«Il Senato approva una riforma ultra-verticistica e disciplinare. Nelle 15 deleghe rafforzati i poteri della presidenza del Consiglio. Le critiche dei sindacati». Saranno solo i sindacati e qualche gufo a protestare contro la sostituzione di un regime democratico con un regime feudale? Ma in cima non c'è Carlo Magno, c'è Attila.
Il manifesto, 5 agosto 2015
La riforma della pubblica amministrazione è stata approvata ieri in maniera definitiva dal Senato grazie alle opposizioni. Il governo Renzi è stato graziato da Forza Italia che ha votato contro il provvedimento, garantendo il numero legale. Se i voti a favore sono stati 145, 97 sono stati quelli contrari, senza astenuti. Se qualcuno avesse voluto fare male a Renzi – che ieri dal Giappone ha esultato a modo suo «abbracciando i gufi» via twitter – sarebbe bastato votare contro e l’esecutivo si sarebbe schiantato contro il muro del numero legale: 150 i voti necessari. Così non è stato e il parlamento ha dato carta bianca al governo di fare quello che gli pare con le 15 deleghe contenute in una legge composta da 23 articoli.
Dentro c’è di tutto: al governo è stata delegata la riscrittura del testo unico sul pubblico impiego che interverrà sulla «responsabilità» dei dipendenti pubblici, cioè dovrà rendere concreta la possibilità di condurre a termine le azioni disciplinari; modificherà il ruolo dei dirigenti vincolandoli ancora più strettamente alla politica, resteranno in carica quattro anni, più due di proroga, e dovranno accettare il demansionamento a funzionari, all’occorrenza. In caso contrario saranno licenziati. La legge rafforza oltre modo i poteri di intervento della presidenza del consiglio nell’ambito delle contese tra le amministrazioni centrali che riguardano la tutela paesaggistica e la salute. Sarà il presidente del consiglio a decidere, sentito il parere formale del consiglio dei ministri. Poteri rafforzati anche sulla riorganizzazione degli uffici dei ministeri sui quali Renzi, o chi per lui, potrà intervenire.
Nei decreti delegati, che saranno presentati da settembre, il governo potrà intervenire su una voce importante della ex-spending review voluta dall’ex commissario Carlo Cottarelli: la riduzione delle partecipate. La decisione di ridurle da «8 mila a mille» verrà presa nelle segrete stanze di palazzo Chigi. Se sarà presa. Le prefetture saranno riorganizzate, e non ce ne sarà più una per provincia. Nascerà l’ufficio territoriale unico dello Stato. Continua nel frattempo l’opera di riduzione delle camere di commercio vagheggiata sin dai tempi di Monti: saranno tagliate da 105 a 60. Confermata la cancellazione del Corpo forestale che sarà assorbito in un’altra polizia, si ritiene dai Carabinieri. Tra i molti dettagli-spot di una legge-lenzuolo c’è il wi-fi obbligatorio per gli uffici pubblici, scuole e biblioteche. Dopo la chiusura, diventeranno hot-spot per la cittadinanza; la possibilità di pagare via app multe fino a 50 euro; stop a 113, 118 e 115, previsto un unico numero per le emergenze, il 112. Introdotto la profilazione per ogni cittadino che avrà una carta digitale.
Se dal lato Pd si festeggia la «modernizzazione» praticata dalla riforma (Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci), a dir poco critici sono i sindacati del pubblico impiego. Il fuoco della loro critica resta l’assenza di ogni riferimento al contratto di lavoro nazionale, e quindi alla qualità e alla retribuzione dei dipendenti. In una nota congiunta Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil Fpl e Uil-Pa, la «riforma anti-gufi» di Renzi viene definita «illusoria». Non è con nuove norme che si cambierà la P.A. In compenso la cosiddetta «riforma Madia» (dal nome della ministra deputata) «riduce gli spazi di negoziazione e inasprisce i controlli di merito e compatibilità economico-finanziaria dei contratti» Non investe sulle professionalità, ma le disciplina e pensa, eventualmente, a punirle. «Il governo mantiene una Pa autoreferenziale — scrivono i segretari di categoria Dettori, Faverin, Torluccio e Turco — volutamente disorganizzata. Vogliamo il rinnovo del contratto subito».
Dal fronte politico delle opposizioni, Loredana De Petris (Sel) approfondisce la critica alla conferenza dei servizi e al «silenzio-assenso»: «Questa riforma sacrifica la terzietà della P.A., la trasforma in una piramide la sacrifica al potere politico. è l’esatto opposto di quello che bisognava fare».
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Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.
E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?
Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.
L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.
Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.
«Nella lunga intervista non abbiamo sentito menzionare i temi che a noi di Italia Nostra stanno più a cuore: la protezione del paesaggio, dell'arte e della cultura in città e in terraferma, la qualità dell'aria e dell'acqua, l'esodo dei cittadini e il proliferare di strutture alberghiere ed extra-alberghiere, la chiusura dei negozi di quartiere, l'eccesso dei plateatici concessi, la ressa di turisti nelle calli, sui ponti e sui mezzi di trasporto».
Italianostra-venezia.org, 4 agosto 2015 (m.p.r.)
Sul canale televisivo Televenezia (canali 19 e 71) è apparsa venerdì scorso 31 luglio una trasmissione di un'ora che consisteva in un'intervista al nuovo sindaco Luigi Brugnaro. Invitiamo i nostri lettori a darvi un'occhiata, per farsi un'idea sempre più precisa del carattere e delle idee del nuovo sindaco di Venezia. Brugnaro ha dichiarato al pubblico che la trasmissione diventerà una presenza fissa settimanale. Il sito di Televenezia annuncia che il programma andrà in onda ogni giovedì alle 21 e alle 23 e ogni venerdì alle 7.
Un mare di soldi bloccato. Fermo. Centoquattro miliardi da spendere subito. E di questi, oltre 87 col bollino del Sud. Destinati cioè a quel meridione d’Italia «a rischio di sottosviluppo permanente» e che cresce la metà della Grecia, ricorda lo Svimez. Com’è possibile? Colpa solo delle amministrazioni locali lente e incapaci, magari sin troppo propense ai «piagnistei » rimproverati da Renzi? In parte, certo. Ma la macchina mi-liardaria dei fondi, europei e nazionali, si è inceppata dalla testa. Burocrazia, ma anche e soprattutto politica.
L’analisi cruda dei numeri racconta un «piano Marshall» per il Mezzogiorno, evocato ieri dalla ministra dello Sviluppo Federica Guidi nell’intervista a Repubblica , che nei fatti e nei denari già esiste. Non solo. Si scopre che la metà del non speso, ben 50 miliardi, si riferisce addirittura al periodo 2007-2013. In questi nove anni l’Italia è riuscita a utilizzare appena il 46% delle risorse a disposizione, polverizzandole tra l’altro in un milione di progetti. Per la precisione, 907 mila 372. Dall’America’s Cup di Napoli (5,8 milioni) alla campagna “Voglio vivere così” della Toscana (13,4 milioni). Avanzano dunque 50 miliardi della vecchia programmazione (dei 91 totali iniziali). E se non si corre, una parte andrà restituita.
Chi sovraintende da Roma dunque i fondi Ue? Non certo l’Agenzia della coesione, diretta da Maria Ludovica Agrò, di fatto insediata da appena tre mesi (dopo un anno di gestazione). E ancora alle prese con le assunzioni. Dunque Palazzo Chigi. Il premier Renzi ha ereditato il buon lavoro impostato da Delrio, ma poi forse l’ha un po’ accantonato. Di qui la stasi. Certo, va detto che 40 dei 50 programmi di spesa dei nuovi fondi Ue sono stati già approvati da Bruxelles e il governo intende accelerare sui restanti 10. La partita per il 2014-2020 vale in tutto però 138 miliardi (fondi europei più nazionali, Fsc incluso). Una cifra davvero enorme. Da governare.
«Un Paese normale si può permettere di avere ancora il 50% di vecchi fondi da spendere a meno di sei mesi dalla scadenza, con la più grande area depressa d’Europa?», si chiede Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. La Uil tra l’altro calcola che dei 12 miliardi di fondi Ue in scadenza, almeno 2 sono a rischio concreto di restituzione. Si vedrà.
TOKYO . «Serve più consapevolezza e amor proprio, voler bene all’Italia significa smettere di spararle e sparlarle contro». Matteo Renzi la sua battaglia all’insegna dell’ottimismo taumaturgico contro i “gufi” che dall’Italia continuano a minacciare (Vietnam parlamentari) o a lamentare (crisi economica e sottosviluppo) la combatte ormai colpo su colpo anche dal Giappone. La seconda giornata a Tokyo che sarà segnata dalla visita all’imperatore Akihito e dall’incontro col premier Shinzo Abe - comincia con un post su Facebook quando in italia è ancora notte. Nessun riferimento esplicito a Roberto Saviano, al suo appello per il Sud in ginocchio, certo è che le parole del presidente del Consiglio risuonano come una risposta a 360 gradi: «Bisogna fare di tutto per guardarci con gli occhi di chi ci vuole bene, non di chi si lamenta soltanto». Poche ore prima, aveva rivolto proprio al Mezzogiorno l’invito a «rimboccarsi le maniche», con quel sonoro «basta piagnistei».
Roberto Saviano non lascia cadere il guanto di sfida, benché non rivolto direttamente a lui. E su Twitter rilancia: «Mi addolora che raccontare la tragica situazione del Sud Italia sia così facilmente definito piagnisteo». Rincara via Facebook ricordando «il numero degli occupati al livello più basso dal 1977, la natalità ai minimi storici, i meridioncosì he fuggono ». Per concludere che «questo è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del ‘va tutto bene’». La polemica aperta con la lettera a Repubblica della scorsa settimana adesso si fa frontale, diretta. Dalla capitale nipponica Renzi non risponde. Quel che doveva dire lo ha detto e sul Mezzogiorno, ricordano da Palazzo Chigi, è stata convocata un’apposita direzione del Pd venerdì. Sarà in quell’occasione che il premier dirà la sua. «Ha ragione Saviano e torto Renzi, c’è un Sud che sta morendo» attacca Nichi Vendola. Bene la direzione «ma dopo le parole l’azione» dice dalla sinistra pd Roberto Speranza. La giornata del presidente del Consiglio a Tokyo era cominciata con una lecture ai giovani dell’Universitá delle Belle arti: lotta al terrorismo, cultura e citazione ad hoc di Leonardo (“Tristo è quel discepol che non sorpassa il suo maestro”) per concludere che certo «non è semplice fare meglio di chi ci ha preceduti, ma in politica in alcuni casi si può far tesoro degli errori del passato». E ogni riferimento personale (e a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi) è lasciato cadere lì, con un sorriso ammiccante. Poi pranzo con la business community di Tokyo e la visita privata con la moglie Agnese e la figlia Ester all’imperatore Akihito. Il bilaterale serale nella residenza Kantei col premier Abe spalanca tra l’altro le porte agli investimenti Finmeccanica nel prolifico mercato Giapponese. «Ti porterò a Napoli a mangiare la pizza» dice a cena Renzi al collega, che regala un kimono rosa alla piccola dell’ospite.
È tardo pomeriggio. Coquelles è un piccolo borgo che sorge tra i campi profughi, il porto di Calais e l’entrata dell’Eutotunnel. La gente non protesta. Assiste, seria e preoccupata, a quella che è diventata ormai una caccia all’uomo. La luce, a queste latitudini, d’estate è ancora forte. Ma tra qualche ora calerà il sole e la battaglia ricomincerà. Resistenza passiva, con improvvise fughe verso le reti metalliche alte dieci metri e sormontate da filo spinato. Alcuni tratti sono stati elettrificati. Chi li tocca rischia di morire. La scena si ripete da settimane. Ma è negli ultimi quattro giorni che la grande fuga verso l’Inghilterra ha assunto le forme di una guerriglia. Londra e Parigi hanno deciso la linea dura. Tolleranza zero nei confronti di chi cerca di passare clandestinamente le frontiere e per chi ospita uomini e donne senza documenti in regola. Ci hanno provato in 1700 domenica, 1200 sabato, 700 venerdì, 800 il giorno prima.
I “flic”, i poliziotti in tenuta antisommossa, li attendono ogni sera. «Con il buio facciamo le prime incursioni », racconta un agente che si riposa attorno ad un furgone assieme ai colleghi. «Servono a dissuadere i preparativi. Andiamo nei campi, controlliamo i documenti, li invitiamo a partire. Sappiamo anche che è inutile. In fondo li capisco: non hanno molta scelta. Ma la legge è legge e noi dobbiamo farla rispettare ». La legge, nella guerra contro gli immigrati, significa usare ogni strumento per impedire l’assalto al tunnel della Manica. Accade ogni sera. Anche adesso.
Gracchia la radio, c’è ordine di muoversi. L’atmosfera diventa improvvisamente tesa. I poliziotti si vestono. Indossano tute con le protezioni. Niente caschi, ci si muove più agili. Basta il manganello e una bomboletta spray. Di quelli urticanti. Sfilano lungo la rete di metallo che divide la foresta dall’ingresso verso il porto e la ferrovia. I migranti spuntano nel buio. Restano a distanza. Intonano canzoni: dolci melodie piene di tristezza. Più tardi, tra i feriti, ci diranno che raccontano storie di viaggi e di sogni infranti. Cantano e lanciano slogan. Poi, a turno, scandiscono dieci nomi: sono quelli degli uomini, delle donne e dei bambini rimasti uccisi dall’inizio dell’anno. Travolti dai camion nei quali cercavano di salire, dai treni merci su cui erano saltati in corsa, dalle macchine sull’autostrada A16 che li hanno falciati come fantasmi apparsi dal nulla.
Di colpo, un urlo. Per farsi coraggio: a centinaia salgono la collina di terra e ghiaia, scivolano, si aggrappano con le mani, si spingono, si calpestano. Qualcuno cade, rotola in basso, si rialza, fa leva con le braccia, urla ancora per lo sforzo. Molti hanno saltato la rete, alcuni la sollevano per far passare i più deboli: i vecchi, le donne, i bambini. Dall’altra parte i poliziotti attendono l’ondata. Nervosi, tesi, il manganello in mano, la bomboletta nell’altra.
Sembra di assistere a una partita di rugby: gli immigrati, snelli e veloci, che corrono a serpentina e con la forza d’urto sfondano il cordone di poliziotti. Gli agenti li bloccano, li placcano, finiscono a terra con le loro prede accecate dai gas urticanti. Solo una decina viene fermata. Gli altri si sparpagliano tra le rotaie, montano al volo sui treni, spariscono dentro e sotto i camion, si perdono in quel buco nero che vedo- no davanti a loro come una salvezza. Gli agenti sparano i gas lacrimogeni, la folla che si accanisce sulla rete arretra, si allontana, scivola sulla collina di ghiaia travolgendo chi c’è dietro.
Ci sono migliaia di camion fermi da 12 ore. Una fila di 5 chilometri. Le operazioni di imbarco sono lunghe e complesse. Le telecamere a circuito chiuso, i sensori di calore, gli scanner, i cani: non passa uno spillo. Un gruppo di 50 immigrati blocca la grande arteria. Torna a cantare, a urlare i motivi della loro battaglia. Sono stanchi, stravolti, ma non demordono. All’alba arriva l’ordine di caricare. Sono presenti anche giovani dei centri sociali. La scaramuccia è veloce ma violenta. Un agente sanguina al capo, è stato colpito da un sasso. Un immigrato, un sudanese, viene fermato. Gli altri, un centinaio, sono già nel tunnel. Niente treno. Questa volta lo attraversano a piedi: 39 chilometri. Troppi. Li fermano, qualcuno si nasconde in qualche anfratto. Viene scoperto. Riportato indietro. Il traffico è interrotto. Ci vorrà l’intera giornata per smaltire la fila dei camion in attesa. Domani si ricomincia.
«Se Renzi è un male assoluto con le sue politiche costituzionali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giustizia, accennare ogni volta a un dissenso riassorbibile significa aiutarlo a coprire l’intero spazio politico».
Il manifesto, 4 agosto 2015.
Si tratta di colpi di fumo per coprire il disastro del governo. Dopo la chiacchiera, vengono i fatti a confutare la favola bella della comunicazione che raccontava di miracoli a colpi di tweet. Le cifre smontano l’effetto narcotizzante dei media e parlano di un sottosviluppo permanente per il sud. Di intere generazioni perdute. Di lavoro che non c’è. Di grandi città del silenzio e di giunte del malaffare.
Il fiasco colossale del governo non può essere occultato con il ronzio della narrazione che promette nuovi fantastici tagli di tasse. La corte dei conti ha appena svelato che il trucco di Renzi è semplice: il governo taglia le imposte per farsi bello e poi i comuni sono costretti a spremere la capacità fiscale dei territori. In tre anni la tassazione locale è cresciuta del 22 per cento.
Stretto nella morsa del disastro annunciato, Renzi cerca di sopravvivere inventando nemici, utili per conservare il sostegno dei poteri influenti. A suggerire al premier cattivi pensieri non è certo la minoranza Pd.
Con i suoi piccoli graffi, la minoranza è molto utile al gioco del partito della nazione. Proprio i suoi colpi sparati a salve, confermano che nel Pd ci può stare di tutto. Il Pd è governo e opposizione al tempo stesso.
E proprio questo balletto ostacola la costruzione di un’alternativa politica, che è un bene per il sistema.
La trasparenza del conflitto governo-opposizione viene ostacolata dai distinguo infiniti della minoranza, che con affondi privi di conseguenze aggrava il malessere del quadro politico.
Se Renzi è un male assoluto con le sue politiche costituzionali, con le sue scelte sulla scuola, il lavoro, la sanità, l’informazione, la giustizia, accennare ogni volta a un dissenso riassorbibile significa aiutarlo a coprire l’intero spazio politico. Il partito della nazione non è uno spettro indefinito, è quella pratica informe che esiste già e che vede sotto lo stesso tetto convivere idee in apparenza inconciliabili.
Per cogliere il destino di Renzi non è nel conflitto interno al suo partito che occorre guardare. Un leader che ha conquistato lo scettro grazie al soccorso di potenze esterne, può essere disarcionato solo dallo sgretolamento delle centrali economico-mediatiche che l’hanno foraggiato. Per tenere il nulla osta di quel mondo Renzi aggredisce il sindacato. Cosa si muove nei piani alti del potere? Si nota Squinzi che esulta per i tagli alla sanità pubblica e che quindi brinda per il lucro che si prospetta per le imprese private di assicurazione. E però qualche timido segnale di insofferenza si coglie.
Sul Corriere della Sera il giurista Sabino Cassese paragona il guascone Renzi a un attore comico francese, Jacques Tati. Più che il cineasta d’oltralpe, che recuperava il cinema muto di Keaton e non sprigionava un tratto verbale ossessivo, è l’atmosfera di una certa Toscana minore che riecheggia in Renzi. Il premier è un misto tra la comicità pop, senza acuti e nessi creativi pungenti, di Panariello e il gusto infinito per il gioco, per il rischio, per l’azzardo di Pupo.
Ma, a parte le ricadute estetiche dell’accostamento del presidente del consiglio a un comico, il problema che Cassese segnala potrebbe spingere una parte delle élite a tentare di sostituire l’esuberanza del comunicatore con la sobrietà di uno statista.
La riproposizione di un pendolo antico tra il tecnico e il comico non pare però avere molte chance. E poi Renzi è di sicuro un comico, come indica Cassese, ma con un programma che è simile a quello dei tecnici. Per questo è da escludere una sua rimozione ordinata dalle cancellerie europee e ratificata dai vertici delle istituzioni italiane.
Un capitalismo italiano ancora più debole, con i suoi beni scarsi messi in vendita, accresce gli appetiti di appropriazione coltivati dai mercati internazionali. A certe aree speculative e imprese corsare, un sistema economico in affanno stuzzica mire espansive, perché il declino consente di controllare i residui pezzi pregiati del made in Italy con un tariffario di acquisizione molto a buon mercato.
La deposizione di Renzi, in questo scenario, non pare propedeutica al ritorno in cattedra di personalità delle aree tecniche, di spezzoni responsabili delle istituzioni. Lo spegnimento del renzismo può coincidere solo con l’autodissoluzione di una maggioranza imbelle dinanzi alla crisi che si approfondisce e spaventa la coalizione sociale di supporto.
Per questo Renzi attacca il sindacato che gli ricorda i dati impietosi sulla disoccupazione di lungo termine. Costruisce un nemico e spera che i signori dei media, del denaro, della finanza sappiano distinguere i loro complici nelle istituzioni, ed essere loro grati. All’impresa del resto il governo ha tagliato di ben 10 punti le tasse sui profitti, e inoltre ha destinato ad essa decontribuzioni ghiotte in caso di assunzione a tempo indeterminato (almeno triennale).
E però Renzi non si sente tranquillo giocando a biliardino. Avverte che il disagio sociale potrebbe costruire dal basso delle alternative politiche imprevedibili, capaci anche di espugnare le fortezze edificate per lui da media e capitale.
Alex Zanotelli lancia un allarme e propone un appello a un'iniziativa: «La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo».
Comune.info, 4 agosto 2015
La guerra è alle porte. Non arriva con l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis ma con quelle della Nato. E si fa largo sul fronte ucraino come su quello mediterraneo. Così le forze di reazione rapida passano da tredici a quarantamila uomini. Si prepara l'”inevitabile” intervento in Libia e s’intensifica l’utilizzo dei droni con la scusa di combattere i trafficanti di esseri umani. A fine settembre, poi, comincia la più grande esercitazione militare dal tempo della caduta del muro di Berlino. Coinvolgerà 35 mila soldati Nato, 200 aerei e 50 navi da guerra. Sarà pilotata dalla nuova base di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco. Come credente nel Dio della vita, scrive Alex Zanotelli, non posso accettare un sistema di morte pagato da miliardi di persone impoverite. Come seguace di Gesù di Nazareth non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato. A settembre, durante l’esercitazione, dobbiamo farci sentire
Siamo di nuovo sul piede di guerra anche in Europa, sia sul fronte Ucraina come nel Mediterraneo. E questo grazie alla Nato. È stata la Nato a far precipitare lo scontro con la Russia perché vuole che l’Ucraina entri nell’Alleanza al fine di poter sparare i suoi missili direttamente su Mosca. La Russia ha reagito ed ecco la drammatica guerra civile di quel paese che rischia di diventare guerra atomica. “Ho le armi nucleari,” ha detto Putin. E infatti ha piazzato 50 missili con testate nucleari sui confini baltici della Ue, puntandoli verso la Svezia per dissuaderla a entrare nella Nato.
Vista la grave crisi, è stato convocato a Bruxelles il vertice NATO con la presenza del nuovo segretario Usa alla difesa, Ashton Carter. All’ordine del giorno: potenziare la forza di reazione rapida della Nato portandola da tredicimila soldati a quarantamila uomini (il triplo!), piazzare 5 mila soldati (a rotazione) nei Paesi Baltici e in Polonia ed infine spingere tutti i paesi NATO a spendere il 2 per cento del Pil nella Difesa.
Ma ora si apre anche il Fronte Sud: il Mediterraneo. Il 22 giugno la UE ha dato il via libera (senza il benestare dell’Onu!) alla prima fase della missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, due droni e tre elicotteri e un “migliaio” di soldati per tentare di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia. L’uso dei droni militari (a Sigonella operano da anni i droni Global Hawk) si intensificherà con questa missione UE “contro i trafficanti di esseri umani”, grimaldello di un’operazione sotto regia Nato per un intervento militare in Libia. Sia il governo di Tobruk come quello di Tripoli hanno risposto che reagiranno contro questo attacco.
È in questo pesante scenario di guerra che si terrà in Europa, dal 28 settembre al 6 novembre, la più grande esercitazione militare dalla caduta del muro di Berlino che coinvolgerà 35.000 soldati NATO, 200 aerei, 50 navi da guerra.Questa gigantesca esercitazione “Trident Juncture 2015”, sarà pilotata dalla nuova base NATO di Lago Patria a Napoli. Giochiamo in casa e giochiamo con il fuoco.
Una domanda sorge spontanea: ma cosa ci stiamo a fare ancora nella Nato? Ma a che serve, se non a portarci in sempre nuove guerre? La Nato è sorta come alleanza difensiva degli Usa e dei paesi europei contro l’Urss e i paesi comunisti del Patto di Varsavia. Il Patto di Varsavia e i paesi comunisti non ci sono più, ma la Nato continua ad esserci.
La Nato infatti avrebbe dovuto cessare con la caduta del muro di Berlino (1989). Non solo c’è, ma da alleanza militare difensiva è diventata offensiva per difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque essi siano minacciati. Questo è avvenuto nel vertice di Washington (1999). Mentre nel vertice di Praga (2009) la Nato ha fatto un altro salto: ha sposato la strategia della ‘guerra preventiva. La Nato è una potenza militare che nessun avversario può eguagliare, basata anche sulle armi nucleari, che la “Nato deve mantenere finchè vi saranno nel mondo tali armi”, ha detto l’ex-segretario generale Nato Anders Rasmussen. E per evitare attacchi terroristici e missilistici, è stato annunziato al Vertice di Lisbona (2009) il progetto di uno Scudo antimissile. “La sola esistenza della Nato come alleanza cui aderiscono i paesi europei – ci rammenta giustamente il fisico Angelo Baracca – implica un’ipoteca pesantissima che vanificherebbe la migliore costituzione europea che si potesse concepire sia per gli aspetti della difesa, ma anche della democrazia effettiva e della libertà”.
Infatti sulla spinta della Nato, l’Italia in questi due decenni, ha partecipato alle guerre del Golfo (1991), Somalia (1994-’95), Bosnia-Herzegovina (1996-99), Congo(1996-99), Jugoslavia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011). Milioni di morti! Solo nella guerra in Congo, quattro milioni di morti. E miliardi di dollari per fare queste guerre. Solo la guerra in Iraq (un milione di morti!) ci è costata almeno tremila miliardi di dollari, secondo le stime di J. Stiglitz (premio Nobel per l’Economia), fornite nel suo volume The Trillion Dollars War.
Guerre di tutti i tipi, da quella ‘umanitaria’ a quella contro il ‘terrorismo’, ma il cui unico scopo è il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, per permettere al 20 per cento del mondo di continuare a vivere da nababbi, consumando il 90 per cento delle risorse del pianeta. “Lo stile di vita del popolo americano – aveva detto Bush senior nel 1991 – non è negoziabile.” E se non è negoziabile, allora non rimane altro che armarsi fino ai denti. Soprattutto con la Bomba Atomica, la Regina che domina questo immenso arsenale di morte che serve a proteggere i privilegi e lo stile di vita di pochi a dispetto dei troppo impoveriti.
Gli Usa/Nato hanno l’arsenale più potente e affidabile al mondo con ottomila testate nucleari, di cui circa duecento dislocate in Europa. Settanta bombe atomiche sono in Italia: una cinquantina a Ghedi (Brescia) e una trentina ad Aviano (Pordenone). E questo in un Paese che ha detto, con un Referendum, no al nucleare civile! La Nato, sempre sotto comando Usa, resterà “un’alleanza nucleare – ha ribadito Obama al vertice di Lisbona – e gli Usa manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa dei loro alleati”.
E tutto questo ci costa caro. “Il bilancio civile della Nato per il mantenimento del quartiere generale di Bruxelles – scrive M. Dinucci – ammonta a circa mezzo miliardo di dollari all’anno, di cui l’80 per cento viene pagato dagli alleati. Il bilancio militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a circa un miliardo di dollari l’anno, di cui circa l’80 per cento è pagato dagli alleati. Il budget militare della Nato per il mantenimento dei quartieri generali subordinati ammonta a quasi due miliardi di dollari l’anno, pagati per il 75 per cento dagli europei.”
Secondo i dati aggiornati al 2011, le “spese per la difesa dei 28 stati membri della Nato ammontano a 1.038 miliardi di dollari l’anno, una cifra equivalente a circa il 60 per cento della spesa mondiale per le armi.”
E l’Italia gioca un ruolo cruciale per la Nato: siamo un paese chiave nello scacchiere militare dell’Alleanza Atlantica. A Napoli è stato da poco inaugurata una sede NATO a Lago Patria con 1.500 militari. A Sigonella (Catania) entrerà in funzione il sistema Ags definito da Manlio Dinucci “il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico, non in difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella medio-orientale.” Per di più, nel 2016, Sigonella diventerà la capitale mondiale dei droni. E per pilotare i droni, entrerà in funzione nella vicina Niscemi, il sistema MUOS di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione. Niscemi diventerà così la quarta capitale mondiale delle comunicazioni militari.
Non possiamo accettare una tale militarizzazione del nostro territorio, né tantomeno possiamo tollerare, a livello morale, la guerra con i droni. “Questa guerra con i droni porta gli Usa in una pericolosa china morale”- scrive Jim Rice, direttore della rivista ecumenica Usa Sojourners. C’è solo un nome per tali uccisioni con i droni, sono veri e propri omicidi, non giustificati né moralmente né legalmente.
E sempre in questo contesto, il governo italiano ha “accettato” sul nostro territorio anche Africom, il supremo comando americano per l’Africa con due basi: una a Vicenza per le forze aeree e l’altra a Napoli per le forze navali. Non possiamo accettare che il nostro paese ospiti qu<ello che nessun paese africano ha accettato di ospitare. Non è questa la politica estera che l’Italia deve intrattenere con un continente crocifisso come l’Africa.
Da credente e da seguace di Gesù di Nazareth, non posso accettare un mondo così assurdo: un sistema economico-finanziario che permette a pochi di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame e questo grazie a una NATO che spende oltre mille miliardi di dollari l’anno in armi e soprattutto con arsenali ripieni di spaventose armi atomiche. “La pace e la giustizia procedono insieme – diceva, negli anni della Guerra Fredda, l’arcivescovo di Seattle, R. Hunthausen. – Sulla strada che perseguiamo attualmente la nostra politica economica verso gli altri Paesi, ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe di più di abbandonare i nostri strumenti di terrore globale. Significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo.”
Come credente nel Dio della vita, non posso accettare un Sistema di morte come il nostro pagato da miliardi di impoveriti, milioni di morti di fame oltre che da milioni e milioni di morti per le guerre che facciamo. E come seguace di Gesù di Nazareth, che ci ha insegnato la via della nonviolenza attiva, non posso accettare che il mio paese faccia parte della Nato, una realtà che doveva già essere scomparsa con la caduta del Muro di Berlino e che invece continua a forzarci ad armarci per sempre nuove guerre ‘ovunque i nostri interessi vitali’ siano minacciati.
Lo aveva già capito Giuseppe Dossetti quando, nel 1948, votò in Parlamento contro l’adesione alla NATO, mentre tutta la DC era schierata per il Sì. Lo fece in ossequio alla sua coscienza e al Vangelo. E’ quanto tocca a noi fare oggi, se vogliamo salvarci da questa follia collettiva. “La guerra è una follia – ha gridato papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia – Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta a’pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…..”
E allora mobilitiamoci tutti, credenti e non, uniamoci al di là di ideologie o credi, contro questa gigantesca esercitazione militare Nato “Trident Juncture 2015” che si terrà in autunno.
Lo chiedo da Napoli, il centro comando di questa operazione, insieme al comitato napoletano “Pace e Disarmo”.
Perché non pensare a una manifestazione nazionale a Napoli o altrove, promossa da tutte le realtà del movimento per la pace, dalla Rete della pace come dal Tavolo della Pace, dai No Muos come dai No Nato? Tutti insieme perché vinca la vita!
Cambiare il mondo non è facile. «La sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria”. In breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe».
Prima le persone online, 31 agosto 2015
«Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni».
«La Repubblica, 3 agosto 2015
IL PREMIER Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle “mediazioni”. Diffdente verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l’economia italiana.
Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”. Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente.
Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media — vecchi e nuovi.
D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto” in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post ).
Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. «Entro giovedì». E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.
Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.
«
Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi».
La Repubblica, 2 agosto 2015.
Questa ragione realistica è stata superata dall’appartenenza dei nostri Paesi all’Europa, che ci ha abituati a pensare non più in termini di eserciti e di difesa da nemici (e quindi di una pace armata), ma in termini di cooperazione fra diversi e quindi di una pace vera, non armata (lasciando però alla Nato e agli Stati Uniti l’onere della nostra difesa). Ma in aggiunta a questa ragione realistica ve n’è un’altra, etica, che Serra coglie molto bene: «Per una società narcisista e liquida come la nostra ripensare a un periodo (obbligatorio e uguale per tutti) nel quale si mettono da parte le proprie esigenze e ci si dedica agli altri sarebbe rivoluzionario. Le istanze pacifiste e militariste, non solo rispettabili ma anche decisive nella cultura della sinistra libertaria, sarebbero ampiamente garantite dalla scelta tra leva civile e leva militare». È così scandaloso avanzare questa proposta?
In questi giorni si è fatto largo uso dell’argomento “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Molto più pertinente sarebbe applicare lo stesso schema argomentativo alla cultura del servizio civile e della solidarietà di cittadinanza. Il fatto è che queste due prerogative stanno su opposte sponde poiché una propone che sia etico ritirarsi dall’impegno verso la società e concentrarsi sui propri interessi, mentre l’altra suggerisce che sia etico dare più impegno.
Non c’è alcun bisogno di rispolverare la dottrina dello stato etico per dare sostegno a questa idea come fa la destra. È cruciale invece rifarsi alla più convincente idea democratica di reciprocità tra liberi e uguali, poiché dare servizio alla nostra comunità di cittadini è una scuola di sentimenti pubblici che ci abitua a pensare in termini di autonomia vissuta, non solo proclamata dai diritti e scritta nei codici. Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi.
« manifesto, 2 agosto 2015
Centinaia di combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sono rimasti uccisi e centinaia feriti in una settimana di raid dell’aviazione turca contro le basi dei ribelli. Colpiti anche villaggi e la popolazione kurda. Tra i feriti ci sarebbe anche Nurettin Demirtas, fratello del leader della formazione curda Partito democratico del popolo (Hdp) Selahattin Demirtas — che ha avuto una straordinaria affermazione alle ultime elezioni turche con il suo 13%, impedendo così di fatto la maggioranza parlamentare all’Akp di Erdogan e per questo messo in questi giorni sotto accusa, lui e il suo partito.
Sta avvenendo, sotto i nostri occhi, una carneficina. Che ci riguarda direttamente. Infatti l’offensiva militare — ironia della sorte l’agenzia parla di una inesistente offensiva contro l’Isis — è scattata dopo il vertice della Nato di Bruxelles di nemmeno una settimana fa, di fatto convocato da Ankara per avere partecipazione e avallo alla sua nuova guerra contro i kurdi, fatta con la scusa di attaccare anche, per la prima volta le postazioni siriane dello Stato islamico. La partecipazione atlantica piena non c’è, ma l’avvallo sì e, soprattuto, c’è quello degli Stati uniti.
Ora dunque con l’applauso dell’Alleanza atlantica i cacciabombardieri turchi fanno a pezzi i combattenti della sinistra turca, vale a dire i militanti che quasi da soli finora combattono con le armi in pugno in Siria e in Turchia contro le milizie jihadiste dell’Isis. Milizie invece sostenute e finanziate negli ultimi tre anni proprio da Ankara che ha addestrato tutte le formazioni ribelli siriane — compresa Al Nusra, vale a dire Al Qarda, nelle sue basi a partire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occidentali e come ha denunciato proprio la sinistra turca.
È stato scritto che la svolta «ambigua» di Erdogan sarebbe derivata dall’impossibilità per Washington di sopportare ancora per troppo tempo che un proprio alleato potesse mostrare simpatie per un gruppo terrorista come l’Isis che gli americani ora sono impegnati a distruggere. Quando mai? Il fatto è che la Turchia, alla frontiera turbolenta della Siria in guerra, ha addestrato, finanziato e sostenuto i jihadisti proprio su mandato della coalizione degli Amici della Siria, guidata proprio dagli Stati uniti e dall’Arabia saudita insieme alle petromonarchie mediorientali.
Così adesso anche la Casa bianca (dopo l’esperienza sanguinosa di Bengasi dell’11 settembre 2012) corre ai ripari e bombarda da mesi gli stessi jihadisti che, come in Libia, ha usato per destabilizzare l’area. E questo grazie ad Ankara che mette a disposizione la sua base di Incirlik, mentre gli americani chiudono tutti e due gli occhi sul massacro della sinistra kurda.
Ecco dunque il nuovo ruolo dell’islamista moderato Erdogan, il sultano atlantico. Altro che «distratto» membro della Nato.
Cinque anni fa, sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax ottomana», dalla Bosnia a Gaza„ dall’Azerbaijan alla nuova Libia in funzione anti-Iran. Ora invece, per accrditarsi con l’Occidente, gioca la carta della «guerra ottomana». Con una spina nel fianco però, che deve proprio levarsi: il popolo kurdo. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale — nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria — hanno attivato sia il protagonismo jihadista, prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica, e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria, Turchia e Iraq (pieno di petrolio e nemico giurato del Pkk).
Fermare con le armi il contagio indipendentista e laico della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione politico-sociale del Rojava in Siria) è l’obiettivo di Erdogan. Ma anche della «nostra» Alleanza atlantica che applaude ogni volta che un F16 decolla per bombardare. L’Italia atlantica, che si prepara ad una nuova avventura militare in Libia, di Pkk del resto se ne intende: ha consegnato alle «alleate» galere turche il leader Ocalan venuto da noi per trattare la pace.
Sotto l'accusa della magistratura contabile «le gravi deformazioni provocate da una visione mercantilista dell’economia ispirata dal mantra della competitività, della riduzione dei costi e della compressione salariale».
Il manifesto, 2 agosto 2015
di Roberto Ciccarelli
Austerità. La relazione sulla finanza locale della magistratura contabile: «Gli 80 euro peggiorano il fabbisogno pubblico». L’abolizione dell’Imu? «Danneggia il federalismo fiscale». Le tasse comunali cresciute di otto miliardi di euro dal 2010 a causa di 40 miliardi di tagli agli enti locali, 113 euro a testa in più all’anno. Promemoria in attesa del pacchetto "taglia-tasse" annunciato dal governo
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Un pasticcio gigantesco che ha distrutto uno dei principi cardine del federalismo fiscale: la corrispondenza tra contribuenti e soggetti beneficiari dei servizi resi. Vogliamo parlare del taglio dell’Irap? L’imposta sulle imprese su base regionale tagliata di 1,9 miliardi da Renzi per ridurre il «cuneo fiscale» ha avuto «riflessi negativi» sulle funzioni degli enti locali. Quanto al «bonus Irpef» degli 80 euro per i lavoratori dipendenti con redditi tra 8 e 26 mila euro è costato 4,5 miliardi di euro e ha «peggiorato il fabbisogno del settore pubblico».
La relazione sugli andamenti della finanza territoriale, resa nota il 27 luglio dalla Corte dei Conti, non è propriamente una lettura estiva, ma permette di comprendere i danni provocati dall’uso populista dei conti pubblici del governo Renzi. Senza contare che quella della magistratura contabile è la più seria requisitoria contro i tagli voluti dai governi dell’austerità dal Berlusconi del 2008 al Renzi della legge di stabilità del 2015.
Alla base non c’è solo la richiesta del rispetto delle funzione costituzionale nella gestione della spesa pubblica, regolarmente infranta da tutti i governi per rispettare i diktat della Troika, ma le gravi deformazioni provocate da una visione mercantilista dell’economia ispirata dal mantra della competitività, della riduzione dei costi e della compressione salariale.
Tutti elementi che hanno provocato un boom inaudito della tassazione, l’aumento del debito pubblico e il blocco della tanto agognata «competitività». L’austerità è un circolo vizioso, soprattutto senza una crescita capace di aumentare l’occupazione e investimenti mancanti.
I tagli agli enti locali dal 2008 a oggi ammontano a quasi 40 miliardi, risultato della riduzione dei trasferimenti statali di 22 miliardi e di un calo dei finanziamenti per la sanità di 17,5 miliardi. «Per conservare l’equilibrio in risposta alle severe misure correttive del governo» i Comuni — colpiti da tagli per quasi 8 miliardi tra il 2010 e il 2014 — hanno risposto con «aumenti molto accentuati» delle tasse locali.
Oggi il peso del fisco è «ai limiti della compatibilità con le capacità fiscali locali» denuncia la magistratura contabile. La tassazione comunale è infatti balzata dai 505,5 euro a testa del 2011 ai 618,4 euro dello scorso anno. Una pressione che tocca i livelli più alti nei Comuni con più di 250mila abitanti, arrivando a 881,94 euro pro capite.
Se i Comuni hanno risposto ai tagli con una revisione al rialzo delle aliquote Ici-Imu — gli «aumenti generalizzati hanno visto gli incassi passare dai 9,6 miliardi di euro del Ici 2011 ai 15,3 miliardi del 2014 — le Regioni hanno puntato sul taglio degli investimenti e dei servizi con «una compressione delle funzioni extra-sanitarie». Tra il 2009 e il 2015 il taglio al finanziamento del fabbisogno della sanità è stato del 17,5 miliardi.
La Corte dei conti descrive le politiche del rigore fiscale nei termini di un «meccanismo distorsivo» che impone agli enti locali di scaricare i tagli imposti dal l’Europa agli enti locali sul contribuente. L’equivalenza è nettissima: l’aumento delle tasse è dovuto ai tagli alle risorse statali dal 2011. A questo si aggiunge il ritardo nella «ricomposizione delle fonti di finanziamento della spesa» per garantire servizi pubblici efficienti ed economici. Questo significa aziende dei trasporti locali in deficit, come la privatizzazione delle municipalizzate.
E questo nonostante l’incremento consistente delle entrate (+15,63% rispetto al 2013). In altre parole, la crisi di aziende come l’Atac a Roma, di cui tanto si parla in questi giorni, non è solo dovuta all’inefficienza organizzativa, ma a un «baco» nel sistema dei trasferimenti delle risorse. La vendita di pacchetti azionari, o la privatizzazione dei servizi pubblici, sono l’ultimo step che può chiudere un cerchio.
«Serve un piano straordinario di contrasto alle povertà, una vera epidemia per tante zone del Paese, che comprenda più fondi e più servizi» sostiene Antonio Satta — componente del direttivo dell’Anci –In questi anni abbiamo garantito servizi, nonostante un Patto di stabilità che ci ha trasformati in notai più che in amministratori e politici».
Per chi vuole leggerle, queste pagine costituiscono un ammonimento sulle conseguenze dei tagli che verranno, quelli alla Sanità (2,3 miliardi nel 2016) e a quelli alle tasse sulla prima casa (45 miliardi) nei prossimi tre anni. È in arrivo un’altra imbarcata di aumenti delle tasse sui cittadini. La crisi fiscale viene prodotta dai governi. I tagli li pagano i cittadini che, in più, sono obbligati a rinunciare ai servizi, alle cure e ad un trasporto locale efficiente.
E Renzi che dice? Ieri ha assicurato che i soldi «sottratti» ai Comuni per l’abolizione della Tasi/Imu «saranno restituiti integralmente». Magie contabili della finanza creativa.
L’abolizione della tassa sulla prima casa promessa urbi et orbi dal presidente del Consiglio Renzi varrà per 8 milioni di contribuenti, quelli delle due fasce di versamento più basse, circa 55 euro pro-capite, mentre per un milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà in media di circa 827 euro.
Lo sconto per 35.700 proprietari di case di lusso arriverà a circa 1.940 euro. Lo ha calcolato l’ufficio fisco e finanza pubblica della Cgi secondo il quale l’operazione «fornirà benefici molto limitati a chi ha già poco, cioè la maggioranza di lavoratori e pensionati, mentre saranno molto più cospicui per chi possiede proprietà di maggior valore».
Se per le persone a basso reddito i vantaggi saranno, a giudizio della Cgil, modesti, rilevanti saranno invece gli svantaggi: «le mancate entrate derivanti dall’abrogazione di Tasi e Imu — sostiene il segretario confederale Danilo Barbi — saranno coperte da tagli sui servizi normalmente fruiti da questi cittadini». Si parla dei tagli da oltre 2 miliardi di euro per il prossimo triennio alla Sanità: «un ulteriore impoverimento del servizio sanitario pubblico che ridurrà il diritto universale alla salute».
Per quanto riguarda la tassazione sulle imprese, nel 2016, le misure strutturali di riduzione fiscale dovrebbero raggiungere 10 miliardi annui, portando ad un’aliquota del 24% nel 2017. In questo pacchetto non bisogna tanto meno dimenticare la decontribuzione sui nuovi «contratti a tutele crescenti», previsti dal Jobs Act.
La Cgil stima una spesa effettiva di 5 miliardi in tre anni per la creazione complessiva di 200mila unità di lavoro nel settore privato.
Un’impresa vana, di fronte a una disoccupazione che resterà stabile tra il 12 e il 13% nei prossimi anni. La riduzione di Ires e Irap sulle imprese è «l’ennesimo provvedimento ‘a pioggia che prescinde, ad oggi, da investimenti, innovazione, produttività e maggiore occupazione» sostiene Barbi.
Per il 2018, Renzi ha annunciato la riduzione dell’Irpef. La radiografia del sindacato di Corso Italia ha calcolato un risparmio annuo per un reddito di 18mila euro di 970 euro; per uno di 35mila euro di 2.950; per uno di 150 mila di 11.800 euro. In pratica il Pd e Renzi agiscono come un Robin Hood alla rovescia: danno ai più ricchi ciò che hanno tolto ai più poveri, rovesciando ogni criterio di progressività della tassazione e, anzi, agevolando la legge principale della disuguaglianza contemporanea: la ricchezza premia sempre il vertice della piramide sociale. In basso «sgocciolano» sempre meno risorse.
L’analogia tra le politiche fiscali di Berlusconi e Tremonti e quelle di Renzi e del Pd non è una semplificazione di comodo. Per la Cgil si tratta della stessa politica: «Evoca una riforma dell’Irpef con due sole aliquote, non garantirebbe più la progressività del sistema tributario. Il risparmio fiscale sarà così tanto più ragguardevole, quanto maggiore è il reddito».
Non solo: sono politiche che non servono all’aumento dell’occupazione, che non sia quella «drogata» da incentivi che tutt’al più trasformano i contratti esistenti in quelli a «tutele crescenti». «Ciascuna di queste nuove misure fiscali non favorirà l’occupazione, e tanto meno stimolerà la crescita del Paese» conferma Barbi.
Il pacchetto «taglia-tasse» del governo prevederebbe una revisione della spesa pubblica complessiva di circa 26 miliardi. Una prospettiva che preoccupa il sindacato che propone un’altra strada: la creazione diretta di occupazione e investimenti pubblici che avrebbe un beneficio sul Pil quattro volte superiore rispetto ad un taglio generalizzato delle tasse.
Il Pais - La Repubblica, 2 agosto 2015
«Il sadico dispotismo dell’ideologia dominante». «La lettura morale di questa crisi». «L’abbraccio mortale del debito». Yanis Varoufakis accoglie El País nella sua casa al centro di Atene; la sua ormai celebre moto è parcheggiata all’angolo della strada, pronta a ripartire rombando alla fine dell’intervista. Visto da vicino, Varoufakis è amabile, attento e disinvolto. Offre al giornalista una tazzina di caffè preparato di fresco, e subito si capisce perché la sua lingua è considerata una delle più affilate d’Europa. Parlando a mitraglia, usa toni tra il solenne e il drammatico, con l’economia e la politica come generi letterari al servizio di un alibi: la Grecia epitome della crisi europea, e quest’ultima vista non come una fase transitoria, ma come uno stato tendente a perpetuarsi.
Alcuni giorni fa ha lasciato il ministero. Come è cambiata la sua vita quotidiana?
«I giornali pensano che io sia deluso per aver lasciato il governo. Di fatto però io non sono entrato in politica per far carriera, ma per cambiare le cose. E chi cerca di cambiarle paga un prezzo».
Quale?
«L’avversione, l’odio profondo dell’establishment. Chi entra in politica senza voler far carriera finisce per crearsi questo tipo di problemi ».
Intanto la Grecia continuerà a subire la tutela della Troika...
«Noi avevamo offerto all’Fmi, alla Bce e alla Commissione l’opportunità di tornare ad essere le istituzioni che erano in origine; ma hanno insistito per ripresentarsi come Troika. Ma l’ultimo accordo si basa sulla prosecuzione di una farsa, ma si tratta solo di procrastinare la crisi con nuovi
prestiti insostenibili, facendo finta di risolvere il problema. Ma si può ingannare la gente, si possono ingannare i mercati per qualche tempo, non all’infinito».
Cosa si aspetta nei prossimi mesi?
«L’accordo è programmato per fallire. E fallirà. Siamo sinceri: il ministro tedesco Wolfgang Schaeuble non è mai stato interessato a un’intesain grado di funzionare. Ha affermato categoricamente che il suo piano è ridisegnare l’eurozona: un piano che prevede l’esclusione della Grecia. Io lo considero come un gravissimo errore, ma Schaeuble pesa molto in Europa. Una delle maggiori mistificazioni di queste settimane è stata quella di presentare il patto tra il nostro governo e i creditori come un’alternativa al piano di Schaeuble. Non è così. L’accordo è parte del piano Schäuble».
La Grexit è ormai scontata?
«Speriamo di no. Ma mi aspetto molto rumore, e poi rinvii, mancato raggiungimento di obiettivi che di fatto sono irraggiungibili, e l’aggravamento della recessione, che finirà per tradursi in problemi politici. Allora si vedrà se l’Europa vuole davvero continuare a portare avanti il piano di Schäuble oppure no».
Schäuble ha suggerito di togliere poteri alla Commissione, e di applicare le regole con maggior durezza. Se sarà lui a vincere la Grecia è condannata?
«C’è un piano sul tavolo, ed è già avviato. Schaeuble vuole mettere da parte la Commissione e creare una sorta di super-commissario fiscale dotato dell’autorità di abbattere le prerogative nazionali, anche nei Paesi che non rientrano nel programma. Sarebbe un modo per assoggettarli tutti al programma. Il piano di Schaeuble è di imporre dovunque la Troika: a Madrid, a Roma, ma soprattutto a Parigi».
A Parigi?
«Parigi è il piatto forte. È la destinazione finale della troika. La Grexit servirà a incutere la paura necessaria a forzare il consenso di Madrid, di Roma e di Parigi».
Sacrificare la Grecia per cambiare la fisionomia dell’Europa?
«Sarà un atto dimostrativo: ecco cosa succede se non vi assoggettate ai diktat della Troika. Ciò che è accaduto in Grecia è senza alcun dubbio un colpo di Stato: l’asfissia di un Paese attraverso le restrizioni di liquidità, per negargli l’imprescindibile ristrutturazione del debito. A Bruxelles non c’è mai stato l’interesse di offrirci un patto reciprocamente vantaggioso. Le restrizioni di liquidità hanno gradualmente strangolato l’economia, gli aiuti promessi non arrivavano; c’era da far fronte a continui pagamenti a Fmi e Bce. La pressione è andata avanti finché siamo rimasti senza liquidità. Allora ci hanno imposto un ultimatum. Alla fine il risultato è uguale a quando si rovescia un governo, o lo si costringe a gettare la spugna ».
Quali gli effetti per l’Europa?
«Nessuno è libero quando anche una sola persona è ridotta in schiavitù: è il paradosso di Hegel. L’Europa dovrebbe stare molto attenta. Nessun Paese può prosperare, essere libero, difendere la sovranità e i suoi valori democratici quando un altro Stato membro è privato della prosperità, della sovranità e della democrazia».
Anche se è vero che la Grecia ha cambiato i termini del dibattito, in politica si devono ottenere dei risultati. I risultati la soddisfano?
«L’euro è nato 15 anni fa. È stato concepito male, come abbiamo scoperto nel 2008, dopo il tracollo della Lehman Brothers. Fin dal 2010 l’Europa ha un atteggiamento negazionista: l’Europa ufficiale ha fatto esattamente il contrario di quanto avrebbe dovuto fare. Un Paese piccolo come la Grecia, che rappresenta appena il 2% del Pil europeo, ha eletto un governo che ha messo in campo alcuni temi essenziali, cruciali. Dopo sei mesi di lotte siamo davanti a una grande sconfitta, abbiamo perso la battaglia. Ma vinciamo la guerra, perché abbiamo cambiato i termini del dibattito ».
Lei aveva un piano B: una moneta parallela, in caso di chiusura delle banche. Perché Tsipras non ha voluto premere quel pulsante?
«Il suo lavoro era quello di un premier. Il mio, nella mia qualità di ministro, era di mettere a punto i migliori strumenti per quando avremmo preso quella decisione. C’erano buoni argomenti per farlo, come c’erano per non premere quel pulsante».
Alessandra Longo intervista Paolo Gerimberti, ex presidente della Rai, a proposito della riforma della maggiore struttura per la formazione dell'opinione pubblica italiana. «Questa riforma non va, è solo una brutta fiction e lascia la lottizzazione». Come prima, peggio di prima.
LaRepubblica, 2 agosto 2015
Paolo Garimberti, attualmente presidente del consiglio di sorveglianza di Euronews, è stato presidente della Rai dal 2009 al 2012. Tre anni che non ricorda come esaltanti: «Ho trascorso il mio tempo ad evitare guai all’azienda. Ricordo come un incubo le ore passate nei consigli di amministrazione, uno alla settimana...». Garimberti è stato ascoltato dalla Commissione di Vigilanza: «Mi hanno chiesto cosa ne pensavo di un amministratore delegato scelto dal governo, come prevede la riforma. Ho risposto che è una cosa insana». C’era anche Gasparri. Era gonfio come un tacchino dalla gioia. Lo capisco. Al posto suo sarei un pallone aerostatico ».
Garimberti, la Rai diventerà mai la Bbc?
«Solo il nostro provincialismo ne fa un mito. La Bbc è messa malissimo, tra scandali sugli stipendi gonfiati dei manager, un conduttore pedofilo, qualità scadente dei servizi, penso alla diretta sulle elezioni inglesi. La Rai sa fare molto meglio».
Come giudica il disegno di legge passato al Senato?
«La peggior fiction che la Rai abbia mai prodotto su se stessa. Prima le promesse roboanti, del tipo “Faremo la Bbc” (senza contare che, appunto, la Bbc è un mito in frantumi), e poi, come nel gioco dell’oca, questo approdo inquietante, un nuovo Cda fatto con la Gasparri! Una decisione sorprendente».
La governance Rai: si cade sempre lì.
«Sempre e ancora la stessa governance costruita per favorire l’impossessamento della Rai da parte della politica. Mi fa sorridere l’idea del futuro Cda. A riforma passata ci saranno sette consiglieri: due spettano alla Camera, due al Senato, due al governo, uno all’Associazione dipendenti Rai. Norme fatte apposta per continuare a lottizzare ».
Ci sarà un ad potentissimo.
«Sui poteri dell’ad sono d’accordo. Un sistema di comunicazione come la Rai deve essere guidato da una persona con poteri adeguati altrimenti si diventa preda di conflitti politici continui».
Però negli altri Paesi la scelta dell’amministratore delegato non spetta al governo.
«In Francia hanno capito che non si può. Prima il presidente della televisione francese era nominato dal presidente della Repubblica e veniva percepito come un suo uomo. Adesso il sistema è cambiato. C’è una commissione indipendente che esamina i candidati e sceglie».
Mi sembra chiaro che la riforma in Parlamento, così com’è, non le piace proprio.
«Hanno partorito un Topolino e non affrontano i temi veri. Il primo dei quali è il perimetro della Rai. Ha troppi canali: 13. Considerando che le risorse sono quelle che sono, ne basterebbero 5: due generalisti, uno di sport, uno di cultura, uno di informazione 24 ore su 24».
E c’è la questione del canone.
«Il canone è ridicolo, uno dei più bassi d’Europa.E’ impopolare perché viene vissuto come una tassa a favore della Rai e non come il corrispettivo per poter usare il televisore. Nessun governo italiano ha osato porre seriamente il tema».
Se ci fosse un progetto di respiro per il futuro della Rai forse ci sarebbero meno pole- miche su tutto, anche sul canone.
«Fare un buon servizio pubblico è un dovere morale. Ho sperato in una Rai nuova, autonoma e indipendente dalla politica, in una Rai che si renda conto che ormai il mondo è fatto dalla Rete e la Rai sulla Rete non c’è. Mi ritrovo invece con il nuovo Cda eletto con la Gasparri e con le solite logiche di sempre. Se questo è il rottamatore io sono Gengis Khan» Che ricordi ha dei suoi tre anni di presidenza?
«Ricordi di lunghissimi consigli di amministrazione, uno alla settimana. Ore e ore a discutere di una singola fiction, per esempio il Barbarossa che voleva la Lega... La Rai è e sarà sempre paralizzata nel processo decisionale ».
Nonostante tutto, la Rai è pur sempre la più grande azienda culturale del Paese.
«Lo era sicuramente anni fa. Oggi purtroppo non è più così. Non ci si può nascondere dietro gli ascolti di Sanremo. La Rai oggi è un’azienda senz’anima, senza identità».
Ecco perché non è irragionevole la proposta di Tsipras e Varafoukis di ragionare sul debito finanziario della Germania nei confronti del mondo.
Ytali, 30 luglio 2015
di Susanna Böme-Kuby
La preoccupazione per una montante “sindrome antitedesca” si potrebbe lasciare agli stessi tedeschi che si sentono di nuovo vittime e messi alla gogna, e non solo dai “radicali di sinistra” nell’Europa meridionale: “Die Ungeliebten/ I non amati” titola Die Zeit. Il settimanale si sofferma sui modi in cui viene percepito lo stile autoritario tedesco nelle trattative con la Grecia, non affronta la sostanza del contenzioso, ma auspica infine di poter dare “alla predominanza economica dei tedeschi una nuova forma accettabile nella tradizione dell’umanesimo europeo”.
Mi pare utile invece mettere in luce le cause profonde del complesso squilibrio intereuropeo nel quale riemerge dall’attuale tragedia greca anche una “nuova questione tedesca”, rilevata dal New York Times. Lo strangolamento di fatto dell’economia greca costituisce una realtà che viene percepita in modi completamente diversi non solo tra nord e sud, ma anche all’interno delle nazioni stesse, e la miopia tedesca appare eclatante.
Marco D’Eramo ha rilevato la grande responsabilità delle élite tedesche, quella “di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti.” E chiama in causa il gioco delle parti “di una classe dominante che si dice ‘costretta’ a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica” che questa stessa classe ha plasmato per non perdere il consenso popolare.
Mi torna in mente a proposito la nota constatazione di Axel Springer, primo monopolista della stampa tedesco-occidentale e fondatore nel 1947 del quotidiano Bild: “Alla fine della guerra ho capito che c’era una cosa che il lettore tedesco non avrebbe voluto fare in nessun modo: riflettere, pensare. Di conseguenza ho impostato i miei giornali.”
Vent’anni dopo furono gli studenti del ’68 a chiedere nei loro cortei: “Espropriate Springer!” Invano. La sua vedova, Friede Springer, una delle donne più influenti dell’establishment tedesco, è anche una stretta consigliera di Angela Merkel. E lo Springer-Konzern opera oggi in una quarantina di paesi, soprattutto nei paesi dell’est ex-sovietico.
Il progetto concreto degli Stati uniti d’Europa è nato un secolo fa non dall’impeto popolare, ma dalle esigenze economiche delle élite europee per assicurarsi un loro spazio vitale nel nuovo ordine mondiale dopo la fine del predominio britannico.
Lenin aveva intuito già nel 1915 che un’Europa unita su base capitalista avrebbe riproposto dei rapporti economici di tipo coloniale tra le singole nazioni. E il primo modello paneuropeo del Conte Coudenhove-Calergi propose, dopo la prima guerra mondiale, una unione dotata di moneta unica che doveva garantire l’unità economica e militare all’Europa come baluardo contro l’Unione sovietica, di cui si temevano contagi e mire espansive.
Le idee europeiste del grande capitale dopo la seconda guerra mondiale si orientavano in una direzione simile, sempre in funzione antisovietica, ora pro-atlantica.
Ovviamente dopo i due macelli mondiali si prospettò ai popoli europei una ricostruzione pacifica in una futura unione europea quale garante di pace che durò per circa quarant’anni. Ma la fine della guerra fredda aprì un altro scenario. Anziché smilitarizzarsi la UE venne di fatto associata alla NATO dagli anni Novanta in poi e impegnata per la prima volta dopo il 1945 in nuove guerre (“missioni umanitarie”) nello stesso ambito europeo (Jugoslavia) e nel resto del mondo.
In tal modo la UE è tuttora non autonoma in politica estera, ma strettamente legata agli USA. Le divergenze d’interesse tra i due poli sono evidenti e preoccupanti in molti casi, quello più pericoloso si sta sviluppando attualmente sul nuovo “fronte orientale” della NATO, in Ucraina. Di questo scenario occorre tener presente quando si parla della Grecia, avamposto sudorientale della UE/NATO. Dove nella guerra civile dopo la guerra era stata impedita una svolta comunista e imposta negli anni sessanta una pesante dittatura militare.
La Repubblica federale tedesca è dal suo inizio nel 1949 il perno di quell’Europa atlantica, e i suoi presupposti industriali, economici e sociali permisero una ricostruzione e una crescita molto più rapide che in paesi vicini, magari vincitori della guerra.
Tra quelle premesse storico-economiche – che sono alla base anche dell’odierna predominanza tedesca in Europa – occorre ricordare lo stock del capitale privato accumulato sfruttando il lavoro coatto e mai retribuito di ben 18 milioni di lavoratori stranieri trascinati di forza nella grande Germania durante la guerra. E anche il fatto che le ingenti riparazioni di guerra dovute dal Reich tedesco sia dopo la prima sia dopo la seconda guerra mondiale a una sessantina di Stati belligeranti, vennero pagate solo in minima parte. (Solo il risarcimento più grande, quello assegnato dagli Alleati all’URSS durante la Conferenza di Potsdam (1945), venne in seguito pagato esclusivamente dalla Germania orientale, poi RDT.) Fu guerra fredda. Quando questa venne dichiarata di fatto nel 1947 dal Segretario di Stato John F. Dulles, insieme all’annuncio del piano Marshall per un’Europa postbellica modello USA, era ovvio che quell’Europa sarebbe stata lontana da modelli come quello federale e neutrale di Ventotene o quello a favore di uno sviluppo socialista del manifesto di Buchenwald.
L’Europa atlantica metteva al suo centro il motore economico pressoché intatto della Germania occidentale e prevedeva da subito anche il suo riarmo nell’ambito della futura NATO. Per agevolare lo sviluppo e la riammissione politica della Germania nel contesto europeo si elaborò a Londra nel 1953 un complesso Trattato sul debito che abbonò al Reich tedesco la parte maggiore dei suoi debiti di guerra nei confronti del resto del mondo, spostando eventuali risarcimenti ulteriori a un futuro Trattato di pace dopo un’ipotetica riunificazione delle due repubbliche tedesche fondate nel 1949.
Ma quando questa riunificazione avvenne infine, nel 1989/90, i tedeschi elusero ancora – con l’Accordo 2+4 tra le due Germanie e gli Alleati – la stipula di un vero Trattato di pace che avrebbe riaperto molte richieste e problematiche che ormai la Germania unita vuole chiuse per sempre. Rimane invece di fatto – oltre all’incancellabile colpa tedesca – anche un enorme debito mai onorato.
Non per ultimo stona anche per questo la rigida richiesta dei tedeschi ai greci di pagare il loro debito come ogni buon padre di famiglia. Di fronte alle difficoltà generate dallo squilibrio dovuto anche all’attuale eccessivo export e surplus tedesco si dovrebbe ricominciare a parlare del vecchio debito tedesco ad alta voce in Europa. La questione non riguarda solo i greci, che l’hanno sollevata da tempo, ma anche altri, come gli italiani ben sanno.
In un recente studio (Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld, Hamburg, VSA, 2015), recensito su il manifesto da Beppe Caccia (4/7/2015), lo storico Karl Heinz Roth ha sviluppato un piano dettagliato di come la Germania potrebbe onorare almeno nei confronti della Grecia il suo debito di guerra per evitare il crollo dell’intero assetto europeo:
I 7,1 miliardi di dollari concessi nel 1946 alla Conferenza di Parigi alla Grecia corrispondono oggi ad almeno novanta miliardi di euro. Roth propone quindi un trasferimento di una parte delle ricche riserve auree della Bundesbank alle istituzioni finanziarie europee: 28 miliardi per coprire il necessario taglio del cinquanta per cento del debito pubblico greco, sette miliardi alla Banca centrale greca per una programmi di aiuti immediati, 25 miliardi alla Banca europea di investimenti che metterà a disposizione dei crediti non rimborsabili per un grande programma di investimenti da parte di una Banca pubblica greca, otto miliardi per un fondo di risarcimento alla Memoria al quale potrebbero attingere i familiari delle vittime dei massacri tedeschi di guerra oltre al finanziamento di un Istituto di ricerca su guerra, occupazione e resistenza, i restanti 22 miliardi per un fondo di risarcimento europeo a favore anche di altri gruppi di vittime – come punto di partenza per una grande conferenza internazionale che dovrebbe essere in grado di mettere fine alle ipoteche della seconda guerra mondiale che tuttora, ben settant’anni dopo, gravano ancora in modo rilevante sul futuro europeo.
Si obietterà che negli attuali rapporti di forza un simile progetto appare irreale, utopico. Ma l’idea che si possano usare questi vecchi debiti tedeschi per finanziare un programma post-keynesiano in grado di portare fuori dalla crisi le economie europee da un disastro prevedibile, se non si cambia sistema, potrebbe costituire un grande compito politico per le sinistre unite europee. E la Germania potrebbe finalmente entrare in sintonia con la “tradizione dell’umanesimo europeo”, auspicato da Die Zeit.
gli incentivi alle imprese la stagnazione prosegue, così come il passaggio dal lavoro garantito a quello precario. Fichè restano avvolti nel modello tatcheriano non c'è salvezza. Il manifesto, 1 agosto 2015
Sostiene l’Istat che il primo semestre 2015 si è chiuso con un andamento del mercato del lavoro per nulla positivo: a giugno il tasso di disoccupazione per l’intera popolazione è tornato al 12.7% e quello giovanile raggiunge il 44.2%. Il numero di occupati continua a diminuire a giugno di 22 mila unità in un mese, dopo il calo di maggio di 74 mila unità. Diminuisce anche il tasso di inattività, spiegato dalle condizioni drammatiche in cui versano le famiglie e non dalla fiducia ritrovata (che proprio a giugno mostra un calo significativo), come invece vuole farci credere il governo.
Il calo del numero di occupati a giugno è stato trainato interamente dalla componente maschile e giovanile. Nel confronto con giugno 2014, in Italia ci sono 40 mila occupati in meno: mentre per gli uomini il numero di occupati diminuisce (-82 mila), per le donne aumenta specularmente (+42 mila unità). Rispetto allo stesso mese del 2014, il tasso di disoccupazione maschile è aumentato del 7.5% (da 11.5 a 12.3 percento), mentre quello femminile è diminuito del 3%, rimanendo comunque a un livello (13.1%) di gran lunga superiore alla media europea. Nello stesso periodo, il tasso di occupazione dei giovani tra i 14 e i 25 anni è crollato dell’8% in un anno.
Il governo che doveva risolvere — come molti altri che l’hanno preceduto — la disoccupazione, fenomeno strutturale aggravato dalla crisi, si rivela di fatto inadeguato ad affrontare il problema: l’unica politica attiva è stata quella di regalare alle imprese miliardi di sgravi sul costo del lavoro da utilizzare liberamente per accrescere la propria liquidità e profitti piuttosto che investire e creare occupazione. Il governo non è soltanto incapace di far fronte a un fenomeno drammatico, ma appare anche deleterio, data l’assenza di programmazione e i tagli al welfare. Se è presto per giudicare in modo esaustivo il JobsAct, rimane incontestabile che dall’insediamento del governo Renzi, il tasso di disoccupazione sia aumentato del 3.5% a fronte di un calo del tasso di inattività di un esiguo 0.2%.
Dopo lo Svimez, anche l’Istat guasta la festa al governo. Ventiduemila occupati in meno e cinquantacinque mila disoccupati in più a giugno, 85 mila in più dal 2014, hanno indotto ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a parlare di «piccola ripartenza» dell’occupazione. A Renzi è stato suggerito di guardare i dati Istat che attestano la riduzione degli inattivi, sintomo di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. Una tendenza che si è strutturata nell’ultimo anno: –0,9% (-131 mila). «C’è ancora moltissimo da fare ma i dati sono interessanti perché quelli che vengono considerati inattivi, che erano sfiduciati o rassegnati, tornano a crederci - ha detto - cioè aumenta il numero di persone che ha trovato un posto di lavoro ma anche chi lo sta cercando».
A riprova della strategia del governo, tutta in difesa per giustificare dati da stagnazione pura e semplice, sono arrivati anche i pensieri del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, il quale sostiene che la «crescita» (data allo 0,7%) produrrà effetti occupazionali in autunno, «con sei mesi di ritardo». C’è qualcosa che però non funziona nella trincea scavata dal governo sotto l’intenso cannoneggiamento della crisi: se il tasso di inattività diminuisce, dovrebbe diminuire allora anche quello della disoccupazione. Invece accade il contrario, e non da ieri. Si torna a sfiorare il record del 13% (siamo al 12,7%).
In pratica, coloro che perdono il lavoro sono di più di quelli che lo cercano e sono tornati a «mettersi in gioco» come direbbe Renzi. Chi invece ha trovato un lavoro esce dalla cassa integrazione. Lo attestano i dati: tra il 2014 e il 2015 110 mila persone si trovano in questa situazione. Taddei e il ministro del lavoro Poletti ieri lo hanno rivendicato.
Solo che c’è un grande problema: non si tratta di nuovi posti di lavoro, quelli tanto promessi, ma sono conversioni di quelli già esistenti, ma precari. Le imprese non stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si limitano ad incassare gli sgravi fiscali elargiti dal governo. Da Palazzo Chigi si giustificano sostenendo che arriveranno «dopo», ma si sa che la teoria dei due tempi non funziona mai. Per avere un quadro più attendibile, e meno ideologico, della situazione dalle parti della maggioranza bisogna prestare ascolto ad uno degli alleati di Renzi, per di più ex ministro del lavoro e presidente della commissione lavoro del Senato: «Il governo – ha spiegato Maurizio Sacconi — deve riflettere sugli impulsi prioritari alla crescita posto che gli oltre 16 miliardi di detassazione sul lavoro hanno sortito effetti modesti. Come insegna la ripresa spagnola, non basta la domanda estera se non si congiunge con la rianimazione di quella interna».
Per Sacconi tale «rianimazione» avverrà con il taglio delle tasse promesse da Renzi sugli immobili, per pagare i quali il governo taglierà la sanità pubblica. Un pasticcio, prodotto purissimo dell’austerità, da cui non sarà facile uscire per l’esecutivo. Da questi discorsi, fatti arrampicandosi sugli specchi, ieri è rimasto in un cono d’ombra il continente della disoccupazione giovanile: al 44,2%. Dopo il fallimento del programma di Garanzia Giovani, per il governo è ormai un tabù, tanto è vero che non ieri non ne ha parlato. In questo caso non ci sono «fluttuazioni dovute alla ripresa» come sostiene Poletti per la disoccupazione generale. La tendenza è univoca: i giovani, e le donne, under 34 sono ormai le vittime accertate della crisi. Alfredo D’Attorre, deputato della sinistra Pd, coglie il punto: «Mai è stata così alta – sostiene – si scrive dal 77 solo perché allora cominciano le serie statistiche omogenee, in realtà allora la disoccupazione giovanile era al 21,7%, oggi è al 44,2%». I giovani sono perduti lungo la strada sognata della «crescita».
«L’Istat conferma come l’occupazione giovanile sia instabile e di breve durata – ha sostenuto Serena Sorrentino (Cgil) – Il Jobs Act non dà risposte, ma il governo è ancora in tempo per modificarne radicalmente i decreti. La smetta di finanziare a pioggia le imprese e finanzi un piano per il lavoro». L’impotenza sui giovani e la «mal riuscita Garanzia Giovani» spinge Guglielmo Loy (Uil) a parlare di fallimento delle politiche del lavoro. «Non è sufficiente un incentivo per aumentare l’occupazione» ha aggiunto Gigi Petteni della Uil. Da parte delle opposizioni duplice è la richiesta: «reddito di cittadinanza e interventi per il bene pubblico» (Giorgio Airaudo, Sel) e «abbandono della leva fiscale e investimenti pubblici che trainano quelli privati. Altrimenti il Titanic di Renzi e Poletti punterà dritto verso l’iceberg» (Movimento 5 Stelle).
Il viaggio procede a velocità sostenuta.
«Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero».
Corriere della Sera, 1 agosto 2015 (m.p.r.)
Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ci fu una violentissima esplosione nella stazione di Bologna, affollata di turisti in arrivo e partenza per le vacanze. È considerato il più grave atto terroristico compiuto in Italia nel secondo dopoguerra. La bomba era composta da 23 chili di esplosivo chiuso in una valigia posta su un tavolino. Di una delle vittime, una donna, non venne ritrovato il corpo. L’esplosione la disintegrò.
Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria - contadina della provincia di Sassari - ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica e Angelina, 26 e 23 anni.
Sono alcune delle vittime della strage: bambini, ragazzi o poco più. Degli ottantacinque morti, circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite spezzate da giovani assassini, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Loro, terroristi-ragazzini sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari, per la bomba si proclamano innocenti nonostante la condanna definitiva. Hanno rivendicato e ammesso omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento; ma la strage no, ripetono da sempre. Dopo aver scontato la pena, sono tornati liberi; in Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.
Esecutori giovani, depistatori anziani
Una storia di ragazzi di 35 anni fa, mescolata alla politica e alle trame del tempo, di cui i ragazzi di oggi mostrano di sapere poco o niente. Forse perché è stata digerita in fretta, a dispetto degli enigmi irrisolti e degli intrecci (reali, plausibili o solo immaginari) con le altre vicende del terrorismo italiano e straniero, che il Paese ha archiviato nonostante le risposte mancanti; dai legami col resto dell’eversione nera ai possibili collegamenti con la strage di Ustica (il Dc9 precipitato con 81 persone a bordo il 27 giugno 1980) e con il terrorismo medio-orientale.
Anziani, o comunque uomini maturi, furono invece i depistatori accertati. A cominciare da Licio Gelli, il «grande vecchio» dei misteri italiani, oggi novantaseienne, condannato per aver tentato di deviare le indagini, all’ombra della Loggia P2, insieme a due alti ufficiali del servizio segreto militare, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e al faccendiere Francesco Pazienza. Un altro giovane estremista nero dell’epoca, Massimo Carminati, poi passato armi e bagagli alla criminalità comune e ora nuovamente in carcere con l’accusa di essere il capo di Mafia Capitale, fu anche lui processato e infine assolto per aver contribuito al depistaggio. Per quel che lo riguarda Gelli nega tutto, la sua idea è che l’attentato non fu nemmeno voluto: qualcuno trasportava una valigia di esplosivo e un mozzicone di sigaretta provocò il disastro. Spiegazione banale quanto «minimale» per l’atto di terrorismo più grave verificatosi nel dopoguerra nell’intera Europa occidentale.
Politica e strategia della tensione
L’ultimo capitolo della cosiddetta strategia della tensione, sostengono i più; anche perché, se pure Fioravanti, Mambro e Ciavardini fossero innocenti (così si chiamava il comitato sorto in loro difesa al tempo dei processi, al quale aderirono diversi esponenti della sinistra), ciò non significherebbe che l’eccidio non sia ascrivibile ai neo-fascisti. Anzi. Nell’andamento altalenante dei verdetti (condanne in primo grado, assoluzioni in appello, annullamento della Cassazione, nuove condanne nell’appello-bis e conferma in Cassazione) si sono persi per strada nomi noti dell’eversione nera della generazione precedente, già coinvolti nelle indagini sulle stragi del periodo 1969-1974, da piazza Fontana al treno Italicus, passando per Brescia. Assolti o prosciolti, certo. Ma a star dietro alle sole condanne, per contare i responsabili del lungo rosario di bombe che hanno insanguinato l’Italia basterebbero le dita di una mano. Un po’ poco. Ci dev’essere dell’altro. Anche per Bologna.
Nel 1980 il quadro politico era ben diverso da quello dei primi anni Settanta: l’avanzata delle sinistre si era arenata, e dopo il delitto Moro (1978) il Partito comunista era definitivamente uscito dall’area di governo; ogni timore di cedimento sul fronte orientale dell’Europa divisa in due poteva considerarsi superato, nonostante mancasse un altro decennio al crollo del muro di Berlino. Capo del governo era Francesco Cossiga (che bollò subito la strage come «fascista» salvo chiedere successivamente scusa), seguito da Arnaldo Forlani (travolto in pochi mesi dallo scandalo P2), e poi dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo non-democristiano a entrare a palazzo Chigi nella storia della Repubblica. In ogni caso, il terrorismo di sinistra bastava e avanzava per tenere alta la guardia filo-occidentale.
Trentacinque anni dopo, il mistero della strage persiste intorno al movente: ci sono i nomi dei giovanissimi esecutori materiali, d’accordo, ma mancano mandanti e intermediari. Pedine di un gioco inevitabilmente più grande, in un mondo che esiste più, rimaste senza manovratori. Nella ricostruzione iniziale c’erano, da Gelli in giù, ma col tempo troppi anelli della catena si sono spezzati per comporre un quadro credibile. Basti dire che alla fine pure il neofascista veneto (e più in età) Massimiliano Fachini uscì assolto, così come Sergio Picciafuoco, l’unico certamente presente sul luogo del delitto perché rimasto ferito.
I dubbi sul movente e le altre piste
L’associazione dei familiari delle vittime, per bocca del suo presidente Paolo Bolognesi, attuale deputato del Pd, sostiene che in realtà sullo sfondo altri colpevoli si intravedono, e di recente un nuovo dossier è stato consegnato agli inquirenti affinché svolgano ulteriori indagini. «Sarà valutato con grande attenzione e pari riservatezza», annuncia il procuratore aggiunto di Bologna. Si vedrà. Le piste alternative degli ultimi anni (compresa quella palestinese legata al gruppo terroristico che guardava a Est guidato da Carlos) sono state archiviate perché costruite su indizi rivelatisi troppo labili. E in generale è auspicabile che si proceda con cautela e diligenza, perché pure sul processo approdato alle tre condanne definitive rimangono dubbi e sospetti sulla genuinità delle prove; a cominciare dalla confessione dell’informatore che «inchiodò» Mambro e Fioravanti.
Tutto questo pesa su una strage di cui gli italiani continuano a sapere troppo poco. Non solo per colpa loro: anche per i più informati restano troppe zone d’ombra. E restano le storie delle vite saltate in aria il 2 agosto di 35 anni fa. Come quella di un’altra giovane vittima: Mauro Di Vittorio, 24 anni, romano simpatizzante dell’estrema sinistra, recentemente tirato in ballo da qualche «revisionista» come ipotetico complice della trama medio-orientale. L’ultimo provvedimento di archiviazione l’ha del tutto scagionato. Sua sorella Anna e il marito Giancarlo (amico di Sergio Secci, stessa età di Mauro, ferito nell’esplosione e morto dopo 5 giorni di agonia) continuano a studiare le carte giudiziarie per difenderne pubblicamente la memoria violata.
NEL Pd le tensioni crescono, sia al centro che in periferia. In parlamento le defezioni rispetto alle decisioni del partito, dal voto sull’arresto del senatore Azzollini agli emendamenti sulla riforma della Rai, hanno messo in minoranza il governo. In periferia il segretario non ha piegato la resistenza del sindaco di Roma Ignazio Marino né quella del governatore siciliano Rosario Crocetta, e ora anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano alza la voce reclamando fondi per il Sud. Emerge sempre più chiaramente la difficoltà di conciliare il ruolo di segretario di partito con quello di capo del governo. Non per nulla ieri Renzi ha riconosciuto che i contrasti interni devono risolversi tra le mura del partito e non scaricarsi in parlamento. Giusto, ma per questo è necessario che il partito torni ad essere il luogo privilegiato della discussione e dell’elaborazione politica, non l’occasione di passerelle in streaming e diluvi di tweet.
In questi ultimi diciotto mesi non è stata avviata nessuna discussione approfondita sulla strategia da perseguire e sulle iniziative da prendere, con parziale eccezione della riforma sulla scuola. Certo il Pd si è trovato in una situazione del tutto inedita, e quindi difficile da gestire: essere il partito dominante in parlamento e alla guida del governo. Bisogna tornare ai fasti della Dc degli anni Cinquanta per trovare situazioni analoghe; e agli esecutivi di Amintore Fanfani per trovare una sovrapposizione tra leadership partitica e premiership governativa. Il predominio politico- parlamentare del Pd, fin qui quasi senza avversari, e la condizione difficile in quanto “anomala” del suo leader, catapultato in due posizioni di vertice senza nessuna esperienza parlamentare o di direzione politica, ha prodotto tensioni e cortocircuiti; e non poteva essere altrimenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Renzi ha perso vento perché non riesce a farsi seguire da tutto il suo partito, tanto al centro quanto in periferia. L’ ostentata disattenzione riservata alla vita del Pd si è ritorta come un boomerang sul leader.
Anche sulle infiltrazioni criminali nel partito romano, denunciate oltre che dalla magistratura da una coraggiosa indagine interna affidata ad un super partes come Fabrizio Barca, il segretario di partito porta “oggettivamente”, per il suo stesso ruolo, una parte di responsabilità: inevitabili oneri della leadership. Se poi al suo disinteresse aggiungiamo quel fastidio per le critiche interne unito ad una sottovalutazione al limite dell’irrisione degli oppositori (Fassina chi?) e una conoscenza opaca del partito nel territorio, capiamo cosa ha portato Renzi a cercare soluzioni altrove, all’esterno, prima con il patto del Nazareno, ora con la sua riedizione in sedicesimo attraverso Denis Verdini.
Con un processo a spirale, più Renzi guarda fuori dal Pd - magari pensando ad una nuova formazione - più la sua presa sul partito si indebolisce. L’iniziale entusiasmo, anche di tanti bersaniani che volevano finalmente un cambio di passo, sta infatti svanendo. E nell’opinione pubblica il consenso al Pd rischia di superare quello riservato al suo segretario.
yriza continua a combattere, per la Grecia e per l'Europa, per tutti noi. La Repubblica, 1 agosto 2015
Tsipras è sembrato ieri mattina molto più rilassato dopo il Comitato centrale fiume in cui è riuscito ad arginare la contestazione dell’ala più radicale di Syriza. Il massimo organo del partito ha votato infatti a maggioranza la proposta del premier per un congresso straordinario a settembre dopo aver raggiunto il compromesso con i creditori.
La Piattaforma di sinistra chiedeva un vertice immediato in cui votare l’addio al tavolo delle trattative e (in sostanza) dare il via al piano per uscire dall’euro. Al momento del voto è stata però sconfitta. Il premier prende così due piccioni con una fava: da una parte può concentrarsi sui negoziati con Ue, Bce e Fmi per sbloccare i nuovi aiuti per 83 miliardi entro (se possibile) il 20 agosto, quando scade un nuovo prestito da 3,5 miliardi della Banca centrale. Dall’altra, grazie ai regolamenti del partito, può ora ridisegnare con nuovi delegati il Comitato centrale in vista del redde rationem di settembre quando lo scontro ideologico con l’opposizione interna («viviamo nella giunta dell’euro», ha attaccato ieri il suo leader Panagiotis Lafazanis) potrebbe portare a una scissione. In quel caso il governo rimarrebbe senza maggioranza e — a meno di sorprese — sarebbero inevitabili le elezioni anticipate.
Ad Atene intanto sono iniziati ieri i negoziati ad alto livello con l’ex Troika cui si è unito ora in un inedito quartetto pure l’Esm. Il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos e quello dell’economia George Stathakis hanno incontrato ieri i massimi rappresentanti dei creditori: «Abbiamo parlato di ricapitalizzazione delle banche, di privatizzazioni e di obiettivi fiscali — ha spiegato Tsakalotos — . Su alcune cose siamo molto vicini, su altre un po’ meno». Facile immaginare che la vendita di asset pubblici sia uno dei capitoli più delicati, mentre a tenere con il fiato sospeso i creditori è il modo in cui verranno puntellate le banche. Il timore in Grecia è che ai correntisti con i depositi più ricchi — come è successo a Cipro — sia chiesto un contributo per impedire il fallimento degli istituti.
Atene proverà intanto lunedì a muovere un altro passo verso la normalità con la riapertura della Borsa dopo più di un mese di chiusura. Le autorità imporranno dei limiti agli scambi. Ma alla luce dell’andamento dei titoli ellenici quotati a New York nessuno si fa troppe illusioni e secondo tutte le previsioni la ripaertura dovrebbe essere segnata da una pesantissima flessione.
«Svimez. Il rapporto 2015 sull’economia racconta lo tsunami che ha travolto il Mezzogiorno nei sette anni della crisi: è cresciuto meno del paese di Tsipras devastato dalla Troika. Viaggio nel paese sotterraneo dove i poveri sono più poveri, le donne e i giovani i più colpiti dalle disuguaglianze prodotte dall’iniqua Eurozona».
Il manifesto, 31 luglio 2015
Il Sud, la nostra Grecia. Al settimo anno di crisi – sostiene un’anticipazione del rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015 presentata ieri a Roma – l’emergenza conclamata oggi è un disastro accertato. Il crollo della domanda interna, dei consumi e degli investimenti produrranno uno stravolgimento demografico imprevedibile che amplificherà la desertificazione industriale e alla civile.
Come in guerra
Per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è negativo (1,3%, nel 2013 era –2,7%), cresce il divario rispetto al Centro-Nord (-0,2%). La mappa di questo immane slittamento è così composta: tra il 2008 e il 2014, la crisi ha prodotto le perdite più pesanti in Molise (-22,8%), Basilicata (-16,3%), Campania (-14,4%), Sicilia (13,7%), Puglia (-12,6%). Considerato il primo quindicennio dell’unione monetaria 2001–2014, quella che avrebbe dovuto creare una «convergenza» tra il Nord e il Sud dell’Europa, lo Svimez conclude che il Sud Italia sta molto peggio della Grecia. Lo si vede dal tasso di crescita cumulato: la Grecia ha registrato un calo dell’1,% (conta qui la «crescita» prima dei vari «memorandum»), mentre il Sud affonda con il –9,4% e il Centro-Nord registra ancora un segno positivo con l’1,5%. Questa divaricazione geo-economica pesa sulla percentuale del Pil nazionale che ha registrato un meno 1,1%. È il ritratto di un paese diviso all’interno di un continente spaccato sia dal punto di vista economico che da quello sociale. E le distanze continueranno ad aumentare a causa delle politiche di austerità che producono recessione e disoccupazione.
Mappe della povertà
Una persona su tre a Sud è a rischio povertà, mentre a Nord lo è una su dieci. Dal 2011 al 2014, sostiene lo Svimez, le famiglie assolutamente povere sono cresciute a livello nazionale di 390 mila nuclei. A Sud c’è stata un’impennata del 37,8%, ma i numeri sono impietosi anche al Centro-nord: il 34,4%. La regione italiana dove più forte è il rischio povertà è la Sicilia con il 41,8%, seguita a ruota dalla Campania (37,7%). In questa selva di numeri e percentuali un elemento è certo: in concreto, essere poveri significa oggi guadagnare meno di 12 mila euro all’anno. In questa condizione si trova il 62% della popolazione meridionale, contro il 28,5% del Centro-Nord. Dramma in Campania dove questo numero aumenta ancora al 66%.
Lo Svimez calcola solo il numero dei poveri che non lavorano, non quello dei cosiddetti working poors che rappresentano un’altra faccia della crisi che stiamo vivendo. Tra il 2008 e il 2014 l’occupazione nel Mezzogiorno è crollata del 9%, a fronte del meno 1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811 mila persone che in Italia hanno perso un posto di lavoro, e difficilmente lo ritroveranno se e quando finirà la crisi, ben 576 mila vivono tra Abruzzo e le Isole. Pur essendo presente solo il 26% della popolazione attiva, a Sud si concentra dunque il 70% delle perdite prodotte dalla crisi. Gli occupati sono tornati a 5,8 milioni. L’impatto psicologico, e non solo sociale, è stato immenso.
Lo Svimez riprende i dati dell’Istat secondo la quale viviamo al livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’istituto nazionale di statistica. Tra il primo trimestre 2014 e quello del 2015 è arrivato un riflesso di miglioramento: gli occupati sono saliti nel paese di 133 mila unità, 47 mila vivono al Sud e 86 nel Centro-Nord. Segnali festeggiati a suo modo come il segnale della “ripresa” dal governo che non considera il calo delle persone in cerca di occupazione. Nel primo trimestre 2015, calcola lo Svimez, sono scese a 3 milioni 302 unità, 145 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2014.
Desertificazione industriale
I soggetti più colpiti sono le donne e i giovani under 34. Quanto alle prime, nel 2014 a fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 51% nell’Ue a 28, il Mezzogiorno era fermo al 20,8%tra le 35enni e le 64enni. Ancora peggio per le giovani donne con un’età compresa tra i 15 e i 34 anni: solo una su 5 ha un lavoro. E quando si parla di lavoro, si parla nella maggioranza dei casi di precariato. Questa frattura tra le generazioni, e i sessi, si allarga nella trasformazione della composizione del mercato del lavoro che penalizza chi ha meno di 34 anni, e in particolare i giovani tra i 15 e i 24 anni, mentre gli over 55 strappano qualche posto di lavoro in più. 622 mila under 34 hanno perso un posto di lavoro tra il 2008 e il 2014, mentre gli over 55 ne hanno guadagnati 239 mila. Se a livello nazionale nel 2014 il tasso di disoccupazione era del 12,7%, al Sud questa percentuale arrivava al 20,5% mentre al Centro-Nord era al 9,5%.
Questa situazione è il prodotto di una «desertificazione industriale» — così la definisce lo Svimez – che ha visto crollare il valore aggiunto del settore manifatturiero del 16,7% in Italia, contro il 3,9% dell’Eurozona. A pesare è sempre il Sud che ha perso il 34,8% della produttività in questo settore e ha più che dimezzato gli investimenti. In questo caso il crollo è totale: meno 59,3%. La crisi è profonda anche al Centro-Nord dove la perdita è stata però meno della metà del prodotto manifatturiero (-13,7) e circa un terzo degli investimenti (-17%).
Tsunami demografico
Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è arrivato a 1,31 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica e inferiore comunque all’1,43 del Centro-Nord. Questa condizione riguarda anche i cittadini stranieri nel Centro-Nord. Il Sud è destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27,3% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%. Una previsione sostanziata dai dati della migrazione interna e infra-europea. Dal 2001 al 2014 sono migrate dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord oltre 1,6 milioni di persone, rientrate 923 mila, con un saldo migratorio netto di 744 mila persone, di cui 526 mila under 34 e 205 mila laureati.
Sottosviluppo permanente
Questa desertificazione è dovuta «all’assenza di risorse umane, imprenditoriali, finanziarie che potrebbero impedire di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente». Si parla di denutrizione, mancati acquisti di vestiario e calzature (-16%, il doppio del resto del paese: 8%). Senza reddito si rinuncia ai servizi per la cura della persona e non si investe sull’istruzione. In altre parole, i tagli a questi settori producono la permanenza del sottosviluppo e il sottosviluppo alimenta la crescita dei rendimenti dei pochi ai danni dei molti. La crescita minimale che sarà registrata nel 2015 in Italia (+0,7% si dice) non sia il prodotto del sottosviluppo di alcune aree del paese a dispetto delle altre, e di queste rispetto ad altre zone dell’Eurozona. La «crescita» invocata è il risultato dell’impoverimento drastico e irreversibile delle classi medio-basse e dei poveri che lavorano da dipendenti precari o da autonomi a favore di un’élite di oligarchi sempre più ricchi (lo 0,1% della popolazione mondiale). Questo è l’effetto del crollo dei consumi delle famiglie, oltre due volte maggiore a Sud (13,2%) rispetto a quella registrata in Italia (-5,5%). Oggi ogni paese europeo ha il suo «Mezzogiorno».
Le conseguenze anche nel bollettino economico della Banca Centrale Europea. Oggi il dualismo economico tra Nord e Sud Italia si è allargato al Nord e Sud Europa. L'analisi degli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo». Il manifesto, 30 luglio 2015
Echi si ritrovano nel rapporto 2015 dello Svimez sul Mezzogiorno (italiano) dove al rapporto asimmetrico tra il centro (in sostanza la Germania) e le periferie (i paesi dell’Europa del Sud) se ne aggiunge un altro: quello tra Sud e Est europeo integrato nell’Eurozona. «Dal 2001 al 2013 la crescita del Pil considerato in potere di acquisto (Ppa) è stato un quinto inferiore di quella delle regioni deboli dei nuovi paesi dell’Est. Nei primi cinque anni della crisi, 2008–2013, il Pil è aumentato del 4,5% nelle aree più forti («regioni della competitività») ed è diminuito dell’1,1% in quelle più deboli (quelle della «convergenza») che all’inizio avevano un reddito pro-capite inferiore al 75%. Prima della crisi, dal 2001 al 2007, le regioni più deboli avevano registrato una convergenza crescendo del 39,6%, più delle aree forti (+31,3%). È accaduto in Spagna, mentre in Germania si è registrata una maggiore omogeneità.
L’Italia fa storia a parte. Sud e Centro-Nord crescevano prima della crisi con il 19% e il 21,8%, poi il crollo: +0,6% il Centro-Nord, –5,1%. Le asimmetrie si sono aggravate con l’allargamento a Est. Il Sud ha sofferto la concorrenza del dumping fiscale. Tra il 2000 e il 2013 l’Italia è stato il paese che è cresciuto di meno in termini di Pil in Ppa: +20,6% contro il 37,3% dell’Eurozona a 18. Il Sud è cresciuto oltre 40 punti in meno della media delle regioni di convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%). A una conclusione simile è arrivata la Bce nel bollettino economico di maggio 2015: l’Italia «ha registrato i risultati peggiori» sulla crescita del Pil procapite tra quelli che hanno adottato l’euro fin dall’inizio». La richiesta Bce è aumentare la flessibilità nei mercati dei beni e servizi e del lavoro. Per gli economisti italiani (e Krugman) è l’opposto. Per loro è fallito il modello economico per cui la produttività e la crescita dipendono dal contenimento del costo del lavoro. Questi paesi hanno invece bisogno di politiche industriali.
Recensione preziosa, libro da leggere: perché nel pieno della crisi del finanzcapitalismo non emerge la prospettiva del superamento di quel devastante “modello di sviluppo”? Una nuova idea del lavoro come questione essenziale da affrontare.
Il manifesto, 30 luglio2015
Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.
C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».
Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.
Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».
Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.
Crepe nella Troika
La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.
Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.
Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.
Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.
Il concorso delle discipline
Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.
Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.
Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.
La politica insidiosa
Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.
La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi
Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.
Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.
Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.
È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.
Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.
Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a
Riferimenti
Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"
«La vicenda greca rivela una nuova forma di colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. È un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. Ma una cosa è certa: qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più la stessa».
Sbilanciamoci.info, 27 luglio 2015
L’Europa è diventata un laboratorio per il futuro. Ciò che sta succedendo lì dovrebbe essere motivo di preoccupazione per tutti i democratici e specialmente per chiunque sia di sinistra. Due esperimenti in questo momento stanno venendo messi in pratica - e quindi, presumibilmente, stanno venendo controllati - in questo ambiente di laboratorio.
Il primo esperimento è uno stress test sulla democrazia, la cui ipotesi di fondo è la seguente: la volontà democratica di un paese forte può abbattere non democraticamente la volontà democratica di un paese debole senza intaccare la normalità della vita politica europea. I prerequisiti del successo dell’esperimento sono tre: il controllo dell’opinione pubblica che permette che gli interessi nazionali del paese più forte si trasformino nell’interesse comune dell’eurozona; il proseguimento, da parte di un gruppo di istituzioni non elette (Eurogruppo, Bce, Fmi, Commissione Europea), nella neutralizzazione e nella punizione di ogni decisione democratica che disobbedisca ai diktat del paese dominante; la demonizzazione del paese più debole così da assicurarsi che non ottenga comprensione dagli elettori degli altri paesi europei, specialmente nel caso di elettori di paesi che potrebbero disobbedire.
La Grecia è la cavia di questo agghiacciante esperimento. Stiamo parlando della seconda operazione di colonialismo del ventunesimo secolo (dal momento che la prima è stata la Missione di stabilizzazione ad Haiti nel 2004). È un nuovo colonialismo, condotto con il consenso dei paesi occupati, anche se sotto un ricatto assolutamente inedito. E, proprio come il vecchio colonialismo, la giustificazione che ora viene data è che tutto ciò che avviene sia nell’interesse del paese occupato. E’ un esperimento in corso e gli esiti dello stress test sono incerti. A differenza dei laboratori, le società non sono ambienti controllati, a prescindere dalla pressione che si esercita per tenerle sotto controllo. Una cosa è certa: una volta che l’esperimento sarà finito, e qualunque sia il risultato, l’Europa non sarà più l’Europa di pace, coesione sociale e democrazia. Al contrario, diverrà l’epicentro di un nuovo dispotismo occidentale, la cui brutalità rivaleggerà con quella del dispotismo orientale già analizzato da Karl Marx, Max Weber e Karl Wittfogel .
Il secondo esperimento in atto è un tentativo di liquidare definitivamente la sinistra europea.
La sua ipotesi di fondo è la seguente: non c’è spazio in Europa per la sinistra fintanto che insista per un’alternativa alle politiche di austerità imposte dal paese che è egemone. I prerequisiti per il successo di questo esperimento sono tre. Il primo consiste nel causare una sconfitta preventiva dei partiti di sinistra , punendo con violenza quelli che osano disobbedire. Il secondo consiste nel far credere agli elettori che i partiti di sinistra non li rappresentano. Fino ad ora la nozione che “i nostri rappresentanti non ci rappresentano più” era l’argomento principale del movimento degli Indignados e di Occupy, rivolto contro i partiti di destra e i loro alleati. Ora che Syriza è stata costretta a bere la cicuta dell’austerità – nonostante il “No” del referendum greco convocato da Syriza stessa -, gli elettori saranno sicuramente portati a concludere che, comunque vada a finire, anche i partiti di sinistra abbiano fallito nel rappresentarli. Il terzo prerequisito consiste nell’intrappolare la sinistra in un falsa contrapposizione tra scelte del Piano A e scelte del Piano B. Negli ultimi anni la sinistra si è divisa tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse rimanere nell’euro e tra coloro che credevano che la cosa migliore da fare fosse lasciare l’euro. Delusione: nessun paese può lasciare l’euro in maniera ordinata, ma, se un paese dovesse mostrare di essere disobbediente, sarà espulso e il caos si abbatterà su di lui inesorabilmente. Allo stesso modo chiedono una ristrutturazione del debito, che si è dimostrato essere un tema molto divisivo per la sinistra. Delusione: la ristrutturazione avrà luogo quando sarà funzionale agli interessi dei creditori – che è la ragione per cui l’altra questione principale della sinistra è ora divenuta la politica del FMI.
Gli esiti di questo esperimento sono parimenti incerti, per le ragioni sopra esposte. Tuttavia, una cosa è certa: per sopravvivere a questo esperimento la sinistra avrà bisogno di rifondare se stessa al di là di ciò che oggi è immaginabile. Servirà molto coraggio, molta audacia e molta creatività.
(traduzione di Bruno Montesano)
Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015