«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare». La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
A bordo del volo Asuncion-Roma. La situazione della Grecia, la valorizzazione della classe media, la nuova Chiesa di Francesco a cui piacciono i movimenti popolari ma non per questo opta per la strada dell’anarchia. Sono i temi principali di cui ha parlato il Papa sul volo di ritorno dalla sua visita di 8 giorni in America Latina. Oltre a spiegare i venti di pace fra Cuba e Usa (suo prossimo viaggio) il Pontefice ha anche parlato del regalo del presidente boliviano Evo Morales, la scultura di un Cristo sopra unafalce e martello. In piedi, per oltre un’ora Jorge Mario Bergoglio ha risposto al fuoco di fila di domande dei giornalisti che lo hanno seguito in Ecuador, Bolivia e Paraguay.
«Uno dei protagonisti del vertice uscendo dal Justus Lipsius confida: “Dietro di noi lasciamo macerie, i greci non riusciranno mai a rispettare tutte le condizioni, ci rivedremo tra qualche mese con lo stesso problema sul tavolo”».
La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
Bruxelles. Alexis Tsipras si alza dal tavolo, dopo ore di snervanti battibecchi con i leader europei perde le staffe: «Questa non è un’Unione, questa è un’associazione ricattatoria!». Sono le quattro del mattino, è il momento in cui può saltare tutto. Prima che gli altri leader gli rispondano per le rime provocando l’irreparabile, il navigato Jean Claude Juncker precedete i colleghi: «Alexis, ora basta! Non si possono usare questi toni in una riunione del genere, chi si comporta così fa spirare il negoziato». Mentre gli occhi delle venti persone presenti nello stanzone all’ottantesimo piano (in realtà è l’ottavo, ma si chiama così) del Justus Lispius si girano verso il capo della Commissione, il padrone di casa Donald Tusk sfrutta lo sconcerto generale per sospendere la seduta ed evitare il peggio. Tsipras esce scortato da due leader iscritti tra le colombe, si calma in corridoio. Ma la strada che porterà all’accordo sarà ancora lunga.
«Nelle ultime due settimane abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia. Tutto ciò non ha attinenza alcuna con l’implicita economia dell’austerità».
La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
«L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese»,
Huffington post, 13 luglio 2015
Angela Merkel entrando nella sala dove si è tenuta la seduta decisiva per l’accordo fra la Grecia e la Ue ha dichiarato che “Trust has been lost”. La fiducia è andata perduta? Sì ma nei confronti dell’Europa più che della Grecia, Tutti nel mondo, a cominciare dagli americani che hanno i loro interessi geopolitici in quella zona del Mar Egeo, sono stupefatti di come la “trattativa” con il paese ellenico è stata portata avanti, soprattutto tenendo conto della relativa esiguità del debito in discussione: 360 miliardi di euro. Pensate che le Borse un lunedì fa ne hanno bruciati 270 solo al mancato annuncio di un accordo che pareva già raggiunto.
La verità è che le questioni economiche c’entrano poco in questa partita, anzi in questa prima guerra di interdipendenza europea. L’aspetto decisivo è sempre stato quello politico. Le elite europee non possono tollerare che si diffonda il messaggio che è possibile condurre politiche economiche anticicliche che fuoriescano dalle regole del neoliberismo e dell’austerità europea a marca tedesca. Questo è il vero contagio temuto. Per cui prima si è cercato di rovesciare Tsipras creandogli vuoto attorno; quindi si sono manipolate le norme dei trattati facendo credere che una Grexit per cinque anni fosse possibile con l’attuale ordinamento europeo; poi, una volta che questo tentativo di golpe bianco è fallito grazie al referendum greco, si cerca di imporre ad Atene un cambiamento di maggioranza, reimbarcando al governo i resti di quei partiti che sono stati complici delle politiche di austerità che hanno affamato il paese e incrementato il debito.
Nello stesso tempo, come apprendiamo da una intervista di Varoufakis al Guardian, lo stato greco non era in condizione di mettere rapidamente a punto tutte le misure necessarie per una uscita regolata e non distruttiva dalla moneta unica. L’uscita dall’euro era quindi, dal fronte greco, una minaccia spuntata. La Grexit era quindi interamente nelle mani altrui, in particolare quelle tedesche.
Ora la parola spetta ai parlamenti nazionali. Sarà decisivo il voto del Parlamento greco. Come per tutti gli accordi questo presenta punti critici, ad esempio sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni. E’ quindi fisiologico che una parte di Syriza non sia d’accordo. Vedremo se questo la spingerà a votare contro in Parlamento, lasciando Tsipras senza maggioranza. In questo caso il giovane leader greco o forma un governo di unità nazionale o chiede di andare alle elezioni anticipate, come in fondo gli suggerisce Paul Krugman.
L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese. Infatti ottiene in cambio un finanziamento triennale tra 82 e 86 mld di euro che potranno permettere investimenti all’interno tali da compensare largamente i fattori recessivi derivanti dagli elementi negativi del compromesso. Nello stesso tempo ha salvato le leggi sociali già attuate; ha mantenuto il fondo di garanzia in patria; ha soprattutto posto il tema di una ristrutturazione del debito ellenico.
L’accordo quindi implicitamente riconosce la insostenibilità del debito greco e delle sue attuali forme di pagamento. E’ un punto importante, quello per il quale sia Tsipras che Varoufakis si erano battuti fin dall’inizio.
Questa vicenda ci dimostra che l’attuale governance dell’Europa è del tutto inadatta a condurre avanti il processo di unità europea. L’idea di un’Europa tedesca – neanche più franco-tedesca come agli inizi - confligge con il principio di un’Europa federale, solidale e fattore di pace nel mondo, che erano gli ideali del manifesto di Ventotene di più di settanta anni fa. Come è noto i trattati anche nella forma attuale prevedono che i paesi in surplus dal punto di vista del rapporto esportazioni – importazioni li riducano per non creare dislivelli stabili ed eccessivi fra i vari paesi europei. La Germania è almeno da sei anni che viola tali limiti, senza che nessuno obietti alcunché.
Schäuble «ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che si tratta di un club, anziché di un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei».
La Repubblica, 13 luglio 2015
La divisione delle sinistre corrisponde alla faglia che divide l’Europa in due, con la parte dominante che ha il suo rappresentante nel ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, presentato come un figlio politico di Helmut Kohl e sincero europeista, e che ha tuttavia una visione decisamente centro-europea dell’Europa. Nel suo lobbismo per la Grexit ha messo in chiaro che egli non crede ad una integrazione europea, ma a un’Europa a diverse velocità e in sostanza gerachicamente strutturata in relazione alla vicinanza di interesse e di cultura con la Germania. È per questa ragione che egli ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che l’Europa è a tutti gli effetti un club, anziché un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei.
L’Europa come club, ecco la visione tedesca di Kerneuropa : il nucleo europeo rispetto al quale gli altri popoli sono periferici. Parte del “cuore” europeo non sono necessariamente i Paesi fondatori (vi è di che dubitare che vi figuri l’Italia) ma i Paesi vicini per cultura e interesse al centro propulsore del continente, la Germania. Non è un caso se in questa drammatica vicenda greca, la Germania abbia goduto del sostegno dei suoi tradizionali Paesi di riferimento, satelliti o alleati: dalla Finlandia, le repubbliche baltiche e la Slovenia all’Olanda e all’Austria.
Qui il Kerneuropa prende la configurazione geo-politica degli imperi centrali (non a caso il settimanale Bild ha recentemente definito Angela Merkel la “cancelliera di ferro”, il nuovo Bismark).
Come hanno messo in evidenza diversi organi di informazione, da Foreign Affairs al
Guardian , il pregiudizio anti- meridionale che l’ affaire greco ha scatenato si è già tradotto nei fatti.
Il Land austriaco della Carinzia con un indebitamento da “caso Greco” ha chiesto e ottenuto dal governo federale austriaco lo stato di emergenza, condizione per l’accesso al finanziamento federale per ottenere prestiti a tasso agevolato, di fatto una ristrutturazione del debito. La Germania ha concesso questa condizione alla Carinzia. E ora l’Austria è l’alleato di ferro della soluzione Grexit. Perché questa differenza di trattamento?
La ragione l’ha fatta intuire Schäuble avanzando l’ipotesi di un Grexit per cinque anni: non c’è “fiducia” nella Grecia. La fiducia non è lo stesso di garanzia ( una condizione accertabile e quantificabile) e diventa molto importante quando le garanzie sono labili. La fiducia è un’attitudine psicologica, sorretta da un sostrato di valori morali e etici condivisi: presume la messa in conto che gli stessi valori guidino i comportamenti dei partner. Dire che manca la fiducia verso la Grecia equivale a riconoscere che il partner ellenico non è un partner perché non condivide la stessa kultur . È nella stessa condizione dello straniero a tutti gli effetti: e incute diffidenza più che fiducia. Quali che siano le garanzie offerte dal governo di Atene, dunque, i tedeschi non si fidano nello stesso modo in cui si sono fidati della Carinzia. Qui siamo già fuori dell’Unione europea.
Infatti, se per comprendere che cosa gli Stati membri intendono per “Unione europea” occorre fare uno sforzo ermeneutico ciò significa che l’Europa è ormai un concetto contestato, una figura retorica alla quale non corriponde una visione normativa comune. Una possibilità di risolvere questa diaspora sarebbe potuta venire dai partiti socialisti, sorti dopo tutto su principi non nazionalistici e internazional- solidaristici. Per la calorosa accoglienza tributata a Alexis Tsipras, il gruppo socialista del Parlamento europeo ha mostrato di essere ancora sensibile a questi principi. Ma i socialdemocratici tedeschi seguono tutt’altra strada. La Spd, ha scritto Jan-Werner Müeller su Foreign Affairs , ha abbandonato completamente il discorso degli “eurobond” per aiutare i Paesi economicamente in bisogno ed è diventata più merkeliana della Merkel.
Il divorzio interno alla sinistra è anche in Europa un fatto reale e negativo. Dietro l’anti-ellenismo della Spd vi è il timore che Syriza metta in moto un movimento alla sua sinistra capace di erodere il consenso alla grande coalizione. Gli interessi della sinistra dell’establishment e quelli della sinistra non sono dunque gli stessi. Anche su questo conflitto dentro la sinistra sta il problema europeo, il declino di una visione unitaria.
Grecia. Ultimatum a Tsipras con condizioni capestro. "Umilianti e disastrose", risponde il leader greco. Si tratta nella notte, ma per il Guardian è in corso un "waterboarding mentale" nei confronti di Atene.
Il manifesto online, 13 luglio 2015, con postilla
Più che un negoziato, quello di ieri a Bruxelles è stato per Alexis Tsipras un “waterboarding mentale”. E’ stato il quotidiano inglese The Guardian a paragonare il faccia a faccia tra il premier greco, Francois Hollande, Angela Merkel e il presidente di turno dell’Ue, il polacco Donald Tusk, alla famigerata tortura utilizzata dalla Cia per far parlare i presunti terroristi.
Ma, all’esito dell’ennesima estenuante giornata di riunioni a porte chiuse e quando ancora i leader europei erano riuniti per un’altra notte di trattative, le parole forti si sprecavano: il secondo hashtag più twittato al mondo era #thisisacoup (“questo è un colpo di Stato”), sempre il Guardian titolava “L’Europa si vendica di Tsipras”, mentre il quotidiano francese Liberation si chiedeva “a che gioco gioca la Germania” e il tedesco Der Spiegel parlava di “catalogo di atrocità”.
Era accaduto che, nel tardo pomeriggio, al termine di un Eurogruppo aggiornato dalla sera precedente dopo un duro scambio di battute Mario Draghi e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (“don’t take me for a fool”, “non prendermi per stupido”, aveva detto quest’ultimo al capo della Bce), era trapelata una bozza di ultimatum che suonava come un’umiliazione per il governo greco, inutilmente vendicativa e mirante a chiudere la “parentesi di sinistra” rappresentata dal governo Syriza. In buona sostanza, si chiedeva alla Grecia di cedere la sua sovranità fiscale (e non solo) in cambio della riapertura delle trattative, in ogni caso non veniva escluso un Grexit, anche temporaneo, e si ponevano condizioni-capestro: alcune riforme da attuare in appena 72 ore, tra cui quella delle pensioni e l’aumento dell’Iva, garanzie in beni statali (architettonici, artistici, infrastrutture, etc.) per 50 miliardi da consegnare all’Agenzia per le privatizzazioni la cui sede sarebbe trasferita in Lussemburgo, la reintroduzione dei licenziamenti collettivi e la riforma della contrattazione.
Infine, l’abolizione immediata di tutte le leggi approvate dal governo Tsipras, tra le quali misure umanitarie come gli aiuti a pagare le bollette dell’elettricità e dell’acqua, lo stop agli sfratti e l’azzeramento del ticket per accedere al servizio sanitario nazionale per le fasce più povere della popolazione, ma anche la riassunzione dei dipendenti pubblici licenziati dal governo Samaras (a partire da quelli della tv di Stato Ert, che è stata riaperta, e delle dipendenti delle pulizie del ministero delle Finanze, primo atto di Yannis Varoufakis al suo insediamento).
Condizioni palesemente inaccettabili, definite “umilianti e disastrose” dai negoziatori greci e che hanno fatto sbottare il ministro della Difesa Panos Kammenos: “Ci vogliono schiacciare, ora basta”, ha detto il leader dell’Anel (Greci Indipendenti), partner di governo di Syriza che, pur non d’accordo con l’ultima proposta presentata da Tsipras all’Eurogruppo, l’aveva votata in Parlamento per il timore che, in caso contrario, sarebbe potuta esplodere una “guerra civile”. Tutto ciò mentre, in serata, ad Atene circolava un sondaggio per il quale il 68 per cento dei greci a questo punto sarebbe a favore del Grexit: un capolavoro politico per i falchi dell’eurozona, che sono riusciti a far perdere totalmente fiducia in loro a una popolazione, compreso l’elettorato di Syriza, assolutamente europeista.
Ma è tutta l’impalcatura comunitaria che scricchiola vistosamente e rischia di venir giù all’emergere del primo vero dissenso politico. Capeggiato dalla Germania (e le cronache raccontano che la più dura contro la Grecia, ieri, fosse Angela Merkel, quasi a smentire le voci di divergenze con il falco Schäuble), il fronte del no si è fatto forza di un voto del Parlamento di Helsinki (dove ha pesato il 21 per cento dell’estrema destra dei Veri finlandesi, in maggioranza) per compattare uno schieramento a favore dell’espulsione di Atene dall’eurozona che comprende pure i paesi baltici e l’Olanda.
Sul fronte opposto la Francia, che aveva dato una mano al governo greco per la presentazione della proposta, e a quanto pare Mario Draghi, mentre è rimasto marginale il ruolo dell’Italia. Hollande era arrivato a Bruxelles sostenendo che non avrebbe mai permesso che la Grecia andasse fuori dall’euro, ma è stato sconfessato dal documento dell’Eurogruppo. E’ a partire da quella base che si è trattato per tutta la notte. Ma, comunque vada, le ferite di questa brutta vicenda rischiano di rimanere aperte a lungo. Una brutta pagina per l’intera Europa.
Durissimo scontro all’Eurogruppo Berlino detta le condizioni, poi eurosummit nella notte.Atene: “Richieste offensive e disastrose”. Non sono falchi quelli che volteggiano ma avvoltoi.
La Repubblica, 13 luglio 2015
BRUXELLES. Tre giorni per riformare la Grecia, e una serie di diktat uno più duro dell’altro. I falchi volteggiano trionfanti sui cieli d’Europa. E dettano a Tsipras un ultimatum impossibile, come quello dell’Austria alla Serbia che innescò la prima guerra mondiale. Le colombe cercano di negoziare sulle briciole per rendere più accettabile un testo che mette comunque sotto i piedi qualsiasi residua sovranità di Atene. E’ questo il clima che si respira alla riunione dei capi di governo dell’eurozona, mentre le discussioni proseguono nella notte. Il vertice che avrebbe dovuto allontanare definitivamente lo spettro di un’uscita della Grecia dall’euro in realtà rende questa ipotesi sempre più credibile e immanente. La Grecia ha definito la proposta europea «umiliante e disastrosa». Come potrà Tsipras accettare un simile schiaffo e restare al suo posto è un mistero. Come possa pensare di riuscire rispettare le condizioni leonine che gli vengono imposte è incomprensibile.
Questa ennesima, drammatica svolta nella crisi greca è maturata nella notte tra sabato e domenica, quando è apparso evidente che una maggioranza di governi dell’eurozona era contraria a varare un nuovo pacchetto di aiuti per salvare il Paese dalla bancarotta e tenerlo nell’euro. La mancanza di fiducia nei confronti del governi greco era totale. Per cercare di evitare il peggio, la Commissione, l’Italia e la Francia hanno dovuto accettare un compromesso: dare tre giorni di tempo a Tsipras e al Parlamento di Atene per mettere alla prova la sua volontà di fare le riforme rifiutate finora. Ma il testo di quattro pagine che ieri mattina i ministri hanno trasmesso ai capi di governo dell’eurozona, senza averlo votato e con ben undici punti controversi, rispecchia in realtà il documento preparato nei giorni scorsi dal ministro delle Finanze tedesco Schaeuble. E tradisce la speranza dei falchi che siano i greci stessi, alla fine, a scegliere di uscire dalla moneta unica per poter negoziare un sostanziale taglio del loro debito ormai insostenibile.
Il documento dà tre giorni di tempo al Parlamento di Atene per approvare la riforma dell’Iva, la riforma delle pensioni anticipate, varare un nuovo codice di procedura civile, ristrutturare l’ufficio nazionale di statistica e creare un’autorità indipendente sul controllo di bilancio. Inoltre il governo greco deve presentare entro il 15 luglio una «roadmap dettagliata » sulla messa in opera a breve termine delle seguenti riforme: azzeramento del deficit del sistema pensionistico; liberalizzazione totale delle professioni e del commercio; privatizzazione della rete elettrica; revisione dei contratti nazionali di lavoro e riconoscimento dei licenziamenti collettivi; accelerazione delle privatizzazioni con la creazione di un fondo indipendente in cui conferire i beni da privatizzare per 50 miliardi; taglio ai costi della pubblica amministrazione e riforma secondo le indicazioni che verranno concordate con i creditori. Inoltre il governo si deve impegnare a far tornare la troika ad Atene; a cancellare o compensare tutte le misure anti-austerità già approvate senza il consenso di Bruxelles, e concordare con la troika tutte le proposte legislative prima di sottoporle al Parlamento. Tutto questo è considerato condizione minima necessaria non per varare il pacchetto di aiuti, ma solo per avviare le trattative in vista della concessione di un nuovo programma di assistenza. «In caso di non accordo- è scritto in una delle frasi rimaste tra parentesi - alla Grecia verrà offerto un rapido negoziato per una temporanea uscita dall’area euro e una possibile ristrutturazione del debito».
Il testo specifica che, contrariamente a quanto Tsipras aveva promesso in Parlamento, il programma prevede «il pieno coinvolgimento del Fmi» e che questa «è una precondizione dell’Eurogruppo ». Valuta il fabbisogno di finanziamento della Grecia «tra 82 e 86 miliardi», di cui sette miliardi da versare entro il 20 luglio e 5 entro metà agosto per consentire ad Atene di far fronte alla scadenze del debito. Prevede la possibilità di studiare una revisione di scadenze del debito e interessi, ma «a condizione della piena messa in opera delle misure concordate » e solo dopo la prima e positiva verifica sul rispetto degli accordi. Qualsiasi ipotesi di “haircut”, cioè di taglio del debito, è esplicitamente esclusa.
La Grecia ha considerato inaccettabili e offensive le condizioni offerte dall’eurogruppo. E ha cercato di negoziare una serie di ammorbidimenti, in particolare sul coinvolgimento del Fmi, sulla clausola di annullamento delle misure già adottate, sull’entità del fondo per le privatizzazioni, sul riferimento esplicito all’uscita dall’euro, sul rinvio dell’apertura del negoziato, senza il quale la Bce non può riaprire i rubinetti e le banche resteranno chiuse. Qualcosa, alla fine, sicuramente riusciranno ad ottenere. Ma il senso dell’ultimatum difficilmente potrà cambiare. E alla fine è difficile prevedere se Tsipras si piegherà davanti ai diktat europei o se preferirà scegliere l’opzione di portare il Paese fuori dall’euro. Che è sicuramente proprio quello che i falchi si augurano.
Intervista a Daniel Cohn Bendit. «In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli...».
Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)
Parigi. «Coscienti o meno, stiamo andando verso un’Europa delle Nazioni, orientata dagli egoismi nazionali. La migliore prova di questa tendenza è stata il comportamento degli Stati europei di fronte al problema dei rifugiati. Not in my backyard, non nel mio cortile, questa è la posizione di molti Paesi membri, Francia compresa, riguardo ai migranti. La nozione di solidarietà è estranea al dibattito di questi giorni. Questa è l’Europa delle Nazioni». Apolide alla nascita in Francia nel 1945, tedesco a 14 anni, francese a 70 (dal 22 maggio scorso), Daniel Cohn-Bendit è uno di quegli europei che l’Europa ha davvero provato a farla, sulle barricate nel maggio ‘68 e da leader ecologista sui banchi del Parlamento di Strasburgo. In Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria (Mondadori), scritto assieme al liberale belga Guy Verhofstadt, Cohn-Bendit tre anni fa cercava di dare una scossa federalista. Oggi guarda deluso le sue capitali, Parigi e Berlino, dividersi sulla Grecia e quindi sul futuro del continente.
Al di là delle interpretazioni formulate nei diversi campi del sapere, una cosa è certa: la campana suona anche per noi. E chi ci governa (per sua scelta) non se ne accorge.
Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)
La Grecia è il teatro. Ma al centro del dramma andato in scena ieri sera in Europa è piuttosto la «questione tedesca». O meglio: lo scontro tra Germania e Francia, tra Nord e Sud, tra formiche e cicale, sul destino dell’euro e dell’Unione stessa. La crisi di Atene ha funzionato da detonatore, e il povero Tsipras, che pensava di aver messo l’Europa con le spalle al muro giocando a poker col referendum, è diventato la cavia di un esperimento cui il suo governo, e forse anche il suo Paese, potrebbero non sopravvivere. Non è solo una battaglia politica. La storia dei tedeschi è cominciata nelle foreste. A differenza degli inglesi, degli italiani o degli stessi greci, che hanno dovuto affrontare il mare, temono più di tutto il rischio; la parola chiave del loro stare assieme è «sicurezza». Hanno inventato apposta una teoria, l’ordo-liberalismo, in cui le regole sono l’assicurazione contro i rischi. È così che l’«economia sociale di mercato» garantisce la protezione dei più deboli. Ma per funzionare ha bisogno di fiducia reciproca. Le tasse devono essere pagate, le norme rispettate, i debiti rimborsati. È impossibile per la signora Merkel, meno che mai con il fiato di Schäuble sul collo, concedere all’estero ciò che è vietato in patria .
I tedeschi non si fidano più della Grecia. E hanno le loro ragioni. Tutto sommato già Papandreou e Samaras avevano fatto mirabolanti programmi poi rimasti sulla carta. Dei sessanta miliardi di privatizzazioni garantiti, ne sono entrati appena un paio nelle casse di Atene. E gli armatori miliardari che fuggono le tasse sono fumo negli occhi per la classe media bavarese, che le paga fino all’ultimo euro. I tedeschi si domandano perché mai l’austerità abbia funzionato in Portogallo, in Irlanda, a Cipro, perfino in Spagna, e non in Grecia, nonostante più di trecento miliardi di prestiti.
Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!
Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.
Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.
Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.
1. ABBIAMO BISOGNO DI CAMBIAMENTO
1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:
- Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?
- Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?
E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.
Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?
Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.
Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!
Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.
Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.
Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.
Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra [tierra, techo y trabajo] - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!
2. SEMINATORI DI CAMBIAMENTO
Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.
Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari.
Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.
Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.
Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.
Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.
La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.
Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.
3. TRE GRANDI COMPITI
3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.
Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:
3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.
L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.
Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.
L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.
In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.
Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!
I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.
3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.
I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).
I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.
In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.
Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.
Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).
Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.
Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.
Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.
Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.
Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.
3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.
La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.
4. IL FUTURO È NELLE MANI DEI POPOLI
4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!
Riferimenti
La fonte del testo è il sito web del Vaticano, dove sono accessibili anche le traduzioni in altre lingua. I titoli in carattere maiuscolo sono nostri. Il video del discorso del papa à accessibile qui
Solo le persone disinformate o in malafede, possono pensare che gli ostacoli posti a Tsipras derivino dalle ragioni proclamate: la verità è che non si vuole che in Europa ci sia una presenza che testimoni la possibilità di una politica diversa da quella del gruppo di potere dominante.
Il manifesto, 12 luglio 2015
Ancora una volta era sembrato che l’accordo tra Ue e Grecia si potesse fare, raggiungendo così l’obbiettivo di chiudere la battaglia iniziata con la vittoria di Syriza nel gennaio 2015, nonostante l’obbiettivo vero delle autorità europee sia sempre stato l’estromissione di Syriza dal governo. In questi mesi, infatti, quasi mai la posta in gioco dello scontro ha coinciso con le misure discusse. Bensì, da parte europea, ottenere l’adesione alla filosofia del Memorandum. Ma questa sottomissione al Memorandum che l’Eurogruppo voleva non c’è mai stata.
Le «Istituzioni», via via sempre più irritate dalla tattica negoziale di Tsipras, prima attaccarono violentemente Varoufakis per espellerlo dalla trattativa, e poi lanciarono l’ultimatum al governo greco dopo la riunione «segreta» dei quattro (Commissione, Bce, Fmi e Eurogruppo).
A questa richiesta fu risposto no, con durezza, e le trattative ricominciarono. Ma nonostante le differenze nelle misure da adottare si riducessero, appariva chiara la volontà dell’Eurogruppo di accettare solo una resa completa della Grecia.
E crebbero le manovre europee in Grecia per arrivare a una sostituzione del governo di Syriza con uno di unità nazionale. A questo Tsipras rispose col referendum, considerato dagli europei una mossa talmente ostile da dichiarare, sia prima che subito dopo, che il referendum rendeva impossibile la riapertura delle trattative.
Tutti sappiamo che la trattativa si è riaperta solo per l’esito quasi plebiscitario del referendum, e per l’intervento pesante degli Stati Uniti. Dopo il referendum e l’evidenza dei calcoli politici sbagliati, gli Usa hanno ricordato bruscamente agli europei che i vincoli geostrategici non potevano essere un optional subordinato agli obbiettivi politici intra-europei.
Rispetto a questo punto va valutata accuratamente la posta in gioco in questo momento. Che non può che essere che la sopravvivenza del governo di Syriza come obbiettivo assolutamente prioritario. Evidentemente nel lato europeo sta prendendo di nuovo piede la posizione esattamente opposta: che sia assolutamente prioritario invece liberarsi di questo governo; e, in subordine, se questo non fosse possibile, liberarsi della Grecia nell’euro, precipitandola in un caos che comunque sia di monito a chiunque volesse seguire quella via.
Solo così si spiega, infatti, la riapertura violenta dei giochi che sembravano tacitati dall’intervento americano. Evidentemente pesano due motivazioni entrambe vitali per la dirigenza tedesca. La prima che questa rottura «politica» della disciplina dell’austerità era comunque inaccettabile per il contagio che avrebbe potuto provocare, indipendentemente dal contenuto delle misure contenute negli accordi. Ma c’è un secondo lato, fin qui in ombra, che sta venendo in luce. Ed è la stessa stabilità politica tedesca.
È evidente, infatti, che Schäuble sta giocando pesantemente sulla assoluta ostilità dell’opinione pubblica tedesca nei confronti di un qualsiasi accordo con la Grecia, che smuove strati profondi di disprezzo verso il Sud d’Europa. L’incertezza della Merkel nel dare corso alle richieste americane di tener conto degli aspetti geostrategici che l’esito negativo dell’accordo implicherebbe, pare quindi dovuto al timore che questa opinione pubblica, da lei stessa aizzata fino al parossismo, possa reagire violentemente, destabilizzando tutto il quadro politico tedesco.
Non sarebbe più allora il pericolo di formazioni populiste a preoccuparla, ma che forse la stessa Csu bavarese di Schäuble possa scendere sul piede di guerra.
Equilibri tedeschi contro equilibri europei e geostrategici mondiali. Questa è la partita tremenda che si sta giocando. Syriza deve morire, è l’urlo della destra tedesca, e europea.
Che chiarisce anche ai più tardi qual è la posta in gioco. Non certo le percentuali dell’accordo. Ma il potere in Europa. Che, per la prima volta, da Maastricht in poi, è stato messo in discussione dalla formazione politica di un piccolo paese di grande coraggio. Chapeau.
«È una corsa disordinata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi governanti. Perché a raccogliere i frutti di questa semina sono e saranno altri: quelli che nazionalismo e razzismo (perché di questo si tratta) sanno coltivarli meglio».
Il manifesto, 12 luglio 2015
Il vero regista di questa strategia suicida è Mario Draghi, che come capo di GoldmanSachs Europa aveva aiutato il Governo greco a truccare il bilancio per entrare nell’euro e indebitarsi a man bassa; e che come capo della BCE gli ha poi presentato il conto per salvare le banche creditrici; e per poi mettere Tsipras con le spalle al muro con il blocco della liquidità (il vero bazooka di cui dispone). Quel suo impegno a salvare la moneta unica “a qualsiasi costo” riguarda infatti l’euro virtuale presente nei libri contabili delle banche; non l’euro reale presente (anzi assente) nelle tasche dei cittadini per fare la spesa: e la Grecia è lì a dimostrarlo.
Ma sono virtuali anche gli euro dei debiti pubblici: sono fatti non per essere restituiti, ma per ricattare i governi. Nessuno si illude di avere indietro il denaro prestato alla Grecia per salvare le banche francesi e tedesche che l’hanno spremuta come un limone: se ne parla solo per alimentare un rancore di sapore razzista.
Tanto è vero che se i membri dell’eurozona dovessero rispettare il Fiscal Compact (di cui nessuno parla più da mesi), i paesi insolventi sarebbero più della metà. Difficilmente però l’Unione europea potrà riprendersi da questo smacco, anche se l’economia dà qualche segno di ripresa. Minacce ben più corpose incombono sui governanti. Perché mentre combattevano sull’aliquota Iva da applicare alle isole dell’Egeo i conti aperti si accumulavano: guerre ai veri confini dell’Ue — dall’Ucraina alla Libia, passando per Siria, Israele, Eritrea, Sud Sudan e Nigeria – e domani forse anche al suo interno; milioni di profughi che premono alle frontiere (e che l’Europa pensa di fermare con cannonate, reticolati e lager); deterioramento del clima, senza alcuna strategia per l’imminente vertice di Parigi; che è anche l’unica chance per rilanciare l’occupazione.
In Europa, come in tutto il mondo, comandano «i mercati», la finanza. Governi e politici sono al loro servizio: i guai della Grecia sono stati provocati prima dall’ingordigia e poi dal salvataggio di poche grandi banche europee. Ma è solo un caso singolo, portato alla luce dalla resistenza del popolo e del suo governo: tutti gli altri sono ancora avvolti nelle nebbie di una dottrina che imputa ai «lussi» di popolazioni immiserite i disastri provocati dalla rapacità della finanza. Mentre avallano questo attacco alle condizioni di vita dei concittadini, governi e partiti cercano di fidelizzare i loro elettorati delusi, disincantati e assenteisti vellicandone orgogli nazionali e risentimenti verso le altre nazioni. «Noi siamo probi; loro spreconi»; «Paghiamo i lussi altrui»; «Noi abbiamo fatto le riforme, loro no»; «Siamo sulla strada della ripresa, sono gli altri a trascinarci a fondo»; «O tuteliamo i nostri cittadini o manteniamo gli immigrati», ecc.
È una corsa disordinata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi governanti. Perché a raccogliere i frutti di questa semina sono e saranno altri: quelli che nazionalismo e razzismo (perché di questo si tratta) sanno coltivarli meglio. È questo che paralizza i governi: che cosa mai sta proponendo l’Europa, al di la della «meritata» punizione del popolo greco e di chi volesse imitarlo? Non c’è visione strategica; non c’è condivisione di valori e obiettivi; non c’è capacità né volontà di confrontarsi con la realtà. L’unione politica dell’Europa costruita attraverso i meccanismi di mercato è irrealizzabile: più la si invoca, più si allontana. I primi passi della Comunità europea – Ceca, Euratom (quando nessuno contestava ancora l’uso pacifico del nucleare), mercato comune – non erano che la ricaduta di un ideale, quello di una comunanza di popoli che fino ad allora si erano scannati a vicenda; non l’inizio della sua trasformazione in realtà.
Anche se pochi ne erano coscienti, ad animare quei passi era stato lo spirito di Ventotene, perché la volontà di evitare guerre, conflitti e iniquità era condivisa da tutti. Tutto ciò è scomparso da tempo: l’allargamento dell’Unione è stato condotto sempre più all’insegna di una ripresa della guerra fredda (i nuovi arrivati, o i loro governi, cercano l’Europa non per gli scarsi vantaggi che promette, ma per avere la Nato in casa) e buona parte di quell’allargamento è frutto del macello jugoslavo: una guerra provocata dall’Europa in Europa, ma condotta dagli Usa e per gli Usa.
È l’alta finanza a legittimare i governi europei, come è evidente nel passaggio della Grecia da un governo coccolato da banche e Commissione a uno esecrato da entrambe. Mentre a paralizzarli sono le mosse per tenere a bada i loro elettori. Ma anche una parte, ancora maggioritaria, di questi è paralizzata: dal mito della «ripresa», dell’«uscita dalla crisi», del ritorno alla «normalità», del ristabilimento delle condizioni di prima in fatto di reddito, occupazione, consumi; ma anche di libertà, pace, diritti. Quelle condizioni non torneranno più: bisogna imparare a vivere con quelle vigenti ora e a scavarsi la strada per un mondo diverso. Imparare a convivere con milioni di profughi, dentro e fuori i confini dei nostri paesi; lavorare per sradicare, insieme a loro, aiutandoli a organizzarsi, le cause di guerre e miseria che li hanno fatti fuggire.
Mettere al centro dei programmi la conversione ecologica: per salvare il pianeta ma anche i territori in cui viviamo; e per creare un’occupazione che valorizzi capacità e saperi di tutti, senza soggiacere al ricatto di perdere il reddito se si perde il lavoro. Sostituire un’economia che si regge sulla corsa ai consumi con una convivenza che privilegi qualità e ricchezza dei nostri rapporti con la natura e gli altri. Ma soprattutto, se vogliamo un’altra Europa, costruita su pace e dignità delle persone, prendiamo atto che i suoi confini non sono quelli dell’eurozona né, per quanto allargati, dell’Unione. Sono quelli tracciati da coloro che vedono nell’Europa non un «faro di civiltà» (in fin dei conti nazismo e Shoah li abbiamo covati noi), ma l’opportunità di una vita più ricca, pacifica e diversa. Abbiamo bisogno di un nuovo Manifesto di Ventotene.
«Vent’anni fa, nel 1995, si scrisse l’ultima atroce pagina del ‘900. A Srebrenica, nell’ex Jugoslavia, oltre ottomila uomini musulmani bosniaci furono massacrati su ordine del comandante serbo Mladic. L’opinione pubblica allora fu disattenta, oggi in molti faticano a ricordare dov’erano quell’11 luglio».
Corriere della Sera, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
Dove eravamo l’11 luglio del 1995? Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro. Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu, è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del Novecento.
«Gli abitanti di Srebrenica sono rimasti in pochi e fra quei pochi l’odio non si è stancato. Però ci sono persone che a fare la pace si impegnano davvero. Donne soprattutto: scamparono grazie a quello spirito cavalleresco non solo serbo che insegna a sterminare gli uomini - tutti, dai 13 anni ai 70 e oltre - e a risparmiare le donne, dopo averle stuprate».
La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
Srebrenica. Nemanija Zekic ha 27 anni, è il presidente del Centro Giovanile di Srebrenica, ed è, con suo fratello Zarko, un volontario dell’Associazione “Adopt Sarajevo”, ispirata ai pensieri e alle azioni di Alexander Langer. È nato a Srebrenica, ma non c’era nel luglio del 1995, perché dal 1991 la sua famiglia era riparata in Serbia, e quando tornò tutto era successo. Infatti Nemanja è serbo-bosniaco, ed è cresciuto nel culto nazionalista che insegna a esaltare le violenze vittoriose contro il nemico e a negare i crimini troppo orrendi per essere rivendicati.
La Repubblica, 12 luglio 2015
BRUXELLES. Il dietrofont di Alexis Tsipras e del governo greco non basta. Non bastano le misure proposte, perché la situazione economica della Grecia si è molto deteriorata dopo il referendum e la chiusura delle banche. Non bastano, soprattutto, le dichiarazioni fatte in Parlamento a ristabilire un minimo di fiducia tra Atene e i suoi creditori che per troppe volte si sono sentiti ingannati. E’ questo l’umore prevalente emerso dalla riunione dell’Eurogruppo, cominciata ieri pomeriggio a Bruxelles e proseguita nella notte. Oggi toccherà ai capi di governo della Ue decidere quali ulteriori passi siano necessari per aprire eventualmente il negoziato sul terzo pacchetto di aiuti che eviti l’uscita della Grecia dalla moneta unica.
Ieri, ufficialmente, nessuno ha evocato questa ipotesi, che però aleggia su tutti i colloqui europei fin dal momento in cui Tsipras ha rotto le trattative per indire il referendum. Ma il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, capofila dei falchi, ha scelto un modo indiretto per sollevare la questione facendo circolare uno studio del suo ministero concordato, a quanto pare, con Angela Merkel. Nel documento si sostiene che Atene dovrebbe varare immediatamente riforme più radicali e conferire beni per 50 miliardi in un fondo vincolato a garanzia dei nuovi finanziamenti, oppure «uscire per cinque anni dall’euro» e approfittare di questo periodo per ristrutturare il proprio debito pubblico. Poiché la sospensione “temporanea” dall’euro è un’ipotesi impercorribile, come hanno subito osservato fonti della Commissione, in realtà il documento prospetta un’alternativa tra il pignoramento dei beni di Atene e una sua uscita dalla moneta unica.
Ieri nella riunione dei ministri la discussione è stata accesa. Da una parte la pattuglia delle “colombe”, ridotta a Francia, Italia, Cipro e Commissione europea, che si è battuta sostenendo che le proposte di Atene costituiscono «una base sufficiente » almeno per avviare trattative sul nuovo pacchetto di aiuti. Dall’altra i “fal- chi” che hanno giudicato le proposte non credibili nè sul piano economico nè su quello politico. Il Parlamento finlandese ha addirittura vincolato il suo ministro a negoziare un Grexit.
Non ha aiutato a dirimere la questione il rapporto presentato ai ministri dalla Troika composta da Commissione, Bce e Fmi sulle proposte di Tsipras. E’ vero che il terzetto dei creditori ha giudicato la posizione greca sufficiente per avviare il negoziato. Ma ha anche evidenziato come la situazione del Paese sia drammaticamente peggiorata nelle ultime settimane. Le necessità di finanziamento di Atene nei prossimi tre anni sarebbero superiori a ottanta miliardi, di cui almeno 25 necessari per tenere in vita le quattro grandi banche che controllano la sua economia. Inoltre la recessione quest’anno e nel 2016 sarebbe superiore al 3%, a fronte di stime che, a primavera, prevedevano una crescita di almeno mezzo punto. Il calo del Pil fa peggiorare tutti i parametri economici, dal debito al deficit all’avanzo primario, rendendo impossibile raggiungere gli obiettivi che erano stati concordati con Bruxelles prima del referendum. E questo renderebbe le proposte avanzate da Atene, sulla falsariga di quelle che erano state bocciate nel referendum, largamente insufficienti.
E poi c’è la mancanza di fiducia politica, evidenziata nelle dichiarazioni non solo di Schaeuble, ma anche di quasi tutti i ministri dell’Europa nord-orientale. Il fatto che un governo respinga le proposte dei creditori, convochi un referendum popolare che ne conferma il rigetto, e poi il giorno dopo riproponga le stesse misure come se fossero una sua idea non ha per nulla convinto governi meno immaginativi di quello greco. Senza contare il fatto che la coalizione ora al potere in Grecia non sembra avere una maggioranza di voti necessaria a sostenere un simile programma. Si parla già di un prossimo rimpasto di governo. E questo apre uno scenario di instabilità politica che certo non rassicura i creditori di Atene.
Per ovviare a queste obiezioni, le “colombe” hanno lanciato l’idea di dare un minimo di tempo ai greci per consentire al Parlamento di approvare alcune delle più significative e delle più controverse tra le riforme annunciate. Sarebbe un pegno di serietà meno umiliante del fondo vincolato proposto da Schaeuble. Resta da vedere se oggi i capi di governo lo riterranno sufficiente, se il Parlamento greco riuscirà a superare la prova. E soprattutto se gli automatismi del default, in un Paese che vive ormai da due settimane in situazione di emergenza, lasceranno il tempo per questo ennesimo tentativo di rianimazione.
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Non basta, secondo i “falchi”, il voto del Parlamento greco: “manca ormai la fiducia” Situazione deteriorata negli ultimi mesi: servono 25 miliardi per salvare le banche
Il manifesto, 11 luglio 2015
La prima questione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge proprio dalla stessa crisi: è possibile, nell’Europa attuale, un governo di sinistra? Quello di Syriza è il primo governo di sinistra nell’Unione Europea. È sicuramente un caso particolare, di uno stato troppo debole e indebitato per esercitare, al momento, un governo compiutamente autonomo. Ma la natura dell’Ue lascia pensare che se anche un governo di sinistra si affermasse in paesi più forti e meno sottoposti al controllo della Troika, le differenze con il caso greco sarebbero di grado, non di sostanza.
Il governo Tsipars è riuscito in poco tempo a costruire una forte egemonia interna, come hanno sancito la vittoria del No e il fatto che le principali opposizioni abbiano dovuto decidere di sostenerlo nelle trattative con l’Europa. Questo è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riusciti negli ultimi anni a utilizzare il governo per costruire egemonia, sventando grazie a questa egemonia tentativi di golpe, proprio com’è accaduto a Syriza nelle ultime settimane (il referendum ha momentaneamente fermato il tentativo europeo di rovesciare il governo). Mai, invece, questa operazione egemonica è riuscita a un governo europeo di centro-sinistra, che di solito crolla nei consensi nel giro di settimane.
Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riuscendo a ottenere da una posizione di governo – che, nel contesto dato, è il massimo che potesse ottenere – è piuttosto lontano dai suoi obiettivi originari. L’Unione europea rende sostanzialmente impossibile la realizzazione di programmi redistributivi, la ripresa di un significativo intervento pubblico in economia, una politica industriale, e perfino politiche di sostegno alla povertà (che cinicamente la mano dell’Ue cancella con la penna rossa dalle proposte di Atene). Si tratta di realismo, non di ideologia: il programma di Syriza era un programma riformista, ma anche questo sembra irrealizzabile.
Come renderlo realizzabile?
I partiti della sinistra radicale in Europa hanno acquisito un’ottica di governo: vogliono governare, da soli o se necessario in coalizione. Come la situazione greca mette in luce, nell’attuale contesto europeo la realizzazione di un programma di sinistra è quasi impossibile. Si può scommettere sul fatto che la vittoria di Syriza abbia aperto un ciclo politico che porti le sinistre a vincere in Spagna, in Irlanda, in Portogallo e poi magari in Italia, e che in questa situazione i rapporti di forza si modifichino al punto da poter cambiare la costituzione materiale dell’Ue.
Ma ciò può anche non succedere. È impensabile, allora, che una sinistra che aspira al governo si ponga il problema di una «exit strategy»? Se l’Europa rende impossibile qualsiasi politica keynesiana e redistributiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere confermata a ogni costo? Anche se la risposta è affermativa, la domanda non può essere, realisticamente, elusa. Una forza negoziale si costruisce anche sulla base di alternative percorribili. Che non possono però riguardare un solo paese, ma implicano la costruzione di un vasto sistema di alleanze internazionali alternative, o complementari, a quelle attuali.
In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione europea a paralizzare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capitale finanziario e quello produttivo. Gli Stati sono totalmente dipendenti dai mercati finanziari. Una politica non gradita a questi ultimi verrebbe colpita da attacchi speculativi e dal mancato finanziamento del debito pubblico. Le imprese, nazionali o straniere, hanno poi il potere di reagire a politiche redistributive o favorevoli al lavoro con la minaccia dello spostamento della produzione, come hanno fatto da ultimo gli armatori greci.
Come si può realisticamente affrontare questa doppia minaccia?
La «sinistra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali strumenti di finanziamento del debito, e deve pensare a come costruire una nuova economia pubblica, una nuova capacità di intervento diretto dello Stato nell’economia produttiva, che contempli anche la proprietà diretta delle imprese (in forme sicuramente innovative). È l’unico modo per dotarsi di una capacità di reazione alla minaccia di «esodo» del settore privato. Storicamente si è assistito a ciclici conflitti tra Stato e capitale. Bisogna immaginare le forme contemporanee di tale conflitto.
Infine, è possibile che della crisi economica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spostamento a Est del centro dell’economia mondiale rende stabile la crisi di crescita delle economie occidentali. Vista l’attuale redistribuzione della produzione e dei servizi a livello internazionale, bisogna prendere atto del fatto che le società occidentali stanno sperimentando una «decrescita» forzata della produzione e dei livelli di vita.
Analisi rigorose sulla disoccupazione tecnologica evidenziano poi come l’automazione e la robotizzazione stiano fortemente riducendo, dopo l’occupazione manuale, quella intellettuale. È possibile che nei prossimi due decenni tassi di disoccupazione del 30% (secondo studiosi seri come Randall Collins, anche del 40 o 50%) diventino normali, perché l’innovazione tecnologica non si ferma. Come affrontare questi problemi? È possibile progettare sistemi sociali ad alto sviluppo tecnologico in cui il lavoro sia ampiamente redistribuito e sia comunque garantito a tutti il reddito necessario per una vita dignitosa? Come farlo? La riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza potrebbero richiedere applicazioni molto più estese e radicali di quelle a cui si pensa attualmente.
Questi due aspetti – crisi di crescita e aumento della disoccupazione tecnologica – fanno anche dire a un altro importante scienziato sociale, Immanuel Wallerstein, che il capitalismo andrà incontro a una crisi sistemica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nessuno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza sufficiente per costruire uno stabile ordine mondiale. Abbiamo di fronte, potenzialmente, scenari di questa portata.
Fino a 30 anni fa, la sinistra era anticipazione, la destra conservazione e difesa. Da trent’anni la sinistra si difende. Riusciamo a costruire conflitti importanti solo per difendere diritti consolidati. Di solito li perdiamo. La sinistra di governo deve ricominciare ad anticipare i cambiamenti, prima che si manifestino come emergenza. Bisogna approfondire nel dettaglio tutte le variabili in gioco e dotarsi di programmi di governo realistici. Realistico significa adeguato alla radicalità dei mutamenti in corso.
La società è sottoposta a un movimento fortissimo, probabilmente destinato a crescere. Tutto è in gioco: gli assetti economici e sociali, le forme della politica, le strutture istituzionali, i rapporti tra le culture. Per poter essere parte di questo movimento e candidarsi addirittura a guidarlo, la sinistra deve tornare a incarnare un intero modello di società.
«Per il Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz, l’accordo sarebbe una vittoria del buon senso: “Washington aiuti la Grecia visto che Bruxelles non fa la sua parte. La Merkel smetta di fare propaganda: Atene non sta per fallire”».
La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)
«Avete visto? Anche il Fondo Monetario ha detto che il debito greco va ristrutturato ». Veramente ha detto che va ristrutturato quello degli altri, per la sua porzione vuole la restituzione per intero. E Joseph Stiglitz scoppia in una risata: «Ma insomma, ve lo devo spiegare io che quando ci sono più creditori, il gioco è sempre quello di scaricare sugli altri l’onere?». Poi torna serio: «Sono sicuro che come è stato in altri casi come l’Argentina, alla fine ristrutturerà anche il suo credito ». Comincia così una lunga conversazione telefonica con l’economista, premio Nobel 2001, che più si è speso a favore di un aiuto concreto alla Grecia. Stiglitz è appena tornato a New York dal Lago di Como, dove è rimasto un mese a limare il libro Creating a learning society che sta per uscire. «Oggi si studia troppo poco, ma i Paesi dove si studia di più domineranno la gara per lo sviluppo».
?» Il Sole 24 ore, 10 luglio 2015
Se questa è Europa, meglio un taglio netto, Grexit e un nuovo euro, questa volta quello dei migliori.
Questo sillogismo è l'alibi morale che domenica a Bruxelles fornirà la giustificazione ai 28 capi di Governo dell'Unione per decretare con sollievo la cacciata della Grecia e la sua inevitabile discesa agli inferi. A meno che un piano credibile di riforme del Governo Tsipras, le dissuasive pressioni americane e lo scoppio della bolla cinese con i rischi di contagio globale che si porta dietro, non facciano il miracolo di riportare l'Europa alla ragione convincendola a non farsi del male da sola.
Ma davvero le semplificazioni manichee, il trionfo di apodittici luoghi comuni, che oggi guidano gli assalti dei partiti anti-sistema come la paludata propaganda dei partiti “perbene”, offrono un quadro onesto e veritiero della realtà europea? Quando si afferma che la Germania paga troppo per un euro inquinato dalla presenza greca e i suoi cittadini soffrono troppo per i bassi tassi che deprimono conti e risparmi, si tace sui benefici. 90 miliardi, che quei tassi fruttano alle casse dello Stato e all'orgoglio tedesco del pareggio di bilancio per il secondo anno consecutivo. Per non dire dei vantaggi competitivi per le loro imprese.
Non è uno scherzo né uno scambio inconsulto di paese: ironicamente alcuni problemi da risolvere sono gli stessi in Grecia e in Germania. Però la Grecia è irrecuperabile, ricattatrice, diversa da tutti gli altri paesi mediterranei, sbagliato ammetterla nell'euro: «C'è stato un tempo in cui si diceva lo stesso di noi, che non avremmo mai potuto diventare democratici», ricorda Schick. C'è stato anche un tempo in cui il Trattato di Versailles impose alla Germania oneri insostenibili creando risentimenti nazionali che sfociarono nella II guerra mondiale. Ma un altro in cui, era il 1953, le fu rimesso il 60% dei debiti e fu la ricostruzione.
Possibile che chi porta sulla pelle i segni delle ferite inflitte da eccessi, vendette e stupidità altrui non li conosca abbastanza da evitarli? E che chi ha conosciuto anche una solidarietà generosa e decisiva per il suo futuro non sia in grado di uscire dagli schemi contabil-punitivi per abbracciare con la Grecia la stessa logica di riconciliazione che ha fatto la pace e la prosperità dell'Europa nel dopoguerra? Già, ma i greci barano, non rispettano le regole. Le prime a rompere il patto di stabilità nel 2003 furono Francia e Germania. «Eravamo nella stessa situazione dei greci, dovevamo scegliere tra riforme strutturali e obblighi europei di risparmio. Nemmeno noi saremmo stati in grado politicamente di reggere il processo di riforma facendo più risparmi.
Scegliemmo le riforme, lo rifarei anche oggi» ricorda Joschka Fisher, ministro degli Esteri dell'allora Governo Schroeder. La Francia invece ha continuato a violare le regole anti-deficit fino a incorrere nelle multe, che le sono state però risparmiate con spregiudicate contorsioni interpretative. In nome del superiore interesse europeo. Perché nessuna grazia alla Grecia, a dispetto dei cattivi e disinibiti maestri? Il Governo Tsipras è inaffidabile, i greci fannulloni, evasori e truffaldini, lo Stato inesistente, dice la martellante vulgata imperante. Vero? In parte sì. Nel 2014 però la Grecia ha ridotto del 10,7% la spesa pubblica (in Italia è salita dello 0,2), il più alto taglio Ue.
Negli ultimi 5 anni il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti, quello della bilancia corrente di 16. Ma il debito è schizzato dal 120 al 180 %, complice una recessione paurosa figlia della Troika. I Governi precedenti però hanno rispettato solo il 30% degli impegni presi. Ora invece da quello di Tsipras se ne pretende l'attuazione “blindata” del 100% come pre-condizione alla concessione di nuovi aiuti. Perché? Tzipras non appartiene all'establishment politico europeo, è un leader di estrema sinistra che tra i tanti ha il torto di contestare il pensiero unico dominante in nome di una politica di crescita che renda sostenibili i debiti e restituisca fiducia e futuro alla Grecia come all'Europa. Grexit sarà indolore ma esemplare e ricompatterà l'euro: l'ultimo luogo comune di questa vigilia. Finanziariamente è tutto da dimostrare, come economicamente. Gli americani giurano che sarebbe la “Lehman 2” dell'economia mondiale. Politicamente sarebbe il disastro: l'Europa fondata sulla paura è un cemento inconciliabile con la democrazia.
Quella dimostrazione di democrazia diretta e di precisa volontà popolare non li aveva commossi. Eppure questa aveva fatto breccia persino nel mondo degli economisti mainstream. Uno dei più noti, Luigi Zingales, un italiano che insegna negli States, aveva scritto sul Sole24Ore parole di grande rispetto: “La Grecia, però ha sorpreso il mondo. Io non mi sarei mai aspettato che questo referendum potesse avere luogo nella più assoluta normalità nonostante le banche chiuse, tanto meno che il governo Tsipras fosse in grado di vincerlo”. Ma tutto ciò non ha scosso né turbato gli animi e le convinzioni di una Merkel, di un Gabriel, di uno Schulz, di un Draghi, di un Djisselbloem. Chi tiene i cordoni della borsa sa reprimere sentimenti e commozioni, sempre che ne abbia.
Non restava altra mossa a Tsipras che quella di riformulare una proposta, sapendo che questa volta la data del 12 luglio era davvero una dead-line. Lo ha fatto, rischiando molto, soprattutto al proprio interno, ispirandosi ad un antico principio tattico: fare un passo indietro oggi per farne due in avanti domani. E’ una scommessa. Nessuno può sapere se vincente o meno. Non sappiamo al momento la risposta dei creditori, ma è improbabile che prendano a scatola chiusa. I mercati finanziari sembrano tirare un respiro di sollievo, tuttavia è imprudente giudicare sull’onda degli umori volatili di questi ultimi.
"Non ho il mandato del popolo per portare la Grecia fuori dall'euro, ma per trovare un accordo migliore" Con queste parole Tsipras si è rivolto ai deputati nella riunione del Parlamento greco.
La domanda che tutti si pongono è allora questa: l’accordo sarà migliore? Tutti sappiamo bene che un accordo va valutato per il testo e per il contesto, che si tratti di un accordo sindacale o politico. A maggiore ragione in questo caso, ove il contesto è internazionale, addirittura mondiale per i molteplici interessi in gioco.
E questo contesto è tra i più negativi. Almeno per quanto riguarda l’Europa: la Grecia ha dovuto battagliare contro 18 avversari chi più chi meno motivati a stare dall’altra parte. La desiderata alleanza con i paesi più in difficoltà non si è mai verificata. Anzi è avvenuto il contrario: nessuno di quelli che avevano passato le forche caudine dell’austerità era disponibile a fare sconti ai greci. E su questo ci sarà da riflettere a fondo per evitare facili entusiasmi sulla solidarietà tra i popoli. Se un aiuto è giunto è arrivato da oltreoceano. L’amministrazione americana si è spesa esplicitamente perché la Ue trovasse una intesa per evidente ragioni geopolitiche che non permettevano di considerare la Grexit indolore per la strategia americana, in quella zona del mondo così delicata. Anche la Cina, scossa da una crisi da bolla finanziaria che ha altre e proprie ragioni, ha tutto l’interesse, e lo ho fatto sapere, che la Ue si mantenga unita e che non ci siano contraccolpi speculativi nel vecchio continente.
Se ci potessimo basare solo sul nuovo testo inviato da Tsipras e se la trattativa si concludesse senza sostanziali modifiche al medesimo, è indubbio che ci troveremmo di fronte ad un accordo migliore rispetto a quello prospettato dalla controparte e rifiutato dal no referendario e tale da aprire nuove prospettive che fino a qui sembravano precluse.
Ma è altrettanto chiaro che siamo di fronte a un compromesso che arretra in modo sensibile le linee di difesa iniziali del governo ellenico. In particolare su due punti non certo secondari: la questione delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Nel primo caso vi è un’ accelerazione nella revisione dei prepensionamenti, nell’aumento dell’età effettiva del pensionamento e nella disponibilità ad assumere altre misure per la “sostenibilità” del sistema pensionistico. Nel secondo caso vi è l’intento a discutere con le istituzioni europee le modifiche da apportare al mercato del lavoro e alla contrattazione collettiva nazionale.
Naturalmente non c’è nulla di ciò che veniva chiesto con forza dalle istituzioni e dai creditori all’inizio di questa lunga partita, come tagli orizzontali e indiscriminati a salari e pensioni, facilità di licenziamenti di massa, nonché elevamento generale delle tassazioni e dell’Iva in particolare.
Non solo, ma la nuova proposta tende a spostare l’asse sui temi più strutturali, una volta affrontata l’emergenza. Capaci di rilanciare su nuove basi l’economia greca, quali un terzo piano di aiuti triennali per circa 53 miliardi e soprattutto la disponibilità da parte della Ue a prendere in considerazione la questione complessiva del debito. La questione della sua sostenibilità sarà definitivamente sul tavolo dell’Eurogruppo, anche su probabilmente non nella forma di un haircut ma di una ristrutturazione del medesimo.
Il piano greco punta quindi a quello che fin dall’inizio era il suo obiettivo vero: guadagnare tempo senza andare a sbattere contro un popolo in acuta sofferenza, per rimettere in piedi l’economia su nuove basi e ammodernare democratizzandola l’inefficiente macchina statale.
E’ tanto, è poco? Aspettiamo qualche ora per un responso più sicuro. C’è però un punto di fondo che non deve sfuggire alla nostra riflessione. Quali sono i margini effettivi per una politica di sinistra, seppure entro i confini di un keynesismo sociale, in questa Europa inchiavardata nelle politiche di austerity? La risposta ora si sposta in Spagna, dove si voterà a novembre, come ha detto Pablo Iglesias di Podemos intervenendo nel Parlamento europeo.
Non sono riusciti a cacciare all'Europa Alexis Tsipras e ad annullare la speranza del cambiamento radicale. L'analisi prosegue sull'entità delle perdite e sulle condizioni del conflitto necessario per proseguire. Non è un problema solo per la Grecia, ma per quanti vogliono un' Europa solidale ed equa. Articoli di Dimitri Deliolanes, Pavlos Nerantzis, Anna Maria Merlo, Paolo Pini e Roberto Romano .
Ilmanifesto, 11 luglio 2015
di Dimitri Deliolanes
Atene. L’economia è paralizzata ma la società ellenica continua a reagire con orgoglio. L’ultima proposta ateniese, molto rigida, è però migliore di quella pre-referendum, più favorevole ai poveri
È giunta per Alexis Tsipras l’ora della politica di governo, delle manovre non lineari allo scopo di portare la Grecia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno condannata, per due settimane almeno, Schäuble e Dijsselbloem. Il premier manovra avendo il sostegno di un paese vivace e orgoglioso, consapevole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risolvere il problema subito, da lunedì.
Con il blocco dei capitali l’economia è paralizzata e quando finirà la liquidità finirà anche la pazienza dei greci. È quello che probabilmente spera il potente partito neoliberista europeo per far fuori i «rossi» di Atene e dimostrare ai popoli europei che l’evasione dall’austerità è impossibile: evitare il grexit ma promuovere l’Alexit, lo tsipras-exit, magari sostituito o affiancato dall’uomo degli oligarchi, l’ex giornalista Stavros Theodorakis.
Tsipras sa come può far fallire questo progetto di «soft golpe». Sa di essere l’unico leader politico del paese, senza opposizione credibile né fuori né dentro il suo partito. Tocca a lui decidere cosa dire ai creditori, come fare le mosse giuste e in quale direzione. Sempre sulla scia delle chiarissime indicazioni che sono emerse dal referendum: continuare a negoziare ma tornare a casa con un accordo, non con un nuovo fallimento. I greci non vogliono austerità ma non vogliono neanche essere cacciati
dall’eurozona. E Tsipras non vuole dare fuoco all’Europa.
Ma ci saranno anche tagli proporzionali alle pensioni, aumenti all’Iva nelle isole, escluse quelle meno turistiche e più isolate, ma anche per tutti gli alimenti, esclusi gli essenziali, e anche i ristoranti.
Inoltre, dopo aver letto le ripetute prese di posizione di Matteo Renzi, personalità centrale negli equilibri europei, Tsipras in persona ha insistito affinché all’abolizione delle baby pensioni fosse data la massima priorità: da oggi fino al 2022 tutti andranno gradualmente in pensione a 67 anni o dopo 40 anni di contributi. Entusiasmo a Palazzo Chigi.
Ma questo sforzo di distribuire il peso in maniera più favorevole agli strati più poveri non è sufficiente a rendere buone queste proposte brutte, di austerità e di recessione, in vista di un compromesso forse onorevole ma sbilanciato verso la parte dei creditori. Il popolo greco continuerà a sanguinare.
Condizione perché l’accordo auspicato si risolva in favore della Grecia è che sia accompagnato da un chiaro e preciso impegno degli europei ad affrontare, in una data precisa, il problema del debito, reso ancora più urgente in vista dei 30 miliardi che Atene ha già chiesto al Mes — un altro passo indietro del governo. Ancora ieri il sempre “flessibile” Schäuble e la stessa Merkel esibivano pubblicamente fortissimi impedimenti amministrativi e normativi a procedere a un deciso taglio del debito greco e dare così soddisfazione a Washington. Per evitare un uso politico dell’ottusità burocratica teutonica (come è successo più volte con Varoufakis), Tsipras ha preferito usare il termine «rendere sostenibile» il debito, facendo capire che anche spalmarlo all’infinito con tassi ridicoli sarebbe una soluzione soddisfacente.
Un ultimo aspetto della vicenda, non secondario: ieri celebri corrispondenti da Bruxelles e meno celebri commentatori di opposizione in Grecia davano per scontata la ribellione dei deputati intransigenti di Syriza, arrivando al punto di definirne perfino il numero: 40 circa. Nel pomeriggio è effettivamente uscito un documento di critica alle proposte del governo, firmato da tre deputati e da tre membri della segreteria, totale sei persone. Probabilmente al momento del voto, attorno a mezzanotte, saranno di più. Ma è difficile che la maggioranza si spacchi.
Stando a Bruxelles, gli acuti osservatori non potevano prevedere che in mattinata Tsipras avrebbe affrontato il suo gruppo parlamentare dicendo che non può ammette fratture sulla strategia da seguire in questo «momento storico»: «Siamo arrivati insieme e ce ne andremo insieme. Dobbiamo governare. Tra una soluzione brutta e una catastrofica, bisogna scegliere la prima. Cerchiamo di dare battaglia sul debito e non siamo soli. E se la maggioranza viene a mancare, allora non farò ricorso agli altri partiti. Io non sono Papademos». Parole chiare, responsabili, senza infingimenti e demagogia.
di Pavlos Nerantzis
Durissima resa dei conti nel partito al governo, ma dopo sei ore di riunione a porte chiuse anche gli aderenti alla «Piattaforma di Sinistra» assicurano il sostegno parlamentare al premier greco Tsipras
La proposta di Tsipras ai creditori ha messo in gioco la sopravvivenza del governo prima e durante il dibattito parlamentare. Mentre scriviamo è in corso il dibattito in parlamento, ma ad eccezione di un paio di membri di Syriza che hanno annunciato il loro no al mandato per Tsipras a trattare, la parte più a sinistra del Partito, «Piattaforma di sinistra» ha annunciato il proprio sostegno al premier.
La palla dunque, ora, passa all’Eurogruppo. Il dilemma per i dirigenti di Syriza era cominciato quando è stato reso noto il contenuto delle proposte greche: dovevano scegliere se far cadere il governo o accettare un terzo programma considerato «lacrime e sangue»; un pacchetto di proposte, secondo i dissidenti, lontano dalle dichiarazioni programmatiche del «programma di Salonicco». Le discussioni nelle riunioni delle componenti del partito sono state accese. Tutti erano consapevoli che un voto contrario alle proposte di Tsipras avrebbe provocato un colpo d’arresto al governo delle sinistre. Una sconfitta per la sinistra greca, un colpo duro per l’Europa della solidarietà e dei diritti. Solo una settimana la Grecia con il «no» aveva dato un chiaro mandato a Tsipras per trattare senza mettere in discussione la permanenza del paese nell’eurozona.
Ora in molti si chiedono se abbia senso accettare nuove misure di austerità. Il primo a reagire è stato, come ci si aspettava, il ministro della Ristrutturazione produttiva e dell’energia, Panayotis Lafazanis, leader della «Piattaforma di sinistra», la potente componente all’interno di Syriza, che mentre scriviamo, ha confermato l’appoggio a Tsipras nel dibattito parlamentare.
La sua prima reazione è stata categorica: «non voteremo, ha detto, un terzo memorandum». Secondo Lafazanis, sibillino, la Grecia «non ha nessuna pistola alla tempia, esistono opzioni alternative» a un nuovo accordo con la troika. Altrettanto dure e scettiche nei confronti della proposta del governo sono state le reazioni di alti dirigenti della sinistra radicale greca.
Il clima è cambiato quando si è sparsa la voce secondo la quale saranno radiati dal partito e dal gruppo parlamentare tutti coloro che si oppongono al piano Tsipras. Quasi 6 ore è durata la riunione a porte chiuse senza la presenza di giornalisti e di telecamere. Sei ore drammatiche che hanno messo alla prova la compattezza del partito.
Tsipras, parlando venti minuti, ha lanciato un appello ai deputati esortandoli ad appoggiare un accordo con i creditori per ottenere un terzo piano di salvataggio in cambio di riforme. Altrimenti, ha detto, «non accetterò che il governo perda la maggioranza» (Syriza possiede 149 seggi sui 300 e Anel, i «Greci indipendenti», l’altro partner di governo, 13 seggi). Il premier greco ha ribadito che il governo «non ha alcun mandato per un Grexit».
«Ci troviamo di fronte a decisioni cruciali, abbiamo un mandato per ottenere un accordo migliore rispetto l’ultimatum che l’Eurogruppo ci aveva posto, non abbiamo un mandato per portare la Grecia fuori dall’eurozona». E poi ha concluso: «o andremo avanti tutti insieme o cadremo tutti insieme».
«L’uscita dall’euro è l’unica soluzione» ha detto uno dei tre rappresentanti del gruppo parlamentare di Syriza, Thanassis Petrakos, mentre l’altro, Nikos Filis si è schierato contro.
«Non abbiamo avuto né un piano preciso alle trattative con i creditori, né una buona squadra di negoziatori» ha sostenuto il vice-presidente della camera, Alexis Mitropoulos, ex socialista del Pasok. Ottimismo, invece, sull’accordo e sull’approvazione del parlamento greco, è stato espresso dal vice-ministro dell’economia, Dimitris Mardas e il ministro degli interni, Nikos Voutsis.
«La scommessa è quella di ottenere la fiducia degli investitori» ha sostenuto l’ex ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, mentre il suo successore Euclid Tsakalotos ha fatto notare che «la proposta è migliore rispetto al passato perché tra l’altro parla della necessità di ristrutturare il debito».
La riunione del gruppo parlamentare di Syriza si è conclusa senza votazione e nonostante le tensioni, si ritiene che al momento della votazione non voteranno contro più di 10 deputati.
Nonostante l’approvazione, si fanno insistenti le voci di dimissioni di alcuni ministri facente parte della «Piattaforma di sinistra»: Panayotis Lafazanis, Dimitris Satratoulis, vice-ministro della Previdenza sociale, Kostas Isychos, vice-ministro della difesa e Nikos Chountis, vice-ministro degli esteri.
Un’incognita è rimasta fino all’ultimo la posizione di Panos Kammenos, leader degli Anel, del partito di destra e partner di governo. Kammenos non ha firmato le proposte presentate ai creditori (non ha firmato nemmeno il ministro Lafazanis) perché prevedono la diminuzione delle spese militari e l’annullamento dell’aliquota Iva alle isole. «Non vuol dire niente che il nostro leader non abbia firmato. La Grecia rimarrà in Europa» ha detto il ministro Terence Kouik, braccio destro del leader Anel.
A favore della proposta greca si sono schierati il partito di destra Nea Dimokratia, i socialisti del Pasok e i centristi del Potami, il leader dei quali, Stavoros Teodorakis si è incontrato ieri a Bruxelles con Jean-Claude Juncker. I comunisti del Kke, invece, hanno denunciato «il terzo memorandum promosso dal governo» e ieri hanno organizzato una manifestazione di protesta alla centralissima Platia Syntagmatos di fronte al parlamento.
di Pavlos Nerantzis Grecia. La nuova proposta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella precedente era di 8 miliardi) per i prossimi due anni, in cambio di un prestito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arrivare fino ai 70 miliardi di euro.
Le misure discusse al consiglio dei ministri e presentate ai creditori – prima ancora di essere discusse nel gruppo parlamentare di Syriza e nel parlamento — prevedono nuovi tagli e aumenti delle tasse per far incrementare gli introiti statali, un impegno per la ristrutturazione del debito e un programma pari a 35 miliardi di euro per attirare investimenti e favorire occupazione e crescita. La nuova proposta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella precedente era di 8 miliardi) per i prossimi due anni, in cambio di un prestito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arrivare fino ai 70 miliardi di euro.
Parte di questo maxi-prestito finirà alla ricapitalizzazione delle banche elleniche le quali dovranno rifondersi: dai quattro istituti di credito (National Bank of Greece, Piraeus, Eurobank e Alpha Bank) ne rimarranno due. Il testo ellenico è di 13 pagine e si basa su un recente rapporto di 47 pagine e sulla proposta avanzata dal presidente della Commissione europea Juncker. Il testo prevede modifiche significative ai sistemi fiscali e previdenziali, nel tentativo di convincere le istituzioni che Atene ha adottato un approccio più realistico. Il surplus primario sarà dell’1% nel 2015 e del 2% nel 2016, ma ci sono degli interrogativi su come il governo riuscirà a ottenere l’obiettivo di quest’anno visto che per il momento la crescita è di appena 0,5% a causa dei ritardi per arrivare ad un’intesa.
Nella proposta è prevista una tassazione dell’Iva a tre livelli, con medicinali, libri, spettacoli d’arte e teatrali al 6%; alberghi, energia, prodotti alimentari freschi e generi alimentari di base al 13% (e non al 23% come proponevano i creditori) e degli alimentari lavorati, ristoranti e altro al 23%. Inoltre resta in vigore il 30% di sconto sulle aliquote Iva sulle isole, una vera e propria «linea rossa» per il governo.
L’aumento dell’Iva sugli alimentari significa che i prezzi aumenteranno subito dell’8,85%, mentre quelli degli alberghi potranno aumentare del 6,1%. Inoltre, il governo manterrà la controversa tassa sugli immobili (Enfia) nel 2015 e 2016 (quando Syriza era all’opposizione l’aveva aspramente denunciata) e aumenterà nel contempo gli sforzi per combattere l’evasione fiscale. Previsto anche l’aumento della tassa di solidarietà come pure di quelle sul lusso e sugli introiti delle grandi società dal 26% al 28% e per gli armatori fino ad oggi mai toccati dal fisco.
Per quanto riguarda le riforme previste nel sistema pensionistico sembra che Tsipras abbia intenzione di applicare la legge degli ex ministri del Pasok, Loverdos e Koutroumanis, che forniva una pensione di base e proporzionata per chi ne ha maturato il diritto a partire dal gennaio 2015. In cambio il governo greco insisterà sul rinvio dell’attuazione della «clausola di deficit zero» per le pensioni integrative (ci sarà la graduale riduzione dei benefici dell’Ekas entro il 2019).
Tutto sommato i pensionati saranno lievemente colpiti dalle nuove misure, mentre il nuovo sistema pensionistico avrà anche lo scopo di scoraggiare il pensionamento anticipato con l’introduzione di sanzioni più severe.
La proposta del premier greco prevede anche l’attuazione dei suggerimenti dell’Ocse, che includono l’apertura delle professioni chiuse, come i notai, la revisione della competitività in aree caratterizzate da pratiche di oligopolio e l’adozione di nuove strategie per combattere la corruzione aziendale, in particolare in relazione alle procedure d’appalto pubbliche. Nel campo delle privatizzazioni si parla di un nuovo modello con la partecipazione dello Stato.
I porti del Pireo (la cinese Cosco ha già acquistato una parte degli stabilimenti) e di Salonicco saranno privatizzati, secondo la proposta di Atene, così come andrà avanti l’affitto delle tedesche Fraport e Sientel degli aeroporti di periferia (nel passato Syriza si era opposto). Oggi i creditori dovranno valutare il piano ellenico, ma non è detto che sarà approvato. Tutto dipenderà da Berlino e in particolar modo dal ministro delle finanze Schauble, che controlla la maggioranza dell’Eurogruppo. Quello che interessa è la sostenibilità del debito greco ed eventuali nuove misure che i falchi europei potrebbero chiedere all’ultimo momento.
di Anna Maria Merlo
Crisi dell'Europa. Tecnici francesi hanno aiutato i greci a redarre un testo di impegni in grado di convincere i creditori. Prudenza tedesca. Oggi l'Eurogruppo, i vertici di domenica (a 19 e a 28) potrebbero venire annullati. Il piano di Atene deve poi passare al vaglio di almeno 8 parlamenti della zona euro. L'appello dei sindacati europei perché i cittadini non siano "penalizzati dal voto"
François Hollande è stato il primo a reagire dopo la presentazione della proposta greca, giovedì in tarda serata. «Serie e credibili, volontà di concludere», per il presidente francese. Per il primo ministro, Manuel Valls, «solide, serie, concrete». Non c’è da stupirsi della reazione francese: sono tecnici di Bercy (ministero delle Finanze) che hanno consigliato i greci e suggerito le migliori formule per arrivare a un’approvazione, che dovrebbe arrivare oggi all’Eurogruppo (sempre che ad Atene la proposta passi al parlamento).
Ieri, il fronte dei creditori ha cercato una risposta comune. Juncker (Commissione), Draghi (Bce), Dijsselbloem (Eurogruppo) e Lagarde (Fmi), in una video-conferenza, hanno discusso per presentare una analisi comune, che riceverà il via libera all’Eurogruppo di oggi e dovrebbe aprire i nuovi negoziati per un terzo piano di aiuti alla Grecia. Per il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, oggi ci sarà una «decisione importante», perché il testo greco è «tra i più approfonditi» presentati ai ministri delle finanze. Se tutto fila liscio, come spera Renzi, potrebbe essere reso inutile il vertice dei capi di stato e di governo di domenica.
Ma a Bruxelles insistono sul fatto che il Consiglio a 19, previsto domenica, dovrebbe comunque riflettere sulla richiesta greca di un «ri-profilamento» del debito, in sostanza una ristrutturazione. Inoltre, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha anche convocato, sempre domenica, un Consiglio dei capi di stato e di governo della Ue, a 28, che ha in programma una decisione sugli «aiuti umanitari» alla Grecia – alimentari, medicinali. La commissaria al Budget, Kristalina Gorgieva, ha dichiarato: «stiamo organizzando un programma di sostegno di emergenza» che potrebbe raggiungere i 7 miliardi in un anno.
In Germania nessun entusiasmo. Solo l’Spd ha visto nelle proposte greche «un grande passo avanti», anche se Axel Schäfer sottolinea che «avrebbe potuto essere fatto da tempo». La Cdu, il partito di Angela Merkel, si interroga: «quale credibilità ha questa lista? sarà applicata?», si chiede il vicepresidente del gruppo Ralph Brinkhaus. Peggio gli alleati bavaresi della Csu, che giudicano il programma greco ancora «insufficiente».
Prudenza tedesca, ottimismo francese, italiano e persino slovacco, un’accoglienza favorevole a Bruxelles: ma la strada non è ancora spianata per un’uscita dalla crisi.
Intanto, c’è l’attesa per il voto al parlamento greco. Poi, altri parlamenti dovranno pronunciarsi su un terzo piano di aiuti: Valls lo ha promesso alla Francia questa settimana, poi come sempre la Germania, la Finlandia, l’Austria, l’Estonia, la Lettonia e la Slovacchia. In Olanda saranno i deputati a decidere se il piano richiede un voto, che potrebbe anche essere deciso in Irlanda. In Slovenia, il paese che in proporzione al pil è il più esposto con la Grecia, ci potrebbe essere un voto se verrà decisa una ristrutturazione del debito.
I sindacati europei hanno inviato una lettera alle istituzioni e all’europarlamento a favore di «negoziati in buona fede con l’obiettivo di trovare «un accordo socialmente giusto ed economicamente sostenibile con il governo greco», per «mantenere la Grecia nella zona euro e nella Ue».
di Paolo Pini e Roberto Romano
Durante l’ultima settimana è stato un continuo stillicidio di ipotesi tra l’irresponsabilità e la stupidità, con la Francia nella parte del poliziotto buono che ha tenuto un dialogo aperto all’ipotesi del No-Grexit con un nuovo Memorandum in continuazione dei precedenti, e la Germania nella parte del poliziotto cattivo che puntava ad alleggerirsi del fardello greco dall’Eurozona; gli altri paesi erano comparse di poco conto, appoggiando gli uni o gli altri, con l’Italia che neppure ciò riusciva a fare.
Tsipras ha avuto il merito di trasformare il «no» in una unica voce dietro la quale ha raccolto tutti i partiti greci che erano per il Sì, e così si è presentato di nuovo in Europa, al Parlamento Europeo per chiedere di proseguire il negoziato. Così facendo ha sgombrato il tavolo per quanti puntavano alle dimissioni del suo governo come condizione politica sine qua non per la negoziazione.
Ma non è riuscito ad evitare che sul tavolo rimanesse, nella migliore dei casi, solo l’ipotesi di un Memorandum che sancisce (a) nessuna concessione alle richieste greche di fermare le politiche di austerità e (b) nessuna ristrutturazione del debito greco.
È difficile non pensare però che essa non sia altro che un equilibrio temporaneo: la crisi greca rimane in agenda ed il rischio di quella sistemica dell’Eurozona viene solamente posticipato perché i fondamentali non mutano.
Per i creditori il debito va pagato, e sono disposti a concedere linee di credito solo a condizione di un Memorandum 3 prosecuzione dei due precedenti. Ma l’esito di ciò è il perdurare della depressione in Grecia, nella misura in cui il governo ellenico non ha un piano B, accettando di non dichiarare default e non prevedere un modo controllato di uscita dall’euro.
Gli interventi previsti e sui quali il governo greco è costretto a convergere sono consistenti, 12 miliardi di tagli invece degli 8 precedenti, per ottenere 50–60 miliardi di aiuti nel triennio; tra gli interventi vi sono la revisione delle imposte verso l’alto che andranno a penalizzare la domanda interna ed i servizi che la Grecia oggi di più esporta (turismo) e quelli sulle pensioni che anche essi non sono certo nel breve periodo a sostegno della ripresa della domanda.
Che le privatizzazioni siano poi il grimaldello per far decollare il mercato interno, su questo è lecito avere dubbi. Alcune delle modalità con cui ciò verrà fatto non sono comunque da disprezzare, e non piaceranno certo alla Troika, perché segnano che nella modulazione possono passare interventi che sono pure nel programma di governo di Tsipras (aumento delle aliquote sui profitti, tasse sulle proprietà, e sul lusso, tagli alla difesa — purtroppo modesti per l’acquisto di materiale bellico, tagli alle pensioni anticipate, interventi contro l’evasione fiscale e la corruzione, aiuti ai meno abbienti), come è da apprezzare avere ottenuto una consistente riduzione dell’avanzo di bilancio all’1% nel 2015 e quindi 2%, 3%, 3,5% negli anni seguenti sino al 2018 che la Troika avrebbe voluto inalterato attorno al 5% ed oltre del Pil.
Altri interventi sono vere e proprie concessioni alla Troika: aumento dei contributi sanitari per i pensionati, abbandono del contributo di solidarietà alle pensioni più povere, revisione delle normative sul mercato del lavoro secondo le migliori pratiche europee ed adozione di legislazione per la contrattazione collettiva da concordare con le istituzioni. Ma che tutto ciò possa favorire la crescita in Grecia è assai difficile da pensare.
L’accordo non prevedendo peraltro nulla di definito circa la ristrutturazione del debito e lascia la Grecia con il cappio al collo. Costretta a ripagare i debiti in base ai programmi stabiliti e tenuta a onorare tassi di interessi che sono considerati da usurai, sebbene di mercato (ma il mercato può ben essere in mano agli usurai!), alla Grecia rimarranno ben poche risorse per affrontare i nodi strutturali di offerta e di domanda.
Le risorse che servono per pagare i creditori verranno sottratte ad iniziative per ristrutturare la struttura produttiva greca che contribuirebbero anche a sostenere la domanda interna.
Così i nodi strutturali della Grecia non possono essere affrontati ed anche nell’ipotesi che una qualche crescita prima o poi si presenti all’orizzonte, il vincolo esterno continuerà a mordere, e quindi la necessità della Grecia di farsi finanziare con flussi esteri i deficit commerciali. Nel medio e lungo periodo quindi il rischio è che si ripresentino i problemi di sostenibilità del bilancio pubblico e dei conti esteri che assillano la Grecia da ben prima del suo ingresso nell’Eurozona, senza che nel breve periodo lo stato di depressione dell’economia sia alleggerito. Lo scenario rimane quindi cupo per la Grecia.
Se questo sarà la base dell’accordo (e come potrebbe essere altrimenti?) che verrà sottoscritto con l’Eurogruppo e con il Consiglio dei 28 entro domenica, la Grecia certo prenderà tempo, ma non è detto che ciò dia tempo all’Europa.
Nel frattempo, l’austerità continua, mentre la crescita può attendere.
Il manifesto, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Dopo il voto di fiducia dei 159 senatori di giovedì 25 giugno, oggi abbiamo vissuto ancora un altro Black Thursday della nostra storia repubblicana: alla Camera, 277 deputati hanno votato a favore della riforma della scuola proposta dal governo, trasformandola in legge.È davvero sorprendente che il premier, perplesso circa il fatto che in Grecia «3 milioni di cittadini abbiano espresso una decisione che riguarda 300 milioni di europei», non si preoccupi del fatto che poche centinaia di parlamentari italiani — nominati con una legge elettorale incostituzionale — hanno emanato una riforma che riguarda non solo milioni di studenti ma il destino del nostro sciagurato Paese.
È una riforma che fa strame dei principi costituzionali e declassa definitivamente la scuola pubblica italiana da istituzione a servizio. A nulla è valsa la mobilitazione costante di insegnanti e studenti che, nell’ultimo anno, fin dalle prime slide mostrate da Renzi in tv a settembre, hanno espresso ogni giorno e in ogni occasione il loro argomentato e articolato dissenso critico. Che hanno cercato, invano, un’interlocuzione reale con il governo, il parlamento e tutte le più alte cariche dello Stato per denunciare i rischi della deriva culturale e politica di una riforma della scuola che consegna tutti i poteri in mano ai presidi: dalla definizione del progetto formativo con vincolo triennale, alla ricerca dei finanziamenti privati sul mercato, fino alla chiamata diretta dei docenti.
Una riforma che lede uno dei princìpi fondamentali di uno stato democratico e civile: la libertà della scienza, delle arti e del loro insegnamento, ovvero la libertà del pensiero, la libertà attraverso la quale, nel percorso di istruzione e formazione intrapreso tra i banchi di scuola, i nostri studenti diventano, gratuitamente e a buon diritto, consapevoli cittadini del mondo. Come recitano gli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione, nel definire in modo chiaro e inequivocabile il mandato della scuola nel nostro Paese.
Da settembre non sarà più così. Se il Presidente della Repubblica firmerà questa legge, sordo ai rilievi di incostituzionalità formali e sostanziali che da tante parti si levano in questi giorni tristi, in cui la tenuta della democrazia sta vacillando sotto i colpi degli emendamenti soppressi, dei pareri delle opposizioni inascoltati, delle posizioni legittimamente espresse da sindacati, associazioni e movimenti protervamente calpestate, dello spettacolo indecente dei parlamentari intenti a compulsare tablet e cellulari mentre approvavano distrattamente questo o quell’articolo del ddl — se anche il Presidente, garante supremo dei principi costituzionali, non comprenderà i gravi pericoli di cui questa riforma è impregnata e non imporrà una profonda riflessione, allora da settembre ci sarà il Far West.
E non perché noi insegnanti la saboteremo o boicotteremo, peraltro legittimamente ove sarà necessario preservare i diritti degli studenti e dei lavoratori dal mercimonio degli interessi privati. Ma perché le scuole imploderanno in una condizione di contenzioso e conflitto perenne. Una condizione che ne determinerà la paralisi. Ogni decisione del dirigente scolastico sarà discrezionale e irricevibile dai collegi dei docenti, consigli di classe, rappresentanze sindacali, consigli d’istituto e da tutti gli organi collegiali che saranno stati in grado di mantenere intatte le prerogative decisionali. Da settembre, ogni preside potrà pescare dal gran calderone della legge (un unico articolo con 212 commi e 8 deleghe, irresponsabilmente lasciata in questa forma flessibile e largamente interpretabile) tutto e il contrario di tutto, per una scuola on demand che corrisponda ai bisogni del territorio ma soprattutto alle esigenze del mercato.
Sarà il caos. Hanno fatto un disastro e lo chiameranno «buona scuola».
«La “Buona scuola” è legge di stato». Una efficace descrizione della legge e delle sue criticità. Un giudizio ottimistico che non condividiamo.
Lavoce.info, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Il disegno di legge n.1934 (più noto come “Buona scuola”) appena approvato definitivamente dalla Camera in forma di unico articolo, in apertura enuncia i principi ispiratori, tutti pienamente condivisibili: “innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, […] per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, […] per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva […]”. Il modello organizzativo a cui si ispira la riforma è quello della attuazione della autonomia scolastica, che significa capacità di adattare l’offerta formativa al contesto locale alla luce delle costanti trasformazioni della realtà esterna. Non stupisce quindi che una più ampia autonomia richieda una maggiore e migliore capacità di direzione da parte dei dirigenti scolastici, il cui ruolo viene rafforzato.
La spesa in istruzione
La legge sancisce un’inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, in cui l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il più basso livello di risorse investite in rapporto sia al prodotto interno lordo, sia come quota finalizzata sul totale della spesa pubblica (l’8 per cento della spesa pubblica, secondo il recente rapporto Oecd Government at a glance, seguiti solo dalla Grecia al 7,8 per cento). Questo viene attuato attraverso un innalzamento della spesa dell’ordine di un miliardo e mezzo di euro all’avvio (e di tre miliardi e mezzo a regime) collegato all’immissione graduale in ruolo di circa 100mila nuovi insegnanti, oltre al rimpiazzo del turnover legato ai successivi pensionamenti.
Prerogative dei dirigenti
Sul rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici si sono maggiormente concentrate le proteste sindacali degli insegnanti. Secondo la nuova legge il dirigente avrà a disposizione fondi per premiare l’impegno scolastico dei docenti (con attenzione alle scuole a maggior rischio educativo), potrà scegliersi un gruppo di insegnanti “collaboratori” nella funzione di governo della scuola (opzione di fatto già esistente attraverso la scelta dello staff e, in parte, delle cosiddette “funzioni strumentali”) e potrà scegliere i nuovi insegnanti da un bacino predefinito (creando quanto indicato, sempre in gergo, come organico dell’autonomia o funzionale). Molte delle correzioni introdotte dal dibattito parlamentare hanno mirato a limitare queste prerogative: l’erogazione dei fondi incentivanti è stata trasferita a una commissione dove gli “incentivandi” hanno la maggioranza, la scelta dei nuovi insegnanti deve avvenire rispettando dei vincoli procedurali di trasparenza (pubblicità del fabbisogno di competenze in linea con il piano formativo triennale della scuola, pubblicità dei curricula dei selezionati).
Miglioramento delle possibilità di pianificazione e progettazione
Nel corso del percorso parlamentare il disegno di legge ha visto rafforzarsi la coerenza interna legata agli orizzonti temporali. A un sistema scolastico che era ormai abituato alla logica della “sopravvivenza quotidiana” è stata restituita la dignità di una pianificazione complessiva e di una progettazione didattica pluriennale. Non è infatti casuale che sull’orizzonte dei tre anni sia stata riallineata una serie di processi: la programmazione scolastica (in gergo Pof - piani dell’offerta formativa); l’assegnazione dei nuovi organici dell’autonomia; la valutazione degli esiti dei rapporti di autovalutazione a livello di istituto; l’assegnazione e la valutazione dei dirigenti scolastici; la cadenza dei concorsi per l’ingresso nella professione insegnante.
Bugie a go go e retrocessione culturale. L'autoritarismo dello Stato feudale prepara la sua perpetuazione: ecco a che serve la "buona scuola" di Renzi.
Il manifesto, 10 luglio 2015
I nodi vengono al pettine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci tutte le assunzioni, si diceva. Non sarà così.
Il ddl è stato approvato ma le assunzioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà graziosamente concessa la possibilità di fare un altro concorso) e saranno centellinate nel tempo.E ancora, per giustificare la volontà di non fare il decreto per le assunzioni, l’argomentazione ossessivamente ripetuta era: «non si possono fare le assunzioni dei precari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su organizzazione e gestione del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Perché si continua a giocare sulla pelle delle persone? Perché non si tiene in nessun conto una protesta civile e composta come quella della stragrande maggioranza del mondo della scuola?
Perché non si è mai tentata con la scuola e le sue rappresentanze un’interlocuzione positiva? Che non è sicuramente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Perché si è continuato a ripetere che la gente non capiva, fino ad arrivare alla farsa del gesso e della lavagna? Forse vale la pena riassumere i termini generali, entro i quali il dibattito si è sviluppato. Un dibattito che, come non accadeva da decenni, ha coinvolto non solo gli addetti ai lavori ma una larga e significativa parte dell’intellettualità di questo Paese, anch’essa inascoltata.
Lo scontro non è stato di tipo ideologico, innanzitutto. Non si sono confrontati una scuola «di sinistra» contro un governo «di destra», per usare delle semplificazioni pure molto diffuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli insegnanti innanzitutto, e poi delle famiglie e dei ragazzi, che da sempre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese civilizzato la garanzia di un futuro migliore, comunque. Ecco, diciamo che lo scontro è tra chi pensa che della scuola pubblica ci si debba prendere cura per il valore costituzionale che rappresenta e chi invece la paragona ad un’azienda, verso cui vanno applicati esclusivamente principi aziendali.Qualcuno l’ha già pensato in passato, Tremonti e Gelmini, per esempio. In quel caso tagli pesantissimi. In questo caso presidi manager, insegnanti scelti dai capi di istituto e una nuova gerarchia tra le scuole, avviando una competizione che rischia di lasciare indietro proprio quelli che hanno più bisogno. Secondo un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismet tendo .Ma a tanti, dentro e fuori la scuola, interessa soprattutto che la scuola continui a formare ragazzi che sanno. Conoscono. Riflettono. Imparano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filosofia aziendale, non ci sono cattivi da punire con trattenute di stipendio, o bravi da incentivare con regalie in denaro.
C’è un intero sistema che va accudito con la cura che merita. È questo l’errore, stavolta sì ideologico, del governo attuale come di quelli precedenti: l’incapacità di misurarsi con la scuola come sistema, e non come un semplice insieme di istituti e persone che vi lavorano dentro. Perciò questa legge non può essere corretta in corso d’opera come sostiene qualcuno, anche in queste ore. Perciò occorrerà un referendum abrogativo.Lo sa bene il popolo della scuola ( insegnanti, studenti, anche tantissimi dirigenti) che continua e continuerà nei prossimi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, combattendo una battaglia che ha il respiro largo delle grandi battaglie civili. Come da tempo non avveniva. Non sono persone che non hanno l’ardire dell’innovazione o patiscono la paura di essere valutate. Sono persone che sanno bene come funziona la scuola, a differenza dei tanti che ne scrivono sulle pagine della stampa nazionale guidati solo da impressioni o vecchi pregiudizi.
Sono quelli ai quali un recentissimo rapporto Ocse riconosce sempre migliori capacità di governare e migliorare il sistema pubblico della scuola italiana in una società che cambia. Difendere la scuola pubblica ormai è questo, un vero e proprio scontro di civiltà, termine abusato quanti altri mai, ma forse il più adeguato. La scuola pubblica è civiltà. È patrimonio genetico si può dire, del nostro vivere. Questo va fatto capire ai giovanotti del governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare politica e del governare. Riportarli nel mondo reale, di cui la scuola è maestra e specchio come nessun’altra istituzione. Abbiamo ancora tutti da imparare dalla scuola. Soprattutto loro.
Come gran parte della stampa anche
la Repubblica (10 luglio) sbatte in prima pagina la consegna di Evo Morales a papa Francesco del singolare connubio di simboli. Ma l'incontro tra i due personaggi, e il discorso di Borgoglio, sono solo l'antipasto di un gigantesco e memorabile evento di massa, che si svolgerà poco dopo a Vera Cruz (vedi in calce)
"Come ospite e pellegrino, vengo per confermare la fede dei credenti in Gesù", ha detto il Papa Francesco rivolgendosi al presidente della Bolivia Morales, alle autorità civili ed alla folla venuta a El Alto. Forte appoggio dal Papa appena giunto a La Paz dall'Ecuador, al cammino di inclusione sociale della Bolivia, alla sua tutela delle nazionalità, idiomi, culture, al suo riconoscere i diritti delle minoranze al suo opporsi al dio denaro che scarta anziani e giovani. Davanti a 500mila persone che lo hanno accolto all'aeroporto di El Alto, papa Francesco ha citato il preambolo della Costituzione boliviana. Subito prima del Papa, Morales, primo presidente indio dello Stato plurinazionale della Bolivia ha detto grazie al Papa "che ha scelto i poveri e ha scelto di chiamarsi come san Francesco d'Assisi, e gli ha chiesto "di aiutare il nostro cammino di cambiamento", "della nostra terra di pace - ha detto - che chiede giustizia".
Sintonia con Morales.
Religione e cultura.
Luis Espinal, il gesuita ucciso.
Riferimenti
Il discorso di papa Francesco all'Incontro mondiale dei movimenti popolari, Vera Cruz, 2015, in lingua spagnola. (inseriremo il testo in lingua italiana appena ne disporremo)