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«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare». La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)

A bordo del volo Asuncion-Roma. La situazione della Grecia, la valorizzazione della classe media, la nuova Chiesa di Francesco a cui piacciono i movimenti popolari ma non per questo opta per la strada dell’anarchia. Sono i temi principali di cui ha parlato il Papa sul volo di ritorno dalla sua visita di 8 giorni in America Latina. Oltre a spiegare i venti di pace fra Cuba e Usa (suo prossimo viaggio) il Pontefice ha anche parlato del regalo del presidente boliviano Evo Morales, la scultura di un Cristo sopra unafalce e martello. In piedi, per oltre un’ora Jorge Mario Bergoglio ha risposto al fuoco di fila di domande dei giornalisti che lo hanno seguito in Ecuador, Bolivia e Paraguay.

Santità, in Europa c’è il caso della Grecia. Che cosa ne pensa?
«Certamente sarebbe semplice dire: la colpa è soltanto di questa parte. I governanti greci che hanno portato avanti questa situazione di debito internazionale hanno una responsabilità. Col nuovo governo greco si è cominciata una revisione un po’ giusta. Io mi auguro che trovino una strada per risolvere il problema greco e anche una strada di sorveglianza perché altri Paesi non cadano nello stesso problema».
Lei ha detto che questo sistema economico spesso impone profitto a tutti i costi. Ciò è percepito dagli statunitensi come una critica al loro modo di vivere. Come risponde?
«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare».
Nel discorso ai movimenti popolari in Bolivia lei ha parlato del nuovo colonialismo, dell’idolatria del denaro e dell’imposizione dell’austerità ai poveri.
«I movimenti che si organizzano tra loro lo fanno non solo per fare una protesta. Sono tanti, persone che non si sentono rappresentate dai sindacati perché dicono che sono diventati una corporazione e non lottano per i diritti dei più poveri. La Chiesa non può essere indifferente, ha una dottrina sociale. La Chiesa non fa un’opzione per la strada dell’anarchia, questi lavorano, fanno lavori con gli scarti, con le cose che avanzano».
Tanti messaggi forti per i poveri e anche tanti messaggi severi per i ricchi e i potenti. Ma abbiamo sentito pochissimi messaggi per la classe media, per la gente che lavora, paga le tasse, la gente normale. Perché?
«Grazie tante. È uno sbaglio da parte mia. La classe media diventa sempre più piccola e la polarizzazione tra ricchi e poveri è grande. La gente comune, semplice, l’operaio, hanno un grande valore. Credo che lei mi dica un cosa che devo fare».
A proposito della mediazione tra Cuba e Usa: lei pensa che si possa fare qualcosa anche altrove?
«Non è stata una mediazione. C’era un desiderio da entrambe le parti. Mi auguro che vada avanti, noi siamo sempre disposti ad aiutare. Tutti e due guadagnano in pace, amicizia».
Che cosa ha provato quando il presidente Morales le ha regalato il Crocifisso con la falce e martello?
«Curioso, io non sapevo che padre Luis Espinal (il gesuita torturato e ucciso in Bolivia nel 1980) fosse scultore. Si può qualificare il genere nell’arte di protesta. Espinal era un entusiasta dell’analisi marxista, gli è venuta questa opera, era un uomo speciale con tanta genialità. Quest’opera per me non è stata un’offesa. Ho lasciato le decorazioni che il presidente Morales ha voluto darmi. Invece il Cristo di legno lo porto con me».
Qual è il segreto della sua energia vista in questi giorni?
«Qual è la sua droga? Quella era la vera domanda. Il mate mi aiuta, ma non ho assaggiato la coca, questo sia chiaro!».
«Uno dei protagonisti del vertice uscendo dal Justus Lipsius confida: “Dietro di noi lasciamo macerie, i greci non riusciranno mai a rispettare tutte le condizioni, ci rivedremo tra qualche mese con lo stesso problema sul tavolo”».

La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)

Bruxelles. Alexis Tsipras si alza dal tavolo, dopo ore di snervanti battibecchi con i leader europei perde le staffe: «Questa non è un’Unione, questa è un’associazione ricattatoria!». Sono le quattro del mattino, è il momento in cui può saltare tutto. Prima che gli altri leader gli rispondano per le rime provocando l’irreparabile, il navigato Jean Claude Juncker precedete i colleghi: «Alexis, ora basta! Non si possono usare questi toni in una riunione del genere, chi si comporta così fa spirare il negoziato». Mentre gli occhi delle venti persone presenti nello stanzone all’ottantesimo piano (in realtà è l’ottavo, ma si chiama così) del Justus Lispius si girano verso il capo della Commissione, il padrone di casa Donald Tusk sfrutta lo sconcerto generale per sospendere la seduta ed evitare il peggio. Tsipras esce scortato da due leader iscritti tra le colombe, si calma in corridoio. Ma la strada che porterà all’accordo sarà ancora lunga.

Quello di domenica notte non è stato solo il vertice più lungo della storia dell’Unione, ma per certi versi anche il più violento. «Tsipras - racconta un alto responsabile europeo - è stato trattato come un pungiball». Lasciando da parte torti e ragioni dei protagonisti di una telenovela fino all’ultimo in bilico tra lieto fine e tragedia, il film della notte racconta di un un’Europa ormai in crisi di identità.
I leader arrivano al palazzone del Consiglio europeo domenica pomeriggio e sul tavolo ovale del summit trovano il testo preparato dai loro ministri delle Finanze. Porta le impronte digitali di Wolfgang Schaeuble ed è talmente feroce nelle richieste alla Grecia in cambio degli aiuti che chiaramente punta ad esasperare Tsipras per portarlo al Grexit.
Tsipras non perde la calma, afferma: «Non mi alzo da questo tavolo finché non ho un accordo, non ho il mandato per tornare alla dracma». «Nemmeno io mi alzo senza un compromesso», risponde gelida la Merkel che ha il difficile compito di arretrare rispetto alla fuga in avanti di Schaeuble ma di costringere il premier greco - sfiduciato dai partner - ad accettare condizioni durissime in cambio del salvataggio. Le danze hanno inizio.
Il summit viene interrotto da una serie infinita di riunioni tra Hollande, Merkel, Tusk e Tsipras. In una di queste discussioni a quattro si verifica la scena che meglio rappresenta lo scontro di Bruxelles. Si parla del fondo da 50 miliardi in cui i greci devono versare i ricavi delle privatizzazioni per ripagare i creditori. Tsipras ripete che al massimo può mettere insieme 17 miliardi. Gli europei allora chiedono che anche le grandi banche elleniche entrino nei saldi greci. Tsipras lo vive come un tranello, si alza, si leva la giacca e la getta sul tavolo: «Prendete anche questa se volete», esclama.
La parte dei duri, come sempre, la fanno l’olandese Rutte e il finlandese Spila. Superano la Merkel in intransigenza permettendole di arrivare poi al compromesso. Ma in realtà sono tutti contro Tsipras, esasperati da sei mesi di piroette sue e del suo ex ministro Varoufakis. A difendere la Grecia, e non il suo primo ministro, solo Hollande, Renzi, il cipriota Anastasiades e Mario Draghi, che mette tutto il suo peso per difendere l’integrità dell’euro. E lo stesso Draghi – che aveva già avuto uno scontro con Schaeuble all’Eurogruppo – deve rintuzzare Spila con un tono di voce lontano dal suo abituale aplomb.
Almeno due volte si è arrivati a un passo dal fallimento che avrebbe decretato l’espulsione della Grecia. Alle sette del mattino si va vicino a un nuovo incidente quando si litiga ancora sul fondo da 50 miliardi. Renzi – che ha già avuto un ruvido confronto con Rutte – prende la parola per esortare tutti «a trovare una soluzione di buon senso». Ma la Merkel gli sale sulla voce, ancora indispettita perché circa 10 ore prima il premier italiano aveva detto che«Alexis con il referendum ha sbagliato, ma quando è troppo è troppo, non possiamo umiliare nessuno in questo modo». La cancelliera, dunque, interrompe Renzi e afferma: «Certo, serve una soluzione di buon senso ma qui nessuno può dire che la Germania esagera, nessuno può dire adesso basta». Renzi controbatte: «Se ce l’hai con me lo ripeto, in Europa non si possono tenere i rapporti in questo modo». Ma anche gli alleati litigano tra loro se è vero che si è registrato un battibecco tra Tsipras e Hollande, il vero tutor del premier greco in queste settimane di crisi.
Alla fine la Merkel e Tsipras danno vita a un lungo duello che scioglie gli ultimi nodi. Si trova un accordo durissimo per il primo ministro di Atene. Alle 8.45 di lunedì mattina il belga Michel brucia sul tempo i colleghi (serrata la gara sui social con il maltese Muscat) e via Twitter annuncia l’accordo. Seguono le conferenze stampa, i visi stravolti di leader e cronisti. Ma uno dei protagonisti del vertice uscendo dal Justus Lipsius confida: «Dietro di noi lasciamo macerie, i greci non riusciranno mai a rispettare tutte le condizioni, ci rivedremo tra qualche mese con lo stesso problema sul tavolo».
«Nelle ultime due settimane abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia. Tutto ciò non ha attinenza alcuna con l’implicita economia dell’austerità».

La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)

Supponiamo che consideriate Tsipras uno stupido incompetente. Supponiamo che vi piaccia con tutto il cuore vedere Syriza lasciare il governo. Supponiamo che accogliate la prospettiva di cacciare questi indisponenti greci fuori dall’euro. Anche se tutto ciò fosse vero, l’elenco di richieste dell’Eurogruppo resterebbe una follia. L’hashtag di tendenza #ThisIsACoup ha assolutamente ragione. Qui si va oltre l’inflessibilità, si va nella pura ripicca, nell’annientamento assoluto della sovranità nazionale, senza nessuna speranza di sollievo. Plausibilmente, si tratta di un’offerta formulata in modo tale che la Grecia non possa accettarla; ma, anche così, si tratta di un grottesco tradimento di tutto ciò che si supponeva dovesse affermare e sostenere il progetto europeo.

C’è nulla che possa far arretrare l’Europa rispetto all’orlo del baratro? Si dice che Mario Draghi stia cercando di ricondurre un po’ alla ragione, che Hollande stia finalmente dando prova di un po’ di quell’opposizione al gioco delle Moralità che l’economia tedesca ama fare e che in passato egli ha vistosamente mancato di impedire. Ma molto danno è già stato arrecato. Dopo tutto ciò, chi mai si fiderà più delle buone intenzioni della Germania?
Da un certo punto di vista, l’economia è diventata qualcosa di secondario. Cerchiamo di essere chiari una volta per tutte, però: nelle ultime due settimane abbiamo imparato che far parte della zona euro significa che se sgarri i creditori possono annientare la tua economia. Tutto ciò non ha attinenza alcuna con l’implicita economia dell’austerità. Più che mai adesso è vero che imporre una rigida austerità senza un alleggerimento del debito significa scegliere una politica predestinata al peggio, a prescindere da quanto il paese sia disposto ad accettare tormenti. E ciò, a sua volta, significa che perfino una capitolazione assoluta della Grecia sarebbe un punto morto.
La Grecia riuscirà a organizzare con successo un’uscita dall’euro? La Germania cercherà di ostacolare una ripresa? (Mi dispiace, ma questo è il tenore delle domande che dobbiamo porci adesso). Al progetto europeo - un progetto che ho sempre esaltato e sostenuto - è stato appena inferto un colpo terribile, forse mortale. E, a prescindere da quello che pensate di Syriza o della Grecia, a infliggerlo non sono stati i greci.

«L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese»,

Huffington post, 13 luglio 2015

Angela Merkel entrando nella sala dove si è tenuta la seduta decisiva per l’accordo fra la Grecia e la Ue ha dichiarato che “Trust has been lost”. La fiducia è andata perduta? Sì ma nei confronti dell’Europa più che della Grecia, Tutti nel mondo, a cominciare dagli americani che hanno i loro interessi geopolitici in quella zona del Mar Egeo, sono stupefatti di come la “trattativa” con il paese ellenico è stata portata avanti, soprattutto tenendo conto della relativa esiguità del debito in discussione: 360 miliardi di euro. Pensate che le Borse un lunedì fa ne hanno bruciati 270 solo al mancato annuncio di un accordo che pareva già raggiunto.

La verità è che le questioni economiche c’entrano poco in questa partita, anzi in questa prima guerra di interdipendenza europea. L’aspetto decisivo è sempre stato quello politico. Le elite europee non possono tollerare che si diffonda il messaggio che è possibile condurre politiche economiche anticicliche che fuoriescano dalle regole del neoliberismo e dell’austerità europea a marca tedesca. Questo è il vero contagio temuto. Per cui prima si è cercato di rovesciare Tsipras creandogli vuoto attorno; quindi si sono manipolate le norme dei trattati facendo credere che una Grexit per cinque anni fosse possibile con l’attuale ordinamento europeo; poi, una volta che questo tentativo di golpe bianco è fallito grazie al referendum greco, si cerca di imporre ad Atene un cambiamento di maggioranza, reimbarcando al governo i resti di quei partiti che sono stati complici delle politiche di austerità che hanno affamato il paese e incrementato il debito.

Nello stesso tempo, come apprendiamo da una intervista di Varoufakis al Guardian, lo stato greco non era in condizione di mettere rapidamente a punto tutte le misure necessarie per una uscita regolata e non distruttiva dalla moneta unica. L’uscita dall’euro era quindi, dal fronte greco, una minaccia spuntata. La Grexit era quindi interamente nelle mani altrui, in particolare quelle tedesche.

Ora la parola spetta ai parlamenti nazionali. Sarà decisivo il voto del Parlamento greco. Come per tutti gli accordi questo presenta punti critici, ad esempio sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni. E’ quindi fisiologico che una parte di Syriza non sia d’accordo. Vedremo se questo la spingerà a votare contro in Parlamento, lasciando Tsipras senza maggioranza. In questo caso il giovane leader greco o forma un governo di unità nazionale o chiede di andare alle elezioni anticipate, come in fondo gli suggerisce Paul Krugman.

L’accordo in sé è un compromesso che sconta un clima pesante e l’isolamento della Grecia. Tuttavia Tsipras può giustamente dire di avere trattato per tutto il popolo greco. Ha rinunciato a qualche misura sociale che gli stava a cuore per salvaguardare le possibilità di sviluppo futuro per il paese. Infatti ottiene in cambio un finanziamento triennale tra 82 e 86 mld di euro che potranno permettere investimenti all’interno tali da compensare largamente i fattori recessivi derivanti dagli elementi negativi del compromesso. Nello stesso tempo ha salvato le leggi sociali già attuate; ha mantenuto il fondo di garanzia in patria; ha soprattutto posto il tema di una ristrutturazione del debito ellenico.

L’accordo quindi implicitamente riconosce la insostenibilità del debito greco e delle sue attuali forme di pagamento. E’ un punto importante, quello per il quale sia Tsipras che Varoufakis si erano battuti fin dall’inizio.

Questa vicenda ci dimostra che l’attuale governance dell’Europa è del tutto inadatta a condurre avanti il processo di unità europea. L’idea di un’Europa tedesca – neanche più franco-tedesca come agli inizi - confligge con il principio di un’Europa federale, solidale e fattore di pace nel mondo, che erano gli ideali del manifesto di Ventotene di più di settanta anni fa. Come è noto i trattati anche nella forma attuale prevedono che i paesi in surplus dal punto di vista del rapporto esportazioni – importazioni li riducano per non creare dislivelli stabili ed eccessivi fra i vari paesi europei. La Germania è almeno da sei anni che viola tali limiti, senza che nessuno obietti alcunché.

Schäuble «ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che si tratta di un club, anziché di un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei».

La Repubblica, 13 luglio 2015

Come una cartina di tornasole la Grecia mette in luce un sostrato di vecchie ruggini dentro il cuore dell’Europa. Divisioni che sotto un linguaggio economico all’apparenza neutro mostrano un grumo di radicati pregiudizi. Che si manifestano non solo come primato dell’interesse nazionale (dei forti) ma anche come superiorità culturale di un’area dell’Europa su un’altra. In questo inquietante ritorno all’antico si materializza la debolezza della sinistra europea, che non sa fare argine a questi pregiudizi ma, come nel caso della socialdemocrazia tedesca, li cavalca. Due sinistre, divise come l’Europa: una incerta e una vociante. La prima, che non riesce a prendere al volo il caso greco per rilanciare il progetto politico europeo ( un’occasione di leadership che la Francia e l’Italia hanno sciupato) e la sinistra austro-tedesca, molto arrogante e determinata a sostenere alleanze preferenziali con i Paesi vicini alla Germania, quelli del Nord e dell’Est. Una vecchia storia recitata da nuovi attori.

La divisione delle sinistre corrisponde alla faglia che divide l’Europa in due, con la parte dominante che ha il suo rappresentante nel ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, presentato come un figlio politico di Helmut Kohl e sincero europeista, e che ha tuttavia una visione decisamente centro-europea dell’Europa. Nel suo lobbismo per la Grexit ha messo in chiaro che egli non crede ad una integrazione europea, ma a un’Europa a diverse velocità e in sostanza gerachicamente strutturata in relazione alla vicinanza di interesse e di cultura con la Germania. È per questa ragione che egli ha sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù: che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che l’Europa è a tutti gli effetti un club, anziché un’unione, nel quale per entrare e starci è necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente costruite da tutti i partner europei.

L’Europa come club, ecco la visione tedesca di Kerneuropa : il nucleo europeo rispetto al quale gli altri popoli sono periferici. Parte del “cuore” europeo non sono necessariamente i Paesi fondatori (vi è di che dubitare che vi figuri l’Italia) ma i Paesi vicini per cultura e interesse al centro propulsore del continente, la Germania. Non è un caso se in questa drammatica vicenda greca, la Germania abbia goduto del sostegno dei suoi tradizionali Paesi di riferimento, satelliti o alleati: dalla Finlandia, le repubbliche baltiche e la Slovenia all’Olanda e all’Austria.

Qui il Kerneuropa prende la configurazione geo-politica degli imperi centrali (non a caso il settimanale Bild ha recentemente definito Angela Merkel la “cancelliera di ferro”, il nuovo Bismark).

Come hanno messo in evidenza diversi organi di informazione, da Foreign Affairs al

Guardian , il pregiudizio anti- meridionale che l’ affaire greco ha scatenato si è già tradotto nei fatti.

Il Land austriaco della Carinzia con un indebitamento da “caso Greco” ha chiesto e ottenuto dal governo federale austriaco lo stato di emergenza, condizione per l’accesso al finanziamento federale per ottenere prestiti a tasso agevolato, di fatto una ristrutturazione del debito. La Germania ha concesso questa condizione alla Carinzia. E ora l’Austria è l’alleato di ferro della soluzione Grexit. Perché questa differenza di trattamento?

La ragione l’ha fatta intuire Schäuble avanzando l’ipotesi di un Grexit per cinque anni: non c’è “fiducia” nella Grecia. La fiducia non è lo stesso di garanzia ( una condizione accertabile e quantificabile) e diventa molto importante quando le garanzie sono labili. La fiducia è un’attitudine psicologica, sorretta da un sostrato di valori morali e etici condivisi: presume la messa in conto che gli stessi valori guidino i comportamenti dei partner. Dire che manca la fiducia verso la Grecia equivale a riconoscere che il partner ellenico non è un partner perché non condivide la stessa kultur . È nella stessa condizione dello straniero a tutti gli effetti: e incute diffidenza più che fiducia. Quali che siano le garanzie offerte dal governo di Atene, dunque, i tedeschi non si fidano nello stesso modo in cui si sono fidati della Carinzia. Qui siamo già fuori dell’Unione europea.

Infatti, se per comprendere che cosa gli Stati membri intendono per “Unione europea” occorre fare uno sforzo ermeneutico ciò significa che l’Europa è ormai un concetto contestato, una figura retorica alla quale non corriponde una visione normativa comune. Una possibilità di risolvere questa diaspora sarebbe potuta venire dai partiti socialisti, sorti dopo tutto su principi non nazionalistici e internazional- solidaristici. Per la calorosa accoglienza tributata a Alexis Tsipras, il gruppo socialista del Parlamento europeo ha mostrato di essere ancora sensibile a questi principi. Ma i socialdemocratici tedeschi seguono tutt’altra strada. La Spd, ha scritto Jan-Werner Müeller su Foreign Affairs , ha abbandonato completamente il discorso degli “eurobond” per aiutare i Paesi economicamente in bisogno ed è diventata più merkeliana della Merkel.

Il divorzio interno alla sinistra è anche in Europa un fatto reale e negativo. Dietro l’anti-ellenismo della Spd vi è il timore che Syriza metta in moto un movimento alla sua sinistra capace di erodere il consenso alla grande coalizione. Gli interessi della sinistra dell’establishment e quelli della sinistra non sono dunque gli stessi. Anche su questo conflitto dentro la sinistra sta il problema europeo, il declino di una visione unitaria.

Grecia. Ultimatum a Tsipras con condizioni capestro. "Umilianti e disastrose", risponde il leader greco. Si tratta nella notte, ma per il Guardian è in corso un "waterboarding mentale" nei confronti di Atene.

Il manifesto online, 13 luglio 2015, con postilla

Più che un nego­ziato, quello di ieri a Bru­xel­les è stato per Ale­xis Tsi­pras un “water­boar­ding men­tale”. E’ stato il quo­ti­diano inglese The Guar­dian a para­go­nare il fac­cia a fac­cia tra il pre­mier greco, Fran­cois Hol­lande, Angela Mer­kel e il pre­si­dente di turno dell’Ue, il polacco Donald Tusk, alla fami­ge­rata tor­tura uti­liz­zata dalla Cia per far par­lare i pre­sunti terroristi.

Ma, all’esito dell’ennesima este­nuante gior­nata di riu­nioni a porte chiuse e quando ancora i lea­der euro­pei erano riu­niti per un’altra notte di trat­ta­tive, le parole forti si spre­ca­vano: il secondo hash­tag più twit­tato al mondo era #thi­si­sa­coup (“que­sto è un colpo di Stato”), sem­pre il Guar­dian tito­lava “L’Europa si ven­dica di Tsi­pras”, men­tre il quo­ti­diano fran­cese Libe­ra­tion si chie­deva “a che gioco gioca la Ger­ma­nia” e il tede­sco Der Spie­gel par­lava di “cata­logo di atro­cità”.

Era acca­duto che, nel tardo pome­rig­gio, al ter­mine di un Euro­gruppo aggior­nato dalla sera pre­ce­dente dopo un duro scam­bio di bat­tute Mario Dra­ghi e il mini­stro delle Finanze tede­sco Wol­fgang Schäu­ble (“don’t take me for a fool”, “non pren­dermi per stu­pido”, aveva detto quest’ultimo al capo della Bce), era tra­pe­lata una bozza di ulti­ma­tum che suo­nava come un’umiliazione per il governo greco, inu­til­mente ven­di­ca­tiva e mirante a chiu­dere la “paren­tesi di sini­stra” rap­pre­sen­tata dal governo Syriza. In buona sostanza, si chie­deva alla Gre­cia di cedere la sua sovra­nità fiscale (e non solo) in cam­bio della ria­per­tura delle trat­ta­tive, in ogni caso non veniva escluso un Gre­xit, anche tem­po­ra­neo, e si pone­vano condizioni-capestro: alcune riforme da attuare in appena 72 ore, tra cui quella delle pen­sioni e l’aumento dell’Iva, garan­zie in beni sta­tali (archi­tet­to­nici, arti­stici, infra­strut­ture, etc.) per 50 miliardi da con­se­gnare all’Agenzia per le pri­va­tiz­za­zioni la cui sede sarebbe tra­sfe­rita in Lus­sem­burgo, la rein­tro­du­zione dei licen­zia­menti col­let­tivi e la riforma della contrattazione.

Infine, l’abolizione imme­diata di tutte le leggi appro­vate dal governo Tsi­pras, tra le quali misure uma­ni­ta­rie come gli aiuti a pagare le bol­lette dell’elettricità e dell’acqua, lo stop agli sfratti e l’azzeramento del tic­ket per acce­dere al ser­vi­zio sani­ta­rio nazio­nale per le fasce più povere della popo­la­zione, ma anche la rias­sun­zione dei dipen­denti pub­blici licen­ziati dal governo Sama­ras (a par­tire da quelli della tv di Stato Ert, che è stata ria­perta, e delle dipen­denti delle puli­zie del mini­stero delle Finanze, primo atto di Yan­nis Varou­fa­kis al suo inse­dia­mento).

Con­di­zioni pale­se­mente inac­cet­ta­bili, defi­nite “umi­lianti e disa­strose” dai nego­zia­tori greci e che hanno fatto sbot­tare il mini­stro della Difesa Panos Kam­me­nos: “Ci vogliono schiac­ciare, ora basta”, ha detto il lea­der dell’Anel (Greci Indi­pen­denti), part­ner di governo di Syriza che, pur non d’accordo con l’ultima pro­po­sta pre­sen­tata da Tsi­pras all’Eurogruppo, l’aveva votata in Par­la­mento per il timore che, in caso con­tra­rio, sarebbe potuta esplo­dere una “guerra civile”. Tutto ciò men­tre, in serata, ad Atene cir­co­lava un son­dag­gio per il quale il 68 per cento dei greci a que­sto punto sarebbe a favore del Gre­xit: un capo­la­voro poli­tico per i fal­chi dell’eurozona, che sono riu­sciti a far per­dere total­mente fidu­cia in loro a una popo­la­zione, com­preso l’elettorato di Syriza, asso­lu­ta­mente euro­pei­sta.

Ma è tutta l’impalcatura comu­ni­ta­ria che scric­chiola visto­sa­mente e rischia di venir giù all’emergere del primo vero dis­senso poli­tico. Capeg­giato dalla Ger­ma­nia (e le cro­na­che rac­con­tano che la più dura con­tro la Gre­cia, ieri, fosse Angela Mer­kel, quasi a smen­tire le voci di diver­genze con il falco Schäu­ble), il fronte del no si è fatto forza di un voto del Par­la­mento di Hel­sinki (dove ha pesato il 21 per cento dell’estrema destra dei Veri fin­lan­desi, in mag­gio­ranza) per com­pat­tare uno schie­ra­mento a favore dell’espulsione di Atene dall’eurozona che com­prende pure i paesi bal­tici e l’Olanda.

Sul fronte oppo­sto la Fran­cia, che aveva dato una mano al governo greco per la pre­sen­ta­zione della pro­po­sta, e a quanto pare Mario Dra­ghi, men­tre è rima­sto mar­gi­nale il ruolo dell’Italia. Hol­lande era arri­vato a Bru­xel­les soste­nendo che non avrebbe mai per­messo che la Gre­cia andasse fuori dall’euro, ma è stato scon­fes­sato dal docu­mento dell’Eurogruppo. E’ a par­tire da quella base che si è trat­tato per tutta la notte. Ma, comun­que vada, le ferite di que­sta brutta vicenda rischiano di rima­nere aperte a lungo. Una brutta pagina per l’intera Europa.

postilla
C'è chi ricorda che il primo commento della vittoria elettorale di Syriza di Merkel sia stato: "non è detto che la Grecia resti nell'UE". La paura di una sinistra seria è sempre fortissima in quel mondo. Per servirla, Angela è capace di tramutarsi da "democratica" in Führerin, e di rovesciare un tentativo di federazione democratica in un Quarto Reich. Gli altri, pavidamente, dormono, guardano altrove, o aggiustano la lingua a svolgere tanti lavori utili in un regime fatto di lupi e pecore.
Durissimo scontro all’Eurogruppo Berlino detta le condizioni, poi eurosummit nella notte.Atene: “Richieste offensive e disastrose”. Non sono falchi quelli che volteggiano ma avvoltoi.

La Repubblica, 13 luglio 2015

BRUXELLES. Tre giorni per riformare la Grecia, e una serie di diktat uno più duro dell’altro. I falchi volteggiano trionfanti sui cieli d’Europa. E dettano a Tsipras un ultimatum impossibile, come quello dell’Austria alla Serbia che innescò la prima guerra mondiale. Le colombe cercano di negoziare sulle briciole per rendere più accettabile un testo che mette comunque sotto i piedi qualsiasi residua sovranità di Atene. E’ questo il clima che si respira alla riunione dei capi di governo dell’eurozona, mentre le discussioni proseguono nella notte. Il vertice che avrebbe dovuto allontanare definitivamente lo spettro di un’uscita della Grecia dall’euro in realtà rende questa ipotesi sempre più credibile e immanente. La Grecia ha definito la proposta europea «umiliante e disastrosa». Come potrà Tsipras accettare un simile schiaffo e restare al suo posto è un mistero. Come possa pensare di riuscire rispettare le condizioni leonine che gli vengono imposte è incomprensibile.

Questa ennesima, drammatica svolta nella crisi greca è maturata nella notte tra sabato e domenica, quando è apparso evidente che una maggioranza di governi dell’eurozona era contraria a varare un nuovo pacchetto di aiuti per salvare il Paese dalla bancarotta e tenerlo nell’euro. La mancanza di fiducia nei confronti del governi greco era totale. Per cercare di evitare il peggio, la Commissione, l’Italia e la Francia hanno dovuto accettare un compromesso: dare tre giorni di tempo a Tsipras e al Parlamento di Atene per mettere alla prova la sua volontà di fare le riforme rifiutate finora. Ma il testo di quattro pagine che ieri mattina i ministri hanno trasmesso ai capi di governo dell’eurozona, senza averlo votato e con ben undici punti controversi, rispecchia in realtà il documento preparato nei giorni scorsi dal ministro delle Finanze tedesco Schaeuble. E tradisce la speranza dei falchi che siano i greci stessi, alla fine, a scegliere di uscire dalla moneta unica per poter negoziare un sostanziale taglio del loro debito ormai insostenibile.

Il documento dà tre giorni di tempo al Parlamento di Atene per approvare la riforma dell’Iva, la riforma delle pensioni anticipate, varare un nuovo codice di procedura civile, ristrutturare l’ufficio nazionale di statistica e creare un’autorità indipendente sul controllo di bilancio. Inoltre il governo greco deve presentare entro il 15 luglio una «roadmap dettagliata » sulla messa in opera a breve termine delle seguenti riforme: azzeramento del deficit del sistema pensionistico; liberalizzazione totale delle professioni e del commercio; privatizzazione della rete elettrica; revisione dei contratti nazionali di lavoro e riconoscimento dei licenziamenti collettivi; accelerazione delle privatizzazioni con la creazione di un fondo indipendente in cui conferire i beni da privatizzare per 50 miliardi; taglio ai costi della pubblica amministrazione e riforma secondo le indicazioni che verranno concordate con i creditori. Inoltre il governo si deve impegnare a far tornare la troika ad Atene; a cancellare o compensare tutte le misure anti-austerità già approvate senza il consenso di Bruxelles, e concordare con la troika tutte le proposte legislative prima di sottoporle al Parlamento. Tutto questo è considerato condizione minima necessaria non per varare il pacchetto di aiuti, ma solo per avviare le trattative in vista della concessione di un nuovo programma di assistenza. «In caso di non accordo- è scritto in una delle frasi rimaste tra parentesi - alla Grecia verrà offerto un rapido negoziato per una temporanea uscita dall’area euro e una possibile ristrutturazione del debito».

Il testo specifica che, contrariamente a quanto Tsipras aveva promesso in Parlamento, il programma prevede «il pieno coinvolgimento del Fmi» e che questa «è una precondizione dell’Eurogruppo ». Valuta il fabbisogno di finanziamento della Grecia «tra 82 e 86 miliardi», di cui sette miliardi da versare entro il 20 luglio e 5 entro metà agosto per consentire ad Atene di far fronte alla scadenze del debito. Prevede la possibilità di studiare una revisione di scadenze del debito e interessi, ma «a condizione della piena messa in opera delle misure concordate » e solo dopo la prima e positiva verifica sul rispetto degli accordi. Qualsiasi ipotesi di “haircut”, cioè di taglio del debito, è esplicitamente esclusa.

La Grecia ha considerato inaccettabili e offensive le condizioni offerte dall’eurogruppo. E ha cercato di negoziare una serie di ammorbidimenti, in particolare sul coinvolgimento del Fmi, sulla clausola di annullamento delle misure già adottate, sull’entità del fondo per le privatizzazioni, sul riferimento esplicito all’uscita dall’euro, sul rinvio dell’apertura del negoziato, senza il quale la Bce non può riaprire i rubinetti e le banche resteranno chiuse. Qualcosa, alla fine, sicuramente riusciranno ad ottenere. Ma il senso dell’ultimatum difficilmente potrà cambiare. E alla fine è difficile prevedere se Tsipras si piegherà davanti ai diktat europei o se preferirà scegliere l’opzione di portare il Paese fuori dall’euro. Che è sicuramente proprio quello che i falchi si augurano.

Intervista a Daniel Cohn Bendit. «In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli...».

Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)

Parigi. «Coscienti o meno, stiamo andando verso un’Europa delle Nazioni, orientata dagli egoismi nazionali. La migliore prova di questa tendenza è stata il comportamento degli Stati europei di fronte al problema dei rifugiati. Not in my backyard, non nel mio cortile, questa è la posizione di molti Paesi membri, Francia compresa, riguardo ai migranti. La nozione di solidarietà è estranea al dibattito di questi giorni. Questa è l’Europa delle Nazioni». Apolide alla nascita in Francia nel 1945, tedesco a 14 anni, francese a 70 (dal 22 maggio scorso), Daniel Cohn-Bendit è uno di quegli europei che l’Europa ha davvero provato a farla, sulle barricate nel maggio ‘68 e da leader ecologista sui banchi del Parlamento di Strasburgo. In Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria (Mondadori), scritto assieme al liberale belga Guy Verhofstadt, Cohn-Bendit tre anni fa cercava di dare una scossa federalista. Oggi guarda deluso le sue capitali, Parigi e Berlino, dividersi sulla Grecia e quindi sul futuro del continente.

Come spiega la rigidità della Germania verso la Grecia? Cosa c’è nella storia tedesca che porta a questa chiusura?
«Oggi la politica tedesca è tutta rivolta all’opinione pubblica, che è a sua volta concentrata sugli interessi della Germania. Una politica contabile ispirata a una ideologia rigida: solo risanando i conti pubblici l’economia può funzionare, e il prezzo di questo risanamento va pagato».

Ma perché accade questo?
«Ci sono sicuramente delle ragioni storiche, la Germania del dopoguerra si è costruita sul Deutsche Mark, su una moneta forte, simbolo della sua rinascita. Ma se siamo arrivati fino a questo punto credo ci siano anche banalmente delle ragioni psicologiche, personali. I politici si comportano come dei bambini. “Ha cominciato lui, no lui, tu mi hai insultato, no sei stato tu”. Quel che i responsabili greci non hanno capito è che attaccando il ministro delle Finanze Schäuble hanno ottenuto l’effetto di mobilitare una parte dell’opinione pubblica tedesca contro di loro. C’è una parte di voglia di rivincita, il desiderio di dare una lezione, nella durezza e nella cattiveria della posizione del ministro Schäuble. “C’è un problema di fiducia”, dice, ma che vuol dire? Chi deve avere fiducia in chi? I francesi non hanno fiducia nei tedeschi quando si tratta, per esempio, di battersi contro l’integralismo islamico o contro l’Isis o quando si inviano truppe in Mali. Ogni Paese può dire ormai “non ho fiducia” in un altro Paese su un dato argomento».
Perché la Francia è così vicina alla Grecia in questo momento, a costo di mettere alla prova l’asse franco-tedesco?
«Anche François Hollande ha delle ragioni di politica interna. L’opinione pubblica francese è molto più filo-ellenica di quella tedesca».
Da cosa dipende questa differenza nelle opinioni pubbliche di Francia e Germania?
«Intanto prendere in contropiede la Germania piace molto a una parte dell’opinione pubblica francese, poi c’è da sempre in Francia questo lato di solidarietà con il più debole. La questione che si pone oggi è: Hollande, Renzi, Rajoy, Merkel e gli altri possono avere una visione storica, o una visione contabile? Se prevarrà una visione puramente contabile siamo perduti».
Renzi ha appena ripetuto appunto che l’Europa non può ridursi a una questione di conti e burocrazia.
«Ma allora Renzi si batta assieme a Hollande e Juncker, lotti duramente durante le riunioni. Negli incontri dei ministri delle Finanze l’Italia finora non ha fatto sentire abbastanza la sua voce».

Se la Germania è così severa, è perché punendo la Grecia vuole educare Francia e Italia?
«È quel che sostiene Varoufakis nell’intervento che ha scritto per il Guardian. Il tono è sbagliato ma l’analisi giusta: Schäuble vuole dare un esempio a tutti, perché i mercati sappiano che l’euro è una moneta forte, che l’Europa non ha paura di amputare un dito andato in cancrena affinché la mano resista».
Così com’è l’Europa non funziona, è ormai evidente. Questa crisi potrà essere trasformata in un’occasione di rilancio?
«Mi pare molto difficile. Guardiamo per esempio ai finlandesi, che hanno nel governo il partito dei “veri finlandesi”, l’equivalente della Lega italiana. Come possiamo fare una nuova Europa se al governo ci sono partiti simili alla Lega? In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli... Queste occasioni dimostrano che la vecchia teoria della sinistra, cioè che sono le masse a fare la Storia, non regge. Sono le personalità che fanno la Storia, e se queste non sono all’altezza, i popoli sono destinati a mancare l’appuntamento».
Anche i capi di Stato che denunciano regolarmente i pericoli del populismo ne sono ormai condizionati?
«Esattamente. Hanno paura, vogliono guadagnare due punti nei sondaggi, Merkel non vuole irritare i contribuenti tedeschi, Hollande vuole posizionarsi per le prossime elezioni. Tutti hanno un’agenda nazionale. Solo questo conta».
Al di là delle interpretazioni formulate nei diversi campi del sapere, una cosa è certa: la campana suona anche per noi. E chi ci governa (per sua scelta) non se ne accorge.

Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)

La Grecia è il teatro. Ma al centro del dramma andato in scena ieri sera in Europa è piuttosto la «questione tedesca». O meglio: lo scontro tra Germania e Francia, tra Nord e Sud, tra formiche e cicale, sul destino dell’euro e dell’Unione stessa. La crisi di Atene ha funzionato da detonatore, e il povero Tsipras, che pensava di aver messo l’Europa con le spalle al muro giocando a poker col referendum, è diventato la cavia di un esperimento cui il suo governo, e forse anche il suo Paese, potrebbero non sopravvivere. Non è solo una battaglia politica. La storia dei tedeschi è cominciata nelle foreste. A differenza degli inglesi, degli italiani o degli stessi greci, che hanno dovuto affrontare il mare, temono più di tutto il rischio; la parola chiave del loro stare assieme è «sicurezza». Hanno inventato apposta una teoria, l’ordo-liberalismo, in cui le regole sono l’assicurazione contro i rischi. È così che l’«economia sociale di mercato» garantisce la protezione dei più deboli. Ma per funzionare ha bisogno di fiducia reciproca. Le tasse devono essere pagate, le norme rispettate, i debiti rimborsati. È impossibile per la signora Merkel, meno che mai con il fiato di Schäuble sul collo, concedere all’estero ciò che è vietato in patria .

I tedeschi non si fidano più della Grecia. E hanno le loro ragioni. Tutto sommato già Papandreou e Samaras avevano fatto mirabolanti programmi poi rimasti sulla carta. Dei sessanta miliardi di privatizzazioni garantiti, ne sono entrati appena un paio nelle casse di Atene. E gli armatori miliardari che fuggono le tasse sono fumo negli occhi per la classe media bavarese, che le paga fino all’ultimo euro. I tedeschi si domandano perché mai l’austerità abbia funzionato in Portogallo, in Irlanda, a Cipro, perfino in Spagna, e non in Grecia, nonostante più di trecento miliardi di prestiti.

La Francia non è solo più tollerante, trova anche una convenienza nella tolleranza, perché la applica innanzitutto a se stessa. Il governo di Hollande naviga da tempo fuori dalla regola del tre per cento. La flessibilità le permette di conservare un ruolo guida che né la sua economia né il suo bilancio consentirebbero. Lo scambio preteso da Mitterrand, sì all’unificazione tedesca in cambio della moneta dei tedeschi, è ancora il prezzo della politica di Parigi. Il guaio è che così la Francia, che già affossò con un referendum la Costituzione europea, è diventata il vero ostacolo a una maggiore integrazione che metta sotto controllo i suoi conti. Eppure solo un’Unione di bilancio, dopo quella monetaria, potrebbe evitare la Grexit, la cacciata della Grecia, senza rischiare la Gerxit, e cioè la secessione della Germania.

Prendiamo il fondo da cinquanta miliardi in cui Berlino vorrebbe che i greci mettessero il loro patrimonio a garanzia delle privatizzazioni. Così è poco meno di un pignoramento. Ma è altrettanto insensato pretendere che i greci possano disporre, senza dare garanzie credibili, di altri ottanta miliardi di prestiti dei contribuenti tedeschi o italiani. La sovranità non si può difendere con i soldi degli altri. E nemmeno la democrazia. Se Merkel volesse usare l’arma impropria di Tsipras, e chiedere in un referendum ai suoi contribuenti di accettare il terzo prestito alla Grecia, il risultato sarebbe scontato, e catastrofico. Bisogna dunque trovare un sistema che garantisca a chi presta di verificare come si spende, per mettere in comune, almeno in parte, il debito e il welfare. La Bce ha potuto abbassare i tassi per tutti, con il cosiddetto «quantitative easing» tutt’altro che gradito ai tedeschi, perché è l’unica agenzia federale dell’Europa. Ma è sola, oltre che unica.
La vera, grande colpa di Angela Merkel è di aver smesso di battersi per l’Unione di bilancio, temendo che sia inattuale o impopolare. Ma noi, che la critichiamo, saremmo pronti ad accettare che la nostra legge di Stabilità si scriva a Bruxelles?

Ecco: nel tentennamento, nella titubanza finora mostrata dal governo Renzi c’è questa incertezza. Non sappiamo se sperare, anno per anno, nella flessibilità, magari sognando di poter sforare anche noi il tre per cento; o se puntare su una nuova governance dell’euro, in cui si possa condividere con i tedeschi non solo la rigidità del bilancio, ma anche la crescita, il welfare, i bond. Di certo è nostro interesse nazionale che la Grecia resti nell’euro. Per ragioni ideali. Ma anche perché, se Atene uscisse, l’Italia non avrebbe più il secondo debito pubblico più alto dell’Europa, ma il primo. E con non uno, ma due partiti antieuropei in lizza per la vittoria elettorale.

Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!

Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.

Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

1. ABBIAMO BISOGNO DI CAMBIAMENTO

1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:

- Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?

- Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.

Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.

Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra [tierra, techo y trabajo] - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. SEMINATORI DI CAMBIAMENTO

Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati​ dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari.

Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.

Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.

3. TRE GRANDI COMPITI

3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.

L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.

I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).

I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.

In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.

Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).

Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.

Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.

Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.

Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.

Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.

La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.

4. IL FUTURO È NELLE MANI DEI POPOLI

4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!

Riferimenti

La fonte del testo è il sito web del Vaticano, dove sono accessibili anche le traduzioni in altre lingua. I titoli in carattere maiuscolo sono nostri. Il video del discorso del papa à accessibile qui

Solo le persone disinformate o in malafede, possono pensare che gli ostacoli posti a Tsipras derivino dalle ragioni proclamate: la verità è che non si vuole che in Europa ci sia una presenza che testimoni la possibilità di una politica diversa da quella del gruppo di potere dominante.

Il manifesto, 12 luglio 2015

Ancora una volta era sem­brato che l’accordo tra Ue e Gre­cia si potesse fare, rag­giun­gendo così l’obbiettivo di chiu­dere la bat­ta­glia ini­ziata con la vit­to­ria di Syriza nel gen­naio 2015, nono­stante l’obbiettivo vero delle auto­rità euro­pee sia sem­pre stato l’estromissione di Syriza dal governo. In que­sti mesi, infatti, quasi mai la posta in gioco dello scon­tro ha coin­ciso con le misure discusse. Bensì, da parte euro­pea, otte­nere l’adesione alla filo­so­fia del Memo­ran­dum. Ma que­sta sot­to­mis­sione al Memo­ran­dum che l’Eurogruppo voleva non c’è mai stata.

Le «Isti­tu­zioni», via via sem­pre più irri­tate dalla tat­tica nego­ziale di Tsi­pras, prima attac­ca­rono vio­len­te­mente Varou­fa­kis per espel­lerlo dalla trat­ta­tiva, e poi lan­cia­rono l’ultimatum al governo greco dopo la riu­nione «segreta» dei quat­tro (Com­mis­sione, Bce, Fmi e Eurogruppo).

A que­sta richie­sta fu rispo­sto no, con durezza, e le trat­ta­tive rico­min­cia­rono. Ma nono­stante le dif­fe­renze nelle misure da adot­tare si ridu­ces­sero, appa­riva chiara la volontà dell’Eurogruppo di accet­tare solo una resa com­pleta della Grecia.

E creb­bero le mano­vre euro­pee in Gre­cia per arri­vare a una sosti­tu­zione del governo di Syriza con uno di unità nazio­nale. A que­sto Tsi­pras rispose col refe­ren­dum, con­si­de­rato dagli euro­pei una mossa tal­mente ostile da dichia­rare, sia prima che subito dopo, che il refe­ren­dum ren­deva impos­si­bile la ria­per­tura delle trattative.

Tutti sap­piamo che la trat­ta­tiva si è ria­perta solo per l’esito quasi ple­bi­sci­ta­rio del refe­ren­dum, e per l’intervento pesante degli Stati Uniti. Dopo il refe­ren­dum e l’evidenza dei cal­coli poli­tici sba­gliati, gli Usa hanno ricor­dato bru­sca­mente agli euro­pei che i vin­coli geo­stra­te­gici non pote­vano essere un optio­nal subor­di­nato agli obbiet­tivi poli­tici intra-europei.

Rispetto a que­sto punto va valu­tata accu­ra­ta­mente la posta in gioco in que­sto momento. Che non può che essere che la soprav­vi­venza del governo di Syriza come obbiet­tivo asso­lu­ta­mente prio­ri­ta­rio. Evi­den­te­mente nel lato euro­peo sta pren­dendo di nuovo piede la posi­zione esat­ta­mente oppo­sta: che sia asso­lu­ta­mente prio­ri­ta­rio invece libe­rarsi di que­sto governo; e, in subor­dine, se que­sto non fosse pos­si­bile, libe­rarsi della Gre­cia nell’euro, pre­ci­pi­tan­dola in un caos che comun­que sia di monito a chiun­que volesse seguire quella via.

Solo così si spiega, infatti, la ria­per­tura vio­lenta dei gio­chi che sem­bra­vano taci­tati dall’intervento ame­ri­cano. Evi­den­te­mente pesano due moti­va­zioni entrambe vitali per la diri­genza tede­sca. La prima che que­sta rot­tura «poli­tica» della disci­plina dell’austerità era comun­que inac­cet­ta­bile per il con­ta­gio che avrebbe potuto pro­vo­care, indi­pen­den­te­mente dal con­te­nuto delle misure con­te­nute negli accordi. Ma c’è un secondo lato, fin qui in ombra, che sta venendo in luce. Ed è la stessa sta­bi­lità poli­tica tedesca.

È evi­dente, infatti, che Schäu­ble sta gio­cando pesan­te­mente sulla asso­luta osti­lità dell’opinione pub­blica tede­sca nei con­fronti di un qual­siasi accordo con la Gre­cia, che smuove strati pro­fondi di disprezzo verso il Sud d’Europa. L’incertezza della Mer­kel nel dare corso alle richie­ste ame­ri­cane di tener conto degli aspetti geo­stra­te­gici che l’esito nega­tivo dell’accordo impli­che­rebbe, pare quindi dovuto al timore che que­sta opi­nione pub­blica, da lei stessa aiz­zata fino al paros­si­smo, possa rea­gire vio­len­te­mente, desta­bi­liz­zando tutto il qua­dro poli­tico tedesco.

Non sarebbe più allora il peri­colo di for­ma­zioni popu­li­ste a pre­oc­cu­parla, ma che forse la stessa Csu bava­rese di Schäu­ble possa scen­dere sul piede di guerra.

Equi­li­bri tede­schi con­tro equi­li­bri euro­pei e geo­stra­te­gici mon­diali. Que­sta è la par­tita tre­menda che si sta gio­cando. Syriza deve morire, è l’urlo della destra tede­sca, e europea.

Che chia­ri­sce anche ai più tardi qual è la posta in gioco. Non certo le per­cen­tuali dell’accordo. Ma il potere in Europa. Che, per la prima volta, da Maa­stri­cht in poi, è stato messo in discus­sione dalla for­ma­zione poli­tica di un pic­colo paese di grande corag­gio. Chapeau.

«È una corsa disor­di­nata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi gover­nanti. Per­ché a rac­co­gliere i frutti di que­sta semina sono e saranno altri: quelli che nazio­na­li­smo e raz­zi­smo (per­ché di que­sto si tratta) sanno col­ti­varli meglio».

Il manifesto, 12 luglio 2015

Quale ne sia l’esito, di certo, non riso­lu­tivo, ha fatto più danni a cre­di­bi­lità e affi­da­bi­lità dell’euro come moneta glo­bale il meschino tira­molla delle auto­rità euro­pee con­tro il Governo greco di quanto abbia dan­neg­giato quest’ultimo il pesan­tis­simo com­pro­messo a cui ha dovuto sog­gia­cere. E poi­ché nell’accordo, se si farà, non c’è nulla che renda più soste­ni­bile l’economia greca, la cac­ciata dall’euro è stata forse sven­tata, ma la par­tita rela­tiva all’austerity è solo riman­data: si con­ti­nuerà a gio­care nelle con­di­zioni e con gli schie­ra­menti che si saranno for­mati in Europa nei pros­simi mesi o tra pochis­simi anni. Con­di­zioni che non saranno facili per nes­suno dei con­ten­denti. “Se crolla l’euro crolla l’Unione Euro­pea” è forse l’unica affer­ma­zione con­di­vi­si­bile di Angela Mer­kel: per que­sto, con quel tira­molla, le auto­rità dell’Unione hanno sicu­ra­mente com­piuto un buon passo avanti nel rive­larsi bec­chini dell’Europa.

Il vero regi­sta di que­sta stra­te­gia sui­cida è Mario Dra­ghi, che come capo di Gold­man­Sa­chs Europa aveva aiu­tato il Governo greco a truc­care il bilan­cio per entrare nell’euro e inde­bi­tarsi a man bassa; e che come capo della BCE gli ha poi pre­sen­tato il conto per sal­vare le ban­che cre­di­trici; e per poi met­tere Tsi­pras con le spalle al muro con il blocco della liqui­dità (il vero bazooka di cui dispone). Quel suo impe­gno a sal­vare la moneta unica “a qual­siasi costo” riguarda infatti l’euro vir­tuale pre­sente nei libri con­ta­bili delle ban­che; non l’euro reale pre­sente (anzi assente) nelle tasche dei cit­ta­dini per fare la spesa: e la Gre­cia è lì a dimostrarlo.

Ma sono vir­tuali anche gli euro dei debiti pub­blici: sono fatti non per essere resti­tuiti, ma per ricat­tare i governi. Nes­suno si illude di avere indie­tro il denaro pre­stato alla Gre­cia per sal­vare le ban­che fran­cesi e tede­sche che l’hanno spre­muta come un limone: se ne parla solo per ali­men­tare un ran­core di sapore razzista.

Tanto è vero che se i mem­bri dell’eurozona doves­sero rispet­tare il Fiscal Com­pact (di cui nes­suno parla più da mesi), i paesi insol­venti sareb­bero più della metà. Dif­fi­cil­mente però l’Unione euro­pea potrà ripren­dersi da que­sto smacco, anche se l’economia dà qual­che segno di ripresa. Minacce ben più cor­pose incom­bono sui gover­nanti. Per­ché men­tre com­bat­te­vano sull’aliquota Iva da appli­care alle isole dell’Egeo i conti aperti si accu­mu­la­vano: guerre ai veri con­fini dell’Ue — dall’Ucraina alla Libia, pas­sando per Siria, Israele, Eri­trea, Sud Sudan e Nige­ria – e domani forse anche al suo interno; milioni di pro­fu­ghi che pre­mono alle fron­tiere (e che l’Europa pensa di fer­mare con can­no­nate, reti­co­lati e lager); dete­rio­ra­mento del clima, senza alcuna stra­te­gia per l’imminente ver­tice di Parigi; che è anche l’unica chance per rilan­ciare l’occupazione.

Un con­ti­nente che con­danna alla disoc­cu­pa­zione per­pe­tua da metà a un quinto delle nuove gene­ra­zioni non ha futuro; e spo­stare verso l’alto l’età del pen­sio­na­mento, come è stato impo­sto alla Gre­cia, dopo la disa­strosa espe­rienza ita­liana, non fa che aggra­vare il pro­blema. E die­tro a tutto ciò, dise­gua­glianze cre­scenti tra paesi mem­bri, classi sociali, ric­chi e poveri, ma soprat­tutto tra cit­ta­dini autoc­toni e pro­fu­ghi e migranti: fan­ta­smi cui si nega per­sino il diritto di esi­stere. Dove sono le idee e i mezzi per affron­tare que­ste questioni?

In Europa, come in tutto il mondo, coman­dano «i mer­cati», la finanza. Governi e poli­tici sono al loro ser­vi­zio: i guai della Gre­cia sono stati pro­vo­cati prima dall’ingordigia e poi dal sal­va­tag­gio di poche grandi ban­che euro­pee. Ma è solo un caso sin­golo, por­tato alla luce dalla resi­stenza del popolo e del suo governo: tutti gli altri sono ancora avvolti nelle neb­bie di una dot­trina che imputa ai «lussi» di popo­la­zioni immi­se­rite i disa­stri pro­vo­cati dalla rapa­cità della finanza. Men­tre aval­lano que­sto attacco alle con­di­zioni di vita dei con­cit­ta­dini, governi e par­titi cer­cano di fide­liz­zare i loro elet­to­rati delusi, disin­can­tati e assen­tei­sti vel­li­can­done orgo­gli nazio­nali e risen­ti­menti verso le altre nazioni. «Noi siamo probi; loro spre­coni»; «Paghiamo i lussi altrui»; «Noi abbiamo fatto le riforme, loro no»; «Siamo sulla strada della ripresa, sono gli altri a tra­sci­narci a fondo»; «O tute­liamo i nostri cit­ta­dini o man­te­niamo gli immi­grati», ecc.

È una corsa disor­di­nata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi gover­nanti. Per­ché a rac­co­gliere i frutti di que­sta semina sono e saranno altri: quelli che nazio­na­li­smo e raz­zi­smo (per­ché di que­sto si tratta) sanno col­ti­varli meglio. È que­sto che para­lizza i governi: che cosa mai sta pro­po­nendo l’Europa, al di la della «meri­tata» puni­zione del popolo greco e di chi volesse imi­tarlo? Non c’è visione stra­te­gica; non c’è con­di­vi­sione di valori e obiet­tivi; non c’è capa­cità né volontà di con­fron­tarsi con la realtà. L’unione poli­tica dell’Europa costruita attra­verso i mec­ca­ni­smi di mer­cato è irrea­liz­za­bile: più la si invoca, più si allon­tana. I primi passi della Comu­nità euro­pea – Ceca, Eura­tom (quando nes­suno con­te­stava ancora l’uso paci­fico del nucleare), mer­cato comune – non erano che la rica­duta di un ideale, quello di una comu­nanza di popoli che fino ad allora si erano scan­nati a vicenda; non l’inizio della sua tra­sfor­ma­zione in realtà.

Anche se pochi ne erano coscienti, ad ani­mare quei passi era stato lo spi­rito di Ven­to­tene, per­ché la volontà di evi­tare guerre, con­flitti e ini­quità era con­di­visa da tutti. Tutto ciò è scom­parso da tempo: l’allargamento dell’Unione è stato con­dotto sem­pre più all’insegna di una ripresa della guerra fredda (i nuovi arri­vati, o i loro governi, cer­cano l’Europa non per gli scarsi van­taggi che pro­mette, ma per avere la Nato in casa) e buona parte di quell’allargamento è frutto del macello jugo­slavo: una guerra pro­vo­cata dall’Europa in Europa, ma con­dotta dagli Usa e per gli Usa.

È l’alta finanza a legit­ti­mare i governi euro­pei, come è evi­dente nel pas­sag­gio della Gre­cia da un governo coc­co­lato da ban­che e Com­mis­sione a uno ese­crato da entrambe. Men­tre a para­liz­zarli sono le mosse per tenere a bada i loro elet­tori. Ma anche una parte, ancora mag­gio­ri­ta­ria, di que­sti è para­liz­zata: dal mito della «ripresa», dell’«uscita dalla crisi», del ritorno alla «nor­ma­lità», del rista­bi­li­mento delle con­di­zioni di prima in fatto di red­dito, occu­pa­zione, con­sumi; ma anche di libertà, pace, diritti. Quelle con­di­zioni non tor­ne­ranno più: biso­gna impa­rare a vivere con quelle vigenti ora e a sca­varsi la strada per un mondo diverso. Impa­rare a con­vi­vere con milioni di pro­fu­ghi, den­tro e fuori i con­fini dei nostri paesi; lavo­rare per sra­di­care, insieme a loro, aiu­tan­doli a orga­niz­zarsi, le cause di guerre e mise­ria che li hanno fatti fuggire.

Met­tere al cen­tro dei pro­grammi la con­ver­sione eco­lo­gica: per sal­vare il pia­neta ma anche i ter­ri­tori in cui viviamo; e per creare un’occupazione che valo­rizzi capa­cità e saperi di tutti, senza sog­gia­cere al ricatto di per­dere il red­dito se si perde il lavoro. Sosti­tuire un’economia che si regge sulla corsa ai con­sumi con una con­vi­venza che pri­vi­legi qua­lità e ric­chezza dei nostri rap­porti con la natura e gli altri. Ma soprat­tutto, se vogliamo un’altra Europa, costruita su pace e dignità delle per­sone, pren­diamo atto che i suoi con­fini non sono quelli dell’eurozona né, per quanto allar­gati, dell’Unione. Sono quelli trac­ciati da coloro che vedono nell’Europa non un «faro di civiltà» (in fin dei conti nazi­smo e Shoah li abbiamo covati noi), ma l’opportunità di una vita più ricca, paci­fica e diversa. Abbiamo biso­gno di un nuovo Mani­fe­sto di Ventotene.

«Vent’anni fa, nel 1995, si scrisse l’ultima atroce pagina del ‘900. A Srebrenica, nell’ex Jugoslavia, oltre ottomila uomini musulmani bosniaci furono massacrati su ordine del comandante serbo Mladic. L’opinione pubblica allora fu disattenta, oggi in molti faticano a ricordare dov’erano quell’11 luglio».

Corriere della Sera, 11 luglio 2015 (m.p.r.)

Dove eravamo l’11 luglio del 1995? Molti di noi hanno difficoltà a ricordarlo. In quel giorno d’estate di vent’anni fa è caduta Srebrenica, ed è iniziato il massacro. Così, fra la disattenzione dell’opinione pubblica, le responsabilità di Usa, Francia e Gran Bretagna, e le colpe dell’Onu, è stata scritta l’ultima atroce pagina del libro nero del Novecento.

Stretta fra le gole dei monti, nella Bosnia orientale, Srebrenica era stata dichiarata nel 1993 safe haven, «zona protetta». I musulmani bosniaci non esitarono a cercarvi riparo in migliaia. D’altronde, già allora, si era materializzato lo spettro dei campi. Nella ex Jugoslavia, solcata dalla guerra, campi di concentramento erano stati creati ovunque: stadi, miniere, depositi, aree dismesse. Il più noto è quello di Omarska. Ai miliziani serbi non mancò la fantasia. Alle torture tradizionali aggiunsero nuove sevizie: ingestione di olio da motori, evirazione, cannibalismo forzato, necrofilia. Le donne furono sottoposte a stupri collettivi e sistematici. Il giornalista americano Roy Gutman denunciò, ma restò inascoltato.
È in tale contesto che va vista Srebrenica, una zona protetta che non tardò a rivelarsi un grande campo. Per quasi tre anni i rifugiati sopravvissero in quella valle tetra, fra stenti e isolamento, fin quando, malgrado la presenza di tre compagnie olandesi di caschi blu, l’11 luglio 1995 i militari serbo-bosniaci, guidati da Ratko Mladic, che da tempo circondavano l’enclave, entrarono a Srebrenica. Chiesero la consegna di tutti i maschi validi. E la benzina per evacuarli. Dalle ultime rivelazioni emerge che i caschi blu, senza troppe domande, fornirono 30 mila litri. I satelliti-spia fotografarono ogni cosa, ma i raid della Nato si fecero attendere invano.
Il massacro richiese alcuni giorni. E avvenne nelle frazioni intorno. Nel campo di Bratunac i giovani musulmani furono ordinati in due file parallele e abbattuti per lo più a randellate. Ma c’era chi, tra i massacratori, preferì conficcare l’ascia nella schiena, chi tagliare la gola. La sera, dei 400 da eliminare, restavano ancora 296; nella notte furono mandati davanti a un plotone di esecuzione.
Mentre delle oltre 8.000 vittime si cercano ancora i resti (i corpi di almeno 1.200 non sono stati rinvenuti), si discutono due grandi questioni. La prima è quella della definizione del massacro. Si è trattato di «genocidio»? E di che tipo?
L’Onu è apparso titubante. E ora, a fermare la già travagliata risoluzione, giunge il veto della Russia. Al contrario, il 2 agosto 2001 il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha riconosciuto nel massacro di Srebrenica un «genocidio». Questo giudizio, confermato in appello il 19 aprile 2004, si basa sulla evidente «intenzione» che ha guidato la «pulizia etnica»: quella di «distruggere almeno una parte sostanziale di un gruppo protetto». Se dunque, dal punto di vista quantitativo, non si può avvicinare Srebrenica al massacro degli 800.000 tutsi in Ruanda, si sottolinea però la continuità tra pulizia etnica e genocidio. Distruggere per sradicare: sta qui la continuità. Non si uccide, ad esempio, per sottomettere, bensì per eliminare una intera comunità da un territorio. Al di là delle cifre, quel che conta è la volontà di purificare uno spazio dalla presenza di un «altro» considerato indesiderabile, pericoloso, ingombrante. È insomma la volontà di decidere con chi coabitare che spinge, in nome di un «noi» etnicamente puro, a un uso della chirurgia in politica.
La seconda grande questione riguarda invece il giudizio filosofico-politico. È vero che i massacratori non disdegnarono il faccia a faccia, che i carnefici, a differenza di quel che avvenne nelle officine hitleriane, cercarono la vicinanza delle vittime. Si scagliarono contro l’inquilino della porta accanto, il collega di lavoro. Spesso martoriarono e mutilarono attingendo, nel lavoro sanguinario, a pratiche già in uso. Ma questo non deve far credere che Srebrenica abbia rappresentato il riemergere della barbarie e dell’odio atavico, né che sia stata semplicemente la conseguenza di un piano di spartizione, di una ridefinizione dei nuovi Stati europei che stavano per sorgere.
Srebrenica è stato un territorio, posto fuori dall’ordinamento normale, dove (purtroppo sotto l’egida iniziale dell’Onu) sono stati internati, privati dei diritti, e infine eliminati, essere umani ritenuti superflui. Perciò si inscrive nell’universo concentrazionario. Il nome di Srebrenica segna, dopo Auschwitz, l’inquietante ritorno del campo nel paesaggio politico dell’Europa.
«Gli abitanti di Srebrenica sono rimasti in pochi e fra quei pochi l’odio non si è stancato. Però ci sono persone che a fare la pace si impegnano davvero. Donne soprattutto: scamparono grazie a quello spirito cavalleresco non solo serbo che insegna a sterminare gli uomini - tutti, dai 13 anni ai 70 e oltre - e a risparmiare le donne, dopo averle stuprate».

La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)

Srebrenica. Nemanija Zekic ha 27 anni, è il presidente del Centro Giovanile di Srebrenica, ed è, con suo fratello Zarko, un volontario dell’Associazione “Adopt Sarajevo”, ispirata ai pensieri e alle azioni di Alexander Langer. È nato a Srebrenica, ma non c’era nel luglio del 1995, perché dal 1991 la sua famiglia era riparata in Serbia, e quando tornò tutto era successo. Infatti Nemanja è serbo-bosniaco, ed è cresciuto nel culto nazionalista che insegna a esaltare le violenze vittoriose contro il nemico e a negare i crimini troppo orrendi per essere rivendicati.

Non c’era fonte serba che non negasse lo sterminio di Srebrenica come una montatura e una cospirazione contro il popolo serbo. Ancora all’università Nemanja partecipava di questo sentimento, e tuttavia si disponeva ad ascoltare quelli che avevano perso la famiglia, a interrogarsi sulle prove. La propaganda, dice, non cede il passo, da ogni versante, e bisogna fare da soli, o quasi. Perfino in famiglia, all’inizio, è difficile venir fuori: si dà scandalo, si provoca dolore. Fra i propri connazionali si passa per traditori. A Srebrenica alcuni superstiti, giovani anche loro, diventarono suoi amici e interlocutori, come Muhammed Avdic, 32 anni. Una volta erano stati invitati insieme a raccontare Srebrenica a Bolzano, ma Muhammed all’ultimo non potè venire. Mentre parlava, Nemanja si accorse di stare raccontando la Srebrenica di Muhammed, che è musulmano osservante, e che ci aveva perso il padre. Di essere entrato nei suoi panni, salvo tornare nei propri.
Nevena Medic, 26 anni, anche lei serbo-bosniaca, fu sfollata con la famiglia a Sarajevo, e sperimentò insieme la città assediata e il rancore dei vicini musulmani. È diventata una studiosa di diritti umani, sa che torti e ragioni non sono tutti sullo stesso piano, ma tiene a che siano ricordate tutte. Il “tradimento” di questi giovani è diventato via via meno isolato. Chiedo: c’è qualche ragazzo serbo che si è innamorato di una ragazza musulmana, o viceversa? Un po’ di silenzio, poi: «Almeno uno c’è: Nemanja ». Che è innamorato della sua Jasmina. Io alla fine sono un uomo migliore, dice Nemanja, ma è un cammino da fare insieme, bisogna fare la pace con la storia del proprio popolo. Fare la pace, senza invitare a scordare il passato.
Domani, dicono, guarderemo a Belgrado, dove è stata indetta una manifestazione senza precedenti davanti al parlamento: in 7 mila si sdraieranno per terra a fare il morto per ricordare Srebrenica. Ci riusciranno? Glielo lasceranno fare? Nel pomeriggio arriva la notizia che il governo serbo ha vietato tutte le manifestazioni legate a Srebrenica.
Anche in “Adopt”, dove impegno e amicizia sono tutt’uno, la parola genocidio, pronunciabile, pronunciata, è il punto più delicato. Fuori, per i grandi e i piccoli della terra che oggi gremiranno Srebrenica, la Republika Srpska ha costellato la strada di manifesti con la faccia di Putin: il Grande Amico, che tutti lo vedano. Alla vigilia, è stato il suo veto a impedire che le Nazioni Unite chiamassero le stragi di Srebrenica col loro nome. Il nome di genocidio scava un fossato incolmabile –una infinita fossa comune- tra il popolo bosniaco-musulmano e il popolo serbo.

A Srebrenica sono passati solo vent’anni. Ne sono passati cento fra Turchia e Armenia, e la fossa è ancora spalancata. Gli abitanti di Srebrenica sono rimasti in pochi, 5 mila, forse 7, e fra quei pochi l’odio non si è stancato, o si è rimpiattato dietro la rimozione. Però ci sono queste persone che a fare la pace si impegnano davvero. Donne soprattutto: scamparono grazie a quello spirito cavalleresco non solo serbo che insegna a sterminare gli uomini – tutti, dai 13 anni ai 70 e oltre - e a risparmiare le donne, dopo averle stuprate.
Le donne scamparono per testimoniare e per aspettare che fossero restituiti i frantumi dei loro cari. Si continua a ricomporli, estratti a volte da fosse distanti, dopo che furono stritolati e rimescolati per cancellarne le prove. Ogni anno, quella che per i più è una commemorazione è per alcune il primo funerale, la prima sepoltura tributata: 138, questa volta. Su 8.372 persone scomparse, sono stati rintracciati finora i resti di 7.100. Più di 1.200 mancano ancora. Vorrei accostare questa lunga impresa pietosa al recupero italiano delle salme degli annegati dello scorso aprile.

Anche le notizie uscite alla vigilia del ventennale sull’ Observer (Repubblica, 5 luglio) mettono scrupolosamente in fila una quantità di testimonianze, ma non sono rivelazioni. Si sapeva che Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Nazioni Unite avessero deciso di darla vinta ai serbi sulle “aree protette”. Pochi giorni prima lo stesso governo di Sarajevo aveva ritirato a Tuzla le truppe che avrebbero potuto resistere a Srebrenica e difendere le decine di migliaia di rifugiati inermi. Si sapeva perfino che le Nazioni Unite avevano fornito il carburante a Mladic e i suoi scherani. Si intuiva che si fossero augurati –tenendosi le mani pulite, eh!- una strage un po’ più sanguinosa delle altre, che commuovesse il mondo e offrisse il pretesto per firmare la pace e la carta geografica rifatta. Quanto “più sanguinosa” - qui intervenne la solita banalità.
Un vero effetto ce l’ha, l’elenco dei documenti sul modo in cui si arrivò all’11 luglio: i potenti avevano concordato che Srebrenica spettasse alla Republika Srpska, e l’avevano fatto alla vigilia del genocidio, e per così dire preparandolo. Tanto più oltraggioso è che la Srebrenica in cui oggi ci si raccoglie a commemorare il genocidio appartenga all’“entità”, lo Stato dei suoi autori. Per il suo capo, Miloran Dodik, il genocidio di Srebrenica è «la più grande impostura del XX secolo». Se si trovasse un avanzo di dignità, Srebrenica dovrebbe ricevere uno statuto internazionale indipendente, come un patrimonio dell’umanità. Non per i suoi morti, ma per i suoi vivi.

Sentiremo oggi i potenti venuti a commemorare. Il più acquetato di loro, Bill Clinton, aspettò 4 anni a decidere che ce n’era abbastanza; e anche nella sua amministrazione ci fu chi benedicesse la consegna a Karadzic e Mladic delle zone solennemente protette e la deportazione dei rifugiati, lamentando poi di non aver previsto lo zelo ultimo dei deportatori. Clinton aspettò 4 anni: fra poco, Obama ne avrà aspettati 5 con la Siria.

Ho fatto un calcolo approssimato: Bosnia, 100 mila trucidati, due milioni di profughi; Siria, che è grande poco più del doppio, 240 mila trucidati, 4 milioni di profughi, 8 milioni di sfollati. Anche le differenze sono istruttive: a Srebrenica gli aggressori invasati erano cristiani, le vittime musulmane, di quell’islam europeo di cui c’è tanto bisogno.

A Dohuk, Kurdistan, i giudici che indagano sul genocidio jihadista degli yazidi mi hanno detto quanto desidererebbero che i genetisti delle ossa sparpagliate di Srebrenica trovassero il tempo anche per le loro fosse. Adesso, ogni volta che vedo un nuovo genocidio, penso già a come saranno le commemorazioni vent’anni dopo.

La Repubblica, 12 luglio 2015

BRUXELLES. Il dietrofont di Alexis Tsipras e del governo greco non basta. Non bastano le misure proposte, perché la situazione economica della Grecia si è molto deteriorata dopo il referendum e la chiusura delle banche. Non bastano, soprattutto, le dichiarazioni fatte in Parlamento a ristabilire un minimo di fiducia tra Atene e i suoi creditori che per troppe volte si sono sentiti ingannati. E’ questo l’umore prevalente emerso dalla riunione dell’Eurogruppo, cominciata ieri pomeriggio a Bruxelles e proseguita nella notte. Oggi toccherà ai capi di governo della Ue decidere quali ulteriori passi siano necessari per aprire eventualmente il negoziato sul terzo pacchetto di aiuti che eviti l’uscita della Grecia dalla moneta unica.

Ieri, ufficialmente, nessuno ha evocato questa ipotesi, che però aleggia su tutti i colloqui europei fin dal momento in cui Tsipras ha rotto le trattative per indire il referendum. Ma il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, capofila dei falchi, ha scelto un modo indiretto per sollevare la questione facendo circolare uno studio del suo ministero concordato, a quanto pare, con Angela Merkel. Nel documento si sostiene che Atene dovrebbe varare immediatamente riforme più radicali e conferire beni per 50 miliardi in un fondo vincolato a garanzia dei nuovi finanziamenti, oppure «uscire per cinque anni dall’euro» e approfittare di questo periodo per ristrutturare il proprio debito pubblico. Poiché la sospensione “temporanea” dall’euro è un’ipotesi impercorribile, come hanno subito osservato fonti della Commissione, in realtà il documento prospetta un’alternativa tra il pignoramento dei beni di Atene e una sua uscita dalla moneta unica.

Ieri nella riunione dei ministri la discussione è stata accesa. Da una parte la pattuglia delle “colombe”, ridotta a Francia, Italia, Cipro e Commissione europea, che si è battuta sostenendo che le proposte di Atene costituiscono «una base sufficiente » almeno per avviare trattative sul nuovo pacchetto di aiuti. Dall’altra i “fal- chi” che hanno giudicato le proposte non credibili nè sul piano economico nè su quello politico. Il Parlamento finlandese ha addirittura vincolato il suo ministro a negoziare un Grexit.

Non ha aiutato a dirimere la questione il rapporto presentato ai ministri dalla Troika composta da Commissione, Bce e Fmi sulle proposte di Tsipras. E’ vero che il terzetto dei creditori ha giudicato la posizione greca sufficiente per avviare il negoziato. Ma ha anche evidenziato come la situazione del Paese sia drammaticamente peggiorata nelle ultime settimane. Le necessità di finanziamento di Atene nei prossimi tre anni sarebbero superiori a ottanta miliardi, di cui almeno 25 necessari per tenere in vita le quattro grandi banche che controllano la sua economia. Inoltre la recessione quest’anno e nel 2016 sarebbe superiore al 3%, a fronte di stime che, a primavera, prevedevano una crescita di almeno mezzo punto. Il calo del Pil fa peggiorare tutti i parametri economici, dal debito al deficit all’avanzo primario, rendendo impossibile raggiungere gli obiettivi che erano stati concordati con Bruxelles prima del referendum. E questo renderebbe le proposte avanzate da Atene, sulla falsariga di quelle che erano state bocciate nel referendum, largamente insufficienti.

E poi c’è la mancanza di fiducia politica, evidenziata nelle dichiarazioni non solo di Schaeuble, ma anche di quasi tutti i ministri dell’Europa nord-orientale. Il fatto che un governo respinga le proposte dei creditori, convochi un referendum popolare che ne conferma il rigetto, e poi il giorno dopo riproponga le stesse misure come se fossero una sua idea non ha per nulla convinto governi meno immaginativi di quello greco. Senza contare il fatto che la coalizione ora al potere in Grecia non sembra avere una maggioranza di voti necessaria a sostenere un simile programma. Si parla già di un prossimo rimpasto di governo. E questo apre uno scenario di instabilità politica che certo non rassicura i creditori di Atene.

Per ovviare a queste obiezioni, le “colombe” hanno lanciato l’idea di dare un minimo di tempo ai greci per consentire al Parlamento di approvare alcune delle più significative e delle più controverse tra le riforme annunciate. Sarebbe un pegno di serietà meno umiliante del fondo vincolato proposto da Schaeuble. Resta da vedere se oggi i capi di governo lo riterranno sufficiente, se il Parlamento greco riuscirà a superare la prova. E soprattutto se gli automatismi del default, in un Paese che vive ormai da due settimane in situazione di emergenza, lasceranno il tempo per questo ennesimo tentativo di rianimazione.

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Non basta, secondo i “falchi”, il voto del Parlamento greco: “manca ormai la fiducia” Situazione deteriorata negli ultimi mesi: servono 25 miliardi per salvare le banche

Il manifesto, 11 luglio 2015
La prima que­stione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge pro­prio dalla stessa crisi: è pos­si­bile, nell’Europa attuale, un governo di sini­stra? Quello di Syriza è il primo governo di sini­stra nell’Unione Euro­pea. È sicu­ra­mente un caso par­ti­co­lare, di uno stato troppo debole e inde­bi­tato per eser­ci­tare, al momento, un governo com­piu­ta­mente auto­nomo. Ma la natura dell’Ue lascia pen­sare che se anche un governo di sini­stra si affer­masse in paesi più forti e meno sot­to­po­sti al con­trollo della Troika, le dif­fe­renze con il caso greco sareb­bero di grado, non di sostanza.

Il governo Tsi­pars è riu­scito in poco tempo a costruire una forte ege­mo­nia interna, come hanno san­cito la vit­to­ria del No e il fatto che le prin­ci­pali oppo­si­zioni abbiano dovuto deci­dere di soste­nerlo nelle trat­ta­tive con l’Europa. Que­sto è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riu­sciti negli ultimi anni a uti­liz­zare il governo per costruire ege­mo­nia, sven­tando gra­zie a que­sta ege­mo­nia ten­ta­tivi di golpe, pro­prio com’è acca­duto a Syriza nelle ultime set­ti­mane (il refe­ren­dum ha momen­ta­nea­mente fer­mato il ten­ta­tivo euro­peo di rove­sciare il governo). Mai, invece, que­sta ope­ra­zione ege­mo­nica è riu­scita a un governo euro­peo di centro-sinistra, che di solito crolla nei con­sensi nel giro di settimane.

Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riu­scendo a otte­nere da una posi­zione di governo – che, nel con­te­sto dato, è il mas­simo che potesse otte­nere – è piut­to­sto lon­tano dai suoi obiet­tivi ori­gi­nari. L’Unione euro­pea rende sostan­zial­mente impos­si­bile la rea­liz­za­zione di pro­grammi redi­stri­bu­tivi, la ripresa di un signi­fi­ca­tivo inter­vento pub­blico in eco­no­mia, una poli­tica indu­striale, e per­fino poli­ti­che di soste­gno alla povertà (che cini­ca­mente la mano dell’Ue can­cella con la penna rossa dalle pro­po­ste di Atene). Si tratta di rea­li­smo, non di ideo­lo­gia: il pro­gramma di Syriza era un pro­gramma rifor­mi­sta, ma anche que­sto sem­bra irrealizzabile.

Come ren­derlo realizzabile?

I par­titi della sini­stra radi­cale in Europa hanno acqui­sito un’ottica di governo: vogliono gover­nare, da soli o se neces­sa­rio in coa­li­zione. Come la situa­zione greca mette in luce, nell’attuale con­te­sto euro­peo la rea­liz­za­zione di un pro­gramma di sini­stra è quasi impos­si­bile. Si può scom­met­tere sul fatto che la vit­to­ria di Syriza abbia aperto un ciclo poli­tico che porti le sini­stre a vin­cere in Spa­gna, in Irlanda, in Por­to­gallo e poi magari in Ita­lia, e che in que­sta situa­zione i rap­porti di forza si modi­fi­chino al punto da poter cam­biare la costi­tu­zione mate­riale dell’Ue.

Ma ciò può anche non suc­ce­dere. È impen­sa­bile, allora, che una sini­stra che aspira al governo si ponga il pro­blema di una «exit stra­tegy»? Se l’Europa rende impos­si­bile qual­siasi poli­tica key­ne­siana e redi­stri­bu­tiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere con­fer­mata a ogni costo? Anche se la rispo­sta è affer­ma­tiva, la domanda non può essere, rea­li­sti­ca­mente, elusa. Una forza nego­ziale si costrui­sce anche sulla base di alter­na­tive per­cor­ri­bili. Che non pos­sono però riguar­dare un solo paese, ma impli­cano la costru­zione di un vasto sistema di alleanze inter­na­zio­nali alter­na­tive, o com­ple­men­tari, a quelle attuali.

In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione euro­pea a para­liz­zare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capi­tale finan­zia­rio e quello pro­dut­tivo. Gli Stati sono total­mente dipen­denti dai mer­cati finan­ziari. Una poli­tica non gra­dita a que­sti ultimi ver­rebbe col­pita da attac­chi spe­cu­la­tivi e dal man­cato finan­zia­mento del debito pub­blico. Le imprese, nazio­nali o stra­niere, hanno poi il potere di rea­gire a poli­ti­che redi­stri­bu­tive o favo­re­voli al lavoro con la minac­cia dello spo­sta­mento della pro­du­zione, come hanno fatto da ultimo gli arma­tori greci.

Come si può rea­li­sti­ca­mente affron­tare que­sta dop­pia minaccia?

La «sini­stra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali stru­menti di finan­zia­mento del debito, e deve pen­sare a come costruire una nuova eco­no­mia pub­blica, una nuova capa­cità di inter­vento diretto dello Stato nell’economia pro­dut­tiva, che con­tem­pli anche la pro­prietà diretta delle imprese (in forme sicu­ra­mente inno­va­tive). È l’unico modo per dotarsi di una capa­cità di rea­zione alla minac­cia di «esodo» del set­tore pri­vato. Sto­ri­ca­mente si è assi­stito a ciclici con­flitti tra Stato e capi­tale. Biso­gna imma­gi­nare le forme con­tem­po­ra­nee di tale conflitto.

Infine, è pos­si­bile che della crisi eco­no­mica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spo­sta­mento a Est del cen­tro dell’economia mon­diale rende sta­bile la crisi di cre­scita delle eco­no­mie occi­den­tali. Vista l’attuale redi­stri­bu­zione della pro­du­zione e dei ser­vizi a livello inter­na­zio­nale, biso­gna pren­dere atto del fatto che le società occi­den­tali stanno spe­ri­men­tando una «decre­scita» for­zata della pro­du­zione e dei livelli di vita.

Ana­lisi rigo­rose sulla disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica evi­den­ziano poi come l’automazione e la robo­tiz­za­zione stiano for­te­mente ridu­cendo, dopo l’occupazione manuale, quella intel­let­tuale. È pos­si­bile che nei pros­simi due decenni tassi di disoc­cu­pa­zione del 30% (secondo stu­diosi seri come Ran­dall Col­lins, anche del 40 o 50%) diven­tino nor­mali, per­ché l’innovazione tec­no­lo­gica non si ferma. Come affron­tare que­sti pro­blemi? È pos­si­bile pro­get­tare sistemi sociali ad alto svi­luppo tec­no­lo­gico in cui il lavoro sia ampia­mente redi­stri­buito e sia comun­que garan­tito a tutti il red­dito neces­sa­rio per una vita digni­tosa? Come farlo? La ridu­zione dell’orario di lavoro e il red­dito di cit­ta­di­nanza potreb­bero richie­dere appli­ca­zioni molto più estese e radi­cali di quelle a cui si pensa attualmente.

Que­sti due aspetti – crisi di cre­scita e aumento della disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica – fanno anche dire a un altro impor­tante scien­ziato sociale, Imma­nuel Wal­ler­stein, che il capi­ta­li­smo andrà incon­tro a una crisi siste­mica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nes­suno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza suf­fi­ciente per costruire uno sta­bile ordine mon­diale. Abbiamo di fronte, poten­zial­mente, sce­nari di que­sta portata.

Fino a 30 anni fa, la sini­stra era anti­ci­pa­zione, la destra con­ser­va­zione e difesa. Da trent’anni la sini­stra si difende. Riu­sciamo a costruire con­flitti impor­tanti solo per difen­dere diritti con­so­li­dati. Di solito li per­diamo. La sini­stra di governo deve rico­min­ciare ad anti­ci­pare i cam­bia­menti, prima che si mani­fe­stino come emer­genza. Biso­gna appro­fon­dire nel det­ta­glio tutte le varia­bili in gioco e dotarsi di pro­grammi di governo rea­li­stici. Rea­li­stico signi­fica ade­guato alla radi­ca­lità dei muta­menti in corso.

La società è sot­to­po­sta a un movi­mento for­tis­simo, pro­ba­bil­mente desti­nato a cre­scere. Tutto è in gioco: gli assetti eco­no­mici e sociali, le forme della poli­tica, le strut­ture isti­tu­zio­nali, i rap­porti tra le cul­ture. Per poter essere parte di que­sto movi­mento e can­di­darsi addi­rit­tura a gui­darlo, la sini­stra deve tor­nare a incar­nare un intero modello di società.

«Per il Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz, l’accordo sarebbe una vittoria del buon senso: “Washington aiuti la Grecia visto che Bruxelles non fa la sua parte. La Merkel smetta di fare propaganda: Atene non sta per fallire”».

La Repubblica, 11 luglio 2015 (m.p.r.)

«Avete visto? Anche il Fondo Monetario ha detto che il debito greco va ristrutturato ». Veramente ha detto che va ristrutturato quello degli altri, per la sua porzione vuole la restituzione per intero. E Joseph Stiglitz scoppia in una risata: «Ma insomma, ve lo devo spiegare io che quando ci sono più creditori, il gioco è sempre quello di scaricare sugli altri l’onere?». Poi torna serio: «Sono sicuro che come è stato in altri casi come l’Argentina, alla fine ristrutturerà anche il suo credito ». Comincia così una lunga conversazione telefonica con l’economista, premio Nobel 2001, che più si è speso a favore di un aiuto concreto alla Grecia. Stiglitz è appena tornato a New York dal Lago di Como, dove è rimasto un mese a limare il libro Creating a learning society che sta per uscire. «Oggi si studia troppo poco, ma i Paesi dove si studia di più domineranno la gara per lo sviluppo».

Professore, sulla Grecia tira una forte aria di accordo. Ci crede?
«Tutto sommato sì. Sarebbe una vittoria del buon senso. Non sarà facile, certo. Ancora mancano tanti dettagli, a quanto ne so. Però penso che l’esito sarà positivo. Sarà una vittoria della giustizia della storia».
In che senso?
«La propaganda tedesca è riuscita a imporre l’immagine di una Grecia in disfacimento, un Paese talmente mal governato che merita solo di essere messo sotto tutela, anzi non riesce neanche a cavarsela nonostante sia stato generosamente aiutato. È tutto il contrario: la Grecia è in queste condizioni a causa,non nonostante l’intervento europeo. E poi non è vero che è semi-fallita: dalla metà degli anni ’90 all’inizio della crisi la Grecia è cresciuta più della media dell’Ue, il 3,9% contro il 2,4% annuo ».
Ma non avverte una certa atmosfera di ravvedimento presso la Germania, di inedita volontà di andare incontro alla Grecia?
«Mah, è così difficile interpretare l’anima di una nazione. L’establishment tedesco è quanto mai diviso. Per una Merkel che ammette che tutto sommato la Germania non è la depositaria dell’unica ricetta economica possibile, e che sono stati imposti tempi pazzeschi per il rigore in Grecia, è sempre pronto uno Schaeuble o un Weidmann a ricordare che i cattivi sono i greci».
Cattivi no, ma ne hanno fatti anche loro di errori. O non è vero?
«Ma certo, nessuno è perfetto. Chi non ne fa? Di errori ne hanno fatti tanti i greci, più però i precedenti governi conservatori che quello attuale, per inciso anche con la complicità di istituzioni come la Goldman Sachs. Ma il referendum non è stato un errore. Al contrario, ha dato più forza a Tsipras, è stato il fattore che ha sbloccato il negoziato. È partito un segnale forte e chiaro: il popolo greco non può andare avanti con l’austerity perché rischia di essere strangolato per sempre. Sono sicuro che le cancellerie l’hanno recepito».
Veramente sembra che Tsipras stia accettando un documento che è né più né meno quello contro il quale il suo popolo si è espresso una settimana fa…
«Non è così. Vedrete che qualche miglioramento ci sarà. Innanzitutto sarà evitato, e non è poco, l’ulteriore taglio su stipendi e pensioni. Poi ci si avvicinerà alle posizioni greche sullo spinoso nodo dell’avanzo primario. E poi ci sarà la famosa ristrutturazione di cui parlavo, magari non prevedendo dei tagli secchi al debito ma allungando ancora le scadenze, concedendo periodi di grazia sugli interessi, abbassandone insomma il peso. Non si andrà lontano dalla richiesta iniziale dei greci: non legare la restituzione solo a delle date, ma alla crescita del Paese. Che è impossibile che torni ad esserci nelle condizioni attuali».
Su Time lei ha invocato il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. A quali modalità pensa?
«La premessa è che è mancata la solidarietà europea. La generosità di cui parlano i tedeschi non è servita altro che a pagare gli interessi alle banche (tedesche). Ben altro serviva. È una questione di gratitudine: la Germania ha distrutto la Grecia per la seconda volta in un secolo, stavolta con la complicità della troika. La prima volta, nell’ultima guerra mondiale, ha avuto il condono quasi totale dei suoi debiti. Quella sì che era generosità: un perdono incondizionato da parte dell’America che aveva mandato a morire centinaia di migliaia di suoi giovani in una guerra causata dalla Germania. E con l’aggiunta dei finanziamenti a pioggia del piano Marshall. Ora, visto che di gratitudine non c’è traccia da parte tedesca, l’America deve farsi avanti per evitare la Grexit e i suoi contraccolpi che colpirebbero anch’essa. Così come era stata generosa con la Germania, deve esserlo con la Grecia. E visto la Bce non vuole adempiere alle sue responsabilità, la Federal Reserve deve creare una linea di credito speciale per la Grecia. Ho invitato poi gli americani ad andare in vacanza in Grecia, a comprare prodotti greci, a dimostrare una volontà di aiuto incondizionato e un’umanità che agli europei sono mancate».
Visto che ancora non c’è niente di sicuro, è ancora buona la proposta in caso di nuova rottura?
«Sì, ma poi sa cosa le dico? Che se la Grecia uscirà dall’euro non sarà la fine del mondo. Sarà un shock per tutti, ma alla fine Atene si riprenderà, come l’Argentina che fra i 2003 e il 2008 ha avuto uno dei più alti tassi di crescita del mondo. Sarà però la definitiva sconfitta dell’esperimento della valuta unica, disegnato e programmato malissimo. Oggi il Pil dei Paesi dell’euro sarebbe del 17% superiore nel complesso a quello che è. Per colpa della moneta unica ».

Il Sole 24 ore, 10 luglio 2015

Greci: cinici, bari, irrecuperabili. Tedeschi (e nordici): modelli di virtù, vittime innocenti, ingiustamente condannate a pagare i debiti altrui.

Se questa è Europa, meglio un taglio netto, Grexit e un nuovo euro, questa volta quello dei migliori.
Questo sillogismo è l'alibi morale che domenica a Bruxelles fornirà la giustificazione ai 28 capi di Governo dell'Unione per decretare con sollievo la cacciata della Grecia e la sua inevitabile discesa agli inferi. A meno che un piano credibile di riforme del Governo Tsipras, le dissuasive pressioni americane e lo scoppio della bolla cinese con i rischi di contagio globale che si porta dietro, non facciano il miracolo di riportare l'Europa alla ragione convincendola a non farsi del male da sola.

Ma davvero le semplificazioni manichee, il trionfo di apodittici luoghi comuni, che oggi guidano gli assalti dei partiti anti-sistema come la paludata propaganda dei partiti “perbene”, offrono un quadro onesto e veritiero della realtà europea? Quando si afferma che la Germania paga troppo per un euro inquinato dalla presenza greca e i suoi cittadini soffrono troppo per i bassi tassi che deprimono conti e risparmi, si tace sui benefici. 90 miliardi, che quei tassi fruttano alle casse dello Stato e all'orgoglio tedesco del pareggio di bilancio per il secondo anno consecutivo. Per non dire dei vantaggi competitivi per le loro imprese.

Quando si decantano le virtù dell'economia e delle riforme tedesche, precisa Gerhard Schick, economista e deputato verde al Bundestag, si trascurano due cose: mini-tassi, cambio favorevole e prezzi in discesa sono i tre shock positivi incassati per inerzia dalla nostra economia con il semplice passaggio dal marco all'euro. Le riforme invece hanno perso slancio: una crescita media che da anni oscilla intorno all'1% non esprime dinamismo. Vivacchia. La Germania ha urgente bisogno di cambiare, continua Schick in un incontro alla think tank Bruegel. «Deve ristrutturare il debito dei governi regionali e locali dove, usiamo ripetere in Germania, la Grecia non è così lontana. Deve migliorare l'efficienza dell'erario, visto che ogni anno perdiamo 10 miliardi di entrate fiscali per evasione, e semplificare il sistema Iva».

Non è uno scherzo né uno scambio inconsulto di paese: ironicamente alcuni problemi da risolvere sono gli stessi in Grecia e in Germania. Però la Grecia è irrecuperabile, ricattatrice, diversa da tutti gli altri paesi mediterranei, sbagliato ammetterla nell'euro: «C'è stato un tempo in cui si diceva lo stesso di noi, che non avremmo mai potuto diventare democratici», ricorda Schick. C'è stato anche un tempo in cui il Trattato di Versailles impose alla Germania oneri insostenibili creando risentimenti nazionali che sfociarono nella II guerra mondiale. Ma un altro in cui, era il 1953, le fu rimesso il 60% dei debiti e fu la ricostruzione.

Possibile che chi porta sulla pelle i segni delle ferite inflitte da eccessi, vendette e stupidità altrui non li conosca abbastanza da evitarli? E che chi ha conosciuto anche una solidarietà generosa e decisiva per il suo futuro non sia in grado di uscire dagli schemi contabil-punitivi per abbracciare con la Grecia la stessa logica di riconciliazione che ha fatto la pace e la prosperità dell'Europa nel dopoguerra? Già, ma i greci barano, non rispettano le regole. Le prime a rompere il patto di stabilità nel 2003 furono Francia e Germania. «Eravamo nella stessa situazione dei greci, dovevamo scegliere tra riforme strutturali e obblighi europei di risparmio. Nemmeno noi saremmo stati in grado politicamente di reggere il processo di riforma facendo più risparmi.

Scegliemmo le riforme, lo rifarei anche oggi» ricorda Joschka Fisher, ministro degli Esteri dell'allora Governo Schroeder. La Francia invece ha continuato a violare le regole anti-deficit fino a incorrere nelle multe, che le sono state però risparmiate con spregiudicate contorsioni interpretative. In nome del superiore interesse europeo. Perché nessuna grazia alla Grecia, a dispetto dei cattivi e disinibiti maestri? Il Governo Tsipras è inaffidabile, i greci fannulloni, evasori e truffaldini, lo Stato inesistente, dice la martellante vulgata imperante. Vero? In parte sì. Nel 2014 però la Grecia ha ridotto del 10,7% la spesa pubblica (in Italia è salita dello 0,2), il più alto taglio Ue.

Negli ultimi 5 anni il saldo di bilancio strutturale è migliorato di 20 punti, quello della bilancia corrente di 16. Ma il debito è schizzato dal 120 al 180 %, complice una recessione paurosa figlia della Troika. I Governi precedenti però hanno rispettato solo il 30% degli impegni presi. Ora invece da quello di Tsipras se ne pretende l'attuazione “blindata” del 100% come pre-condizione alla concessione di nuovi aiuti. Perché? Tzipras non appartiene all'establishment politico europeo, è un leader di estrema sinistra che tra i tanti ha il torto di contestare il pensiero unico dominante in nome di una politica di crescita che renda sostenibili i debiti e restituisca fiducia e futuro alla Grecia come all'Europa. Grexit sarà indolore ma esemplare e ricompatterà l'euro: l'ultimo luogo comune di questa vigilia. Finanziariamente è tutto da dimostrare, come economicamente. Gli americani giurano che sarebbe la “Lehman 2” dell'economia mondiale. Politicamente sarebbe il disastro: l'Europa fondata sulla paura è un cemento inconciliabile con la democrazia.

Sembra che il lungo ed estenuante confronto fra la Grecia e la Ue sia giunto al rush finale che permetterebbe quanto meno di evitare la temuta Grexit. Forse non sarà neppure necessaria la riunione dei leader europei prevista per domenica prossima. La morta gora è stata evitata, oltre che dallo straordinario esito del Referendum di domenica scorsa, dalla nuova lettera di intenti inviata dal governo greco al Presidente dell’Eurogruppo e firmata dal nuovo ministro delle finanze Euclid Tsakalotos. Che non bastasse l’esito pur inequivocabile del referendum greco a piegare l’ostinata resistenza dei creditori era già apparso chiaro dalle terribili parole pronunciate da popolari e socialisti nel dibattito del Parlamento europeo cui era stato invitato Tsipras.

Quella dimostrazione di democrazia diretta e di precisa volontà popolare non li aveva commossi. Eppure questa aveva fatto breccia persino nel mondo degli economisti mainstream. Uno dei più noti, Luigi Zingales, un italiano che insegna negli States, aveva scritto sul Sole24Ore parole di grande rispetto: “La Grecia, però ha sorpreso il mondo. Io non mi sarei mai aspettato che questo referendum potesse avere luogo nella più assoluta normalità nonostante le banche chiuse, tanto meno che il governo Tsipras fosse in grado di vincerlo”. Ma tutto ciò non ha scosso né turbato gli animi e le convinzioni di una Merkel, di un Gabriel, di uno Schulz, di un Draghi, di un Djisselbloem. Chi tiene i cordoni della borsa sa reprimere sentimenti e commozioni, sempre che ne abbia.

Non restava altra mossa a Tsipras che quella di riformulare una proposta, sapendo che questa volta la data del 12 luglio era davvero una dead-line. Lo ha fatto, rischiando molto, soprattutto al proprio interno, ispirandosi ad un antico principio tattico: fare un passo indietro oggi per farne due in avanti domani. E’ una scommessa. Nessuno può sapere se vincente o meno. Non sappiamo al momento la risposta dei creditori, ma è improbabile che prendano a scatola chiusa. I mercati finanziari sembrano tirare un respiro di sollievo, tuttavia è imprudente giudicare sull’onda degli umori volatili di questi ultimi.

"Non ho il mandato del popolo per portare la Grecia fuori dall'euro, ma per trovare un accordo migliore" Con queste parole Tsipras si è rivolto ai deputati nella riunione del Parlamento greco.

La domanda che tutti si pongono è allora questa: l’accordo sarà migliore? Tutti sappiamo bene che un accordo va valutato per il testo e per il contesto, che si tratti di un accordo sindacale o politico. A maggiore ragione in questo caso, ove il contesto è internazionale, addirittura mondiale per i molteplici interessi in gioco.

E questo contesto è tra i più negativi. Almeno per quanto riguarda l’Europa: la Grecia ha dovuto battagliare contro 18 avversari chi più chi meno motivati a stare dall’altra parte. La desiderata alleanza con i paesi più in difficoltà non si è mai verificata. Anzi è avvenuto il contrario: nessuno di quelli che avevano passato le forche caudine dell’austerità era disponibile a fare sconti ai greci. E su questo ci sarà da riflettere a fondo per evitare facili entusiasmi sulla solidarietà tra i popoli. Se un aiuto è giunto è arrivato da oltreoceano. L’amministrazione americana si è spesa esplicitamente perché la Ue trovasse una intesa per evidente ragioni geopolitiche che non permettevano di considerare la Grexit indolore per la strategia americana, in quella zona del mondo così delicata. Anche la Cina, scossa da una crisi da bolla finanziaria che ha altre e proprie ragioni, ha tutto l’interesse, e lo ho fatto sapere, che la Ue si mantenga unita e che non ci siano contraccolpi speculativi nel vecchio continente.

Se ci potessimo basare solo sul nuovo testo inviato da Tsipras e se la trattativa si concludesse senza sostanziali modifiche al medesimo, è indubbio che ci troveremmo di fronte ad un accordo migliore rispetto a quello prospettato dalla controparte e rifiutato dal no referendario e tale da aprire nuove prospettive che fino a qui sembravano precluse.

Ma è altrettanto chiaro che siamo di fronte a un compromesso che arretra in modo sensibile le linee di difesa iniziali del governo ellenico. In particolare su due punti non certo secondari: la questione delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Nel primo caso vi è un’ accelerazione nella revisione dei prepensionamenti, nell’aumento dell’età effettiva del pensionamento e nella disponibilità ad assumere altre misure per la “sostenibilità” del sistema pensionistico. Nel secondo caso vi è l’intento a discutere con le istituzioni europee le modifiche da apportare al mercato del lavoro e alla contrattazione collettiva nazionale.

Naturalmente non c’è nulla di ciò che veniva chiesto con forza dalle istituzioni e dai creditori all’inizio di questa lunga partita, come tagli orizzontali e indiscriminati a salari e pensioni, facilità di licenziamenti di massa, nonché elevamento generale delle tassazioni e dell’Iva in particolare.

Non solo, ma la nuova proposta tende a spostare l’asse sui temi più strutturali, una volta affrontata l’emergenza. Capaci di rilanciare su nuove basi l’economia greca, quali un terzo piano di aiuti triennali per circa 53 miliardi e soprattutto la disponibilità da parte della Ue a prendere in considerazione la questione complessiva del debito. La questione della sua sostenibilità sarà definitivamente sul tavolo dell’Eurogruppo, anche su probabilmente non nella forma di un haircut ma di una ristrutturazione del medesimo.

Il piano greco punta quindi a quello che fin dall’inizio era il suo obiettivo vero: guadagnare tempo senza andare a sbattere contro un popolo in acuta sofferenza, per rimettere in piedi l’economia su nuove basi e ammodernare democratizzandola l’inefficiente macchina statale.

E’ tanto, è poco? Aspettiamo qualche ora per un responso più sicuro. C’è però un punto di fondo che non deve sfuggire alla nostra riflessione. Quali sono i margini effettivi per una politica di sinistra, seppure entro i confini di un keynesismo sociale, in questa Europa inchiavardata nelle politiche di austerity? La risposta ora si sposta in Spagna, dove si voterà a novembre, come ha detto Pablo Iglesias di Podemos intervenendo nel Parlamento europeo.

Non sono riusciti a cacciare all'Europa Alexis Tsipras e ad annullare la speranza del cambiamento radicale. L'analisi prosegue sull'entità delle perdite e sulle condizioni del conflitto necessario per proseguire. Non è un problema solo per la Grecia, ma per quanti vogliono un' Europa solidale ed equa. Articoli di Dimitri Deliolanes, Pavlos Nerantzis, Anna Maria Merlo, Paolo Pini e Roberto Romano .

Ilmanifesto, 11 luglio 2015


L’«ALEXIT»È FALLITO,
PER TSIPRAS È L’ORA DEL GOVERNO

di Dimitri Deliolanes

Atene. L’economia è paralizzata ma la società ellenica continua a reagire con orgoglio. L’ultima proposta ateniese, molto rigida, è però migliore di quella pre-referendum, più favorevole ai poveri

È giunta per Ale­xis Tsi­pras l’ora della poli­tica di governo, delle mano­vre non lineari allo scopo di por­tare la Gre­cia fuori dalla camera a gas a cui l’hanno con­dan­nata, per due set­ti­mane almeno, Schäu­ble e Dijs­sel­bloem. Il pre­mier mano­vra avendo il soste­gno di un paese vivace e orgo­glioso, con­sa­pe­vole della sua forza ma anche dei suoi limiti. Per risol­vere il pro­blema subito, da lunedì.

Con il blocco dei capi­tali l’economia è para­liz­zata e quando finirà la liqui­dità finirà anche la pazienza dei greci. È quello che pro­ba­bil­mente spera il potente par­tito neo­li­be­ri­sta euro­peo per far fuori i «rossi» di Atene e dimo­strare ai popoli euro­pei che l’evasione dall’austerità è impos­si­bile: evi­tare il gre­xit ma pro­muo­vere l’Alexit, lo tsipras-exit, magari sosti­tuito o affian­cato dall’uomo degli oli­gar­chi, l’ex gior­na­li­sta Sta­vros Theodorakis.

Tsi­pras sa come può far fal­lire que­sto pro­getto di «soft golpe». Sa di essere l’unico lea­der poli­tico del paese, senza oppo­si­zione cre­di­bile né fuori né den­tro il suo par­tito. Tocca a lui deci­dere cosa dire ai cre­di­tori, come fare le mosse giu­ste e in quale dire­zione. Sem­pre sulla scia delle chia­ris­sime indi­ca­zioni che sono emerse dal refe­ren­dum: con­ti­nuare a nego­ziare ma tor­nare a casa con un accordo, non con un nuovo fal­li­mento. I greci non vogliono auste­rità ma non vogliono nean­che essere cac­ciati
dall’eurozona. E Tsi­pras non vuole dare fuoco all’Europa.

Le pro­po­ste depo­si­tate ieri al Par­la­mento greco sono una ver­sione leg­ger­mente miglio­rata di quelle con­se­gnate dal pre­si­dente della Com­mis­sione pochi giorni dopo la pro­cla­ma­zione del refe­ren­dum. E già que­sto da solo depone in favore della con­sul­ta­zione popo­lare. Il governo greco si è sfor­zato di adat­tarle, in modo che il peso sia distri­buito in maniera più equa sulle spalle dei più abbienti. Ci saranno aumenti sull’Iva per mac­chine di grossa cilin­drata, yacht e con­sumi di lusso ed è final­mente pre­vi­sta la tas­sa­zione degli arma­tori: la Costi­tu­zione non per­mette di tas­sare gli utili, allora ci sarà un aumento dell’aliquota sul cabo­tag­gio. Gli arma­tori che con­trol­lano anche i media, dovranno, per la prima volta, pagare le tasse sulla pub­bli­cità tra­smessa, oltre che per l’occupazione delle frequenze.

Ma ci saranno anche tagli pro­por­zio­nali alle pen­sioni, aumenti all’Iva nelle isole, escluse quelle meno turi­sti­che e più iso­late, ma anche per tutti gli ali­menti, esclusi gli essen­ziali, e anche i ristoranti.

Inol­tre, dopo aver letto le ripe­tute prese di posi­zione di Mat­teo Renzi, per­so­na­lità cen­trale negli equi­li­bri euro­pei, Tsi­pras in per­sona ha insi­stito affin­ché all’abolizione delle baby pen­sioni fosse data la mas­sima prio­rità: da oggi fino al 2022 tutti andranno gra­dual­mente in pen­sione a 67 anni o dopo 40 anni di con­tri­buti. Entu­sia­smo a Palazzo Chigi.

Ma que­sto sforzo di distri­buire il peso in maniera più favo­re­vole agli strati più poveri non è suf­fi­ciente a ren­dere buone que­ste pro­po­ste brutte, di auste­rità e di reces­sione, in vista di un com­pro­messo forse ono­re­vole ma sbi­lan­ciato verso la parte dei cre­di­tori. Il popolo greco con­ti­nuerà a sanguinare.

Con­di­zione per­ché l’accordo auspi­cato si risolva in favore della Gre­cia è che sia accom­pa­gnato da un chiaro e pre­ciso impe­gno degli euro­pei ad affron­tare, in una data pre­cisa, il pro­blema del debito, reso ancora più urgente in vista dei 30 miliardi che Atene ha già chie­sto al Mes — un altro passo indie­tro del governo. Ancora ieri il sem­pre “fles­si­bile” Schäu­ble e la stessa Mer­kel esi­bi­vano pub­bli­ca­mente for­tis­simi impe­di­menti ammi­ni­stra­tivi e nor­ma­tivi a pro­ce­dere a un deciso taglio del debito greco e dare così sod­di­sfa­zione a Washing­ton. Per evi­tare un uso poli­tico dell’ottusità buro­cra­tica teu­to­nica (come è suc­cesso più volte con Varou­fa­kis), Tsi­pras ha pre­fe­rito usare il ter­mine «ren­dere soste­ni­bile» il debito, facendo capire che anche spal­marlo all’infinito con tassi ridi­coli sarebbe una solu­zione soddisfacente.

Un ultimo aspetto della vicenda, non secon­da­rio: ieri cele­bri cor­ri­spon­denti da Bru­xel­les e meno cele­bri com­men­ta­tori di oppo­si­zione in Gre­cia davano per scon­tata la ribel­lione dei depu­tati intran­si­genti di Syriza, arri­vando al punto di defi­nirne per­fino il numero: 40 circa. Nel pome­rig­gio è effet­ti­va­mente uscito un docu­mento di cri­tica alle pro­po­ste del governo, fir­mato da tre depu­tati e da tre mem­bri della segre­te­ria, totale sei per­sone. Pro­ba­bil­mente al momento del voto, attorno a mez­za­notte, saranno di più. Ma è dif­fi­cile che la mag­gio­ranza si spacchi.

Stando a Bru­xel­les, gli acuti osser­va­tori non pote­vano pre­ve­dere che in mat­ti­nata Tsi­pras avrebbe affron­tato il suo gruppo par­la­men­tare dicendo che non può ammette frat­ture sulla stra­te­gia da seguire in que­sto «momento sto­rico»: «Siamo arri­vati insieme e ce ne andremo insieme. Dob­biamo gover­nare. Tra una solu­zione brutta e una cata­stro­fica, biso­gna sce­gliere la prima. Cer­chiamo di dare bat­ta­glia sul debito e non siamo soli. E se la mag­gio­ranza viene a man­care, allora non farò ricorso agli altri par­titi. Io non sono Papa­de­mos». Parole chiare, respon­sa­bili, senza infin­gi­menti e demagogia.

LAMEDIAZIONE DI SYRIZA

di Pavlos Nerantzis
Durissima resa dei conti nel partito al governo, ma dopo sei ore di riunione a porte chiuse anche gli aderenti alla «Piattaforma di Sinistra» assicurano il sostegno parlamentare al premier greco Tsipras

La pro­po­sta di Tsi­pras ai cre­di­tori ha messo in gioco la soprav­vi­venza del governo prima e durante il dibat­tito par­la­men­tare. Men­tre scri­viamo è in corso il dibat­tito in par­la­mento, ma ad ecce­zione di un paio di mem­bri di Syriza che hanno annun­ciato il loro no al man­dato per Tsi­pras a trat­tare, la parte più a sini­stra del Par­tito, «Piat­ta­forma di sini­stra» ha annun­ciato il pro­prio soste­gno al premier.

La palla dun­que, ora, passa all’Eurogruppo. Il dilemma per i diri­genti di Syriza era comin­ciato quando è stato reso noto il con­te­nuto delle pro­po­ste gre­che: dove­vano sce­gliere se far cadere il governo o accet­tare un terzo pro­gramma con­si­de­rato «lacrime e san­gue»; un pac­chetto di pro­po­ste, secondo i dis­si­denti, lon­tano dalle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che del «pro­gramma di Salo­nicco». Le discus­sioni nelle riu­nioni delle com­po­nenti del par­tito sono state accese. Tutti erano con­sa­pe­voli che un voto con­tra­rio alle pro­po­ste di Tsi­pras avrebbe pro­vo­cato un colpo d’arresto al governo delle sini­stre. Una scon­fitta per la sini­stra greca, un colpo duro per l’Europa della soli­da­rietà e dei diritti. Solo una set­ti­mana la Gre­cia con il «no» aveva dato un chiaro man­dato a Tsi­pras per trat­tare senza met­tere in discus­sione la per­ma­nenza del paese nell’eurozona.

Ora in molti si chie­dono se abbia senso accet­tare nuove misure di auste­rità. Il primo a rea­gire è stato, come ci si aspet­tava, il mini­stro della Ristrut­tu­ra­zione pro­dut­tiva e dell’energia, Panayo­tis Lafa­za­nis, lea­der della «Piat­ta­forma di sini­stra», la potente com­po­nente all’interno di Syriza, che men­tre scri­viamo, ha con­fer­mato l’appoggio a Tsi­pras nel dibat­tito parlamentare.

La sua prima rea­zione è stata cate­go­rica: «non vote­remo, ha detto, un terzo memo­ran­dum». Secondo Lafa­za­nis, sibil­lino, la Gre­cia «non ha nes­suna pistola alla tem­pia, esi­stono opzioni alter­na­tive» a un nuovo accordo con la troika. Altret­tanto dure e scet­ti­che nei con­fronti della pro­po­sta del governo sono state le rea­zioni di alti diri­genti della sini­stra radi­cale greca.

Il clima è cam­biato quando si è sparsa la voce secondo la quale saranno radiati dal par­tito e dal gruppo par­la­men­tare tutti coloro che si oppon­gono al piano Tsi­pras. Quasi 6 ore è durata la riu­nione a porte chiuse senza la pre­senza di gior­na­li­sti e di tele­ca­mere. Sei ore dram­ma­ti­che che hanno messo alla prova la com­pat­tezza del partito.

Tsi­pras, par­lando venti minuti, ha lan­ciato un appello ai depu­tati esor­tan­doli ad appog­giare un accordo con i cre­di­tori per otte­nere un terzo piano di sal­va­tag­gio in cam­bio di riforme. Altri­menti, ha detto, «non accet­terò che il governo perda la mag­gio­ranza» (Syriza pos­siede 149 seggi sui 300 e Anel, i «Greci indi­pen­denti», l’altro part­ner di governo, 13 seggi). Il pre­mier greco ha riba­dito che il governo «non ha alcun man­dato per un Grexit».

«Ci tro­viamo di fronte a deci­sioni cru­ciali, abbiamo un man­dato per otte­nere un accordo migliore rispetto l’ultimatum che l’Eurogruppo ci aveva posto, non abbiamo un man­dato per por­tare la Gre­cia fuori dall’eurozona». E poi ha con­cluso: «o andremo avanti tutti insieme o cadremo tutti insieme».

«L’uscita dall’euro è l’unica solu­zione» ha detto uno dei tre rap­pre­sen­tanti del gruppo par­la­men­tare di Syriza, Tha­nas­sis Petra­kos, men­tre l’altro, Nikos Filis si è schie­rato contro.

«Non abbiamo avuto né un piano pre­ciso alle trat­ta­tive con i cre­di­tori, né una buona squa­dra di nego­zia­tori» ha soste­nuto il vice-presidente della camera, Ale­xis Mitro­pou­los, ex socia­li­sta del Pasok. Otti­mi­smo, invece, sull’accordo e sull’approvazione del par­la­mento greco, è stato espresso dal vice-ministro dell’economia, Dimi­tris Mar­das e il mini­stro degli interni, Nikos Voutsis.

«La scom­messa è quella di otte­nere la fidu­cia degli inve­sti­tori» ha soste­nuto l’ex mini­stro delle finanze, Yanis Varou­fa­kis, men­tre il suo suc­ces­sore Euclid Tsa­ka­lo­tos ha fatto notare che «la pro­po­sta è migliore rispetto al pas­sato per­ché tra l’altro parla della neces­sità di ristrut­tu­rare il debito».

La riu­nione del gruppo par­la­men­tare di Syriza si è con­clusa senza vota­zione e nono­stante le ten­sioni, si ritiene che al momento della vota­zione non vote­ranno con­tro più di 10 deputati.

Nono­stante l’approvazione, si fanno insi­stenti le voci di dimis­sioni di alcuni mini­stri facente parte della «Piat­ta­forma di sini­stra»: Panayo­tis Lafa­za­nis, Dimi­tris Satra­tou­lis, vice-ministro della Pre­vi­denza sociale, Kostas Isy­chos, vice-ministro della difesa e Nikos Choun­tis, vice-ministro degli esteri.

Un’incognita è rima­sta fino all’ultimo la posi­zione di Panos Kam­me­nos, lea­der degli Anel, del par­tito di destra e part­ner di governo. Kam­me­nos non ha fir­mato le pro­po­ste pre­sen­tate ai cre­di­tori (non ha fir­mato nem­meno il mini­stro Lafa­za­nis) per­ché pre­ve­dono la dimi­nu­zione delle spese mili­tari e l’annullamento dell’aliquota Iva alle isole. «Non vuol dire niente che il nostro lea­der non abbia fir­mato. La Gre­cia rimarrà in Europa» ha detto il mini­stro Terence Kouik, brac­cio destro del lea­der Anel.

A favore della pro­po­sta greca si sono schie­rati il par­tito di destra Nea Dimo­kra­tia, i socia­li­sti del Pasok e i cen­tri­sti del Potami, il lea­der dei quali, Sta­vo­ros Teo­do­ra­kis si è incon­trato ieri a Bru­xel­les con Jean-Claude Junc­ker. I comu­ni­sti del Kke, invece, hanno denun­ciato «il terzo memo­ran­dum pro­mosso dal governo» e ieri hanno orga­niz­zato una mani­fe­sta­zione di pro­te­sta alla cen­tra­lis­sima Pla­tia Syn­tag­ma­tos di fronte al parlamento.

ATENE,12 MILIARDI PER LA CRESCITA

di Pavlos Nerantzis Grecia. La nuova pro­po­sta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella pre­ce­dente era di 8 miliardi) per i pros­simi due anni, in cam­bio di un pre­stito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arri­vare fino ai 70 miliardi di euro.

Le misure discusse al con­si­glio dei mini­stri e pre­sen­tate ai cre­di­tori – prima ancora di essere discusse nel gruppo par­la­men­tare di Syriza e nel par­la­mento — pre­ve­dono nuovi tagli e aumenti delle tasse per far incre­men­tare gli introiti sta­tali, un impe­gno per la ristrut­tu­ra­zione del debito e un pro­gramma pari a 35 miliardi di euro per atti­rare inve­sti­menti e favo­rire occu­pa­zione e cre­scita. La nuova pro­po­sta greca è di oltre i 12 miliardi di euro (quella pre­ce­dente era di 8 miliardi) per i pros­simi due anni, in cam­bio di un pre­stito pari a 54 miliardi di euro. Non è escluso, si possa arri­vare fino ai 70 miliardi di euro.

Parte di que­sto maxi-prestito finirà alla rica­pi­ta­liz­za­zione delle ban­che elle­ni­che le quali dovranno rifon­dersi: dai quat­tro isti­tuti di cre­dito (Natio­nal Bank of Greece, Piraeus, Euro­bank e Alpha Bank) ne rimar­ranno due. Il testo elle­nico è di 13 pagine e si basa su un recente rap­porto di 47 pagine e sulla pro­po­sta avan­zata dal pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea Junc­ker. Il testo pre­vede modi­fi­che signi­fi­ca­tive ai sistemi fiscali e pre­vi­den­ziali, nel ten­ta­tivo di con­vin­cere le isti­tu­zioni che Atene ha adot­tato un approc­cio più rea­li­stico. Il sur­plus pri­ma­rio sarà dell’1% nel 2015 e del 2% nel 2016, ma ci sono degli inter­ro­ga­tivi su come il governo riu­scirà a otte­nere l’obiettivo di quest’anno visto che per il momento la cre­scita è di appena 0,5% a causa dei ritardi per arri­vare ad un’intesa.

Nella pro­po­sta è pre­vi­sta una tas­sa­zione dell’Iva a tre livelli, con medi­ci­nali, libri, spet­ta­coli d’arte e tea­trali al 6%; alber­ghi, ener­gia, pro­dotti ali­men­tari fre­schi e generi ali­men­tari di base al 13% (e non al 23% come pro­po­ne­vano i cre­di­tori) e degli ali­men­tari lavo­rati, risto­ranti e altro al 23%. Inol­tre resta in vigore il 30% di sconto sulle ali­quote Iva sulle isole, una vera e pro­pria «linea rossa» per il governo.

L’aumento dell’Iva sugli ali­men­tari signi­fica che i prezzi aumen­te­ranno subito dell’8,85%, men­tre quelli degli alber­ghi potranno aumen­tare del 6,1%. Inol­tre, il governo man­terrà la con­tro­versa tassa sugli immo­bili (Enfia) nel 2015 e 2016 (quando Syriza era all’opposizione l’aveva aspra­mente denun­ciata) e aumen­terà nel con­tempo gli sforzi per com­bat­tere l’evasione fiscale. Pre­vi­sto anche l’aumento della tassa di soli­da­rietà come pure di quelle sul lusso e sugli introiti delle grandi società dal 26% al 28% e per gli arma­tori fino ad oggi mai toc­cati dal fisco.

Per quanto riguarda le riforme pre­vi­ste nel sistema pen­sio­ni­stico sem­bra che Tsi­pras abbia inten­zione di appli­care la legge degli ex mini­stri del Pasok, Lover­dos e Kou­trou­ma­nis, che for­niva una pen­sione di base e pro­por­zio­nata per chi ne ha matu­rato il diritto a par­tire dal gen­naio 2015. In cam­bio il governo greco insi­sterà sul rin­vio dell’attuazione della «clau­sola di defi­cit zero» per le pen­sioni inte­gra­tive (ci sarà la gra­duale ridu­zione dei bene­fici dell’Ekas entro il 2019).

Tutto som­mato i pen­sio­nati saranno lie­ve­mente col­piti dalle nuove misure, men­tre il nuovo sistema pen­sio­ni­stico avrà anche lo scopo di sco­rag­giare il pen­sio­na­mento anti­ci­pato con l’introduzione di san­zioni più severe.

La pro­po­sta del pre­mier greco pre­vede anche l’attuazione dei sug­ge­ri­menti dell’Ocse, che inclu­dono l’apertura delle pro­fes­sioni chiuse, come i notai, la revi­sione della com­pe­ti­ti­vità in aree carat­te­riz­zate da pra­ti­che di oli­go­po­lio e l’adozione di nuove stra­te­gie per com­bat­tere la cor­ru­zione azien­dale, in par­ti­co­lare in rela­zione alle pro­ce­dure d’appalto pub­bli­che. Nel campo delle pri­va­tiz­za­zioni si parla di un nuovo modello con la par­te­ci­pa­zione dello Stato.

I porti del Pireo (la cinese Cosco ha già acqui­stato una parte degli sta­bi­li­menti) e di Salo­nicco saranno pri­va­tiz­zati, secondo la pro­po­sta di Atene, così come andrà avanti l’affitto delle tede­sche Fra­port e Sien­tel degli aero­porti di peri­fe­ria (nel pas­sato Syriza si era oppo­sto). Oggi i cre­di­tori dovranno valu­tare il piano elle­nico, ma non è detto che sarà appro­vato. Tutto dipen­derà da Ber­lino e in par­ti­co­lar modo dal mini­stro delle finanze Schau­ble, che con­trolla la mag­gio­ranza dell’Eurogruppo. Quello che inte­ressa è la soste­ni­bi­lità del debito greco ed even­tuali nuove misure che i fal­chi euro­pei potreb­bero chie­dere all’ultimo momento.

LAPROPOSTA GRECA
CONVINCE I CREDITORI

di Anna Maria Merlo

Crisi dell'Europa. Tecnici francesi hanno aiutato i greci a redarre un testo di impegni in grado di convincere i creditori. Prudenza tedesca. Oggi l'Eurogruppo, i vertici di domenica (a 19 e a 28) potrebbero venire annullati. Il piano di Atene deve poi passare al vaglio di almeno 8 parlamenti della zona euro. L'appello dei sindacati europei perché i cittadini non siano "penalizzati dal voto"

Fra­nçois Hol­lande è stato il primo a rea­gire dopo la pre­sen­ta­zione della pro­po­sta greca, gio­vedì in tarda serata. «Serie e cre­di­bili, volontà di con­clu­dere», per il pre­si­dente fran­cese. Per il primo mini­stro, Manuel Valls, «solide, serie, con­crete». Non c’è da stu­pirsi della rea­zione fran­cese: sono tec­nici di Bercy (mini­stero delle Finanze) che hanno con­si­gliato i greci e sug­ge­rito le migliori for­mule per arri­vare a un’approvazione, che dovrebbe arri­vare oggi all’Eurogruppo (sem­pre che ad Atene la pro­po­sta passi al parlamento).

Ieri, il fronte dei cre­di­tori ha cer­cato una rispo­sta comune. Junc­ker (Com­mis­sione), Dra­ghi (Bce), Dijs­sel­bloem (Euro­gruppo) e Lagarde (Fmi), in una video-conferenza, hanno discusso per pre­sen­tare una ana­lisi comune, che rice­verà il via libera all’Eurogruppo di oggi e dovrebbe aprire i nuovi nego­ziati per un terzo piano di aiuti alla Gre­cia. Per il pre­si­dente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijs­sel­bloem, oggi ci sarà una «deci­sione impor­tante», per­ché il testo greco è «tra i più appro­fon­diti» pre­sen­tati ai mini­stri delle finanze. Se tutto fila liscio, come spera Renzi, potrebbe essere reso inu­tile il ver­tice dei capi di stato e di governo di dome­nica.

Ma a Bru­xel­les insi­stono sul fatto che il Con­si­glio a 19, pre­vi­sto dome­nica, dovrebbe comun­que riflet­tere sulla richie­sta greca di un «ri-profilamento» del debito, in sostanza una ristrut­tu­ra­zione. Inol­tre, il pre­si­dente del Con­si­glio Ue, Donald Tusk, ha anche con­vo­cato, sem­pre dome­nica, un Con­si­glio dei capi di stato e di governo della Ue, a 28, che ha in pro­gramma una deci­sione sugli «aiuti uma­ni­tari» alla Gre­cia – ali­men­tari, medi­ci­nali. La com­mis­sa­ria al Bud­get, Kri­sta­lina Gor­gieva, ha dichia­rato: «stiamo orga­niz­zando un pro­gramma di soste­gno di emer­genza» che potrebbe rag­giun­gere i 7 miliardi in un anno.

In Ger­ma­nia nes­sun entu­sia­smo. Solo l’Spd ha visto nelle pro­po­ste gre­che «un grande passo avanti», anche se Axel Schä­fer sot­to­li­nea che «avrebbe potuto essere fatto da tempo». La Cdu, il par­tito di Angela Mer­kel, si inter­roga: «quale cre­di­bi­lità ha que­sta lista? sarà appli­cata?», si chiede il vice­pre­si­dente del gruppo Ralph Brin­khaus. Peg­gio gli alleati bava­resi della Csu, che giu­di­cano il pro­gramma greco ancora «insuf­fi­ciente».

Pru­denza tede­sca, otti­mi­smo fran­cese, ita­liano e per­sino slo­vacco, un’accoglienza favo­re­vole a Bru­xel­les: ma la strada non è ancora spia­nata per un’uscita dalla crisi.

Intanto, c’è l’attesa per il voto al par­la­mento greco. Poi, altri par­la­menti dovranno pro­nun­ciarsi su un terzo piano di aiuti: Valls lo ha pro­messo alla Fran­cia que­sta set­ti­mana, poi come sem­pre la Ger­ma­nia, la Fin­lan­dia, l’Austria, l’Estonia, la Let­to­nia e la Slo­vac­chia. In Olanda saranno i depu­tati a deci­dere se il piano richiede un voto, che potrebbe anche essere deciso in Irlanda. In Slo­ve­nia, il paese che in pro­por­zione al pil è il più espo­sto con la Gre­cia, ci potrebbe essere un voto se verrà decisa una ristrut­tu­ra­zione del debito.

I sin­da­cati euro­pei hanno inviato una let­tera alle isti­tu­zioni e all’europarlamento a favore di «nego­ziati in buona fede con l’obiettivo di tro­vare «un accordo social­mente giu­sto ed eco­no­mi­ca­mente soste­ni­bile con il governo greco», per «man­te­nere la Gre­cia nella zona euro e nella Ue».

ILPIANO DI TSIPRAS,
UN EQUILIBRIO TEMPORANEO

di Paolo Pini e Roberto Romano

Nel frattempo, l’austerità continua, mentre la crescita può attendere.

Durante l’ultima set­ti­mana è stato un con­ti­nuo stil­li­ci­dio di ipo­tesi tra l’irresponsabilità e la stu­pi­dità, con la Fran­cia nella parte del poli­ziotto buono che ha tenuto un dia­logo aperto all’ipotesi del No-Grexit con un nuovo Memo­ran­dum in con­ti­nua­zione dei pre­ce­denti, e la Ger­ma­nia nella parte del poli­ziotto cat­tivo che pun­tava ad alleg­ge­rirsi del far­dello greco dall’Eurozona; gli altri paesi erano com­parse di poco conto, appog­giando gli uni o gli altri, con l’Italia che nep­pure ciò riu­sciva a fare.

Tsi­pras ha avuto il merito di tra­sfor­mare il «no» in una unica voce die­tro la quale ha rac­colto tutti i par­titi greci che erano per il Sì, e così si è pre­sen­tato di nuovo in Europa, al Par­la­mento Euro­peo per chie­dere di pro­se­guire il nego­ziato. Così facendo ha sgom­brato il tavolo per quanti pun­ta­vano alle dimis­sioni del suo governo come con­di­zione poli­tica sine qua non per la negoziazione.

Ma non è riu­scito ad evi­tare che sul tavolo rima­nesse, nella migliore dei casi, solo l’ipotesi di un Memo­ran­dum che san­ci­sce (a) nes­suna con­ces­sione alle richie­ste gre­che di fer­mare le poli­ti­che di auste­rità e (b) nes­suna ristrut­tu­ra­zione del debito greco.

È dif­fi­cile non pen­sare però che essa non sia altro che un equi­li­brio tem­po­ra­neo: la crisi greca rimane in agenda ed il rischio di quella siste­mica dell’Eurozona viene sola­mente posti­ci­pato per­ché i fon­da­men­tali non mutano.

Per i cre­di­tori il debito va pagato, e sono dispo­sti a con­ce­dere linee di cre­dito solo a con­di­zione di un Memo­ran­dum 3 pro­se­cu­zione dei due pre­ce­denti. Ma l’esito di ciò è il per­du­rare della depres­sione in Gre­cia, nella misura in cui il governo elle­nico non ha un piano B, accet­tando di non dichia­rare default e non pre­ve­dere un modo con­trol­lato di uscita dall’euro.

Gli inter­venti pre­vi­sti e sui quali il governo greco è costretto a con­ver­gere sono con­si­stenti, 12 miliardi di tagli invece degli 8 pre­ce­denti, per otte­nere 50–60 miliardi di aiuti nel trien­nio; tra gli inter­venti vi sono la revi­sione delle impo­ste verso l’alto che andranno a pena­liz­zare la domanda interna ed i ser­vizi che la Gre­cia oggi di più esporta (turi­smo) e quelli sulle pen­sioni che anche essi non sono certo nel breve periodo a soste­gno della ripresa della domanda.

Che le pri­va­tiz­za­zioni siano poi il gri­mal­dello per far decol­lare il mer­cato interno, su que­sto è lecito avere dubbi. Alcune delle moda­lità con cui ciò verrà fatto non sono comun­que da disprez­zare, e non pia­ce­ranno certo alla Troika, per­ché segnano che nella modu­la­zione pos­sono pas­sare inter­venti che sono pure nel pro­gramma di governo di Tsi­pras (aumento delle ali­quote sui pro­fitti, tasse sulle pro­prietà, e sul lusso, tagli alla difesa — pur­troppo mode­sti per l’acquisto di mate­riale bel­lico, tagli alle pen­sioni anti­ci­pate, inter­venti con­tro l’evasione fiscale e la cor­ru­zione, aiuti ai meno abbienti), come è da apprez­zare avere otte­nuto una con­si­stente ridu­zione dell’avanzo di bilan­cio all’1% nel 2015 e quindi 2%, 3%, 3,5% negli anni seguenti sino al 2018 che la Troika avrebbe voluto inal­te­rato attorno al 5% ed oltre del Pil.

Altri inter­venti sono vere e pro­prie con­ces­sioni alla Troika: aumento dei con­tri­buti sani­tari per i pen­sio­nati, abban­dono del con­tri­buto di soli­da­rietà alle pen­sioni più povere, revi­sione delle nor­ma­tive sul mer­cato del lavoro secondo le migliori pra­ti­che euro­pee ed ado­zione di legi­sla­zione per la con­trat­ta­zione col­let­tiva da con­cor­dare con le isti­tu­zioni. Ma che tutto ciò possa favo­rire la cre­scita in Gre­cia è assai dif­fi­cile da pensare.

L’accordo non pre­ve­dendo peral­tro nulla di defi­nito circa la ristrut­tu­ra­zione del debito e lascia la Gre­cia con il cap­pio al collo. Costretta a ripa­gare i debiti in base ai pro­grammi sta­bi­liti e tenuta a ono­rare tassi di inte­ressi che sono con­si­de­rati da usu­rai, seb­bene di mer­cato (ma il mer­cato può ben essere in mano agli usu­rai!), alla Gre­cia rimar­ranno ben poche risorse per affron­tare i nodi strut­tu­rali di offerta e di domanda.

Le risorse che ser­vono per pagare i cre­di­tori ver­ranno sot­tratte ad ini­zia­tive per ristrut­tu­rare la strut­tura pro­dut­tiva greca che con­tri­bui­reb­bero anche a soste­nere la domanda interna.

Così i nodi strut­tu­rali della Gre­cia non pos­sono essere affron­tati ed anche nell’ipotesi che una qual­che cre­scita prima o poi si pre­senti all’orizzonte, il vin­colo esterno con­ti­nuerà a mor­dere, e quindi la neces­sità della Gre­cia di farsi finan­ziare con flussi esteri i defi­cit com­mer­ciali. Nel medio e lungo periodo quindi il rischio è che si ripre­sen­tino i pro­blemi di soste­ni­bi­lità del bilan­cio pub­blico e dei conti esteri che assil­lano la Gre­cia da ben prima del suo ingresso nell’Eurozona, senza che nel breve periodo lo stato di depres­sione dell’economia sia alleg­ge­rito. Lo sce­na­rio rimane quindi cupo per la Grecia.

Se que­sto sarà la base dell’accordo (e come potrebbe essere altri­menti?) che verrà sot­to­scritto con l’Eurogruppo e con il Con­si­glio dei 28 entro dome­nica, la Gre­cia certo pren­derà tempo, ma non è detto che ciò dia tempo all’Europa.

Nel frat­tempo, l’austerità con­ti­nua, men­tre la cre­scita può attendere.

Il manifesto, 10 luglio 2015 (m.p.r.)

Dopo il voto di fidu­cia dei 159 sena­tori di gio­vedì 25 giu­gno, oggi abbiamo vis­suto ancora un altro Black Thur­sday della nostra sto­ria repub­bli­cana: alla Camera, 277 depu­tati hanno votato a favore della riforma della scuola pro­po­sta dal governo, tra­sfor­man­dola in legge.È dav­vero sor­pren­dente che il pre­mier, per­plesso circa il fatto che in Gre­cia «3 milioni di cit­ta­dini abbiano espresso una deci­sione che riguarda 300 milioni di euro­pei», non si pre­oc­cupi del fatto che poche cen­ti­naia di par­la­men­tari ita­liani — nomi­nati con una legge elet­to­rale inco­sti­tu­zio­nale — hanno ema­nato una riforma che riguarda non solo milioni di stu­denti ma il destino del nostro scia­gu­rato Paese.

È una riforma che fa strame dei prin­cipi costi­tu­zio­nali e declassa defi­ni­ti­va­mente la scuola pub­blica ita­liana da isti­tu­zione a ser­vi­zio. A nulla è valsa la mobi­li­ta­zione costante di inse­gnanti e stu­denti che, nell’ultimo anno, fin dalle prime slide mostrate da Renzi in tv a set­tem­bre, hanno espresso ogni giorno e in ogni occa­sione il loro argo­men­tato e arti­co­lato dis­senso cri­tico. Che hanno cer­cato, invano, un’interlocuzione reale con il governo, il par­la­mento e tutte le più alte cari­che dello Stato per denun­ciare i rischi della deriva cul­tu­rale e poli­tica di una riforma della scuola che con­se­gna tutti i poteri in mano ai pre­sidi: dalla defi­ni­zione del pro­getto for­ma­tivo con vin­colo trien­nale, alla ricerca dei finan­zia­menti pri­vati sul mer­cato, fino alla chia­mata diretta dei docenti.

Una riforma che lede uno dei prin­cìpi fon­da­men­tali di uno stato demo­cra­tico e civile: la libertà della scienza, delle arti e del loro inse­gna­mento, ovvero la libertà del pen­siero, la libertà attra­verso la quale, nel per­corso di istru­zione e for­ma­zione intra­preso tra i ban­chi di scuola, i nostri stu­denti diven­tano, gra­tui­ta­mente e a buon diritto, con­sa­pe­voli cit­ta­dini del mondo. Come reci­tano gli arti­coli 3, 33 e 34 della Costi­tu­zione, nel defi­nire in modo chiaro e ine­qui­vo­ca­bile il man­dato della scuola nel nostro Paese.

Da set­tem­bre non sarà più così. Se il Pre­si­dente della Repub­blica fir­merà que­sta legge, sordo ai rilievi di inco­sti­tu­zio­na­lità for­mali e sostan­ziali che da tante parti si levano in que­sti giorni tri­sti, in cui la tenuta della demo­cra­zia sta vacil­lando sotto i colpi degli emen­da­menti sop­pressi, dei pareri delle oppo­si­zioni ina­scol­tati, delle posi­zioni legit­ti­ma­mente espresse da sin­da­cati, asso­cia­zioni e movi­menti pro­ter­va­mente cal­pe­state, dello spet­ta­colo inde­cente dei par­la­men­tari intenti a com­pul­sare tablet e cel­lu­lari men­tre appro­va­vano distrat­ta­mente que­sto o quell’articolo del ddl — se anche il Pre­si­dente, garante supremo dei prin­cipi costi­tu­zio­nali, non com­pren­derà i gravi peri­coli di cui que­sta riforma è impre­gnata e non imporrà una pro­fonda rifles­sione, allora da set­tem­bre ci sarà il Far West.

E non per­ché noi inse­gnanti la sabo­te­remo o boi­cot­te­remo, peral­tro legit­ti­ma­mente ove sarà neces­sa­rio pre­ser­vare i diritti degli stu­denti e dei lavo­ra­tori dal mer­ci­mo­nio degli inte­ressi pri­vati. Ma per­ché le scuole implo­de­ranno in una con­di­zione di con­ten­zioso e con­flitto perenne. Una con­di­zione che ne deter­mi­nerà la para­lisi. Ogni deci­sione del diri­gente sco­la­stico sarà discre­zio­nale e irri­ce­vi­bile dai col­legi dei docenti, con­si­gli di classe, rap­pre­sen­tanze sin­da­cali, con­si­gli d’istituto e da tutti gli organi col­le­giali che saranno stati in grado di man­te­nere intatte le pre­ro­ga­tive deci­sio­nali. Da set­tem­bre, ogni pre­side potrà pescare dal gran cal­de­rone della legge (un unico arti­colo con 212 commi e 8 dele­ghe, irre­spon­sa­bil­mente lasciata in que­sta forma fles­si­bile e lar­ga­mente inter­pre­ta­bile) tutto e il con­tra­rio di tutto, per una scuola on demand che cor­ri­sponda ai biso­gni del ter­ri­to­rio ma soprat­tutto alle esi­genze del mercato.

Sarà il caos. Hanno fatto un disa­stro e lo chia­me­ranno «buona scuola».

«La “Buona scuola” è legge di stato». Una efficace descrizione della legge e delle sue criticità. Un giudizio ottimistico che non condividiamo.

Lavoce.info, 10 luglio 2015 (m.p.r.)

I principi della riforma

Il disegno di legge n.1934 (più noto come “Buona scuola”) appena approvato definitivamente dalla Camera in forma di unico articolo, in apertura enuncia i principi ispiratori, tutti pienamente condivisibili: “innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, […] per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, […] per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva […]”. Il modello organizzativo a cui si ispira la riforma è quello della attuazione della autonomia scolastica, che significa capacità di adattare l’offerta formativa al contesto locale alla luce delle costanti trasformazioni della realtà esterna. Non stupisce quindi che una più ampia autonomia richieda una maggiore e migliore capacità di direzione da parte dei dirigenti scolastici, il cui ruolo viene rafforzato.

I cambiamenti più importanti introdotti dalla legge sono almeno tre: inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici, miglioramento delle possibilità di progettazione.

La spesa in istruzione

La legge sancisce un’inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, in cui l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il più basso livello di risorse investite in rapporto sia al prodotto interno lordo, sia come quota finalizzata sul totale della spesa pubblica (l’8 per cento della spesa pubblica, secondo il recente rapporto Oecd Government at a glance, seguiti solo dalla Grecia al 7,8 per cento). Questo viene attuato attraverso un innalzamento della spesa dell’ordine di un miliardo e mezzo di euro all’avvio (e di tre miliardi e mezzo a regime) collegato all’immissione graduale in ruolo di circa 100mila nuovi insegnanti, oltre al rimpiazzo del turnover legato ai successivi pensionamenti.

L’aumento della spesa è indubbiamente un fatto positivo, che differenzia il governo di centro-sinistra dalle politiche dei tagli dei passati governi di centro-destra. E non stupisce altresì che questa maggior spesa si concentri sull’assunzione di personale, dal momento che l’istruzione è uno dei settori produttivi a più alta intensità di spesa in personale. Ma non solo: vengono stanziati fondi per incentivare il merito per gli insegnanti (200 milioni di euro annui), per l’incremento del fondo di funzionamento (123 milioni di euro nel 2015), per sostenere i consumi culturali degli insegnanti (con una card annuale di 500 euro per insegnante, pari a circa 400 milioni di euro), per incentivare i dirigenti (35 milioni a regime dal 2016) e per l’edilizia scolastica (oltre allo stanziamento per l’arricchimento dell’offerta formativa, incrementato in giugno di 40 milioni).
Quello che ha invece sollevato più di una perplessità sono i criteri di scelta del nuovo personale, di necessità imposti dalla spada di Damocle di migliaia di potenziali ricorsi dopo il pronunciamento della Corta di giustizia europea. In un mondo ideale, sarebbe stato auspicabile una immissione graduale diluita nell’arco di cinque-dieci anni, con filtri basati sulle capacità accertate dei candidati e sulle esigenze didattiche delle scuole. Dove sarebbe quindi la domanda di competenze a regolare l’ingresso in ruolo e non l’offerta residua delle graduatorie a esaurimento. I meccanismi selettivi degli insegnanti finora in vigore mettevano un filtro (parziale) all’ingresso attraverso l’abilitazione, ma premiavano sostanzialmente l’anzianità d’iscrizione in lista di attesa. Il combinato dei due meccanismi applicati in sequenza nel tempo non porta necessariamente alla selezione dei candidati migliori, tanto più ora quando ci si prefigge di svuotare queste liste di attesa (in gergo indicate come Gae - graduatorie ad esaurimento).
Il rischio (se non la certezza) è che questa operazione di assunzione immediata di un numero così elevato di docenti si trasformi nell’ennesima sanatoria ope legis che saturerà il fabbisogno di organico per il prossimo decennio, lasciando scoperte le cattedre le cui competenze sono fortemente richieste (per esempio tradizionalmente quelle di matematica, ma anche di economia o di informatica).

Prerogative dei dirigenti

Sul rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici si sono maggiormente concentrate le proteste sindacali degli insegnanti. Secondo la nuova legge il dirigente avrà a disposizione fondi per premiare l’impegno scolastico dei docenti (con attenzione alle scuole a maggior rischio educativo), potrà scegliersi un gruppo di insegnanti “collaboratori” nella funzione di governo della scuola (opzione di fatto già esistente attraverso la scelta dello staff e, in parte, delle cosiddette “funzioni strumentali”) e potrà scegliere i nuovi insegnanti da un bacino predefinito (creando quanto indicato, sempre in gergo, come organico dell’autonomia o funzionale). Molte delle correzioni introdotte dal dibattito parlamentare hanno mirato a limitare queste prerogative: l’erogazione dei fondi incentivanti è stata trasferita a una commissione dove gli “incentivandi” hanno la maggioranza, la scelta dei nuovi insegnanti deve avvenire rispettando dei vincoli procedurali di trasparenza (pubblicità del fabbisogno di competenze in linea con il piano formativo triennale della scuola, pubblicità dei curricula dei selezionati).

Il vero nodo della vicenda sembra però legato alla attuazione del comma 93 (ebbene sì, questa nuova legge nasce come articolo 1 corredato di 212 commi) relativo alla valutazione dei dirigenti scolastici. Prevista originariamente come delega al governo e ricondotta nell’alveo della legge dal dibattito parlamentare, il summenzionato comma affronta il nodo del “chi controlla il controllore?” definendone le aree di valutazione (competenze gestionali e organizzative, capacità di leadership, miglioramento nel livello degli apprendimenti degli studenti) e i soggetti attuatori (ispettori e dirigenti ministeriali, organizzati in commissioni valutatrici su base regionale).
Resta però imprecisato il benchmark di riferimento della valutazione: saranno gli obiettivi che i dirigenti si sono di fatto auto-assegnati con i rapporti di autovalutazione, attualmente in fase di compilazione in via sperimentale in tutte le scuole italiane? Se così fosse (come appare probabile), assisteremmo a una rinuncia da parte ministeriale della proposizione dall’alto di obiettivi qualificanti (per esempio in materia di dispersione scolastica, di inclusione, così come di promozione delle eccellenze), che si tradurrebbe in un mancato esercizio della funzione di direzione.

Miglioramento delle possibilità di pianificazione e progettazione

Nel corso del percorso parlamentare il disegno di legge ha visto rafforzarsi la coerenza interna legata agli orizzonti temporali. A un sistema scolastico che era ormai abituato alla logica della “sopravvivenza quotidiana” è stata restituita la dignità di una pianificazione complessiva e di una progettazione didattica pluriennale. Non è infatti casuale che sull’orizzonte dei tre anni sia stata riallineata una serie di processi: la programmazione scolastica (in gergo Pof - piani dell’offerta formativa); l’assegnazione dei nuovi organici dell’autonomia; la valutazione degli esiti dei rapporti di autovalutazione a livello di istituto; l’assegnazione e la valutazione dei dirigenti scolastici; la cadenza dei concorsi per l’ingresso nella professione insegnante.

Insieme all’obbligo di assicurare alle scuole la certezza dei fondi a inizio anno, tutto questo reintroduce respiro nella attività di programmazione a livello di scuola, comunque sempre gestita nell’ambito degli organi collegiali. Dovrebbero quindi gradualmente scomparire (o almeno questo è l’auspicio) le situazioni emergenziali in cui ai genitori si chiedeva di sopperire alle carenze statali con l’acquisto di materiali didattici. Scuole che progettano su un orizzonte di almeno tre anni sono anche scuole che possono muoversi credibilmente sul territorio in rapporto con operatori pubblici e privati alla ricerca di ulteriori fondi o servizi. Non è quindi un caso che il decreto incoraggi la donazione di fondi alle scuole attraverso lo strumento della defiscalizzazione.
Almeno sulla carta, nel decreto ci sono tutte le premesse per un salto di qualità. I tagli degli allora ministri Gelmini-Tremonti segnalarono che i governi (e gli elettori di cui erano rappresentanti) non erano disponibili a sottoscrivere una delega in bianco al mondo della scuola, che protestò vivacemente e si attrezzò per sopravvivere. Oggi viene riaperta una prospettiva di risposta e crescita. Non è una delega in bianco, perché definisce una nuova modalità organizzativa e richiede una serie di verifiche in itinere (quelli che chiameremmo checks and balances). È una scommessa aperta che porta a un bivio, da cui potranno emergere sostantive innovazioni oppure riaffermarsi una passività consuetudinaria cui ci hanno abituato gli ingloriosi risultati del nostro paese nelle classifiche internazionali dei test scolastici.
Bugie a go go e retrocessione culturale. L'autoritarismo dello Stato feudale prepara la sua perpetuazione: ecco a che serve la "buona scuola" di Renzi.

Il manifesto, 10 luglio 2015

Men­tre non si ferma la pro­te­sta del mondo della scuola, e non si fer­merà nei pros­simi mesi, è stato appro­vato oggi il ddl sulla scuola. C’è stato biso­gno della fidu­cia al Senato e della blin­da­tura del testo alla Camera.Un modo di pro­ce­dere auto­ri­ta­rio e arro­gante, ma soprat­tutto un atto irre­spon­sa­bile. Mat­teo Renzi sa bene, almeno lo sa qual­cuno del suo staff, che da set­tem­bre la scuola sarà in un caos totale. Le assun­zioni dei pre­cari sono dimi­nuite — da un annun­cio all’altro, da un emen­da­mento all’altro — da 148.000 a 100.000 circa fino ad arri­vare alle attuali 60.000, banal­mente il nor­male turn over. Poi altre in corso d’anno. Forse.

I nodi ven­gono al pet­tine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci tutte le assun­zioni, si diceva. Non sarà così.

Il ddl è stato appro­vato ma le assun­zioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà gra­zio­sa­mente con­cessa la pos­si­bi­lità di fare un altro con­corso) e saranno cen­tel­li­nate nel tempo.E ancora, per giu­sti­fi­care la volontà di non fare il decreto per le assun­zioni, l’argomentazione osses­si­va­mente ripe­tuta era: «non si pos­sono fare le assun­zioni dei pre­cari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su orga­niz­za­zione e gestione del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Per­ché si con­ti­nua a gio­care sulla pelle delle per­sone? Per­ché non si tiene in nes­sun conto una pro­te­sta civile e com­po­sta come quella della stra­grande mag­gio­ranza del mondo della scuola?

Per­ché non si è mai ten­tata con la scuola e le sue rap­pre­sen­tanze un’interlocuzione posi­tiva? Che non è sicu­ra­mente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Per­ché si è con­ti­nuato a ripe­tere che la gente non capiva, fino ad arri­vare alla farsa del gesso e della lava­gna? Forse vale la pena rias­su­mere i ter­mini gene­rali, entro i quali il dibat­tito si è svi­lup­pato. Un dibat­tito che, come non acca­deva da decenni, ha coin­volto non solo gli addetti ai lavori ma una larga e signi­fi­ca­tiva parte dell’intellettualità di que­sto Paese, anch’essa inascoltata.

Lo scon­tro non è stato di tipo ideo­lo­gico, innan­zi­tutto. Non si sono con­fron­tati una scuola «di sini­stra» con­tro un governo «di destra», per usare delle sem­pli­fi­ca­zioni pure molto dif­fuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli inse­gnanti innan­zi­tutto, e poi delle fami­glie e dei ragazzi, che da sem­pre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese civi­liz­zato la garan­zia di un futuro migliore, comun­que. Ecco, diciamo che lo scon­tro è tra chi pensa che della scuola pub­blica ci si debba pren­dere cura per il valore costi­tu­zio­nale che rap­pre­senta e chi invece la para­gona ad un’azienda, verso cui vanno appli­cati esclu­si­va­mente prin­cipi aziendali.Qualcuno l’ha già pen­sato in pas­sato, Tre­monti e Gel­mini, per esem­pio. In quel caso tagli pesan­tis­simi. In que­sto caso pre­sidi mana­ger, inse­gnanti scelti dai capi di isti­tuto e una nuova gerar­chia tra le scuole, avviando una com­pe­ti­zione che rischia di lasciare indie­tro pro­prio quelli che hanno più biso­gno. Secondo un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismet tendo .Ma a tanti, den­tro e fuori la scuola, inte­ressa soprat­tutto che la scuola con­ti­nui a for­mare ragazzi che sanno. Cono­scono. Riflet­tono. Impa­rano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filo­so­fia azien­dale, non ci sono cat­tivi da punire con trat­te­nute di sti­pen­dio, o bravi da incen­ti­vare con rega­lie in denaro.

C’è un intero sistema che va accu­dito con la cura che merita. È que­sto l’errore, sta­volta sì ideo­lo­gico, del governo attuale come di quelli pre­ce­denti: l’incapacità di misu­rarsi con la scuola come sistema, e non come un sem­plice insieme di isti­tuti e per­sone che vi lavo­rano den­tro. Per­ciò que­sta legge non può essere cor­retta in corso d’opera come sostiene qual­cuno, anche in que­ste ore. Per­ciò occor­rerà un refe­ren­dum abrogativo.Lo sa bene il popolo della scuola ( inse­gnanti, stu­denti, anche tan­tis­simi diri­genti) che con­ti­nua e con­ti­nuerà nei pros­simi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, com­bat­tendo una bat­ta­glia che ha il respiro largo delle grandi bat­ta­glie civili. Come da tempo non avve­niva. Non sono per­sone che non hanno l’ardire dell’innovazione o pati­scono la paura di essere valu­tate. Sono per­sone che sanno bene come fun­ziona la scuola, a dif­fe­renza dei tanti che ne scri­vono sulle pagine della stampa nazio­nale gui­dati solo da impres­sioni o vec­chi pregiudizi.

Sono quelli ai quali un recen­tis­simo rap­porto Ocse rico­no­sce sem­pre migliori capa­cità di gover­nare e miglio­rare il sistema pub­blico della scuola ita­liana in una società che cam­bia. Difen­dere la scuola pub­blica ormai è que­sto, un vero e pro­prio scon­tro di civiltà, ter­mine abu­sato quanti altri mai, ma forse il più ade­guato. La scuola pub­blica è civiltà. È patri­mo­nio gene­tico si può dire, del nostro vivere. Que­sto va fatto capire ai gio­va­notti del governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare poli­tica e del gover­nare. Ripor­tarli nel mondo reale, di cui la scuola è mae­stra e spec­chio come nessun’altra isti­tu­zione. Abbiamo ancora tutti da impa­rare dalla scuola. Soprat­tutto loro.

Riferimenti
Vedi su eddyburg il saggio di Nadia Urbinati, Verso una democrazia cesaristica , gli articoli di Andrea Fabozzi e Alfio Mastropaolo riuniti sotto il titolo Firmato ilTirannicum, e l'eddytoriale n. 165 di eddyburg.
Come gran parte della stampa anche

la Repubblica (10 luglio) sbatte in prima pagina la consegna di Evo Morales a papa Francesco del singolare connubio di simboli. Ma l'incontro tra i due personaggi, e il discorso di Borgoglio, sono solo l'antipasto di un gigantesco e memorabile evento di massa, che si svolgerà poco dopo a Vera Cruz (vedi in calce)

"Con gli scarti alimentari si vincerebbe fame mondo". Sono parole forti quelle scelte da Papa Francesco davanti a due milioni di fedeli per la messa di papa Francesco nella piazza del Cristo Redentore di Santa Cruz in Bolivia. " Gesù non accetta si sacrifichino sempre i deboli", ha aggiunto. La celebrazione eucaristica segna l'apertura del V Congresso Eucaristico nazionale in Bolivia. Le preghiere che si alterneranno nel corso della messa sono in spagnolo e nelle lingue indigene, guaranì, quechua e aimara. Tra loro molte madri, alcune in abiti tradizionali, con i figli in braccio. Per il rito il Pontefice ha scelto sia lo spagnolo che le lingue indigene -gua, spagnolo, quechua, aimara - per le letture e per le preghiere.

L'ingiustizia.

"L'ingiustizia sembra non avere fine - ha detto Bergoglio durante la messa - . In questi giorni ho potuto vedere molte madri con i loro figli sulle spalle. Come fanno qui molte di voi. Portano su di sé la vita, il futuro della loro gente. Portano le ragioni della loro gioia, delle loro speranze". "Ma portano sulle loro spalle anche disillusioni, tristezze e amarezze, l'ingiustizia che pare non avere fine e le cicatrici di una giustizia che non si realizza. Portano su di sé la gioia e il dolore della loro terra. Voi portate la memoria del vostro popolo". "I popoli hanno memoria, una memoria che si trasmette di generazione in generazione, una memoria in cammino". "Quante volte - ha osservato - viviamo situazioni che pretendono di anestetizzarci la memoria, e così si indebolisce la speranza e si vanno perdendo le ragioni della gioia. E comincia a prenderci una tristezza che diventa individualista, che ci fa perdere la memoria di essere popolo amato, popolo eletto".

La "chuspa" per le foglie di coca.

Il Papa è arrivato da Quito al termine della tappa ecuadoriana del viaggio in Sud America. L'accoglienza in aeroporto è stata calorosissima, sono stati eseguiti inni e canti andini, presentati gli onori militari, appena il Pontefice è sceso dalla scaletta dell'aereo, nel più alto aeroporto al mondo, a circa 4.000 metri. Ad accoglierlo c'era il presidente Evo Morales che gli ha regalato una tradizionale "chuspa", un contenitore andino per le foglie di coca. E' un astuccio all'interno del quale in Bolivia tengono le foglie di coca che non raffinate si usa masticare comunemente o utilizzare per il tè, anche come coadiuvante contro gli effetti dell'altitudine e che non hanno alcun effetto nocivo. Stando a quanto riferito da un assistente di volo, Bergoglio durante il volo ha bevuto un tè fatto con un mix di foglie di coca, semi di anice e camomilla. Prima di congedarsi e salire sulla papamobile scoperta, Francesco ha anche indossato un poncho di lana bianca.

"Come ospite e pellegrino, vengo per confermare la fede dei credenti in Gesù", ha detto il Papa Francesco rivolgendosi al presidente della Bolivia Morales, alle autorità civili ed alla folla venuta a El Alto. Forte appoggio dal Papa appena giunto a La Paz dall'Ecuador, al cammino di inclusione sociale della Bolivia, alla sua tutela delle nazionalità, idiomi, culture, al suo riconoscere i diritti delle minoranze al suo opporsi al dio denaro che scarta anziani e giovani. Davanti a 500mila persone che lo hanno accolto all'aeroporto di El Alto, papa Francesco ha citato il preambolo della Costituzione boliviana. Subito prima del Papa, Morales, primo presidente indio dello Stato plurinazionale della Bolivia ha detto grazie al Papa "che ha scelto i poveri e ha scelto di chiamarsi come san Francesco d'Assisi, e gli ha chiesto "di aiutare il nostro cammino di cambiamento", "della nostra terra di pace - ha detto - che chiede giustizia".

Sintonia con Morales.


Si è colta subito sintonia e vicinanza tra il Papa e il presidente. Morales lo ha chiamato diverse volte "fratello Papa", mentre Bergoglio ha ringraziato per l'"accoglienza fraterna". Prima di sedersi per i discorsi, papa e presidente hanno percorso alcune decine di metri a piedi, Morales portava con se i familiari e il Papa ha preso per mano uno dei bambini. Morales ha consegnato al Papa una casula e un singolarissimo Crocifisso nel quale l'asse verticale della Croce è l'impugnatura del martello di una falce e martello. E ha messo al collo del Papa una onoreficienza la cui placca riproduceva la stessa immagine del Crocifisso sulla falce e martello. Papa Francesco, che si è tolto quasi subito il collare, ha risposto con doni più consoni: una riproduzione dell'icona "Salus Populi Romani" e copie in spagnolo dell'Enciclica "Laudato sì" e dell'Esortazione Apostolica "Evangelii gaudium".

Religione e cultura.

Il discorso del Papa probabilmente anticipa alcuni dei temi del secondo incontro mondiale dei movimenti, che si terrà domani a Santa Cruz. Temi in parte presenti anche nel discorso che il Papa ha preparato per l'incontro con la società civile, che si svolgerà tra poco nella cattedrale di La Paz. Nel testo predisposto, il Pontefice introduce anche il tema della tutela delle tradizioni locali e dell'ambiente da cui sono sorte, e accenna al ruolo specifico delle religioni nello sviluppo della cultura e nei benefici da apportare alla società.

Luis Espinal, il gesuita ucciso.

Toccante la sosta che papa Bergoglio ha fatto lungo la strada nel luogo in cui il 21 marzo 1980 fu ritrovato il corpo senza vita del gesuita Luis Espinal, cineasta e difensore dei minatori, rapito il giorno prima dai paramilitari del sanguinoso dittatore Luis Garcia Meza. Padre Espinal, ha detto il Papa "è morto per il Vangelo e per la libertà della Bolivia, anche se quelli che lo hanno ucciso non lo hanno creduto".

Riferimenti

Il discorso di papa Francesco all'Incontro mondiale dei movimenti popolari, Vera Cruz, 2015, in lingua spagnola. (inseriremo il testo in lingua italiana appena ne disporremo)

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