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«Il Senato approva una riforma ultra-verticistica e disciplinare. Nelle 15 deleghe rafforzati i poteri della presidenza del Consiglio. Le critiche dei sindacati». Saranno solo i sindacati e qualche gufo a protestare contro la sostituzione di un regime democratico con un regime feudale? Ma in cima non c'è Carlo Magno, c'è Attila.

Il manifesto, 5 agosto 2015

La riforma della pub­blica ammi­ni­stra­zione è stata appro­vata ieri in maniera defi­ni­tiva dal Senato gra­zie alle oppo­si­zioni. Il governo Renzi è stato gra­ziato da Forza Ita­lia che ha votato con­tro il prov­ve­di­mento, garan­tendo il numero legale. Se i voti a favore sono stati 145, 97 sono stati quelli con­trari, senza aste­nuti. Se qual­cuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giap­pone ha esul­tato a modo suo «abbrac­ciando i gufi» via twit­ter – sarebbe bastato votare con­tro e l’esecutivo si sarebbe schian­tato con­tro il muro del numero legale: 150 i voti neces­sari. Così non è stato e il par­la­mento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare con le 15 dele­ghe con­te­nute in una legge com­po­sta da 23 articoli.

Den­tro c’è di tutto: al governo è stata dele­gata la riscrit­tura del testo unico sul pub­blico impiego che inter­verrà sulla «respon­sa­bi­lità» dei dipen­denti pub­blici, cioè dovrà ren­dere con­creta la pos­si­bi­lità di con­durre a ter­mine le azioni disci­pli­nari; modi­fi­cherà il ruolo dei diri­genti vin­co­lan­doli ancora più stret­ta­mente alla poli­tica, reste­ranno in carica quat­tro anni, più due di pro­roga, e dovranno accet­tare il deman­sio­na­mento a fun­zio­nari, all’occorrenza. In caso con­tra­rio saranno licen­ziati. La legge raf­forza oltre modo i poteri di inter­vento della pre­si­denza del con­si­glio nell’ambito delle con­tese tra le ammi­ni­stra­zioni cen­trali che riguar­dano la tutela pae­sag­gi­stica e la salute. Sarà il pre­si­dente del con­si­glio a deci­dere, sen­tito il parere for­male del con­si­glio dei mini­stri. Poteri raf­for­zati anche sulla rior­ga­niz­za­zione degli uffici dei mini­steri sui quali Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.

Nei decreti dele­gati, che saranno pre­sen­tati da set­tem­bre, il governo potrà inter­ve­nire su una voce impor­tante della ex-spending review voluta dall’ex com­mis­sa­rio Carlo Cot­ta­relli: la ridu­zione delle par­te­ci­pate. La deci­sione di ridurle da «8 mila a mille» verrà presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le pre­fet­ture saranno rior­ga­niz­zate, e non ce ne sarà più una per pro­vin­cia. Nascerà l’ufficio ter­ri­to­riale unico dello Stato. Con­ti­nua nel frat­tempo l’opera di ridu­zione delle camere di com­mer­cio vagheg­giata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105 a 60. Con­fer­mata la can­cel­la­zione del Corpo fore­stale che sarà assor­bito in un’altra poli­zia, si ritiene dai Cara­bi­nieri. Tra i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbli­ga­to­rio per gli uffici pub­blici, scuole e biblio­te­che. Dopo la chiu­sura, diven­te­ranno hot-spot per la cit­ta­di­nanza; la pos­si­bi­lità di pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, pre­vi­sto un unico numero per le emer­genze, il 112. Intro­dotto la pro­fi­la­zione per ogni cit­ta­dino che avrà una carta digitale.

Se dal lato Pd si festeg­gia la «moder­niz­za­zione» pra­ti­cata dalla riforma (Piero Fas­sino, sin­daco di Torino e pre­si­dente Anci), a dir poco cri­tici sono i sin­da­cati del pub­blico impiego. Il fuoco della loro cri­tica resta l’assenza di ogni rife­ri­mento al con­tratto di lavoro nazio­nale, e quindi alla qua­lità e alla retri­bu­zione dei dipen­denti. In una nota con­giunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa, la «riforma anti-gufi» di Renzi viene defi­nita «illu­so­ria». Non è con nuove norme che si cam­bierà la P.A. In com­penso la cosid­detta «riforma Madia» (dal nome della mini­stra depu­tata) «riduce gli spazi di nego­zia­zione e ina­spri­sce i con­trolli di merito e com­pa­ti­bi­lità economico-finanziaria dei con­tratti» Non inve­ste sulle pro­fes­sio­na­lità, ma le disci­plina e pensa, even­tual­mente, a punirle. «Il governo man­tiene una Pa auto­re­fe­ren­ziale — scri­vono i segre­tari di cate­go­ria Det­tori, Fave­rin, Tor­luc­cio e Turco — volu­ta­mente disor­ga­niz­zata. Vogliamo il rin­novo del con­tratto subito».

Dal fronte poli­tico delle oppo­si­zioni, Lore­dana De Petris (Sel) appro­fon­di­sce la cri­tica alla con­fe­renza dei ser­vizi e al «silenzio-assenso»: «Que­sta riforma sacri­fica la ter­zietà della P.A., la tra­sforma in una pira­mide la sacri­fica al potere poli­tico. è l’esatto oppo­sto di quello che biso­gnava fare».

...(continua a leggere)

Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.

E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.

Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.

Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?

Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.

L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.

Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.

«Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto».

Italianostra-venezia.org, 4 agosto 2015 (m.p.r.)

Sul canale televisivo Televenezia (canali 19 e 71) è apparsa venerdì scorso 31 luglio una trasmissione di un'ora che consisteva in un'intervista al nuovo sindaco Luigi Brugnaro. Invitiamo i nostri lettori a darvi un'occhiata, per farsi un'idea sempre più precisa del carattere e delle idee del nuovo sindaco di Venezia. Brugnaro ha dichiarato al pubblico che la trasmissione diventerà una presenza fissa settimanale. Il sito di Televenezia annuncia che il programma andrà in onda ogni giovedì alle 21 e alle 23 e ogni venerdì alle 7.

Nella prima trasmissione il sindaco ha illustrato questa sua iniziativa, che chiama "l'ora della verità", come parte del suo programma di un percorso di "democrazia partecipativa", nel quale sono inclusi anche gli incontri con le categorie economiche e associazioni di cittadini chiamate "tavoli di consultazione" (i primi tre hanno già avuto luogo). L'attività della sua giunta, ha dichiarato Brugnaro, dev'essere "sostenuta dalla consultazione con i cittadini". Durante quella prima ora Brugnaro si è soffermato su alcuni temi in particolare:
- Sul bilancio del Comune ha ribadito l'esistenza di un rosso di 62 milioni ("ho trovato una macchina in corsa lanciata verso il disastro") e i suoi progetti per affrontare la cosa.
- Sul Turismo ha sottolineato una distinzione tra turisti pernottanti ed escursionisti. Ha anche menzionato l'esistenza di proposte per ridurre le presenze giornaliere. Ha dichiarato di volerle esaminare assieme ai cittadini nei tavoli di consultazione (ai minuti 10 - 14).
- Sugli stipendi dei dipendenti del Comune ha illustrato i suoi criteri di meritocrazia.
- "Non voglio essere il sindaco dei grandi lavori; voglio essere il sindaco delle manutenzioni, delle piccole cose", tra cui la lotta al moto ondoso .
- Sulla Ztl si Mestre annuncia di volerla "spegnere", perché "Mestre deve tornare ad essere accessibile".
- Sul Lido, vuole che l'Ospedale al mare mantenga la sua funzione sanitaria e che i grandi alberghi rimangano tali. Vuole una pista ciclabile e un prolungamento dell'apertura delle spiagge fino alle 20 invece che fino alle 19 come oggi.
Abbiamo sintetizzato solo i temi principali. Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto. Ma possiamo sperare che con l'intensificarsi degli incontri con la cittadinanza, e con le insistenze anche nostre, questi temi comincino ad affiorare e ad imporsi come parte essenziale del programma amministrativo.
Quando l'arrogante e incolta inettitudine del governo centrale si aggiunge all'inettitudine dei poteri locali, e per di più la regola generale diventa "io per me e nessuno per tutti", allora è ovvio che gli squilibri tra forti e deboli si accrescano. <articoli di Carmelo Papa e Valentina Conte. La Repubblica, 4 agosto 2015


90 MILIARDI BLOCCATI E QUELLI SPESI
SI SONO DISPERSI IN 907MILAMICROPROGETTI
di Valentina Conte

Vecchie risorse inutilizzate, nuovi fondi senza delibere Nessun sottosegretario con delega e l’Agenzia resta fantasma

Un mare di soldi bloccato. Fermo. Centoquattro miliardi da spendere subito. E di questi, oltre 87 col bollino del Sud. Destinati cioè a quel meridione d’Italia «a rischio di sottosviluppo permanente» e che cresce la metà della Grecia, ricorda lo Svimez. Com’è possibile? Colpa solo delle amministrazioni locali lente e incapaci, magari sin troppo propense ai «piagnistei » rimproverati da Renzi? In parte, certo. Ma la macchina mi-liardaria dei fondi, europei e nazionali, si è inceppata dalla testa. Burocrazia, ma anche e soprattutto politica.

L’analisi cruda dei numeri racconta un «piano Marshall» per il Mezzogiorno, evocato ieri dalla ministra dello Sviluppo Federica Guidi nell’intervista a Repubblica , che nei fatti e nei denari già esiste. Non solo. Si scopre che la metà del non speso, ben 50 miliardi, si riferisce addirittura al periodo 2007-2013. In questi nove anni l’Italia è riuscita a utilizzare appena il 46% delle risorse a disposizione, polverizzandole tra l’altro in un milione di progetti. Per la precisione, 907 mila 372. Dall’America’s Cup di Napoli (5,8 milioni) alla campagna “Voglio vivere così” della Toscana (13,4 milioni). Avanzano dunque 50 miliardi della vecchia programmazione (dei 91 totali iniziali). E se non si corre, una parte andrà restituita.

Entro Capodanno, il governo deve difatti spedire a Bruxelles un maxi-scontrino da 12,3 miliardi di fondi europei (cofinanziati dall’Italia) con la data di scadenza. Il resto dei 50 miliardi - fondi nazionali, questi - non rischia invece il binario morto, dunque non andranno perduti né saranno richieste fatture. Ma la stasi sì. Si tratta del Fondo sviluppo e coesione e del Piano di azione e coesione. Sigle non certo popolari (Fsc e Pac), ma fondamentali bacini per gli investimenti nel Sud in infrastrutture, inclusione, formazione, occupazione. Eredi di quel fondo Fas per le aree sottoutilizzate ( dunque il meridione), saccheggiato nel recente passato come bancomat di Stato da governi d’ogni colore, per alimentare un po’ di tutto: cassa integrazione in deroga, multe per le quote latte, la Brebemi, il G8 doppio (Maddalena e L’Aquila). Da buona ultima, anche la legge di Stabilità per il 2015 ne ha prelevato una fettina da tre miliardi e mezzo per finanziare gli sgravi contributivi (soldi del Sud che hanno di fatto beneficiato soprattutto il Nord, il più vivace nelle assunzioni).
Centoquattro miliardi fermi, si diceva. Cinquanta per il passato, come visto. Altri 54 per il nuovo periodo di programmazione, 2014-2020. Parliamo dell’Fsc (Fondo sviluppo e coesione): soldi nazionali tradizionalmente destinati alle grandi opere, le infrastrutture strategiche del Paese. L’ultima legge di Stabilità ne ha cambiato la mission , dirottandoli alla «specializzazione intelligente», dunque ricerca e innovazione e agenda digitale. Non riusciamo a spendere i denari per fare le strade, mettiamoli sulle infrastrutture immateriali, è stato il ragionamento. Tra marzo e aprile, però, l’iter si è congelato. Il Cipe avrebbe dovuto procedere con le delibere (la torta di questo Fondo è gestita in toto dal Comitato interministeriale per la programmazione economica). Ma non l’ha fatto. Graziano Delrio, l’allora sottosegretario di Palazzo Chigi con delega proprio ai fondi europei, è stato spostato alla guida del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (ha giurato il 2 aprile). Ottenendo di portarsi dietro proprio quel fondo, l’Fsc con i suoi 54 miliardi (e sperando di tornare alla mission originaria, cioè le infrastrutture). Una promessa politica del premier Renzi, ad oggi ancora non attuata. Come pure la delega ai fondi Ue, in teoria slittata nelle mani del nuovo sottosegretario Claudio De Vincenti, mai formalizzata. Tutto fermo.

Chi sovraintende da Roma dunque i fondi Ue? Non certo l’Agenzia della coesione, diretta da Maria Ludovica Agrò, di fatto insediata da appena tre mesi (dopo un anno di gestazione). E ancora alle prese con le assunzioni. Dunque Palazzo Chigi. Il premier Renzi ha ereditato il buon lavoro impostato da Delrio, ma poi forse l’ha un po’ accantonato. Di qui la stasi. Certo, va detto che 40 dei 50 programmi di spesa dei nuovi fondi Ue sono stati già approvati da Bruxelles e il governo intende accelerare sui restanti 10. La partita per il 2014-2020 vale in tutto però 138 miliardi (fondi europei più nazionali, Fsc incluso). Una cifra davvero enorme. Da governare.

«Un Paese normale si può permettere di avere ancora il 50% di vecchi fondi da spendere a meno di sei mesi dalla scadenza, con la più grande area depressa d’Europa?», si chiede Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. La Uil tra l’altro calcola che dei 12 miliardi di fondi Ue in scadenza, almeno 2 sono a rischio concreto di restituzione. Si vedrà.

SAVIANO A RENZI:“ADDOLORA SENTIR PARLARE DI PIAGNISTEI
Carmelo Lopapa

TOKYO . «Serve più consapevolezza e amor proprio, voler bene all’Italia significa smettere di spararle e sparlarle contro». Matteo Renzi la sua battaglia all’insegna dell’ottimismo taumaturgico contro i “gufi” che dall’Italia continuano a minacciare (Vietnam parlamentari) o a lamentare (crisi economica e sottosviluppo) la combatte ormai colpo su colpo anche dal Giappone. La seconda giornata a Tokyo che sarà segnata dalla visita all’imperatore Akihito e dall’incontro col premier Shinzo Abe - comincia con un post su Facebook quando in italia è ancora notte. Nessun riferimento esplicito a Roberto Saviano, al suo appello per il Sud in ginocchio, certo è che le parole del presidente del Consiglio risuonano come una risposta a 360 gradi: «Bisogna fare di tutto per guardarci con gli occhi di chi ci vuole bene, non di chi si lamenta soltanto». Poche ore prima, aveva rivolto proprio al Mezzogiorno l’invito a «rimboccarsi le maniche», con quel sonoro «basta piagnistei».

Roberto Saviano non lascia cadere il guanto di sfida, benché non rivolto direttamente a lui. E su Twitter rilancia: «Mi addolora che raccontare la tragica situazione del Sud Italia sia così facilmente definito piagnisteo». Rincara via Facebook ricordando «il numero degli occupati al livello più basso dal 1977, la natalità ai minimi storici, i meridioncosì he fuggono ». Per concludere che «questo è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del ‘va tutto bene’». La polemica aperta con la lettera a Repubblica della scorsa settimana adesso si fa frontale, diretta. Dalla capitale nipponica Renzi non risponde. Quel che doveva dire lo ha detto e sul Mezzogiorno, ricordano da Palazzo Chigi, è stata convocata un’apposita direzione del Pd venerdì. Sarà in quell’occasione che il premier dirà la sua. «Ha ragione Saviano e torto Renzi, c’è un Sud che sta morendo» attacca Nichi Vendola. Bene la direzione «ma dopo le parole l’azione» dice dalla sinistra pd Roberto Speranza. La giornata del presidente del Consiglio a Tokyo era cominciata con una lecture ai giovani dell’Universitá delle Belle arti: lotta al terrorismo, cultura e citazione ad hoc di Leonardo (“Tristo è quel discepol che non sorpassa il suo maestro”) per concludere che certo «non è semplice fare meglio di chi ci ha preceduti, ma in politica in alcuni casi si può far tesoro degli errori del passato». E ogni riferimento personale (e a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi) è lasciato cadere lì, con un sorriso ammiccante. Poi pranzo con la business community di Tokyo e la visita privata con la moglie Agnese e la figlia Ester all’imperatore Akihito. Il bilaterale serale nella residenza Kantei col premier Abe spalanca tra l’altro le porte agli investimenti Finmeccanica nel prolifico mercato Giapponese. «Ti porterò a Napoli a mangiare la pizza» dice a cena Renzi al collega, che regala un kimono rosa alla piccola dell’ospite.

La Repubblica, 4 agosto 2015

MIGRANTI, ORA CAMERON SCEGLIE LA LINEA DURA
MA È LITECON LA FRANCIA

di Vincenzo Nigro

Carcere per chi ospita stranieri irregolari, tensioni alla frontiera Si nasconde in una valigia:muore in Spagna un marocchino
LONDRA. La Gran Bretagna ha lanciato la sua caccia ai migranti irregolari, ma il vero problema ce l’ha la Francia, che non riesce a gestire alcune migliaia di disperati al confine di Calais. A Londra il governo Cameron ha proposto una legge che verrà varata (forse) nei prossimi mesi: permette ai proprietari di casa di sfrattare senza attendere l’ordine del giudice gli inquilini clandestini, e punisce anche con 5 anni di carcere i proprietari di abitazioni che li ospitano consapevolmente.

Una misura dura ma nei fatti inutile, perché i migranti, quando arrivano si presentano quasi sempre alle autorità per chiedere asilo ed essere assistiti secondo le leggi del Regno. E al massimo si fanno ospitare dai parenti che li attendono. Il vero problema in queste ore per il governo è invece la fila di migliaia di camion che occupano le strade verso l’Eurotunnel e verso i porti per la Francia, rallentati in dagli scioperi dei traghettatori francesi. Un imbuto che sta bloccando i traffici commerciali, ma che in pochi giorni molte linee di trasporti hanno bypassato scegliendo altri punti di imbarco. Tutti problemi amplificati dalla stampa popolare e di destra e dai politici xenofobi. Ieri il Daily Telegraph ha pubblicato un ampio servizio su alcuni immigrati spediti a un centro di assistenza a Londra in taxi al prezzo di 140 sterline «a spese del contribuente». E mentre altri giornali invocano l’utilizzo dei gurkha, i soldati asiatici dell’esercito britannico, il lavoro più concreto lo sta facendo la ministra dell’Interno Theresa May col suo collega francese: rafforzare le recinzioni alla partenza di Calais, raddoppiare il personale e gli strumenti di sorveglianza.

Chi non ha imbarazzo a denunziare il clima di allarmismo esagerato è il ministro dell’Immigrazione svedese Morgan Johansson, uno dei paesi in Europa che ha dimostrato non solo apertura, ma anche la massima capacità di gestire e integrare in maniera ordinata gli immigrati. La Svezia accetta 1200 migranti alla settimana, ha detto il ministro, e voi siete in crisi per poche centinaia in un mese, «dovete fare molto di più per gestire il fenomeno». E la Germania proprio ieri ha fatto sapere che nel 2014 ha toccato il record di quasi 11 milioni di residenti con un passato “migratorio”. Un problema collaterale, ma assai delicato, è il crescente clima di fastidio per gli stranieri. Partiti come l’Ukip e altri gruppi nazionalisti dopo aver fatto apertamente campagna contro polacchi e romeni adesso indicano tutti i “migranti” dell’Unione europea come pericolosi profittatori del welfare britannico. Nel frattempo si continua a morire per inseguire il sogno di una fuga dal proprio paese. Come è accaduto ieri a un giovane marocchino di 27 anni che ha tentato di entrare in Spagna chiuso in una valigia. Il ragazzo però è morto soffocato poco prima di arrivare sulla costa spagnola. L’allarme è stato lanciato dal fratello, arrestato dalla polizia.

MANGANELLI E GAS URTICANTE:
LA “GUERRA” INFINITA TRAPOLIZIOTTI E DISPERATI
di Daniele Mastrogiacomo
HA GLI occhi rossi. Il viso pieno di macchie. Se le gratta. Ma gli amici, i connazionali, sudanesi e etiopi, lo rimproverano. «Lascia perdere, non ti toccare». Arriva una ragazza, Lucille, volontaria di una ong. È un’infermiera. «Ecco, prendi questa. Passala sulla faccia». Salan, 30 anni, ingegnere informatico oggi immigrato, esegue l’ordine. Si spalma la crema sulle macchie che rischiano di diventare piaghe. Si calma, respira piano. «Gas - dice con un filo di voce - gas urticante. Ce lo sparano addosso». Chi gli sta attorno annuisce. Mehemet, 28 anni, commerciante del Darfur, rifugiato in attesa di un permesso che non arriva mai, ci mostra le mani: «Hanno colpito anche me. Ho alzato le braccia per proteggermi il viso. Lui non ci è riuscito».

È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l’entrata dell’Eutotunnel. La gente non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia all’uomo. La luce, a queste latitudini, d’estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati. Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro giorni che la grande fuga verso l’Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola. Ci hanno provato in 1700 domenica, 1200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima.

I “flic”, i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. «Con il buio facciamo le prime incursioni », racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai colleghi. «Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare ». La legge, nella guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l’assalto al tunnel della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso.

Gracchia la radio, c’è ordine di muoversi. L’atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall’ingresso verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall’inizio dell’anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano saltati in corsa, dalle macchine sull’autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi apparsi dal nulla.

Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i bambini. Dall’altra parte i poliziotti attendono l’ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano, la bomboletta nell’altra.

Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e veloci, che corrono a serpentina e con la forza d’urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedo- no davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c’è dietro.

Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria. Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non demordono. All’alba arriva l’ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il traffico è interrotto. Ci vorrà l’intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa. Domani si ricomincia.


«Se Renzi è un male asso­luto con le sue poli­ti­che costi­tu­zio­nali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giu­sti­zia, accen­nare ogni volta a un dis­senso rias­sor­bi­bile signi­fica aiu­tarlo a coprire l’intero spa­zio poli­tico».

Il manifesto, 4 agosto 2015.

Per nascon­dere il suo fal­li­mento, il pre­si­dente del con­si­glio sposa la dot­trina Picierno. La stu­diosa dei con­sumi volut­tuari, aveva sco­perto, con teo­remi ad ele­vata sofi­sti­ca­zione mate­ma­tica che, con 80 euro, una fami­glia naviga nel lusso per almeno 15 giorni. E, ben prima di Renzi, aveva get­tato fango sulla Cgil. Ora, il segre­ta­rio di un par­tito coin­volto fino al collo con i guai di mafia capi­tale, con le pri­ma­rie liguri che nar­rano di un tarif­fa­rio per recarsi ai gazebo, con iscri­zioni false e con il Pd della capi­tale sotto com­mis­sa­rio, accusa i sin­da­cati di avere più tes­sere che idee.

Si tratta di colpi di fumo per coprire il disa­stro del governo. Dopo la chiac­chiera, ven­gono i fatti a con­fu­tare la favola bella della comu­ni­ca­zione che rac­con­tava di mira­coli a colpi di tweet. Le cifre smon­tano l’effetto nar­co­tiz­zante dei media e par­lano di un sot­to­svi­luppo per­ma­nente per il sud. Di intere gene­ra­zioni per­dute. Di lavoro che non c’è. Di grandi città del silen­zio e di giunte del malaffare.

Il fia­sco colos­sale del governo non può essere occul­tato con il ron­zio della nar­ra­zione che pro­mette nuovi fan­ta­stici tagli di tasse. La corte dei conti ha appena sve­lato che il trucco di Renzi è sem­plice: il governo taglia le impo­ste per farsi bello e poi i comuni sono costretti a spre­mere la capa­cità fiscale dei ter­ri­tori. In tre anni la tas­sa­zione locale è cre­sciuta del 22 per cento.

Stretto nella morsa del disa­stro annun­ciato, Renzi cerca di soprav­vi­vere inven­tando nemici, utili per con­ser­vare il soste­gno dei poteri influenti. A sug­ge­rire al pre­mier cat­tivi pen­sieri non è certo la mino­ranza Pd.

Con i suoi pic­coli graffi, la mino­ranza è molto utile al gioco del par­tito della nazione. Pro­prio i suoi colpi spa­rati a salve, con­fer­mano che nel Pd ci può stare di tutto. Il Pd è governo e oppo­si­zione al tempo stesso.

E pro­prio que­sto bal­letto osta­cola la costru­zione di un’alternativa poli­tica, che è un bene per il sistema.

La tra­spa­renza del con­flitto governo-opposizione viene osta­co­lata dai distin­guo infi­niti della mino­ranza, che con affondi privi di con­se­guenze aggrava il males­sere del qua­dro politico.

Se Renzi è un male asso­luto con le sue poli­ti­che costi­tu­zio­nali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giu­sti­zia, accen­nare ogni volta a un dis­senso rias­sor­bi­bile signi­fica aiu­tarlo a coprire l’intero spa­zio poli­tico. Il par­tito della nazione non è uno spet­tro inde­fi­nito, è quella pra­tica informe che esi­ste già e che vede sotto lo stesso tetto con­vi­vere idee in appa­renza inconciliabili.

Per cogliere il destino di Renzi non è nel con­flitto interno al suo par­tito che occorre guar­dare. Un lea­der che ha con­qui­stato lo scet­tro gra­zie al soc­corso di potenze esterne, può essere disar­cio­nato solo dallo sgre­to­la­mento delle cen­trali economico-mediatiche che l’hanno forag­giato. Per tenere il nulla osta di quel mondo Renzi aggre­di­sce il sin­da­cato. Cosa si muove nei piani alti del potere? Si nota Squinzi che esulta per i tagli alla sanità pub­blica e che quindi brinda per il lucro che si pro­spetta per le imprese pri­vate di assi­cu­ra­zione. E però qual­che timido segnale di insof­fe­renza si coglie.

Sul Cor­riere della Sera il giu­ri­sta Sabino Cas­sese para­gona il gua­scone Renzi a un attore comico fran­cese, Jac­ques Tati. Più che il cinea­sta d’oltralpe, che recu­pe­rava il cinema muto di Kea­ton e non spri­gio­nava un tratto ver­bale osses­sivo, è l’atmosfera di una certa Toscana minore che rie­cheg­gia in Renzi. Il pre­mier è un misto tra la comi­cità pop, senza acuti e nessi crea­tivi pun­genti, di Pana­riello e il gusto infi­nito per il gioco, per il rischio, per l’azzardo di Pupo.

Ma, a parte le rica­dute este­ti­che dell’accostamento del pre­si­dente del con­si­glio a un comico, il pro­blema che Cas­sese segnala potrebbe spin­gere una parte delle élite a ten­tare di sosti­tuire l’esuberanza del comu­ni­ca­tore con la sobrietà di uno sta­ti­sta.

La ripro­po­si­zione di un pen­dolo antico tra il tec­nico e il comico non pare però avere molte chance. E poi Renzi è di sicuro un comico, come indica Cas­sese, ma con un pro­gramma che è simile a quello dei tec­nici. Per que­sto è da esclu­dere una sua rimo­zione ordi­nata dalle can­cel­le­rie euro­pee e rati­fi­cata dai ver­tici delle isti­tu­zioni italiane.

Un capi­ta­li­smo ita­liano ancora più debole, con i suoi beni scarsi messi in ven­dita, accre­sce gli appe­titi di appro­pria­zione col­ti­vati dai mer­cati inter­na­zio­nali. A certe aree spe­cu­la­tive e imprese cor­sare, un sistema eco­no­mico in affanno stuz­zica mire espan­sive, per­ché il declino con­sente di con­trol­lare i resi­dui pezzi pre­giati del made in Italy con un tarif­fa­rio di acqui­si­zione molto a buon mer­cato.

La depo­si­zione di Renzi, in que­sto sce­na­rio, non pare pro­pe­deu­tica al ritorno in cat­te­dra di per­so­na­lità delle aree tec­ni­che, di spez­zoni respon­sa­bili delle isti­tu­zioni. Lo spe­gni­mento del ren­zi­smo può coin­ci­dere solo con l’autodissoluzione di una mag­gio­ranza imbelle dinanzi alla crisi che si appro­fon­di­sce e spa­venta la coa­li­zione sociale di supporto.

Per que­sto Renzi attacca il sin­da­cato che gli ricorda i dati impie­tosi sulla disoc­cu­pa­zione di lungo ter­mine. Costrui­sce un nemico e spera che i signori dei media, del denaro, della finanza sap­piano distin­guere i loro com­plici nelle isti­tu­zioni, ed essere loro grati. All’impresa del resto il governo ha tagliato di ben 10 punti le tasse sui pro­fitti, e inol­tre ha desti­nato ad essa decon­tri­bu­zioni ghiotte in caso di assun­zione a tempo inde­ter­mi­nato (almeno triennale).

E però Renzi non si sente tran­quillo gio­cando a biliar­dino. Avverte che il disa­gio sociale potrebbe costruire dal basso delle alter­na­tive poli­ti­che impre­ve­di­bili, capaci anche di espu­gnare le for­tezze edi­fi­cate per lui da media e capitale.

Alex Zanotelli lancia un allarme e propone un appello a un'iniziativa: «La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo».

Comune.info, 4 agosto 2015

La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo. Così le forze di reazione rapida passano da tredici a quarantamila uomini. Si prepara l'”inevitabile” intervento in Libia e s’intensifica l’utilizzo dei droni con la scusa di combattere i trafficanti di esseri umani. A fine settembre, poi, comincia la più grande esercitazione militare dal tempo della caduta del muro di Berlino. Coinvolgerà 35 mila soldati Nato, 200 aerei e 50 navi da guerra. Sarà pilotata dalla nuova base di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco. Come credente nel Dio della vita, scrive Alex Zanotelli, non posso accettare un sistema di morte pagato da miliardi di persone impoverite. Come seguace di Gesù di Nazareth non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato. A settembre, durante l’esercitazione, dobbiamo farci sentire

Siamo di nuovo sul piede di guerra anche in Europa, sia sul fronte Ucraina come nel Mediterraneo. E questo grazie alla Nato. È stata la Nato a far precipitare lo scontro con la Russia perché vuole che l’Ucraina entri nell’Alleanza al fine di poter sparare i suoi missili direttamente su Mosca. La Russia ha reagito ed ecco la drammatica guerra civile di quel paese che rischia di diventare guerra atomica. “Ho le armi nucleari,” ha detto Putin. E infatti ha piazzato 50 missili con testate nucleari sui confini baltici della Ue, puntandoli verso la Svezia per dissuaderla a entrare nella Nato.

Vista la grave crisi, è stato convocato a Bruxelles il vertice NATO con la presenza del nuovo segretario Usa alla difesa, Ashton Carter. All’ordine del giorno: potenziare la forza di reazione rapida della Nato portandola da tredicimila soldati a quarantamila uomini (il triplo!), piazzare 5 mila soldati (a rotazione) nei Paesi Baltici e in Polonia ed infine spingere tutti i paesi NATO a spendere il 2 per cento del Pil nella Difesa.

Ma ora si apre anche il Fronte Sud: il Mediterraneo. Il 22 giugno la UE ha dato il via libera (senza il benestare dell’Onu!) alla prima fase della missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, due droni e tre elicotteri e un “migliaio” di soldati per tentare di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia. L’uso dei droni militari (a Sigonella operano da anni i droni Global Hawk) si intensificherà con questa missione UE “contro i trafficanti di esseri umani”, grimaldello di un’operazione sotto regia Nato per un intervento militare in Libia. Sia il governo di Tobruk come quello di Tripoli hanno risposto che reagiranno contro questo attacco.

È in questo pesante scenario di guerra che si terrà in Europa, dal 28 settembre al 6 novembre, la più grande esercitazione militare dalla caduta del muro di Berlino che coinvolgerà 35.000 soldati NATO, 200 aerei, 50 navi da guerra.Questa gigantesca esercitazione “Trident Juncture 2015”, sarà pilotata dalla nuova base NATO di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco.

Una domanda sorge spontanea: ma cosa ci stiamo a fare ancora nella Nato? Ma a che serve, se non a portarci in sempre nuove guerre? La Nato è sorta come alleanza difensiva degli Usa e dei paesi europei contro l’Urss e i paesi comunisti del Patto di Varsavia. Il Patto di Varsavia e i paesi comunisti non ci sono più, ma la Nato continua ad esserci.

La Nato infatti avrebbe dovuto cessare con la caduta del muro di Berlino (1989). Non solo c’è, ma da alleanza militare difensiva è diventata offensiva per difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque essi siano minacciati. Questo è avvenuto nel vertice di Washington (1999). Mentre nel vertice di Praga (2009) la Nato ha fatto un altro salto: ha sposato la strategia della ‘guerra preventiva. La Nato è una potenza militare che nessun avversario può eguagliare, basata anche sulle armi nucleari, che la “Nato deve mantenere finchè vi saranno nel mondo tali armi”, ha detto l’ex-segretario generale Nato Anders Rasmussen. E per evitare attacchi terroristici e missilistici, è stato annunziato al Vertice di Lisbona (2009) il progetto di uno Scudo antimissile. “La sola esistenza della Nato come alleanza cui aderiscono i paesi europei – ci rammenta giustamente il fisico Angelo Baracca – implica un’ipoteca pesantissima che vanificherebbe la migliore costituzione europea che si potesse concepire sia per gli aspetti della difesa, ma anche della democrazia effettiva e della libertà”.

Infatti sulla spinta della Nato, l’Italia in questi due decenni, ha partecipato alle guerre del Golfo (1991), Somalia (1994-’95), Bosnia-Herzegovina (1996-99), Congo(1996-99), Jugoslavia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011). Milioni di morti! Solo nella guerra in Congo, quattro milioni di morti. E miliardi di dollari per fare queste guerre. Solo la guerra in Iraq (un milione di morti!) ci è costata almeno tremila miliardi di dollari, secondo le stime di J. Stiglitz (premio Nobel per l’Economia), fornite nel suo volume The Trillion Dollars War.

Guerre di tutti i tipi, da quella ‘umanitaria’ a quella contro il ‘terrorismo’, ma il cui unico scopo è il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, per permettere al 20 per cento del mondo di continuare a vivere da nababbi, consumando il 90 per cento delle risorse del pianeta. “Lo stile di vita del popolo americano – aveva detto Bush senior nel 1991 – non è negoziabile.” E se non è negoziabile, allora non rimane altro che armarsi fino ai denti. Soprattutto con la Bomba Atomica, la Regina che domina questo immenso arsenale di morte che serve a proteggere i privilegi e lo stile di vita di pochi a dispetto dei troppo impoveriti.

Gli Usa/Nato hanno l’arsenale più potente e affidabile al mondo con ottomila testate nucleari, di cui circa duecento dislocate in Europa. Settanta bombe atomiche sono in Italia: una cinquantina a Ghedi (Brescia) e una trentina ad Aviano (Pordenone). E questo in un Paese che ha detto, con un Referendum, no al nucleare civile! La Nato, sempre sotto comando Usa, resterà “un’alleanza nucleare – ha ribadito Obama al vertice di Lisbona – e gli Usa manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa dei loro alleati”.

E tutto questo ci costa caro. “Il bilancio civile della Nato per il mantenimento del quartiere generale di Bruxelles – scrive M. Dinucci – ammonta a circa mezzo miliardo di dollari all’anno, di cui l’80 per cento viene pagato dagli alleati. Il bilancio militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a circa un miliardo di dollari l’anno, di cui circa l’80 per cento è pagato dagli alleati. Il budget militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a quasi due miliardi di dollari l’anno, pagati per il 75 per cento dagli europei.”

Secondo i dati aggiornati al 2011, le “spese per la difesa dei 28 stati membri della Nato ammontano a 1.038 miliardi di dollari l’anno, una cifra equivalente a circa il 60 per cento della spesa mondiale per le armi.”

E l’Italia gioca un ruolo cruciale per la Nato: siamo un paese chiave nello scacchiere militare dell’Alleanza Atlantica. A Napoli è stato da poco inaugurata una sede NATO a Lago Patria con 1.500 militari. A Sigonella (Catania) entrerà in funzione il sistema Ags definito da Manlio Dinucci “il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, non in difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella medio-orientale.” Per di più, nel 2016, Sigonella diventerà la capitale mondiale dei droni. E per pilotare i droni, entrerà in funzione nella vicina Niscemi, il sistema MUOS di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione. Niscemi diventerà così la quarta capitale mondiale delle comunicazioni militari.

Non possiamo accettare una tale militarizzazione del nostro territorio, né tantomeno possiamo tollerare, a livello morale, la guerra con i droni. “Questa guerra con i droni porta gli Usa in una pericolosa china morale”- scrive Jim Rice, direttore della rivista ecumenica Usa Sojourners. C’è solo un nome per tali uccisioni con i droni, sono veri e propri omicidi, non giustificati né moralmente né legalmente.

E sempre in questo contesto, il governo italiano ha “accettato” sul nostro territorio anche Africom, il supremo comando americano per l’Africa con due basi: una a Vicenza per le forze aeree e l’altra a Napoli per le forze navali. Non possiamo accettare che il nostro paese ospiti qu<ello che nessun paese africano ha accettato di ospitare. Non è questa la politica estera che l’Italia deve intrattenere con un continente crocifisso come l’Africa.

Da credente e da seguace di Gesù di Nazareth, non posso accettare un mondo così assurdo: un sistema economico-finanziario che permette a pochi di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame e questo grazie a una NATO che spende oltre mille miliardi di dollari l’anno in armi e soprattutto con arsenali ripieni di spaventose armi atomiche. “La pace e la giustizia procedono insieme – diceva, negli anni della Guerra Fredda, l’arcivescovo di Seattle, R. Hunthausen. – Sulla strada che perseguiamo attualmente la nostra politica economica verso gli altri Paesi, ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe di più di abbandonare i nostri strumenti di terrore globale. Significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo.”

Come credente nel Dio della vita, non posso accettare un Sistema di morte come il nostro pagato da miliardi di impoveriti, milioni di morti di fame oltre che da milioni e milioni di morti per le guerre che facciamo. E come seguace di Gesù di Nazareth, che ci ha insegnato la via della nonviolenza attiva, non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato, una realtà che doveva già essere scomparsa con la caduta del Muro di Berlino e che invece continua a forzarci ad armarci per sempre nuove guerre ‘ovunque i nostri interessi vitali’ siano minacciati.

Lo aveva già capito Giuseppe Dossetti quando, nel 1948, votò in Parlamento contro l’adesione alla NATO, mentre tutta la DC era schierata per il Sì. Lo fece in ossequio alla sua coscienza e al Vangelo. E’ quanto tocca a noi fare oggi, se vogliamo salvarci da questa follia collettiva. “La guerra è una follia – ha gridato papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia – Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta a’pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…..”

E allora mobilitiamoci tutti, credenti e non, uniamoci al di là di ideologie o credi, contro questa gigantesca esercitazione militare Nato “Trident Juncture 2015” che si terrà in autunno.
Lo chiedo da Napoli, il centro comando di questa operazione, insieme al comitato napoletano “Pace e Disarmo”.

Perché non pensare a una manifestazione nazionale a Napoli o altrove, promossa da tutte le realtà del movimento per la pace, dalla Rete della pace come dal Tavolo della Pace, dai No Muos come dai No Nato? Tutti insieme perché vinca la vita!

Cambiare il mondo non è facile. «La sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria”. In breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe».

Prima le persone online, 31 agosto 2015

Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” - un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel.

Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.
La doppia inversione
della crisi greca
La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo - c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani? Stanca dei negoziati senza fine con i dirigenti UE, in cui si susseguiva un’umiliazione dopo l’altra, Syriza ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, chiedendo al popolo greco di sostenere o rifiutare la proposta UE di nuove misure di austerità. Sebbene lo stesso governo avesse affermato chiaramente che sosteneva il No, il risultato è stata una sorpresa: una schiacciante maggioranza di più del 61 % ha votato No al ricatto europeo.
Hanno cominciato a circolare voci secondo cui il risultato - di vittoria per il governo - sarebbe stata una cattiva sorpresa per lo stesso Alexis Tsipras, che segretamente sperava che il governo perdesse, così che una sconfitta gli avrebbe permesso di salvare la faccia nell’arrendersi alle richieste UE (“rispettiamo la voce degli elettori”). Comunque sia, letteralmente il mattino dopo, Tsipras ha annunciato che la Grecia era pronta a riprendere i negoziati, e, giorni dopo, la Grecia ha accettato una proposta UE che era sostanzialmente la stessa che gli elettori avevano respinto (anche più dura in alcuni dettagli) - in breve, ha agito come se il governo avesse perso, e non vinto, al referendum.
Come ha scritto Kouvelakis:
«Com’è possibile che un devastante No alle politiche di austerità del memorandum sia interpretato come un semaforo verde per un nuovo memorandum? […] il senso dell’assurdo non deriva solo da questo inaspettato ribaltamento. Risalta soprattutto il fatto che tutto ciò si svolge davanti ai nostri occhi come niente fosse accaduto, come se il referendum fosse stato qualcosa come un’allucinazione collettiva che si interrompe improvvisamente, lasciandoci liberi di continuare quello che stavamo facendo prima. Ma dato che non siamo diventati tutti dei mangiatori di loto, facciamo almeno un breve riassunto di quel che è accaduto in questi ultimi giorni. […] Fin da lunedì mattina, prima ancora che i festeggiamenti per la vittoria terminassero di spegnersi nelle piazze del paese, è cominciato il teatro dell’assurdo. […]
«Il pubblico, ancora annebbiato dalla gioia di domenica, assisteva mentre i rappresentanti del 62 % di sottomettevano al 38 % all’indomani di una sonante vittoria per la democrazia e la sovranità popolare. […] Ma il referendum si è tenuto. Non è stata un’allucinazione da cui ora ciascuno è riemerso. Al contrario, l’allucinazione è il tentativo di degradarlo a un temporaneo ‘sfiatare il vapore per abbassare la tensione’, prima di riprendere la discesa verso un terzo memorandum».
E le cose hanno continuato a procedere in questa direzione. La sera del 10 luglio il parlamento greco ha conferito ad Alexis Tsipras l’autorità di negoziare un nuovo salvataggio per 250 voti contro 32, ma 15 parlamentari della maggioranza non hanno sostenuto il piano, il che significa che ha ottenuto più sostegno dai partiti dell’opposizione che dal proprio. Giorni dopo, la segreteria politica di Syriza, dominata dalla sinistra del partito, ha stabilito che le ultime proposte UE sono “assurde” ed “eccedono i limiti di sopportazione della società greca” - estremismo di sinistra?
Ma lo stesso FMI (in questo caso una voce di capitalismo minimamente razionale) ha detto esattamente la stessa cosa: uno studio del FMI, pubblicato il giorno prima, mostra che la Grecia ha bisogno di un alleggerimento del debito molto maggiore di quanto i governi europei abbiano voluto prendere in considerazione finora - i paesi europei dovrebbero concedere alla Grecia una moratoria di 30 anni prima di cominciare a pagare tutti i suoi debiti europei, inclusi nuovi prestiti, e di una sostanziale estensione temporale del periodo di pagamento…
Non meraviglia che lo stesso Tsipras abbia espresso pubblicamente i suoi dubbi riguardo al piano di salvataggio: «Non crediamo nelle misure che ci sono state imposte», ha detto in un’intervista alla TV, mettendo in chiaro che le sostiene per pura disperazione, per evitare un collasso totale economico e finanziario. Gli eurocrati usano queste confessioni con una perfidia da togliere il fiato: ora che il governo greco ha accettato le loro dure condizioni, mettono in dubbio la sincerità e la serietà del suo impegno. Come può Tsipras lottare davvero per attuare un programma in cui non crede?
Come può il governo greco essere realmente impegnato in un accordo che si oppone all’esito del referendum?
Comunque, prese di posizione come quella del FMI mostrano che il vero problema risiede altrove: crede davvero l’UE nel proprio piano di salvataggio? Crede davvero che le misure brutalmente imposte metteranno in moto la crescita economica e quindi permetteranno il pagamento dei debiti? O, invece, la motivazione ultima della brutale pressione estorsiva sulla Grecia non è puramente economica (dato che, in termini economici, è palesemente irrazionale), ma politico-ideologica — ovvero, come ha detto Paul Krugman sul New York Times, «la sostanziale resa non è sufficiente per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e l’umiliazione totale — c’è una fazione importante che vuole solo buttar fuori la Grecia, e per la quale sarebbe più o meno benvenuto uno stato fallito, a far da monito per gli altri».
Si deve sempre tener presente quale tipo di orrore Syriza rappresenti per l’establishment europeo - un conservatore polacco, membro del parlamento europeo, si è perfino appellato direttamente all’esercito greco, invocando un colpo di stato per salvare il paese.
Perché questo orrore? Ai greci viene ora chiesto di pagare un alto prezzo, ma non per una realistica prospettiva di crescita. Il prezzo che viene chiesto loro di pagare è finalizzato a continuare la fantasticheria “estendi e fingi” [extend and pretend]. Viene chiesto loro di incrementare ulteriormente la loro attuale sofferenza al fine di sostenere il sogno di qualcun altro - degli eurocrati. Gilles Deleuze disse, decadi fa: «si vous etez pris dans le reve de l’autre, vous etez foutus» (“Se siete catturati nel sogno di un altro, siete fottuti”), e questa è la situazione in cui si trova ora la Grecia. Ai greci non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare per un piano realistico di ripresa economica, viene chiesto loro di soffrire affinché altri possano continuare indisturbati a sognare il proprio sogno.
Chi ha bisogno ora di risvegliarsi non è la Grecia, ma l’Europa. Chiunque non sia perso in questo sogno sa cosa ci attende se il piano di salvataggio verrà messo in atto: altri 90 miliardi circa saranno gettati nel cestino greco, incrementando il debito greco a circa 400 miliardi di euro (e la maggior parte di quei miliardi tornerà velocemente in Europa Occidentale - il vero salvataggio è il salvataggio delle banche tedesche e francesi, non della Grecia), e ci possiamo aspettare che la stessa crisi esploda di nuovo tra un paio d’anni.
Ma è davvero fallimentare il risultato?
Ma è davvero fallimentare un tale risultato? A un livello immediato, se si confronta il piano con le sue conseguenze effettive, evidentemente sì. A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento - non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea.
Il No al referendum è stato indubbiamente un grande atto etico-politico: contro una ben coordinata propaganda nemica che ha diffuso paure e bugie, senza una chiara prospettiva di quello che sarebbe accaduto dopo, contro tutte le probabilità “realistiche”, il popolo greco ha eroicamente rifiutato la pressione brutale dell’UE. Il No greco è stato un autentico gesto di libertà e di autonomia, ma certo la grande questione è cosa accade il giorno dopo, quando dobbiamo ritornare dalla negazione estatica agli sporchi affari quotidiani — e qui un’altra unità è emersa, l’unità delle forze “pragmatiche” (Syriza e i grandi partiti di opposizione) contro la sinistra di Syriza e Alba Dorata. Ma questo implica che la lunga lotta di Syriza è stata vana e che il No al referendum è stato solo un gesto sentimentale vuoto, destinato a rendere più dura la capitolazione?
Ciò che è realmente catastrofico, della crisi greca, è che nel momento in cui la scelta si è presentata come la scelta tra la “Grexit” e la capitolazione nei confronti di Bruxelles, la battaglia era ormai persa. Entrambi i termini di questa scelta si collocano all’interno della visione eurocratica predominante (ricordiamoci che anche i più duri sostenitori tedeschi della linea anti-greca, come Wolfgang Schäuble, preferiscono la Grexit!).
Il governo di Syriza non stava lottando solo per ottenere un maggiore alleggerimento del debito e una maggiore quantità di denaro fresco all’interno delle stesse sostanziali coordinate, ma per il risveglio dell’Europa dal suo sonno dogmatico. In questo consiste l’autentica grandezza di Syriza: finché l’icona dell’agitazione popolare erano le proteste di piazza Syntagma (“Costituzione”), Syriza si è impegnata nello sforzo erculeo di attuare lo spostamento da sintagma a paradigma: nel lungo e paziente lavoro di tradurre l’energia della ribellione in misure concrete che avrebbero cambiato la vita quotidiana delle persone. Dobbiamo essere molto precisi su questo: il No del referendum greco non era un No alla “austerità” nel senso di sacrifici necessari e duro lavoro, ma un No al sogno UE di continuare semplicemente con il business as usual.
L’ex-ministro delle finanze del paese, Yanis Varoufakis, ha messo ripetutamente in chiaro questo punto: non un altro prestito, ma un traino sostanziale, necessario per dare all’economia greca una possibilità di riprendersi. Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere. I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati [di fatto sostituiti] da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico (e militare). Ecco il racconto da parte di Varoufakis di un momento straordinario nelle sue trattative con il negoziatore UE Jeroen Dijsselbloem:
«C’è stato un momento in cui il Presidente dell’Eurogruppo ha deciso di agire contro di noi e di fatto chiuderci fuori, e ha fatto sapere che la Grecia era essenzialmente sul punto di uscire dall’Eurozona. […] Esiste una prassi per cui i comunicati devono essere unanimi, e il Presidente non può semplicemente indire una riunione dell’Eurozona escludendo uno stato membro. E lui ha detto: ‘Oh, sono certo che posso farlo’. Quindi io ho richiesto un parere legale. Questo ha creato una certa agitazione.
«Per circa 5-10 minuti la riunione si è interrotta, impiegati e funzionari parlavano l’uno con l’altro e ai loro telefoni; infine un funzionario, un esperto legale, si è rivolto a me è mi ha detto le seguenti parole: "Beh, l’Eurogruppo non esiste per legge, non c’è un trattato che ha istituito questo gruppo". Quindi la situazione è quella di un gruppo inesistente che ha il più grande potere nel determinare le vite degli europei. Non deve render conto a nessuno, dato che non esiste per legge; non si tengono verbali; e [quel che viene detto] è confidenziale. Quindi mai nessun cittadino può arrivare a sapere quel che viene detto all’interno… Ci sono decisioni quasi di vita e di morte, e nessun membro deve render conto a nessuno».
L'Unione europea:
Una tirannide come quella della Cina
Suona familiare? Sì, a chiunque conosca come funziona oggi il potere cinese, da quando Deng Xiaoping ha messo in atto un sistema duale unico: l’apparato dello Stato e il sistema legale sono duplicati [di fatto sostituiti] da istituzioni del Partito che sono letteralmente illegali - ovvero, come ha detto sinteticamente He Weifang, un professore di legge di Pechino: «Come organizzazione, il Partito si trova all’esterno e sopra la legge. Dovrebbe avere un’identità legale, in altre parole: una personalità giuridica che sia possibile citare in giudizio, ma non è nemmeno registrato come organizzazione. Il Partito esiste completamente al di fuori del sistema legale»(Richard McGregor, The Party, London: Allen Lane 2010, p. 22). È come se, nelle parole di McGregor, la violenza fondatrice dello Stato rimanga presente, incarnata in un’organizzazione che ha uno status legale non definito:

«Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni».

Non ci si meraviglia che a Varoufakis sia capitata la stessa cosa che a quel dissidente cinese, il quale, qualche anno fa, portò in tribunale il Partito Comunista Cinese, accusandolo di essere colpevole del massacro di Tienanmen. Dopo qualche mese, egli ottenne una risposta dal ministero della giustizia: non potevano dar corso al procedimento della sua accusa dato che non esiste alcuna organizzazione denominata “Partito Comunista Cinese” ufficialmente registrata in Cina.
Ed è cruciale notare come come la facciata di questa non-trasparenza del potere sia quella di un falso umanitarismo: dopo la sconfitta greca arriva, evidentemente, il tempo delle preoccupazioni umanitarie. Jean-Claude Juncker ha immediatamente affermato in un’intervista che era molto felice dell’accordo di salvataggio perché avrebbe immediatamente alleviato la sofferenza del popolo greco, che gli stava molto a cuore. Scenario classico: dopo il giro di vite, la preoccupazione umanitaria e l’aiuto…fino a posporre i pagamenti del debito.
Cosa si dovrebbe fare in una situazione così disperata? Si deve in particolare resistere alla tentazione di una Grexit come grande gesto eroico, di rifiuto di ulteriori umiliazioni e di uscita — verso dove? Verso quale nuovo ordine positivo staremmo entrando? L’opzione Grexit appare come il “reale-impossibile”, ovvero come qualcosa che porterebbe a un’immediata disintegrazione sociale. Krugman scrive: «Tsipras evidentemente si è fatto convincere, tempo fa, che un’uscita dall’euro fosse completamente impossibile. Sembra che Syriza non avesse nemmeno fatto una pianificazione di contingenza per una valuta parallela (spero di scoprire che non è vero). Questo l’ha messa in una posizione negoziale senza speranza».
Il punto sollevato da Krugman è che la Grexit è anche un “impossibile-reale”, che può avvenire con conseguenze impredicibili e che, proprio per questo, può essere rischiata. “Tutte queste ‘teste sagge’ che dicono che la Grexit è impossibile, che porterebbe a un’implosione completa, non sanno di che parlano. Quando dico questo, non intendo dire che abbiano necessariamente torto — io credo che ce l’abbiano, ma chiunque abbia delle certezze su questo inganna se stesso. Quello che invece voglio dire è che nessuno ha alcuna esperienza di ciò che stiamo considerando”.
Mentre in linea di principio questo è vero, ci sono tuttavia troppe indicazioni che un’uscita improvvisa della Grecia oggi porterebbe a una totale catastrofe economica e sociale. Gli strateghi economici di Syriza sono consapevoli che un tale gesto provocherebbe un’immediata ulteriore caduta dello standard di vita di un ulteriore 30 % (almeno), portando la miseria a un nuovo insopportabile livello, con il rischio di rivolta popolare e perfino di dittatura militare.
La prospettiva di tali atti eroici è quindi una tentazione a cui resistere.
Lo sgretolamento dell'Europa
Ci sono poi dei richiami affinché Syriza ritorni alle sue proprie radici: Syriza non dovrebbe diventare solo un altro partito parlamentare al governo, il vero cambiamento può solo venire dalla base, dal popolo stesso, dalla sua auto-organizzazione, non dagli apparati dello Stato…un altro caso di atteggiamento vuoto, dato che elude il problema cruciale di come gestire la pressione internazionale a proposito del debito, ovvero, più in generale, di come esercitare il potere e guidare uno Stato. L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente.
Ciononostante, non basta dire che Syriza ha lottato eroicamente, mettendo alla prova il possibile — la lotta continua, è appena cominciata. Invece di indugiare sulle “contraddizioni” della politica di Syriza (dopo il trionfante No, si accetta proprio il programma respinto dal popolo), e di restare intrappolati nelle mutue recriminazioni su chi è il colpevole (è stata la maggioranza di Syriza a commettere un opportunistico “tradimento”, o è stata la sinistra irresponsabile nel preferire la Grexit), ci si dovrebbe invece concentrare su ciò che il nemico sta facendo: le “contraddizioni” di Syriza sono un’immagine speculare delle “contraddizioni” dell’establishment UE, che stanno gradualmente sgretolando le fondamenta stesse dell’Europa unita.
Con l’aspetto delle “contraddizioni” di Syriza, l’establishment UE si sta meramente vedendo restituire il proprio stesso messaggio nella sua vera forma. E questo è ciò che Syriza dovrebbe fare ora. Con spietato pragmatismo e freddo calcolo, dovrebbe sfruttare ogni minima crepa nell’armatura dell’avversario. Dovrebbe usare tutti coloro che resistono alla politica UE predominante, dai conservatori britannici all’Ukip nel Regno Unito. Dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza [scare the shit out] degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa.
Quando sentiamo i lamenti a proposito del fatto che l’amministrazione UE ignora brutalmente la grave condizione del popolo greco nella sua ossessione di umiliare e soggiogare i greci, che nemmeno i paesi sud-europei come l’Italia e la Spagna hanno mostrato alcuna solidarietà con la Grecia, la nostra reazione dovrebbe essere la seguente: qual è la sorpresa in tutto ciò? Cosa si aspettavano, i critici? L’amministrazione UE sta semplicemente facendo ciò che ha sempre fatto. E c’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina — come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante.
C’è poi chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali. È perciò del tutto logico che nella stessa Grecia, Syriza si trovi un coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 — la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale — non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo. Nel momento in cui prendiamo in considerazione l’argomento dei lavoratori migranti, questo parallelo va completamente in frantumi.
La contraddizione di fondo
di chi vuole rovesciare
un regime autoritario
Il problema vero è molto più fondamentale. La storia ricorrente della sinistra contemporanea è quella di un leader di partito eletto con entusiasmo universale e con la promessa di un “mondo nuovo” (Mandela, Lula) - poi, però, presto o tardi, di solito dopo un paio d’anni, tutti inciampano sul dilemma cruciale: osar interferire con il meccanismo capitalista, oppure “giocarsela” secondo le regole [play the game]? Se si va a disturbare il meccanismo, si ottiene una pronta “punizione” sotto forma di perturbazioni del mercato, caos economico, eccetera.
L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale. La lezione della crisi greca è che il Capitale, sebbene si tratti in ultima analisi di una finzione simbolica, è il nostro Reale. Ciò vale a dire che le proteste e le rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione e sovrapposizione di diversi livelli, e questa combinazione rende conto della loro forza: lottano per la (“normale”, parlamentare) democrazia contro regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, specialmente l’odio diretto contro migranti e rifugiati; per il welfare state contro il neoliberismo; contro la corruzione in politica e nell’economia (aziende che inquinano l’ambiente, eccetera); per le nuove forme di democrazia che oltrepassano i rituali multipartitici (partecipazione, eccetera); e, infine, mettono in questione il sistema capitalista globale in quanto tale, e provano a mantenere viva l’idea di una società non-capitalista. Due trappole devono qui essere evitate: sia il falso radicalismo (“quel che realmente conta è l’abolizione del capitalismo liberal-parlamentare, tutte le altre lotte sono secondarie”), sia il falso gradualismo (“ora lottiamo contro la dittatura militare e per la semplice democrazia, mettete da parte i vostri ideali socialisti, quelli verranno dopo - forse….”).
Quando ci dobbiamo occupare di una lotta specifica, la questione chiave è: il nostro impegno o disimpegno in essa come andrà a influenzare le altre lotte? La regola generale è che, quando una rivolta inizia contro un regime semi-democratico oppressivo, come è stato per il Medio Oriente nel 2011, è facile mobilitare grandi folle con slogan generici che non si possono caratterizzare altrimenti che come accattivanti per la folla [crowd pleasers] - per la democrazia, contro la corruzione, eccetera. Ma poi gradualmente ci si avvicina a scelte difficili: quando la nostra rivolta ha successo nel suo obiettivo diretto, arriviamo a realizzare che ciò che realmente ci opprimeva (la mancanza di libertà, le umiliazioni, la corruzione sociale, la mancanza di una prospettiva di vita decente) prende un nuovo aspetto. In Egitto, i protagonisti delle proteste sono riusciti a liberarsi dall’oppressivo regime di Mubarak, ma la corruzione è rimasta, e la prospettiva di una vita decente si è allontanata anche di più.
Dopo il rovesciamento di un regime autoritario, possono svanire le ultime vestigia della protezione patriarcale per i poveri, e la nuova libertà ottenuta viene de facto ridotta alla libertà di scegliersi ciascuno la propria forma di miseria: la maggioranza non solo rimane in povertà, ma — oltre il danno la beffa - si sente rispondere che, dato che ora sono liberi, sono responsabili della propria povertà. In tale situazione, dobbiamo ammettere che c’era fin dall’inizio un problema nell’obiettivo della lotta, che questo obiettivo non era abbastanza specifico - vale a dire che la democrazia politica standard può anche servire proprio come forma di non-libertà: la libertà politica può facilmente fornire la struttura legale per la schiavitù economica, con i non-privilegiati che “liberamente” vendono se stessi come schiavi. In breve, dobbiamo ammettere che ciò che inizialmente abbiamo considerato come un fallimento nella completa realizzazione di un nobile principio è in realtà un fallimento intrinseco al principio stesso - imparare questo passaggio dalla distorsione di una nozione, la sua realizzazione incompleta, alla distorsione immanente a detta nozione è il grandepasso della pedagogia politica.
L’ideologia dominante mobilita il suo intero arsenale per impedirci di arrivare a questa radicale conclusione.
Cominciano col dirci che la libertà democratica porta con sé la propria responsabilità, che si ottiene a un prezzo, che non siamo ancora maturi se ci aspettiamo troppo dalla democrazia. In questo modo, scaricano su di noi la colpa del nostro fallimento: in una società libera, così ci viene detto, tutti siamo capitalisti che investono sulle proprie vite, che decidono di metter più risorse nell’istruzione piuttosto che nel divertimento se vogliamo aver successo, eccetera.
A un livello politico più diretto, la politica estera USA ha elaborato una strategia dettagliata su come esercitare il controllo dei danni nel re-incanalare una sollevazione popolare all’interno di accettabili vincoli parlamentari-capitalisti - come fu fatto con successo in Sud Africa dopo la caduta del regime dell’apartheid, nelle Filippine dopo la caduta di Marcos, in Indonesia dopo la caduta di Suharto, eccetera.
Nella precisa congiuntura attuale, una politica radicale di emancipazione si trova di fronte alla sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria” - in breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe.
Il coraggio della disperazione è a questo punto cruciale.
Pubblicato su Prima le persone da Ugo Sturlese. I sottotitoli sono di eddyburg.

«La Repubblica, 3 agosto 2015
IL PREMIER Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle “mediazioni”. Diffdente verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l’economia italiana.

Il sindacato. Con le iniziative che hanno reso difficile l’ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state condotte da sigle autonome e singoli comitati. D’altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato, esplicitamente, contro il sindacato. Senza specificazioni.
D’altronde, Renzi, da tempo, conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e di “Coesione Sociale”, che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi. Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su , ha replicato che la «la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal premier per recuperare il voto moderato».

Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”. Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente.

Come ha rammentato, di nuovo, il premier, in visita a Tokio. Da dove ha auspicato che «nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di più». Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d’altra parte, è stato sindaco. Di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto. Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd. Una consultazione di partito — per quanto aperta. E ciò ribadisce la singolare fase che attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media — vecchi e nuovi.

D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto” in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post ).

Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. «Entro giovedì». E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.

Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.

«

Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi».

La Repubblica, 2 agosto 2015.

Sulla pagina Facebook della Lega Nord si legge questo post: «La Lega sta preparando una proposta di legge per reintrodurre il servizio civile e militare obbligatorio per i maggiorenni. Rispetto per il prossimo, spirito di sacrificio, generosità. Voi sareste d’accordo?». Sembra un anacronismo: sia la proposta di legge che l’appello ai sentimenti repubblicani. L’annuncio ha ricevuto una valanga di critiche, soprattutto dai giovani deputati del Pd. Nella sua Amaca, Michele Serra ha commentato così queste due notizie: mentre «sbertucciano » Salvini, forse i giovani deputati del Pd non sanno che la leva obbligatoria è stata «per molti decenni, uno dei punti fermi della cultura socialista e comunista». E prima ancora, vi è da aggiungere, di quella democratica.

L’obbligo del servizio militare non era campato per aria, visto che dall’Ottocento una delle più importanti giustificazioni dell’estensione del suffragio elettorale fu il servizio alla nazione, con il lavoro e con l’arruolamento. Certo, questa visione della libertà politica da “meritarsi” è stata, per nostra fortuna, superata dalla concezione del diritto politico come un diritto umano fondamentale, attaccato, se così si può dire, alla persona del cittadino; un diritto che non deve essere meritato.

E però, la leva obbligatoria in democrazia ha un fondamento molto diverso e anche più realistico: quello della sicurezza delle istituzioni. L’esercito di una democrazia non è di offesa (la nostra Costituzione chiarisce molto bene che la Repubblica aborre la guerra) bensì solo ed esclusivamente di difesa. Ma la ragione per la quale “un esercito di popolo” è preferito dalle democrazie non sta tanto o soltanto nella sicurezza rispetto al nemico esterno ma anche e prima di tutto rispetto ai nemici interni. Come ricorda opportunamente Serra, «un esercito di popolo» è stato tradizionalmente giudicato molto più sicuro di «un esercito di professionisti » ai fini della difesa dell’ordine politico democratico.

Questa ragione realistica è stata superata dall’appartenenza dei nostri Paesi all’Europa, che ci ha abituati a pensare non più in termini di eserciti e di difesa da nemici (e quindi di una pace armata), ma in termini di cooperazione fra diversi e quindi di una pace vera, non armata (lasciando però alla Nato e agli Stati Uniti l’onere della nostra difesa). Ma in aggiunta a questa ragione realistica ve n’è un’altra, etica, che Serra coglie molto bene: «Per una società narcisista e liquida come la nostra ripensare a un periodo (obbligatorio e uguale per tutti) nel quale si mettono da parte le proprie esigenze e ci si dedica agli altri sarebbe rivoluzionario. Le istanze pacifiste e militariste, non solo rispettabili ma anche decisive nella cultura della sinistra libertaria, sarebbero ampiamente garantite dalla scelta tra leva civile e leva militare». È così scandaloso avanzare questa proposta?

In questi giorni si è fatto largo uso dell’argomento “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Molto più pertinente sarebbe applicare lo stesso schema argomentativo alla cultura del servizio civile e della solidarietà di cittadinanza. Il fatto è che queste due prerogative stanno su opposte sponde poiché una propone che sia etico ritirarsi dall’impegno verso la società e concentrarsi sui propri interessi, mentre l’altra suggerisce che sia etico dare più impegno.

Dietro la proposta di Salvini vi è, certamente, una nemmeno troppo velata propaganda nazionalista, una lettura del patriottismo come sentimento di sacrificio verso una patria identitaria che esclude e discrimina chi non vi è parte, una visione ben poco attraente. Tuttavia, deve fare riflettere il fatto che la proposta di ripensare a una riforma del modo di concepire il servizio dei cittadini verso se stessi — ovvero degli uni agli altri — venga da destra e sia castigata dalla sinistra. La quale ha abbracciato una cultura dei diritti invididuali, attenta alla libertà della scelta individuale, e tuttavia non è sensibile a questa cruciale implicazione: una cultura dei diritti dell’individuo non esclude un’etica della cittadinanza che sappia parlare la lingua del servizio.

Non c’è alcun bisogno di rispolverare la dottrina dello stato etico per dare sostegno a questa idea come fa la destra. È cruciale invece rifarsi alla più convincente idea democratica di reciprocità tra liberi e uguali, poiché dare servizio alla nostra comunità di cittadini è una scuola di sentimenti pubblici che ci abitua a pensare in termini di autonomia vissuta, non solo proclamata dai diritti e scritta nei codici. Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi.

« manifesto, 2 agosto 2015

Cen­ti­naia di com­bat­tenti del Par­tito dei lavo­ra­tori del Kur­di­stan (Pkk) sono rima­sti uccisi e cen­ti­naia feriti in una set­ti­mana di raid dell’aviazione turca con­tro le basi dei ribelli. Col­piti anche vil­laggi e la popo­la­zione kurda. Tra i feriti ci sarebbe anche Nuret­tin Demir­tas, fra­tello del lea­der della for­ma­zione curda Par­tito demo­cra­tico del popolo (Hdp) Sela­hat­tin Demir­tas — che ha avuto una straor­di­na­ria affer­ma­zione alle ultime ele­zioni tur­che con il suo 13%, impe­dendo così di fatto la mag­gio­ranza par­la­men­tare all’Akp di Erdo­gan e per que­sto messo in que­sti giorni sotto accusa, lui e il suo partito.

Sta avve­nendo, sotto i nostri occhi, una car­ne­fi­cina. Che ci riguarda diret­ta­mente. Infatti l’offensiva mili­tare — iro­nia della sorte l’agenzia parla di una ine­si­stente offen­siva con­tro l’Isis — è scat­tata dopo il ver­tice della Nato di Bru­xel­les di nem­meno una set­ti­mana fa, di fatto con­vo­cato da Ankara per avere par­te­ci­pa­zione e avallo alla sua nuova guerra con­tro i kurdi, fatta con la scusa di attac­care anche, per la prima volta le posta­zioni siriane dello Stato isla­mico. La par­te­ci­pa­zione atlan­tica piena non c’è, ma l’avvallo sì e, soprat­tuto, c’è quello degli Stati uniti.

Ora dun­que con l’applauso dell’Alleanza atlan­tica i cac­cia­bom­bar­dieri tur­chi fanno a pezzi i com­bat­tenti della sini­stra turca, vale a dire i mili­tanti che quasi da soli finora com­bat­tono con le armi in pugno in Siria e in Tur­chia con­tro le mili­zie jiha­di­ste dell’Isis. Mili­zie invece soste­nute e finan­ziate negli ultimi tre anni pro­prio da Ankara che ha adde­strato tutte le for­ma­zioni ribelli siriane — com­presa Al Nusra, vale a dire Al Qarda, nelle sue basi a par­tire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occi­den­tali e come ha denun­ciato pro­prio la sini­stra turca.

È stato scritto che la svolta «ambi­gua» di Erdo­gan sarebbe deri­vata dall’impossibilità per Washing­ton di sop­por­tare ancora per troppo tempo che un pro­prio alleato potesse mostrare sim­pa­tie per un gruppo ter­ro­ri­sta come l’Isis che gli ame­ri­cani ora sono impe­gnati a distrug­gere. Quando mai? Il fatto è che la Tur­chia, alla fron­tiera tur­bo­lenta della Siria in guerra, ha adde­strato, finan­ziato e soste­nuto i jiha­di­sti pro­prio su man­dato della coa­li­zione degli Amici della Siria, gui­data pro­prio dagli Stati uniti e dall’Arabia sau­dita insieme alle petro­mo­nar­chie mediorientali.

Così adesso anche la Casa bianca (dopo l’esperienza san­gui­nosa di Ben­gasi dell’11 set­tem­bre 2012) corre ai ripari e bom­barda da mesi gli stessi jiha­di­sti che, come in Libia, ha usato per desta­bi­liz­zare l’area. E que­sto gra­zie ad Ankara che mette a dispo­si­zione la sua base di Incir­lik, men­tre gli ame­ri­cani chiu­dono tutti e due gli occhi sul mas­sa­cro della sini­stra kurda.

Ecco dun­que il nuovo ruolo dell’islamista mode­rato Erdo­gan, il sul­tano atlan­tico. Altro che «distratto» mem­bro della Nato.

Cin­que anni fa, scon­fitto nel ten­ta­tivo di entrare in Europa, ha ripie­gato nell’area per costruire una nuova «pax otto­mana», dalla Bosnia a Gaza„ dall’Azerbaijan alla nuova Libia in fun­zione anti-Iran. Ora invece, per accr­di­tarsi con l’Occidente, gioca la carta della «guerra ottomana». Con una spina nel fianco però, che deve pro­prio levarsi: il popolo kurdo. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale — nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria — hanno atti­vato sia il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, prima alleato dell’Occidente con­tro i regimi in carica, e ora diven­tato nemico; ma hanno anche chia­mato in causa il popolo kurdo, che resta diviso pro­prio tra Siria, Tur­chia e Iraq (pieno di petro­lio e nemico giu­rato del Pkk).

Fer­mare con le armi il con­ta­gio indi­pen­den­ti­sta e laico della sini­stra kurda (il Pkk ma anche la coa­li­zione politico-sociale del Rojava in Siria) è l’obiettivo di Erdo­gan. Ma anche della «nostra» Alleanza atlan­tica che applaude ogni volta che un F16 decolla per bom­bar­dare. L’Italia atlan­tica, che si pre­para ad una nuova avven­tura mili­tare in Libia, di Pkk del resto se ne intende: ha con­se­gnato alle «alleate» galere tur­che il lea­der Oca­lan venuto da noi per trat­tare la pace.

Sotto l'accusa della magistratura contabile «le gravi defor­ma­zioni pro­vo­cate da una visione mer­can­ti­li­sta dell’economia ispi­rata dal man­tra della com­pe­ti­ti­vità, della ridu­zione dei costi e della com­pres­sione salariale».

Il manifesto, 2 agosto 2015

CORTE DEI CONTI: PIÙ TAGLI, PIÙTASSE.
ECCO COSA CI STA PREPARANDO RENZI

di Roberto Ciccarelli

Austerità. La relazione sulla finanza locale della magistratura contabile: «Gli 80 euro peggiorano il fabbisogno pubblico». L’abolizione dell’Imu? «Danneggia il federalismo fiscale». Le tasse comunali cresciute di otto miliardi di euro dal 2010 a causa di 40 miliardi di tagli agli enti locali, 113 euro a testa in più all’anno. Promemoria in attesa del pacchetto "taglia-tasse" annunciato dal governo

L’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Un pastic­cio gigan­te­sco che ha distrutto uno dei prin­cipi car­dine del fede­ra­li­smo fiscale: la cor­ri­spon­denza tra con­tri­buenti e sog­getti bene­fi­ciari dei ser­vizi resi. Vogliamo par­lare del taglio dell’Irap? L’imposta sulle imprese su base regio­nale tagliata di 1,9 miliardi da Renzi per ridurre il «cuneo fiscale» ha avuto «riflessi nega­tivi» sulle fun­zioni degli enti locali. Quanto al «bonus Irpef» degli 80 euro per i lavo­ra­tori dipen­denti con red­diti tra 8 e 26 mila euro è costato 4,5 miliardi di euro e ha «peg­gio­rato il fab­bi­so­gno del set­tore pubblico».

La rela­zione sugli anda­menti della finanza ter­ri­to­riale, resa nota il 27 luglio dalla Corte dei Conti, non è pro­pria­mente una let­tura estiva, ma per­mette di com­pren­dere i danni pro­vo­cati dall’uso popu­li­sta dei conti pub­blici del governo Renzi. Senza con­tare che quella della magi­stra­tura con­ta­bile è la più seria requi­si­to­ria con­tro i tagli voluti dai governi dell’austerità dal Ber­lu­sconi del 2008 al Renzi della legge di sta­bi­lità del 2015.

Alla base non c’è solo la richie­sta del rispetto delle fun­zione costi­tu­zio­nale nella gestione della spesa pub­blica, rego­lar­mente infranta da tutti i governi per rispet­tare i dik­tat della Troika, ma le gravi defor­ma­zioni pro­vo­cate da una visione mer­can­ti­li­sta dell’economia ispi­rata dal man­tra della com­pe­ti­ti­vità, della ridu­zione dei costi e della com­pres­sione salariale.

Tutti ele­menti che hanno pro­vo­cato un boom inau­dito della tas­sa­zione, l’aumento del debito pub­blico e il blocco della tanto ago­gnata «com­pe­ti­ti­vità». L’austerità è un cir­colo vizioso, soprat­tutto senza una cre­scita capace di aumen­tare l’occupazione e inve­sti­menti mancanti.

I tagli agli enti locali dal 2008 a oggi ammon­tano a quasi 40 miliardi, risul­tato della ridu­zione dei tra­sfe­ri­menti sta­tali di 22 miliardi e di un calo dei finan­zia­menti per la sanità di 17,5 miliardi. «Per con­ser­vare l’equilibrio in rispo­sta alle severe misure cor­ret­tive del governo» i Comuni — col­piti da tagli per quasi 8 miliardi tra il 2010 e il 2014 — hanno rispo­sto con «aumenti molto accen­tuati» delle tasse locali.

Oggi il peso del fisco è «ai limiti della com­pa­ti­bi­lità con le capa­cità fiscali locali» denun­cia la magi­stra­tura con­ta­bile. La tas­sa­zione comu­nale è infatti bal­zata dai 505,5 euro a testa del 2011 ai 618,4 euro dello scorso anno. Una pres­sione che tocca i livelli più alti nei Comuni con più di 250mila abi­tanti, arri­vando a 881,94 euro pro capite.

Se i Comuni hanno rispo­sto ai tagli con una revi­sione al rialzo delle ali­quote Ici-Imu — gli «aumenti gene­ra­liz­zati hanno visto gli incassi pas­sare dai 9,6 miliardi di euro del Ici 2011 ai 15,3 miliardi del 2014 — le Regioni hanno pun­tato sul taglio degli inve­sti­menti e dei ser­vizi con «una com­pres­sione delle fun­zioni extra-sanitarie». Tra il 2009 e il 2015 il taglio al finan­zia­mento del fab­bi­so­gno della sanità è stato del 17,5 miliardi.

La Corte dei conti descrive le poli­ti­che del rigore fiscale nei ter­mini di un «mec­ca­ni­smo distor­sivo» che impone agli enti locali di sca­ri­care i tagli impo­sti dal l’Europa agli enti locali sul con­tri­buente. L’equivalenza è net­tis­sima: l’aumento delle tasse è dovuto ai tagli alle risorse sta­tali dal 2011. A que­sto si aggiunge il ritardo nella «ricom­po­si­zione delle fonti di finan­zia­mento della spesa» per garan­tire ser­vizi pub­blici effi­cienti ed eco­no­mici. Que­sto signi­fica aziende dei tra­sporti locali in defi­cit, come la pri­va­tiz­za­zione delle municipalizzate.

E que­sto nono­stante l’incremento con­si­stente delle entrate (+15,63% rispetto al 2013). In altre parole, la crisi di aziende come l’Atac a Roma, di cui tanto si parla in que­sti giorni, non è solo dovuta all’inefficienza orga­niz­za­tiva, ma a un «baco» nel sistema dei tra­sfe­ri­menti delle risorse. La ven­dita di pac­chetti azio­nari, o la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi pub­blici, sono l’ultimo step che può chiu­dere un cerchio.

«Serve un piano straor­di­na­rio di con­tra­sto alle povertà, una vera epi­de­mia per tante zone del Paese, che com­prenda più fondi e più ser­vizi» sostiene Anto­nio Satta — com­po­nente del diret­tivo dell’Anci –In que­sti anni abbiamo garan­tito ser­vizi, nono­stante un Patto di sta­bi­lità che ci ha tra­sfor­mati in notai più che in ammi­ni­stra­tori e politici».

Per chi vuole leg­gerle, que­ste pagine costi­tui­scono un ammo­ni­mento sulle con­se­guenze dei tagli che ver­ranno, quelli alla Sanità (2,3 miliardi nel 2016) e a quelli alle tasse sulla prima casa (45 miliardi) nei pros­simi tre anni. È in arrivo un’altra imbar­cata di aumenti delle tasse sui cit­ta­dini. La crisi fiscale viene pro­dotta dai governi. I tagli li pagano i cit­ta­dini che, in più, sono obbli­gati a rinun­ciare ai ser­vizi, alle cure e ad un tra­sporto locale efficiente.

E Renzi che dice? Ieri ha assi­cu­rato che i soldi «sot­tratti» ai Comuni per l’abolizione della Tasi/Imu «saranno resti­tuiti inte­gral­mente». Magie con­ta­bili della finanza creativa.

regalo ai più ricchi»

CGIL: «L’ABOLIZIONE DI TASI E IMU È UN REGALO AIPIÙ RICCHI»
di Roberto Ciccarelli

L'abolizione delle tasse promesse da Renzi faranno risparmiare ai poveri 55 , mentre per un milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà in media di circa 827 euro. Il segretario confederale Cgil Danilo Barbi: «Le mancate entrate saranno coperte da tagli sui servizi fruiti dai cittadini»

L’abolizione della tassa sulla prima casa pro­messa urbi et orbi dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi varrà per 8 milioni di con­tri­buenti, quelli delle due fasce di ver­sa­mento più basse, circa 55 euro pro-capite, men­tre per un milione di con­tri­buenti più ric­chi il rispar­mio sarà in media di circa 827 euro.

Lo sconto per 35.700 pro­prie­tari di case di lusso arri­verà a circa 1.940 euro. Lo ha cal­co­lato l’ufficio fisco e finanza pub­blica della Cgi secondo il quale l’operazione «for­nirà bene­fici molto limi­tati a chi ha già poco, cioè la mag­gio­ranza di lavo­ra­tori e pen­sio­nati, men­tre saranno molto più cospi­cui per chi pos­siede pro­prietà di mag­gior valore».

Se per le per­sone a basso red­dito i van­taggi saranno, a giu­di­zio della Cgil, mode­sti, rile­vanti saranno invece gli svan­taggi: «le man­cate entrate deri­vanti dall’abrogazione di Tasi e Imu — sostiene il segre­ta­rio con­fe­de­rale Danilo Barbi — saranno coperte da tagli sui ser­vizi nor­mal­mente fruiti da que­sti cit­ta­dini». Si parla dei tagli da oltre 2 miliardi di euro per il pros­simo trien­nio alla Sanità: «un ulte­riore impo­ve­ri­mento del ser­vi­zio sani­ta­rio pub­blico che ridurrà il diritto uni­ver­sale alla salute».

Per quanto riguarda la tas­sa­zione sulle imprese, nel 2016, le misure strut­tu­rali di ridu­zione fiscale dovreb­bero rag­giun­gere 10 miliardi annui, por­tando ad un’aliquota del 24% nel 2017. In que­sto pac­chetto non biso­gna tanto meno dimen­ti­care la decon­tri­bu­zione sui nuovi «con­tratti a tutele cre­scenti», pre­vi­sti dal Jobs Act.

La Cgil stima una spesa effet­tiva di 5 miliardi in tre anni per la crea­zione com­ples­siva di 200mila unità di lavoro nel set­tore privato.

Un’impresa vana, di fronte a una disoc­cu­pa­zione che resterà sta­bile tra il 12 e il 13% nei pros­simi anni. La ridu­zione di Ires e Irap sulle imprese è «l’ennesimo prov­ve­di­mento ‘a piog­gia che pre­scinde, ad oggi, da inve­sti­menti, inno­va­zione, pro­dut­ti­vità e mag­giore occu­pa­zione» sostiene Barbi.

Per il 2018, Renzi ha annun­ciato la ridu­zione dell’Irpef. La radio­gra­fia del sin­da­cato di Corso Ita­lia ha cal­co­lato un rispar­mio annuo per un red­dito di 18mila euro di 970 euro; per uno di 35mila euro di 2.950; per uno di 150 mila di 11.800 euro. In pra­tica il Pd e Renzi agi­scono come un Robin Hood alla rove­scia: danno ai più ric­chi ciò che hanno tolto ai più poveri, rove­sciando ogni cri­te­rio di pro­gres­si­vità della tas­sa­zione e, anzi, age­vo­lando la legge prin­ci­pale della disu­gua­glianza con­tem­po­ra­nea: la ric­chezza pre­mia sem­pre il ver­tice della pira­mide sociale. In basso «sgoc­cio­lano» sem­pre meno risorse.

L’analogia tra le poli­ti­che fiscali di Ber­lu­sconi e Tre­monti e quelle di Renzi e del Pd non è una sem­pli­fi­ca­zione di comodo. Per la Cgil si tratta della stessa poli­tica: «Evoca una riforma dell’Irpef con due sole ali­quote, non garan­ti­rebbe più la pro­gres­si­vità del sistema tri­bu­ta­rio. Il rispar­mio fiscale sarà così tanto più rag­guar­de­vole, quanto mag­giore è il reddito».

Non solo: sono poli­ti­che che non ser­vono all’aumento dell’occupazione, che non sia quella «dro­gata» da incen­tivi che tutt’al più tra­sfor­mano i con­tratti esi­stenti in quelli a «tutele cre­scenti». «Cia­scuna di que­ste nuove misure fiscali non favo­rirà l’occupazione, e tanto meno sti­mo­lerà la cre­scita del Paese» con­ferma Barbi.

Il pac­chetto «taglia-tasse» del governo pre­ve­de­rebbe una revi­sione della spesa pub­blica com­ples­siva di circa 26 miliardi. Una pro­spet­tiva che pre­oc­cupa il sin­da­cato che pro­pone un’altra strada: la crea­zione diretta di occu­pa­zione e inve­sti­menti pub­blici che avrebbe un bene­fi­cio sul Pil quat­tro volte supe­riore rispetto ad un taglio gene­ra­liz­zato delle tasse.

Il Pais - La Repubblica, 2 agosto 2015
«Il sadico dispotismo dell’ideologia dominante». «La lettura morale di questa crisi». «L’abbraccio mortale del debito». Yanis Varoufakis accoglie El País nella sua casa al centro di Atene; la sua ormai celebre moto è parcheggiata all’angolo della strada, pronta a ripartire rombando alla fine dell’intervista. Visto da vicino, Varoufakis è amabile, attento e disinvolto. Offre al giornalista una tazzina di caffè preparato di fresco, e subito si capisce perché la sua lingua è considerata una delle più affilate d’Europa. Parlando a mitraglia, usa toni tra il solenne e il drammatico, con l’economia e la politica come generi letterari al servizio di un alibi: la Grecia epitome della crisi europea, e quest’ultima vista non come una fase transitoria, ma come uno stato tendente a perpetuarsi.

Alcuni giorni fa ha lasciato il ministero. Come è cambiata la sua vita quotidiana?
«I giornali pensano che io sia deluso per aver lasciato il governo. Di fatto però io non sono entrato in politica per far carriera, ma per cambiare le cose. E chi cerca di cambiarle paga un prezzo».

Quale?
«L’avversione, l’odio profondo dell’establishment. Chi entra in politica senza voler far carriera finisce per crearsi questo tipo di problemi ».

Intanto la Grecia continuerà a subire la tutela della Troika...
«Noi avevamo offerto all’Fmi, alla Bce e alla Commissione l’opportunità di tornare ad essere le istituzioni che erano in origine; ma hanno insistito per ripresentarsi come Troika. Ma l’ultimo accordo si basa sulla prosecuzione di una farsa, ma si tratta solo di procrastinare la crisi con nuovi
prestiti insostenibili, facendo finta di risolvere il problema. Ma si può ingannare la gente, si possono ingannare i mercati per qualche tempo, non all’infinito».

Cosa si aspetta nei prossimi mesi?
«L’accordo è programmato per fallire. E fallirà. Siamo sinceri: il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble non è mai stato interessato a un’intesain grado di funzionare. Ha affermato categoricamente che il suo piano è ridisegnare l’eurozona: un piano che prevede l’esclusione della Grecia. Io lo considero come un gravissimo errore, ma Schaeuble pesa molto in Europa. Una delle maggiori mistificazioni di queste settimane è stata quella di presentare il patto tra il nostro governo e i creditori come un’alternativa al piano di Schaeuble. Non è così. L’accordo è parte del piano Schäuble».

La Grexit è ormai scontata?

«Speriamo di no. Ma mi aspetto molto rumore, e poi rinvii, mancato raggiungimento di obiettivi che di fatto sono irraggiungibili, e l’aggravamento della recessione, che finirà per tradursi in problemi politici. Allora si vedrà se l’Europa vuole davvero continuare a portare avanti il piano di Schäuble oppure no».

Schäuble ha suggerito di togliere poteri alla Commissione, e di applicare le regole con maggior durezza. Se sarà lui a vincere la Grecia è condannata?
«C’è un piano sul tavolo, ed è già avviato. Schaeuble vuole mettere da parte la Commissione e creare una sorta di super-commissario fiscale dotato dell’autorità di abbattere le prerogative nazionali, anche nei Paesi che non rientrano nel programma. Sarebbe un modo per assoggettarli tutti al programma. Il piano di Schaeuble è di imporre dovunque la Troika: a Madrid, a Roma, ma soprattutto a Parigi».

A Parigi?
«Parigi è il piatto forte. È la destinazione finale della troika. La Grexit servirà a incutere la paura necessaria a forzare il consenso di Madrid, di Roma e di Parigi».

Sacrificare la Grecia per cambiare la fisionomia dell’Europa?

«Sarà un atto dimostrativo: ecco cosa succede se non vi assoggettate ai diktat della Troika. Ciò che è accaduto in Grecia è senza alcun dubbio un colpo di Stato: l’asfissia di un Paese attraverso le restrizioni di liquidità, per negargli l’imprescindibile ristrutturazione del debito. A Bruxelles non c’è mai stato l’interesse di offrirci un patto reciprocamente vantaggioso. Le restrizioni di liquidità hanno gradualmente strangolato l’economia, gli aiuti promessi non arrivavano; c’era da far fronte a continui pagamenti a Fmi e Bce. La pressione è andata avanti finché siamo rimasti senza liquidità. Allora ci hanno imposto un ultimatum. Alla fine il risultato è uguale a quando si rovescia un governo, o lo si costringe a gettare la spugna ».

Quali gli effetti per l’Europa?

«Nessuno è libero quando anche una sola persona è ridotta in schiavitù: è il paradosso di Hegel. L’Europa dovrebbe stare molto attenta. Nessun Paese può prosperare, essere libero, difendere la sovranità e i suoi valori democratici quando un altro Stato membro è privato della prosperità, della sovranità e della democrazia».

Anche se è vero che la Grecia ha cambiato i termini del dibattito, in politica si devono ottenere dei risultati. I risultati la soddisfano?

«L’euro è nato 15 anni fa. È stato concepito male, come abbiamo scoperto nel 2008, dopo il tracollo della Lehman Brothers. Fin dal 2010 l’Europa ha un atteggiamento negazionista: l’Europa ufficiale ha fatto esattamente il contrario di quanto avrebbe dovuto fare. Un Paese piccolo come la Grecia, che rappresenta appena il 2% del Pil europeo, ha eletto un governo che ha messo in campo alcuni temi essenziali, cruciali. Dopo sei mesi di lotte siamo davanti a una grande sconfitta, abbiamo perso la battaglia. Ma vinciamo la guerra, perché abbiamo cambiato i termini del dibattito ».

Lei aveva un piano B: una moneta parallela, in caso di chiusura delle banche. Perché Tsipras non ha voluto premere quel pulsante?
«Il suo lavoro era quello di un premier. Il mio, nella mia qualità di ministro, era di mettere a punto i migliori strumenti per quando avremmo preso quella decisione. C’erano buoni argomenti per farlo, come c’erano per non premere quel pulsante».

Alessandra Longo intervista Paolo Gerimberti, ex presidente della Rai, a proposito della riforma della maggiore struttura per la formazione dell'opinione pubblica italiana. «Questa riforma non va, è solo una brutta fiction e lascia la lottizzazione». Come prima, peggio di prima.

LaRepubblica, 2 agosto 2015

Paolo Garimberti, attualmente presidente del consiglio di sorveglianza di Euronews, è stato presidente della Rai dal 2009 al 2012. Tre anni che non ricorda come esaltanti: «Ho trascorso il mio tempo ad evitare guai all’azienda. Ricordo come un incubo le ore passate nei consigli di amministrazione, uno alla settimana...». Garimberti è stato ascoltato dalla Commissione di Vigilanza: «Mi hanno chiesto cosa ne pensavo di un amministratore delegato scelto dal governo, come prevede la riforma. Ho risposto che è una cosa insana». C’era anche Gasparri. Era gonfio come un tacchino dalla gioia. Lo capisco. Al posto suo sarei un pallone aerostatico ».

Garimberti, la Rai diventerà mai la Bbc?
«Solo il nostro provincialismo ne fa un mito. La Bbc è messa malissimo, tra scandali sugli stipendi gonfiati dei manager, un conduttore pedofilo, qualità scadente dei servizi, penso alla diretta sulle elezioni inglesi. La Rai sa fare molto meglio».

Come giudica il disegno di legge passato al Senato?
«La peggior fiction che la Rai abbia mai prodotto su se stessa. Prima le promesse roboanti, del tipo “Faremo la Bbc” (senza contare che, appunto, la Bbc è un mito in frantumi), e poi, come nel gioco dell’oca, questo approdo inquietante, un nuovo Cda fatto con la Gasparri! Una decisione sorprendente».

La governance Rai: si cade sempre lì.
«Sempre e ancora la stessa governance costruita per favorire l’impossessamento della Rai da parte della politica. Mi fa sorridere l’idea del futuro Cda. A riforma passata ci saranno sette consiglieri: due spettano alla Camera, due al Senato, due al governo, uno all’Associazione dipendenti Rai. Norme fatte apposta per continuare a lottizzare ».

Ci sarà un ad potentissimo.
«Sui poteri dell’ad sono d’accordo. Un sistema di comunicazione come la Rai deve essere guidato da una persona con poteri adeguati altrimenti si diventa preda di conflitti politici continui».

Però negli altri Paesi la scelta dell’amministratore delegato non spetta al governo.
«In Francia hanno capito che non si può. Prima il presidente della televisione francese era nominato dal presidente della Repubblica e veniva percepito come un suo uomo. Adesso il sistema è cambiato. C’è una commissione indipendente che esamina i candidati e sceglie».

Mi sembra chiaro che la riforma in Parlamento, così com’è, non le piace proprio.
«Hanno partorito un Topolino e non affrontano i temi veri. Il primo dei quali è il perimetro della Rai. Ha troppi canali: 13. Considerando che le risorse sono quelle che sono, ne basterebbero 5: due generalisti, uno di sport, uno di cultura, uno di informazione 24 ore su 24».

E c’è la questione del canone.

«Il canone è ridicolo, uno dei più bassi d’Europa.E’ impopolare perché viene vissuto come una tassa a favore della Rai e non come il corrispettivo per poter usare il televisore. Nessun governo italiano ha osato porre seriamente il tema».

Se ci fosse un progetto di respiro per il futuro della Rai forse ci sarebbero meno pole- miche su tutto, anche sul canone.

«Fare un buon servizio pubblico è un dovere morale. Ho sperato in una Rai nuova, autonoma e indipendente dalla politica, in una Rai che si renda conto che ormai il mondo è fatto dalla Rete e la Rai sulla Rete non c’è. Mi ritrovo invece con il nuovo Cda eletto con la Gasparri e con le solite logiche di sempre. Se questo è il rottamatore io sono Gengis Khan» Che ricordi ha dei suoi tre anni di presidenza?

«Ricordi di lunghissimi consigli di amministrazione, uno alla settimana. Ore e ore a discutere di una singola fiction, per esempio il Barbarossa che voleva la Lega... La Rai è e sarà sempre paralizzata nel processo decisionale ».

Nonostante tutto, la Rai è pur sempre la più grande azienda culturale del Paese.

«Lo era sicuramente anni fa. Oggi purtroppo non è più così. Non ci si può nascondere dietro gli ascolti di Sanremo. La Rai oggi è un’azienda senz’anima, senza identità».

Ecco perché non è irragionevole la proposta di Tsipras e Varafoukis di ragionare sul debito finanziario della Germania nei confronti del mondo.

Ytali, 30 luglio 2015

L'articolo di Susanne Böhm-Kuby, di cui raccomandiamo la lettura a chi voglia comprendere meglio perché siano del tutto ragionevoli le richieste di Tsipras e Varoufoukis, è la replica a una intervista comparsa sul medesimo sito a firma di Angelo Bolaffi. L'intervista è assolutamente incredibile non tanto per il suo contenuto (chiunque ha il diritto di schierarsi alla destra del più reazionario dei sostenitori di Wolfgang Schuble e Siegmund Gabriel), ma per il fatto che l'ha rilasciata l'ex direttore dell'istituto di cultura italiana di Berlino: cioè del rappresentante ufficiale in Germania della cultura italiana così come la interpreta il governo. E per comprendere meglio l'Italia governativa che vi segnaliamo qui l'intervista rilasciata da Bolaffi


I DEBITI DELLA GERMANIA
NEI CONFRONTI DELLA GRECIA

di Susanna Böme-Kuby

Il “cuore tedesco” di Angelo Bolaffi aveva già dato ampia prova della sua salda fede bundesrepubblicana, e la sola padronanza della lingua tedesca da lui auspicata non basta evidentemente per comprendere a fondo le vicende economiche e le implicazioni storiche della Germania.

La preoccupazione per una montante “sindrome antitedesca” si potrebbe lasciare agli stessi tedeschi che si sentono di nuovo vittime e messi alla gogna, e non solo dai “radicali di sinistra” nell’Europa meridionale: “Die Ungeliebten/ I non amati” titola Die Zeit. Il settimanale si sofferma sui modi in cui viene percepito lo stile autoritario tedesco nelle trattative con la Grecia, non affronta la sostanza del contenzioso, ma auspica infine di poter dare “alla predominanza economica dei tedeschi una nuova forma accettabile nella tradizione dell’umanesimo europeo”.

Mi pare utile invece mettere in luce le cause profonde del complesso squilibrio intereuropeo nel quale riemerge dall’attuale tragedia greca anche una “nuova questione tedesca”, rilevata dal New York Times. Lo strangolamento di fatto dell’economia greca costituisce una realtà che viene percepita in modi completamente diversi non solo tra nord e sud, ma anche all’interno delle nazioni stesse, e la miopia tedesca appare eclatante.

Marco D’Eramo ha rilevato la grande responsabilità delle élite tedesche, quella “di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti.” E chiama in causa il gioco delle parti “di una classe dominante che si dice ‘costretta’ a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica” che questa stessa classe ha plasmato per non perdere il consenso popolare.

Mi torna in mente a proposito la nota constatazione di Axel Springer, primo monopolista della stampa tedesco-occidentale e fondatore nel 1947 del quotidiano Bild: “Alla fine della guerra ho capito che c’era una cosa che il lettore tedesco non avrebbe voluto fare in nessun modo: riflettere, pensare. Di conseguenza ho impostato i miei giornali.”

Vent’anni dopo furono gli studenti del ’68 a chiedere nei loro cortei: “Espropriate Springer!” Invano. La sua vedova, Friede Springer, una delle donne più influenti dell’establishment tedesco, è anche una stretta consigliera di Angela Merkel. E lo Springer-Konzern opera oggi in una quarantina di paesi, soprattutto nei paesi dell’est ex-sovietico.

Il progetto concreto degli Stati uniti d’Europa è nato un secolo fa non dall’impeto popolare, ma dalle esigenze economiche delle élite europee per assicurarsi un loro spazio vitale nel nuovo ordine mondiale dopo la fine del predominio britannico.

Lenin aveva intuito già nel 1915 che un’Europa unita su base capitalista avrebbe riproposto dei rapporti economici di tipo coloniale tra le singole nazioni. E il primo modello paneuropeo del Conte Coudenhove-Calergi propose, dopo la prima guerra mondiale, una unione dotata di moneta unica che doveva garantire l’unità economica e militare all’Europa come baluardo contro l’Unione sovietica, di cui si temevano contagi e mire espansive.

Le idee europeiste del grande capitale dopo la seconda guerra mondiale si orientavano in una direzione simile, sempre in funzione antisovietica, ora pro-atlantica.

Ovviamente dopo i due macelli mondiali si prospettò ai popoli europei una ricostruzione pacifica in una futura unione europea quale garante di pace che durò per circa quarant’anni. Ma la fine della guerra fredda aprì un altro scenario. Anziché smilitarizzarsi la UE venne di fatto associata alla NATO dagli anni Novanta in poi e impegnata per la prima volta dopo il 1945 in nuove guerre (“missioni umanitarie”) nello stesso ambito europeo (Jugoslavia) e nel resto del mondo.

In tal modo la UE è tuttora non autonoma in politica estera, ma strettamente legata agli USA. Le divergenze d’interesse tra i due poli sono evidenti e preoccupanti in molti casi, quello più pericoloso si sta sviluppando attualmente sul nuovo “fronte orientale” della NATO, in Ucraina. Di questo scenario occorre tener presente quando si parla della Grecia, avamposto sudorientale della UE/NATO. Dove nella guerra civile dopo la guerra era stata impedita una svolta comunista e imposta negli anni sessanta una pesante dittatura militare.

La Repubblica federale tedesca è dal suo inizio nel 1949 il perno di quell’Europa atlantica, e i suoi presupposti industriali, economici e sociali permisero una ricostruzione e una crescita molto più rapide che in paesi vicini, magari vincitori della guerra.

Tra quelle premesse storico-economiche – che sono alla base anche dell’odierna predominanza tedesca in Europa – occorre ricordare lo stock del capitale privato accumulato sfruttando il lavoro coatto e mai retribuito di ben 18 milioni di lavoratori stranieri trascinati di forza nella grande Germania durante la guerra. E anche il fatto che le ingenti riparazioni di guerra dovute dal Reich tedesco sia dopo la prima sia dopo la seconda guerra mondiale a una sessantina di Stati belligeranti, vennero pagate solo in minima parte. (Solo il risarcimento più grande, quello assegnato dagli Alleati all’URSS durante la Conferenza di Potsdam (1945), venne in seguito pagato esclusivamente dalla Germania orientale, poi RDT.) Fu guerra fredda. Quando questa venne dichiarata di fatto nel 1947 dal Segretario di Stato John F. Dulles, insieme all’annuncio del piano Marshall per un’Europa postbellica modello USA, era ovvio che quell’Europa sarebbe stata lontana da modelli come quello federale e neutrale di Ventotene o quello a favore di uno sviluppo socialista del manifesto di Buchenwald.

L’Europa atlantica metteva al suo centro il motore economico pressoché intatto della Germania occidentale e prevedeva da subito anche il suo riarmo nell’ambito della futura NATO. Per agevolare lo sviluppo e la riammissione politica della Germania nel contesto europeo si elaborò a Londra nel 1953 un complesso Trattato sul debito che abbonò al Reich tedesco la parte maggiore dei suoi debiti di guerra nei confronti del resto del mondo, spostando eventuali risarcimenti ulteriori a un futuro Trattato di pace dopo un’ipotetica riunificazione delle due repubbliche tedesche fondate nel 1949.

Ma quando questa riunificazione avvenne infine, nel 1989/90, i tedeschi elusero ancora – con l’Accordo 2+4 tra le due Germanie e gli Alleati – la stipula di un vero Trattato di pace che avrebbe riaperto molte richieste e problematiche che ormai la Germania unita vuole chiuse per sempre. Rimane invece di fatto – oltre all’incancellabile colpa tedesca – anche un enorme debito mai onorato.

Non per ultimo stona anche per questo la rigida richiesta dei tedeschi ai greci di pagare il loro debito come ogni buon padre di famiglia. Di fronte alle difficoltà generate dallo squilibrio dovuto anche all’attuale eccessivo export e surplus tedesco si dovrebbe ricominciare a parlare del vecchio debito tedesco ad alta voce in Europa. La questione non riguarda solo i greci, che l’hanno sollevata da tempo, ma anche altri, come gli italiani ben sanno.

In un recente studio (Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld, Hamburg, VSA, 2015), recensito su il manifesto da Beppe Caccia (4/7/2015), lo storico Karl Heinz Roth ha sviluppato un piano dettagliato di come la Germania potrebbe onorare almeno nei confronti della Grecia il suo debito di guerra per evitare il crollo dell’intero assetto europeo:

I 7,1 miliardi di dollari concessi nel 1946 alla Conferenza di Parigi alla Grecia corrispondono oggi ad almeno novanta miliardi di euro. Roth propone quindi un trasferimento di una parte delle ricche riserve auree della Bundesbank alle istituzioni finanziarie europee: 28 miliardi per coprire il necessario taglio del cinquanta per cento del debito pubblico greco, sette miliardi alla Banca centrale greca per una programmi di aiuti immediati, 25 miliardi alla Banca europea di investimenti che metterà a disposizione dei crediti non rimborsabili per un grande programma di investimenti da parte di una Banca pubblica greca, otto miliardi per un fondo di risarcimento alla Memoria al quale potrebbero attingere i familiari delle vittime dei massacri tedeschi di guerra oltre al finanziamento di un Istituto di ricerca su guerra, occupazione e resistenza, i restanti 22 miliardi per un fondo di risarcimento europeo a favore anche di altri gruppi di vittime – come punto di partenza per una grande conferenza internazionale che dovrebbe essere in grado di mettere fine alle ipoteche della seconda guerra mondiale che tuttora, ben settant’anni dopo, gravano ancora in modo rilevante sul futuro europeo.

Si obietterà che negli attuali rapporti di forza un simile progetto appare irreale, utopico. Ma l’idea che si possano usare questi vecchi debiti tedeschi per finanziare un programma post-keynesiano in grado di portare fuori dalla crisi le economie europee da un disastro prevedibile, se non si cambia sistema, potrebbe costituire un grande compito politico per le sinistre unite europee. E la Germania potrebbe finalmente entrare in sintonia con la “tradizione dell’umanesimo europeo”, auspicato da Die Zeit.

gli incentivi alle imprese la stagnazione prosegue, così come il passaggio dal lavoro garantito a quello precario. Fichè restano avvolti nel modello tatcheriano non c'è salvezza. Il manifesto, 1 agosto 2015

È LA DISOCCUPAZIONE, BELLEZZA
di Marta Fana

I dati sul lavoro a giugno: 22mila disoccupati in più, la stagnazione continua. Il governo parla di lavoro con argomentazioni strumentali, quando non manifestamente fuorvianti e parziali. Per Renzi è «piccola ripartenza, ma c’è molto da fare». Poletti si giustifica: «I numeri fluttuano perché siamo all’inizio della ripresa». Vediamo come stanno, davvero, le cose

Sostiene l’Istat che il primo seme­stre 2015 si è chiuso con un anda­mento del mer­cato del lavoro per nulla posi­tivo: a giu­gno il tasso di disoc­cu­pa­zione per l’intera popo­la­zione è tor­nato al 12.7% e quello gio­va­nile rag­giunge il 44.2%. Il numero di occu­pati con­ti­nua a dimi­nuire a giu­gno di 22 mila unità in un mese, dopo il calo di mag­gio di 74 mila unità. Dimi­nui­sce anche il tasso di inat­ti­vità, spie­gato dalle con­di­zioni dram­ma­ti­che in cui ver­sano le fami­glie e non dalla fidu­cia ritro­vata (che pro­prio a giu­gno mostra un calo signi­fi­ca­tivo), come invece vuole farci cre­dere il governo.

Il calo del numero di occu­pati a giu­gno è stato trai­nato inte­ra­mente dalla com­po­nente maschile e gio­va­nile. Nel con­fronto con giu­gno 2014, in Ita­lia ci sono 40 mila occu­pati in meno: men­tre per gli uomini il numero di occu­pati dimi­nui­sce (-82 mila), per le donne aumenta spe­cu­lar­mente (+42 mila unità). Rispetto allo stesso mese del 2014, il tasso di disoc­cu­pa­zione maschile è aumen­tato del 7.5% (da 11.5 a 12.3 per­cento), men­tre quello fem­mi­nile è dimi­nuito del 3%, rima­nendo comun­que a un livello (13.1%) di gran lunga supe­riore alla media euro­pea. Nello stesso periodo, il tasso di occu­pa­zione dei gio­vani tra i 14 e i 25 anni è crol­lato dell’8% in un anno.

Varia­zioni con­si­de­re­voli riguar­dano anche il numero di inat­tivi (-18 mila rispetto a mag­gio) e il cor­ri­spon­dente tasso di inat­ti­vità, entrambi in dimi­nu­zione e trai­nati dalla mag­gior ricerca di lavoro da parte delle donne (-34 mila), men­tre gli uomini sem­brano sem­pre più sco­rag­giati. Tut­ta­via, i dati con­fer­mano che tra mag­gio e giu­gno l’aumento del tasso di disoc­cu­pa­zione è dovuto più alla ridu­zione del numero di occu­pati che a quella rela­tiva agli inat­tivi. Al con­tra­rio, sul con­fronto ten­den­ziale con giu­gno dello scorso anno, è vero che la ridu­zione del tasso di disoc­cu­pa­zione è deter­mi­nato prin­ci­pal­mente dal calo degli inattivi.

Il governo che doveva risol­vere — come molti altri che l’hanno pre­ce­duto — la disoc­cu­pa­zione, feno­meno strut­tu­rale aggra­vato dalla crisi, si rivela di fatto ina­de­guato ad affron­tare il pro­blema: l’unica poli­tica attiva è stata quella di rega­lare alle imprese miliardi di sgravi sul costo del lavoro da uti­liz­zare libe­ra­mente per accre­scere la pro­pria liqui­dità e pro­fitti piut­to­sto che inve­stire e creare occu­pa­zione. Il governo non è sol­tanto inca­pace di far fronte a un feno­meno dram­ma­tico, ma appare anche dele­te­rio, data l’assenza di pro­gram­ma­zione e i tagli al wel­fare. Se è pre­sto per giu­di­care in modo esau­stivo il Job­sAct, rimane incon­te­sta­bile che dall’insediamento del governo Renzi, il tasso di disoc­cu­pa­zione sia aumen­tato del 3.5% a fronte di un calo del tasso di inat­ti­vità di un esi­guo 0.2%.

Il Job­sAct pare non avere alcun effetto miglio­ra­tivo sul mer­cato del lavoro. Di fronte a que­sto qua­dro per nulla posi­tivo, governo e entou­rage pro­vano ad eva­dere il dato sui disoc­cu­pati per mezzo di argo­men­ta­zioni stru­men­tali, quando non mani­fe­sta­mente fuor­vianti e par­ziali. Non si può dar torto al respon­sa­bile eco­no­mico Pd Filippo Tad­dei quando afferma che il tasso di occu­pa­zione segue quello del Pil, tut­ta­via il para­gone è quan­to­meno infe­lice: in Ita­lia, la cre­scita del Pil segnata nel primo tri­me­stre 2015 è di appena lo 0.3% rispetto al tri­me­stre pre­ce­dente quando era nega­tiva: a conti fatti la situa­zione, pur­troppo, è quella di un paese in piena sta­gna­zione e i cui deboli segnali posi­tivi pro­ven­gono dall’andamento dell’economia euro­pea e glo­bale e non certo da una ritro­vata vita­lità del sistema Ita­lia. Il Pil nel primo tri­me­stre del 2015 è cre­sciuto meno di 20 euro a per­sona, per un totale di 1.181 miliardi di euro in più rispetto all’ultimo tri­me­stre del 2014, men­tre nello stesso periodo la domanda per con­sumi delle fami­glie con­ti­nua a dimi­nuire dato che la cre­scita non è uguale per tutti.
Pur di tro­vare un segnale di miglio­ra­mento il mini­stro del lavoro Giu­liano Poletti con­si­dera la ridu­zione delle ore di cassa inte­gra­zione come un aspetto ine­qui­vo­ca­bil­mente posi­tivo. Ma i dati sulle ore lavo­rate pub­bli­cati dall’Istat riguardo al primo tri­me­stre di quest’anno segna­lano come le ore lavo­rate aumen­tino a fronte di una ridu­zione degli occu­pati, soprat­tutto i dipen­denti nell’industria. Ciò indica che sem­pre più lavo­ra­tori sono chia­mati a fare straor­di­nari a con­di­zioni non sem­pre van­tag­giose. Rispetto alla Cig si cela il fatto che la can­cel­la­zione di alcune tipo­lo­gie come quella per ces­sa­zione di atti­vità, ha modi­fi­cato lo sta­tus dei lavo­ra­tori, che sono adesso in mobi­lità e quindi il numero di ore di cig non può che dimi­nuire. Ma le ore di cig dimi­nui­scono anche data la minore coper­tura degli ammor­tiz­za­tori in con­ti­nuità di con­tratto e nel caso di ces­sa­zione di atti­vità. Un det­ta­glio non for­nito dal governo.

RENZI REGALA 16MILIARDI ALLE IMPRESE
E NON PRODUCE NUOVI POSTI DI LAVORO
di Roberto Ciccarelli

Dopo lo Svi­mez, anche l’Istat gua­sta la festa al governo. Ven­ti­due­mila occu­pati in meno e cin­quan­ta­cin­que mila disoc­cu­pati in più a giu­gno, 85 mila in più dal 2014, hanno indotto ieri il pre­si­dente del Con­si­glio Mat­teo Renzi a par­lare di «pic­cola ripar­tenza» dell’occupazione. A Renzi è stato sug­ge­rito di guar­dare i dati Istat che atte­stano la ridu­zione degli inat­tivi, sin­tomo di una mag­giore par­te­ci­pa­zione al mer­cato del lavoro. Una ten­denza che si è strut­tu­rata nell’ultimo anno: –0,9% (-131 mila). «C’è ancora mol­tis­simo da fare ma i dati sono inte­res­santi per­ché quelli che ven­gono con­si­de­rati inat­tivi, che erano sfi­du­ciati o ras­se­gnati, tor­nano a cre­derci - ha detto - cioè aumenta il numero di per­sone che ha tro­vato un posto di lavoro ma anche chi lo sta cercando».

A riprova della stra­te­gia del governo, tutta in difesa per giu­sti­fi­care dati da sta­gna­zione pura e sem­plice, sono arri­vati anche i pen­sieri del respon­sa­bile eco­no­mico del Pd, Filippo Tad­dei, il quale sostiene che la «cre­scita» (data allo 0,7%) pro­durrà effetti occu­pa­zio­nali in autunno, «con sei mesi di ritardo». C’è qual­cosa che però non fun­ziona nella trin­cea sca­vata dal governo sotto l’intenso can­no­neg­gia­mento della crisi: se il tasso di inat­ti­vità dimi­nui­sce, dovrebbe dimi­nuire allora anche quello della disoc­cu­pa­zione. Invece accade il con­tra­rio, e non da ieri. Si torna a sfio­rare il record del 13% (siamo al 12,7%).

In pra­tica, coloro che per­dono il lavoro sono di più di quelli che lo cer­cano e sono tor­nati a «met­tersi in gioco» come direbbe Renzi. Chi invece ha tro­vato un lavoro esce dalla cassa inte­gra­zione. Lo atte­stano i dati: tra il 2014 e il 2015 110 mila per­sone si tro­vano in que­sta situa­zione. Tad­dei e il mini­stro del lavoro Poletti ieri lo hanno rivendicato.

Solo che c’è un grande pro­blema: non si tratta di nuovi posti di lavoro, quelli tanto pro­messi, ma sono con­ver­sioni di quelli già esi­stenti, ma pre­cari. Le imprese non stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si limi­tano ad incas­sare gli sgravi fiscali elar­giti dal governo. Da Palazzo Chigi si giu­sti­fi­cano soste­nendo che arri­ve­ranno «dopo», ma si sa che la teo­ria dei due tempi non fun­ziona mai. Per avere un qua­dro più atten­di­bile, e meno ideo­lo­gico, della situa­zione dalle parti della mag­gio­ranza biso­gna pre­stare ascolto ad uno degli alleati di Renzi, per di più ex mini­stro del lavoro e pre­si­dente della com­mis­sione lavoro del Senato: «Il governo – ha spie­gato Mau­ri­zio Sac­coni — deve riflet­tere sugli impulsi prio­ri­tari alla cre­scita posto che gli oltre 16 miliardi di detas­sa­zione sul lavoro hanno sor­tito effetti mode­sti. Come inse­gna la ripresa spa­gnola, non basta la domanda estera se non si con­giunge con la ria­ni­ma­zione di quella interna».

Per Sac­coni tale «ria­ni­ma­zione» avverrà con il taglio delle tasse pro­messe da Renzi sugli immo­bili, per pagare i quali il governo taglierà la sanità pub­blica. Un pastic­cio, pro­dotto puris­simo dell’austerità, da cui non sarà facile uscire per l’esecutivo. Da que­sti discorsi, fatti arram­pi­can­dosi sugli spec­chi, ieri è rima­sto in un cono d’ombra il con­ti­nente della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile: al 44,2%. Dopo il fal­li­mento del pro­gramma di Garan­zia Gio­vani, per il governo è ormai un tabù, tanto è vero che non ieri non ne ha par­lato. In que­sto caso non ci sono «flut­tua­zioni dovute alla ripresa» come sostiene Poletti per la disoc­cu­pa­zione gene­rale. La ten­denza è uni­voca: i gio­vani, e le donne, under 34 sono ormai le vit­time accer­tate della crisi. Alfredo D’Attorre, depu­tato della sini­stra Pd, coglie il punto: «Mai è stata così alta – sostiene – si scrive dal 77 solo per­ché allora comin­ciano le serie sta­ti­sti­che omo­ge­nee, in realtà allora la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile era al 21,7%, oggi è al 44,2%». I gio­vani sono per­duti lungo la strada sognata della «crescita».

«L’Istat con­ferma come l’occupazione gio­va­nile sia insta­bile e di breve durata – ha soste­nuto Serena Sor­ren­tino (Cgil) – Il Jobs Act non dà rispo­ste, ma il governo è ancora in tempo per modi­fi­carne radi­cal­mente i decreti. La smetta di finan­ziare a piog­gia le imprese e finanzi un piano per il lavoro». L’impotenza sui gio­vani e la «mal riu­scita Garan­zia Gio­vani» spinge Guglielmo Loy (Uil) a par­lare di fal­li­mento delle poli­ti­che del lavoro. «Non è suf­fi­ciente un incen­tivo per aumen­tare l’occupazione» ha aggiunto Gigi Pet­teni della Uil. Da parte delle oppo­si­zioni duplice è la richie­sta: «red­dito di cit­ta­di­nanza e inter­venti per il bene pub­blico» (Gior­gio Airaudo, Sel) e «abban­dono della leva fiscale e inve­sti­menti pub­blici che trai­nano quelli pri­vati. Altri­menti il Tita­nic di Renzi e Poletti pun­terà dritto verso l’iceberg» (Movi­mento 5 Stelle).

Il viag­gio pro­cede a velo­cità sostenuta.

«Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero».

Corriere della Sera, 1 agosto 2015 (m.p.r.)

Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ci fu una violentissima esplosione nella stazione di Bologna, affollata di turisti in arrivo e partenza per le vacanze. È considerato il più grave atto terroristico compiuto in Italia nel secondo dopoguerra. La bomba era composta da 23 chili di esplosivo chiuso in una valigia posta su un tavolino. Di una delle vittime, una donna, non venne ritrovato il corpo. L’esplosione la disintegrò.

Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria - contadina della provincia di Sassari - ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni.

Sono alcune delle vittime della strage: bambini, ragazzi o poco più. Degli ottantacinque morti, circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite spezzate da giovani assassini, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Loro, terroristi-ragazzini sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, per la bomba si proclamano innocenti nonostante la condanna definitiva. Hanno rivendicato e ammesso omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento; ma la strage no, ripetono da sempre. Dopo aver scontato la pena, sono tornati liberi; in Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.

Esecutori giovani, depistatori anziani
Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero, che il Paese ha archiviato nonostante le risposte mancanti; dai legami col resto dell’eversione nera ai possibili collegamenti con la strage di Ustica (il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980) e con il terrorismo medio-orientale.

Anziani, o comunque uomini maturi, furono invece i depistatori accertati. A cominciare da Licio Gelli, il «grande vecchio» dei misteri italiani, oggi novantaseienne, condannato per aver tentato di deviare le indagini, all’ombra della Loggia P2, insieme a due alti ufficiali del servizio segreto militare, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e al faccendiere Francesco Pazienza. Un altro giovane estremista nero dell’epoca, Massimo Carminati, poi passato armi e bagagli alla criminalità comune e ora nuovamente in carcere con l’accusa di essere il capo di Mafia Capitale, fu anche lui processato e infine assolto per aver contribuito al depistaggio. Per quel che lo riguarda Gelli nega tutto, la sua idea è che l’attentato non fu nemmeno voluto: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo e un mozzicone di sigaretta provocò il disastro. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale.

Politica e strategia della tensione
L’ultimo capitolo della cosiddetta strategia della tensione, sostengono i più; anche perché, se pure Fioravanti, Mambro e Ciavardini fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neo-fascisti. Anzi. Nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi del periodo 1969-1974, da piazza Fontana al treno Italicus, passando per Brescia. Assolti o prosciolti, certo. Ma a star dietro alle sole condanne, per contare i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia basterebbero le dita di una mano. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna.

Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro (1978) il Partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. Capo del governo era Francesco Cossiga (che bollò subito la strage come «fascista» salvo chiedere successivamente scusa), seguito da Arnaldo Forlani (travolto in pochi mesi dallo scandalo P2), e poi dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo non-democristiano a entrare a palazzo Chigi nella storia della Repubblica. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.

Trentacinque anni dopo, il mistero della strage persiste intorno al movente: ci sono i nomi dei giovanissimi esecutori materiali, d’accordo, ma mancano mandanti e intermediari. Pedine di un gioco inevitabilmente più grande, in un mondo che esiste più, rimaste senza manovratori. Nella ricostruzione iniziale c’erano, da Gelli in giù, ma col tempo troppi anelli della catena si sono spezzati per comporre un quadro credibile. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età) Massimiliano Fachini uscì assolto, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito.

I dubbi sul movente e le altre piste
L’associazione dei familiari delle vittime, per bocca del suo presidente Paolo Bolognesi, attuale deputato del Pd, sostiene che in realtà sullo sfondo altri colpevoli si intravedono, e di recente un nuovo dossier è stato consegnato agli inquirenti affinché svolgano ulteriori indagini. «Sarà valutato con grande attenzione e pari riservatezza», annuncia il procuratore aggiunto di Bologna. Si vedrà. Le piste alternative degli ultimi anni (compresa quella palestinese legata al gruppo terroristico che guardava a Est guidato da Carlos) sono state archiviate perché costruite su indizi rivelatisi troppo labili. E in generale è auspicabile che si proceda con cautela e diligenza, perché pure sul processo approdato alle tre condanne definitive rimangono dubbi e sospetti sulla genuinità delle prove; a cominciare dalla confessione dell’informatore che «inchiodò» Mambro e Fioravanti.

Tutto questo pesa su una strage di cui gli italiani continuano a sapere troppo poco. Non solo per colpa loro: anche per i più informati restano troppe zone d’ombra. E restano le storie delle vite saltate in aria il 2 agosto di 35 anni fa. Come quella di un’altra giovane vittima: Mauro Di Vittorio, 24 anni, romano simpatizzante dell’estrema sinistra, recentemente tirato in ballo da qualche «revisionista» come ipotetico complice della trama medio-orientale. L’ultimo provvedimento di archiviazione l’ha del tutto scagionato. Sua sorella Anna e il marito Giancarlo (amico di Sergio Secci, stessa età di Mauro, ferito nell’esplosione e morto dopo 5 giorni di agonia) continuano a studiare le carte giudiziarie per difenderne pubblicamente la memoria violata.

Considerazioni sullo stato del partito di Renzi e del suo padrone. Il declino è cominciato e Matteo dovrà scegliere tra due possibili vie d'uscita; nessuna di esse sembra utile per gli abitanti della Penisola. La Repubblica, 1 agosto 2015

NEL Pd le tensioni crescono, sia al centro che in periferia. In parlamento le defezioni rispetto alle decisioni del partito, dal voto sull’arresto del senatore Azzollini agli emendamenti sulla riforma della Rai, hanno messo in minoranza il governo. In periferia il segretario non ha piegato la resistenza del sindaco di Roma Ignazio Marino né quella del governatore siciliano Rosario Crocetta, e ora anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano alza la voce reclamando fondi per il Sud. Emerge sempre più chiaramente la difficoltà di conciliare il ruolo di segretario di partito con quello di capo del governo. Non per nulla ieri Renzi ha riconosciuto che i contrasti interni devono risolversi tra le mura del partito e non scaricarsi in parlamento. Giusto, ma per questo è necessario che il partito torni ad essere il luogo privilegiato della discussione e dell’elaborazione politica, non l’occasione di passerelle in streaming e diluvi di tweet.

In questi ultimi diciotto mesi non è stata avviata nessuna discussione approfondita sulla strategia da perseguire e sulle iniziative da prendere, con parziale eccezione della riforma sulla scuola. Certo il Pd si è trovato in una situazione del tutto inedita, e quindi difficile da gestire: essere il partito dominante in parlamento e alla guida del governo. Bisogna tornare ai fasti della Dc degli anni Cinquanta per trovare situazioni analoghe; e agli esecutivi di Amintore Fanfani per trovare una sovrapposizione tra leadership partitica e premiership governativa. Il predominio politico- parlamentare del Pd, fin qui quasi senza avversari, e la condizione difficile in quanto “anomala” del suo leader, catapultato in due posizioni di vertice senza nessuna esperienza parlamentare o di direzione politica, ha prodotto tensioni e cortocircuiti; e non poteva essere altrimenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Renzi ha perso vento perché non riesce a farsi seguire da tutto il suo partito, tanto al centro quanto in periferia. L’ ostentata disattenzione riservata alla vita del Pd si è ritorta come un boomerang sul leader.

Anche sulle infiltrazioni criminali nel partito romano, denunciate oltre che dalla magistratura da una coraggiosa indagine interna affidata ad un super partes come Fabrizio Barca, il segretario di partito porta “oggettivamente”, per il suo stesso ruolo, una parte di responsabilità: inevitabili oneri della leadership. Se poi al suo disinteresse aggiungiamo quel fastidio per le critiche interne unito ad una sottovalutazione al limite dell’irrisione degli oppositori (Fassina chi?) e una conoscenza opaca del partito nel territorio, capiamo cosa ha portato Renzi a cercare soluzioni altrove, all’esterno, prima con il patto del Nazareno, ora con la sua riedizione in sedicesimo attraverso Denis Verdini.

Con un processo a spirale, più Renzi guarda fuori dal Pd - magari pensando ad una nuova formazione - più la sua presa sul partito si indebolisce. L’iniziale entusiasmo, anche di tanti bersaniani che volevano finalmente un cambio di passo, sta infatti svanendo. E nell’opinione pubblica il consenso al Pd rischia di superare quello riservato al suo segretario.

Di fronte a questa situazione le strade sono due: l’esasperazione del conflitto interno e la contestuale ricerca di un accordo organico di taglio neo-centrista con la nuova formazione di Verdini e l’assorbimento di parte dell‘Ncd, oppure la ricucitura interna per elaborare una agenda condivisa. Lo stile tranchant e decisionista adottato da Renzi fa dubitare che adotti questa seconda strada. Ma la prima porta a scenari inediti, con cambi di maggioranze lontani mille anni luce dal mandato elettorale, senza che si possa nemmeno invocare uno stato di eccezione come nel 2011 (e con un presidente della Repubblica che ha recentemente fatto capire di non voler più far da levatrice ad esperimenti politici di qualsiasi tipo). Quindi un passaggio verso un governo retto da neo-responsabili, al di là della sua efficacia nelle aule parlamentari e quindi dell’efficienza dell’azione dell’esecutivo, non rimarrebbe senza conseguenze all’interno del partito: porterebbe ad una spaccatura verticale, certamente molto più profonda nel territorio che al centro. La ricerca di una navigazione più tranquilla in parlamento rischia di portare invece ad un brusco naufragio.

yriza continua a combattere, per la Grecia e per l'Europa, per tutti noi. La Repubblica, 1 agosto 2015

Alexis Tsipras vince per ko la prima sfida con i ribelli di Syriza, allontana il rischio di elezioni anticipate e scende in trincea per difendere il controverso “Piano B” di Yanis Varoufakis per la creazione di un sistema bancario parallelo in Grecia. «Si trattava di un progetto di emergenza cui io avevo dato il benestare e non del percorso per portare il paese fuori dall’euro — ha detto il premier in Parlamento — . I nostri partner del resto hanno messo a punto le loro strategie in caso di Grexit ed era nostro diritto essere pronti a tutto». «Varufakis, come tutti noi, ha fatto degli errori negli ultimi mesi — ha detto rivolgendosi all’ex ministro delle finanze, arrivato in aula con un’originale camicia psichedelica — . Potete criticarlo per le sue esternazioni, per il suo gusto in tema di camicie, ma certo non accusarlo di aver rubato o di aver lavorato contro gli interessi della Grecia”. Parole che riavvicinano un po’ i due, apparsi negli ultimi giorni ai ferri corti.

Tsipras è sembrato ieri mattina molto più rilassato dopo il Comitato centrale fiume in cui è riuscito ad arginare la contestazione dell’ala più radicale di Syriza. Il massimo organo del partito ha votato infatti a maggioranza la proposta del premier per un congresso straordinario a settembre dopo aver raggiunto il compromesso con i creditori.

La Piattaforma di sinistra chiedeva un vertice immediato in cui votare l’addio al tavolo delle trattative e (in sostanza) dare il via al piano per uscire dall’euro. Al momento del voto è stata però sconfitta. Il premier prende così due piccioni con una fava: da una parte può concentrarsi sui negoziati con Ue, Bce e Fmi per sbloccare i nuovi aiuti per 83 miliardi entro (se possibile) il 20 agosto, quando scade un nuovo prestito da 3,5 miliardi della Banca centrale. Dall’altra, grazie ai regolamenti del partito, può ora ridisegnare con nuovi delegati il Comitato centrale in vista del redde rationem di settembre quando lo scontro ideologico con l’opposizione interna («viviamo nella giunta dell’euro», ha attaccato ieri il suo leader Panagiotis Lafazanis) potrebbe portare a una scissione. In quel caso il governo rimarrebbe senza maggioranza e — a meno di sorprese — sarebbero inevitabili le elezioni anticipate.

Ad Atene intanto sono iniziati ieri i negoziati ad alto livello con l’ex Troika cui si è unito ora in un inedito quartetto pure l’Esm. Il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos e quello dell’economia George Stathakis hanno incontrato ieri i massimi rappresentanti dei creditori: «Abbiamo parlato di ricapitalizzazione delle banche, di privatizzazioni e di obiettivi fiscali — ha spiegato Tsakalotos — . Su alcune cose siamo molto vicini, su altre un po’ meno». Facile immaginare che la vendita di asset pubblici sia uno dei capitoli più delicati, mentre a tenere con il fiato sospeso i creditori è il modo in cui verranno puntellate le banche. Il timore in Grecia è che ai correntisti con i depositi più ricchi — come è successo a Cipro — sia chiesto un contributo per impedire il fallimento degli istituti.

Atene proverà intanto lunedì a muovere un altro passo verso la normalità con la riapertura della Borsa dopo più di un mese di chiusura. Le autorità imporranno dei limiti agli scambi. Ma alla luce dell’andamento dei titoli ellenici quotati a New York nessuno si fa troppe illusioni e secondo tutte le previsioni la ripaertura dovrebbe essere segnata da una pesantissima flessione.

«Svimez. Il rapporto 2015 sull’economia racconta lo tsunami che ha travolto il Mezzogiorno nei sette anni della crisi: è cresciuto meno del paese di Tsipras devastato dalla Troika. Viaggio nel paese sotterraneo dove i poveri sono più poveri, le donne e i giovani i più colpiti dalle disuguaglianze prodotte dall’iniqua Eurozona».

Il manifesto, 31 luglio 2015

Il Sud, la nostra Gre­cia. Al set­timo anno di crisi – sostiene un’anticipazione del rap­porto Svi­mez sull’economia del Mez­zo­giorno 2015 pre­sen­tata ieri a Roma – l’emergenza con­cla­mata oggi è un disa­stro accer­tato. Il crollo della domanda interna, dei con­sumi e degli inve­sti­menti pro­dur­ranno uno stra­vol­gi­mento demo­gra­fico impre­ve­di­bile che ampli­fi­cherà la deser­ti­fi­ca­zione indu­striale e alla civile.

Come in guerra

Per il set­timo anno con­se­cu­tivo il Pil del Mez­zo­giorno è nega­tivo (1,3%, nel 2013 era –2,7%), cre­sce il diva­rio rispetto al Centro-Nord (-0,2%). La mappa di que­sto immane slit­ta­mento è così com­po­sta: tra il 2008 e il 2014, la crisi ha pro­dotto le per­dite più pesanti in Molise (-22,8%), Basi­li­cata (-16,3%), Cam­pa­nia (-14,4%), Sici­lia (13,7%), Puglia (-12,6%). Con­si­de­rato il primo quin­di­cen­nio dell’unione mone­ta­ria 2001–2014, quella che avrebbe dovuto creare una «con­ver­genza» tra il Nord e il Sud dell’Europa, lo Svi­mez con­clude che il Sud Ita­lia sta molto peg­gio della Gre­cia. Lo si vede dal tasso di cre­scita cumu­lato: la Gre­cia ha regi­strato un calo dell’1,% (conta qui la «cre­scita» prima dei vari «memo­ran­dum»), men­tre il Sud affonda con il –9,4% e il Centro-Nord regi­stra ancora un segno posi­tivo con l’1,5%. Que­sta diva­ri­ca­zione geo-economica pesa sulla per­cen­tuale del Pil nazio­nale che ha regi­strato un meno 1,1%. È il ritratto di un paese diviso all’interno di un con­ti­nente spac­cato sia dal punto di vista eco­no­mico che da quello sociale. E le distanze con­ti­nue­ranno ad aumen­tare a causa delle poli­ti­che di auste­rità che pro­du­cono reces­sione e disoccupazione.

Mappe della povertà

Una per­sona su tre a Sud è a rischio povertà, men­tre a Nord lo è una su dieci. Dal 2011 al 2014, sostiene lo Svi­mez, le fami­glie asso­lu­ta­mente povere sono cre­sciute a livello nazio­nale di 390 mila nuclei. A Sud c’è stata un’impennata del 37,8%, ma i numeri sono impie­tosi anche al Centro-nord: il 34,4%. La regione ita­liana dove più forte è il rischio povertà è la Sici­lia con il 41,8%, seguita a ruota dalla Cam­pa­nia (37,7%). In que­sta selva di numeri e per­cen­tuali un ele­mento è certo: in con­creto, essere poveri signi­fica oggi gua­da­gnare meno di 12 mila euro all’anno. In que­sta con­di­zione si trova il 62% della popo­la­zione meri­dio­nale, con­tro il 28,5% del Centro-Nord. Dramma in Cam­pa­nia dove que­sto numero aumenta ancora al 66%.

Lo Svi­mez cal­cola solo il numero dei poveri che non lavo­rano, non quello dei cosid­detti wor­king poors che rap­pre­sen­tano un’altra fac­cia della crisi che stiamo vivendo. Tra il 2008 e il 2014 l’occupazione nel Mez­zo­giorno è crol­lata del 9%, a fronte del meno 1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811 mila per­sone che in Ita­lia hanno perso un posto di lavoro, e dif­fi­cil­mente lo ritro­ve­ranno se e quando finirà la crisi, ben 576 mila vivono tra Abruzzo e le Isole. Pur essendo pre­sente solo il 26% della popo­la­zione attiva, a Sud si con­cen­tra dun­que il 70% delle per­dite pro­dotte dalla crisi. Gli occu­pati sono tor­nati a 5,8 milioni. L’impatto psi­co­lo­gico, e non solo sociale, è stato immenso.

Lo Svi­mez riprende i dati dell’Istat secondo la quale viviamo al livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono dispo­ni­bili le serie sto­ri­che dell’istituto nazio­nale di sta­ti­stica. Tra il primo tri­me­stre 2014 e quello del 2015 è arri­vato un riflesso di miglio­ra­mento: gli occu­pati sono saliti nel paese di 133 mila unità, 47 mila vivono al Sud e 86 nel Centro-Nord. Segnali festeg­giati a suo modo come il segnale della “ripresa” dal governo che non con­si­dera il calo delle per­sone in cerca di occu­pa­zione. Nel primo tri­me­stre 2015, cal­cola lo Svi­mez, sono scese a 3 milioni 302 unità, 145 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2014.

Deser­ti­fi­ca­zione industriale

I sog­getti più col­piti sono le donne e i gio­vani under 34. Quanto alle prime, nel 2014 a fronte di un tasso di occu­pa­zione fem­mi­nile medio del 51% nell’Ue a 28, il Mez­zo­giorno era fermo al 20,8%tra le 35enni e le 64enni. Ancora peg­gio per le gio­vani donne con un’età com­presa tra i 15 e i 34 anni: solo una su 5 ha un lavoro. E quando si parla di lavoro, si parla nella mag­gio­ranza dei casi di pre­ca­riato. Que­sta frat­tura tra le gene­ra­zioni, e i sessi, si allarga nella tra­sfor­ma­zione della com­po­si­zione del mer­cato del lavoro che pena­lizza chi ha meno di 34 anni, e in par­ti­co­lare i gio­vani tra i 15 e i 24 anni, men­tre gli over 55 strap­pano qual­che posto di lavoro in più. 622 mila under 34 hanno perso un posto di lavoro tra il 2008 e il 2014, men­tre gli over 55 ne hanno gua­da­gnati 239 mila. Se a livello nazio­nale nel 2014 il tasso di disoc­cu­pa­zione era del 12,7%, al Sud que­sta per­cen­tuale arri­vava al 20,5% men­tre al Centro-Nord era al 9,5%.

Que­sta situa­zione è il pro­dotto di una «deser­ti­fi­ca­zione indu­striale» — così la defi­ni­sce lo Svi­mez – che ha visto crol­lare il valore aggiunto del set­tore mani­fat­tu­riero del 16,7% in Ita­lia, con­tro il 3,9% dell’Eurozona. A pesare è sem­pre il Sud che ha perso il 34,8% della pro­dut­ti­vità in que­sto set­tore e ha più che dimez­zato gli inve­sti­menti. In que­sto caso il crollo è totale: meno 59,3%. La crisi è pro­fonda anche al Centro-Nord dove la per­dita è stata però meno della metà del pro­dotto mani­fat­tu­riero (-13,7) e circa un terzo degli inve­sti­menti (-17%).

Tsu­nami demografico

Nel 2014 al Sud si sono regi­strate solo 174 mila nascite, livello al minimo sto­rico regi­strato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia. Il tasso di fecon­dità è arri­vato a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 neces­sari a garan­tire la sta­bi­lità demo­gra­fica e infe­riore comun­que all’1,43 del Centro-Nord. Que­sta con­di­zione riguarda anche i cit­ta­dini stra­nieri nel Centro-Nord. Il Sud è desti­nato a per­dere 4,2 milioni di abi­tanti nei pros­simi 50 anni, arri­vando così a pesare per il 27,3% sul totale nazio­nale a fronte dell’attuale 34,3%. Una pre­vi­sione sostan­ziata dai dati della migra­zione interna e infra-europea. Dal 2001 al 2014 sono migrate dal Mez­zo­giorno verso il Centro-Nord oltre 1,6 milioni di per­sone, rien­trate 923 mila, con un saldo migra­to­rio netto di 744 mila per­sone, di cui 526 mila under 34 e 205 mila laureati.

Sot­to­svi­luppo permanente

Que­sta deser­ti­fi­ca­zione è dovuta «all’assenza di risorse umane, impren­di­to­riali, finan­zia­rie che potreb­bero impe­dire di aggan­ciare la pos­si­bile ripresa e tra­sfor­mare la crisi ciclica in un sot­to­svi­luppo per­ma­nente». Si parla di denu­tri­zione, man­cati acqui­sti di vestia­rio e cal­za­ture (-16%, il dop­pio del resto del paese: 8%). Senza red­dito si rinun­cia ai ser­vizi per la cura della per­sona e non si inve­ste sull’istruzione. In altre parole, i tagli a que­sti set­tori pro­du­cono la per­ma­nenza del sot­to­svi­luppo e il sot­to­svi­luppo ali­menta la cre­scita dei ren­di­menti dei pochi ai danni dei molti. La cre­scita mini­male che sarà regi­strata nel 2015 in Ita­lia (+0,7% si dice) non sia il pro­dotto del sot­to­svi­luppo di alcune aree del paese a dispetto delle altre, e di que­ste rispetto ad altre zone dell’Eurozona. La «cre­scita» invo­cata è il risul­tato dell’impoverimento dra­stico e irre­ver­si­bile delle classi medio-basse e dei poveri che lavo­rano da dipen­denti pre­cari o da auto­nomi a favore di un’élite di oli­gar­chi sem­pre più ric­chi (lo 0,1% della popo­la­zione mon­diale). Que­sto è l’effetto del crollo dei con­sumi delle fami­glie, oltre due volte mag­giore a Sud (13,2%) rispetto a quella regi­strata in Ita­lia (-5,5%). Oggi ogni paese euro­peo ha il suo «Mezzogiorno».

Le conseguenze anche nel bollettino economico della Banca Centrale Europea. Oggi il dualismo economico tra Nord e Sud Italia si è allargato al Nord e Sud Europa. L'analisi degli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo». Il manifesto, 30 luglio 2015

È stato il pre­mio Nobel dell’economia Paul Krug­man a par­lare per la prima volta di «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» dell’Europa nel 1991 nel libro «Geo­gra­fia e com­mer­cio inter­na­zio­nale». Il dua­li­smo eco­no­mico che ha segnato i rap­porti tra Nord e Sud Ita­lia si è allar­gato a quello tra i paesi del Nord e del Sud dell’Europa e all’interno di tutti i paesi, a comin­ciare della Ger­ma­nia, uni­fi­cata, ma divisa ancora tra un Ovest e un Est. Gli eco­no­mi­sti ita­liani Emi­liano Bran­cac­cio e Ric­cardo Real­fonzo hanno ripreso que­sta cate­go­ria in uno stu­dio del 2008, inti­to­lato L’Europa è a rischio “mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione. Il dibat­tito con­ti­nua inten­sis­simo a pro­po­sito delle varie ipo­tesi sull’uscita dall’euro, delle sue con­se­guenze sui salari e in gene­rale sull’implosione dell’Eurozona.

Echi si ritro­vano nel rap­porto 2015 dello Svi­mez sul Mez­zo­giorno (ita­liano) dove al rap­porto asim­me­trico tra il cen­tro (in sostanza la Ger­ma­nia) e le peri­fe­rie (i paesi dell’Europa del Sud) se ne aggiunge un altro: quello tra Sud e Est euro­peo inte­grato nell’Eurozona. «Dal 2001 al 2013 la cre­scita del Pil con­si­de­rato in potere di acqui­sto (Ppa) è stato un quinto infe­riore di quella delle regioni deboli dei nuovi paesi dell’Est. Nei primi cin­que anni della crisi, 2008–2013, il Pil è aumen­tato del 4,5% nelle aree più forti («regioni della com­pe­ti­ti­vità») ed è dimi­nuito dell’1,1% in quelle più deboli (quelle della «con­ver­genza») che all’inizio ave­vano un red­dito pro-capite infe­riore al 75%. Prima della crisi, dal 2001 al 2007, le regioni più deboli ave­vano regi­strato una con­ver­genza cre­scendo del 39,6%, più delle aree forti (+31,3%). È acca­duto in Spa­gna, men­tre in Ger­ma­nia si è regi­strata una mag­giore omogeneità.

L’Italia fa sto­ria a parte. Sud e Centro-Nord cre­sce­vano prima della crisi con il 19% e il 21,8%, poi il crollo: +0,6% il Centro-Nord, –5,1%. Le asim­me­trie si sono aggra­vate con l’allargamento a Est. Il Sud ha sof­ferto la con­cor­renza del dum­ping fiscale. Tra il 2000 e il 2013 l’Italia è stato il paese che è cre­sciuto di meno in ter­mini di Pil in Ppa: +20,6% con­tro il 37,3% dell’Eurozona a 18. Il Sud è cre­sciuto oltre 40 punti in meno della media delle regioni di con­ver­genza dell’Europa a 28 (+53,6%). A una con­clu­sione simile è arri­vata la Bce nel bol­let­tino eco­no­mico di mag­gio 2015: l’Italia «ha regi­strato i risul­tati peg­giori» sulla cre­scita del Pil pro­ca­pite tra quelli che hanno adot­tato l’euro fin dall’inizio». La richie­sta Bce è aumen­tare la fles­si­bi­lità nei mer­cati dei beni e ser­vizi e del lavoro. Per gli eco­no­mi­sti ita­liani (e Krug­man) è l’opposto. Per loro è fal­lito il modello eco­no­mico per cui la pro­dut­ti­vità e la cre­scita dipen­dono dal con­te­ni­mento del costo del lavoro. Que­sti paesi hanno invece biso­gno di poli­ti­che industriali.

Recensione preziosa, libro da leggere: perché nel pieno della crisi del finanzcapitalismo non emerge la prospettiva del superamento di quel devastante “modello di sviluppo”? Una nuova idea del lavoro come questione essenziale da affrontare.

Il manifesto, 30 luglio2015

Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.

C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».

Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.

Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».

Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.

Crepe nella Troika

La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.

Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.

Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.

Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.

Il concorso delle discipline

Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.

Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.

Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.

La politica insidiosa

Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.

La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi

Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.

Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.

Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.

È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.

Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.

Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a

Riferimenti

Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"

«La vicenda greca rivela una nuova forma di colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. È un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. Ma una cosa è certa: qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più la stessa».

Sbilanciamoci.info, 27 luglio 2015

L’Europa è diventata un laboratorio per il futuro. Ciò che sta succedendo lì dovrebbe essere motivo di preoccupazione per tutti i democratici e specialmente per chiunque sia di sinistra. Due esperimenti in questo momento stanno venendo messi in pratica - e quindi, presumibilmente, stanno venendo controllati - in questo ambiente di laboratorio.

Il primo esperimento è uno stress test sulla democrazia, la cui ipotesi di fondo è la seguente: la volontà democratica di un paese forte può abbattere non democraticamente la volontà democratica di un paese debole senza intaccare la normalità della vita politica europea. I prerequisiti del successo dell’esperimento sono tre: il controllo dell’opinione pubblica che permette che gli interessi nazionali del paese più forte si trasformino nell’interesse comune dell’eurozona; il proseguimento, da parte di un gruppo di istituzioni non elette (Eurogruppo, Bce, Fmi, Commissione Europea), nella neutralizzazione e nella punizione di ogni decisione democratica che disobbedisca ai diktat del paese dominante; la demonizzazione del paese più debole così da assicurarsi che non ottenga comprensione dagli elettori degli altri paesi europei, specialmente nel caso di elettori di paesi che potrebbero disobbedire.

La Grecia è la cavia di questo agghiacciante esperimento. Stiamo parlando della seconda operazione di colonialismo del ventunesimo secolo (dal momento che la prima è stata la Missione di stabilizzazione ad Haiti nel 2004). È un nuovo colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. E, proprio come il vecchio colonialismo, la giustificazione che ora viene data è che tutto ciò che avviene sia nell’interesse del paese occupato. E’ un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. A differenza dei laboratori, le società non sono ambienti controllati, a prescindere dalla pressione che si esercita per tenerle sotto controllo. Una cosa è certa: una volta che l’esperimento sarà finito, e qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più l’Europa di pace, coesione sociale e democrazia. Al contrario, diverrà l’epicentro di un nuovo dispotismo occidentale, la cui brutalità rivaleggerà con quella del dispotismo orientale già analizzato da Karl Marx, Max Weber e Karl Wittfogel .

Il secondo esperimento in atto è un tentativo di liquidare definitivamente la sinistra europea.

La sua ipotesi di fondo è la seguente: non c’è spazio in Europa per la sinistra fintanto che insista per un’alternativa alle politiche di austerità imposte dal paese che è egemone. I prerequisiti per il successo di questo esperimento sono tre. Il primo consiste nel causare una sconfitta preventiva dei partiti di sinistra , punendo con violenza quelli che osano disobbedire. Il secondo consiste nel far credere agli elettori che i partiti di sinistra non li rappresentano. Fino ad ora la nozione che “i nostri rappresentanti non ci rappresentano più” era l’argomento principale del movimento degli Indignados e di Occupy, rivolto contro i partiti di destra e i loro alleati. Ora che Syriza è stata costretta a bere la cicuta dell’austerità – nonostante il “No” del referendum greco convocato da Syriza stessa -, gli elettori saranno sicuramente portati a concludere che, comunque vada a finire, anche i partiti di sinistra abbiano fallito nel rappresentarli. Il terzo prerequisito consiste nell’intrappolare la sinistra in un falsa contrapposizione tra scelte del Piano A e scelte del Piano B. Negli ultimi anni la sinistra si è divisa tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse rimanere nell’euro e tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse lasciare l’euro. Delusione: nessun paese può lasciare l’euro in maniera ordinata, ma, se un paese dovesse mostrare di essere disobbediente, sarà espulso e il caos si abbatterà su di lui inesorabilmente. Allo stesso modo chiedono una ristrutturazione del debito, che si è dimostrato essere un tema molto divisivo per la sinistra. Delusione: la ristrutturazione avrà luogo quando sarà funzionale agli interessi dei creditori – che è la ragione per cui l’altra questione principale della sinistra è ora divenuta la politica del FMI.

Gli esiti di questo esperimento sono parimenti incerti, per le ragioni sopra esposte. Tuttavia, una cosa è certa: per sopravvivere a questo esperimento la sinistra avrà bisogno di rifondare se stessa al di là di ciò che oggi è immaginabile. Servirà molto coraggio, molta audacia e molta creatività.

(traduzione di Bruno Montesano)

Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015

Venerdì scorso dopo la sco­perta scien­ti­fica di “un’altra terra” nella Via Lat­tea, molti hanno soste­nuto che un altro mondo è pos­si­bile. Noi siamo più mode­sti e vogliamo sco­prire se un’altra sini­stra è pos­si­bile.Pen­sare a un’altra sini­stra signi­fica per­cor­rere molte strade nel pros­simo futuro, ma prio­ri­ta­ria è una discus­sione libera e schietta. Per­ciò il mani­fe­sto — da domani — mette a dispo­si­zione le pro­prie pagine, che ospi­te­ranno inter­venti, opi­nioni, com­menti delle donne e degli uomini che vogliono ragio­nare e con­fron­tarsi sul pre­sente e sul domani del nostro Paese. Per ini­ziare ecco, secondo me, alcuni spunti neces­sari alla riflessione.
E pro­prio per­ché si tratta di spunti — tanti altri pos­sono essere aggiunti — non è impor­tante l’ordine in cui ven­gono espo­sti. Dunque.

1) La for­ma­zione di un par­tito alla vec­chia maniera? Sarebbe oppor­tuno ten­tare un’evoluzione della spe­cie. La nascita di un nuovo sog­getto poli­tico? Auspi­ca­bile ma sarebbe ancora meglio met­tere insieme diversi “sog­getti” poli­tici, sociali, cul­tu­rali. Nelle forme più ampie pos­si­bile. Più aperte. Le meno set­ta­rie. Le più alter­na­tive. Per­ché c’è vita a sini­stra (del Pd), e si tratta di milioni di per­sone che vor­reb­bero vedere tra­sfor­mate in realtà le loro volontà di cambiamento.

2) Potremmo ragio­nare a lungo sul ruolo avuto dall’ex Pci nell’ultimo tren­ten­nio. Ci aiu­te­rebbe a capire quanto sono pro­fonde le ragioni che hanno osta­co­lato la nascita di una nuova sini­stra (nella quale va inse­rita anche la sto­ria del gruppo del Mani­fe­sto e del Pdup). Ma andremmo troppo lontano.
Con­cen­tria­moci invece sullo spa­zio lasciato dal Pd alla sua sini­stra. Ampio sicu­ra­mente, eppure sem­pre estre­ma­mente fram­men­tato: dai movi­menti per i diritti sociali a quelli per i diritti civili (emersi nel nostro arre­trato paese anche gra­zie allo scavo costante della cul­tura fem­mi­ni­sta, pro­ta­go­ni­sta e madre di un altro modo di pen­sare la politica).
Un ampio fronte che passa anche per alcune forme di aggre­ga­zione poli­tica strut­tu­rate in orga­niz­za­zioni e par­titi. Un fronte dif­fuso e varie­gato, privo però di una spinta uni­ta­ria con­vin­cente. Si pos­sono tro­vare diverse ragioni per spie­gare l’autoreferenzialità, magari anche utile per pun­tare l’attenzione sulle idee diverse di alter­na­tiva. Ma nes­suna iden­tità può bloc­care la neces­sità, e ormai l’urgenza, di tro­vare forme, obiet­tivi, uni­tari. Con l’ambizione di essere un’alternativa poli­tica oggi e di governo domani. E quindi in grado di pre­sen­tarsi con pro­grammi e alleanze sociali lar­ghe e tra­sver­sali. In Ita­lia e in Europa.

3) Oggi all’ordine del giorno non c’è la rivo­lu­zione ma un’idea di rifor­mi­smo di sini­stra in grado di per­sua­dere milioni di per­sone. Kark Marx ai cri­tici del suo soste­gno alla legge delle dieci ore rispon­deva così: «Per la prima volta alla chiara luce del sole, l’economia poli­tica del pro­le­ta­riato ha pre­valso sull’economia poli­tica del Capi­tale». Nes­suna rivo­lu­zione, ideo­lo­gica e auto con­tem­pla­tiva ma cam­bia­menti radi­cali, di base.
Quei cam­bia­menti che un tempo si chia­ma­vano “riforme di strut­tura”, per indi­care un metodo paci­fico e pro­gres­sivo di muta­zioni pro­fonde nell’assetto eco­no­mico e sociale. Fino a poco tempo fa pen­sa­vamo che que­sta idea forte di rifor­mi­smo fosse impos­si­bile da rea­liz­zare. La con­qui­sta del governo di Tsi­pras e la recente affer­ma­zione di Pode­mos, hanno dimo­strato che le nuove idee pos­sono avere grande riscon­tro tra­sver­sal­mente nei diversi strati sociali ridi­se­gnati dall’impoverimento pro­vo­cato dalla crisi, e den­tro le forme della demo­cra­zia. Diretta, refe­ren­da­ria, inter­net­tiana, assem­bleare, e comun­que rappresentativa.
Ma il con­senso arriva solo quando tutto que­sto rie­sce ad essere con­vin­cente per­ché viene rap­pre­sen­tato da per­sone, gruppi, movi­menti che hanno saputo inter­pre­tare con serietà e prag­ma­ti­smo la lotta per il cambiamento.

4) Tutto quello che si muove al di fuori del Pd è con­vin­cente, signi­fi­ca­tivo? Intanto una parte dell’area sociale e cul­tu­rale alter­na­tiva — soprat­tutto quella gio­va­nile — si è rico­no­sciuta nel Movi­mento 5Stelle. Non per­ché (non solo) non esi­steva un’altra pro­po­sta forte, ma per­ché il M5S è andato a fondo con­tro il sistema cor­rotto dei par­titi, pun­tando sull’onestà ammi­ni­stra­tiva, sulla lotta al malaf­fare e ai pri­vi­legi della casta, sulla capa­cità di fare oppo­si­zione sui temi dei diritti civili e dell’ambientalismo. Tut­ta­via anche i 5Stelle, per diven­tare una forza ege­mo­nica, dovranno libe­rarsi da una strut­tura auto­ri­ta­ria costi­tuita da un capo poli­tico e da uno ideo­lo­gico. Da una voca­zione set­ta­ria che può diven­tare peri­co­losa, pro­prio per­ché con­vince milioni di per­sone. Il M5S l’ha già vinta e potrà vin­cere altre impor­tanti par­tite elet­to­rali, tut­ta­via l’ideologia del “chi non è con me è con­tro di me” non ci piace, per­ché dispo­tica e violenta.

5) Una vasta area di ita­liani, milioni di donne, uomini, gio­vani, anziani hanno scelto Sel, l’altra Europa di Tsi­pras, più pic­cole orga­niz­za­zioni che si richia­mano al comu­ni­smo, oppure solo la lotta di piazza, per i diritti civili e sociali o su obiet­tivi spe­ci­fici (i no Tav, i no Triv quelli che Renzi chiama “comi­tati e comi­ta­tini”) e anche il non voto.
C’è la parte di società rap­pre­sen­tata da Lan­dini e quella che si rico­no­sce diret­ta­mente nei fuo­riu­sciti del Pd (Civati e Fas­sina) e nella mino­ranza anti­ren­ziana. La lotta che il movi­mento sin­da­cale ha orga­niz­zato, trai­nato dalla Cgil, con­tro il Jobs Act e con­tro le nuove leggi sulla scuola ha espresso una potente sog­get­ti­vità, gua­da­gnan­dosi l’attacco duro e costante del premier/segretario dell’ex par­tito di rife­ri­mento. Que­ste e altre sono le poten­zia­lità di una “cosa” di nuova sinistra.
Ma qui ripeto una rifles­sione che Vit­to­rio Foa ci pro­po­neva già nel fati­dico 1977: «Come mai le scon­fitte elet­to­rali, sociali e poli­ti­che non scal­fi­scono le nostre sicu­rezze?». Una domanda che faceva rife­ri­mento a un sistema poli­tico ancora fon­dato sui grandi par­titi di massa. Quei par­titi sono scom­parsi, ma l’errore rischia di per­ma­nere per­ché la ten­ta­zione di pian­tare cia­scuno la pro­pria ban­die­rina, la cat­tiva abi­tu­dine di non saper rinun­ciare a parti della pro­pria iden­tità in favore dell’unità, è una sorta di tara gene­tica dif­fi­cile da curare.

6) Natu­ral­mente è vitale per la sini­stra essere in grado di misu­rarsi con i pro­fondi cam­bia­menti inter­ve­nuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, sem­pre più dif­fi­cile da rap­pre­sen­tare per la pro­gres­siva, pro­fonda, ine­dita par­cel­liz­za­zione delle figure pro­fes­sio­nali. Accanto a lavori imma­te­riali che pro­iet­tano lo sguardo nel mondo delle reti dove tempo di vita e tempo di lavoro non sono più distin­gui­bili, con­vi­vono lavori pri­mi­tivi, poveri, di sfrut­ta­mento ottocentesco.
Chi sono oggi i lavo­ra­tori? Cos’è il lavoro? E come e quanto viene rico­no­sciuto? Su que­sto aspetto della vita col­let­tiva sono avve­nuti i cam­bia­menti più forti, che hanno por­tato ad un inde­bo­li­mento della rap­pre­senta tra­di­zio­nale e ad un nuovo sfrut­ta­mento, con lavori sot­to­pa­gati, prov­vi­sori, pre­cari. Per milioni di per­sone c’è povertà e non c’è futuro: una sini­stra vera deve pen­sare non solo a chi ha un posto assi­cu­rato, ma ai più deboli, ai più fra­gili, a quei milioni di donne e di uomini costretti alla soprav­vi­venza da pen­sioni da fame. Una forza nuova di sini­stra dovrebbe avere come prio­rità l’impegno per i gio­vani senza lavoro o pre­cari e i pen­sio­nati meno protetti.

7) L’immigrazione dei nostri tempi è un feno­meno strut­tu­rale che insieme alla crisi eco­no­mica, ai nuovi con­flitti che ali­men­tiamo (nella spi­rale guerra-terrorismo-guerra), all’invecchiamento della popo­la­zione euro­pea sti­mola pro­getti e alter­na­tive visioni del mondo. Met­tendo in discus­sione e a dura prova uno degli aspetti fon­danti dell’economia e della società occi­den­tale: il wel­fare. Sem­pre più povero, sem­pre meno inclusivo.
Ma quale sarà la strut­tura eco­no­mica di base se il capi­ta­li­smo tem­pe­rato dalla social­de­mo­cra­zia non ha tro­vato nem­meno una voce nella lunga, aspra, rive­la­trice lotta del pic­colo David greco con­tro il gigante Golia euro­peo? Sul nostro gior­nale alcuni e diversi intel­let­tuali hanno ini­ziato ad abboz­zare idee e linee di un piano su immigrazione-lavoro-beni cul­tu­rali e ambien­tali che andrebbe svi­lup­pato. Ma la rispo­sta alla tra­ge­dia che coin­volge in par­ti­co­lare i dispe­rati del Sud del mondo non può essere l’egoismo, la ripro­po­si­zione del privilegio.
A quelli che ven­gono in Europa con una spe­ranza di vita e con ener­gie intel­let­tuali da offrire, dob­biamo dare un inse­ri­mento rispet­toso delle cul­ture e delle tra­di­zioni altrui. E dob­biamo essere intran­si­genti con­tro chi spe­cula e cerca con­sensi. Una società non soli­dale non ci interessa.

8) Le riforme sono molto impor­tanti, anche quelle isti­tu­zio­nali ed elet­to­rali. Solo chi è cieco non vede che con le nuove leggi si dà troppo potere ad un solo par­tito e solo al capo di quel par­tito. Non a caso men­tre si met­tono in un angolo i con­trap­pesi isti­tu­zio­nali, si cavalca il web come stru­mento di demo­cra­zia diretta, si inde­bo­li­scono le rap­pre­sen­tanze di base, si orienta la mac­china elet­to­rale verso forme di unzione popo­lare. Si punta — dall’avvento del ber­lu­sco­ni­smo — a raf­for­zare il ruolo dell’uomo solo al comando. (A que­sto pro­po­sito dovrebbe essere con­tra­stata la ten­denza al lea­de­ri­smo esasperato).
Comun­que appli­care la Costi­tu­zione non signi­fica imbal­sa­marla ma pro­porre una riforma del bica­me­ra­li­smo e della legge elet­to­rale per una nuova orga­niz­za­zione dei poteri. Ini­ziando dal modello comu­nale, pos­si­bile labo­ra­to­rio di altre forme par­te­ci­pa­tive (e ambien­ta­li­ste), di espe­rienze sul campo per l’applicazione dell’idea dei beni comuni, lon­tani da vec­chie logi­che sta­ta­li­ste, nono­stante l’interpretazione dei mono­toni libe­ri­sti che dila­gano sul Cor­riere della Sera. Fino alla forma di governo nazio­nale, al rap­porto tra Legi­sla­tivo e Esecutivo.

9) Non si può met­tere tra paren­tesi o dimen­ti­care ciò che nel mondo con­tem­po­ra­neo tutto ingloba e resti­tui­sce: la comu­ni­ca­zione. Cosa diversa dall’informazione, dall’autonomia dei media dai poteri indu­striali e finan­ziari. La comu­ni­ca­zione è oggi mar­ke­ting poli­tico, nar­ra­zione di nuove lea­der­ship come dimo­strano gril­li­smo e M5S. Si tratta di stru­menti che la sini­stra poli­tica sa usare poco ma che per for­tuna i gio­vani dei movi­menti rie­scono a maneg­giare meglio (la maschera di Ano­ny­mous, i flash mob, le moda­lità della piazza).
Tut­ta­via il potere dei media in Ita­lia è ancora e soprat­tutto tele­vi­sivo, fin dai tempi della tv di Ber­na­bei per arri­vare a Ber­lu­sconi. Un par­tito padrone della tv, più o meno magna­nimo e plu­ra­li­sta. E ancora oggi assi­stiamo a una non-riforma, a una non-modernizzazione, ma sem­pli­ce­mente a una con­cen­tra­zione del potere in un’unica figura di deci­sore. Men­tre la stampa risponde a logi­che di gruppi indu­striali nazio­nali sem­pre più deboli e inde­bi­tati, sem­pre più dispo­sti a omag­giare il potere poli­tico, in una com­mi­stione spesso inestricabile.
Com’è pos­si­bile che oggi tutti sia come e peg­gio di sessant’anni fa?

10) La vicenda greca, che ha impe­gnato e ancora impe­gnerà a lungo tutti noi, ha chia­rito che non c’è — e non c’è mai stata — l’Europa pen­sata dai padri fon­da­tori come Altiero Spi­nelli. Oggi c’è un’Europa che viag­gia a diverse velo­cità, divisa tra Nord e Sud, che si regola sulle eco­no­mie dei paesi più forti. L’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una sua forza trai­nante? E’ la moneta che decide o è uno stru­mento della poli­tica che la determina?
Quindi la que­stione cen­trale è in una domanda: c’è vita a sini­stra? Sì, c’è, ed è un mondo. Però dopo viene tutto il resto. Chi dovrebbe farne parte? Quali pro­po­ste di governo dovrebbe avere? Che idea di futuro può pro­porre? Come deve orga­niz­zarsi? Ha biso­gno di un lea­der come nella sini­stra greca e spagnola?

Questo è solo l'inizio della riflessione che il manifesto intende ospitare.
E che dovrà essere ampia, aperta, veri­tiera, libera da vec­chi schemi e inges­sa­ture poli­ti­che. Vedremo dove appro­derà. Ma sono certa che potrà dare un senso a quel con­fronto ormai non più rin­via­bile per tutti coloro che hanno cre­duto e cre­dono in una società demo­cra­tica, diversa, attenta e impe­gnata sui diritti sociali e civili di milioni di persone.

Cam­biare si deve. Ma le espe­rienze greca e spa­gnola ci dicono soprat­tutto che si può.
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