Ho deciso di prendere le distanze da "L'Altra Europa con Tsipras", nata in occasione delle ultime elezioni europee, e di conseguenza il mio statuto di europarlamentare cambia: sarà quello di Indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl.
In Italia non entrerò in nessun gruppo, se eccettuo la mia militanza nell’associazione Libertà e Giustizia. Non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra, promuovendo o fondando un’ulteriore frazione politica. La mia attività sarà dunque interamente concentrata sulle attività parlamentari europee, con un’attenzione particolare a quello che succede in Italia e in Grecia.
L'Altra Europa nacque come progetto di superamento dei piccoli partiti di sinistra; come conquista di un elettorato deluso sia dal Pd e dal M5S sia dal voto stesso (astensionisti) – dunque un elettorato non esclusivamente “di sinistra” – e come elaborazione di nuove idee su un’Unione ecologicamente vigile, solidale, capace di metter fine alle politiche di austerità e ai nazionalismi xenofobi che esse hanno scatenato.
Ritengo che L’Altra Europa non sia oggi all’altezza di quel progetto: è quanto ho sostenuto assieme a molti ex garanti e militanti della Lista, in una lettera aperta di dissenso indirizzata il 18 aprile a chi la dirige.
In Europa, continuo a essere convinta che l’Unione e l’eurozona vinceranno o si perderanno politicamente – e democraticamente - a seconda di come sarà affrontata e regolata la “questione greca”. Proseguirò le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti.
In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un “Partito della Nazione”, l'ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia. Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia.
La Repubblica, 11 maggio 2015
ESATTAMENTE cinque anni fa, la Grecia di George Papandreou dichiarava bancarotta e chiedeva un piano di salvataggio all’Europa e al Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Dopo cinque anni di austerità, il 25% del Pil in meno, due piani di salvataggio da 240 miliardi, una ristrutturazione del debito pubblico in mano ai privati che ne ha falcidiato il 75% del valore, siamo ancora alle prese con il rischio di default. Prossima data critica: domani, quando scade una rata da 750 milioni al Fmi. Pochi sanno quanti soldi abbia veramente in cassa la Grecia. Se anche bastassero a superare indenni domani, non si arriverebbe comunque alla fine di luglio, quando dovrà aver rimborsato 2,6 miliardi al Fmi, 3,4 alla Bce, e rifinanziato 12 miliardi di titoli di Stato.
Il negoziato con la troika verte a sbloccare l’ultima tranche di 7 miliardi del piano di salvataggio del 2012. Basterebbero a superare l’estate, ma non risolverebbero niente.
SAREBBERO prevalentemente soldi della Troika per rimborsare crediti alla Troika, ma insufficienti a sostenere la Grecia fino al giorno in cui sarà in grado di tornare a finanziarsi autonomamente e stabilmente sul mercato. Un nuovo piano di salvataggio è inevitabile. Ma ancora non si è cominciato a parlarne.
Lo spettro di un default greco, e la probabile uscita dall’euro che ne deriverebbe, non sembrano però preoccupare i mercati: gli spread sul debito degli altri Paesi europei e delle loro banche sono ai minimi degli ultimi anni; i cali di Borsa dei giorni scorsi sono più dovuti ai timori di un rallentamento della ripresa americana e all’aumento dei tassi a lunga negli Usa e in Germania che potrebbe segnare l’inversione di un trend; e l’euro si è addirittura rafforzato. Prevale la convinzione che un accordo fra Grecia e creditori sia probabile, perché nell’interesse di entrambi, al di là delle bellicose dichiarazioni di facciata; e che se anche si arrivasse al default, non ci sarebbe contagio.
Vero: il default è la peggiore alternativa per tutti. In Grecia provocherebbe la corsa agli sportelli e la fuga dei capitali. Dall’inizio della crisi politica che ha portato Tsipras al governo, le banche hanno già perso 28 miliardi di depositi e stanno in piedi grazie alla Bce: a fronte di 220 miliardi di prestiti, hanno un’esposizione di 100 miliardi nei confronti della Banca centrale, a sua volta esposta per un’identica cifra verso la Bce. In caso di default, la Bce difficilmente potrebbe finanziare il sistema bancario greco, che sarebbe costretto a contrarre il credito innescando dissesti a catena. Sarebbe inevitabile imporre limiti ai prelievi dai conti per evitare la bancarotta delle banche; controlli sui movimenti di capitale; e il razionamento delle disponibilità di euro da destinare alle importazioni essenziali. Per pagare stipendi e fornitori, non avendo più fonti di finanziamento, lo Stato dovrebbe emettere cambiali proprie, creando di fatto una moneta parallela, che si deprezzerebbe rapidamente, gettando le basi per il ritorno alla dracma. La svalutazione e i dissesti farebbero crollare ulteriormente il reddito; e non avendo finanziatori, lo Stato non potrebbe neanche metter fine all’austerità. Prima di poter beneficiare dalla svalutazione della moneta, la Grecia subirebbe un’altra dura e prolungata recessione.
Ma la Grexit imporrebbe costi elevati anche ai creditori. In primis alla Germania. Tsipras ha trasformato una trattativa multilaterale coi Paesi europei creditori in uno scontro con la Germania, sulla quale ricadrebbe la responsabilità del default, facendone emergere il ruolo di potenza dominante in Europa. In questo modo la Germania azzererebbe il capitale politico tenacemente accumulato nel dopoguerra attraverso l’adesione a un’integrazione europea tesa proprio a limitare ogni tendenza egemonica tedesca. Dubito pertanto che nel momento cruciale, la Merkel si prenderà la responsabilità di rinnegare il principio che ha guidato tutti i suoi predecessori. Inoltre, per un’Europa già alle prese con l’Ucraina, una Grecia “ortodossa” che scivola verso l’area di influenza russa avrebbe un costo ingente.
Un default greco sarebbe un macigno anche per i conti pubblici europei: oggi tre quarti dei circa 300 miliardi di debito greco gravano, direttamente o indirettamente, sugli Stati europei. Mentre avrebbe un effetto economico risibile per gli investitori stranieri che ne detengono appena il 10%: per questo i mercati sono convinti che il rischio contagio sia limitato. Il pericolo è un altro: la ricomparsa del “rischio euro”. L’uscita della Grecia dall’euro, creando un pericoloso precedente, dimostrerebbe che la moneta unica non è irreversibile. Per quanto improbabile, l’eventualità che altri Paesi prima o poi ne escano, diventerebbe reale. Ed è dimostrato che i mercati tendono ad attribuire agli eventi rari una probabilità molto più elevata di quanto razionalmente giustificabile. Nessun può sapere quanto elevato sarebbe il premio per il “rischio euro” richiesto dai mercati in questo scenario. Meglio non rischiare. Un accordo è facile da immaginare. I creditori concedono alla Grecia di consolidare debito e interessi, rinviandone il rimborso di 50 anni. Non costerebbe nulla perché equivale ad ammettere la realtà dei fatti: il debito esistente non verrà mai rimborsato. In cambio la Grecia si impegna a contenere la crescita della spesa pubblica entro il gettito tributario. Contrariamente alla percezione comune, infatti, ha già attuato una massiccia ristrutturazione, riportando in avanzo sia il saldo con l’estero delle partite correnti, sia quello pubblico primario (prima degli interessi), per ben 12 punti percentuali del Pil. Con i due saldi in avanzo, non avrebbe bisogno di nuova austerità; e per completare l’aggiustamento basterebbero pochi aiuti aggiuntivi da Europa e Fmi.
Il nodo è politico: trovare anche un accordo su riforme del mercato del lavoro, delle pensioni e della pubblica amministrazione, che permettano a Tsipras di salvare la faccia; alla Germania e alla Bce di continuare a premere per riforme analoghe nell’Eurozona, in primis Francia e Italia; senza irritare Irlanda, Spagna e Portogallo che hanno già implementato queste riforme con successo, ma a caro prezzo.
Ma, se una soluzione è dietro l’angolo, perché la trattativa è così difficile? Perché per la prima volta le controparti della rinegoziazione del debito di uno Stato sovrano sono altri Stati sovrani. Di solito è il mercato, che applica la logica della convenienza economica: la più semplice per trovare un punto di equilibrio. Nel caso della trattativa con la Grecia, invece, l’accordo va trovato con la logica delle convenienze politiche, poco efficienti per le questioni economiche. In fondo, nessuno si sorprende se i tempi necessari per stipulare un Trattato internazionale sono biblici rispetto a quelli per accordarsi in una transazione tra privati.
Dieci consigli utili per chi vuole contribuire a «costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche».
Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015
Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.
1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.
3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.
4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.
5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.
6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.
7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.
8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.
9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.
10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.
Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.
Il modello di rapporto tra potere e società al quale si ispira l'Innovatore è vecchio di qualche secolo. Eccolo puntualmente descritto in un articolo tratto da
La tecnica della scuola, il quotidiano della scuola online, 8 maggio 2015
Il Re che decide di annunciare riforme che impattano sull'impegno lavorativo dei docenti, i vassalli che cercano di far apparire il cambiamento delle regole come unica soluzione per uscire dalla situazione di stallo organizzativo in cui si trova la scuola, i valvassori di rango inferiore che dicono: "Io sto con il Re" e infine i valvassini che dicono: "Io sto con il valvassore".
Questo potere vorrebbe far sfumare le proteste della servitù della gleba, ovvero di quella docenza che non conta, ma deve solo ubbidire e possibilmente non fiatare, perché indebolire l'immagine del Re non fa bene a quell'Europa sempre prodiga nel chiedere sacrifici e austerità.
Ma nel Medioevo non esistevano i sindacati capaci di fare immediata opposizione costruttiva, come ad esempio la Gilda di Rino Di Meglio, e soprattutto non esisteva il web, luogo di vera condivisione di idee per una servitù della gleba 2.0, che con un solo clic può mettere in discussione qualsiasi struttura piramidale.
Il presidente della Repubblica non ha accompagnato la promulgazione con un breve messaggio, al modo in cui qualche volta aveva fatto Giorgio Napolitano, così smentendo quanti avevano previsto qualche parola dal Colle sul necessario collegamento dell’Italicum alla riforma costituzionale. La legge che il parlamento ha mandato al presidente si sarebbe prestata a qualche osservazione, visto che è previsto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costituzionale (con il voto dello stesso Mattarella) anche nella sentenza del 2014 che ha abbattuto il Porcellum aveva ricordato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elettorale applicabile. Eppure il parlamento scrivendone una nuova ha deciso di lasciarla tra parentesi. E non si è preoccupato nemmeno di fare gli interventi necessari a rendere applicabile da subito il Consultellum, cioè il sistema residuato dalla sentenza della Corte (e dalla Corte stessa previsti). La sospensione, infine, è addirittura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è destinato a restare incompleto fino a che non sarà abolito il senato elettivo. Su tutto questo Mattarella non ha ritenuto di precisare nulla.
Il presidente non ha avuto alcuna osservazione da fare neanche sulle più volte sollevate questioni di incostituzionalità della legge, ma in questo secondo caso si tratta di una scelta assai più prevedibile e comprensibile alla luce delle prerogative del capo dello stato. È invece proprio su questo, cioè sul non aver rifiutato del tutto la firma, chiedendo alle camere una nuova deliberazione, che il Movimento 5 Stelle ha preso immediatamente — e pesantemente — ad attaccare il presidente della Repubblica, al quale pure si era rivolto con grandi speranze nell’ultimo intervento alla camera prima del voto finale. Mentre dal predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, è arrivato un prevedibile messaggio di consenso: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno».
Sono passati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elettorale è stato cristallizzato in senato, immediatamente prima dell’elezione di Mattarella. Nulla è cambiato da allora, il presidente lo conosce bene e dunque non ha senso giudicare «rapida» la sua firma, arrivata il giorno stesso in cui la legge è ufficialmente approdata sulla sua scrivania. Dieci anni fa Carlo Azeglio Ciampi lasciò trascorrere otto giorni prima di promulgare il Porcellum, ci pensò bene, ma la legge fu ugualmente giudicata incostituzionale dalla Consulta, molti anni più tardi.
In attesa dei giudici della Corte Costituzionale davanti ai quali sarà certamente portata (prima o poi) anche questa legge elettorale, si sono fatte sentire le agenzie internazionali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio termine rafforzerà il profilo di credito del paese riducendo i rischi politici che gravano sulle politiche economiche e di bilancio». Mentre secondo il Financial Times con la nuova legge elettorale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e contrappesi che ha regolarmente prodotto coalizioni di governo instabili» e si «accresce la forza dell’esecutivo». Forse persino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive
di Alfio Mastropaolo
L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni
Non tutta la popolazione si adegua. In realtà c’è una piccola parte che detta all’esecutivo le sue condizioni. Le detta, forte del fatto che è lei a sostenere i mostruosi costi delle campagne di persuasione elettorale. Con l’abolizione del finanziamento pubblico della politica li sosterrà ancor di più. E quindi detterà condizioni ancor più stringenti. Possiamo senza fatica fare ipotesi su quali politiche attuerà l’esecutivo. Di destra o di sinistra che sia, o che si dica, le differenze staranno nei particolari, non irrilevanti, ma sempre particolari. L’essenziale delle scelte politiche lo deciderà chi paga. E poiché, dato lo stato del nostro sistema imprenditoriale, a pagare saranno soprattutto imprese straniere, la pressione internazionale si accentuerà ulteriormente. Si adeguerà il grosso della popolazione, ma si adeguerà l’intero paese. Destinato a diventare sempre più marginale e sottomesso nella divisione del lavoro planetaria.
Abbiamo già avuto qualche avvisaglia del destino che ci aspetta. Ma finora servivano le perentorie imposizioni di Bruxelles e Francoforte. D’ora il poi basterà loro sollevare un sopracciglio. La cupidigia di servilismo è ipertrofica nelle classi dirigenti italiane. Ciò lascia pensare che riusciranno perfino a prevenirle. Resterà qualche piccolo ostacolo, come la Corte costituzionale. Ma non durerà troppo a lungo. I giudici passano, d’ora in poi li sceglierà l’esecutivo, in combutta con un’opposizione che sarà il suo doppio, e i giuristi pronti a mettersi a servizio sono una folla. Le sentenze capricciose e imbarazzanti come l’ultima sulle pensioni potremo scordarcele.
Sarebbe ingenuo attribuire la responsabilità — o il merito — di questa infausta normalizzazione a Renzi. Renzi e la sua leadership sono figlie delle circostanze, lui ha profittato delle circostanze favorevoli e ha operato coerentemente con la sua cultura, ma la normalizzazione arriva da lontano. È dai primi anni 80 che politici e intellettuali perseguono questo disegno con grande determinazione. Con le parole e coi fatti. Qualcuno si dichiara al momento insoddisfatto. In effetti c’è ragione per discutere sulla totale rimozione di ogni garanzia che si verificherà una volta conclusa la parabola delle riforme renziane. Ma si tratta di dettagli. La smania di decisionismo sovrasta questi dettagli ed è molto antica.
Qualcuno di coloro che smaniano da quasi mezzo secolo dirà che la democrazia dei partiti era alla paralisi. Ma a questo argomento si può replicare che quel modello democratico si poteva adeguarlo senza stravolgerlo. E che le dosi massicce di decisionismo già iniettate nel nostro regime democratico hanno prodotto solo effetti disastrosi. Così come non brillanti sono i risultati conseguiti dalle democrazie normali che stanno intorno a noi. Così poco brillanti da metter in dubbio l’idea stessa di normalizzazione. La quale sicuramente conviene ad alcuni — i potentati economico-finanziari — ma non alla maggioranza della popolazione.
Il significato della parola democrazia è incerto. O controverso. Dacché i regimi democratici hanno sostituito quelli liberali è cominciata una guerra per circoscriverlo è che ha avuto successo. Democrazia, si dice, è il suffragio universale, le libere elezioni, la concorrenza tra i partiti. Il resto avanza. Nessun dubbio che queste cose ci stiano. Ma la democrazia e il suffragio universale li si era voluti proprio per cancellare il privilegio delle oligarchie liberali e per finalizzare in maniera più egualitaria l’azione di governo. Ebbene, le democrazie sono state svuotate e siamo tornati indietro di oltre un secolo. In nome della democrazia normale.
Che farà il grosso della popolazione, che è a ben vedere grossissimo, come la crisi ha dimostrato? Un esito certo è la crescita dell’astensione. La frustrazione aumenterà la sfiducia. Gli imbecilli diranno che capita ovunque ed è quindi normale. Cresceranno anche i sentimenti di rivalsa, la cui manifestazione più evidente è il razzismo. Con questo sistema elettorale - la Francia insegna - il rischio che un partito razzista, quantunque minoritario, vinca le elezioni, è piuttosto alto.
Vedremo. C’è però una terza possibilità. Che il grosso della popolazione si ribelli. Che intenda che la democrazia normale serve a fregare ulteriormente i giovani, gli operai, gli impiegati, gli insegnati, se l’è già presa coi proprietari di case e presto se la prenderà con gli avvocati, i professionisti e quant’altri. Il capitalismo finanziario se ne infischia di tutti. Punta a pellegrinare informaticamente per il pianeta, per speculare dove meglio conviene. Bassi consumi per i più, cibo di qualità scadente e consumi di lusso per le vedette dello spettacolo.
Di contro, se questa porzione larghissima di società non cadesse nella trappola della guerra tra poveri e si mettesse insieme, sarebbe un modo di difendersi. Bisogna ridursi come la Grecia per capirlo? È vero che la Grecia non riesce a sottrarsi ai suoi spietati aguzzini. Ma è vero anche che se la Grecia non fosse sola, se la lotta contro la democrazia normale e il capitalismo di rapina si allargasse, la partita si riaprirebbe
C'è chi dice "prima le rendite e i profitti delle imprese, e chi invece dice "prima le persone", negli Usa come in Europa. I primi vogliono il TTIP, i secondi no. «Puntano a cambiare le regole e a liberalizzare commerci e investimenti. Ma contro i nuovi accordi di libero scambio voluti da Obama, cresce negli Usa e in Europa la rivolta dei consumatori che temono l’invasione di prodotti Ogm e lo strapotere delle multinazionali». La Repubblica, 7 maggio 2015
«TPP Free! Faremo di New York una città immune dai trattati di libero scambio». La promessa solenne risuona nell’aula del consiglio comunale. È d’accordo il sindaco Bill de Blasio. E’ d’accordo il deputato democratico Jerrold Nadler che rappresenta questa città al Congresso di Washington. Così come esistono in Italia i comuni che si proclamano “denuclearizzati”, può New York City chiamarsi fuori dai nuovi trattati di libero scambio? Naturalmente no, è un gesto politico, dal valore simbolico. Ma la dice lunga sulle resistenze che si oppongono alle nuove liberalizzazioni dei commerci e degli investimenti. Eppure, se non tutta l’America, certamente New York sta dalla parte dei “vincitori” della globalizzazione, con Wall Street che domina la finanza senza frontiere, un mercato che risucchia capitali dal mondo intero.
Lo stesso paradosso si applica alla Germania. Il suo attivo commerciale sta polverizzando tutti i record storici: vale l’8% del Pil tedesco. E’ una nazione che riemerge dalla crisi con la ricetta (squilibrata) di sempre: esportando molto più di quanto importa. Dalla globalizzazione sembra avere tratto solo vantaggi. E tuttavia è proprio in Germania che il mese scorso si sono svolte le manifestazioni più affollate per dire no ai nuovi trattati. Un partito di governo, i socialdemocratici della Spd che partecipano alla coalizione con Angela Merkel, sono risolutamente contrari. Così come negli Stati Uniti la spaccatura attraversa il partito democratico. Barack Obama vuole questi trattati con tutte le sue forze. Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che è la beniamina della sinistra, guida la rivolta contro le nuove liberalizzazioni.
Tpp o Ttip? Attenzione alle sigle, segnalano una sfasatura nei tempi e nei dibattiti. In America al momento si parla del primo: Trans Pacific Partnership. Riguarda i paesi dell’Asia-Pacifico, con i due pesi massimi che sono Stati Uniti e Giappone, ma senza la Cina. È il primo in dirittura di arrivo. Per il Tpp Obama ha già ottenuto al Congresso il “fasttrack”: la corsìa veloce che consente un’approvazione rapida perché i parlamentari possono votare solo sì o no all’intero pacchetto, senza emendamenti su singoli aspetti. Obama ha ottenuto il “fast-track” grazie ai voti dei repubblicani, tradizionalmente liberisti. Non avrebbe mai avuto la maggioranza dei democratici. La sinistra del suo partito, gli ambientalisti, i sindacati, le organizzazioni della società civile come MoveOn, 350.org, Courage Campaign, Corporate Accountability, Democracy for America, continuano a battersi per far deragliare questo accordo: si moltiplicano le petizioni popolari, i sit-in davanti al Congresso e agli uffici dei singoli deputati e senatori.
Il trattato che interessa gli europei è in seconda posizione nella tabella di marcia, si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Che cos’hanno in comune Ttip e Tpp? Tre cose importanti. Anzitutto si tratta della prima revisione generale delle regole della globalizzazione dal lontano 1999 (creazione della World Trade Organization, l’arbitro del commercio mondiale), cui poi seguì nel dicembre 2001 la dirompente adesione della Cina. Secondo: questi due nuovi trattati riuniscono paesi abbastanza simili tra loro per livelli di sviluppo e garanzie di diritti (Usa, Giappone, Ue) mentre non includono i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica). Terzo: la nuova tappa delle liberalizzazioni cerca di smantellare i protezionismi occulti, fatti di barriere non-tariffarie, perché i tradizionali dazi doganali sono già scesi molto. Su questi aspetti Obama insiste nella sua campagna a favore dei nuovi trattati: «Ci danno l’occasione – dice il presidente – di scrivere regole che proteggano i nostri lavoratori, tutelino l’ambiente, i consumatori, la salute, i diritti umani. Se non siamo noi a stabilire queste regole, il commercio mondiale andrà comunque avanti, ma le regole le faranno i cinesi e con priorità ben diverse». La Dottrina Obama punta quindi a creare un “fatto compiuto”, fissare dei principi che poi la stessa Cina e altre nazioni emergenti saranno costrette ad applicare in futuro.
Perché questa argomentazione non convince una parte delle opinioni pubbliche europee? Il Ttip riguarda 850 milioni di abitanti fra il Nordamerica e l’Europa, che insieme rappresentano il 45% del Pil mondiale. Il commercio transatlantico che verrebbe influenzato dalle nuove regole del Ttip, in settori come le commesse, opere pubbliche, servizi, supera i 500 miliardi di euro all’anno. I soli investimenti diretti dagli Usa in Europa superano i 320 miliardi, quelli europei negli Stati Uniti sono un po’ più della metà. Siamo quindi nel cuore della globalizzazione “avanzata”, quella che unisce tra loro paesi ricchi, non c’entra qui la concorrenza asimmetrica con le potenze emergenti. E tuttavia si è fatta strada nel Vecchio continente l’idea – non infondata – che siano gli europei a godere oggi delle regole più avanzate in materia di salute, protezione del consumatore, qualità dei servizi pubblici. Le obiezioni al Ttip si concentrano su due aspetti. Da un lato si teme che sia il cavallo di Troia per introdurre nei supermercati e sulle tavole degli europei gli organismi geneticamente modificati, la carne agli ormoni, o altri tabù del salutismo. Ma questo problema è già risolto: l’Unione europea ha stabilito che non rinuncerà al suo “principio di precauzione”; sugli ogm resta perfino il diritto dei singoli Stati membri dell’Unione di vietarli se lo ritengono necessario. L’altro tema scottante è la clausola Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Il pericolo è che potenti multinazionali, difese da eserciti di avvocati, possano intimidire piccoli Stati, o perfino Regioni e Comuni, per far valere i propri interessi. L’Unione europea potrebbe attenuare il pericolo, se otterrà che queste cause vengano giudicate da un’apposita corte, permanente e pubblica, non da collegi arbitrali privati.
Un punto debole resta la trasparenza. Lo rinfaccia Elizabeth Warren a Obama: «Se sono nell’interesse dei lavoratori e dell’ambiente, perché non pubblicare la totalità dei testi in discussione? ». Anche l’ultima tornata negoziale Usa-Ue, che si è svolta a fine aprile a New York, è avvenuta a porte chiuse. Le stime sui benefici di questa globalizzazione 2.0 indicano un aumento dello 0,5% del Pil europeo (che di questi tempi non è poco) grazie all’abbattimento delle “barriere invisibili” che ostacolano le imprese. Ma in passato le previsioni sui benefici del Nafta o del mercato unico europeo peccarono sistematicamente per eccesso di ottimismo. E dal 1999 in poi, la fiducia delle opinioni pubbliche nella preveggenza degli esperti è in netto calo.
La Repubblica, 6 maggio 2015
QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).
La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?
Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.
I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.
Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.
Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.
Il manifesto, 6 maggio 2015
Questo distorto e cieco meccanismo di sfruttamento intensivo dei lavoratori e della terra, ha prodotto non solo danni ambientali crescenti, desertificazione delle terre agricole, ma ha anche messo fuori mercato molte piccole e medie aziende. Come ricordava Piero Bevilacqua, negli ultimi trent’anni sono scomparse in Italia un milione e mezzo di aziende agricole. Il risultato finale è poco noto, ma paradossale: l’Italia, famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari, ha un deficit della bilancia alimentare che si trascina da decenni e che ha raggiunto nel 2013 oltre 7 miliardi di passivo! Importiamo la gran parte del grano, della soia, della carne, del latte che consumiamo. Se riuscissimo a riportare in pareggio la bilancia commerciale agro-alimentare creeremmo qualcosa come 30-40.000 nuovi posti di lavoro reali.
Come fare? Non c’è una sola risposta, ma forse un punto di partenza sì: recuperare le terre abbandonate. Solo nelle aree collinari del Mezzogiorno sono oltre il 30%, ed una percentuale non lontana la troviamo anche nel Centro-Nord e nelle zone alpine non turistiche. Ci vorrebbe una seconda Riforma Agraria per mettere a coltura questo grande patrimonio agro-pastorale. Bisognerebbe però fare tesoro degli errori della prima. Come forse non tutti ricordano, nel 1950 , sotto la spinta delle lotte bracciantili e dei contadini senza terra, il governo democristiano varò la Riforma Agraria che interessò le terre incolte del Mezzogiorno, che vennero strappate al latifondo e consegnate ai contadini meridionali. In media venne distribuito circa un ettaro a famiglia contadina, mediamente con sei sette figli, ma senza mezzi agricoli, sementi, accesso al credito agricolo, e risorse per commercializzare i prodotti della terra. Risultato: dopo una decina d’anni le terre furono nuovamente abbandonate ed i contadini emigrarono per andare a lavorare come operai nel Nord-Italia, in Svizzera, in Germania, nel Nord Europa.
Per non ripetere gli stessi errori occorre pensare ad un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico. Tale piano dovrebbe essere parte di una programmazione democratica di nuovo tipo, capace di rilanciare l’economia produttiva sulla base dei nuovi bisogni della popolazione e di un rapporto dialettico, senza escludere momenti conflittuali, con i soggetti e i movimenti sociali. Un piano non solo economico, ma sociale e culturale per far rinascere queste aree, per renderle nuovamente vivibili,per creare quelle reti sociali capaci di dare il “giusto valore” ai prodotti della terra. Negli ultimi anni, come è dimostrato da alcune inchieste, c’è una riscoperta del valore del lavoro agricolo, che deve essere adeguatamente retribuito. Diversi giovani sono andati o tornati nelle campagne, avviando esperienze di lavoro e di produzione innovativi. Inoltre, in queste zone interne dovrebbero essere finanziati quei progetti che puntano a rivitalizzare l’artigianato e la cultura locale, l’espressione artistica e la ricerca scientifica che è possibile delocalizzare (come hanno fatto alcuni Parchi nazionali in Italia ed in Europa).
Ma, questa “seconda Riforma Agraria” abbisogna di soggetti sociali che siano interessati a questa operazione. Le forze inutilizzate del mercato del lavoro interno non sarebbero di per sé sufficienti, ed adatte, a reggere una simile impresa di trasformazione del nostro territorio. Il popolo dei migranti potrebbe dare una mano d’aiuto formidabile al nostro paese. Naturalmente non tutti i migranti che vogliono venire in Europa, e che non finiscono in fondo al mare, desiderano e possono fare gli agricoltori o i braccianti. Molti di questi sono mossi non tanto dal bisogno di lavorare, ma dalla necessità di fuggire da guerre, persecuzioni, condizioni insostenibili di vita. Ma anche questi ultimi, alcuni con capacità e competenze elevate, sarebbero ben felici di inserirsi con un lavoro nelle nostre comunità, anche transitoriamente. I migranti, assieme ai giovani italiani che tornano nelle campagne, potrebbero diventare il soggetto sociale più immediatamente e direttamente interessati a questo progetto di difesa, valorizzazione e trasformazione della nostra agricoltura e del nostro territorio, al recupero di terre e paesi scartati ed emarginati, al pari di tanti giovani, da questo modello di sviluppo. Insomma, la spinta che viene dai migranti, la loro voglia di esistere, di poter lavorare dignitosamente, di avere una casa, potrebbe costituire una occasione storica per far rinascere una parte rilevante del nostro paese ormai destinato all’abbandono ed al degrado.
Le vere Riforme che hanno modificato i rapporti di produzione sono nate sempre sotto la spinta di lotte sociali e movimenti di popolazione. La prima Riforma Agraria, nata dopo anni di occupazione delle terre e violenti scontri nelle campagne, segnò la sconfitta politica degli agrari. La seconda R.A. diventerà una realtà se verrà sconfitta la classe politica dell’emergenza e dell’ipocrisia, se finirà la repressione dei flussi migratori o l’accoglienza micragnosa, e questo movimento di essere umani che lottano per sopravvivere troverà la risposta appropriata nella trasformazione del nostro modello di sviluppo basato sullo spreco di risorse umane ed ambientali.
l manifesto, 5 maggio 2015
Nelle «20 circoscrizioni elettorali suddivise nell’insieme in 100 collegi plurinominali» i capilista, se la lista che capeggiano otterrà seggi, risulteranno automaticamente eletti senza essere stati votati. Così i deputati “nominati” dai capipartito risulteranno tanti quante saranno le liste che otterranno seggi. Quelle che di seggi ne conquisteranno uno solo, lo troveranno già scelto.
L’italicum rinnega poi il principio di uguaglianza prevedendo il “premio di maggioranza”, un dispositivo che prescrive nientemeno che la falsificazione della volontà dal corpo elettorale mediante la manipolazione del risultato dei voti espressi.
In qualsiasi pluralità umana la maggioranza dei voti si identifica nella loro metà più uno. Il “premio di maggioranza” non è attribuito a chi questi voti li ha acquisiti ma a chi non li ha acquisiti. Lo si conferisce ad una minoranza, a quella che ottiene un solo voto in più di ciascuna altra. Si traduce quindi in un privilegio per una delle minoranze rispetto a tutte le altre. Privilegio che comporta disconoscimento di voti validi e sottrazione di seggi alla maggioranza reale, reale perché composta dalla somma delle liste votate, esclusa la minoranza privilegiata. Quella a cui il corpo elettorale ha negato di diventare maggioranza ma contro la volontà popolare ne acquista il potere. Un’assurdità, una illogicità manifesta.
L’italicum è vorace. Non solo assegna 340 seggi alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti (88 in più di quanti le spetterebbero). Ma, al secondo turno, che interviene se nessuna lista ha ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno, col ballottaggio tra le due liste più votate, attribuisce comunque questi 340 seggi, perciò anche ad una lista che di voti ne può aver avuto il 35 per cento, il 30, il 20 …
L’italicum, comunque, dissolve la democrazia rappresentativa stravolgendo la forma di governo e declassando il ruolo del Presidente della Repubblica. Perché trasforma l’elezione al Parlamento in elezione del “primo ministro, capo del governo”, la doppia denominazione che definiva la forma di governo vigente in Italia dal 3 gennaio 1925 al settembre 1943.
L’inventore dell’italicum, il politologo D’Alimonte, sostiene che il mostriciattolo che ha inventato realizza l’elezione diretta del premier ma non modifica la forma parlamentare di governo. Affermandolo o finge di non saperlo o ignora che la forma parlamentare di governo si identifica nella responsabilità del governo nei confronti del parlamento, organo della rappresentanza politica che esprime la sovranità popolare. Rappresentanza cui l’elezione diretta del premier sottrae tutti i poteri trasferendolo proprio al premier e renderlo anche dominus nelle elezioni degli organi di garanzia, Presidente della repubblica, Corte costituzionale, Csm.
Questa radicale mutazione della forma di governo nel suo opposto e questa oscena mistificazione di una qualche ipotesi di democrazia si connettono poi con la cosiddetta “riforma” del Parlamento che maschera, col superamento del bicameralismo paritario, l’eliminazione (della sede) di un contropotere allo strapotere del capo del governo nel regime che Renzi sta costruendo, quello dell’autoritarismo.
Va detto senza ambagi. L’italicum distorce l’arma indefettibile dei cittadini, il voto. Svuota la rappresentanza politica. Asservisce il Parlamento al governo. Soffoca la sovranità popolare. Investe di tutto il potere una persona sola.
Il testo di questa legge dovrà ora superare il controllo della promulgazione che deve essere quanto mai severo. Lo sia. In pericolo è la democrazia italiana.
La Repubblica, 4 maggio 2015
Camusso, ma non è paradossale uno sciopero della scuola contro una riforma che prevede 100 mila assunzioni di precari?
«Ma secondo lei — risponde il segretario generale della Cgil — un sindacato può scioperare contro delle assunzioni? La verità è che il governo non è in condizioni di farle per l’inizio dell’anno. E ha posto criteri assai discutibili che dividono in modo arbitrario i precari».
Non è che protestate contro una legge che vi ha tagliato fuori, che ha ignorato il tradizionale potere di veto dei sindacati?
«Francamente mi paiono argomenti vecchi e strumentali. Le cose sono assai più serie. Questa è una riforma che lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento, che affida a un singolo, il dirigente scolastico come si chiama oggi il preside, la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno. Non è quello che prevede la nostra Carta Costituzionale ».
Lei pensa che sia una riforma di impianto autoritario?
«Emerge una scuola che non ha più una funzione di carattere generale, che non punta più a formare cittadini con spirito critico. È una scuola elitaria, non di tutti. Le risorse che ci sono, peraltro scarse, vanno a chi primeggia e delle scuole di Scampìa o dello Zen di Palermo che ne facciamo?».
Eppure la competizione tra istituti scolastici può accrescere la qualità dell’offerta formativa. Non crede che possa essere un vantaggio per le famiglie?
«Guardi, io penso che la scuola debba essere migliorata. Nella nostra Costituzione la scuola vuol dire il diritto allo studio. Bene, nella riforma non c’è traccia di questo. Non c’è una visione del futuro della scuola, non c’è nulla per combattere la dispersione scolastica nel Paese che detiene il record di giovani Neet, che cioè non lavorano, non studiano, non si formano. Alla fine accederanno alla scuola coloro che appartengono a famiglie che se lo possono permettere».
Abbiamo il record dei Neet e quello dei giovani disoccupati. Secondo lei perché nonostante il Jobs Act, il superamento dell’articolo 18, lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni, le aziende non assumono?
«Perché non ci sono investimenti a partire da quelli pubblici. Perché non basta dire a un imprenditore: ti ho tolto l’articolo 18, ti ho fatto gli sconti, ora pensaci tu. Non funziona così. Gli incentivi senza vincoli si traducono nella sola sostituzione di contratti. Serve una politica industriale che indirizzi e sostenga la crescita e l’occupazione ».
Si passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato. Non è positivo?
«Certo che lo è. Ma siamo nel terreno di Monsieur Lapalisse. Se non si pone come obiettivo quello della piena occupazione richiamato autorevolmente dal Presidente Mattarella, non ci sarà alcun cambiamento di verso ».
La manovra sugli sgravi contributivi ci è costata circa 10 miliardi. Il governo ne dovrà recuperare quasi altrettanti per fronteggiare gli effetti cumulati della sentenza della Consulta sul mancato adeguamento delle pensioni. La Cgil ha esultato dopo la sentenza. Ora si devono trovare le risorse. Come?
«La Corte si era già pronunciata in senso negativo su soluzioni che colpivano solo parte dei pensionati. Il governo è in grave ritardo e ora è indispensabile sedersi intorno ad un tavolo per cambiare la legge Fornero che non funziona per mille motivi».
D’accordo, le risorse dove le prenderebbe?
«Ora i diritti delle persone vanno garantiti e le risorse, come abbiamo più volte detto, ci sono o si possono trovare. Questa potrebbe anche essere l’occasione per rivedere i criteri di una effettiva progressività del sistema fiscale e per contrastare seriamente l’evasione».
Facendo pagare ai ricchi? È la vostra proposta della patrimoniale?
«Senza rinunciare alla riforma complessiva del fisco, la patrimoniale sulla grandi ricchezze ha un’efficacia immediata».
Come giudica la legge elettorale su cui la Camera esprimerà la fiducia?
«Non mi convince essendo tutta piegata al principio della governabilità. È una legge che surrettiziamente porta al premierato senza che siano stati previsti i necessari contrappesi. Dissi al congresso della Cgil che eravamo di fronte ad una torsione del sistema democratico. Non ho cambiato idea».
“Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario”, ha scritto Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica. Lei che sinistra visita?
«La sinistra che visito è quella che tenta di recuperare alcune parole e alcuni valori: uguaglianza, ricostruzione dei diritti sociali, povertà non come colpa, disoccupazione non come vergogna. La sinistra che vuole un altro Paese».
Sta dicendo che non è nel Pd, partito che lei ha annunciato non voterebbe, che trova questa sinistra?
«C’è anche nel Pd. È che oggi sono sempre di meno i luoghi della partecipazione democratica, ma non è vero che i cittadini non vogliano partecipare. L’iniziativa di oggi (ieri, ndr) di Milano ne è la riprova».
E cosa pensa di coloro che invece hanno devastato Milano?
«Si è trattato di violenza pura e gratuita che non può avere alcuna giustificazione politica».
Ma lei si impegnerebbe a dar vita a una nuova sinistra?
«La mia è un’altra funzione. Sarebbe un errore confondere i ruoli, ma sono convinta che ci sia un grande bisogno di sinistra».
Ci vorrebbe un altro partito di sinistra?
«Ci vorrebbe un partito di sinistra».
In autunno ci sarà la conferenza di organizzazione della Cgil anche per fissare le nuove regole per l’elezione dei gruppi dirigenti. Come sarà scelto il suo successore?
«Siamo ben coscienti che dobbiamo cambiare. La contrattazione non può limitare a tutelare chi è già organizzato, dobbiamo includere tutto il mondo del lavoro. Sarà la nostra riforma strutturale all’interno della quale ci saranno le nuove regole per selezionare i dirigenti. Il prossimo segretario della Cgil sarà eletto da un organismo nel quale la presenza dei delegati dei posti di lavoro sarà superiore a quella degli apparati. E sono certa che queste modalità renderanno protagoniste le nuove generazioni».
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli Usa dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni Settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazione e, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”. Ma l’evoluzione tecnologica rende sempre di più job-less, cioè senza occupazione aggiuntiva, la crescita sia della singola impresa che del sistema nel suo complesso. Anzi, molto spesso la riduzione dell’occupazione in una impresa viene salutata con un drastico aumento del suo valore in borsa.
Trasposta sul piano sociale, la filosofia del Trickle-down ha assunto i connotati del “capitalismo compassionevole”, che negli Stati uniti costituisce la dottrina ufficiale dell’ala più reazionaria del partito repubblicano, e non solo di quella. In base ad essa il welfare, come insieme di misure tese a garantire in forma universalistica i diritti fondamentali del cittadino – pensione, cure sanitarie, istruzione, sostegno al reddito – va eliminato perché induce chi ne beneficia all’ozio; e va sostituito con la beneficienza gestita dalla generosità dei ricchi, nelle forme da loro prescelte e indirizzandola, ovviamente, solo a chi, a loro esclusivo giudizio, “se la merita”. Non c’è negazione più radicale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teoria come questa. Eppure è una concezione che sta progressivamente prendendo piede in tutti gli ambiti della cultura ufficiale, anche là dove gli istituti del Welfare State (che letteralmente significa Stato del benessere, e che da tempo viene tradotto sempre più spesso con l’espressione “Stato assistenziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.
Non deve stupire quindi di ritrovare i capisaldi di questa concezione violentemente antidemocratica in quello che viene fin da ora ufficialmente indicato come “il lascito immateriale” della peggiore manifestazione della teoria e della prassi del capitalismo finanziario, o “finanzcapitalismo”: la cosiddetta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito immateriale, perché quello materiale, come è ormai noto, non è che devastazione del territorio, asfalto e cemento, corruzione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, violazione dei diritti, della dignità e della sicurezza del lavoro (l’Expò è stato il laboratorio del Job-act), propaganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria alimentare tossiche e, dulcis in fundo, un meccanismo di perpetuazione delle Grandi Opere inutili: perché, a Expò concluso, ci sarà da decidere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova corruzione di quell’area ormai devastata.
Uno dei punti o propositi qualificanti della Carta di Milano è infatti la lotta contro lo spreco alimentare attraverso il recupero del cibo che oggi viene buttato via, destinandolo ai poveri. Nella carta i riferimenti a questo proposito sono tre: “ che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori”; “individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze”; “creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari”. Apparentemente si tratta di raccomandazioni di buon senso: dare a chi non può permetterselo il cibo che altrimenti butteremmo via. E’ quello che si cerca di fare con istituzioni e programmi benemeriti, come la legge detta del “Buon Samaritano” o il Last-minute market promosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro minimizzazione (in vista del loro azzeramento, previsto dal programma Rifiuti zero, che le renderebbe superflue). Trasposte nell’ambito di un programma planetario per “nutrire il pianeta” hanno l’effetto di retrocedere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sottoalimentazione di una parte decisiva dell’umanità, la cui condizione è invece il prodotto delle grandi e crescenti diseguaglianze mondiali nella distribuzione dei redditi, del lavoro e delle risorse.
Per cogliere meglio questo punto è necessario risalire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Protocollo di Milano”: un documento elaborato dalla fondazione Barilla – emanazione dell’omonima multinazionale alimentare – a cui l’Expò ha affidato il compito di individuare i capisaldi del programma “nutrire il pianeta”, che sono poi stati tradotti “in pillole” nella Carta di Milano; e che ha la pretesa di definire un programma di azione dei prossimi decenni per tutti i soggetti del mondo – Governi, imprese, associazioni, cittadini — impegnati nella filiera agroalimentare come produttori, distributori o consumatori.
Nel Protocollo di Milano il tema dello spreco di alimenti occupa il primo posto: “Primo paradosso – spreco di alimenti: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo”. Nell’ambito dei programmi per sradicare la fame, tra cui “le disposizioni pertinenti nel quadro delle legislazioni internazionali, regionali e nazionali per la protezione e conservazione delle risorse e l’adozione di azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile nella Direttiva quadro europea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per sradicare la povertà estrema e la fame”, il Protocollo di Milano arriva a trattare questa prima emergenza planetaria con le stesse modalità con cui, in un qualsiasi Comune d’Italia, si affronta il problema della gestione dei rifiuti: “Le iniziative per la riduzione degli sprechi devono rispettare la seguente gerarchia:
1. Prevenzione; 2. Riutilizzo per l’alimentazione umana; 3. Alimentazione animale; 4. Produzione di energia e compostaggio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta contro la trasformazione degli alimenti in rifiuti (e non per una più equa distribuzione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affamati del pianeta non spetti altro che il compito di smaltire ciò di cui i ricchi si vogliono sbarazzare. Cioè sedersi, come Lazzaro, ai piedi della tavola del ricco Epulone. Con il che la Trickle-down economics fa il suo ingresso trionfale nel “lascito” dell’Expò.
Una tesi veramente singolare di un esperto di economia dei trasporti, il quale non sa che i beni immobili urbani non sono una merce fungibile, e pertanto il loro valore non diminuisce all'aumentare della quantità. Una lettura suggerita.
Il Fatto quotidiano, 2 marzo 2014
È una cosa assolutamente ovvia che il prezzo di una casa, identica a un’altra come qualità, cioè con costi di costruzione identici, cresca in proporzione a quante case di quel tipo sono disponibili sul mercato, cioè ai vincoli posti alla costruzione di case. Un recente studio dell’Università di Yale per esempio dimostra che i costi di costruzione delle case sono rimasti pressoché costanti in termini reali, ma i prezzi sono cresciuti del 30% negli scorsi 35 anni (eliminando le fluttuazioni cicliche del mercato). Inutile anche sottolineare che il problema è molto acuto in termini sociali, perché colpisce in proporzione i redditi più bassi, le nuove coppie e gli extracomunitari. L’Economist ha dedicato al fenomeno la copertina e diversi articoli, citando estese evidenze statistiche della correlazione stretta tra i vincoli urbanistici all’edificazione e la crescita della rendita urbana, cioè del valore dei terreni edificabili rispetto a quelli a destinazione agricola.
Questo fenomeno si era storicamente ridotto, e di molto, con l’avvento della motorizzazione privata, che aveva consentito un mercato delle case e dei terreni assai più competitivo, rendendo possibile raggiungere località anche molto esterne in tempi ragionevoli. Oggi invece sembra essersi in parte ripresentato nelle città caratterizzate dall’“industria della conoscenza” (valga per tutti la Silicon Valley in California, ma vengono citate anche Milano e Bangalore…) e dalle grandi concentrazioni di attività finanziarie (Londra, New York). L’aumento di valore delle aree e degli edifici nelle zone centrali, come si cita in uno altro studio recente del Massachusetts Institute of Technology, sembra che sia una delle maggiori cause delle diseguaglianze di reddito evidenziate dal celebre economista neo-marxista Thomas Piketty, e confermate in molti contesti specifici, anche nel nostro Paese.
Accanto a quelle dall’Economist, si possono anche citare le analisi comparative che misurano il numero di annualità di reddito medio necessarie per comprarsi una casa standard: anche da queste analisi emerge una stretta corrispondenza tra la “costosità in relazione al reddito” (“affordability” di W. Cox) della casa, ed i livelli dei vincoli urbanistici all’edificazione. I valori minimi si registrano a Kansas City, celebre per avere vincoli pressoché nulli. Noi ci collochiamo, insieme a tutta l’Europa, su valori medio-alti. Certo: la disponibilità di suolo del Kansas non è esattamente simile a quella italiana, come non è esattamente simile il valore paesaggistico dei due territori. Anzi, il valore paesaggistico di molte parti del territorio italiano è quello di un bene riconosciuto eccezionale a livello mondiale, fonte di rilevanti redditi turistici che si estendono nel futuro, ma costituisce anche un valore culturaleirrinunciabile, non riconducibile a mere grandezze economiche. Tuttavia il problema sociale del prezzo delle abitazioni e della distribuzione del reddito permane, ed è accentuato dalla crisiattuale. L’Economist propone di aumentare in termini relativi lapressione fiscale sulle rendite urbane, ma soprattutto di tassare in proporzione di più le case vuote e i terreni edificabili non utilizzati, e meno le case utilizzate, al fine di aumentare l’offerta di abitazioni per questa via, abbassando così i prezzi.
Un’altra soluzione possibile è quella di ridurre i vincoli all’edificabilità in modo selettivo, cioè favorendo la costruzione di edifici nuovi multipiani, anche in aree esterne dove necessariamente i prezzi delle abitazioni sarebbero inferiori (gli alti prezzi sono indissolubilmente connessi all’accessibilità e ai servizi delle aree). Ciò al fine di contenere, dove necessario, il consumo di suolo, anche se le argomentazioni, oggi molto diffuse, che tale consumo vada ridotto per “difendere l’agricoltura” sembrano davvero poco consistenti. Il ricorso a modelli di edilizia sovvenzionata si scontrano invece da un lato con la scarsità di risorse pubbliche, dall’altro con una serie di risultati catastrofici dovuti a gestioni clientelari, disattente ai bisogni sociali reali (il diritto acquisito è “per sempre”, senza verifiche nel tempo dei redditi dei residenti, fenomeno unico in Europa), e ancor meno attente all’illegalità diffusa delle occupazioni abusive. Ma certo nulla vieta di tentare una seria riforma di questa strategia, almeno nel medio periodo.
Rimane infine sullo sfondo il problema delle categorie sociali realmente molto deboli, come i Rom o gli extracomunitari di recentissima immigrazione. Le risposte qui non sono semplici, dati gli elevatissimi standard edificatori che la nostra normativa impone: edifici in cemento armato dotati di ogni servizio, ecc. Eppure come dimenticare che l’integrazione dei gruppi di immigrati “ultimi arrivati” negli Stati Uniti è avventa attraverso la diffusissima pratica (legale) dell’autocostruzione di case semplicissime, e via via di standard più elevati al crescere del reddito? Ma consentire l’autocostruzione in Italia oggi sembra davvero un tema che postulerebbe un diverso approfondimento, come d’altronde quello della dannosissima rigidità del mercato del lavoro causata dalla dominanza, sempre politicamente favorita, della casa in proprietà, con una struttura normativa e fiscale che rende il cambio di residenza per compra-vendita estremamente costoso.
«Il significato della manifestazione contro l'Expo non è cancellato dalle inaccettabili devastazioni che hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo». L'Altra Europa con Tsipras, mailing list, 2 marzo 2015
La risposta alla convocazione del May day - che quest’anno univa a Milano, in un’unica mobilitazione internazionale, il tema consueto del precariato e la denuncia dell’Expò - è stata massiccia e articolata. Tantissimi (più di 30.000), quasi tutti giovani; meno birra degli anni scorsi; ben otto bande di “ottoni” da diversi paesi europei. E poi, cordoni di famiglie che occupano la casa, con i centri sociali che le proteggono; centinaia di lavoratori di colore; forte presenza dei sindacati di base, di anarchici, pacifisti, ambientalisti, animalisti (che nel movimento No-expò hanno un punto di forza), degli Lgbt e dei partitini della sinistra, questa volta ammessi insegne e bandiere. Striscioni, cartelli e slogan documentavano una cultura che sta imparando a connettere lavoro, reddito, casa, salute, accoglienza con la difesa del clima, del suolo, della democrazia, della pace e contro debito, speculazione edilizia, corruzione e mafia: tutti temi presenti non come mere enunciazioni, ma sulle gambe delle migliaia di persone in carne e ossa che hanno partecipato al corteo con un bersaglio comune nell’Expò e in ciò che rappresenta: un concentrato delle nefandezze della società in cui viviamo. Un “grande evento” che pretende di combatter lo spreco ma fatto di sprechi di suolo, di materiali, di denaro, di occasioni; e di sfruttamento del lavoro in ogni forma.
Poi - cioè dopo - ci sono le devastazioni che hanno accompagnato il corteo. Inaccettabili: hanno messo a rischio incolumità, beni e lavoro di chi le ha subite; ma soprattutto hanno sovrapposto l’immagine di un vandalismo senza senso ai temi di una campagna che, pur senza mezzi, stava vincendo. Nonostante la grancassa che ha preceduto e accompagnato l’inaugurazione dell’Expò, nelle ultime settimane, media e stampa nazionali, andavano moltiplicandone le critiche, in gran parte con i temi agitati dai No-expò.
E tuttavia, fermo restando che le responsabilità vanno cercate anche altrove, non si può tacere la contiguità tra chi scende in piazza per raccogliere consensi e far crescere tra mille difficoltà un movimento contro oppressione e sfruttamento e chi invece di questi sforzi, costati anni di lavoro, abusa: non solo con prove di forza, che a volte sono necessarie, ma fregandosene sia dell’incolumità che delle finalità dei manifestanti con cui si mescola. Quella contiguità è data dalla condivisione di un generico antagonismo - vissuto ovviamente in maniera diversa, e anche opposta, ma con molte sfumature intermedie - nei confronti dello “stato di cose presente”.
Apartheid nella "civilissima" Europa. Una cronaca di Vladimiro Polchi e un commento di Michele Serra sul gravissimo episodio avvenuto ieri ai confini italiani, con la complicità dei nostri.
La Repubblica, 1° maggio 2015
di Vladimiro Polchi
«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».
Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.
Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.
Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.
Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.
La rilettura. Stralcio di un libro che dopo 20 anni è ancora di bruciante attualità. Almeno per chi vuole uscire dalla crisi: "L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali".
Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla
Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995
In una conferenza sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John Maynard Keynes affermava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo problema economico (…). Nei sessantacinque anni passati da allora l’umanità non si è mossa nella direzione della libertà dal bisogno, della liberazione dalla necessità di vendersi in cambio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Keynes ha cercato di sciogliere siamo passati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla proliferazione immane delle merci e alla crescita della disoccupazione si accompagnano vecchie e nuove povertà, guerre fra poveri e un generale imbarbarimento dei rapporti materiali dell’esistenza. La teoria economica e l’arte del governo non sanno spiegare né vogliono risolvere il problema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoccupazione ha oggi carattere strutturale, ha origine nelle forme attuali del cambiamento tecnologico e organizzativo, ed è tendenzialmente irreversibile. Nel ragionamento seguente sostengo che la famacopea ortodossa non ha medicamenti che possano risolvere o almeno lenire la nuova forma della malattia cronica del capitale, la contraddizione tra spreco e penuria. Occorre cercare anche altrove, fuori da una logica esclusivamente mercantile. Occorre mettere in moto lavori concreti, essenzialmente lavori di cura delle persone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)
postilla
Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.
Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza. Ci vuole coraggio e testardaggine per parlarne in questi tempi oscuri di odi religiosi, etnici e culturali. Intercultura ne ha fatto addirittura l’oggetto del convegno “Saper vivere insieme” (Trento, 1-3 maggio, in occasione del centenario dell’Afs, che di Intercultura è madre) fondato su una quindicina di workshop in cui i relatori spiegheranno come stare insieme tra diversi è, è stato e sarà possibile. O come la differenza possa essere valore positivo anche in questo strano mondo in cui la tecnologia ci ha avvicinato come mai prima e, forse, questa ipervicinanza ci spaventa e crea mostri della mente e mostruose ideologie di morte e paura.
Roberto Toscano, una vita da ambasciatore (India e Iran), ora presidente della Fondazione Intercultura, spiega così la genesi di questa scelta: «Lo so che parlare di questi temi è molto difficile. Ma non è mai stato così urgente. Oggi, la capacità interculturale è un dato di sopravvivenza per la società». Mettere insieme convivenza e diversità è apparentemente facile. Gli italiani, 50 anni fa, quando vedere una persona di colore in giro per le strade di una nostra città era molto raro, pensavano che il razzismo non li riguardasse: «Oggi», dice Toscano, «la tensione è inevitabile. Ma indietro non si può tornare. E neanche i modelli utilizzati in altri Paesi, dall’assimilazione francese alla multiculturalità inglese sembrano funzionare». I francesi hanno promesso cittadinanza e pari opportunità a tutti: «E adesso, davanti alle promesse mancate, si trovano a fare i conti con le giovani generazioni di origine magrebina che cercano risposte nel ritorno alle tradizioni religiose estremizzate».
Gli inglesi hanno inventato la multiculturalità, “ognuno sta qui come vuole”: «Ma anche la multiculturalità è fallita», prosegue Toscano. «La strada è quella di riconoscere, attraverso il dialogo e lo scambio continui, il valore positivo della diversità. È già successo. Non è la prima volta che arrivano i barbari, gli arabi, i greci. Noi tutti siamo frutto di diversi meticciati».
Così il convegno esaminerà il complesso tema della convivenza dopo il conflitto a partire da esperienze come quelle irlandese, sudafricana, basca, dove le lacerazioni sono state profonde, ma la ricucitura, a poco a poco, c’è stata ed è ancora in corso. «Così, nell’anno del centenario, Intercultura torna alle sue origini. Non siamo in campo per insegnare le lingue ai ragazzi, ma per mettere i semi di una convivenza in cui s’impara dall’altro, in cui si restituisce una faccia al prossimo e si mettono da parte le categorie stereotipate».
Allora da che parte cominciare nel conflitto Occidente - Islam radicale? «Cominciamo col non farci coinvolgere nell’idea di un conflitto di civiltà. Io mi sento più vicino a un moderato islamico che a un razzista nostrano. Non c’entrano neanche le religioni. Tutte, prima o poi hanno prodotto versioni violente di se stesse. E i giovani che scelgono la Jihad sanno poco di religione e cercano solo identità forti. Quelle su cui si basano tutte le utopie reazionarie: madri patrie, nazionalismi, purezze etniche… ». Qualcuno studia da decenni le strade per la gestione non violenta del conflitto. Come Pat Patfoort, antropologa fiamminga che a Trento gestirà un panel dedicato al modello “Maggiore-minore-equivalente” da lei elaborato per sanare i conflitti (da quelli personali a quelli internazionali). In sintesi, il modello “maggiore/ minore” è quello tipico che porta a scontri e guerre. Quando abbiamo un problema (o quando un popolo ha un problema) spesso è portato a identificare il colpevole in una persona o gruppo i cui comportamenti e modi di pensare vengono etichettati come negativi o sbagliati: antisociali, primitivi, sottosviluppati. Portare un popolo al conflitto contro questi gruppi identificati come capri espiatori, non è difficile. Storia e cronaca sono piene di esempi. Per uscire da questo schema, Patfoort costruisce il modello dell’equivalenza. Spesso sono i terzi “pacificatori” a doverlo mettere in campo. È il modello dell’equivalenza in cui si evita di identificare buoni e cattivi ma si guarda a entrambe le parti, alle loro ragioni e al loro dolore. E ciò che accade non viene attribuito alla cattiveria di una delle parti, ma emerge come frutto dell’escalation dei fatti.
Certo, nei conflitti attuali non è facile che le parti si dispongano facilmente a cambiare modello. «Non importa chi comincia », spiega Pat Patfoort. «È sufficiente che una delle due si muova in quella direzione. In Belgio ci sono gruppi moderati islamici che si sono dati il compito di spiegare che l’Islam non è quello disegnato dall’estremismo ». Un lavoro da fare in profondità ma che può, anzi deve, partire dalle persone, dalle famiglie, dal “mio villaggio”: «Dobbiamo cominciare da noi stessi per imparare a riconoscere che gli altri hanno padri e fratelli come noi». Insomma, un cambio di mentalità non facile da ottenere, ma la sfida può essere affrontata.
La dura critica al progetto Renzi da un costituzionalista d'ispirazione liberale. «La governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla».
Corriere della Sera, 30 aprile 2015
Il manifesto, 29 gennaio 2015
di Andrea Fabozzi
Il rischio di essere battuto nel voto segreto era basso, molto basso, ma non inesistente. Dei cento emendamenti, quindici erano quelli potenzialmente pericolosi perché firmati dalle minoranze Pd. Proponevano di cancellare le pluricandidature, introdurre le primarie per legge, prevedere un quorum minimo di partecipanti per assegnare il premio al ballottaggio, limitare la quota dei nominati rispetto agli eletti con le preferenze, sottrarre ai pluri-eletti la possibilità di scegliere per quale collegio optare, abolire l’indicazione del capo della coalizione.
La presidente della camera aveva avvertito già da qualche giorno i gruppi che l’eventuale richiesta di fiducia sarebbe stata dichiarata ammissibile. Facendola cioè prevalere sul diritto della minoranza a chiedere il voto segreto sulla legge elettorale. Boldrini, in un’aula immediatamente accesa dalle proteste, ha risolto la questione spiegando che anche la soluzione opposta, cioè escludere la fiducia quando è possibile lo scrutinio segreto, «può avere una sua logica». Ma perché sia praticabile, ha deciso, bisognerà aspettare che venga modificato il regolamento. E allora i voti segreti sull’Italicum saranno tre, uno per ogni articolo che compone la legge con l’eccezione dell’articolo 3. La spiegazione è semplice: su quell’articolo non ci sono emendamenti.
Ammessa la fiducia, la presidenza della camera ha concesso un contentino alle minoranze che somiglia molto alla classica beffa. Il «lodo Iotti», con il quale dal 1980 viene lasciata la possibilità ai presentatori degli emendamenti e solo a loro di illustrare (per 30 minuti) le proposte di modifica, anche sapendo che non saranno messe in votazione proprio perché è stata chiesta la fiducia. In questo caso è una beffa, perché abitualmente l’unico obiettivo degli interventi a vuoto è quello di allungare i tempi dell’approvazione finale della legge. Il «lodo» è stato appunto inventato durante la conversione di un decreto legge, e da allora ha rappresentato lo scotto da pagare per un governo che chiede subito la fiducia perché ha un decreto che rischia di scadere. L’Italicum non è un decreto ed è urgente solo perché così lo presenta Renzi. Ieri pomeriggio, dopo i primi interventi, le opposizioni hanno capito l’inutilità di intervenire su emendamenti che il governo non farà votare. E la seduta della camera di questa mattina è stata addirittura cancellata. Si parte subito con il primo referendum sul governo, alle 13.45, poi nel pomeriggio gli altri due. Sì o no, «non c’è cosa più democratica»
CELODURISMO RENZIANO
di Norma Rangeri
Sarà pure in ballo la democrazia, come dice un Bersani affranto dalla sorpresa annunciata del voto di fiducia sulla legge elettorale. Tutto sta a mettersi d’accordo sull’inizio di questa danza macabra attorno alle regole della nostra convivenza politica.
Come sosteniamo da tempo, la democrazia non viene né improvvisamente sfigurata, né pesantemente umiliata solo in riferimento alla legge elettorale e alla riforma costituzionale. Al contrario, la manomissione degli assetti istituzionali della repubblica parlamentare rappresenta solo un approdo. Una lineare conseguenza degli anni in cui l’ex segretario del Pd partecipava al governo Monti per mondare la democrazia delle scorie berlusconiane. Peccato che con l’acqua sporca si stava buttando via anche l’argine rappresentato dall’idea stessa di un governo eletto, preferendo imboccare la via delle riforme dettate dai poteri europei. Renzi ha trovato la strada in discesa e l’ha percorsa con piede veloce usando i rapporti di forza fino alla cancellazione dello statuto dei lavoratori, alla riduzione del mondo del lavoro a esercito di riserva di Confindustria.
Il fatto è che ora, con la decisione di mettere la fiducia sull’Italicum, siamo giunti alle battute finali, al conclusivo giro di boa di una navigazione che fin dall’inizio ha fatto rotta verso l’approdo neocentrista. Se la mannaia della fiducia per portare a casa rapidamente una legge elettorale rappresenti il preludio dell’atto successivo (le elezioni anticipate) lo vedremo. Quello che invece è già chiarissimo riguarda la cancellazione di un’idea di pluralismo sociale, politico, istituzionale.
Senza neppure scomodare i famigerati precedenti (la legge Acerbo del 1923 e la legge truffa del 1953) basta, e avanza, osservare che questa fiducia è una bastonata sulla schiena di un parlamento già piegato e delegittimato dall’essere il risultato dell’incostituzionale Porcellum. Una bastonata premeditata, vibrata a freddo nonostante il rassicurante lasciapassare ottenuto nel voto segreto sulle pregiudiziali di incostituzionalità. A dimostrazione che al fondo della versione renziana di questo “celodurismo fiduciario” non c’è tanto il timore di non avere la maggioranza parlamentare sull’Italicum (naturalmente possibile ma non probabile), quanto la voglia di togliersi di torno i rompiscatole della minoranza.
Saranno pure solo una ventina quelli decisi a non votargli la fiducia, ma restano il fastidioso contraltare mediatico al leader, tanto più molesto finché il gruppetto resta dentro il Pd a sceneggiare il dissenso a ogni direzione o festa dell’Unità senza l’Unità. Sparare col cannone della fiducia al drappello degli antirenziani del Pd è un atto spropositato se proprio la dismisura non fosse il segno di chi scambia il potere con il governo.
ITALICUM,BATTAGLIA NEL PD E IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA
Corriere della sera, 29 Aprile, 2015
C’È LA FIDUCIA, PDDIVISO E CAOS IN AULA
ROMA Il governo supera in scioltezza alla Camera i primi voti segreti sull’Italicum — con 385 voti, contro 208 dell’opposizione — ma nonostante il successo Matteo Renzi non si fida della sua super-maggioranza e azzera gli altri 80 scrutini segreti sugli emendamenti alla legge elettorale, imponendo al Parlamento tre voti di fiducia su altrettanti articoli del testo.
Alla fine la presidente Boldrini riesce a condurre in porto una seduta delicata. «Collusa», le urlano i grillini e lei ribatte: «Ne dovrete rispondere». Ma i precedenti sostengono la tesi della presidenza: «Sarebbe arbitrario da parte della presidenza non ammettere il voto di fiducia. Non entro certo nel merito della scelta...». Di Sera al Tg1 Renzi cita De Gasperi e Moro: «Anche loro misero la fiducia sulla legge elettorale».
La fiducia sull’articolo 1 si vota oggi pomeriggio, domani quelle sugli articoli 2 e 4 (il 3 non si tocca perché già approvato da Camera e Senato). Poi, lunedì o martedì, ci sarà il voto segreto sull’intera legge. Se approvato in terza lettura, l’Italicum sarà, come stabilito, legge vigente a partire dal 1° luglio del 2016. A meno che un decreto non ne anticipi l’efficacia.
Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.
A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum . La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’ Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».
In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.
Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’ Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.