hat­tan, ogni­qual­volta la depri­va­zione mate­riale si accom­pa­gna ad un eterno pre­sente senza spe­ranze di riscatto morale, civile e materiale.

L’utopia del socia­li­smo – e poi la stessa ideo­lo­gia dello Stato sociale, com­preso quello di marca libe­ral­de­mo­cra­tica – è con­si­stita nel rite­nere che la società indu­striale fosse la dimen­sione all’interno della quale offrire una solu­zione a que­sto pro­blema, una volta eli­mi­nato o messo sotto con­trollo il capi­ta­li­smo; e, per que­sta via, in que­sto mondo, riscat­tare dalla mise­ria l’umanità intera, tanto il pro­le­ta­riato quanto gli stessi bor­ghesi. La mise­ria con­tem­po­ra­nea è nega­zione di que­sta uto­pia ed estra­nea­zione della sini­stra dai ceti popo­lari; ed è stata occul­tata, anche durante e nono­stante la grande crisi del 2007. Rileg­gere l’attualissima ricerca di Pierre Bour­dieu ce ne fa capire il per­ché: non si tratta solo di mera con­ve­nienza politica.

Eclisse della sinistra

Ci tro­viamo di fronte alla scom­parsa dal dibat­tito pub­blico della società stessa e dei ceti popo­lari ora che, dopo la fine del for­di­smo e della società del benes­sere, si fanno più dif­fe­ren­ziati, estesi e pre­cari: fine della società per­ché la mise­ria quando è rac­con­tata e messa a tema lo è sem­pre come que­stione indi­vi­duale, disturbo psi­co­so­ma­tico, male esi­sten­ziale senza radici sociali, che invece per­si­stono e sono resi­sten­tis­sime, radi­cate nei mec­ca­ni­smi di fun­zio­na­mento eco­no­mico e nei poteri sociali. Abban­dono dei ceti popo­lari per­ché que­sti non sono più coin­volti in un pro­getto di riscatto e pro­gresso sociale ma lasciati in balia dei mec­ca­ni­smi più sel­vaggi del mer­cato e di una nar­ra­zione media­tica e poli­tica che ne esalta le rea­zioni di pan­cia, fun­zio­nali al man­te­ni­mento di quell’ordine sociale che li priva, con­tem­po­ra­nea­mente, della pro­spet­tiva della «vita buona» (popu­li­smo e radi­ca­li­smo a sfondo reli­gioso). Si pensi a que­sto pro­po­sito al rac­conto pie­ti­stico che in Ita­lia si fa a volte dei disoc­cu­pati o dei pen­sio­nati rovi­nati da video­po­ker o video­lot­tery: in tutti que­sti casi si cede alla com­mi­se­ra­zione, si parla di psi­co­pa­to­lo­gia ma si occulta il fatto che quelle mise­rie sono fun­zio­nali a pre­cisi inte­ressi eco­no­mici (anche di stampo mafioso), pos­si­bili e pro­mossi dalle leggi dello Stato. La mise­ria del mondo di Bour­dieu mostra la pos­si­bi­lità di ren­dere rever­si­bile (per­ché pro­dotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scam­biato per un destino senza scampo: la mise­ria dei tempi pre­senti in tutte le sue com­plesse ed arti­co­late forme.

Riferimenti
Vedi anche, sul medesimo argomento, l'articolo di Benedetto Vecchi.
Nell'icona, e qui sotto, un murale di Ernest Pignon dipinto in una prigione di Lione

aggio che alterna inchiesta e riflessione a decrittare l’universo neoliberista». Tradotto un testo significativo sulla dimensione della divisione in classi della società. Il manifesto, 16 aprile 2015

Final­mente l’opera di Pierre Bour­dieu La mise­ria del mondo è stata tra­dotta. Al di là del fatto che va a met­tere un impor­tante tas­sello nel puzzle ita­liano dell’intera opera del socio­logo fran­cese — per com­ple­tarlo man­cano solo i corsi tenuti all’università, in tra­du­zione da Fel­tri­nelli -, il volume è un esem­pio di un pen­siero cri­tico che alterna inchie­sta sul campo e rifles­sione di lunga durata. Sin dai primi studi sull’Algeria Bour­dieu ha scelto l’inchiesta come chiave di accesso alla com­pren­sione dei mec­ca­ni­smi alla base del potere nelle società moderna. Ha poi con­ti­nuato con opere che lo hanno pro­iet­tato sulla scena euro­pea come uno mag­giori stu­diosi della contemporaneità.
Illu­mi­nante con­ti­nua ad essere il sag­gio sulla Distin­zione (Il Mulino), dove Bour­dieu ana­liz­zava come la divi­sione in classi della società non si limi­tava solo nei luo­ghi del lavoro, ma inve­stiva i con­sumi cul­tu­rali, l’accesso alla for­ma­zione, garan­tendo così la ripro­du­zione dei rap­porti sociali capi­ta­li­sti. Sarebbe però sba­gliato con­si­de­rare Bour­dieu un mar­xi­sta orto­dosso. Anzi, il socio­logo fran­cese ha sem­pre avuto un rap­porto con­flit­tuale con il mar­xi­smo occi­den­tale. Ne rico­no­sceva la capa­cità inter­pre­ta­tiva, ma ne ha capar­bia­mente respinto una della sua carat­te­ri­sti­che più rile­vanti, cioè quello di essere una prassi teo­rica tesa a tra­sfor­mare la realtà.

Per Bour­dieu, infatti, i filo­sofi, e i socio­logi, dove­vano limi­tarsi a inter­pre­tare il mondo. Solo in piena vento neo­li­be­ri­sta ha mostrato inte­resse per i movi­menti sociali e i con­flitti del capi­ta­li­smo. Ci sono foto dive­nute famose di un Pierre Bour­dieu che parla a un mega­fono durante lo scio­pero del 1994 che para­lizzò per oltre un mese Parigi. Sciarpa rossa e una postura del corpo da mili­tante, esprime la soli­da­rietà ai dei lavo­ra­tori, soste­nendo che la posta in gioco del loro scio­pero non erano solo le pen­sioni o il sala­rio — temi già rile­vanti in se — ma degli assetti di potere della società.

Il teo­rico dell’homo aca­de­mi­cus e l’«inventore» del con­cetto, da molti rite­nuto crip­tico, di «campo» abban­do­nava le aule uni­ver­si­ta­rie non solo per distri­buire neu­tri que­stio­nari ma per «spor­carsi le mani» con l’oggetto del suo lavoro teo­rico. Per uno che aveva sem­pre guar­dato con sospetto, se non osti­lità, la figura del maî­tre à pen­ser era un cam­bia­mento che non poteva pas­sare inos­ser­vato. Sono però pro­prio que­gli gli anni durante i quali Bour­dieu ana­lizza la pre­ca­rietà avan­zante e la dis­so­lu­zione delle isti­tu­zioni che ave­vano garan­tito lo svi­luppo del capi­ta­li­smo dopo la seconda guerra mon­diale. I «trenta anni glo­riosi» ave­vano lasciato il passo al lungo inverno neoliberista.

È in que­sto cam­bia­mento che ha le sue radici La mise­ria del mondo, dove Bour­dieu non esi­sta a par­lare della vio­lenza insite nei rap­porti sociali capi­ta­li­stici. Una vio­lenza che ha come risul­tato non solo l’impoverimento o l’esclusione sociale di una parte della popo­la­zione, ma che è imma­nente in tutte le rela­zioni sociali. Ne sono vit­time tanto gli sfrut­tati, ma anche gli sfrut­ta­tori. È quest’ultimo l’aspetto che in Fran­cia ha pro­vo­cato rigetto da molti teo­rici gau­chi­ste . Ma al di là delle pole­mi­che con­tin­genti, La mise­ria del mondo rimane un fer­tile lascito teo­rico di Bour­dieu che può aiu­tare le scienze sociali ita­liane a uscire dall’afasia che le contraddistingue.

«Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi». Left, 14 aprile 2015

Come ha osservato di recente Thomas Piketty, i partiti di centrosinistra al governo hanno cessato da tempo di difendere le classi popolari: davanti alla crisi della deindustrializzazione, invece di rafforzare le istituzioni pubbliche e i sistemi di protezione sociale esistenti, i partiti di governo hanno scelto di abbandonare le classi popolari e i ceti medi.

Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della “patrimoniale”, da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le “pensioni d’oro” e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell’art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell’abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali – si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all’università, ai beni culturali e al paesaggio.

Si capisce perché le classi popolari votino per le destre, osserva Piketty pensando al caso francese. Ma in Italia le cose vanno in altra direzione: un partito che si definisce ancora di centrosinistra continua a riscuotere la maggioranza dei consensi, almeno di coloro che ancora pensano di partecipare alle elezioni.

Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tomasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com’era è l’ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà.

Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l’ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d’animo diffuso è lo scoramento. Una volta l’orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de France. Oggi che la Ferrari è un’azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l’esultanza del tifo.

Ma c’è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com’era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell’uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana.

Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c’era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno.

Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi.

Il manifesto, 14 aprile 2015
La spesa mili­tare ita­liana, cal­co­lata al tasso di cam­bio cor­rente dollaro/euro, è salita da 65 milioni di euro al giorno nel 2013 a circa 70 nel 2014.

Anche nell’ipotesi che resti inva­riata nel 2015 (cosa impos­si­bile per­ché la Nato preme per un aumento), la spesa annuale del 2014 equi­vale, all’attuale tasso di cam­bio, a 29,2 miliardi di euro, ossia a 80 milioni di euro al giorno.

Ciò emerge dai dati sulla spesa mili­tare mon­diale, pub­bli­cati ieri dal Sipri. Più pre­cisi di quelli del Mini­stero della difesa, il cui bud­get uffi­ciale ammonta nel 2014 a 18,2 miliardi di euro, ossia a circa 50 milioni di euro al giorno. Ad esso si aggiun­gono però altre spese mili­tari extra-budget, che gra­vano sul Mini­stero dello svi­luppo eco­no­mico per la costru­zione di navi da guerra, cac­cia­bom­bar­dieri e altri sistemi d’arma e, per le mis­sioni mili­tari all’estero, su quello del Mini­stero dell’economia e delle finanze. L’Italia è al 12° posto mon­diale come spesa mili­tare

Net­ta­mente in testa restano gli Stati uniti, con una spesa nel 2014 di 610 miliardi di dol­lari (equi­va­lenti, all’attuale tasso di cam­bio, a 575 miliardi di euro).

Stando ai soli bud­get dei mini­steri della difesa, la spesa mili­tare dei 28 paesi della Nato ammonta, secondo una sua sta­ti­stica uffi­ciale rela­tiva al 2013, ad oltre 1000 miliardi di dol­lari annui, equi­va­lenti al 56% della spesa mili­tare mon­diale sti­mata dal Sipri. In realtà la spesa Nato è supe­riore, soprat­tutto per­ché al bilan­cio del Pen­ta­gono si aggiun­gono forti spese mili­tari extra bud­get: ad esem­pio, quella per le armi nucleari (12 miliardi di dol­lari annui), iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento dell’energia; quella per gli aiuti mili­tari ed eco­no­mici ad alleati stra­te­gici (47 miliardi annui), iscritta nei bilanci del Dipar­ti­mento di stato e della Usaid; quella per i mili­tari a riposo (164 miliardi annui), iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento degli affari dei vete­rani. Vi è anche la spesa dei ser­vizi segreti, la cui cifra uffi­ciale (45 miliardi annui) è solo la punta dell’iceberg.

Aggiun­gendo que­ste e altre voci al bilan­cio del Pen­ta­gono, la spesa mili­tare reale degli Stati uniti sale a circa 900 miliardi di dol­lari annui, circa la metà di quella mon­diale, equi­va­lenti nel bilan­cio fede­rale a un dol­laro su quat­tro speso a scopo militare.

Nella sta­ti­stica del Sipri, dopo gli Stati uniti ven­gono la Cina, con una spesa sti­mata in 216 miliardi di dol­lari (circa un terzo di quella Usa), e la Rus­sia con 85 miliardi (circa un set­timo di quella Usa). Seguono l’Arabia Sau­dita, la Fran­cia, la Gran Bre­ta­gna, l’India, la Ger­ma­nia, il Giap­pone, la Corea del sud, il Bra­sile, l’Italia, l’Australia, gli Emi­rati Arabi Uniti, la Turchia. La spesa com­ples­siva di que­sti 15 paesi ammonta, nella stima del Sipri, all’80% di quella mondiale.

La sta­ti­stica evi­den­zia il ten­ta­tivo di Rus­sia e Cina di accor­ciare le distanze con gli Usa: nel 2013–14 le loro spese mili­tari sono aumen­tate rispet­ti­va­mente dell’8,1% e del 9,7%. Aumen­tate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polo­nia (13% in un anno), Para­guay (13%), Ara­bia Sau­dita (17%), Afgha­ni­stan (20%), Ucraina (23%), Repub­blica del Congo (88%).
Ogni minuto si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno

I dati del Sipri con­fer­mano che la spesa mili­tare mon­diale (cal­co­lata al netto dell’inflazione per con­fron­tarla a distanza di tempo) è risa­lita a un livello supe­riore a quello dell’ultimo periodo della guerra fredda: ogni minuto si spen­dono nel mondo a scopo mili­tare 3,4 milioni di dol­lari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno. Ed è una stima per difetto della folle corsa alla guerra, che fa strage non solo per­ché porta a un cre­scente uso delle armi, ma per­ché bru­cia risorse vitali neces­sa­rie alla lotta con­tro la povertà.

Il manifesto, 14 aprile 2015

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Può un paese, che ha appena rice­vuto la con­danna della corte di Stra­sburgo, per­met­tersi di gio­care sulle deli­cate mate­rie elet­to­rali e costi­tu­zio­nali affi­dan­dosi alla giu­liva esu­be­ranza di Boschi e di Renzi, che scom­met­tono sull’adozione in ogni angolo del con­ti­nente delle loro splen­dide riforme illiberali?

Per ora l’Europa, nel campo del diritto pub­blico, ha rice­vuto dalla poli­tica ita­liana solo la rie­su­ma­zione della tor­tura di Stato, la fio­ri­tura delle leggi ad per­so­nam, la com­parsa della giu­sti­zia penale con ben scol­pito un volto di classe. Un’ennesima legge elet­to­rale di segno illi­be­rale e com­pleto sarebbe il qua­dro della deriva dell’ordinamento.

Al posto di tante chiac­chiere di mini­stri e rela­tori incom­pe­tenti chia­mati a redi­gere le nuove norme per il voto, il par­la­mento dovrebbe con­fe­zio­nare una legge elet­to­rale non sulla base dei sogni di suc­cesso del lea­der attuale, ma avendo un qual­che dise­gno di sistema. I cal­coli di inta­scare una vit­to­ria certa, mano­vrando a pia­ci­mento le tec­ni­che elet­to­rali, peral­tro non por­tano bene.

Ne fece le spese già un De Gasperi minore, che pagò la for­za­tura illi­be­rale della legge truffa (pre­mio del 65 per cento dei seggi al “poli­par­tito” coa­liz­zato) con una scon­fitta, che acce­lerò il tra­monto di un leader.

In nome della demo­cra­zia pro­tetta e dello Stato forte, aveva sospinto il paese nelle incer­tezze di un con­flitto radi­cale (clima di stato d’assedio a Roma, inci­denti alla camera, Ingrao fu man­ga­nel­lato dalla celere, i depu­tati d’opposizione abban­do­na­rono l’aula can­tando l’inno della repub­blica). E anche la strana cop­pia Occhetto-Segni, che aveva otte­nuto il per­messo di scri­vere la nuova legge elet­to­rale sotto det­ta­tura refe­ren­da­ria, uscì di scena con le prime con­sul­ta­zioni mag­gio­ri­ta­rie. All’ingegneria elet­to­rale di Cal­de­roli non andò meglio.

Una demo­cra­zia malata che scrive tre leggi elet­to­rali in vent’anni, e che da dieci lustri con­vive con una for­mula giu­di­cata dalla Con­sulta inco­sti­tu­zio­nale, dovrebbe muo­versi con ben altra respon­sa­bi­lità e cul­tura delle regole.

Il tempo per un con­senso allar­gato del par­la­mento dovrebbe essere un impe­ra­tivo irri­nun­cia­bile. E invece il mestiere delle riforme è appal­tato a poli­tici dell’improvvisazione che pre­ten­dono, con il 25 per cento dei voti, di imporre ad ogni costo, al restante 70 per cento, la regola del gioco fon­da­men­tale, quella elet­to­rale esco­gi­tata per vincere.

Qual­che solerte giu­ri­sta all’odor di regime inco­rag­gia il pre­mier ad affron­tare lo scon­tro in campo aperto, non esi­tando a ricor­rere al voto di fidu­cia, che sarebbe un pas­sag­gio legit­ti­mato dal pre­ce­dente della legge truffa, quando peral­tro il par­la­mento aveva altri rego­la­menti. E’ vero che De Gasperi in aula pose la que­stione di fidu­cia ma, con il suo gesto (si appellò a «impel­lenti ragioni di calen­da­rio» e a «cir­co­stanze straor­di­na­rie»), pro­vocò una crisi isti­tu­zio­nale lace­rante, che nes­suno sta­ti­sta lun­gi­mi­rante può per­met­tersi di sca­te­nare. Lo stesso pre­si­dente del con­si­glio rico­nobbe che «la fidu­cia su un dise­gno di legge non appar­tiene alla pro­ce­dura usuale». Il pre­si­dente del senato Para­tore lo inter­ruppe scan­dendo: «e non costi­tui­sce precedente!».

Col­pito dalle accuse del governo, in merito ai suoi sforzi di media­zione, e anche ai suoi cenni di aper­tura all’ipotesi di un refe­ren­dum ven­ti­lata da Togliatti (si avviò la rac­colta di 500 mila firme per la richie­sta del refe­ren­dum, da abbi­nare alle ele­zioni poli­ti­che con la scelta affi­data agli elet­tori tra l’attribuzione dei seggi secondo la nuova o la vec­chia legge), Para­tore ras­se­gnò le dimissioni.

Secondo il governo d’allora, il senato avrebbe dovuto limi­tarsi a pren­dere atto della legge che riguar­dava solo le moda­lità di ele­zione della camera dei depu­tati. Ma, come ram­mentò Umberto Ter­ra­cini, i pre­ce­denti sto­rici smen­ti­vano la fretta del governo. Nel 1881–82 il senato non solo discusse i ritoc­chi alla legge elet­to­rale ma votò emen­da­menti di cui fu tenuto conto. Le oppo­si­zioni si sca­glia­rono con­tro la pre­tesa dell’esecutivo cen­tri­sta di sta­bi­lire una data per l’approvazione del testo.

Il senso illi­be­rale della legge truffa, dise­gnata per argi­nare quelli che Scelba chia­mava «i mas­sicci par­titi tota­li­tari», lo colse in pieno il giu­ri­sta Vit­to­rio Ema­nuele Orlando che stig­ma­tizzò un’arbitraria pro­pen­sione del potere in carica, quella di inven­tare le nuove regole a ridosso delle con­sul­ta­zioni elet­to­rali (il pro­getto di legge fu pre­sen­tato solo il 21 otto­bre del 1952, con ele­zioni pre­vi­ste nella pri­ma­vera del 1953), che pur­troppo farà scuola. In una let­tera Orlando ammonì: «Con­si­dero come diso­ne­sta ogni legge elet­to­rale che sia pre­ce­dente imme­dia­ta­mente le ele­zioni». E aggiunse: «Ora sic­come il governo attuale vuole que­sto atto diso­ne­sto, pre­cede la mia ribel­lione su que­sto punto».

I riscon­tri sto­rici mostrano che non può esserci il sospetto, in un sistema demo­cra­tico appena decente, di scri­vere le regole “diso­ne­ste” della con­tesa sull’abito delle con­ve­nienze del deten­tore con­giun­tu­rale del potere.

Le riforme, soprat­tutto se varate da un par­la­mento ille­git­timo quanto alla sua com­po­si­zione alte­rata dal pre­mio di mag­gio­ranza, non si defi­ni­scono seguendo le sirene del trionfo annun­ciato ma ipo­tiz­zando anche argini alla bana­lità del male. In un sistema tri­po­lare, con par­titi liquidi e forze a voca­zione anti­si­stema, è segno di pura inco­scienza con­tem­plare la pos­si­bi­lità che dal bal­lot­tag­gio esca con i gal­loni del comando una for­ma­zione con il 20 per cento o anche meno dei consensi.

Nell’attuale sistema tutto si è sciolto e non esi­stono le con­di­zioni reali per una com­pe­ti­zione bipo­lare. Per que­sto la tro­vata del bal­lot­tag­gio di lista perde ragio­ne­vo­lezza, effi­ca­cia. Lo sci­vo­la­mento ple­bi­sci­ta­rio del Pd, che invoca i pre­sunti man­dati impe­ra­tivi sca­tu­riti dai gazebo, rivela un dete­rio­ra­mento del qua­dro istituzionale.

Costi­tui­sce «un pen­siero aber­rante», ha scritto Gian­franco Pasquino, l’idea di invo­care la disci­plina par­la­men­tare sulle riforme, come hanno fatto Renzi, Boschi, per­sino i gio­vani tur­chi. «La disci­plina di par­tito –spiega Pasquino– può essere richie­sta ai par­la­men­tari esclu­si­va­mente sulle mate­rie inse­rite nel pro­gramma che il loro par­tito ha sot­to­po­sto agli elettori».

Se non una deriva auto­ri­ta­ria, un grave clima di dege­ne­ra­zione dello spi­rito costi­tu­zio­nale è già ope­rante. Non c’è spe­cia­li­sta di sistemi elet­to­rali che non abbia mostrato i limiti strut­tu­rali dell’Italicum. Anche tra i giu­ri­sti non ostili verso il rifor­mi­smo di Renzi si rico­no­sce che l’Italicum «è molto simile al Por­cel­lum» e non supera «le obie­zioni sostan­ziali» mosse dalla Con­sulta, che anzi nel qua­dro tri­par­ti­tico «risul­tano forse aggra­vate» (A. Mar­rone, “Il Mulino”, 2014 n. 4, p. 555).

Senza par­titi fun­zio­nanti, in grado cioè di cen­su­rare il lea­der, di sfi­darlo alla pari e di non essere dei pas­sivi nomi­nati agli ordini di chi ha lo scet­tro, l’Italicum oscilla tra cadute assem­bleari e vel­leità cesa­ri­sti­che. All’elezione diretta del capo di governo, il con­ge­gno aggiunge anche il con­trollo del 55 per cento della camera deli­neando così un pre­mie­rato illi­mi­tato. Una post­mo­derna repub­blica delle banane con la lea­der­ship creata dai salotti della tv.

In que­sto qua­dro, è indi­spen­sa­bile la vigi­lanza cri­tica del Colle, che dovrebbe essere aller­tato dal costoso pre­ce­dente della man­cata cen­sura pre­ven­tiva che nel 2006 con­se­gnò il Por­cel­lum viziato dai gua­sti illi­be­rali denun­ciati dalla Consulta.

Non si tratta della con­sueta arte di tirare per la giacca il pre­si­dente coin­vol­gen­dolo nel gioco politico.

E’ invece l’attesa della rigo­rosa coper­tura del ruolo trac­ciato dalla Carta e che implica l’esercizio del rin­vio per regole che ema­nano il solo dub­bio di inco­sti­tu­zio­na­lità. Dinanzi alla volontà di potenza di un par­tito (diviso) del 25 per cento, che ripro­pone una legge con anti­chi vizi (nes­suna soglia è pre­vi­sta per l’accesso al bal­lot­tag­gio), tocca al Qui­ri­nale ripri­sti­nare le con­di­zioni mini­mali di un con­fronto demo­cra­tico così gra­ve­mente alterato.

«L’impoliticità di papa Francesco mette a nudo l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici». La Repubblica, 14 aprile 2015

L’OSTINAZIONE con cui Ankara proibisce ai suoi cittadini di fare i conti con lo sterminio armeno si scontra con il candore di Francesco. Cioè il papa che meno di qualunque altro fra i suoi predecessori si concepisce capo di Stato, assoggettato come tale ai vincoli della realpolitik.

Quasi tutti gli storici concordano nel ritenere la cifra delle vittime, persone uccise o morte di stenti nel corso della deportazione di massa che nel 1915 le ha strappate alle loro case, ampiamente superiore al milione. È altrettanto incontestabile che quel massacro sistematico di un popolo intero, svolse una funzione decisiva nell’ispirare Adolf Hitler: gli fece cioè balenare la possibilità concreta, anche nell’età contemporanea, di concepire una “soluzione finale” di sterminio industrialmente pianificato. A partire dal 1951, dopo un ampio dibattito, le Nazioni Unite hanno deliberato che crimini di questo tipo, miranti all’eliminazione fisica di un’intera popolazione, debbono essere definiti con il termine “genocidio”. Fu un avvocato ebreo di Leopoli, prima ancora che la sua famiglia scomparisse nel gorgo della Shoah, a coniare la parola “genocidio” che gli venne ispirata dalla fine degli armeni nell’indifferenza della comunità internazionale. Lemkin condusse per decenni, in solitudine e con pochissimi mezzi, la sua battaglia per un diritto internazionale adeguato al ripetersi di crimini di Stato. Trovò udienza solo al termine della seconda guerra mondiale, dopo che quella tragedia si era replicata, su scala ancora maggiore, nel cuore dell’Europa.

L’impoliticità di papa Francesco e la reazione furiosa delle autorità turche, stanno provocando un sano cortocircuito. A dimostrazione del fatto che le ferite della storia non si rimarginano mai spontaneamente, che l’atavica legge del più forte non basta più a seppellire la memoria dei vinti. È orribile l’insinuazione di Ankara, secondo cui a influenzare Bergoglio sarebbe stata niente meno che la “lobby armena” insediatasi a seguito della diaspora novecentesca in Argentina. È il solito bieco argomento rivolto contro le vittime che non accettano di rassegnarsi in silenzio, alle quali viene attribuito subdolamente chissà quale potere e volontà sopraffattrice.

Ma l’impoliticità di papa Francesco mette a nudo anche l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici. Per fortuna ieri sera il ministro Gentiloni è intervenuto, sia pure con estrema cautela, a rettificare l’infelice sortita di un sottosegretario che non aveva trovato di meglio che bacchettare le parole di Francesco. Rivendicando l’opportunità che il governo italiano, per quieto vivere, releghi il genocidio armeno a mera controversia storica. Niente male per un Paese come il nostro che ha appena introdotto con voto parlamentare il (discutibilissimo) reato di negazionismo storico.

Sappiamo bene quanto sia delicato il tema delle nostre relazioni con la Turchia, soprattutto oggi che l’offensiva jihadista divampa sulle coste del Mediterraneo. Il genocidio armeno fu portato a termine da un regime che stava assumendo il nazionalismo più esasperato come nuova politica di potenza, in sostituzione del Califfato islamico morente, quando ormai stava venendo meno la secolare funzione imperiale del Sultano di Istanbul.

Di nuovo oggi Erdogan aspira a disseppellire il miraggio dell’impero ottomano. Fallito il tentativo di presentarsi come riferimento di nuovi modelli statali islamici, fondati sull’integralismo dei Fratelli Musulmani sconfitti in Egitto e Tunisia, il presidente turco non rinuncia a proporsi come leader del mondo sunnita. Fino al punto di avere intrattenuto una relazione ambigua con l’Is, che troppo a lungo ha potuto utilizzare la penisola anatolica come retrovia. Anche l’inusitata durezza con cui Ankara reagisce alle parole di Francesco, sembra mirata a trasformare la questione armena in fattore di contrapposizione religiosa fra mondo islamico e mondo cristiano.

Evitare di cadere in questa trappola, non ci esime dal tenere duro sui principi su cui si fonda la nostra civiltà occidentale. La quale, per sua natura, di fronte a un genocidio si fa carico del punto di vista delle vittime. Opponendosi alla pretesa di chi vorrebbe rimuovere con la prepotenza una memoria insanguinata. Anche chiamando col suo nome un genocidio.

La candida potenza di Francesco, il vescovo di Roma che rimette in discussione le logiche statuali con cui si è mossa per secoli la Chiesa cattolica, è una potenza davvero inerme. Ma è un richiamo di verità cui neanche la più machiavellica delle diplomazie europee può sottrarsi.


L'introduzione del concetto di invariante strutturale nella pianificazione territoriale ed urbana ha incontrato numerosi problemi applicativi. Lo scopo del libro è indagarne le ragioni e formulare una nuova definizione capace di superarli. Al centro dell’analisi si trova il rapporto fra concetti cruciali nell’interpretazione del territorio: sostenibilità dello sviluppo, risorsa, spazio, luogo, identità di luogo, statuto, strutture territoriali spazio-temporali, e le invarianti strutturali intese come strumento per produrre e riprodurre identità e qualità sociali e ambientali del territorio. Il fulcro sono l’organizzazione e i funzionamenti del territorio, i processi spazio- temporali e gli attori che se ne sono artefici. E dai valori immateriali, ma oggettivi, è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dai differenti gruppi di popolazione, in termini di memoria, attribuzione di senso e identità.

Il significato profondo del lavoro risiede nella volontà di conservare e riprodurre dei valori, che non sono solo rapporti e relazioni spaziali, né sono solo rapporti o relazioni sociali, ma sono invece relazioni spaziali-temporali che mettono in rapporto natura storia e società.

L'invariante strutturale è in primo luogo il rapporto fra gruppi sociali e territori, nella sua articolazione storica. La tesi è che non ci si possa limitare agli oggetti situati nello spazio e alle relazioni spaziali ma si debbano indagare anche le relazioni ed i processi sociali che formano quelle strutture spaziali.

Non si tratta di privilegiare le relazioni sociali rispetto alla materialità del territorio ma di considerarle entrambe e quindi allargare l’orizzonte dell’analisi su due fronti: considerare accanto allo spazio assoluto quello relativo e relazionale, e assumere nell’analisi la contemporanea presenza di relazioni sociali e strutture spaziali.

Per capire le strutture spaziali è necessario conoscere il processo di urbanizzazione e quindi le relazioni sociali spaziali e temporali che lo producono. Contemporaneamente indicare come invariante strutturale un elemento sociale o culturale o economico avulso dalle sue caratteristiche spaziali cioè senza capirne e mostrane gli effetti spaziali è altrettanto problematico. L’aggancio spaziale è necessario, si tratta di due elementi, spazio e relazioni sociali, che è necessario trattare insieme, se si vuole governare il territorio.

Se dobbiamo governare il territorio dobbiamo agire sui meccanismi e sui processi che lo producono: quelli locali e quelli sovra locali, quelli materiali e quelli immateriali. Infatti la produzione del territorio non deriva solo dagli aspetti materiali, ma anche da quelli immateriali. E al centro spicca il valore delle aree, immateriale ma oggettivo, che è determinante per la sua influenza sul processo di urbanizzazione.

Gli elementi immateriali come la memoria o i valori d’uso e di scambio, non possono certo essere localizzati sul territorio al pari di una funzione, eppure giocano un ruolo fondamentale nella trasformazione territoriale e nel processo di urbanizzazione.

Le invarianti strutturali sono le strutture, contemporaneamente sociali e spaziotemporali, costitutive e relazionali che danno forma ad un territorio e ne segnano identità, qualità e riconoscibilità. Ogni invariante strutturale è caratterizzata da una propria struttura, organizzazione e funzionamento ed è prodotta dalle interazioni fra natura / storia / società. È definita dalle relazioni interne e dalle relazioni con l’esterno.

Si possono individuare tre componenti dell’invariante strutturale. La prima è la componente materiale. Comprende le conformazioni e le configurazioni territoriali; le caratteristiche fisiche ed ecologiche, i caratteri lito-idro-geo-morfologici, ecosistemici, le strutture insediative e infrastrutturali, i sistemi agroforestali, la presenza di beni comuni; le caratteristiche qualitative e gli elementi fondanti. Sono alcuni degli aspetti studiati dalla geografia, geologia, fisiografia. Concettualmente è lo spazio assoluto (Harvey 2006), in cui si situano gli oggetti materiali, gli eventi e le pratiche. È quello dove si trovano muri, ponti, porte, scale, strade, edifici, città, montagne, bacini idrografici, confini fisici e barriere ma anche le attività lavorative e di trasformazione.

La seconda componente riguarda i processi sociali, economici e naturali nel loro specifico intreccio: essi conformano i funzionamenti e l’organizzazione dell’invariante strutturale, le relazioni interne e con l’esterno; esprimono e pongono le condizioni (regole) generative e di riproduzione; sono retti dagli attori sociali attivi nella loro produzione. In base a queste modalità di funzionamento (spazio-temporale e sociale) dovranno essere definite le regole di manutenzione, d’uso e di trasformazione che ne consentono la riproduzione. Concettualmente è lo spazio relativo, quello della frizione della distanza, della circolazione e del flusso dell’energia, dell’acqua, dell’aria, delle merci, delle persone, dell’informazione, dei soldi, del capitale.

Una terza riguarda le componenti immateriali: è lo spazio relazionale, quello della memoria, della cultura e dei valori attribuiti dalla popolazione colta nelle sue differenti espressioni.Concettualmente è lo spazio relazionale, quello delle relazioni sociali, in cui le persone sono presenti nella loro pienezza, è lo spazio vissuto, ma è anche lo spazio del valore, immateriale ma oggettivo, e quindi dei differenziali di valore immobiliare che generano processi di valorizzazione e tanto peso hanno sulle trasformazioni territoriali.

Queste tre componenti rimandano ai tre concetti di spazio: assoluto, relativo e relazionale (Harvey 2006). Si tratta di strutture della spazialità che sono sempre presenti anche se pratiche sociali differenti assegnano un peso differenziato ad ognuna di esse. La semplificazione più deleteria nell’interpretare il territorio e nell’identificare le invarianti strutturali è dare preminenza ad una sola delle componenti invece che alla loro strutturante compresenza.

Ne consegue che le regole di insediamento e di trasformazione del territorio per le invarianti strutturali dovranno contemporaneamente: garantire la riproduzione degli aspetti materiali a cui si è riconosciuto carattere strutturale; preservare l’organizzazione e il funzionamento; infine dovranno gestire e governare i valori in gioco, sia quelli sociali che quelli economici. In altri termini le regole di utilizzazione e di trasformazione dovranno governare la trasformazione territoriale che riguarda questi valori.

E proprio dai valori immateriali è necessario prendere le mosse: i valori immobiliari e i valori attribuiti dalla popolazione compresa la questione della memoria, dell’attribuzione di senso e dell’identità. È essenziale la conoscenza del mercato immobiliare e di come i suoi valori si sono costituiti nel rapporto fra mercato e governo pubblico del territorio.

Un secondo passo è conoscere come questi valori e queste memorie si esprimono nel processo di urbanizzazione e trasformazione territoriale in corso, in modo tale da sapere su quali processi bisogna agire per permettere ai valori individuati come invarianti di riprodursi e quali regole di funzionamento socio-spaziali devono essere attivate.

Infine bisogna guardare alle strutture spazio-temporali che si sedimentano sul territorioindicando quali di loro devono essere preservate perché racchiudono il senso e il valore di quel territorio e perché possono essere considerate perni su cui ruota il funzionamento di quel territorio.

Le regole di trasformazione e di funzionamento debbono vertere su tutti e tre gli aspetti dell’invariante strutturale. Il maggior limite nella definizione delle invarianti strutturali nei piani ai vari livelli è stato di relegarle nel materiale, dimenticando l’immateriale, come se tutto fosse forma ed immagine e non anche contenuto.

Harvey D. (2006), Spaces of global capitalism, Verso, London - New York.

Il libro Invarianti strutturali nel governo del territorio è scaricabile gratuitamente dal sito dell'editore Firenze University Press:

«Il conflitto. Riunione informale ieri a Roma con associazioni, centri sociali, partite Iva e precari della Coalizione 27 febbraio. Nella Cgil lo scontro sul futuro del sindacato è duro. La segretaria Camusso definisce la coalizione "una scorciatoia": "Non andrà da nessuna parte. Restiamo della nostra idea"».

Il manifesto, 12 aprile 2015

La pros­sima set­ti­mana il mani­fe­sto della coa­li­zione sociale sarà dif­fuso in vista di un’assemblea di due giorni pro­gram­mata a metà mag­gio. Nelle inten­zioni del segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini dovrebbe chia­rire che la «coa­li­zione sociale» non è un par­tito ma «un pro­cesso aperto e in dive­nire». Nella bozza distri­buita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quar­tiere Cen­to­celle di Roma, poi dif­fusa dall’Ansa, si legge che la coa­li­zione vuole «dimo­strare che si può fare poli­tica attra­verso un agire con­di­viso, al di fuori e non in com­pe­ti­zione rispetto a par­titi, orga­niz­za­zioni poli­ti­che o car­telli elettorali».

La coa­li­zione sociale sarebbe dun­que il risul­tato di un «agire con­di­viso», «fuori e non in com­pe­ti­zione» con i par­titi. Pro­ba­bil­mente la pre­ci­sa­zione serve a raf­fred­dare le rea­zioni della «sini­stra Pd» o dei Cin­que Stelle, che vedono con insof­fe­renza l’esperimento di Lan­dini. Si punta a fare coa­li­zione con tutti i lavo­ra­tori, pre­cari e «nuovi poveri» con la par­tita Iva, sul «ter­ri­to­rio» e «nei luo­ghi di lavoro», non tra gli schieramenti.

All’incontro hanno par­te­ci­pato asso­cia­zioni come Act, movi­menti come il Forum dell’acqua e cen­tri sociali dell’Emilia Roma­gna. È inter­ve­nuto anche Ste­fano Rodotà che ha riba­dito il giu­di­zio con­tro la «zavorra» dei par­titi. Una posi­zione, ha ammesso, che ha inner­vo­sito molti nei par­titi. A suo avviso la «coa­li­zione sociale» ha «una carica pole­mica posi­tiva»: regi­stra la crisi della rap­pre­sen­tanza della poli­tica e intende resti­tuire rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica al lavoro. Per Rodotà que­sta è la base di un’altra cul­tura e agenda poli­tica da sot­to­porre anche a chi, nei par­titi, è sen­si­bile ai beni comuni o alla pro­po­sta di legge d’iniziativa popo­lare per eli­mi­nare il pareg­gio di bilan­cio in Costituzione.

L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pome­rig­gio le agen­zie hanno ripor­tato le dichia­ra­zioni di Lan­dini e dei par­te­ci­panti. Dopo le 13,30 sugli smart­phone sono apparse le dure parole della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso. La coa­li­zione sociale è una «scor­cia­toia – ha detto — non mi pare che vada da nes­suna parte». Per la segre­ta­ria la strada è diversa: pri­mato del sin­da­cato e auto­no­mia dai sog­getti sociali e poli­tici. Obiet­tivo: ritro­vare «l’unità tra i lavo­ra­tori e le orga­niz­za­zioni sin­da­cali».

Per Lan­dini, invece, il sin­da­cato da solo non basta nel momento in cui Renzi è deter­mi­nato a can­cel­lare tutti i corpi inter­medi, age­vo­lando così il pro­cesso di rivo­lu­zione dall’alto in corso nell’Europa dell’austerità. Il suo è un defi­cit di rap­pre­sen­tanza, e di potere sociale, che va recu­pe­rato facendo coa­li­zione con i mondi del lavoro non dipen­dente e pre­ca­rio, oltre che nella società. Dif­fe­renze che tor­ne­ranno a farsi sen­tire in vista della con­fe­renza di orga­niz­za­zione della Cgil.

Su que­sto scon­tro tra Lan­dini e Camusso si sta gio­cando il futuro del sin­da­cato. La sua pro­po­sta di coa­li­zione sociale vuole costruirne uno diverso, met­tendo in comune «saperi e espe­rienze» con la società, anche attra­verso il «mutua­li­smo», altra parola chiave. Ai sog­getti che la com­pon­gono sono state pro­po­ste «cam­pa­gne per obiet­tivi comuni» con­tro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pen­sione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinun­ciare a ciò che sono, ma di par­te­ci­pare a quelle su cui sono d’accordo.

Gli avvo­cati di Mga, i far­ma­ci­sti di Fnpi, gli atti­vi­sti dello scio­pero sociale che fanno parte della «Coa­li­zione 27 feb­braio» hanno soste­nuto le ragioni di una cam­pa­gna con­tro il «busi­ness» della Garan­zia gio­vani, fisco e pre­vi­denza equi per i pre­cari e le par­tite Iva, il red­dito di base. Su que­sto mani­fe­ste­ranno il 24 aprile alla sede cen­trale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coa­li­zioni in for­ma­zione – sosten­gono – Biso­gna deter­mi­nare le com­bi­na­zioni che aumen­tano la forza di tutti ed evi­tare di defi­nire subito il peri­me­tro di una sola».

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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa par­liamo quando par­liamo di coa­li­zione sociale?

Leggi anche, di Guido Viale: L'immaginario spazio a sinistra del PD

COMINCIO con una citazione dello storico francese Jacques Julliard ne “Le Monde” di venerdì scorso: «Que serait une gauche sans le peuple? Le socialisme, certes, c’est une moral mais doublée d’une empathie populaire. Or une partie du peuple des gauche fait sécession et exprime un vote de désaffiliation. Il y a surtout 50 pour cent d’abstensions, c’est-à-dire une gigantesque crise du politique, un incontestable malaise dans la représentation. Les professionnels de la politique ont rongé la vie democratique».

Non si poteva descrivere meglio quello che sta accadendo in Francia: «Un paysage bouleversé» che anche in Italia presenta esattamente la stessa crisi: i professionisti della politica stanno distruggendo la democrazia, la sinistra sta perdendo l’appoggio popolare e la sinistra senza il suo popolo non esiste più.
Ed ora citerò un grande discorso che De Gasperi tenne in Parlamento il 17 gennaio del 1953, alla vigilia del voto sulla legge elettorale che pochi mesi dopo fu battuta dalle opposizioni di destra e di sinistra. Fu chiamata legge truffa, ma non lo era affatto; dava un premio al partito o alla coalizione che aveva ottenuto il 50,1 per cento dei voti. «Questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia. Si limita a rafforzare la maggioranza affinché sia più solida e possa governare come è suo diritto. Ma se perdesse il 50 meno un voto sarebbe sconfitta da chi invece prendesse due voti di più. Vi sembra che questa sia un’intollerabile sopraffazione?».
COSÌ diceva De Gasperi. Mettete insieme questi concetti espressi cinquantuno anni fa e quelli de Le Monde di tre giorni fa e vedrete una perfetta identità di ragionamento che descrive in tutta la sua evidenza lo stato della democrazia nel nostro Paese, aggravato in più da altri due fatti salienti: l’abolizione del Senato e una legge elettorale che non solo trasforma in maggioranza una minoranza cui mancano dieci punti percentuali per arrivare al 50 più uno, ma che è anche una legge di «nominati».
Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l’abolizione della democrazia parlamentare. Un Parlamento di «nominati» in un sistema monocamerale è una «dependance» del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale.
Resta naturalmente la Corte costituzionale ma anch’essa può finire con l’essere una Corte nominata dall’esecutivo se desse troppa noia all’autoritarismo d’un governo a sua volta sottomesso alla decisione d’un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l’essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato?
Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare.

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Detto questo ci sono questioni economiche e sociali altrettanto urgenti e importanti da affrontare. Comincerò spiegando che cosa è e da dove proviene quel cosiddetto tesoretto di un miliardo e 600 milioni che improvvisamente il presidente del Consiglio ha estratto venerdì scorso dal cilindro tra la sorpresa del Consiglio dei ministri che stava esaminando la legge di stabilità presentata dal ministro dell’Economia.
A leggere la maggior parte dei giornali le madri del tesoretto sarebbero il miglioramento del Pil, la ripresa dell’occupazione, il mutamento delle aspettative e gli effetti che questo determina sui consumi e sulla domanda. Ebbene, non è così. Il tesoretto viene dagli effetti della manovra monetaria di Mario Draghi che come primo risultato ha prodotto un ribasso consistente del rendimento dei titoli pubblici e quindi una diminuzione di circa due miliardi di euro negli oneri che il Tesoro sopporta per pagare gli interessi sui titoli in circolazione.
Due settimane fa avevo chiuso il mio articolo scrivendo «meno male che Draghi c’è». Non voglio ripetermi, del resto i fatti stanno a provarlo e non solo per quanto riguarda l’Italia ma l’Eurozona nel suo complesso.
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Un altro problemino da chiarire riguarda il Jobs act e il ministro Poletti, che chiacchiera molto e spesso a sproposito. Quale giorno fa, citando fonte Istat e interpretandola a suo modo, informò la pubblica opinione che il primo bimestre di quest’anno, paragonato al corrispondente bimestre dell’anno scorso, registrava una crescita dell’occupazione di oltre 79 mila unità. Poco ma buono, un inizio d’anno comunque confortante.
Gli fu obiettato che doveva tener conto dei contratti stipulati sulla base del Jobs act ma non aveva tenuto conto dei licenziamenti che erano stati nel frattempo effettuati. E così si scoprì che, fatte le debite sottrazioni, il saldo tra nuove assunzioni di precari e licenziamenti era di 44 mila occupati in più.
Molto poco ma pur sempre una cifretta positiva e comunque un indizio confortante che sarebbe certamente aumentato con rapidità. Ma poi, impietosamente, ieri sono usciti i dati dell’Inps sull’occupazione nel suo complesso. Va infatti chiarito che i contratti sulla base del Jobs act non sono vere e proprie assunzioni ma semplicemente un consolidamento di alcune forme di precariato con contratti a tempo indeterminato per tre anni, salvo la facoltà di licenziamento alla scadenza del triennio.
L’Inps invece parla di occupazione e disoccupazione vera e propria, chi lavora sotto qualunque forma contrattuale e chi non lavora affatto. Anche qui il saldo è positivo e sapete qual è la cifra: 13 persone in più. La scrivo in lettere per esser sicuro che la lettura sia corretta: tredici persone in più. Una cifra che percentualmente è espressa con il numero zero perché non è matematicamente percepibile come percentuale.
Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane.
Salvo un punto: ha abolito l’articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc’anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui.
Io speriamo che me la cavo, è un vecchio detto sempre attuale di fronte a rischi di tal genere.
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In questi ultimi venti giorni sono accaduti fatti orrendi nel mondo: la strage di massa del cosiddetto Califfato che avviene in tutto l’agitatissimo Medio Oriente ma anche in Europa; il fondamentalismo nelle religioni, la strage-suicidio nell’aereo della Lufthansa voluta da un pazzo; il massacro di un altro pazzoide al tribunale di Milano, il tema della tortura e quello della corruzione.
Secondo me c’è stata una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella è papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro. Chi vive il presente e non vede il tempo lungo, chi ama il potere per il potere e non guarda al bene dei figli e dei nipoti, rischia di annaspare in una palude di acque morte.
È quello il rischio, è quello il pericolo che ci sovrasta e neppure Francesco riuscirà ad evitarlo.
Noi abitiamo un Paese di grandi individui e di grande civiltà ma pochi ne hanno goduto. Una aristocrazia di geni che ha educato attraverso i secoli un popolo di persone consapevoli e responsabili, un popolo sovrano ma minoritario in patria. Il resto era plebe fatta di poveri, di deboli, di esclusi, ma anche di corrotti, di tiranni, d’avventurieri, di buffoni e di voltagabbana.
Questo avviene in tutto il mondo, la violenza, la cupidigia, l’avidità, l’avarizia di sé sono dovunque è l’animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l’istintoanimalesco e la coscienza, il bene suo e il bene degli altri. Stiamo attraversando un fine d’epoca dominata dall’egoismo. Non potrebbe essere altrimenti, quando un’epoca tramonta e la nuova non ha ancora preso forma e creato nuovi valori.
Ho scritto molte volte queste riflessioni e mi scuserete se le ripeto. Non sono certo un oracolo e spero sempre di sbagliarmi, ma i fatti purtroppo mi danno ragione o almeno così mi sembra.
Può darsi che la comunicazione di massa che mai prima d’ora aveva raggiunto questa intensità, sottolinei le cattive notizie e trascuri le buone. Comunque suscita nuovi istinti e nuovi pensieri.
L’elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente ma richiede tempo lungo per essere costruito a misura dell’uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».

il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla

Quando par­liamo di sociale, ci rife­riamo alle rela­zioni tra le per­sone — e, da qual­che tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel lin­guag­gio poli­tico, sociale si rife­ri­sce alle modi­fi­ca­zioni di quei rap­porti con l’azione col­let­tiva: ini­zia­tive con­di­vise da una plu­ra­lità di attori che indi­chiamo con il ter­mine gene­rico di movi­menti.

Con il ter­mine poli­tico ci rife­riamo invece in modo espli­cito ai rap­porti di potere, cioè alla gerar­chia che con­trad­di­stin­gue l’assetto sociale: sia che l’azione poli­tica sia diretta alla sua con­ser­va­zione, sia che sia diretta alla sua modificazione.

Quella tra sociale e poli­tico è una distin­zione che nel corso del tempo ha subito molte modi­fi­ca­zioni in rela­zione al con­te­sto e oggi tende a sfu­mare: è venuta meno “l’autonomia del poli­tico”, nel senso che la poli­tica non viene più per­ce­pita come una sfera disin­car­nata, dotata di una sua logica interna, dove si con­fron­tano visioni del mondo, obiet­tivi, stra­te­gie e tat­ti­che dif­fe­renti; viene invece con­si­de­rata sem­pre più un aggre­gato sociale, dotato di una pro­pria dina­mica — a cui ci si rife­ri­sce spesso con il ter­mine “casta” — da ana­liz­zare e spie­gare in ter­mini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i con­nessi pri­vi­legi — di mediare il rap­porto tra i cen­tri del potere finan­zia­rio mon­diale che domi­nano sull’economia glo­bale e chi ne subi­sce il comando. Vice­versa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movi­menti per tra­sfor­mare la realtà, viene da tempo rico­no­sciuta una dimen­sione intrin­se­ca­mente poli­tica, per­ché non si ritiene più pos­si­bile modi­fi­care quei rap­porti, anche nei suoi aspetti più par­ziali, senza met­tere in discus­sione il potere, la strut­tura gerar­chica da cui dipendono.

Ma è comun­que un salto logico iden­ti­fi­care sociale con sin­da­cale e poli­tico con par­ti­tico (Marco Revelli, il mani­fe­sto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà pos­sono solo inter­cor­rere rap­porti ana­lo­ghi a quelli con­fi­gu­ra­tisi nel corso del Nove­cento: il modello social­de­mo­cra­tico, quello labu­ri­sta e quello “fran­cese”. Se que­sti “tipi ideali” sono accet­ta­bili in rife­ri­mento al secolo scorso, ora il sociale non è più ricon­du­ci­bile al solo sin­da­cale; né il poli­tico al solo par­ti­tico. Que­sta era peral­tro la ragione che aveva indotto Revelli a teo­riz­zare l’impasse del suo “Finale di par­tito”. Per que­sto il dibat­tito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sem­pre allon­ta­nati, non può essere usato, come sug­ge­ri­scono Favilli e Revelli, per defi­nire le opzioni che abbiamo di fronte, né per rac­co­man­dare — troppo facile dirlo senza pra­ti­carlo — di “cer­care ancora”.

La situa­zione odierna non è più quella in cui si era andato costi­tuendo il movi­mento ope­raio dell’Occidente; né quella in cui aveva impo­sto alla con­tro­parte capi­ta­li­stica e sta­tuale le inno­va­zioni dello Stato sociale: con­trat­ta­zione col­let­tiva con valenza nor­ma­tiva e gestione sta­tuale dei ser­vizi sociali: sanità, istru­zione, pen­sioni e, in parte, abitazione.

La prima era carat­te­riz­zata da una con­ti­guità fisica delle abi­ta­zioni dei lavo­ra­tori tra di loro e con il luogo di lavoro, sic­ché la vita sociale che si svol­geva nelle une faceva da retro­terra anche alle lotte nelle fab­bri­che. Di qui la reci­proca inte­gra­zione tra lotte riven­di­ca­tive e sforzi per costruire, con il mutua­li­smo e il movi­mento coo­pe­ra­tivo, una alter­na­tiva sociale auto­noma e auto­ge­stita alla mise­ria indotta dall’industrializzazione.

La seconda, che ha avuto il suo apo­geo quando ormai le prin­ci­pali misure di auto­tu­tela pro­mosse con il mutua­li­smo erano state sus­sunte dallo Stato e gestite da entità pub­bli­che in forme uni­ver­sa­li­sti­che, aveva comun­que tro­vato la sua base sociale nell’omogeneità della con­di­zione lavo­ra­tiva di una mano­do­pera ammas­sata nei grandi impianti della pro­du­zione fordista.

Entrambi que­sti retro­terra sono venuti meno, anche se nes­suno dei due è scom­parso del tutto. La con­di­zione con cui deve misu­rarsi il “sociale” oggi è una ele­va­tis­sima disper­sione e dif­fe­ren­zia­zione dei poveri e delle classi lavo­ra­trici sia sul ter­ri­to­rio che nei luo­ghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psi­chico ed esi­sten­ziale, a con­tras­se­gnare i rap­porti sociali del giorno d’oggi; ancora più impor­tante è il pre­do­mi­nio cul­tu­rale del pen­siero unico; della com­pe­ti­zione uni­ver­sale di tutti con­tro tutti e della “meri­to­cra­zia”, intesa come legit­ti­ma­zione del diritto del più forte a lasciare indie­tro e schiac­ciare il più debole.

Certo que­sta ideo­lo­gia e la sua ege­mo­nia hanno una base mate­riale nella disper­sione impo­sta dallo svi­luppo capi­ta­li­stico e dalla sua glo­ba­liz­za­zione. Ma pro­prio per que­sto l’impegno della poli­tica nel con­te­sto odierno deve essere un lavoro di rico­stru­zione di rela­zioni sociali soli­dali e pari­ta­rie, met­tendo al primo posto i diritti e la dignità delle per­sone: una pra­tica che riguarda soprat­tutto la costru­zione di movi­menti, le rela­zioni sociali den­tro i movi­menti e i rap­porti tra movi­menti di orien­ta­mento o ispi­ra­zione diversi.

Per far sì che quei movi­menti, intesi nel senso più ampio, si diano una rap­pre­sen­ta­zione, e una rap­pre­sen­tanza, più ampia pos­si­bile della pro­pria col­lo­ca­zione sociale e poli­tica, e con ciò stesso dei pro­pri obiet­tivi e delle pro­prie fina­lità — è que­sto il senso della coa­li­zione sociale — e non per­ché si rico­no­scano in una rap­pre­sen­tanza poli­tica pre­co­sti­tuita.

Vano è limi­tarsi a guar­dare a un pre­sunto “spa­zio a sini­stra” del Pd che — affi­dan­dosi a una “topo­lo­gia poli­tica” che non ha riscon­tro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evo­lu­zione dei par­titi social­de­mo­cra­tici euro­pei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sin­to­ma­tico. Quello spa­zio è in gran parte imma­gi­na­rio, o non “a dispo­si­zione” del primo arri­vato per costruire qual­cosa di solido; e meno che mai a dispo­si­zione di orga­niz­za­zioni già in fila da anni, senza risul­tati, per riempirlo.

Quel “cer­care ancora” deve essere un nuovo modo di fare poli­tica; ma anche una nuova topo­lo­gia poli­tica, fon­data su distin­zioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ric­chi, più che destra e sini­stra. Le classi non esi­stono più? Sì, esi­stono, ma biso­gna farle emer­gere alle luce del sole per­cor­rendo strade nuove e non la ripro­du­zione dell’ennesima riag­gre­ga­zione dei resti della “sini­stra radicale”.

P.S. A bene­fi­cio di Luciana Castel­lina e di chi ha letto il suo arti­colo (il mani­fe­sto, 7 aprile), pre­ciso che non ho mai scritto che «i par­titi sareb­bero tutti ceto poli­tico» (lo sono in gran parte i loro diri­genti più o meno per­ma­nenti e molti loro rap­pre­sen­tanti nei corpi elet­tivi e nelle società par­te­ci­pate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le orga­niz­za­zioni che ope­rano nella società civile sareb­bero tutte illi­bate» (ho scritto che hanno anche loro le loro pic­cole buro­cra­zie). Sono inol­tre radi­cal­mente cri­tico nei con­fronti «dell’idea negriana della mol­ti­tu­dine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esem­pio: “Virtù che cam­biano il mondo”, 2013). Sono peral­tro con­vinto soste­ni­tore della neces­sità e dell’urgenza dell’azione poli­tica, come dimo­stra la mia par­te­ci­pa­zione alla fon­da­zione di Alba, di Cam­biare si può (ma non di Rivo­lu­zione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva buro­cra­tica e autoritaria).

postilla

C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.

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Il progetto costituzionale dell’uguaglianza, un libro a cura di Chiara Giorgi, per Ediesse. Come la crisi ha eroso la democrazia e i diritti sociali». Il manifesto, 9 aprile 2015

Nell’età del capi­ta­li­smo trion­fante, segnata dalla reto­rica del merito e dalle virtù della com­pe­ti­zione, le ragioni dell’eguaglianza sem­brano non avere più ragione di esi­stere. Eppure tutti noi sap­piamo che una demo­cra­zia non può vivere senza egua­glianza e che lo stesso costi­tu­zio­na­li­smo rischie­rebbe fatal­mente di depe­rire sem­mai dovesse rinun­ciare ad affer­mare le ragioni dell’éga­li­berté, come defi­nita da Etiénne Bali­bar in un suo recente volume. Di qui, il biso­gno di rilan­ciare nell’immediato «il pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza».

È que­sto l’appassionato appello con­te­nuto nel volume col­let­ta­neo, curato da Chiara Giorgi, docente di Sto­ria delle Isti­tu­zioni poli­ti­che all’Università di Genova (Il pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza, pre­fa­zione di Ste­fano Rodotà, Ediesse, euro 13). Un appello dive­nuto tanto più urgente quanto più la crisi eco­no­mica tende dram­ma­ti­ca­mente ad abbat­tersi su vaste aree della società can­cel­lando, giorno dopo giorno, diritti, garan­zie sociali, lavoro.

Siamo in pre­senza di una dram­ma­tica e irri­solta esten­sione delle aree del disa­gio sociale che ha, in que­sti anni, deter­mi­nato un’inedita e dila­niante «esplo­sione delle dise­gua­glianze» (così come defi­nita da Laura Pen­nac­chi). Eppure la povertà — avverte Enrico Pugliese – con­ti­nua ad essere la grande «que­stione rimossa». Né vi è da sor­pren­dersi: ci tro­viamo a vivere una fase sto­rica che ha fatto della com­pe­ti­zione il motore dell’organizzazione sociale e del mer­cato il modello etico sul quale costruire le rela­zioni umane.

Una vera e pro­pria offen­siva poli­tica e cul­tu­rale che ha le sue ori­gini agli inizi degli anni Ottanta quando, in nome del dogma libe­ri­sta, si diede vita (con gli ese­cu­tivi That­cher e Rea­gan) a una nuova fase del governo dell’Occidente. È da que­sta svolta neo­con­ser­va­trice, teo­riz­zata sin dagli anni Set­tanta dalla Tri­la­te­ral, che trarrà forza quel lento (ma per­va­sivo) pro­cesso di dis­so­lu­zione del costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico che rischia di oggi di con­su­marsi sotto nostri occhi. Ber­sa­glio pri­vi­le­giato di que­sta offen­siva sarà, non a caso, l’idea costi­tu­zio­nale di egua­glianza e la con­vin­zione, ad essa sot­tesa, che «senza egua­glianza la libertà si chiama privilegio».

Di qui l’esigenza — espressa con toni mar­xiani da Gae­tano Azza­riti — di ripren­dere «la lotta rivo­lu­zio­na­ria per l’uguaglianza di ognuno come con­di­zione neces­sa­ria per il libero svi­luppo di tutti», coin­vol­gendo in que­sto movi­mento sto­rico non solo i cit­ta­dini, ma anche i migranti. Per il costi­tu­zio­na­li­sta Azza­riti, l’eguaglianza — per inve­rarsi nuo­va­mente nella sto­ria — ha per­tanto biso­gno di tor­nare ad essere il ter­reno prio­ri­ta­rio di azione di tutti gli esclusi, gli stra­nieri, i discri­mi­nati per sesso, razza, lin­gua, reli­gione, opi­nioni poli­ti­che, con­di­zioni per­so­nali e sociali. Sono que­sti, d’altronde, i sog­getti a cui si rivolge l’art. 3 della Costi­tu­zione repub­bli­cana: il «capo­la­voro isti­tu­zio­nale» di Lelio Basso.

Ed è pro­prio all’impegno costi­tuente di Basso e al suo «capo­la­voro» che Chiara Giorgi dedica il suo sag­gio, disve­lan­done accu­ra­ta­mente, pagina dopo pagina, genesi e svi­luppi di que­sta norma-principio. Norma dalla quale trar­ranno con­si­stenza, a par­tire dalla fine degli anni ses­santa, non solo i diritti sociali, ma più in gene­rale, i pro­cessi di costru­zione dello Stato democratico-sociale (sulla «por­tata rivo­lu­zio­na­ria del prin­ci­pio dello Stato sociale», con par­ti­co­lare rife­ri­mento alla Legge fon­da­men­tale tede­sca, il volume con­tiene un inte­res­sante con­tri­buto di Erhard Denninger).

Ma il ten­ta­tivo di coniu­gare libertà ed egua­glianza, diritti e demo­cra­zia è espres­sione di un’asfittica (in quanto di matrice esclu­si­va­mente occi­den­tale) e ora­mai deca­dente pre­tesa del costi­tu­zio­na­li­smo o può tor­nare, anche nel mondo glo­ba­liz­zato, ad assu­mere pre­gnanza poli­tica e legit­ti­mità cul­tu­rale? Quale è la forza pro­pul­siva di cui dispone oggi il «pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza» in Europa e nel resto del mondo?

A que­ste tema­ti­che il libro dedica la sua parte cen­trale, ospi­tando un «con­fronto tra le espe­rienze costi­tu­zio­nali dell’Unione euro­pea e dell’America Latina»: dalla vicenda costi­tu­zio­nale bra­si­liana, rico­struita da Mar­celo Cat­toni a par­tire dall’art. 3 della Carta che affida alla Repub­blica fede­rale il com­pito di «sra­di­care la povertà e l’emarginazione e ridurre le dise­gua­glianze sociali e regio­nali», al caso argen­tino alle prese con la «muta­zione anti­e­gua­li­ta­ria» e la «seces­sione degli ultra­ric­chi» (rico­struito da Isi­doro Cheresky).

Il volume con­tiene, altresì, due pre­ge­voli saggi di Pie­tro Costa e di Luigi Fer­ra­joli. Costa, dopo aver rico­struito i tra­guardi sto­rici del prin­ci­pio di egua­glianza, si con­fronta con le dram­ma­ti­che con­se­guenze pro­dotte dalla crisi eco­no­mica sui diritti sociali, sulla cre­scita delle dise­gua­glianze e, più in gene­rale, sulla tenuta degli assetti costi­tu­zio­nali. Sulla stessa scia, si col­loca anche il con­tri­buto di Luigi Fer­ra­joli che vede nel prin­ci­pio di egua­glianza sociale il con­no­tato fon­da­men­tale del costi­tu­zio­na­li­smo, l’asse di con­tatto che ha sem­pre legato e «lega le tre clas­si­che parole della Rivo­lu­zione fran­cese: liberté, éga­lité, fra­ter­nité, rive­lan­dosi così, allo stesso tempo, pre­sup­po­sto dei diritti di libertà e fon­da­mento del prin­ci­pio di fra­tel­lanza (inteso soprat­tutto come soli­da­rietà sociale).

Il signi­fi­cato rivo­lu­zio­na­rio del motto dell’89 fran­cese è però pro­gres­si­va­mente depe­rito nel corso degli anni. Anche per­ché que­ste parole sono state, nel tempo recente, sur­ret­ti­zia­mente uti­liz­zate l’una con­tro l’altra dalle poli­ti­che libe­ri­ste e dalla tra­vol­gente avan­zata della cul­tura delle destre. Gli esiti sono sotto i nostri occhi: com­pres­sione degli spazi demo­cra­tici di libertà, esplo­sione delle disu­gua­glianze e delle aree di povertà, rigur­giti anti­so­li­da­ri­stici con forti con­no­tati raz­zi­sti e neo­fa­sci­sti.

A fronte di tale con­te­sto, spetta per­tanto alla sini­stra ten­tare di sta­bi­lire un nuovo ter­reno di con­nes­sione tra que­sti prin­cipi, rifon­dan­done coe­ren­te­mente le istanze, sal­va­guar­dan­done i valori, modu­lan­done gli obiet­tivi. Dal per­se­gui­mento del «pro­getto costi­tu­zio­nale dell’uguaglianza» dipende anche il suo futuro.

La Repubblica, 9 aprile 2015

Quale onta peggiore per uno Stato della condanna per aver torturato suoi cittadini? E cos’altro deve accadere per affermare un elementare principio di responsabilità? Quale azienda, quale gruppo sociale lascerebbe ai suoi vertici chi era alla guida del corpo che ha scritto una pagina così vergognosa da procurare la più infamanti delle censure? Per questo il j’accuse di Matteo Orfini verso De Gennaro non dovrebbe destare scalpore. Essendo se mai il minimo sindacale già all’indomani dei terribili fatti di Genova, e tanto più oggi dopo la vergogna nazionale subita con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Non si tratta qui di responsabilità penale, visto che De Gennaro è stato assolto con l’applicazione degli strumenti a disposizione dei giudici. Si tratta, ben più semplicemente, di responsabilità senza aggettivi. Se guido un corpo dello Stato che può essere anche il più meritevole, e se pure io stesso fossi il più medagliato dei funzionari, e quel corpo si rende attore di una così grave nefandezza, non ci sono alternative, la mia responsabilità deve essere pubblicamente riconosciuta al di fuori e a prescindere da ogni profilo civilistico, penalistico o contabile. Responsabilità, appunto, senza aggettivi. È una regola che dovrebbe valere per tutti.
Non solo: la Corte di Strasburgo ha messo all’indice anche l’inqualificabile condotta successiva della polizia, di autentico ostruzionismo nella individuazione delle responsabilità dei “torturatori”. I giudici europei hanno infatti censurato come la mancata identificazione degli autori dei pestaggi sia derivata dalla «mancanza di cooperazione della polizia», essendo costretta la Corte ad aggiungere il suo autentico stupore «che la polizia italiana abbia potuto rifiutarsi impunemente di apportare alle autorità competenti la cooperazione necessaria all’identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura».
Anche di questa clamorosa omissione di collaborazione con lo stesso Stato che la polizia rappresenta, è possibile che nessuno debba pagare? Matteo Renzi dice che la risposta sarà l’approvazione della legge sul reato di tortura. Ma si tratta di risposta a metà perché abbandona del tutto il campo del principio di responsabilità che Stato e Governo dovrebbero mettere al primo posto, per non perdere ogni credibilità nei confronti dei cittadini. Peraltro anche la legge, dopo inaccettabile ritardo, rischia di nascere claudicante con il testo uscito dalla commissione della Camera che appare confondere quello approvato dal Senato, allungando peraltro i tempi del varo definitivo. Già a Palazzo Madama infatti si trovò un punto di equilibrio tra la iniziale proposta di Luigi Manconi, che voleva una fattispecie dedicata esclusivamente all’abuso di violenza delle forze dell’ordine, e le esigenze manifestate dai sindacati di polizia di evitare una sommaria criminalizzazione.
Ora però la commissione di Montecitorio chiede all’Aula di condizionare l’accertamento del reato ad una indagine sulle finalità della “tortura” (per estorcere dichiarazioni ovvero per irrogare una impropria punizione), con il rischio paradossale di lasciare fuori la peggiore delle ipotesi che è quella dell’accanimento sadico fine a se stesso, della violenza puramente bestiale. Esattamente come quella avvenuta a Genova. Rischiamo quindi dopo il danno, la beffa di varare una legge che avrebbe difficoltà a punire proprio vicende come quella sanzionate da Strasburgo. Dipende tutto dal Pd che alla Camera può molto semplicemente approvare il testo così come uscito dal Senato, dando almeno una delle risposte che non solo l’Europa ma una elementare coscienza civica ci impone. È lecito attendersi qui da Renzi una determinazione almeno analoga a quella che manifesta sul ben più controverso Italicum.
È il minimo che possiamo pretendere dallo Stato dopo che si è troppo a lungo aspettato, troppo a lungo negato. Affidandoci ancora una volta solo alla supplenza della magistratura peraltro privata di strumenti e ostacolata nei suoi accertamenti, come Strasburgo ha dovuto infine censurare. E pure sarebbe bastato, davanti alla clamorosa evidenza dei fatti, dire «lo Stato chiede scusa ai suoi cittadini, rimuove e non promuove chi aveva posti di responsabilità ». Ed essere per una volta conseguenti. Sarebbe stata a ben vedere anche la migliore autentica difesa dello Stato e della sua Polizia.
l manifesto, 9 aprile 2-15

Ad Ausch­witz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto «Memo­riale Ita­liano». Un paio di anni or sono le auto­rità polac­che deci­sero di chiu­derlo al pub­blico, nel silen­zio del governo ita­liano, e dell’Aned, in teo­ria pro­prie­ta­ria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrin­ten­denza del campo, ormai museo, ha deciso di pro­ce­dere alla rimo­zione del Memo­riale. La sua colpa? Quella di ricor­dare che nei lager non furono sol­tanto depor­tati e ster­mi­nati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comu­ni­sti insieme a social­de­mo­cra­tici e cat­to­lici, gli omo­ses­suali, i disa­bili. Quel Memo­riale opera egre­gia, alla cui idea­zione, su pro­getto dello stu­dio BBPR (Banfi Bel­gio­joso Perus­sutti Rogers, il pre­sti­gioso col­let­tivo mila­nese di cui faceva parte Ludo­vico Bel­gio­joso, già inter­nato a Buche­n­wald) col­la­bo­ra­rono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiun­tivi, come l’accogliere fra le sue tante deco­ra­zioni e sim­bo­lo­gie anche una falce e mar­tello, e una imma­gine di Anto­nio Gram­sci, icona di tutte le vit­time del fasci­smo.

Ora, ai gover­nanti polac­chi, desi­de­rosi di rimuo­vere il pas­sato, distur­bano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monu­mento

metta in crisi «l’esclusiva» ebraica rela­tiva ad Ausch­witz. Ed è grave che una città ita­liana, Firenze, si sia detta pronta ad acco­glierlo. Con­tro que­sta scel­le­rata ini­zia­tiva si sta ten­tando da tempo una mobi­li­ta­zione cul­tu­rale, che si spera possa avere un riscon­tro poli­tico forte e oggi su que­sto si svol­gerà nel Senato ita­liano una ini­zia­tiva di denun­cia pro­mossa da Ghe­rush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spo­stare quel monu­mento dalla sua sede natu­rale, equi­vale a tra­sfor­marlo in mero oggetto deco­ra­tivo, men­tre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pen­sato, a ricor­dare, pro­prio là, die­tro i can­celli del campo di ster­mi­nio, cosa fu il nazi­smo e il suo lucido pro­getto di annien­ta­mento, che, appunto, non con­cer­neva solo gli ebrei, col­lo­cati in fondo alla gerar­chia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giu­di­cati essere «razze infe­riori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comu­ni­sti in testa, o ancora gli «scarti» di uma­nità, secondo le oscene teo­rie degli «scien­ziati» di Hitler.

Insomma, la rimo­zione del Memo­riale, è una rimo­zione della memo­ria e un’offesa alla sto­ria. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comu­nità israe­li­ti­che ita­liane, che o hanno taciuto, o hanno appro­vato la rimo­zione del Memo­riale (in attesa della sua sosti­tu­zione con un bel manu­fatto poli­ti­ca­mente adat­tato ai tempi nuovi), appare grave.

E in qual­che modo richiama le pole­mi­che di que­sti giorni rela­tive alla mani­fe­sta­zione romana del 25 aprile.

Pre­messo che la cosa «si svol­gerà di sabato», e dun­que, come ha pre­te­stuo­sa­mente pre­ci­sato il pre­si­dente della Comu­nità israe­li­tica romana, gli ebrei non avreb­bero comun­que par­te­ci­pato, la denun­cia che «non si vogliono gli ebrei», è un rove­scia­mento della verità: non si vogliono i pale­sti­nesi. Ed è grave l’assenza annun­ciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è sca­te­nata sull’assenza della «Bri­gata Ebraica». La quale ha le sue ori­gini remote niente meno in Vla­di­mir Jabo­tin­sky, sio­ni­sta estre­mi­sta di destra con legami negli anni ’30 mai smen­titi con Mus­so­lini, che con­vinse le auto­rità bri­tan­ni­che, nella I guerra mon­diale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II con­flitto mon­diale, fu Chur­chill a lasciarsi con­vin­cere a orga­niz­zare un Jewish Bri­gade Group, inqua­drato nell’esercito bri­tan­nico: 5000 uomini che ope­ra­rono in par­ti­co­lare nell’Italia cen­trale, con­tri­buendo alla libe­ra­zione di Ravenna e di altri bor­ghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glo­rie. Bene dun­que cele­brarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo emi­nente, come sem­bre­rebbe a leg­gere certe dichia­ra­zioni. Ma il fuoco media­tico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come sto­rico ho il dovere di ricor­darlo. Quei sol­dati diven­nero il nucleo ini­ziale delle mili­zie dell’Irgun e del Haga­nah — quelle che cac­cia­rono i pale­sti­nesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neo­nato Stato di Israele, al quale offri­rono anche la ban­diera.

Si capi­sce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il mar­tello. Ma quando leggo che il suo pre­si­dente afferma che «i pale­sti­nesi non c’entrano con lo spi­rito della mani­fe­sta­zione», mi vien voglia di chie­der­gli se gli amici di Neta­nyahu c’entrino di più. Altri hanno dichia­rato in que­sti giorni che biso­gna lasciar par­lare solo chi ha fatto la guerra di libe­ra­zione; ma se così intanto andreb­bero cac­ciati dai pal­chi tanti trom­boni in cerca di applausi; e soprat­tutto se si adotta que­sta logica è evi­dente che tra poco non ci sarà più modo di festeg­giare il 25 aprile, per­ché, ahimè, i par­ti­giani saranno tutti scom­parsi.

E allora — visto l’articolo 2 dello Sta­tuto dell’Anpi che riven­dica un pro­fondo legame con i movi­menti di libe­ra­zione nel mondo — come non dare spa­zio a chi oggi lotta per libe­rarsi da un regime oppres­sivo, discri­mi­na­to­rio come quello israe­liano, rap­pre­sen­tato ora dal governo di destra di Neta­nyahu? Chi più dei pale­sti­nesi ha diritto oggi a recla­mare la «libe­ra­zione»? E invece temo si vada verso que­sto (addi­rit­tura in que­ste ore in forse a Roma) e i pros­simi 25 Aprile inges­sati e reistituzionalizzati.

Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il manifesto, 8 aprile 2015

Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qua­li­fi­cato come «tor­tura», alla poli­zia è stato con­sen­tito di non col­la­bo­rare alle inda­gini e la rea­zione dello Stato ita­liano non è stata effi­cace vio­lando l’articolo 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti dell’uomo. Lo ha sta­bi­lito la Corte euro­pea di Stra­sburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 mani­fe­stanti, pic­chiati e ingiu­sta­mente arre­stati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con frat­ture a brac­cia, gambe e costole che hanno richie­sto nume­rosi inter­venti negli anni successivi.

Una sen­tenza che pesa come un maci­gno per un Paese le cui isti­tu­zioni hanno mini­miz­zato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, gra­zie alle parole di uno dei poli­ziotti inter­ve­nuti, è nota come la «macel­le­ria messicana».

La sen­tenza, decisa all’unanimità, per la prima volta con­danna l’Italia per vio­lenze qua­li­fi­ca­bili come tor­tura, esclu­dendo che i fatti pos­sano essere con­si­de­rati solo come «trat­ta­menti inu­mani e degra­danti» e sot­to­li­neando la gra­vità delle sof­fe­renze inflitte e la volon­ta­rietà deli­be­rata di inflig­gerle. La Corte respinge anche la difesa del governo ita­liano secondo cui gli agenti inter­ve­nuti quella notte erano sot­to­po­sti a una par­ti­co­lare ten­sione: «La ten­sione – scri­vono i giu­dici – non dipese tanto da ragioni ogget­tive quanto dalla deci­sione di pro­ce­dere ad arre­sti con fina­lità media­ti­che uti­liz­zando moda­lità ope­ra­tive che non garan­ti­vano la tutela dei diritti umani».

La Cedu entra poi nel cuore del pro­blema: la rea­zione (o non rea­zione) dello Stato ita­liano a ciò che avvenne.

«Gli ese­cu­tori mate­riali dell’aggressione non sono mai stati iden­ti­fi­cati e sono rima­sti, molto sem­pli­ce­mente, impu­niti» e la prin­ci­pale respon­sa­bi­lità di ciò è adde­bi­ta­bile alla «man­cata col­la­bo­ra­zione della poli­zia alle inda­gini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla poli­zia ita­liana è stato con­sen­tito di rifiu­tare impu­ne­mente di col­la­bo­rare con le auto­rità com­pe­tenti nell’identificazione degli agenti impli­cati negli atti di tor­tura». I giu­dici ricor­dano che gli agenti devono por­tare un «numero di matri­cola che ne con­senta l’identificazione». Per quanto riguarda le con­danne «nes­suno è stato san­zio­nato per le lesioni per­so­nali» a causa della pre­scri­zione men­tre sono stati con­dan­nati solo alcuni fun­zio­nari per i «ten­ta­tivi di giu­sti­fi­care i mal­trat­ta­menti». Ma anche costoro hanno bene­fi­ciato di tre anni di indulto su una pena totale non supe­riore ai 4 anni.

La respon­sa­bi­lità di tutto ciò non è stata né della Pro­cura né dei giu­dici ai quali il Governo ita­liano secondo la Corte ha pro­vato ad attri­buire la «colpa» della pre­scri­zione. Anzi, al con­tra­rio, i magi­strati hanno ope­rato «dili­gen­te­mente, supe­rando osta­coli non indif­fe­renti nel corso dell’inchiesta».

Il pro­blema, secondo la Corte, è «strut­tu­rale»: «La legi­sla­zione penale ita­liana si è rive­lata ina­de­guata all’esigenza di san­zio­nare atti di tor­tura in modo da pre­ve­nire altre vio­la­zioni simili».

Infatti «la pre­scri­zione in que­sti casi è inam­mis­si­bile», come inam­mis­si­bili sono amni­stia e indulto.

La Corte ritiene neces­sa­rio che «i respon­sa­bili di atti di tor­tura siano sospesi durante le inda­gini e il pro­cesso e, desti­tuiti dopo la con­danna». Esat­ta­mente il con­tra­rio di quanto acca­duto. Forse anche per que­sto «il Governo ita­liano non ha mai rispo­sto alla spe­ci­fica richie­sta di chia­ri­menti avan­zata dai giu­dici di Strasburgo».

Dall’ex capo dell’Ucigos Gio­vanni Luperi al diret­tore dello Sco Fran­ce­sco Grat­teri al suo vice Gil­berto Cal­da­rozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vin­cenzo Can­te­rini, i mas­simi ver­tici della poli­zia hanno pro­se­guito le loro bril­lanti car­riere fino alla con­danna defi­ni­tiva. Per molti di loro è arri­vata nel frat­tempo l’agognata pen­sione, per gli altri nes­suna desti­tu­zione da parte del Vimi­nale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pub­blici uffici dispo­sta dai giu­dici, ter­mi­nata la quale potranno rien­trare in ser­vi­zio. Per i capi­squa­dra dei pic­chia­tori del nucleo spe­ri­men­tale anti­som­mossa di Roma, con­dan­nati ma pre­scritti prima della Cas­sa­zione (rite­nuti però respon­sa­bili agli affetti civili) non risul­tano san­zioni disci­pli­nari, tan­to­meno per i loro sot­to­po­sti mai identificati.

«I ver­tici delle forze di poli­zia hanno rice­vuto in que­sti anni sol­tanto atte­sta­zioni di stima e soli­da­rietà» com­menta il pro­cu­ra­tore gene­rale di Genova Enrico Zucca, che ha soste­nuto l’accusa con­tro i poli­ziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di cre­dere che lo stato non abbia fun­zio­nari migliori di quelli che sono stati con­dan­nati». «Quando nel corso dei pro­cessi insieme al col­lega Car­dona par­la­vamo di tor­tura citando pro­prio casi della Cedu ci guar­da­vano come fos­simo pazzi», ricorda con un piz­zico di ama­rezza mista alla sod­di­sfa­zione per una sen­tenza che con­si­dera però «scon­tata». Per il magi­strato, che spesso si trovò iso­lato anche all’interno della stessa Pro­cura nell’inchiesta più sco­moda «biso­gna pre­ve­nire fatti di que­sto genere e in Ita­lia non abbiamo anti­doti all’interno del corpo di appar­te­nenza. Le dichia­ra­zioni dopo la sen­tenza defi­ni­tiva dell’allora capo della poli­zia Man­ga­nelli non sono solo insuf­fi­cienti ma dimo­strano la man­cata presa di coscienza di quello che è suc­cesso. Fece delle scuse, sì, ma par­lando di pochi errori di sin­goli, senza riflet­tere sulla vastità del fenomeno».

La sen­tenza che ha con­dan­nato l’Italia a un risar­ci­mento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quat­tro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvo­cati Nic­colò e Nata­lia Pao­letti, che non hanno nep­pure atteso la sen­tenza di Cas­sa­zione per rivol­gersi alla Cedu, espri­mono sod­di­sfa­zione: «Siamo molto con­tenti, soprat­tutto per il fatto che la corte ha rile­vato l’enorme man­canza dell’ordinamento interno ita­liano, vale a dire la non pre­vi­sione del reato di tor­tura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risar­ci­mento supe­riore a quanto nor­mal­mente dispo­sto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — par­lare di cifre rispetto alla vio­la­zione di deter­mi­nati diritti, è svilente».

«La sen­tenza della Corte di Stra­sburgo – com­menta il sin­daco di Genova Marco Doria — rico­no­sce la tra­gica realtà delle vio­lenze per­pe­trate alla Diaz e mette a nudo la respon­sa­bi­lità di una legi­sla­zione che non pre­vede il reato di tor­tura e, per que­sta ragione, lascia sostan­zial­mente impu­niti i col­pe­voli. È una sen­tenza di grande valore, non solo da rispet­tare, ma da con­di­vi­dere pie­na­mente». «Uno stato demo­cra­tico – aggiunge il sin­daco — non deve mai tol­le­rare che uomini che agi­scono in suo nome com­piano atti di bru­tale vio­lenza con­tro le per­sone e i diritti dell’uomo. È, que­sta, una con­di­zione essen­ziale anche per difen­dere la dignità di quanti ope­rano invece negli appa­rati dello Stato secondo i prin­cipi della Costituzione».

L’Italia, che potrebbe fare ricorso con­tro la sen­tenza, sarà costretta a ottem­pe­rare con una legge ad hoc.

«Il modello – spiega l’avvocato Pao­letti – potrebbe essere per esem­pio quello fran­cese, che pre­vede per la tor­tura una pena base di 15 anni, aumen­tata a 20 in caso sia un pub­blico uffi­ciale a com­met­terla e a 30 in caso di infer­mità per­ma­nente per la vit­tima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottem­pe­rare con molta len­tezza alle sen­tenze della Cedu».

Nell’attesa, comun­que lo Stato ita­liano potrebbe essere costretto a sbor­sare molto per risar­cire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sen­tenza defi­ni­tiva. Se quella di Cestaro può essere con­si­de­rata una sentenza-pilota, si può ipo­tiz­zare un risar­ci­mento di quasi 3 milioni di euro. Senza con­tare i pro­cessi civili per le vit­time non solo della Diaz ma anche di Bol­za­neto, che sono appena cominciati.

Il video del Tg3 Ligu­ria la mat­tina dopo la mat­tanza alla Diaz.

Il manifesto, 4. aprile 2015

Abbiamo rag­giunto al tele­fono negli Stati uniti Noam Chom­sky. Lin­gui­sta, anar­chico e filo­sofo del Mas­sa­chu­set­tes Insti­tute of Tech­no­logy, Chom­sky è autore di pie­tre miliari del pen­siero moderno e teo­rico per una pro­fonda cri­tica del sistema media­tico. Memo­ra­bile è il suo dibat­tito sulla natura umana con Michel Fou­cault (1971). Abbiamo discusso con Chom­sky dell’intesa pre­li­mi­nare sul pro­gramma nucleare ira­niano, rag­giunta gio­vedì a Losanna e della situa­zione del Medio Oriente.

Che ne pensa di que­sta danza sul nucleare ira­niano, andata avanti per dodici anni?

L’Iran sospetta che nono­stante l’accordo, i Repub­bli­cani si rifiu­te­ranno di can­cel­lare le san­zioni. E così l’obiettivo prin­ci­pale delle auto­rità ira­niane è che le san­zioni non siano sotto il con­trollo del Con­gresso: que­sta sarebbe una tra­ge­dia. Vedremo se que­sto punto ci sarà nel testo defi­ni­tivo. La mia sen­sa­zione è che tutto il nego­ziato sul nucleare sia una farsa. Non c’è nes­sun motivo per cui l’Iran non possa avere un pro­gramma nucleare secondo il Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione (Tnp) che ha sottoscritto.

Per­ché parla di farsa in rife­ri­mento ai col­lo­qui sul nucleare?

Gli Stati uniti e i suoi alleati affer­mano che la comu­nità inter­na­zio­nale ha chie­sto all’Iran di fare delle con­ces­sioni per arri­vare a un’intesa. Ma i Paesi non alli­neati, che rap­pre­sen­tano il 70% della popo­la­zione mon­diale, hanno sem­pre soste­nuto gli sforzi nucleari ira­niani. Eppure la pro­pa­ganda occi­den­tale è uno stru­mento potente, per que­sto è andata avanti per tanto tempo que­sta farsa.

La solu­zione della con­tro­ver­sia potrebbe disin­ne­scare il set­ta­ri­smo che infiamma il Medio Oriente?

La que­stione cen­trale è che gli stati sun­niti sono i prin­ci­pali alleati degli Stati uniti. Gli amici degli Usa sono i fon­da­men­ta­li­sti più estre­mi­sti e vogliono domi­nare la regione. L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Sau­dita non vuole mai e poi mai un anta­go­ni­sta, un deter­rente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la pre­oc­cu­pa­zione per gli Stati uniti? Si trat­te­rebbe sola­mente di un deter­rente. Nes­suno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, per­ché il paese sarebbe vapo­riz­zato all’istante e gli aya­tol­lah di certo non vogliono sui­ci­darsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deter­rente con­tro l’aggressività di Israele nella regione. È que­sto che gli Stati uniti non vogliono.

Ma Neta­nyahu non passa giorno che non gridi con­tro l’intesa con l’Iran e ora la respinge?

Israele per­se­gue una poli­tica siste­ma­tica di con­qui­sta di tutto quello che vuole per inte­grarlo nella Grande Israele in vio­la­zione dei trat­tati di Oslo. Gaza è deva­stata. Que­ste poli­ti­che sono appog­giate dagli Stati uniti e, se con­ti­nue­ranno a soste­nere Israele, non cam­bie­ranno mai. In que­ste set­ti­mane, tutta la stampa main­stream Usa ha pub­bli­cato arti­coli in cui si chie­deva agli Stati uniti di attac­care l’Iran. Per­ché la stampa ira­niana non fa lo stesso? Il pre­sup­po­sto occi­den­tale è l’imperialismo. In nome di que­sto prin­ci­pio all’Occidente tutto è permesso.

Esi­stono due posi­zioni oppo­ste tra Repub­bli­cani e l’amministrazione Obama nei con­flitti in Medio oriente?

I Repub­bli­cani sono un par­tito fasci­sta. Lo stesso Barack Obama è ter­ri­bile ma meno dei Repub­bli­cani. Il prin­ci­pale errore di Obama però è la sua cam­pa­gna con i droni. Se l’Iran facesse lo stesso con­tro gli uffi­ciali citati negli arti­coli della stampa Usa, come rea­gi­reb­bero gli Stati uniti? La guerra dei droni è la più grande ope­ra­zione ter­ro­ri­stica mai esi­stita: pro­gram­mata per ucci­dere chiun­que sia sospet­tato di poterci dan­neg­giare. Le ope­ra­zioni con droni in Paki­stan faranno cre­scere il numero dei jiha­di­sti. Quando hanno ini­ziato, al-Qaeda era solo nelle zone tri­bali di Afgha­ni­stan e Paki­stan ora è in tutto il mondo. Ma di que­sto non si può par­lare nei media occidentali.

Crede che biso­gna temere l’avanzata degli Hou­thi in Yemen?

In Yemen è vero che l’Iran dà soste­gno agli Hou­thi, lo stesso fa l’Arabia Sau­dita con i suoi, seb­bene alla fine si tratti di un con­flitto interno. Nella pro­pa­ganda occi­den­tale però se gli Stati uniti sosten­gono una forza quella è legit­tima. In Iraq, l’Iran sostiene il governo eletto. I con­si­glieri ira­niani for­mano la classe diri­gente ira­chena e sono pro­ta­go­ni­sti delle prin­ci­pali bat­ta­glie nel paese. Il governo ira­cheno ha chie­sto l’aiuto ira­niano e rin­gra­zia le sue auto­rità. Ma gli Stati uniti con­dan­nano l’influenza ira­niana in Iraq: è dav­vero comico.

Crede che que­sto atteg­gia­mento occi­den­tale ali­menti il ter­ro­ri­smo dello Stato islamico?

Lo Stato isla­mico è una mostruo­sità, ma non è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Sau­dita che pro­paga una ver­sione estre­mi­sta, waha­bita, dell’Islam. Da Riad arri­vano ton­nel­late di soldi e l’ideologia per dif­fon­dere il fon­da­men­ta­li­smo nel mondo arabo. Certo a que­sto punto nep­pure ai sau­diti piace quello che hanno creato. Que­sta è la con­se­guenza diretta dei deva­stanti attac­chi degli Stati uniti in Iraq del 2003 e degli attac­chi della Nato in Libia del 2011 che hanno esa­spe­rato il con­flitto sunniti-sciiti dif­fon­den­dolo in tutta la regione. In Libia que­sto ha com­por­tato l’incremento del numero di mili­zie e una quan­tità di armi senza pre­ce­denti che pro­ven­gono da Africa e Medio oriente. I bom­bar­da­menti della Nato hanno fatto aumen­tare il numero delle vit­time di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Ara­bia Sau­dita ed Emi­rati stanno ucci­dendo una grande quan­tità di per­sone nei campi pro­fu­ghi. Ma anche que­sta guerra è desti­nata a fal­lire e non può com­por­tare altro che la dif­fu­sione del jihadismo.

Pochi mesi fa non par­la­vamo di ter­ro­ri­smo ma di «pri­ma­vere». Esi­ste un rap­porto tra i movi­menti sociali euro­pei e le rivolte in Medio Oriente?

Ci sono delle simi­li­tu­dini. Il mag­gior esem­pio del pas­sato è l’America latina: com­ple­ta­mente sotto il con­trollo degli Stati uniti che impo­ne­vano dit­ta­tori dap­per­tutto. Ora il Sud Ame­rica è abba­stanza libero dal con­trollo stra­niero. Que­sto è uno svi­luppo di grande impor­tanza. Molti poli­tici latino-americani sono legati ai par­titi Pode­mos in Spa­gna e Syriza in Gre­cia. Com­bat­tono tutti la stessa bat­ta­glia con­tro il neo-liberismo. Ma la rea­zione tede­sca alla vit­to­ria di Tsi­pras in Gre­cia è sel­vag­gia, ipo­crita. Nel 1953 l’Europa con­cesse alla Ger­ma­nia di tagliare gli inte­ressi sul debito. Ma ora impone misure repres­sive alla Gre­cia dopo che Ber­lino l’ha deva­stata nella seconda guerra mondiale.

Men­tre i movi­menti in Medio Oriente sono finiti con il ritorno dei dit­ta­tori, come il pre­si­dente egi­ziano al-Sisi?

Stati uniti ed Europa hanno soste­nuto i più bru­tali dit­ta­tori in tutto il mondo. In que­sto momento in Egitto si vivono i giorni più bui della sua sto­ria moderna. Que­sto è l’imperialismo tra­di­zio­nale, il potere della pro­pa­ganda non è cam­biato. I gior­nali in Europa lo descri­vono come un modello nono­stante sia un assas­sino bru­tale, un dit­ta­tore duro che ha represso la popo­lare orga­niz­za­zione dei Fra­telli musul­mani men­tre nel Sinai si con­ti­nua a con­su­mare una guerra.

L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».

Il manifesto, 4 aprile 2015

«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».

E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.

Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme. Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi - o che cosa - quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo.
Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle. È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare.
Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio - così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione - tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito - il Labour, appunto - è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure - e le ipotesi possono moltiplicarsi - non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema - irrisolto - di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.

Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!

La Repubblica, 3 aprile 2015

Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».

Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».

La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».

Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».

Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».

Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».

Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».

Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».

Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»

Il manifesto, 3 aprile 2015


RIPENSIAMO ALL’IRI
di Valentino Parlato

La noti­zia eco­no­mica e poli­tica di que­ste set­ti­mane è che la Cina (quella una volta rossa di Mao Tse Tung) è diven­tata padrona della nostra sto­rica e famosa Pirelli. La nostra stampa, dopo aver cer­cato di assi­cu­rarci che la Cina sarà rispet­tosa dei nostri inte­ressi, con­clude ras­se­gnata: è la glo­ba­liz­za­zione. Come a dire: è il destino, la sto­ria, guar­dan­dosi bene dal pre­ci­sare che siamo al capi­ta­li­smo glo­bale. Anche la Cina “rossa” ha un suo capi­ta­li­smo che dice di gover­nare, ma chissà se è vero.

L’acquisto della Pirelli da parte della Cina, oltre che un po’ di paura, ha susci­tato anche l’invidia del capi­ta­li­smo nostrano, che si è subito affret­tato a dire che anche noi capi­ta­li­sti ita­liani fac­ciamo acqui­sti all’estero. Così il Cor­riere della Sera di lunedì 30 marzo, nelle sue pagine eco­no­mi­che, fa un titolo pre­oc­cu­pato nella prima riga («Made in Italy in ven­dita?») per poi ras­si­cu­rarci nella seconda riga («Ma c’è chi com­pra all’estero»). Ci dice che anche noi ita­liani fac­ciamo acqui­sti all’estero e spiega: è vero che i cinesi si sono com­prati la grande e sto­rica Pirelli, ma imprese ita­liane come Cam­pari, Recor­dati, Luxot­tica, Brembo, Ampli­phon e Ima hanno a segno ben 85 ope­ra­zioni di acqui­sto all’estero. Insomma, leg­gere sulla nostra stampa che non siamo da meno della Cina mi pare piut­to­sto pate­tico. Ma ci sono ancora due obie­zioni. La prima è che i nostri inve­sti­menti non sem­pre ci fanno padroni delle imprese nelle quali sono stati messi i soldi. La seconda obie­zione mi pare ancora più seria: nella situa­zione di crisi della nostra eco­no­mia la Cam­pari, invece di inve­stire all’estero i soldi gua­da­gnati in Ita­lia, avrebbe dovuto inve­stirli nel nostro paese per alleg­ge­rire la disoc­cu­pa­zione degli ita­liani, il cui lavoro ha fatto gua­da­gnare alla Cam­pari i soldi che poi è andata a spen­dere all’estero. In ogni modo com­pli­menti per il Cam­pari Soda.

Ma tor­niamo all’attuale grave crisi, che né il calo del prezzo del petro­lio, né la sva­lu­ta­zione dell’euro hanno fre­nato. La glo­ba­liz­za­zione è cosa troppo grande e com­plessa per le nostre imprese in dif­fi­coltà e che hanno biso­gno di soldi, come afferma anche Mat­teo Renzi. E i soldi (nono­stante le dif­fi­coltà di bilan­cio, può darli solo lo Stato, anche attra­verso la Banca cen­trale euro­pea (il bravo Dra­ghi un po’ di soldi li sta dando, ma non basta).

Ci vuole un serio e forte inter­vento pub­blico, man­dando al dia­volo l’austerità della Troika e di quant’altri. Altri­menti – va detto ad alta voce – anche l’Italia seguirà la Gre­cia, il cui governo sta facendo una lotta dispe­rata per sal­vare il paese. La que­stione di un serio e deciso inter­vento pub­blico va messa all’ordine del giorno.

Quando si parla di serio inter­vento pub­blico il pen­siero va subito all’Iri, nato nel 1933 e morto nel 2002. L’Iri (Isti­tuto rico­stru­zione indu­striale) salvò l’industria ita­liana dalla crisi del 1929 e pro­dusse, nel secondo dopo­guerra, il famoso «mira­colo ita­liano». Ripen­siamo all’Iri e vediamo se si può aprire una seria discus­sione sull’opportunità o meno di rimet­terlo in campo. A tal fine, sono di grande uti­lità i sei volumi sulla sto­ria dell’Iri pub­bli­cati da Laterza. Ulti­ma­mente sono arri­vati in libre­ria il quinto, a cura di Franco Rus­so­lillo, con inter­venti di nume­rosi autori, e “L’Iri nell’economia ita­liana” di Pier­luigi Ciocca, al quale soprat­tutto fac­cio rife­ri­mento per­ché libro costi­tui­sce una con­clu­sione di tutto il lavoro di ricerca sull’Iri e, ancora di più, per la sua espe­rienza nel Diret­to­rio della Banca d”Italia e la sua seria cono­scenza dell’economia ita­liana.

Vengo al capi­tolo finale del libro di Ciocca, che già nel titolo pone il pro­blema che vor­rei porre ai let­tori: «Una nuova Iri?» Riporto di seguito le prime parole, per me assai signi­fi­ca­tive, di que­sto capi­tolo: «Avrebbe gio­vato con­ser­vare l’Iri? Ovvero, avrebbe gio­vato — potrebbe gio­vare una nuova Iri? La rispo­sta è posi­tiva, qua­lora si spinga l’immaginazione a un con­tro­fat­tuale che includa l’Iri nella sua migliore sta­gione: l’Iri mec­ca­ni­smo e non stru­mento, l’Iri dotato di capi­tale del suo prin­ci­pale azio­ni­sta e ampia­mente par­te­ci­pato da pri­vati in mino­ranza, l’Iri com­preso dalla poli­tica e accet­tato nella sua auto­no­mia, l’Iri capace di con­tri­buire allo svi­luppo indu­striale del Mez­zo­giorno, l’Iri impe­gnato nelle atti­vità di R&S, fonte di inno­va­zione e pro­gresso tec­nico dif­fusi nella filiera del sistema produttivo».

Su que­ste parole di Pier­luigi Ciocca vor­rei con­clu­dere. La situa­zione è brutta. Si dovrebbe pro­vare a met­tere in campo l’Iri. Vor­rei aggiun­gere che con­ver­rebbe anche a Mat­teo Renzi, ma sarebbe un pro­getto troppo com­plesso per le sue sem­pli­fi­ca­zioni di breve periodo. Vogliamo discuterne


FINANZCAPITALISMO ALLA PROVERA
di Enrico Carucci

Globalizzazione. Le strategie finanziarie del manager italiano e le prospettive della vendita ai cinesi

A pochi giorni dall’annuncio dell’acquisto di Ansal­doSts e Ansal­do­Breda da parte di Hita­chi, un altro pezzo impor­tante dell’industria Ita­liana passa in mani stra­niere: la Pirelli ha infatti reso noto l’accordo per il pas­sag­gio di pro­prietà al colosso cinese Chem­China. Si tratta dell’ennesima acqui­si­zione di aziende ita­liane da parte di gruppi stra­nieri, un feno­meno che inve­ste la tota­lità del sistema indu­striale, dal tes­suto di pic­cole medie imprese ai grandi mar­chi. Par­ma­lat, pasti­fi­cio Luciano Garo­falo, Per­ni­gotti, Ducati, Inde­sit, Loro Piana, Kri­zia: solo qual­che esem­pio, preso in ordine sparso ma non a caso, per mostrare come tutti i set­tori chiave dell’economia ita­liana ne siano inte­res­sati, dall’agroalimentare alla mec­ca­nica ai pro­dotti di lusso.

Se si pre­sta fede al man­tra del «è neces­sa­rio atti­rare capi­tali stra­nieri», si potrebbe con­clu­dere che ci tro­viamo di fronte a un feno­meno posi­tivo: il nostro Paese è in grado di attrarre finan­zia­tori stra­nieri. Bene, siamo com­pe­ti­tivi e ciò ci per­met­terà di ripren­dere il sen­tiero della cre­scita soste­nuta. Altre voci, più scet­ti­che, vedono in que­ste acqui­si­zioni l’impoverimento e lo smem­bra­mento del tes­suto indu­striale italiano.

Pur non entrando in que­sto dibat­tito, ci limi­tiamo a far notare che il pas­sag­gio di pro­prietà (o della mag­gio­ranza delle azioni) a una società in mano stra­niera ha delle impli­ca­zioni inne­ga­bili per quanto riguarda i flussi finan­ziari a livello paese. A un’entrata una tan­tum nel momenti della ces­sione, fa seguito infatti un’uscita con­ti­nua­tiva di flussi finan­ziari tra­mite i pro­fitti rimpatriati.

La dif­fe­renza tra inve­sti­menti e acqui­si­zioni è cru­ciale. Non si sta par­lando di flussi di denaro che entrano per aumen­tare la capa­cità pro­dut­tiva della nostra eco­no­mia, bensì di un cam­bio di pro­prietà. Inol­tre, nell’ipotetico caso di un governo che deci­desse di ripren­dere a fare poli­tica indu­striale, con­fron­tarsi con part­ner stra­nieri o ita­liani non sarebbe chia­ra­mente la stessa cosa in ter­mini di agenda e priorità.

Chia­ra­mente la nuova lea­der­ship cinese pre­senta della poten­zia­lità da non sot­to­va­lu­tare, come la pos­si­bi­lità di allar­gare signi­fi­ca­ti­va­mente il mer­cato di Pirelli, apren­dolo ai paesi asia­tici. La que­stione chiave, tut­ta­via, sarà capire che parte di que­sti bene­fici rimarrà in Italia.

All’annuncio di Pirelli sono seguite alcune (poche in realtà) cri­ti­che sulla pres­so­ché totale assenza di un’adeguata poli­tica indu­striale da parte del governo, una con­si­de­ra­zione fatta tra gli altri non solo dalla lea­der della Cgil Susanna Camusso, ma anche da una figura non esat­ta­mente vicina ai sin­da­cati come Cesare Romiti. Que­sta cri­tica è stata liqui­data come «nazio­na­li­smo di maniera» da Marco Tron­chetti Pro­vera, il Pre­si­dente non­ché ammi­ni­stra­tore dele­gato della Pirelli, tra le altre cose uno dei mana­ger più pagati di Italia.

Per capire la figura di Pro­vera, è utile far rife­ri­mento a un ter­mine in voga nella teo­ria eco­no­mica: la finan­zia­riz­za­zione dell’economia. Si tratta di un con­cetto non sem­plice da spie­gare, che ha con­fini poco chiari anche all’interno del dibat­tito acca­de­mico. In poche bat­tute, è un pro­cesso che porta la sfera finan­zia­ria dell’economia a pre­va­lere su quella reale: la finanza, la borsa, la spe­cu­la­zione che pre­val­gono sulla indu­stria, l’imprenditoria e la pro­du­zione. Da un punto di vista mana­ge­riale, ci si foca­lizza più sul valore di borsa delle azioni che sulle per­for­mance com­mer­ciali dell’azienda. Que­sto signi­fica avere un oriz­zonte tem­po­rale assai limi­tato. La finanza, è risa­puto, corre molto, ha tempi brevi e poco si adatta a com­plessi pro­getti impren­di­to­riali di lungo respiro.

La linea mana­ge­riale di Pro­vera si è mossa in que­sto solco. Pro­vera con­trolla la Pirelli tra­mite un sistema pira­mi­dale (con del capi­tale crea una società che si inde­bi­terà e potrà com­prare una società più grande che si inde­bi­terà, potendo a sua volta com­prare una società più grande e così via) e ha con­cen­trato tutti i suoi sforzi sul valore di Borsa dell’azienda, indub­bia­mente con qual­che successo.

Le azioni di Pirelli hanno incre­men­tato con­si­de­re­vol­mente il loro valore da quando ne ha assunto la Pre­si­denza. Il lato impren­di­to­riale è stato però messo in secondo piano. Gli inve­sti­menti sono dimi­nuiti, cosi come le spese in ricerca. Ciò, unito alla com­pres­sione sala­riale, può aver favo­rito la red­dit­ti­vità di Pirelli nel breve ter­mine ed aver quindi faci­li­tato la distri­bu­zione di divi­dendi, con­tri­buendo a deter­mi­nare il valore di borsa di un titolo, ma senza coniu­garsi a una con­cor­renza indu­striale in mer­cati sem­pre più aperti e competitivi.

Per­ché le aziende e l’economia ita­liana pos­sano fare fronte alle sfide e alle oppor­tu­nità dell’economia glo­bale e dei mer­cati emer­genti, è fon­da­men­tale avere una classe impren­di­to­riale capace e lun­gi­mi­rante, non­ché una finanza paziente che sia fun­zio­nale all’impresa. E ci vor­reb­bero governi capaci di fare vera poli­tica indu­striale.

Le sca­tole cinesi all’italiana, il capi­ta­li­smo da salotto, una finanza basata sulle rela­zioni, i Tron­chetti Pro­vera non sono adatti ai mer­cati mon­diali, per­ché non ne sono all’altezza. A vederli deci­dere di sot­trarsi ai mer­cati glo­ba­liz­zati e ven­dere un pezzo impor­tante dell’industria ita­liana dopo essersi arric­chiti spro­po­si­ta­ta­mente, ver­rebbe da pen­sare a Schet­tino e urlare «torni a bordo, cazzo». Ma pro­ba­bil­mente è meglio di no.

È meglio che i mana­ger di corto respiro, quelli che spol­pano le aziende — si veda anche il caso Tele­com — e che anda­vano di moda tra i venti e i trenta anni fa negli Stati Uniti (si pensi al Gor­don Gekko di Wall Street di Oli­ver Stone), si levino di torno. In un paese con una lunga sto­ria di pro­du­zione mani­fat­tu­riera come il nostro, biso­gne­rebbe che i bonus dei mana­ger non fos­sero pagati sulla base di obiet­tivi finan­ziari, come nel caso di Mar­chionne, ma sulle per­for­mance indu­striali e gli obiet­tivi di lungo periodo.

In assenza di una classe impren­di­to­riale all’altezza, ci si dovrebbe poter rivol­gere a un governo che inter­venga tra­mite poli­ti­che indu­striali. Ma avrebbe senso aspet­tarsi ciò da un ese­cu­tivo che si rifà a stra­te­gie che erano in auge in Inghil­terra vent’anni fa.

Nel dibattito sulla sinistra ieri, oggi e domani un interessante intervento da un punto di vista di destra. Peccato che guardi solo nella sinistra di governo, e consideri (anche lui) il Pd un partito della sinistra socialdemocratica.

La Repubblica, 3 aprile 2015

NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.

Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.

Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.

Questa è l’unica sinistra che rimane, ma non versa affatto in buona salute. L’offensiva neoliberista l’ha svuotata, al punto che appare ridotta a un’esistenza residuale. Certo, è ancor sempre in Europa una forza elettorale tutt’altro che trascurabile. Ma, come sta dimostrando la Francia, non morde, si limita a resistere in una condizione di crescente affanno. A indebolire la socialdemocrazia sono fattori come il cedimento dei modi di produzione basati sulle grandi fabbriche e sulla concentrazione in queste ultime delle masse dei lavoratori metalmeccanici e siderurgici, l’avvento delle tecniche produttive legate all’automazione e all’informatica, l’indebolimento dei sindacati; il che ha privato i partiti socialdemocratici di quelli che erano i suoi tradizionali ancoraggi. Aggiungasi che questi partiti operavano in Stati in cui le decisioni politiche ed economiche erano nelle mani di Parlamenti e governi nazionali che poggiavano su sistemi di “economia nazionale”. La globalizzazione economica ha spostato tali leve a favore delle oligarchie sovranazionali, capaci di dettare legge in campo economico, orientare politica ed economia, di influenzare l’opinione pubblica e il corpo elettorale. Qui sta la radice dello svuotamento della sinistra socialdemocratica, costretta a una difensiva difficile e inconcludente.

Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.

Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.

Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.

Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.

Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.

La Repubblica, 3 aprile 2015

L’ATTACCO rivendicato dagli Shabab nel campus universitario di Garissa, di certo il più micidiale da loro compiuto, è un atto d’accusa non solo contro la loro deriva criminale, ma anche contro la spaventosa irresponsabilità dei governanti keniani. Partiti in guerra contro gli islamisti somali nell’ottobre 2011, con l’intento dichiarato di proteggere i propri confini dalle incursioni lanciate nel remoto nord-est del Paese a partire dal territorio confinante, essi si ritrovano tre anni e mezzo dopo con la guerra in casa.

Hanno imposto di recente a un Parlamento in subbuglio leggi antiterrorismo considerate da molti liberticide, ma appaiono incapaci di proteggere i propri cittadini dalla minaccia di attacchi armati, o disinteressati a farlo. Hanno coltivato un sogno di egemonia regionale costruita anche con le armi, e sono finiti in uno scacco mortale in casa propria. Nel campus di Garissa il rettore aveva addirittura messo in guardia gli studenti, invitandoli a rientrare a casa per le festività: c’era qualcosa nell’aria, ma le autorità di polizia non avevano preso alcun provvedimento. Viceversa, soltanto l’altro ieri, il presidente Uhuru Kenyatta se l’era presa contro le allerta lanciate ai turisti australiani e britannici dai governi di Canberra e Londra: un imperdonabile autogol.

La parabola degli Shabab somali è unica nella galassia del terrorismo islamico perché, nati e lungamente cresciuti nella Somalia della guerra civile attraverso una serie di spaccature e scissioni sempre più radicali, essi appaiono ormai sconfitti e residuali in quel Paese — dove tuttavia ancora sono in grado di mettere a segno azioni militari, l’ultima all’hotel Makka Al Mukarama di Mogadiscio il 27 marzo, 14 morti e numerosi feriti — mentre la loro azione si va facendo più minacciosa in Kenya. Anche i Taliban si muovono da sempre a cavallo della frontiera afgano- pachistana; ma in Pakistan erano nati, negli anni 1980, prima di arrivare a prendere il potere a Kabul. Viceversa la matrice degli Shabab è puramente somala.

Durante i lunghi anni della guerra civile somala, attraverso l’ultima decade del secolo scorso e la prima di questo, mentre i signori della guerra combattevano tra di loro un conflitto per bande motivato sostanzialmente dalla brama di controllo territoriale e di guadagno, il movimento islamista cresceva lentamente, a sua volta originato dalla variegata galassia di organizzazioni, partiti e singoli esponenti fondamentalisti, in un processo di continue scissioni e ricomposizioni. Cristallizzatosi nelle cosiddette Corti Islamiche, approfittò dell’estenuazione degli abitanti, ormai stremati dalla costante insicurezza, per imporre il proprio controllo e la sharia sulla quasi totalità del sud somalo. Legge, ordine e mani mozzate. Così le Corti amministrarono per qualche anno Chisimaio e dintorni, poi nel 2006 giunsero fino a Mogadiscio. Ma la conquista della capitale causò l’intervento militare etiopico e l’inizio della loro fine.

Da quella rotta e dalla dissoluzione delle Corti Islamiche emersero gli Shabab, “i giovani”, un movimento più radicale, militarizzato e feroce, sul modello qaedista. Infatti nel febbraio del 2012 annunciarono l’affiliazione ad Al Qaeda, anche se — a differenza di Al Qaeda, portatrice di una visione di “guerra globale” — l’orizzonte degli Shabab è sempre stato somalo. Finché, accusandoli di essere i responsabili di incursioni oltre confine che avevano preso di mira turisti e operatori umanitari, il Kenya non è a sua volta intervenuto in armi in Somalia.

L’operazione Linda Nchi (“proteggere la patria” in swahili) fu lanciata nell’ottobre 2011. Sulle prime rischiò la catastrofe. Poi il coordinamento con gli etiopici e soprattutto con il contingente internazionale dell’Unione Africana che sosteneva il governo provvisorio somalo, fece rapidamente migliorare la situazione. Gli Shabab furono presto in ritirata ovunque, costretti ad abbandonare un centro abitato dopo l’altro. Passati dal controllo territoriale al terrorismo puro, cominciarono a colpire in Kenya, in un crescendo di attentati culminati nell’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi (21-24 settembre 2013, almeno 68 morti). E, oggi, all’università di Garissa.

«Un forte richiamo a non dimenticare il senso della parola "politica" e a comprendere qual'è il focus di una nuova sinistra: a upe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo

». Il manifesto, 2 aprile 2015
Dalla pole­mica aperta su che cosa dovesse essere la “coa­li­zione sociale” e che cosa non dovesse essere o diven­tare è emersa una que­stione che è di fondo. Nien­te­meno che quella di … che cosa sia la poli­tica, fin dove si estenda, chi debba farla e chi no. Ed è scon­for­tante che sul signi­fi­cato, la por­tata, il deno­tato del ter­mine la sini­stra si possa dividere.

Scon­for­tante per­ché rivela che si è lasciata per­va­dere da una grossa misti­fi­ca­zione Quella che rita­glia la poli­tica, la spezza, ne recinge l’estensione, il campo, ne limita l’oggetto per ride­fi­nire il sog­getto. E, con­se­guen­te­mente, ne sce­glie i con­te­nuti defi­nen­doli leciti e li separa da quelli che con­danna come ille­citi, per poi det­tare le forme attra­verso cui solo la poli­tica può dispie­garsi, sele­zio­nando in tal modo gli attori. Li divide, li separa, e, sepa­ran­doli, fra­ziona insieme l’oggetto e il sog­getto della poli­tica. Sog­getto ed oggetto che da Ari­sto­tele a Gram­sci cento volte è mutato nei modi di con­fi­gu­rarsi, mai nella sua essenza di plu­ra­lità umana acco­mu­nata da una sto­ria e da un destino. La cui com­po­si­zione ed il modo come si con­fi­gura è l’oggetto della poli­tica così come il suo sog­getto. È chi, con chi e per chi e come gesti­sce, ripro­duce o modi­fica la con­fi­gu­ra­zione di tale oggetto.

Sap­piamo che dire sog­getto e oggetto della poli­tica è lo stesso che dire forma di stato e di governo. Sap­piamo anche che da due secoli almeno la sog­get­ti­vità della poli­tica ha var­cato le soglie che la rin­chiu­de­vano negli ambienti pros­simi ai troni e non è più pre­ro­ga­tiva esclu­siva dei re, dei loro mini­stri e cor­ti­giani, dei “con­si­gli delle corone”. La bor­ghe­sia se ne impa­dronì ma fu poi costretta ad accet­tare che que­sta sog­get­ti­vità si esten­desse, in modo più o meno ampio, fino a com­pren­dere tutti i desti­na­tari delle scelte che la poli­tica avrebbe potuto compiere.
Esten­sione che poteva però essere vir­tuosa o truf­fal­dina, quanto a forma, quanto cioè a sua reale e leale cor­ri­spon­denza all’universo dei sog­getti. Quell’universo che, nel defi­nire il suf­fra­gio, ne com­prende la com­po­si­zione. Com­po­si­zione che è plu­rale sì, ma di una plu­ra­lità arti­co­lata, se reale, effet­tiva, auten­tica, e per­ciò rive­la­trice delle dif­fe­renze, le tante dif­fe­renze, da quella di classe, a tutte le altre rile­vanti in una società com­plessa. Meno una sola, quella indi­vi­duale. Per­ché è quella che disar­ti­cola la sog­get­ti­vità, la smi­nuzza, per neu­tra­liz­zarla, liqui­darla, dissolverla.

Smi­nuz­zata, neu­tra­liz­zata, liqui­data e dis­solta è oggi la sog­get­ti­vità popo­lare in Ita­lia. Le leggi elet­to­rali vigenti da venti anni (e con esse quella che Renzi sta impo­nendo all’Italia) non sol­tanto hanno distorto la rap­pre­sen­tanza, hanno dis­solto il “rap­pre­sen­tato”. La tra­sfor­ma­zione è stata duplice. Da stru­mento di espres­sione dei biso­gni, delle aspet­ta­tive, dei pro­getti di vita delle donne e degli uomini, la rap­pre­sen­tanza è stata con­ver­tita in dispo­si­tivo di appro­pria­zione del potere di governo per uno uomo solo. Ne è deri­vata irri­me­dia­bil­mente la disper­sione del rap­pre­sen­tato e la sua con­danna alla soli­tu­dine nel subire o il ricatto nelle fab­bri­che, o la degra­da­zione nel pre­ca­riato, o la dispe­ra­zione nella disoc­cu­pa­zione permanente.

La soli­tu­dine ha pro­dotto la rot­tura del legame sociale. Il ricatto ha neu­tra­liz­zato l’istanza a riven­di­care nel luogo di lavoro con­di­zioni di dignità. La degra­da­zione e la dispe­ra­zione hanno gene­rato o ras­se­gna­zione e rinun­zia a lot­tare per una pro­spet­tiva di uscita dallo sta­dio di depres­sione o con­cor­renza tra i degra­dati e i dispe­rati nell’offrire forza-lavoro al prezzo più basso.

È que­sto lo sta­dio di regres­sione della con­di­zione umana in Ita­lia. Si sa che a deter­mi­narla con­tri­bui­sce enor­me­mente l’Europa della sovra­nità dei mer­cati. Ma è dal sog­getto della poli­tica e per­ciò della demo­cra­zia che biso­gna par­tire rico­struen­dolo nella sua auten­ti­cità plu­rale e rifon­dan­dolo alla base della società come tito­lare di una rap­pre­sen­tanza che si imponga nel quo­ti­diano della poli­tica, rap­pre­sen­tan­dosi dove si decide. Ad unire, a supe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo, domi­nante in Europa ed attuato in Ita­lia. Il com­pito, la ragion d’essere della coa­li­zione sociale dovrebbe essere pro­prio que­sto, la rifon­da­zione nella società del sog­getto che si oppone al capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta e lo sfida

La Repubblica, 2 aprile 2015
C’È POCO da aggiungere a quello che ha dichiarato nei giorni scorsi Raffaele Cantone, le norme approvate al Senato sono utili ma solo una parte di quel che sarebbe necessario. Non c’è da attendersi miracoli insomma da norme varate dopo un iter tormentatissimo. Difficile nascondersi poi un altro aspetto: non è più rinviabile il risanamento radicale e drastico di un partito che troppo spesso, da Roma a Ischia, a quel futuro sembra attentare più che contribuire. Forse l’indagine svolta nella capitale per il Pd da Fabrizio Barca andrebbe conosciuta meglio ed estesa ad altre realtà: solo per iniziare.

Un iter di oltre due anni e con il governo spesso in grave rischio. Norme, comunque: torna — per un soffio — il falso in bilancio cancellato negli anni berlusconiani ma sono state escluse le intercettazioni per le società non quotate in Borsa. E aumentano le pene per i reati di mafia e per la corruzione nella pubblica amministrazione, e al tempo stesso i poteri dell’Authority. Forse era difficile aspettarsi di più e in questo Parlamento poteva davvero andare peggio, con il Nuovo centrodestra di Alfano (Angelino, lo stesso del lodo) obbligatoriamente all’interno del governo e un Movimento cinquestelle perso nelle sue onnipotenti impotenze.

È evidente la sproporzione fra quel che è rimasto del testo originario e il salto di qualità, lo scatto morale e legislativo che sarebbe necessario. Sulle misure legislative possibili pesano ancora una volta i risultati delle elezioni del 2013, un caso probabilmente unico: con il partito di maggioranza che perde più di sei milioni di voti e il partito di opposizione che non ne guadagna neppure uno ma ne perde a sua volta oltre tre milioni (conseguenza quasi inevitabile di una campagna elettorale totalmente incapace di rivolgersi agli italiani).

Per il Partito democratico, costretto ad innaturali alleanze (anche — di nuovo — per il nullismo grillino), erano le condizioni peggiori per ripartire e non è possibile dimenticarlo.

Anche per questo, leggi inevitabilmente monche devono esser accompagnate e integrate dal centrosinistra con scelte nettissime e costanti sul terreno della moralità e delle regole della politica. Scelte generalissime ma innervate da decisioni quotidiane, da gesti limpidi e da comportamenti coerenti, in un Paese travolto periodicamente da ondate di spaventosa corruzione. È difficilissimo oggi anche solo indicare gli ambiti risparmiati sin qui dai miasmi. O ricordare quanto spesso riemergano quelli già noti, a partire dalle Regioni o dal mondo delle cooperative.

In questo scenario anche le scelte meno rilevanti sono significative, e se ne consideri una non proprio marginale: è una vera indecenza la candidatura in Campania del condannato De Luca, che in base alla legge Severino non potrebbe neppure esercitare il suo mandato. In Campania, luogo non irrilevante nella guerra alle corruttele: e la vicenda suona al tempo stesso come irrisione all’abituale “decisionismo” di Renzi, che in questo caso è apparso afasico e in balia degli eventi. È difficile chiedere disciplina di partito quando si tollera un vulnus così grave, e si consideri anche il coinvolgimento di alcuni sottosegretari in differenti indagini.

Certo, nella normalità della democrazia l’avviso di garanzia non è una condanna (eppure un avviso di garanzia segnò la fine del regno craxiano) ma l’Italia vive da anni una situazione totalmente anomala. È sommersa quotidianamente da scandali che crescono costantemente di intensità. Una anormalità normale, e non ha avuto sufficiente rilievo una notizia di cronaca che sembra segnare negativamente un cambio d’epoca (e speriamo davvero che non sia così): un giudice ha appena assolto i consiglieri regionali della Valle d’Aosta perché... non sapevano di commettere reato usando denaro pubblico per ragioni privatissime (feste, viaggi di familiari, divise da calciatore, cene, modesti gioielli e così via). Andrebbe riletto ogni giorno un lucidissimo articolo di qualche anno fa di Roberto Saviano che indicava proprio nella “corruzione inconsapevole” il salto di qualità che si era compiuto: corruzione inconsapevole, praticare la anormalità come se fosse normale. Smarrire l’idea stessa di confine. Non è una bella notizia che un tribunale della Repubblica la assolva.

Lo storico di domani farà qualche fatica a comprendere le differenti fasi della perversa escalation che abbiamo vissuto: dall’apparente ritorno alla normalità dopo Mani pulite sino al riemergere e all’esplodere di fenomeni che hanno offuscato quelli precedenti. Fenomeni che evocano una colossale e diffusa metastasi nazionale, quasi senza rimedio agli occhi di molti cittadini. Questa era la prima realtà che Renzi doveva “rottamare” e anche su questa base aveva costruito il suo consenso, ma da tempo quella battaglia sembra sbiadita e appannata. Inadeguata. Non assente, certo, e corroborata da scelte importanti come quella dell’Authority anti-corruzione. Non sostenuta però da un tessuto quotidiano di decisioni, dalla riconquista continua dei cittadini alla fiducia nella democrazia: eppure essa è un obbligo assoluto in un Paese che ha visto crollare la partecipazione al voto e quasi trionfare guitti di quart’ordine. Il crescere dell’astensione e il poco declinante credito di Beppe Grillo dovrebbero essere per Renzi un drammatico segnale di sconfitta. Dovrebbero imporre una decisa volontà di rivincita su questo terreno, ma troppo spesso essa sembra latitare: eppure proprio su questo, non sulle preferenze, si gioca il futuro della democrazia italiana.

Il manifesto, 2 aprile 2015

Red­dito minimo garan­tito, que­sto sco­no­sciuto. Lo si con­fonde con il red­dito di cit­ta­di­nanza, oppure con il sala­rio minimo. In Ita­lia, in realtà, non si sa ancora cos’è. Anche que­sto è il segno dell’arretratezza sociale in cui affoga que­sto paese, men­tre que­sta misura ele­men­tare di lotta con­tro la povertà e la pre­ca­rietà esi­ste in tutta Europa, tranne che in Gre­cia. E da noi. Negli ultimi mesi l’infosfera si è fatta trarre in inganno dalla con­fu­sione con­cet­tuale creata dai Cin­que Stelle. Per il movi­mento, infatti, la sua pro­po­sta di 600 euro men­sili (e non i mille pro­messi da Grillo) sareb­bero un «red­dito di cit­ta­di­nanza». Si tratta invece di un red­dito minimo che cor­ri­sponde al 60% del red­dito mediano pre­vi­sto dalla riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 10 otto­bre 2010. Non è una misura incon­di­zio­nata e uni­ver­sale – come il red­dito di cit­ta­di­nanza che viene ero­gato a tutti i resi­denti – ma è con­di­zio­nata e selet­tiva, per di più poco garan­ti­sta della libertà dell’individuo e non del tutto con­gruente con i para­me­tri euro­pei sul rispetto della dignità personale.

Nella com­mis­sione lavoro al Senato sono in corso le audi­zioni sulle tre pro­po­ste di legge pre­sen­tate da M5S, dal Pd e da Sel. Quest’ultima ha rac­colto l’eredità della pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare che ha rac­colto più di 50 mila firme gra­zie allo sforzo di più di 170 asso­cia­zioni e movi­menti da tempo impe­gnati nella lotta per il red­dito minimo garan­tito. Nel frat­tempo Libera, il Basic Income Network-Italia e il Cilap hanno pro­mosso la cam­pa­gna «red­dito per la dignità». La peti­zione ha rac­colto fino ad oggi 75 mila firme e punta a rag­giun­gerne 100 mila. Chiede che il par­la­mento discuta e approvi una legge sul red­dito minimo (e non di cit­ta­di­nanza) entro 100 giorni. La peti­zione è stata fir­mata anche da espo­nenti dei Cin­que Stelle come Luigi Di Majo, oltre che dalla Fiom di Mau­ri­zio Lan­dini. Si tratta di una pro­po­sta di media­zione, con­si­de­rata anche la dici­tura “red­dito minimo o di cittadinanza”.

L’espressione è desti­nata a pro­durre altri equi­voci. In com­penso pro­pone quat­tro prin­cipi per un accordo tra le parti in causa: il red­dito dev’essere indi­vi­duale, suf­fi­ciente, con­gruo e riser­vato a tutti i resi­denti. Per que­ste ragioni non va con­si­de­rato come una misura alter­na­tiva al sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione (la «Naspi» o il «Dis-Coll» nel Jobs Act). Non è un sus­si­dio con­tro la povertà asso­luta e non è un sala­rio minimo, cioè la paga ora­ria più bassa, gior­na­liera o men­sile, che i datori di lavoro cor­ri­spon­dono agli impie­gati o agli ope­rai. Il red­dito minimo non va ristretto ad un periodo entro il quale un lavoro «pur­ché sia» dev’essere accet­tato, ma al miglio­ra­mento com­ples­sivo della situa­zione indi­vi­duale. Come dimo­strano le espe­rienze euro­pee, si rischia sem­pre di adot­tare misure ves­sa­to­rie che dan­neg­giano i beneficiari.
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