loader
menu
© 2025 Eddyburg

Ho deciso di prendere le distanze da "L'Altra Europa con Tsipras", nata in occasione delle ultime elezioni europee, e di conseguenza il mio statuto di europarlamentare cambia: sarà quello di Indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl.

In Italia non entrerò in nessun gruppo, se eccettuo la mia militanza nell’associazione Libertà e Giustizia. Non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra, promuovendo o fondando un’ulteriore frazione politica. La mia attività sarà dunque interamente concentrata sulle attività parlamentari europee, con un’attenzione particolare a quello che succede in Italia e in Grecia.

L'Altra Europa nacque come progetto di superamento dei piccoli partiti di sinistra; come conquista di un elettorato deluso sia dal Pd e dal M5S sia dal voto stesso (astensionisti) – dunque un elettorato non esclusivamente “di sinistra” – e come elaborazione di nuove idee su un’Unione ecologicamente vigile, solidale, capace di metter fine alle politiche di austerità e ai nazionalismi xenofobi che esse hanno scatenato.

Ritengo che L’Altra Europa non sia oggi all’altezza di quel progetto: è quanto ho sostenuto assieme a molti ex garanti e militanti della Lista, in una lettera aperta di dissenso indirizzata il 18 aprile a chi la dirige.

In Europa, continuo a essere convinta che l’Unione e l’eurozona vinceranno o si perderanno politicamente – e democraticamente - a seconda di come sarà affrontata e regolata la “questione greca”. Proseguirò le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti.

In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un “Partito della Nazione”, l'ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia. Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia.

Barbara Spinelli

La Repubblica, 11 maggio 2015

ESATTAMENTE cinque anni fa, la Grecia di George Papandreou dichiarava bancarotta e chiedeva un piano di salvataggio all’Europa e al Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Dopo cinque anni di austerità, il 25% del Pil in meno, due piani di salvataggio da 240 miliardi, una ristrutturazione del debito pubblico in mano ai privati che ne ha falcidiato il 75% del valore, siamo ancora alle prese con il rischio di default. Prossima data critica: domani, quando scade una rata da 750 milioni al Fmi. Pochi sanno quanti soldi abbia veramente in cassa la Grecia. Se anche bastassero a superare indenni domani, non si arriverebbe comunque alla fine di luglio, quando dovrà aver rimborsato 2,6 miliardi al Fmi, 3,4 alla Bce, e rifinanziato 12 miliardi di titoli di Stato.

Il negoziato con la troika verte a sbloccare l’ultima tranche di 7 miliardi del piano di salvataggio del 2012. Basterebbero a superare l’estate, ma non risolverebbero niente.

SAREBBERO prevalentemente soldi della Troika per rimborsare crediti alla Troika, ma insufficienti a sostenere la Grecia fino al giorno in cui sarà in grado di tornare a finanziarsi autonomamente e stabilmente sul mercato. Un nuovo piano di salvataggio è inevitabile. Ma ancora non si è cominciato a parlarne.

Lo spettro di un default greco, e la probabile uscita dall’euro che ne deriverebbe, non sembrano però preoccupare i mercati: gli spread sul debito degli altri Paesi europei e delle loro banche sono ai minimi degli ultimi anni; i cali di Borsa dei giorni scorsi sono più dovuti ai timori di un rallentamento della ripresa americana e all’aumento dei tassi a lunga negli Usa e in Germania che potrebbe segnare l’inversione di un trend; e l’euro si è addirittura rafforzato. Prevale la convinzione che un accordo fra Grecia e creditori sia probabile, perché nell’interesse di entrambi, al di là delle bellicose dichiarazioni di facciata; e che se anche si arrivasse al default, non ci sarebbe contagio.

Vero: il default è la peggiore alternativa per tutti. In Grecia provocherebbe la corsa agli sportelli e la fuga dei capitali. Dall’inizio della crisi politica che ha portato Tsipras al governo, le banche hanno già perso 28 miliardi di depositi e stanno in piedi grazie alla Bce: a fronte di 220 miliardi di prestiti, hanno un’esposizione di 100 miliardi nei confronti della Banca centrale, a sua volta esposta per un’identica cifra verso la Bce. In caso di default, la Bce difficilmente potrebbe finanziare il sistema bancario greco, che sarebbe costretto a contrarre il credito innescando dissesti a catena. Sarebbe inevitabile imporre limiti ai prelievi dai conti per evitare la bancarotta delle banche; controlli sui movimenti di capitale; e il razionamento delle disponibilità di euro da destinare alle importazioni essenziali. Per pagare stipendi e fornitori, non avendo più fonti di finanziamento, lo Stato dovrebbe emettere cambiali proprie, creando di fatto una moneta parallela, che si deprezzerebbe rapidamente, gettando le basi per il ritorno alla dracma. La svalutazione e i dissesti farebbero crollare ulteriormente il reddito; e non avendo finanziatori, lo Stato non potrebbe neanche metter fine all’austerità. Prima di poter beneficiare dalla svalutazione della moneta, la Grecia subirebbe un’altra dura e prolungata recessione.

Ma la Grexit imporrebbe costi elevati anche ai creditori. In primis alla Germania. Tsipras ha trasformato una trattativa multilaterale coi Paesi europei creditori in uno scontro con la Germania, sulla quale ricadrebbe la responsabilità del default, facendone emergere il ruolo di potenza dominante in Europa. In questo modo la Germania azzererebbe il capitale politico tenacemente accumulato nel dopoguerra attraverso l’adesione a un’integrazione europea tesa proprio a limitare ogni tendenza egemonica tedesca. Dubito pertanto che nel momento cruciale, la Merkel si prenderà la responsabilità di rinnegare il principio che ha guidato tutti i suoi predecessori. Inoltre, per un’Europa già alle prese con l’Ucraina, una Grecia “ortodossa” che scivola verso l’area di influenza russa avrebbe un costo ingente.

Un default greco sarebbe un macigno anche per i conti pubblici europei: oggi tre quarti dei circa 300 miliardi di debito greco gravano, direttamente o indirettamente, sugli Stati europei. Mentre avrebbe un effetto economico risibile per gli investitori stranieri che ne detengono appena il 10%: per questo i mercati sono convinti che il rischio contagio sia limitato. Il pericolo è un altro: la ricomparsa del “rischio euro”. L’uscita della Grecia dall’euro, creando un pericoloso precedente, dimostrerebbe che la moneta unica non è irreversibile. Per quanto improbabile, l’eventualità che altri Paesi prima o poi ne escano, diventerebbe reale. Ed è dimostrato che i mercati tendono ad attribuire agli eventi rari una probabilità molto più elevata di quanto razionalmente giustificabile. Nessun può sapere quanto elevato sarebbe il premio per il “rischio euro” richiesto dai mercati in questo scenario. Meglio non rischiare. Un accordo è facile da immaginare. I creditori concedono alla Grecia di consolidare debito e interessi, rinviandone il rimborso di 50 anni. Non costerebbe nulla perché equivale ad ammettere la realtà dei fatti: il debito esistente non verrà mai rimborsato. In cambio la Grecia si impegna a contenere la crescita della spesa pubblica entro il gettito tributario. Contrariamente alla percezione comune, infatti, ha già attuato una massiccia ristrutturazione, riportando in avanzo sia il saldo con l’estero delle partite correnti, sia quello pubblico primario (prima degli interessi), per ben 12 punti percentuali del Pil. Con i due saldi in avanzo, non avrebbe bisogno di nuova austerità; e per completare l’aggiustamento basterebbero pochi aiuti aggiuntivi da Europa e Fmi.

Il nodo è politico: trovare anche un accordo su riforme del mercato del lavoro, delle pensioni e della pubblica amministrazione, che permettano a Tsipras di salvare la faccia; alla Germania e alla Bce di continuare a premere per riforme analoghe nell’Eurozona, in primis Francia e Italia; senza irritare Irlanda, Spagna e Portogallo che hanno già implementato queste riforme con successo, ma a caro prezzo.

Ma, se una soluzione è dietro l’angolo, perché la trattativa è così difficile? Perché per la prima volta le controparti della rinegoziazione del debito di uno Stato sovrano sono altri Stati sovrani. Di solito è il mercato, che applica la logica della convenienza economica: la più semplice per trovare un punto di equilibrio. Nel caso della trattativa con la Grecia, invece, l’accordo va trovato con la logica delle convenienze politiche, poco efficienti per le questioni economiche. In fondo, nessuno si sorprende se i tempi necessari per stipulare un Trattato internazionale sono biblici rispetto a quelli per accordarsi in una transazione tra privati.

Dieci consigli utili per chi vuole contribuire a «costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche».

Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015

Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.

1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.

2. A proposito: le piccole storie sconfitte sono quelle incarnate da gruppi dirigenti che portano sulle spalle cumuli di fallimenti. Un passo indietro di tutti loro significa farne, insieme, dieci avanti. E significa mettere alla prova una nuova generazione di persone non livorosa e non ortodossa, perché (tra l’altro) non arrugginita da decenni di scontri intestini.

3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.

4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.

5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.

6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.

7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.

8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.

9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.

10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.

Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.

Esse è raggiungibile qui

Il modello di rapporto tra potere e società al quale si ispira l'Innovatore è vecchio di qualche secolo. Eccolo puntualmente descritto in un articolo tratto da

La tecnica della scuola, il quotidiano della scuola online, 8 maggio 2015

Nel lontano medioevo il re, i vassalli, i valvassori e i valvassini rappresentavano una precisa struttura piramidale utile a esercitare il potere dei potenti sul territorio. Il re nominava il vassallo come suo fedele rappresentante. Il vassallo diventava così il responsabile di un feudo acquisendo il diritto di goderne i frutti ed i benefici, in altre parole il comando delle terre, dei braccianti e dei castelli.
In cambio i vassalli garantivano piena obbedienza al loro Re. I vassalli a loro volta potevano nominare i valvassori, altri nobili di rango inferiore, che diventavano loro fedeli e gestivano parte dei possedimenti. Il valvassore (etimologicamente, dal latino: vassus vassorum) era quindi un vassallo non direttamente dipendente dal sovrano ma da un altro vassallo. Infine c'erano i valvassini, ultimo gradino della piramide, scelti dai valvassori che potevano ancora suddividere ed investire altri nobili di rango più basso. Questa ragnatela di potere permetteva di controllare il territorio e di padroneggiare la servitù della gleba. Nella scuola di oggi pare esistere la stessa struttura piramidale.

Il Re che decide di annunciare riforme che impattano sull'impegno lavorativo dei docenti, i vassalli che cercano di far apparire il cambiamento delle regole come unica soluzione per uscire dalla situazione di stallo organizzativo in cui si trova la scuola, i valvassori di rango inferiore che dicono: "Io sto con il Re" e infine i valvassini che dicono: "Io sto con il valvassore".

Questo potere vorrebbe far sfumare le proteste della servitù della gleba, ovvero di quella docenza che non conta, ma deve solo ubbidire e possibilmente non fiatare, perché indebolire l'immagine del Re non fa bene a quell'Europa sempre prodiga nel chiedere sacrifici e austerità.

Ma nel Medioevo non esistevano i sindacati capaci di fare immediata opposizione costruttiva, come ad esempio la Gilda di Rino Di Meglio, e soprattutto non esisteva il web, luogo di vera condivisione di idee per una servitù della gleba 2.0, che con un solo clic può mettere in discussione qualsiasi struttura piramidale.

Con la nuova legge elettorale sembra concludersi il ciclo di distruzione della democrazia in nome della governabilità, iniziato sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso. Ultima speranza istituzionale, la Corte costituzionale: prima che il tiranno riesca a cambiarla. Articoli di AndreaFabozzi e Alfio Mastropaolo. Il manifesto, 7 maggio 2015

MATTARELLA FIRMA DOPO RENZI
di Andrea Fabozzi,
Promulgata la nuova legge elettorale. Il capo del governo anticipa il capo dello stato. Entrambi i presidenti diffondono via twitter l’annuncio. Palazzo Chigi aggiunge una dedica entusiasta
Mat­teo Renzi ha fir­mato alle nove del mat­tino, Ser­gio Mat­ta­rella nel pome­rig­gio. Entrambi i pre­si­denti hanno imme­dia­ta­mente dif­fuso la noti­zia via twit­ter, ma il pre­si­dente del Con­si­glio ha aggiunto una foto — la mano destra con la biro, il foglio fer­mato con l’indice della sini­stra — e una dedica: «A tutti quelli che ci hanno cre­duto, quando era­vamo in pochi a farlo». Delle due firme quella impre­vi­sta è la prima, quella di Renzi. Ha anti­ci­pato il pre­si­dente della Repub­blica, quando è noto che il capo del governo deve con­tro­fir­mare le leggi una volta pro­mul­gate dal capo dello stato. La for­mula che si intra­vede sul foglio twit­tato da Renzi è la clas­sica che accom­pa­gna la pub­bli­ca­zione in Gaz­zetta Uffi­ciale — «La pre­sente legge, munita del sigillo dello stato, sarà inse­rita nella Rac­colta uffi­ciale degli atti nor­ma­tivi…» — ma la firma di Mat­ta­rella ancora non c’era. È arri­vata, ine­vi­ta­bil­mente, poco dopo.

Il pre­si­dente della Repub­blica non ha accom­pa­gnato la pro­mul­ga­zione con un breve mes­sag­gio, al modo in cui qual­che volta aveva fatto Gior­gio Napo­li­tano, così smen­tendo quanti ave­vano pre­vi­sto qual­che parola dal Colle sul neces­sa­rio col­le­ga­mento dell’Italicum alla riforma costi­tu­zio­nale. La legge che il par­la­mento ha man­dato al pre­si­dente si sarebbe pre­stata a qual­che osser­va­zione, visto che è pre­vi­sto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costi­tu­zio­nale (con il voto dello stesso Mat­ta­rella) anche nella sen­tenza del 2014 che ha abbat­tuto il Por­cel­lum aveva ricor­dato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elet­to­rale appli­ca­bile. Eppure il par­la­mento scri­ven­done una nuova ha deciso di lasciarla tra paren­tesi. E non si è pre­oc­cu­pato nem­meno di fare gli inter­venti neces­sari a ren­dere appli­ca­bile da subito il Con­sul­tel­lum, cioè il sistema resi­duato dalla sen­tenza della Corte (e dalla Corte stessa pre­vi­sti). La sospen­sione, infine, è addi­rit­tura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è desti­nato a restare incom­pleto fino a che non sarà abo­lito il senato elet­tivo. Su tutto que­sto Mat­ta­rella non ha rite­nuto di pre­ci­sare nulla.

Il pre­si­dente non ha avuto alcuna osser­va­zione da fare nean­che sulle più volte sol­le­vate que­stioni di inco­sti­tu­zio­na­lità della legge, ma in que­sto secondo caso si tratta di una scelta assai più pre­ve­di­bile e com­pren­si­bile alla luce delle pre­ro­ga­tive del capo dello stato. È invece pro­prio su que­sto, cioè sul non aver rifiu­tato del tutto la firma, chie­dendo alle camere una nuova deli­be­ra­zione, che il Movi­mento 5 Stelle ha preso imme­dia­ta­mente — e pesan­te­mente — ad attac­care il pre­si­dente della Repub­blica, al quale pure si era rivolto con grandi spe­ranze nell’ultimo inter­vento alla camera prima del voto finale. Men­tre dal pre­de­ces­sore di Mat­ta­rella, Gior­gio Napo­li­tano, è arri­vato un pre­ve­di­bile mes­sag­gio di con­senso: «È un rag­giun­gi­mento impor­tante, era ine­vi­ta­bile appro­vare l’Italicum che del resto non è arri­vato in un mese ma in oltre un anno».

Sono pas­sati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elet­to­rale è stato cri­stal­liz­zato in senato, imme­dia­ta­mente prima dell’elezione di Mat­ta­rella. Nulla è cam­biato da allora, il pre­si­dente lo cono­sce bene e dun­que non ha senso giu­di­care «rapida» la sua firma, arri­vata il giorno stesso in cui la legge è uffi­cial­mente appro­data sulla sua scri­va­nia. Dieci anni fa Carlo Aze­glio Ciampi lasciò tra­scor­rere otto giorni prima di pro­mul­gare il Por­cel­lum, ci pensò bene, ma la legge fu ugual­mente giu­di­cata inco­sti­tu­zio­nale dalla Con­sulta, molti anni più tardi.

In attesa dei giu­dici della Corte Costi­tu­zio­nale davanti ai quali sarà cer­ta­mente por­tata (prima o poi) anche que­sta legge elet­to­rale, si sono fatte sen­tire le agen­zie inter­na­zio­nali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio ter­mine raf­for­zerà il pro­filo di cre­dito del paese ridu­cendo i rischi poli­tici che gra­vano sulle poli­ti­che eco­no­mi­che e di bilan­cio». Men­tre secondo il Finan­cial Times con la nuova legge elet­to­rale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e con­trap­pesi che ha rego­lar­mente pro­dotto coa­li­zioni di governo insta­bili» e si «accre­sce la forza dell’esecutivo». Forse per­sino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive

LA DEMOCRAZIA «NORMALE»

di Alfio Mastropaolo

L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni

Stiamo final­mente diven­tando una demo­cra­zia “nor­male”. Cioè una demo­cra­zia in cui l’esecutivo decide, il par­la­mento finge di con­trol­lare, ma regi­stra, la popo­la­zione si ade­gua. Se non è con­tenta, cam­bierà governo alle pros­sime elezioni.

Non tutta la popo­la­zione si ade­gua. In realtà c’è una pic­cola parte che detta all’esecutivo le sue con­di­zioni. Le detta, forte del fatto che è lei a soste­nere i mostruosi costi delle cam­pa­gne di per­sua­sione elet­to­rale. Con l’abolizione del finan­zia­mento pub­blico della poli­tica li sosterrà ancor di più. E quindi det­terà con­di­zioni ancor più strin­genti. Pos­siamo senza fatica fare ipo­tesi su quali poli­ti­che attuerà l’esecutivo. Di destra o di sini­stra che sia, o che si dica, le dif­fe­renze sta­ranno nei par­ti­co­lari, non irri­le­vanti, ma sem­pre par­ti­co­lari. L’essenziale delle scelte poli­ti­che lo deci­derà chi paga. E poi­ché, dato lo stato del nostro sistema impren­di­to­riale, a pagare saranno soprat­tutto imprese stra­niere, la pres­sione inter­na­zio­nale si accen­tuerà ulte­rior­mente. Si ade­guerà il grosso della popo­la­zione, ma si ade­guerà l’intero paese. Desti­nato a diven­tare sem­pre più mar­gi­nale e sot­to­messo nella divi­sione del lavoro planetaria.

Abbiamo già avuto qual­che avvi­sa­glia del destino che ci aspetta. Ma finora ser­vi­vano le peren­to­rie impo­si­zioni di Bru­xel­les e Fran­co­forte. D’ora il poi basterà loro sol­le­vare un soprac­ci­glio. La cupi­di­gia di ser­vi­li­smo è iper­tro­fica nelle classi diri­genti ita­liane. Ciò lascia pen­sare che riu­sci­ranno per­fino a pre­ve­nirle. Resterà qual­che pic­colo osta­colo, come la Corte costi­tu­zio­nale. Ma non durerà troppo a lungo. I giu­dici pas­sano, d’ora in poi li sce­glierà l’esecutivo, in com­butta con un’opposizione che sarà il suo dop­pio, e i giu­ri­sti pronti a met­tersi a ser­vi­zio sono una folla. Le sen­tenze capric­ciose e imba­raz­zanti come l’ultima sulle pen­sioni potremo scordarcele.

Sarebbe inge­nuo attri­buire la respon­sa­bi­lità — o il merito — di que­sta infau­sta nor­ma­liz­za­zione a Renzi. Renzi e la sua lea­der­ship sono figlie delle cir­co­stanze, lui ha pro­fit­tato delle cir­co­stanze favo­re­voli e ha ope­rato coe­ren­te­mente con la sua cul­tura, ma la nor­ma­liz­za­zione arriva da lon­tano. È dai primi anni 80 che poli­tici e intel­let­tuali per­se­guono que­sto dise­gno con grande deter­mi­na­zione. Con le parole e coi fatti. Qual­cuno si dichiara al momento insod­di­sfatto. In effetti c’è ragione per discu­tere sulla totale rimo­zione di ogni garan­zia che si veri­fi­cherà una volta con­clusa la para­bola delle riforme ren­ziane. Ma si tratta di det­ta­gli. La sma­nia di deci­sio­ni­smo sovra­sta que­sti det­ta­gli ed è molto antica.

Qual­cuno di coloro che sma­niano da quasi mezzo secolo dirà che la demo­cra­zia dei par­titi era alla para­lisi. Ma a que­sto argo­mento si può repli­care che quel modello demo­cra­tico si poteva ade­guarlo senza stra­vol­gerlo. E che le dosi mas­sicce di deci­sio­ni­smo già iniet­tate nel nostro regime demo­cra­tico hanno pro­dotto solo effetti disa­strosi. Così come non bril­lanti sono i risul­tati con­se­guiti dalle demo­cra­zie nor­mali che stanno intorno a noi. Così poco bril­lanti da met­ter in dub­bio l’idea stessa di nor­ma­liz­za­zione. La quale sicu­ra­mente con­viene ad alcuni — i poten­tati economico-finanziari — ma non alla mag­gio­ranza della popolazione.

Il signi­fi­cato della parola demo­cra­zia è incerto. O con­tro­verso. Dac­ché i regimi demo­cra­tici hanno sosti­tuito quelli libe­rali è comin­ciata una guerra per cir­co­scri­verlo è che ha avuto suc­cesso. Demo­cra­zia, si dice, è il suf­fra­gio uni­ver­sale, le libere ele­zioni, la con­cor­renza tra i par­titi. Il resto avanza. Nes­sun dub­bio che que­ste cose ci stiano. Ma la demo­cra­zia e il suf­fra­gio uni­ver­sale li si era voluti pro­prio per can­cel­lare il pri­vi­le­gio delle oli­gar­chie libe­rali e per fina­liz­zare in maniera più egua­li­ta­ria l’azione di governo. Ebbene, le demo­cra­zie sono state svuo­tate e siamo tor­nati indie­tro di oltre un secolo. In nome della demo­cra­zia nor­male.

Che farà il grosso della popo­la­zione, che è a ben vedere gros­sis­simo, come la crisi ha dimo­strato? Un esito certo è la cre­scita dell’astensione. La fru­stra­zione aumen­terà la sfi­du­cia. Gli imbe­cilli diranno che capita ovun­que ed è quindi nor­male. Cre­sce­ranno anche i sen­ti­menti di rivalsa, la cui mani­fe­sta­zione più evi­dente è il raz­zi­smo. Con que­sto sistema elet­to­rale - la Fran­cia inse­gna - il rischio che un par­tito raz­zi­sta, quan­tun­que mino­ri­ta­rio, vinca le ele­zioni, è piut­to­sto alto.

Vedremo. C’è però una terza pos­si­bi­lità. Che il grosso della popo­la­zione si ribelli. Che intenda che la demo­cra­zia nor­male serve a fre­gare ulte­rior­mente i gio­vani, gli ope­rai, gli impie­gati, gli inse­gnati, se l’è già presa coi pro­prie­tari di case e pre­sto se la pren­derà con gli avvo­cati, i pro­fes­sio­ni­sti e quant’altri. Il capi­ta­li­smo finan­zia­rio se ne infi­schia di tutti. Punta a pel­le­gri­nare infor­ma­ti­ca­mente per il pia­neta, per spe­cu­lare dove meglio con­viene. Bassi con­sumi per i più, cibo di qua­lità sca­dente e con­sumi di lusso per le vedette dello spettacolo.

Di con­tro, se que­sta por­zione lar­ghis­sima di società non cadesse nella trap­pola della guerra tra poveri e si met­tesse insieme, sarebbe un modo di difen­dersi. Biso­gna ridursi come la Gre­cia per capirlo? È vero che la Gre­cia non rie­sce a sot­trarsi ai suoi spie­tati aguz­zini. Ma è vero anche che se la Gre­cia non fosse sola, se la lotta con­tro la demo­cra­zia nor­male e il capi­ta­li­smo di rapina si allar­gasse, la par­tita si riaprirebbe

C'è chi dice "prima le rendite e i profitti delle imprese, e chi invece dice "prima le persone", negli Usa come in Europa. I primi vogliono il TTIP, i secondi no. «Puntano a cambiare le regole e a liberalizzare commerci e investimenti. Ma contro i nuovi accordi di libero scambio voluti da Obama, cresce negli Usa e in Europa la rivolta dei consumatori che temono l’invasione di prodotti Ogm e lo strapotere delle multinazionali». La Repubblica, 7 maggio 2015

«TPP Free! Faremo di New York una città immune dai trattati di libero scambio». La promessa solenne risuona nell’aula del consiglio comunale. È d’accordo il sindaco Bill de Blasio. E’ d’accordo il deputato democratico Jerrold Nadler che rappresenta questa città al Congresso di Washington. Così come esistono in Italia i comuni che si proclamano “denuclearizzati”, può New York City chiamarsi fuori dai nuovi trattati di libero scambio? Naturalmente no, è un gesto politico, dal valore simbolico. Ma la dice lunga sulle resistenze che si oppongono alle nuove liberalizzazioni dei commerci e degli investimenti. Eppure, se non tutta l’America, certamente New York sta dalla parte dei “vincitori” della globalizzazione, con Wall Street che domina la finanza senza frontiere, un mercato che risucchia capitali dal mondo intero.

Lo stesso paradosso si applica alla Germania. Il suo attivo commerciale sta polverizzando tutti i record storici: vale l’8% del Pil tedesco. E’ una nazione che riemerge dalla crisi con la ricetta (squilibrata) di sempre: esportando molto più di quanto importa. Dalla globalizzazione sembra avere tratto solo vantaggi. E tuttavia è proprio in Germania che il mese scorso si sono svolte le manifestazioni più affollate per dire no ai nuovi trattati. Un partito di governo, i socialdemocratici della Spd che partecipano alla coalizione con Angela Merkel, sono risolutamente contrari. Così come negli Stati Uniti la spaccatura attraversa il partito democratico. Barack Obama vuole questi trattati con tutte le sue forze. Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che è la beniamina della sinistra, guida la rivolta contro le nuove liberalizzazioni.

Tpp o Ttip? Attenzione alle sigle, segnalano una sfasatura nei tempi e nei dibattiti. In America al momento si parla del primo: Trans Pacific Partnership. Riguarda i paesi dell’Asia-Pacifico, con i due pesi massimi che sono Stati Uniti e Giappone, ma senza la Cina. È il primo in dirittura di arrivo. Per il Tpp Obama ha già ottenuto al Congresso il “fasttrack”: la corsìa veloce che consente un’approvazione rapida perché i parlamentari possono votare solo sì o no all’intero pacchetto, senza emendamenti su singoli aspetti. Obama ha ottenuto il “fast-track” grazie ai voti dei repubblicani, tradizionalmente liberisti. Non avrebbe mai avuto la maggioranza dei democratici. La sinistra del suo partito, gli ambientalisti, i sindacati, le organizzazioni della società civile come MoveOn, 350.org, Courage Campaign, Corporate Accountability, Democracy for America, continuano a battersi per far deragliare questo accordo: si moltiplicano le petizioni popolari, i sit-in davanti al Congresso e agli uffici dei singoli deputati e senatori.

Il trattato che interessa gli europei è in seconda posizione nella tabella di marcia, si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Che cos’hanno in comune Ttip e Tpp? Tre cose importanti. Anzitutto si tratta della prima revisione generale delle regole della globalizzazione dal lontano 1999 (creazione della World Trade Organization, l’arbitro del commercio mondiale), cui poi seguì nel dicembre 2001 la dirompente adesione della Cina. Secondo: questi due nuovi trattati riuniscono paesi abbastanza simili tra loro per livelli di sviluppo e garanzie di diritti (Usa, Giappone, Ue) mentre non includono i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica). Terzo: la nuova tappa delle liberalizzazioni cerca di smantellare i protezionismi occulti, fatti di barriere non-tariffarie, perché i tradizionali dazi doganali sono già scesi molto. Su questi aspetti Obama insiste nella sua campagna a favore dei nuovi trattati: «Ci danno l’occasione – dice il presidente – di scrivere regole che proteggano i nostri lavoratori, tutelino l’ambiente, i consumatori, la salute, i diritti umani. Se non siamo noi a stabilire queste regole, il commercio mondiale andrà comunque avanti, ma le regole le faranno i cinesi e con priorità ben diverse». La Dottrina Obama punta quindi a creare un “fatto compiuto”, fissare dei principi che poi la stessa Cina e altre nazioni emergenti saranno costrette ad applicare in futuro.

Perché questa argomentazione non convince una parte delle opinioni pubbliche europee? Il Ttip riguarda 850 milioni di abitanti fra il Nordamerica e l’Europa, che insieme rappresentano il 45% del Pil mondiale. Il commercio transatlantico che verrebbe influenzato dalle nuove regole del Ttip, in settori come le commesse, opere pubbliche, servizi, supera i 500 miliardi di euro all’anno. I soli investimenti diretti dagli Usa in Europa superano i 320 miliardi, quelli europei negli Stati Uniti sono un po’ più della metà. Siamo quindi nel cuore della globalizzazione “avanzata”, quella che unisce tra loro paesi ricchi, non c’entra qui la concorrenza asimmetrica con le potenze emergenti. E tuttavia si è fatta strada nel Vecchio continente l’idea – non infondata – che siano gli europei a godere oggi delle regole più avanzate in materia di salute, protezione del consumatore, qualità dei servizi pubblici. Le obiezioni al Ttip si concentrano su due aspetti. Da un lato si teme che sia il cavallo di Troia per introdurre nei supermercati e sulle tavole degli europei gli organismi geneticamente modificati, la carne agli ormoni, o altri tabù del salutismo. Ma questo problema è già risolto: l’Unione europea ha stabilito che non rinuncerà al suo “principio di precauzione”; sugli ogm resta perfino il diritto dei singoli Stati membri dell’Unione di vietarli se lo ritengono necessario. L’altro tema scottante è la clausola Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Il pericolo è che potenti multinazionali, difese da eserciti di avvocati, possano intimidire piccoli Stati, o perfino Regioni e Comuni, per far valere i propri interessi. L’Unione europea potrebbe attenuare il pericolo, se otterrà che queste cause vengano giudicate da un’apposita corte, permanente e pubblica, non da collegi arbitrali privati.

Un punto debole resta la trasparenza. Lo rinfaccia Elizabeth Warren a Obama: «Se sono nell’interesse dei lavoratori e dell’ambiente, perché non pubblicare la totalità dei testi in discussione? ». Anche l’ultima tornata negoziale Usa-Ue, che si è svolta a fine aprile a New York, è avvenuta a porte chiuse. Le stime sui benefici di questa globalizzazione 2.0 indicano un aumento dello 0,5% del Pil europeo (che di questi tempi non è poco) grazie all’abbattimento delle “barriere invisibili” che ostacolano le imprese. Ma in passato le previsioni sui benefici del Nafta o del mercato unico europeo peccarono sistematicamente per eccesso di ottimismo. E dal 1999 in poi, la fiducia delle opinioni pubbliche nella preveggenza degli esperti è in netto calo.

La Repubblica, 6 maggio 2015

QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).

La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?

Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.

I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.

Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.

Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.

Il manifesto, 6 maggio 2015

Un fatto è certo : la nostra zootecnia, la pastorizia e gran parte delle grandi aziende agricole non esisterebbero senza la mano d’opera offerta a basso costo dagli immigrati. Se sono clandestini o irregolari è ancora meglio, perché possono lavorare senza limiti orari e essere sottopagati a 20 euro al giorno per 10 ore di lavoro, come capita ancora nella piana di Gioia- Rosarno o nella terra dei fuochi, o in altri luoghi ameni del nostro Bel Paese. Molti prodotti di qualità del made in Italy non esisterebbero senza il lavoro degli immigrati. Il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata non è solo una conseguenza delle leggi del mercato capitalistico, è anche il frutto di una visione miope e subalterna della gran parte delle nostre aziende dell’agroalimentare.

Come testimonia l’esistenza di SOS Rosarno, di Calabria solidale, e di Galline Felici in Sicilia e di tante altre esperienze, è possibile costruire una filiera agro-alimentare rispettando i diritti dei lavoratori, facendo guadagnare i proprietari delle aziende agricole e dando ampie soddisfazioni ai consumatori. Una magia ? No, semplicemente basta uscire dal dominio della grande distribuzione e creare una relazione diretta tra aziende, che rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, e le organizzazioni dei consumatori responsabili, come sono i Gruppi d’Acquisto Solidale o le organizzazioni del “fair trade”. Ci guadagnano i braccianti, i contadini, i proprietari di piccole e medie aziende agricole che entrano in un percorso di legalità sociale ed ambientale. Infatti, le aziende agricole che sfruttano gli immigrati a loro volta subiscono i ricatti della grande distribuzione che comprano i prodotti della terra a prezzi irrisori e li rivendono al consumatore con un ricarico finale che arriva fino a dieci volte il costo di produzione agricolo.

Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30-40.000 nuovi posti di lavoro reali.

Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono nuovamente abbandonate ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord-Italia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa.

Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti e i movimenti sociali. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili,per creare quelle reti sociali capaci di dare il “giusto valore” ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale, l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa).

Ma, questa “seconda Riforma Agraria” abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione. Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti, ed adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei migranti potrebbe dare una mano d’aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita. Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente. I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello di sviluppo. Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al degrado.

Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.

l manifesto, 5 maggio 2015

Si deve insi­stere senza ras­se­gnarsi. Senza remore va qua­li­fi­cata l’enormità della con­trad­di­zione tra i prin­cipi della Costi­tu­zione, tra la minima con­ce­zione della demo­cra­zia e la legge elet­to­rale appro­vata in sosti­tu­zione del por­cel­lum ripro­du­cen­done però sfac­cia­ta­mente le inco­sti­tu­zio­na­lità accer­tate dalla Corte. Inco­sti­tu­zio­na­lità che rive­ste e imbel­letta. Nulla e nes­suno però può nascon­dere che l’italicum infrange i fon­da­menti della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e mira a dis­sol­verla con­cul­cando il diritto di sce­gliere chi votare come pro­prio rap­pre­sen­tante in Parlamento.

Nelle «20 cir­co­scri­zioni elet­to­rali sud­di­vise nell’insieme in 100 col­legi plu­ri­no­mi­nali» i capi­li­sta, se la lista che capeg­giano otterrà seggi, risul­te­ranno auto­ma­ti­ca­mente eletti senza essere stati votati. Così i depu­tati “nomi­nati” dai capi­par­tito risul­te­ranno tanti quante saranno le liste che otter­ranno seggi. Quelle che di seggi ne con­qui­ste­ranno uno solo, lo tro­ve­ranno già scelto.

L’italicum rin­nega poi il prin­ci­pio di ugua­glianza pre­ve­dendo il “pre­mio di mag­gio­ranza”, un dispo­si­tivo che pre­scrive nien­te­meno che la fal­si­fi­ca­zione della volontà dal corpo elet­to­rale mediante la mani­po­la­zione del risul­tato dei voti espressi.

In qual­siasi plu­ra­lità umana la mag­gio­ranza dei voti si iden­ti­fica nella loro metà più uno. Il “pre­mio di mag­gio­ranza” non è attri­buito a chi que­sti voti li ha acqui­siti ma a chi non li ha acqui­siti. Lo si con­fe­ri­sce ad una mino­ranza, a quella che ottiene un solo voto in più di cia­scuna altra. Si tra­duce quindi in un pri­vi­le­gio per una delle mino­ranze rispetto a tutte le altre. Pri­vi­le­gio che com­porta disco­no­sci­mento di voti validi e sot­tra­zione di seggi alla mag­gio­ranza reale, reale per­ché com­po­sta dalla somma delle liste votate, esclusa la mino­ranza pri­vi­le­giata. Quella a cui il corpo elet­to­rale ha negato di diven­tare mag­gio­ranza ma con­tro la volontà popo­lare ne acqui­sta il potere. Un’assurdità, una illo­gi­cità manifesta.

L’italicum è vorace. Non solo asse­gna 340 seggi alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti (88 in più di quanti le spet­te­reb­bero). Ma, al secondo turno, che inter­viene se nes­suna lista ha otte­nuto il 40 per cento dei voti al primo turno, col bal­lot­tag­gio tra le due liste più votate, attri­bui­sce comun­que que­sti 340 seggi, per­ciò anche ad una lista che di voti ne può aver avuto il 35 per cento, il 30, il 20 …

L’italicum, comun­que, dis­solve la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva stra­vol­gendo la forma di governo e declas­sando il ruolo del Pre­si­dente della Repub­blica. Per­ché tra­sforma l’elezione al Par­la­mento in ele­zione del “primo mini­stro, capo del governo”, la dop­pia deno­mi­na­zione che defi­niva la forma di governo vigente in Ita­lia dal 3 gen­naio 1925 al set­tem­bre 1943.

L’inventore dell’italicum, il poli­to­logo D’Alimonte, sostiene che il mostri­ciat­tolo che ha inven­tato rea­lizza l’elezione diretta del pre­mier ma non modi­fica la forma par­la­men­tare di governo. Affer­man­dolo o finge di non saperlo o ignora che la forma par­la­men­tare di governo si iden­ti­fica nella respon­sa­bi­lità del governo nei con­fronti del par­la­mento, organo della rap­pre­sen­tanza poli­tica che esprime la sovra­nità popo­lare. Rap­pre­sen­tanza cui l’elezione diretta del pre­mier sot­trae tutti i poteri tra­sfe­ren­dolo pro­prio al pre­mier e ren­derlo anche domi­nus nelle ele­zioni degli organi di garan­zia, Pre­si­dente della repub­blica, Corte costi­tu­zio­nale, Csm.

Que­sta radi­cale muta­zione della forma di governo nel suo oppo­sto e que­sta oscena misti­fi­ca­zione di una qual­che ipo­tesi di demo­cra­zia si con­net­tono poi con la cosid­detta “riforma” del Par­la­mento che maschera, col supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio, l’eliminazione (della sede) di un con­tro­po­tere allo stra­po­tere del capo del governo nel regime che Renzi sta costruendo, quello dell’autoritarismo.

Va detto senza ambagi. L’italicum distorce l’arma inde­fet­ti­bile dei cit­ta­dini, il voto. Svuota la rap­pre­sen­tanza poli­tica. Asser­vi­sce il Par­la­mento al governo. Sof­foca la sovra­nità popo­lare. Inve­ste di tutto il potere una per­sona sola.

Il testo di que­sta legge dovrà ora supe­rare il con­trollo della pro­mul­ga­zione che deve essere quanto mai severo. Lo sia. In peri­colo è la demo­cra­zia italiana.



Non succedeva da mesi. Un barcone è persino riuscito ad arrivare indisturbato fino al porto di Lampedusa, a “bucare” il via vai di soccorsi iniziato sabato mattina lungo il Canale di Sicilia. Quasi seimila persone soccorse in 48 ore, una ventina tra barconi e gommoni, dieci morti: alcuni di stenti, di sete, ustionati, trovati dai soccorritori sul fondo dei gommoni, tra i piedi dei loro compagni sopravvissuti, altri annegati in mare nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore.
Ogni soccorso nasconde una tragedia. È stata un’altra domenica di passione per le navi della Guardia costiera e della Marina militare italiana, come al solito coadiuvate da mercantili di passaggio e rimorchiatori delle piattaforme petrolifere. Una nave francese, la Commandant Birot, ha invece sbarcato nel pomeriggio a Crotone 216 migranti di varie nazionalità. «Mi vergogno perché l’Europa non fa ciò che dovrebbe e potrebbe fare per i migranti. L’Ue deve sapere cosa state facendo qui e io mi farò portavoce», ha detto il vicepresidente del Parlamento federale tedesco e leader dei Verdi, Claudia Roth, in Sicilia da tre giorni in rappresentanza del Bundestag. Una nuova ondata di partenze dalla coste libiche approfittando del meteo favorevole e centri di prima accoglienza siciliani di nuovi pienissimi. Persino a Lampedusa, dove il centro è dall’anno scorso solo parzialmente agibile e dove ormai la regia di smistamento dei profughi tende ad evitare l’arrivo di migranti, ne sono stati sbarcati più di 500.

Una ventina i barconi che, nel giro di poche ore, hanno lanciato l’Sos con i telefoni satellitari. Per le navi dei soccorsi è stata una corsa contro il tempo per evitare l’affondamento di gommoni ormai semisgonfi e il ribaltamento di vecchi barconi stracarichi. Solo in uno erano state stipate ottocento persone, come sul peschereccio ribaltatosi quindici giorni fa con il suo carico di centinaia di migranti andati incontro a una morte terribile rinchiusi nella stiva. E in un gommone, la nave Fiorillo ha tratto in salvo ben 397 persone. In due dei gommoni raggiunti dai soccorsi sono stati trovati i cadaveri di quattro migranti, tre in uno, quattro nell’altro, probabilmente morti per gli stenti della traversata. Tra i 105 profughi tutti dell’Africa subsahariana agganciati dal mercantile Prince 1 a 45 miglia a nord est di Tripoli l’equipaggio ha pietosamente composto i corpi di tre persone. Altri quattro, ormai senza vita, erano tra i 73 soccorsi da un’altra imbarcazione privata, il mercantile Zeran, a 35 miglia a nord est di Tripoli. E altre due persone erano in condizioni gravissime, quasi disperate tanto che i marinai hanno tentato estreme manovre di rianimazione.

Poche miglia più in là, in tre si sono lanciati da un gommone nel disperato tentativo di raggiungere un rimorchiatore, ma i tre migranti non ce l’hanno fatta e all’equipaggio non è rimasto che tirare a bordo i loro corpi tra le lacrime dei 78 compagni di viaggio incolumi. In extremis, quasi davanti le coste libiche, la Finanza ha soccorso un barcone con 330 migranti tra cui diciotto bambini e sessanta donne. A terra, in Sicilia e in Calabria dove il ministero dell’Interno ha dato disposizioni di sbarcare i nuovi arrivati, è stato approntato il dispositivo di primo soccorso e accoglienza, mentre Viminale e prefetture in queste ore cercano freneticamente nuovi posti liberi in strutture dalla Sicilia alla Val d’Aosta.


Il doloredell’ammiraglio
«In mare c’è un popolo intero
impossibile salvarli tutti»
PALERMO .
«Questa è una nazione, un popolo in navigazione. In tanti anni di lavoro non ho mai visto una cosa del genere. Lavoriamo senza sosta, raccogliamo persone in mare ovunque». È accorata la voce dell’ammiraglio Felice Angrisano mentre racconta la nuova emergenza.
Ammiraglio, ce la fate? Siete sommersi da richieste di soccorso.
«Facciamo il possibile. Abbiamo salvato seimila persone in 48 ore, ma la linea da controllare è enorme. Da un capo all’altro del Canale di Sicilia, parliamo di un fronte largo cento miglia. Non facciamo altro che smistare soccorsi ovunque, le nostre navi, quelle della Marina, mercantili, rimorchiatori, pescherecci. Diciamo pure che non c’è imbarcazione che si trovi a passare nel Canale che non venga coinvolta in queste operazioni. C’è anche una nave francese».
È una situazione ancora sotto controllo?

«È una situazione che ci preoccupa molto. I numeri sono in continua crescita, noi cerchiamo di soccorrere tutti ma non abbiamo occhi ovunque. Con il migliorare delle condizioni meteo non possiamo che aspettarci che l’emergenza continui. Sappiamo che sull’altra sponda del Mediterraneo ci sono centinaia di migranti pronti a partire in qualsiasi condizione, centinaia di persone finiranno ancora su gommoni mezzi sgonfi o su vecchi pescherecci. E purtroppo sappiamo che quando parliamo di numeri così consistenti, la tragedia è sempre dietro l’angolo ».

La Repubblica, 4 maggio 2015

Camusso, ma non è paradossale uno sciopero della scuola contro una riforma che prevede 100 mila assunzioni di precari?
«Ma secondo lei — risponde il segretario generale della Cgil — un sindacato può scioperare contro delle assunzioni? La verità è che il governo non è in condizioni di farle per l’inizio dell’anno. E ha posto criteri assai discutibili che dividono in modo arbitrario i precari».

Non è che protestate contro una legge che vi ha tagliato fuori, che ha ignorato il tradizionale potere di veto dei sindacati?
«Francamente mi paiono argomenti vecchi e strumentali. Le cose sono assai più serie. Questa è una riforma che lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento, che affida a un singolo, il dirigente scolastico come si chiama oggi il preside, la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno. Non è quello che prevede la nostra Carta Costituzionale ».

Lei pensa che sia una riforma di impianto autoritario?
«Emerge una scuola che non ha più una funzione di carattere generale, che non punta più a formare cittadini con spirito critico. È una scuola elitaria, non di tutti. Le risorse che ci sono, peraltro scarse, vanno a chi primeggia e delle scuole di Scampìa o dello Zen di Palermo che ne facciamo?».

Eppure la competizione tra istituti scolastici può accrescere la qualità dell’offerta formativa. Non crede che possa essere un vantaggio per le famiglie?
«Guardi, io penso che la scuola debba essere migliorata. Nella nostra Costituzione la scuola vuol dire il diritto allo studio. Bene, nella riforma non c’è traccia di questo. Non c’è una visione del futuro della scuola, non c’è nulla per combattere la dispersione scolastica nel Paese che detiene il record di giovani Neet, che cioè non lavorano, non studiano, non si formano. Alla fine accederanno alla scuola coloro che appartengono a famiglie che se lo possono permettere».

Abbiamo il record dei Neet e quello dei giovani disoccupati. Secondo lei perché nonostante il Jobs Act, il superamento dell’articolo 18, lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni, le aziende non assumono?
«Perché non ci sono investimenti a partire da quelli pubblici. Perché non basta dire a un imprenditore: ti ho tolto l’articolo 18, ti ho fatto gli sconti, ora pensaci tu. Non funziona così. Gli incentivi senza vincoli si traducono nella sola sostituzione di contratti. Serve una politica industriale che indirizzi e sostenga la crescita e l’occupazione ».

Si passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato. Non è positivo?
«Certo che lo è. Ma siamo nel terreno di Monsieur Lapalisse. Se non si pone come obiettivo quello della piena occupazione richiamato autorevolmente dal Presidente Mattarella, non ci sarà alcun cambiamento di verso ».

La manovra sugli sgravi contributivi ci è costata circa 10 miliardi. Il governo ne dovrà recuperare quasi altrettanti per fronteggiare gli effetti cumulati della sentenza della Consulta sul mancato adeguamento delle pensioni. La Cgil ha esultato dopo la sentenza. Ora si devono trovare le risorse. Come?
«La Corte si era già pronunciata in senso negativo su soluzioni che colpivano solo parte dei pensionati. Il governo è in grave ritardo e ora è indispensabile sedersi intorno ad un tavolo per cambiare la legge Fornero che non funziona per mille motivi».

D’accordo, le risorse dove le prenderebbe?
«Ora i diritti delle persone vanno garantiti e le risorse, come abbiamo più volte detto, ci sono o si possono trovare. Questa potrebbe anche essere l’occasione per rivedere i criteri di una effettiva progressività del sistema fiscale e per contrastare seriamente l’evasione».

Facendo pagare ai ricchi? È la vostra proposta della patrimoniale?
«Senza rinunciare alla riforma complessiva del fisco, la patrimoniale sulla grandi ricchezze ha un’efficacia immediata».

Come giudica la legge elettorale su cui la Camera esprimerà la fiducia?
«Non mi convince essendo tutta piegata al principio della governabilità. È una legge che surrettiziamente porta al premierato senza che siano stati previsti i necessari contrappesi. Dissi al congresso della Cgil che eravamo di fronte ad una torsione del sistema democratico. Non ho cambiato idea».

“Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario”, ha scritto Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica. Lei che sinistra visita?
«La sinistra che visito è quella che tenta di recuperare alcune parole e alcuni valori: uguaglianza, ricostruzione dei diritti sociali, povertà non come colpa, disoccupazione non come vergogna. La sinistra che vuole un altro Paese».

Sta dicendo che non è nel Pd, partito che lei ha annunciato non voterebbe, che trova questa sinistra?
«C’è anche nel Pd. È che oggi sono sempre di meno i luoghi della partecipazione democratica, ma non è vero che i cittadini non vogliano partecipare. L’iniziativa di oggi (ieri, ndr) di Milano ne è la riprova».

E cosa pensa di coloro che invece hanno devastato Milano?
«Si è trattato di violenza pura e gratuita che non può avere alcuna giustificazione politica».

Ma lei si impegnerebbe a dar vita a una nuova sinistra?
«La mia è un’altra funzione. Sarebbe un errore confondere i ruoli, ma sono convinta che ci sia un grande bisogno di sinistra».

Ci vorrebbe un altro partito di sinistra?
«Ci vorrebbe un partito di sinistra».

In autunno ci sarà la conferenza di organizzazione della Cgil anche per fissare le nuove regole per l’elezione dei gruppi dirigenti. Come sarà scelto il suo successore?
«Siamo ben coscienti che dobbiamo cambiare. La contrattazione non può limitare a tutelare chi è già organizzato, dobbiamo includere tutto il mondo del lavoro. Sarà la nostra riforma strutturale all’interno della quale ci saranno le nuove regole per selezionare i dirigenti. Il prossimo segretario della Cgil sarà eletto da un organismo nel quale la presenza dei delegati dei posti di lavoro sarà superiore a quella degli apparati. E sono certa che queste modalità renderanno protagoniste le nuove generazioni».

Il manifesto online, 3 maggio 2015

Trickle-down (in ita­liano, sgoc­cio­la­mento) è il nome di una teo­ria eco­no­mica, ma anche di una filo­so­fia, che molti hanno cono­sciuto attra­verso la para­bola di Laz­zaro che si nutriva delle bri­ciole che il ricco Epu­lone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono inver­tite per­ché Laz­zaro è stato ammesso al ban­chetto di Dio, in Para­diso, men­tre Epu­lone è finito all’inferno a sof­frire fame e sete.

La teo­ria e la filo­so­fia del Trickle–down in realtà si fer­mano alla prima parte della parabola. La seconda parte è com­pito nostro rea­liz­zarla; e non in Para­diso, dopo la morte, ma su que­sta Terra, qui e ora.

In ogni caso, secondo la teo­ria, più i ric­chi diven­tano ric­chi, più qual­che cosa della loro ric­chezza “sgoc­cio­lerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ric­chi siano sem­pre più ric­chi con­viene a tutti. Discende da que­sta teo­ria la pro­gres­siva ridu­zione delle tasse sui red­diti mag­giori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, pre­di­cata negli Usa dal par­tito repub­bli­cano e, in Ita­lia, da Mat­teo Sal­vini) che, a par­tire dagli anni Set­tanta, ha inau­gu­rato la cre­scita incon­trol­lata delle dise­gua­glianze. In Ita­lia la pro­gres­siva ridu­zione delle ali­quote mar­gi­nali dell’imposta sui red­diti più ele­vati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giu­sti­fi­cata soste­nendo che ali­quote troppo ele­vate incen­ti­vano l’evasione fiscale, men­tre ali­quote più “ragio­ne­voli” l’avrebbero eli­mi­nata. I risul­tati si vedono. L’altro cavallo di bat­ta­glia della Trickle-down eco­no­mics è che le misure di incen­ti­va­zione eco­no­mica dovreb­bero essere desti­nate esclu­si­va­mente alle imprese, per­ché sono solo le imprese a creare buona occu­pa­zio­ne e, quindi, red­dito e benes­sere anche per i lavo­ra­tori. Tutte le altre spese, spe­cie se di carat­tere sociale, sono, in ter­mini eco­no­mici, “spre­chi”. Ma l’evoluzione tec­no­lo­gica rende sem­pre di più job-less, cioè senza occu­pa­zione aggiun­tiva, la cre­scita sia della sin­gola impresa che del sistema nel suo com­plesso. Anzi, molto spesso la ridu­zione dell’occupazione in una impresa viene salu­tata con un dra­stico aumento del suo valore in borsa.

Tra­spo­sta sul piano sociale, la filo­so­fia del Trickle-down ha assunto i con­no­tati del “capi­ta­li­smo com­pas­sio­ne­vole”, che negli Stati uniti costi­tui­sce la dot­trina uffi­ciale dell’ala più rea­zio­na­ria del par­tito repub­bli­cano, e non solo di quella. In base ad essa il wel­fare, come insieme di misure tese a garan­tire in forma uni­ver­sa­li­stica i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino – pen­sione, cure sani­ta­rie, istru­zione, soste­gno al red­dito – va eli­mi­nato per­ché induce chi ne bene­fi­cia all’ozio; e va sosti­tuito con la bene­fi­cienza gestita dalla gene­ro­sità dei ric­chi, nelle forme da loro pre­scelte e indi­riz­zan­dola, ovvia­mente, solo a chi, a loro esclu­sivo giu­di­zio, “se la merita”. Non c’è nega­zione più radi­cale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teo­ria come que­sta. Eppure è una con­ce­zione che sta pro­gres­si­va­mente pren­dendo piede in tutti gli ambiti della cul­tura uffi­ciale, anche là dove gli isti­tuti del Wel­fare State (che let­te­ral­mente signi­fica Stato del benes­sere, e che da tempo viene tra­dotto sem­pre più spesso con l’espressione “Stato assi­sten­ziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.

Non deve stu­pire quindi di ritro­vare i capi­saldi di que­sta con­ce­zione vio­len­te­mente anti­de­mo­cra­tica in quello che viene fin da ora uffi­cial­mente indi­cato come “il lascito imma­te­riale” della peg­giore mani­fe­sta­zione della teo­ria e della prassi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, o “finan­z­ca­pi­ta­li­smo”: la cosid­detta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito imma­te­riale, per­ché quello mate­riale, come è ormai noto, non è che deva­sta­zione del ter­ri­to­rio, asfalto e cemento, cor­ru­zione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, vio­la­zione dei diritti, della dignità e della sicu­rezza del lavoro (l’Expò è stato il labo­ra­to­rio del Job-act), pro­pa­ganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria ali­men­tare tos­si­che e, dul­cis in fundo, un mec­ca­ni­smo di per­pe­tua­zione delle Grandi Opere inu­tili: per­ché, a Expò con­cluso, ci sarà da deci­dere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova cor­ru­zione di quell’area ormai devastata.

Uno dei punti o pro­po­siti qua­li­fi­canti della Carta di Milano è infatti la lotta con­tro lo spreco ali­men­tare attra­verso il recu­pero del cibo che oggi viene but­tato via, desti­nan­dolo ai poveri. Nella carta i rife­ri­menti a que­sto pro­po­sito sono tre: “ che il cibo sia con­su­mato prima che depe­ri­sca, donato qua­lora in eccesso e con­ser­vato in modo tale che non si dete­riori”; “indi­vi­duare e denun­ciare le prin­ci­pali cri­ti­cità nelle varie legi­sla­zioni che disci­pli­nano la dona­zione degli ali­menti inven­duti per poi impe­gnarci atti­va­mente al fine di recu­pe­rare e ridi­stri­buire le ecce­denze”; “creare stru­menti di soste­gno in favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, anche attra­verso il coor­di­na­mento tra gli attori che ope­rano nel set­tore del recu­pero e della distri­bu­zione gra­tuita delle ecce­denze ali­men­tari”. Appa­ren­te­mente si tratta di rac­co­man­da­zioni di buon senso: dare a chi non può per­met­ter­selo il cibo che altri­menti but­te­remmo via. E’ quello che si cerca di fare con isti­tu­zioni e pro­grammi bene­me­riti, come la legge detta del “Buon Sama­ri­tano” o il Last-minute mar­ket pro­mosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro mini­miz­za­zione (in vista del loro azze­ra­mento, pre­vi­sto dal pro­gramma Rifiuti zero, che le ren­de­rebbe super­flue). Tra­spo­ste nell’ambito di un pro­gramma pla­ne­ta­rio per “nutrire il pia­neta” hanno l’effetto di retro­ce­dere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sot­toa­li­men­ta­zione di una parte deci­siva dell’umanità, la cui con­di­zione è invece il pro­dotto delle grandi e cre­scenti dise­gua­glianze mon­diali nella distri­bu­zione dei red­diti, del lavoro e delle risorse.

Per cogliere meglio que­sto punto è neces­sa­rio risa­lire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Pro­to­collo di Milano”: un docu­mento ela­bo­rato dalla fon­da­zione Barilla – ema­na­zione dell’omonima mul­ti­na­zio­nale ali­men­tare – a cui l’Expò ha affi­dato il com­pito di indi­vi­duare i capi­saldi del pro­gramma “nutrire il pia­neta”, che sono poi stati tra­dotti “in pil­lole” nella Carta di Milano; e che ha la pre­tesa di defi­nire un pro­gramma di azione dei pros­simi decenni per tutti i sog­getti del mondo – Governi, imprese, asso­cia­zioni, cit­ta­dini — impe­gnati nella filiera agroa­li­men­tare come pro­dut­tori, distri­bu­tori o consumatori.

Nel Pro­to­collo di Milano il tema dello spreco di ali­menti occupa il primo posto: “Primo para­dosso – spreco di ali­menti: 1,3 miliardi di ton­nel­late di cibo com­me­sti­bile sono spre­cati ogni anno, ovvero un terzo della pro­du­zione glo­bale di ali­menti e quat­tro volte la quan­tità neces­sa­ria a nutrire gli 805 milioni di per­sone denu­trite nel mondo”. Nell’ambito dei pro­grammi per sra­di­care la fame, tra cui “le dispo­si­zioni per­ti­nenti nel qua­dro delle legi­sla­zioni inter­na­zio­nali, regio­nali e nazio­nali per la pro­te­zione e con­ser­va­zione delle risorse e l’adozione di azioni fina­liz­zate allo svi­luppo soste­ni­bile nella Diret­tiva qua­dro euro­pea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa effi­ciente sotto il pro­filo delle risorse, gli Obiet­tivi di Svi­luppo del Mil­len­nio per sra­di­care la povertà estrema e la fame”, il Pro­to­collo di Milano arriva a trat­tare que­sta prima emer­genza pla­ne­ta­ria con le stesse moda­lità con cui, in un qual­siasi Comune d’Italia, si affronta il pro­blema della gestione dei rifiuti: “Le ini­zia­tive per la ridu­zione degli spre­chi devono rispet­tare la seguente gerarchia:

1. Pre­ven­zione; 2. Riu­ti­lizzo per l’alimentazione umana; 3. Ali­men­ta­zione ani­male; 4. Pro­du­zione di ener­gia e com­po­stag­gio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta con­tro la tra­sfor­ma­zione degli ali­menti in rifiuti (e non per una più equa distri­bu­zione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affa­mati del pia­neta non spetti altro che il com­pito di smal­tire ciò di cui i ric­chi si vogliono sba­raz­zare. Cioè sedersi, come Laz­zaro, ai piedi della tavola del ricco Epu­lone. Con il che la Trickle-down eco­no­mics fa il suo ingresso trion­fale nel “lascito” dell’Expò.

Una tesi veramente singolare di un esperto di economia dei trasporti, il quale non sa che i beni immobili urbani non sono una merce fungibile, e pertanto il loro valore non diminuisce all'aumentare della quantità. Una lettura suggerita.

Il Fatto quotidiano, 2 marzo 2014

È una cosa assolutamente ovvia che il prezzo di una casa, identica a un’altra come qualità, cioè con costi di costruzione identici, cresca in proporzione a quante case di quel tipo sono disponibili sul mercato, cioè ai vincoli posti alla costruzione di case. Un recente studio dell’Università di Yale per esempio dimostra che i costi di costruzione delle case sono rimasti pressoché costanti in termini reali, ma i prezzi sono cresciuti del 30% negli scorsi 35 anni (eliminando le fluttuazioni cicliche del mercato). Inutile anche sottolineare che il problema è molto acuto in termini sociali, perché colpisce in proporzione i redditi più bassi, le nuove coppie e gli extracomunitari. L’Economist ha dedicato al fenomeno la copertina e diversi articoli, citando estese evidenze statistiche della correlazione stretta tra i vincoli urbanistici all’edificazione e la crescita della rendita urbana, cioè del valore dei terreni edificabili rispetto a quelli a destinazione agricola.

Questo fenomeno si era storicamente ridotto, e di molto, con l’avvento della motorizzazione privata, che aveva consentito un mercato delle case e dei terreni assai più competitivo, rendendo possibile raggiungere località anche molto esterne in tempi ragionevoli. Oggi invece sembra essersi in parte ripresentato nelle città caratterizzate dall’“industria della conoscenza” (valga per tutti la Silicon Valley in California, ma vengono citate anche Milano e Bangalore…) e dalle grandi concentrazioni di attività finanziarie (Londra, New York). L’aumento di valore delle aree e degli edifici nelle zone centrali, come si cita in uno altro studio recente del Massachusetts Institute of Technology, sembra che sia una delle maggiori cause delle diseguaglianze di reddito evidenziate dal celebre economista neo-marxista Thomas Piketty, e confermate in molti contesti specifici, anche nel nostro Paese.

Accanto a quelle dall’Economist, si possono anche citare le analisi comparative che misurano il numero di annualità di reddito medio necessarie per comprarsi una casa standard: anche da queste analisi emerge una stretta corrispondenza tra la “costosità in relazione al reddito” (“affordability” di W. Cox) della casa, ed i livelli dei vincoli urbanistici all’edificazione. I valori minimi si registrano a Kansas City, celebre per avere vincoli pressoché nulli. Noi ci collochiamo, insieme a tutta l’Europa, su valori medio-alti. Certo: la disponibilità di suolo del Kansas non è esattamente simile a quella italiana, come non è esattamente simile il valore paesaggistico dei due territori. Anzi, il valore paesaggistico di molte parti del territorio italiano è quello di un bene riconosciuto eccezionale a livello mondiale, fonte di rilevanti redditi turistici che si estendono nel futuro, ma costituisce anche un valore culturaleirrinunciabile, non riconducibile a mere grandezze economiche. Tuttavia il problema sociale del prezzo delle abitazioni e della distribuzione del reddito permane, ed è accentuato dalla crisiattuale. L’Economist propone di aumentare in termini relativi lapressione fiscale sulle rendite urbane, ma soprattutto di tassare in proporzione di più le case vuote e i terreni edificabili non utilizzati, e meno le case utilizzate, al fine di aumentare l’offerta di abitazioni per questa via, abbassando così i prezzi.

Un’altra soluzione possibile è quella di ridurre i vincoli all’edificabilità in modo selettivo, cioè favorendo la costruzione di edifici nuovi multipiani, anche in aree esterne dove necessariamente i prezzi delle abitazioni sarebbero inferiori (gli alti prezzi sono indissolubilmente connessi all’accessibilità e ai servizi delle aree). Ciò al fine di contenere, dove necessario, il consumo di suolo, anche se le argomentazioni, oggi molto diffuse, che tale consumo vada ridotto per “difendere l’agricoltura” sembrano davvero poco consistenti. Il ricorso a modelli di edilizia sovvenzionata si scontrano invece da un lato con la scarsità di risorse pubbliche, dall’altro con una serie di risultati catastrofici dovuti a gestioni clientelari, disattente ai bisogni sociali reali (il diritto acquisito è “per sempre”, senza verifiche nel tempo dei redditi dei residenti, fenomeno unico in Europa), e ancor meno attente all’illegalità diffusa delle occupazioni abusive. Ma certo nulla vieta di tentare una seria riforma di questa strategia, almeno nel medio periodo.

Rimane infine sullo sfondo il problema delle categorie sociali realmente molto deboli, come i Rom o gli extracomunitari di recentissima immigrazione. Le risposte qui non sono semplici, dati gli elevatissimi standard edificatori che la nostra normativa impone: edifici in cemento armato dotati di ogni servizio, ecc. Eppure come dimenticare che l’integrazione dei gruppi di immigrati “ultimi arrivati” negli Stati Uniti è avventa attraverso la diffusissima pratica (legale) dell’autocostruzione di case semplicissime, e via via di standard più elevati al crescere del reddito? Ma consentire l’autocostruzione in Italia oggi sembra davvero un tema che postulerebbe un diverso approfondimento, come d’altronde quello della dannosissima rigidità del mercato del lavoro causata dalla dominanza, sempre politicamente favorita, della casa in proprietà, con una struttura normativa e fiscale che rende il cambio di residenza per compra-vendita estremamente costoso.

Suggerimenti di lettura:
Siro Lombardini, La normalizzazione dei mercati delle aree e degli alloggi attraverso la nuova legge urbanistica

«Il significato della manifestazione contro l'Expo non è cancellato dalle inaccettabili devastazioni che hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo». L'Altra Europa con Tsipras, mailing list, 2 marzo 2015

La risposta alla convocazione del May day - che quest’anno univa a Milano, in un’unica mobilitazione internazionale, il tema consueto del precariato e la denuncia dell’Expò - è stata massiccia e articolata. Tantissimi (più di 30.000), quasi tutti giovani; meno birra degli anni scorsi; ben otto bande di “ottoni” da diversi paesi europei. E poi, cordoni di famiglie che occupano la casa, con i centri sociali che le proteggono; centinaia di lavoratori di colore; forte presenza dei sindacati di base, di anarchici, pacifisti, ambientalisti, animalisti (che nel movimento No-expò hanno un punto di forza), degli Lgbt e dei partitini della sinistra, questa volta ammessi insegne e bandiere. Striscioni, cartelli e slogan documentavano una cultura che sta imparando a connettere lavoro, reddito, casa, salute, accoglienza con la difesa del clima, del suolo, della democrazia, della pace e contro debito, speculazione edilizia, corruzione e mafia: tutti temi presenti non come mere enunciazioni, ma sulle gambe delle migliaia di persone in carne e ossa che hanno partecipato al corteo con un bersaglio comune nell’Expò e in ciò che rappresenta: un concentrato delle nefandezze della società in cui viviamo. Un “grande evento” che pretende di combatter lo spreco ma fatto di sprechi di suolo, di materiali, di denaro, di occasioni; e di sfruttamento del lavoro in ogni forma.

Quel corteo, indipendentemente dai suoi esiti, ha messo in chiaro che in gioco non c’è solo un grande evento di cui si poteva benissimo fare a meno – come in gioco in Val di Susa non c’è solo “un treno”, come pretende Bersani, e a Venezia non solo grandi navi e Mose – bensì uno scontro di culture, di visioni, di modi opposti di considerare lavoro, territorio, città, denaro, diritti e dignità della persona. Che è la ragione per cui la Valle di Susa resiste da oltre vent’anni e ha costruito intorno a questa resistenza gli embrioni di un modo radicalmente alternativo di vivere i rapporti con gli altri: quel “partiamo insieme e torniamo insieme” che vale in tutti i campi e non solo nelle manifestazioni. Chi critica i No-expo perché si limiterebbero a un rifiuto invece di proporre contenuti positivi – oppure, pura ipocrisia, ne denuncia l’inutilità perché “tanto ormai l’Expò si fa” – non solo dimostra di non capire qual è la posta in gioco. Ma anche di non interessarsi a quanto il movimento, nelle sue varie articolazioni, ha prodotto in ben otto anni. O, peggio, di voler nascondere con un pretesto la subalternità alla Giunta Pisapia e ai partiti che la sostengono, che alle sue false promesse dell’Expò hanno sacrificato il programma che li ha portati al governo della città.

Poi - cioè dopo - ci sono le devastazioni che hanno accompagnato il corteo. Inaccettabili: hanno messo a rischio incolumità, beni e lavoro di chi le ha subite; ma soprattutto hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo. Nonostante la grancassa che ha preceduto e accompagnato l’inaugurazione dell’Expò, nelle ultime settimane, media e stampa nazionali, andavano moltiplicandone le critiche, in gran parte con i temi agitati dai No-expò.

In realtà non è successo molto più di quanto accaduto poche settimane fa a Francoforte, durante Blockupy BCE, o altrove: poche centinaia di ragazze e ragazzi (non pochissimi, quindi) hanno usato un appuntamento del movimento impadronendosi della scena con una prova di forza: un rito idiota e ripetitivo, per richiamare l’attenzione su di sé; ma un rito a cui è difficile sfuggire a meno di rinunciare a manifestare. Indubbiamente concorrono all’esito di aggressioni come questa sia il rilievo che viene dato loro, spesso prima ancora che abbiano luogo, in un’attesa che ne moltiplica le potenzialità distruttive, sia il comportamento delle forze dell’ordine: che a volte ne duplicano gli effetti con dosi sproporzionate di violenza; a volte, impegnate più a filmare che a contenere i danni (e magari anche a dare una mano…), come a Milano, lasciano campo libero al vandalismo, purché “confinato” in uno spazio limitato.
Lo hanno ammesso sia il Questore che il Sindaco di Milano – “è solo un chilometro e mezzo; Milano è molto più grande” – cui premeva soprattutto salvaguardare gli accessi all’Expò e alla Scala. Va anche detto che quel vandalismo senza obiettivi se non quello di rimarcare la propria presenza, imponendosi con violenza a chi è lì per tutt’altri fini e con tutt’altro spirito, ha il suo modello nelle tifoserie che le autorità italiane si guardano bene dal combattere (come hanno fatto invece molti Governi di altri paesi) e che i padroni del calcio si adoperano a sostenere (nascondendo poi la mano quando il casino supera certi limiti). Niente di strano, quindi, se qualcuno esporta questi metodi in campo “politico”.

E tuttavia, fermo restando che le responsabilità vanno cercate anche altrove, non si può tacere la contiguità tra chi scende in piazza per raccogliere consensi e far crescere tra mille difficoltà un movimento contro oppressione e sfruttamento e chi invece di questi sforzi, costati anni di lavoro, abusa: non solo con prove di forza, che a volte sono necessarie, ma fregandosene sia dell’incolumità che delle finalità dei manifestanti con cui si mescola. Quella contiguità è data dalla condivisione di un generico antagonismo - vissuto ovviamente in maniera diversa, e anche opposta, ma con molte sfumature intermedie - nei confronti dello “stato di cose presente”.

Un orizzonte comune che non può essere rinnegato, pena la perdita della ragion d’essere del proprio impegno, ma anche della possibilità del coinvolgimento in una prospettiva diversa. Anzi, quell’orizzonte comune va valorizzato, perché non è con le prediche, ma solo con la capacità di riconoscersi partecipi di una condizione comune che si può volgerlo a beneficio di tutti. Dietro quel vandalismo c’è la rabbia impotente di chi non cerca più – o non ha mai cercato - una via di uscita condivisa per sé e per i propri compagni di vita. Di chi non vede nella città un’arena per battaglie più vere della riproposizione di scontri spettacolari senza futuro. Di chi si appaga del protagonismo offerto per qualche giorno da quotidiani e media. Di chi avverte che la competitizione di tutti contro tutti alla base di questa società non ha niente da offrirgli e non vede la possibilità di una strada diversa fondata sulla solidarietà con nuovi compagni di lotta.
In questo – e solo in questo – è difficile dar loro torto: da anni le frustrazioni di chi lavora per costruire e allargare un fronte comune di lotta non si contano più (e non spostano di una virgola gli equilibri del potere); mentre a bloccare la prospettiva di un modo diverso concorrono, giorno per giorno, le continue frammentazioni politiche; e, a scadenze diluite, le esplosioni di vandalismo (ho in mente il 15.10.2011 – cinque anni fa! - quando un’acampada come quelle spagnole era stata soffocata sul nascere). Per questo “prendere le distanze” non basta, anche se è d’obbligo. Né servono i servizi d’ordine, che un movimento disperso non è più in grado di organizzare; né gli ostracismi, che nessuno può far rispettare; né tante mamme di Baltimora, anche perché molti di quei vandali sono già “grandi”. Ci vogliono iniziative più profonde, più unitarie, più coinvolgenti.

Apartheid nella "civilissima" Europa. Una cronaca di Vladimiro Polchi e un commento di Michele Serra sul gravissimo episodio avvenuto ieri ai confini italiani, con la complicità dei nostri.

La Repubblica, 1° maggio 2015

“LACACCIA AL NERO È UNO SCANDALO
I PROFUGHI SIANO LIBERI DI VARCARE IL CONFINE”

di Vladimiro Polchi

«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».

Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.

È una vicenda preoccupante. I controlli ci sono sempre stati, ora si è superata la misura. L’Europa dimostra la sua incapacità nel gestire un fenomeno che non può rimanere solo italiano. Il nostro governo deve attivarsi con quello austriaco per fermare la caccia allo straniero». Va giù duro anche Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati: «Questa è una storia incredibile. La sostanza è sempre la stessa: sono responsabili la polizia italiana e l’Europa, che preme sul nostro Paese per non far uscire gli immigrati, in applicazione del sistema di Dublino che impedisce la circolazione dei rifugiati. Ma sono le modalità nuove e incivili a stupire: ricordano il 1937. E attenzione, non accade solo sui treni. Mi è capitato di assistere a controlli basati sul colore della pelle anche di ritorno da Algeri. I passeggeri africani venivano controllati sulla pista, appena scesi dall’aereo, senza neppure farli entrare nel terminal.
Si sta diffondendo una cultura di chiusura. L’Europa deve permettere la libera circolazione di chi scappa dalle guerre». Hein chiede due interventi urgenti: «Il ministero dell’Interno deve impartire istruzioni affinché cessino questi controlli. E l’Italia deve chiedere al Consiglio europeo di superare le rigidità di Dublino». A essersi già rivolto al Viminale è Khalid Chaouki (Pd) coordinatore dell’intergruppo parlamentare sull’immigrazione: «Ciò che sta accadendo al confine con l’Austria è una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile. Ho sentito informalmente il ministero dell’Interno. Non ci possono essere controlli su base etnica. I Paesi europei stanno dando il peggio di sé, non rispettando neppure gli impegni di collaborazione presi a Bruxelles. L’Italia non può fare il guardiano dei rifugiati. Credo che quello che sta avvenendo alla frontiera debba spingerci ad aprire un fronte di crisi diplomatica con alcuni Paesi confinanti». Critico anche Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Molti migranti che arrivano in Italia via mare vogliono ricongiungersi con i propri familiari residenti in altri Stati Ue. Sarebbe opportuno prevedere un approccio all’accoglienza di queste persone a livello europeo, per evitare che diventino vittime dei trafficanti anche all’interno dell’Unione».

LA VERGOGNA DI QUEI TRENI
CON I NERI DIVISI DAI BIANCHI
di Michele Serra
L’UOMO bianco può salire sul treno. L’uomo nero no. Il criterio è il colore della pelle, una forma di identificazione a vista che più primitiva, più rude, più discriminante non ce n’è. Lo raccontava ieri un reportage di Jenner Meletti dalla stazione di Bolzano.

Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.

Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.

Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.

Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.

«Se l’obiettivo del Jobs Act era quello di stabilizzare e ampliare l’occupazione, si può dire che non è stato raggiunto», dice Serena Sorrentino, segreteria confederale della Cgil, classe 1978, napoletana, sindacalista da sempre. A 23 anni segretaria della Camera del lavoro di Napoli, nel 2010 al vertice nazionale, prima con Guglielmo Epifani poi con Susanna Camusso che — si dice — la consideri la sua delfina. Oggi è “il ministro del lavoro” della Cgil.

Sorrentino, non è un po’ presto per fare un bilancio della riforma del lavoro?
«Ma è lo stesso governo nel Def, il Documento di economica e finanza, a non vedere alcun impatto positivo della riforma sul mercato del lavoro: nel prossimo triennio secondo le stime del governo la disoccupazione scenderà intorno all’11 per cento e il tasso di occupazione resterà sotto il 60 per cento. Ci sarà molto turnover, si assisterà ad una accelerazione del tasso di sostituzione dai contratti più precari al nuovo contratto a tutele crescenti».

Anche questo, tuttavia, era uno degli obiettivi della riforma.
«È la strategia ad essere sbagliata. L’Italia ha una crisi da domanda aggregata. In questi casi serve una mobilitazione degli investimenti per far ripartire la produzione, i consumi e quindi aumentare la base occupazionale nei settori innovativi quelli che possono generare altro lavoro. Servono politiche attive per il lavoro per incrociare domanda e offerta di lavoro puntando a qualificare quest’ultima».
Lei propone di far ripartire gli investimenti pubblici, ma dove si trovano le risorse?
«Si possono utilizzare diversamente le risorse della Cassa depositi e prestiti, si possono indirizzare i Fondi pensionistici complementari a investire nelle imprese che abbiano piani di sviluppo per l’innovazione e l’occupazione. Ci sono i Fondi strutturali europei. Sono le tre gambe di una politica industriale che sceglie di competere sulla fascia alta della produzione».

La Cgil ha rinunciato alla proposta della patrimoniale?
«No. Proponiamo l’introduzione di una patrimoniale sulle grandi ricchezze anche per ripristinare il principio di progressività nella tassazione visto che oggi il carico fiscale è sostenuto in prevalenza da chi ha un reddito fisso».

Quanti miliardi pensate di ricavare dalla patrimoniale?
«Si possono recuperare 10 miliardi l’anno ».

Tassando quali patrimoni?
«Proponiamo di tassare con un’aliquota progressiva i redditi eccedenti i 35

Il governo ha scelto un’altra strada. Ha incentivato dal punto di vista fiscale e contributivo le assunzioni a tempo indeterminato. Perché secondo lei le imprese non stanno assumendo?
«Le imprese stanno sostituendo manodopera. Il governo ha introdotto gli incentivi, tra l’altro pagati dalla fiscalità generale cioè da tutti noi, senza condizioni».

Lei a cosa li avrebbe condizionati?
«All’aumento dell’occupazione. È sbagliata un’operazione di liquidità di tale portata senza alcuna selettività. Le imprese possono assumere pagando meno, possono licenziare senza vincoli, possono demansionare i lavoratori: questo è davvero il cambiamento del paradigma del nostro diritto del lavoro. Non era mai successo che si rafforzasse così proprio la parte che è già più forte nel rapporto di lavoro ».

Dice il ministro Poletti che comunque ci sono anche segnali positivi, tra i quali il prevedibile ritorno al lavoro dei cassintegrati visto il calo del ricorso alla cassa. Condivide questa lettura?

«No. Sta calando il ricorso alla cassa integrazione in deroga semplicemente perché non è stata rifinanziata».
La rilettura. Stralcio di un libro che dopo 20 anni è ancora di bruciante attualità. Almeno per chi vuole uscire dalla crisi: "L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali".

Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla

Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995

In una con­fe­renza sulle “Pro­spet­tive eco­no­mi­che per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John May­nard Key­nes affer­mava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo pro­blema eco­no­mico (…). Nei ses­san­ta­cin­que anni pas­sati da allora l’umanità non si è mossa nella dire­zione della libertà dal biso­gno, della libe­ra­zione dalla neces­sità di ven­dersi in cam­bio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Key­nes ha cer­cato di scio­gliere siamo pas­sati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce ano­ma­lia della disoc­cu­pa­zione in un mondo pieno di biso­gni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla pro­li­fe­ra­zione immane delle merci e alla cre­scita della disoc­cu­pa­zione si accom­pa­gnano vec­chie e nuove povertà, guerre fra poveri e un gene­rale imbar­ba­ri­mento dei rap­porti mate­riali dell’esistenza. La teo­ria eco­no­mica e l’arte del governo non sanno spie­gare né vogliono risol­vere il pro­blema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoc­cu­pa­zione ha oggi carat­tere strut­tu­rale, ha ori­gine nelle forme attuali del cam­bia­mento tec­no­lo­gico e orga­niz­za­tivo, ed è ten­den­zial­mente irre­ver­si­bile. Nel ragio­na­mento seguente sostengo che la fama­co­pea orto­dossa non ha medi­ca­menti che pos­sano risol­vere o almeno lenire la nuova forma della malat­tia cro­nica del capi­tale, la con­trad­di­zione tra spreco e penu­ria. Occorre cer­care anche altrove, fuori da una logica esclu­si­va­mente mer­can­tile. Occorre met­tere in moto lavori con­creti, essen­zial­mente lavori di cura delle per­sone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)

postilla

Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.

Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza. Ci vuole coraggio e testardaggine per parlarne in questi tempi oscuri di odi religiosi, etnici e culturali. Intercultura ne ha fatto addirittura l’oggetto del convegno “Saper vivere insieme” (Trento, 1-3 maggio, in occasione del centenario dell’Afs, che di Intercultura è madre) fondato su una quindicina di workshop in cui i relatori spiegheranno come stare insieme tra diversi è, è stato e sarà possibile. O come la differenza possa essere valore positivo anche in questo strano mondo in cui la tecnologia ci ha avvicinato come mai prima e, forse, questa ipervicinanza ci spaventa e crea mostri della mente e mostruose ideologie di morte e paura.

Roberto Toscano, una vita da ambasciatore (India e Iran), ora presidente della Fondazione Intercultura, spiega così la genesi di questa scelta: «Lo so che parlare di questi temi è molto difficile. Ma non è mai stato così urgente. Oggi, la capacità interculturale è un dato di sopravvivenza per la società». Mettere insieme convivenza e diversità è apparentemente facile. Gli italiani, 50 anni fa, quando vedere una persona di colore in giro per le strade di una nostra città era molto raro, pensavano che il razzismo non li riguardasse: «Oggi», dice Toscano, «la tensione è inevitabile. Ma indietro non si può tornare. E neanche i modelli utilizzati in altri Paesi, dall’assimilazione francese alla multiculturalità inglese sembrano funzionare». I francesi hanno promesso cittadinanza e pari opportunità a tutti: «E adesso, davanti alle promesse mancate, si trovano a fare i conti con le giovani generazioni di origine magrebina che cercano risposte nel ritorno alle tradizioni religiose estremizzate».

Gli inglesi hanno inventato la multiculturalità, “ognuno sta qui come vuole”: «Ma anche la multiculturalità è fallita», prosegue Toscano. «La strada è quella di riconoscere, attraverso il dialogo e lo scambio continui, il valore positivo della diversità. È già successo. Non è la prima volta che arrivano i barbari, gli arabi, i greci. Noi tutti siamo frutto di diversi meticciati».

Così il convegno esaminerà il complesso tema della convivenza dopo il conflitto a partire da esperienze come quelle irlandese, sudafricana, basca, dove le lacerazioni sono state profonde, ma la ricucitura, a poco a poco, c’è stata ed è ancora in corso. «Così, nell’anno del centenario, Intercultura torna alle sue origini. Non siamo in campo per insegnare le lingue ai ragazzi, ma per mettere i semi di una convivenza in cui s’impara dall’altro, in cui si restituisce una faccia al prossimo e si mettono da parte le categorie stereotipate».

Allora da che parte cominciare nel conflitto Occidente - Islam radicale? «Cominciamo col non farci coinvolgere nell’idea di un conflitto di civiltà. Io mi sento più vicino a un moderato islamico che a un razzista nostrano. Non c’entrano neanche le religioni. Tutte, prima o poi hanno prodotto versioni violente di se stesse. E i giovani che scelgono la Jihad sanno poco di religione e cercano solo identità forti. Quelle su cui si basano tutte le utopie reazionarie: madri patrie, nazionalismi, purezze etniche… ». Qualcuno studia da decenni le strade per la gestione non violenta del conflitto. Come Pat Patfoort, antropologa fiamminga che a Trento gestirà un panel dedicato al modello “Maggiore-minore-equivalente” da lei elaborato per sanare i conflitti (da quelli personali a quelli internazionali). In sintesi, il modello “maggiore/ minore” è quello tipico che porta a scontri e guerre. Quando abbiamo un problema (o quando un popolo ha un problema) spesso è portato a identificare il colpevole in una persona o gruppo i cui comportamenti e modi di pensare vengono etichettati come negativi o sbagliati: antisociali, primitivi, sottosviluppati. Portare un popolo al conflitto contro questi gruppi identificati come capri espiatori, non è difficile. Storia e cronaca sono piene di esempi. Per uscire da questo schema, Patfoort costruisce il modello dell’equivalenza. Spesso sono i terzi “pacificatori” a doverlo mettere in campo. È il modello dell’equivalenza in cui si evita di identificare buoni e cattivi ma si guarda a entrambe le parti, alle loro ragioni e al loro dolore. E ciò che accade non viene attribuito alla cattiveria di una delle parti, ma emerge come frutto dell’escalation dei fatti.

Certo, nei conflitti attuali non è facile che le parti si dispongano facilmente a cambiare modello. «Non importa chi comincia », spiega Pat Patfoort. «È sufficiente che una delle due si muova in quella direzione. In Belgio ci sono gruppi moderati islamici che si sono dati il compito di spiegare che l’Islam non è quello disegnato dall’estremismo ». Un lavoro da fare in profondità ma che può, anzi deve, partire dalle persone, dalle famiglie, dal “mio villaggio”: «Dobbiamo cominciare da noi stessi per imparare a riconoscere che gli altri hanno padri e fratelli come noi». Insomma, un cambio di mentalità non facile da ottenere, ma la sfida può essere affrontata.

Il manifesto, 30 aprile 2015

«Il primo voto passa con 352 sì, 38 dem non rispondono. La minoranza esplode. Ex bersaniani divisi in due, nasce un’altra minoranza. Stumpo: "Fuori di qui si sappia: non diremo sempre sì". Renzi vince, ma ora le riforme ballano. I dissenzienti sono i ’no-jobs act’ più Epifani, Bersani e Speranza. Ariaccia nel Pd, martedì finale a voto segreto»
Il display con scritto «Ber­sani non risponde», le mani che tre­mano al gio­va­nis­simo Enzo Lat­tuca men­tre annun­cia un dolo­ro­sis­simo sì «avendo coscienza di come rap­pre­senti una scon­fitta, poli­tica ed isti­tu­zio­nale, per­so­nale e col­let­tiva», il «peso sul cuore» di Bar­bara Pol­la­strini, il voto con il lutto al brac­cio di Sel, quello con un libro di Dos­setti di Giu­lio Mar­con, la dichia­ra­zione solenne in aula di Guglielmo Epi­fani: «Parigi val bene una messa, ma fini giu­sti impli­cano mezzi giu­sti. Con dispia­cere, io e altri, non par­te­ci­pe­remo al voto».
Sono i flash della prima gior­nata del refe­ren­dum su Renzi, così lui stesso ha voluto pre­sen­tare le tre fidu­cie all’Italicum. La prima fini­sce con 352 sì, 207 no e un astenuto.Per la mini­stra Boschi i numeri sono «in linea con le pre­ce­denti fiducie»m per il vice­ca­po­gruppo Rosato sono «un ottimo risul­tato». In realtà aveva detto che i no si sareb­bero con­tati su una mano. E infatti la noti­zia è che il dis­senso dem batte un colpo: 38 i depu­tati non par­te­ci­pano al voto. Tra loro ci sono gli ex segre­tari Ber­sani ed Epi­fani, l’ex pre­mier Letta, gli ex pre­si­denti Pd Bindi e Cuperlo, l’ex capo­gruppo Spe­ranza. Gli altri: Roberta Ago­stini, Albini, Bossa, Bruno Bos­sio, Capo­di­casa, Cim­bro, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fab­bri, Farina, Folino, Fon­ta­nelli, Fos­sati, Galli, Gior­gis, Gnec­chi, Gre­gori, Lafor­gia, Leva, Mae­stri, Mali­sani, Meloni, Miotto, Mugnato, Murer, Pic­colo, Pol­la­strini, Stumpo, Vac­caro, Zap­pulla, Zog­gia.

Tutti, all’unisono, hanno votato «non con­tro il governo ma con­tro una fidu­cia che non doveva essere appo­sta». I boa­tos del Tran­sa­tlan­tico li descri­vono come un mani­polo mano­vrato da D’Alema, che in una famosa riu­nione romana aveva invi­tato la mino­ranza «a muo­versi con coe­renza e defi­nire i punti inva­li­ca­bili con asso­luta intran­si­genza», e poi «asse­stare colpi». Il colpo è arri­vato. Ma fra i gio­vani che non votano c’è chi di stra­te­ghi della ’vec­chia guar­dia’ non vuole sen­tir par­lare. Come Nico Stumpo: «Area rifor­mi­sta è nata sul bino­mio respon­sa­bi­lità e auto­no­mia. Ma respon­sa­bi­lità è anche far sapere fuori dal palazzo che mino­ranza non signi­fica dire sem­pre sì. Oggi i Pd è Renzi, domani sarà Roberto Speranza».

È il pre­an­nun­cio di una bat­ta­glia con­gres­suale? «Se Renzi anti­cipa il con­gresso pren­diamo il 3 per cento e siamo morti», sbotta un depu­tato che ha votato sì. La verità è che area rifor­mi­sta, cioè quel che resta del pac­cone di mischia ber­sa­niano (e di cui Stumpo stesso è il coor­di­na­tore) di fatto non esi­ste più. Mar­tedì, dopo un liti­gio andato avanti fino alle due di notte, la cor­rente si è spac­cata. Ieri, a pochi minuti dal voto, in cin­quanta hanno annun­ciato un docu­mento con il solito ’sì nono­stante tutto’. «Non diven­terò ren­ziano, ma non ho capito la scelta del no dov’è matu­rata. Qual­cuno fa riu­nioni e poi pre­tende di dare la linea?», chiede il romano Marco Mic­coli. Quelli che hanno votato no, accu­sati di «estre­mi­smo», ora rego­lano i conti: «Da oggi le mino­ranze con­gres­suali non esi­stono più.

Da oggi c’è una mino­ranza, che non dice sem­pre sì, che si è già distinta nel jobs act, e che sull’Italicum man­tiene fede ai prin­cipi del Pd», annun­cia Ste­fano Fas­sina, più disteso dopo giorni di buio pesto. Alla scis­sione non pensa nes­suno, tranne Civati che ogni giorno rac­conta il suo tra­va­glio tra restare o andare. Cuperlo, che nel voto ha perso qual­che depu­tato dei pochi suoi, è gra­ni­tico: «Resto. Ma rivolgo un appello ulte­riore a Renzi. Un campo non va mai diviso, un par­tito non va mai spez­zato». Né scis­sione dun­que, né gruppo auto­nomo, di cui pure si era par­lato. Ma il pro­blema resta: «Al senato già 24 dem non hanno votato l’Italicum. Dispiace che nes­suno se ne sia accorto, ma il Pd era già spac­cato allora e l’esecutivo aveva una mag­gio­ranza solo in outsour­cing», ricorda Civati. Ora la vita delle riforme costi­tu­zio­nali dipende da quei 24 voti. Non a caso da Palazzo Madama arriva la soli­da­rietà di Miguel Gotor, cen­tra­vanti dei sena­tori dissenzienti.

Insomma Renzi ha vinto, ma il rischio è che sia una vit­to­ria di Pirro. Il motivo che lo ha spinto a met­tere la fidu­cia sull’Italicum ora è evi­dente: «Senza la fidu­cia e con i voti segreti il pre­mio alla lista sarebbe sal­tato. Sareb­bero tor­nate le coa­li­zioni, con gli zero vir­gola che det­tano legge alle mag­gio­ranze. E noi con quella sto­ria abbiamo chiuso», spiega un diri­gente di rango. Nel Pd il clima è pesante. Ricu­cire sem­bra una mis­sione impos­si­bile, soprat­tutto per­ché Renzi fin qui anzi ha cer­cato lo scon­tro con la mino­ranza. «Lo strappo lo ha fatto lui, ora la mossa spetta a lui», sospira Danilo Leva.


Il pre­si­dente Mat­teo Orfini non ci sta: «Que­sta dram­ma­tiz­za­zione è un errore. Ma non ci fac­ciano lezioni di demo­cra­zia quelli che ci hanno fatto votare la fidu­cia senza discus­sione al governo con Ber­lu­sconi o a un mini­stro non pro­pria­mente difen­di­bile come la Can­cel­lieri. È incom­pren­si­bile che i diri­genti che gui­da­vano il par­tito in quella fase, non votino la fidu­cia. Ora mi auguro che nelle pros­sime ore pre­valga il buon­senso. Oltre­tutto non si può affer­mare che la demo­cra­zia è in peri­colo per­ché ci sono 100 col­legi anzi­ché 80». Non è pre­ci­sa­mente un’offerta di pace. Oggi alla camera gli altri due voti di fidu­cia. Mar­tedì gran finale, con il voto segreto sulla legge. Qui il dis­senso annun­ciato sarebbe più ampio dei 38 di ieri
La dura critica al progetto Renzi da un costituzionalista d'ispirazione liberale. «La governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla».

Corriere della Sera, 30 aprile 2015

Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.

Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale . L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra.
Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente.
Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri - su cui insiste, per esempio, D’Alimonte - è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.
sessione plenaria del Parlamento europeo, Strasburgo, 29 aprile 2015. Comunicato stampa.

Barbara Spinelli, eurodeputata del Gue-Ngl, si è rivolta al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, invitati a presentare le posizioni della Commissione e i risultati del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso. Il tema della sessione era: "Le ultime tragedie nel Mediterraneo e le politiche dell’Unione su migrazione e asilo".
Accuso il Consiglio, i governi degli Stati membri, la Commissione. Ormai è chiaro: siete direttamente responsabili del crimine commesso ai danni dei migranti in fuga dalle guerre che l’Europa ha facilitato, dalle persecuzioni che ha tollerato. Dopo gli 800 morti del 19 aprile, anche l’Unione fa naufragio: nell’ipocrisia, nella negazione, nella cecità.
L'Unione dichiara la lotta contro trafficanti, fingendo di credere che siano loro i soli responsabili di tanti morti. Non sono i soli responsabili. Le morti si susseguono perché non esistono corridoi umanitari legali per i fuggitivi. Perché avete abolito Mare nostrum, che faceva Ricerca e Salvataggio in alto mare; perché continuate a finanziare operazioni - Triton, Poseidon – il cui mandato prioritario è il controllo delle frontiere, non il soccorso dei naufraghi.

La ringrazio, signor Juncker, per le parole che ha pronunciato oggi in quest'aula; ma “le porte” d'Europa non sono state aperte. Nel desiderio di sbarazzarvi delle vostre responsabilità, arrivate sino ad auspicare – cito il Commissario Avramopoulos – la “collaborazione con le dittature”: quella eritrea in testa, la più sanguinaria dittatura d’Africa.

La verità è che state violando, proprio come i trafficanti, la legge: il diritto del mare, del non-respingimento. Mi domando se sapete - se sappiamo noi qui in Parlamento - quel che si sta facendo: una guerra non dichiarata. Non contro i trafficanti, ma contro i migranti.

Subito dopo, il Parlamento ha approvato una risoluzione congiunta sullo stesso tema. Il gruppo Gue-Ngl si è astenuto, non avendo ottenuto progressi sostanziali su istituzione di un corridoio umanitario e revisione del regolamento di Dublino. In cambio sono stati accolti alcuni emendamenti importanti del Gue e dei Verdi, che hanno migliorato la risoluzione per quanto riguarda le operazioni di Search & Rescue in alto mare e la concessione agevolata di visti umanitari.

Il manifesto, 29 gennaio 2015

DEMOCRAZIAITALICUM,
PRENDERE O LASCIARE

di Andrea Fabozzi

La fidu­cia come riven­di­ca­zione: «È arri­vato il momento di fare sul serio». Ma la fidu­cia anche come scelta tat­tica. I primi voti sull’Italicum avreb­bero dovuto ras­si­cu­rare Mat­teo Renzi. Meglio lo scru­ti­nio segreto che quello palese. Le pre­giu­di­ziali supe­rate con 175 e 177 voti di mar­gine, la que­stione sospen­siva con 163. Numeri che garan­ti­vano una rela­tiva tran­quil­lità. Alla mag­gio­ranza sono man­cati non più di una ven­tina di voti, per rischiare di andar sotto sugli emen­da­menti avrebbe dovuto per­derne quat­tro volte tanti. Eppure Renzi al voto sugli emen­da­menti non ci vuole andare. Non ammette la pos­si­bi­lità che venga modi­fi­cata la legge elet­to­rale, cri­stal­liz­zata tre mesi fa al senato nell’ultimo atto del patto del Naza­reno. Il pas­sag­gio - defi­ni­tivo - alla camera può essere solo un pren­dere o lasciare. In com­mis­sione, depu­tati dis­si­denti sosti­tuiti. In aula, emen­da­menti can­cel­lati con la fidu­cia. «Non c’è cosa più demo­cra­tica», dice a sera il pre­si­dente del Con­si­glio in tele­vi­sione. O con me o con­tro di me.

Il rischio di essere bat­tuto nel voto segreto era basso, molto basso, ma non ine­si­stente. Dei cento emen­da­menti, quin­dici erano quelli poten­zial­mente peri­co­losi per­ché fir­mati dalle mino­ranze Pd. Pro­po­ne­vano di can­cel­lare le plu­ri­can­di­da­ture, intro­durre le pri­ma­rie per legge, pre­ve­dere un quo­rum minimo di par­te­ci­panti per asse­gnare il pre­mio al bal­lot­tag­gio, limi­tare la quota dei nomi­nati rispetto agli eletti con le pre­fe­renze, sot­trarre ai pluri-eletti la pos­si­bi­lità di sce­gliere per quale col­le­gio optare, abo­lire l’indicazione del capo della coa­li­zione.

Ma erano soprat­tutto due quelli che pre­oc­cu­pa­vano il pre­si­dente del Con­si­glio e le sue sen­ti­nelle alla camera. Uno fir­mato da Rosy Bindi con il quale si sarebbe ripri­sti­nata la pos­si­bi­lità di appa­ren­ta­mento al secondo turno, un altro fir­mato da Alfredo D’Attorre con il quale si legava l’entrata in vigore dell’Italicum all’approvazione della riforma costi­tu­zio­nale. Emen­da­menti simili erano stati pre­sen­tati anche dai leghi­sti e dai for­zi­sti, ed erano que­ste la posi­zione ori­gi­na­rie delle liste cen­tri­ste alleate del pre­mier. Renzi ha deciso di non rischiare. Affron­terà un solo voto segreto, l’unico che non può pro­prio evi­tare, che però è il meno insi­dioso in asso­luto. Se far pas­sare un emen­da­mento avrebbe infatti signi­fi­cato far tor­nare al senato una legge che in fondo non è urgen­tis­sima — non sarà uti­liz­za­bile prima della fine dell’anno pros­simo — dire no all’ultimo pas­sag­gio signi­fi­che­rebbe ucci­dere per sem­pre l’Italicum. E con l’Italicum il governo. Anche l’ultimo voto, rin­viato a mag­gio, sarà un voto di fiducia.

La pre­si­dente della camera aveva avver­tito già da qual­che giorno i gruppi che l’eventuale richie­sta di fidu­cia sarebbe stata dichia­rata ammis­si­bile. Facen­dola cioè pre­va­lere sul diritto della mino­ranza a chie­dere il voto segreto sulla legge elet­to­rale. Bol­drini, in un’aula imme­dia­ta­mente accesa dalle pro­te­ste, ha risolto la que­stione spie­gando che anche la solu­zione oppo­sta, cioè esclu­dere la fidu­cia quando è pos­si­bile lo scru­ti­nio segreto, «può avere una sua logica». Ma per­ché sia pra­ti­ca­bile, ha deciso, biso­gnerà aspet­tare che venga modi­fi­cato il rego­la­mento. E allora i voti segreti sull’Italicum saranno tre, uno per ogni arti­colo che com­pone la legge con l’eccezione dell’articolo 3. La spie­ga­zione è sem­plice: su quell’articolo non ci sono emendamenti.

Ammessa la fidu­cia, la pre­si­denza della camera ha con­cesso un con­ten­tino alle mino­ranze che somi­glia molto alla clas­sica beffa. Il «lodo Iotti», con il quale dal 1980 viene lasciata la pos­si­bi­lità ai pre­sen­ta­tori degli emen­da­menti e solo a loro di illu­strare (per 30 minuti) le pro­po­ste di modi­fica, anche sapendo che non saranno messe in vota­zione pro­prio per­ché è stata chie­sta la fidu­cia. In que­sto caso è una beffa, per­ché abi­tual­mente l’unico obiet­tivo degli inter­venti a vuoto è quello di allun­gare i tempi dell’approvazione finale della legge. Il «lodo» è stato appunto inven­tato durante la con­ver­sione di un decreto legge, e da allora ha rap­pre­sen­tato lo scotto da pagare per un governo che chiede subito la fidu­cia per­ché ha un decreto che rischia di sca­dere. L’Italicum non è un decreto ed è urgente solo per­ché così lo pre­senta Renzi. Ieri pome­rig­gio, dopo i primi inter­venti, le oppo­si­zioni hanno capito l’inutilità di inter­ve­nire su emen­da­menti che il governo non farà votare. E la seduta della camera di que­sta mat­tina è stata addi­rit­tura can­cel­lata. Si parte subito con il primo refe­ren­dum sul governo, alle 13.45, poi nel pome­rig­gio gli altri due. Sì o no, «non c’è cosa più democratica»

CELODURISMO RENZIANO
di Norma Rangeri

Sarà pure in ballo la demo­cra­zia, come dice un Ber­sani affranto dalla sor­presa annun­ciata del voto di fidu­cia sulla legge elet­to­rale. Tutto sta a met­tersi d’accordo sull’inizio di que­sta danza maca­bra attorno alle regole della nostra con­vi­venza politica.

Come soste­niamo da tempo, la demo­cra­zia non viene né improv­vi­sa­mente sfi­gu­rata, né pesan­te­mente umi­liata solo in rife­ri­mento alla legge elet­to­rale e alla riforma costi­tu­zio­nale. Al con­tra­rio, la mano­mis­sione degli assetti isti­tu­zio­nali della repub­blica par­la­men­tare rap­pre­senta solo un approdo. Una lineare con­se­guenza degli anni in cui l’ex segre­ta­rio del Pd par­te­ci­pava al governo Monti per mon­dare la demo­cra­zia delle sco­rie ber­lu­sco­niane. Pec­cato che con l’acqua sporca si stava but­tando via anche l’argine rap­pre­sen­tato dall’idea stessa di un governo eletto, pre­fe­rendo imboc­care la via delle riforme det­tate dai poteri euro­pei. Renzi ha tro­vato la strada in discesa e l’ha per­corsa con piede veloce usando i rap­porti di forza fino alla can­cel­la­zione dello sta­tuto dei lavo­ra­tori, alla ridu­zione del mondo del lavoro a eser­cito di riserva di Confindustria.

Il fatto è che ora, con la deci­sione di met­tere la fidu­cia sull’Italicum, siamo giunti alle bat­tute finali, al con­clu­sivo giro di boa di una navi­ga­zione che fin dall’inizio ha fatto rotta verso l’approdo neo­cen­tri­sta. Se la man­naia della fidu­cia per por­tare a casa rapi­da­mente una legge elet­to­rale rap­pre­senti il pre­lu­dio dell’atto suc­ces­sivo (le ele­zioni anti­ci­pate) lo vedremo. Quello che invece è già chia­ris­simo riguarda la can­cel­la­zione di un’idea di plu­ra­li­smo sociale, poli­tico, istituzionale.

Senza nep­pure sco­mo­dare i fami­ge­rati pre­ce­denti (la legge Acerbo del 1923 e la legge truffa del 1953) basta, e avanza, osser­vare che que­sta fidu­cia è una basto­nata sulla schiena di un par­la­mento già pie­gato e dele­git­ti­mato dall’essere il risul­tato dell’incostituzionale Por­cel­lum. Una basto­nata pre­me­di­tata, vibrata a freddo nono­stante il ras­si­cu­rante lascia­pas­sare otte­nuto nel voto segreto sulle pre­giu­di­ziali di inco­sti­tu­zio­na­lità. A dimo­stra­zione che al fondo della ver­sione ren­ziana di que­sto “celo­du­ri­smo fidu­cia­rio” non c’è tanto il timore di non avere la mag­gio­ranza par­la­men­tare sull’Italicum (natu­ral­mente pos­si­bile ma non pro­ba­bile), quanto la voglia di togliersi di torno i rom­pi­sca­tole della minoranza.

Saranno pure solo una ven­tina quelli decisi a non votar­gli la fidu­cia, ma restano il fasti­dioso con­tral­tare media­tico al lea­der, tanto più mole­sto fin­ché il grup­petto resta den­tro il Pd a sce­neg­giare il dis­senso a ogni dire­zione o festa dell’Unità senza l’Unità. Spa­rare col can­none della fidu­cia al drap­pello degli anti­ren­ziani del Pd è un atto spro­po­si­tato se pro­prio la dismi­sura non fosse il segno di chi scam­bia il potere con il governo.

La Repubblica, 29 aprile 2015

ITALICUM,BATTAGLIA NEL PD E IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA

RENZI: “SE CADO, VADO A CASA”
di Silvio Buzzanca
«A nome del governo, autorizzata dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia... ». Sono le 15 e 24 minuti quando Maria Elena Boschi pronuncia le parole fatali che scatenano la furia di una parte dell’aula di Montecitorio. La richiesta di fiducia, attesa, temuta, alla fine è arrivata. Dopo che i voti della mattinata sembravano avere allontanato l’ipotesi paventata da giorni. Il governo e la maggioranza, infatti, avevano tenuto benissimo nei due voti a scrutinio segreto, voluti da Forza Italia, sulle pregiudiziali di costituzionalità. Respinte con 384 e 385 voti. E bene era andato anche il voto, palese, sulla questione sospensiva, respinta con 369 voti. Invece nel pomeriggio, cogliendo un po’ di sorpresa la minoranza del Pd, arriva la richiesta della Boschi. Il risultato immediato è una nuova divisione dei “dissidenti”. Pier Luigi Bersani, il capogruppo dimissionario Roberto Speranza, gli sfidanti congressuali di Renzi Gianni Cuperlo e Pippo Civati, l’ex premier Enrico Letta e poi Rosy Bindi, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre annunciano che non parteciperanno al voto di fiducia. Perché lo considerano una vera e propria «violenza al Parlamento». Alcuni deputati della sinistra dem li seguiranno, molti altri no. Sel accoglie la fiducia con un lancio di crisantemi, Renato Brunetta con l’accusa di «fascismo renziano». Intanto la presidente Laura Boldrini litiga con tutte le opposizioni sul regolamento e la sua interpretazioni delle regole sulla fiducia e il voto segreto. Alla fine resta ferma sulle sue decisioni e respinge la richiesta di convocare la Giunta per il regolamento. E deve anche alzare più di una volta la voce per tenere a freno i grillini, che intonano il coro “vergogna, vergogna” e impediscono agli altri di parlare. Si sprecano le evocazioni della legge Acerbo e della legge truffa. Matteo Renzi, invece, alla Camera non si fa vedere lasciando la scena alla Boschi.
Affida il suo pensiero a Twitter: «Dopo anni di rinvii noi ci prendiamo le nostre responsabilità in Parlamento e davanti al paese, senza paura», scrive il premier. Che poi passa su Facebook per dire: «Il governo è nato per fare le riforme. Se non vogliono fare le riforme, ce lo dicano e andiamo a casa subito, come prevede la nostra Costituzione.
Questo significa mettere la fiducia. E lo facciamo davanti agli italiani, davanti al Parlamento.». Si manifesta nel web però anche Beppe Grillo che accusa: «La fiducia su Italicum non è normale: è fascismo!». E poi tira in ballo il presidente della Repubblica: «Per lo scempio della legge elettorale — dice — non si avvertono segnali da Mattarella. Dopo i moniti di Napolitano si è passati all’estrema unzione silenziosa del Quirinale. Eia, eia, alalà».

LA PROVA DI DEBOLEZZA
di Ezio Mauro
TRAVESTITA da prova di forza, ieri è andata in scena alla Camera la prima, pubblica e plateale prova di debolezza di Matteo Renzi. Mettere la fiducia sulla legge elettorale è sbagliato sul piano del metodo, perché dimostra l’incapacità di costruire un ampio e sicuro consenso politico su una regola fondamentale, ed è sbagliato soprattutto nel merito perché come diceva lo stesso premier a gennaio — per far accettare l’alleanza con Berlusconi — non si cambia il sistema di voto a colpi di maggioranza, tanto più se quella maggioranza riottosa è tenuta insieme dalla minaccia del voto anticipato.
Perso per strada Berlusconi, Renzi sembra aver perso anche la politica, sostituita da una continua prova muscolare. Che non può però nascondere la rottura evidente tra la sinistra del Pd e il presidente del Consiglio, che è anche segretario del partito.

È contro la minoranza interna, infatti, quel voto di fiducia: che diventa così un attestato di sfiducia reciproca tra Renzi e la sinistra Pd, una sfiducia così forte da finire fuori controllo, fino a una decisione che sfida il Parlamento, ma soprattutto il buon senso. Renzi ha il diritto di portare avanti le sue riforme, anche la legge elettorale, e il Paese ha bisogno di cambiamento. In politica però non conta solo il «quanto», cioè il saldo del voto finale, ma anche il come, vale a dire il percorso, le alleanze, il consenso che si sa costruire.

QUI si porterà a casa la legge, dissipando però il patrimonio accumulato col metodo seguito per l’elezione di Mattarella, che ha fatto per un breve momento del Pd non solo il partito di maggioranza relativa, ma la spina dorsale del sistema politico e istituzionale. Tutto gettato al vento, perché la minoranza continua a considerare Renzi abusivo (mentre ha vinto legittimamente le ultime primarie, così come aveva perso le precedenti) e perché il leader preferisce comandare il suo partito piuttosto che rappresentarlo nel suo insieme.

Così non si va lontano, prigionieri di due mentalità minoritarie. Ma come leader e premier, Renzi ha oggi una responsabilità in più. Può avere i numeri: ma dovrà capire che senza il Pd nel suo insieme, il governo è nudo di fronte a se stesso, perché i partiti sono cultura, valori, storia e tradizione: quel che fa muovere le bandiere. A patto di non usarli come un tram.

Corriere della sera, 29 Aprile, 2015

C’È LA FIDUCIA, PDDIVISO E CAOS IN AULA

RENZI: SE VOGLIONO MI MANDINO A CASA
di Dino Martirano

ROMA Il governo supera in scioltezza alla Camera i primi voti segreti sull’Italicum — con 385 voti, contro 208 dell’opposizione — ma nonostante il successo Matteo Renzi non si fida della sua super-maggioranza e azzera gli altri 80 scrutini segreti sugli emendamenti alla legge elettorale, imponendo al Parlamento tre voti di fiducia su altrettanti articoli del testo.

Dopo l’annuncio del ministro Maria Elena Boschi, in Aula scoppia il caos. Il Pd si spacca e perde la vecchia classe dirigente: Bersani, Epifani, Bindi, Letta, Speranza, Civati. Altri oggi e domani non voteranno la fiducia al premier Renzi e lunedì potrebbero votare contro l’intero testo della legge elettorale. Le opposizioni lanciano crisantemi tra i banchi (Sel), denunciano «il bivacco dei manipoli fascisti di Renzi» (Brunetta di Forza Italia) e tirano per la giacchetta il presidente della Repubblica con l’hashtag #mattarellanonfirmare («L’estrema unzione del Quirinale» secondo Beppe Grillo). Indietro non si torna. E ora «la Camera ha diritto di mandarmi a casa, se vuole: la fiducia serve a questo.

Finché sto qui, provo a cambiare l’Italia», scrive su Twitter il presidente del Consiglio mentre in aula la calma apparente si trasforma urla che si levano soprattutto dai banchi di Sel e del M5S. Che la situazione stia per precipitare lo si capisce dopo il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità presentate da Forza Italia.
Si vota a scrutino segreto ma la maggioranza tiene bene: arrivano 385 voti anche se il capogruppo vicario del Pd Ettore Rosato si aspettava di più. Quota 400 voti rimane lontana e anche i voti extra maggioranza (una ventina tra quelli degli azzurri e degli ex grillini) non compensano le emorragie interne di una parte della minoranza del Pd e di quella attribuita ai centristi (Scelta civica e Popolari per l’Italia). Andrea Giorgis (Pd) non partecipa al voto sulla pregiudiziale di costituzionalità: «Il Paese non ha bisogno di un altro governo né di una legge elettorale che rischia di ripetere gran parte dei vizi del Porcellum».
Invece, gli altri bersaniani votano secondo le indicazioni del gruppo per non dare alibi al governo sulla fiducia. Però l’illusione che Renzi tiri di fioretto dura poco. Una riunione lampo del consiglio dei ministri autorizza la fiducia e dopo una manciata di minuti la ministra Maria Elena Boschi, che per settimane ha usato i «se» e i «ma», recita in Aula la formula di rito: «Autorizzata dal consiglio dei Ministri pongo al questione di fiducia sugli articoli 1, 2 e 4...». Scoppia il caos. Maurizio Bianconi (FI) urla «Fate schifo». Arturo Scotto dà il via e dai banchi di Sel volano crisantemi bianchi e gialli sull’emiciclo: «Deputati di Sel, non si lanciano fiori in aula», si sgola la presidente Boldrini. Renato Brunetta (FI) ripete almeno quattro volte: «Non permetteremo che questa aula sia ridotta a un bivacco di manipoli...». Ignazio La Russa (FdI) dice che al Senato, sull’Italicum c’è stata «una squallida compravendita dei voti...». Ma il caos vero, con tutti i grillini in piedi, scatta quando interviene per il Pd Ettore Rosato che non incassa, anzi scava nella carne viva dell’opposizione: «È il M5S che ci ha chiesto il premio di maggioranza al partito... È Forza Italia che ci ha ripensato dopo aver votato sì al Senato».

Alla fine la presidente Boldrini riesce a condurre in porto una seduta delicata. «Collusa», le urlano i grillini e lei ribatte: «Ne dovrete rispondere». Ma i precedenti sostengono la tesi della presidenza: «Sarebbe arbitrario da parte della presidenza non ammettere il voto di fiducia. Non entro certo nel merito della scelta...». Di Sera al Tg1 Renzi cita De Gasperi e Moro: «Anche loro misero la fiducia sulla legge elettorale».

La fiducia sull’articolo 1 si vota oggi pomeriggio, domani quelle sugli articoli 2 e 4 (il 3 non si tocca perché già approvato da Camera e Senato). Poi, lunedì o martedì, ci sarà il voto segreto sull’intera legge. Se approvato in terza lettura, l’Italicum sarà, come stabilito, legge vigente a partire dal 1° luglio del 2016. A meno che un decreto non ne anticipi l’efficacia.



LA PROVA DEL POTERE
di Antonio Polito

Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.

A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum . La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’ Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».

In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.

Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’ Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.

© 2025 Eddyburg