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«Contro rimpatri forzati e aiuti condizionati, le proposte delle Ong».

Il manifesto, 12 novembre 2015 (m.p.r.)

Le associazioni europee e africane che si occupano di migranti e di diritti umani, incluso quelle tunisine che hanno vinto il Nobel per la Pace, non sono state accreditate al vertice di La Valletta, pur avendolo chiesto insistentemente. Non possono neanche assistere al dibattito dentro il Mediterranean Conference Centre della capitale maltese tra i capi di Stato e di governo africani e europei chiamati a decidere misure di lungo termine che modificheranno nel profondo gli sviluppi delle rispettive società.

Tutti agli arresti domiciliari, senza libertà di muoversi, divisi i «buoni» dai «cattivi» in base alla nazionalità: così la tecnocrazia immagina la gestione del fenomeno migratorio. Vedremo gli esiti ma già la loro non ammissione, la dice lunga sulla democraticità delle procedure e pare normale solo in un’Europa trasformata in una grande «zona rossa». Anche perché le organizzazioni della società civile, sia laiche sia cattoliche, che ieri hanno comunque presentato le loro ragioni in conferenze stampa e convegni, rivolgono al summit di Malta sostanzialmente le stesse critiche di fondo: primo, il flusso di profughi non può essere arrestato con muri, fili spinati, guardie di frontiera, per quanto ipertecnologiche, o Hotspot. Secondo, per modificare le motivazioni della fuga di massa delle persone da carestie e guerre e ridare senso di convivenza anche all’Europa si deve adottare un «nuovo ordine mondiale umanitario».
La dizione è stata usata ieri dal Gran Cancelliere dell'Ordinedi Malta, Albrect Freiherr von Boeselager, presentando la conferenza Popoli in fuga dalla guerra: soccorso, assistenza, integrazione organizzata in preparazione del World Humanitarian Summit dell'Onu previsto a Istanbul a maggio. «La situazione per i migranti sta diventando sempre più disperata: con l'arrivo dell'inverno queste persone sono esposte a rischi maggiori per la loro salute. Erigere muri non servirà a gestire questo fenomeno», ha detto von Boeselager. E Sandro Gozi, sottosegretario agli Esteri di Palazzo Chigi, ha ammesso che «usare la parola emergenza per definire il fenomeno dei migranti significa o non capire la situazione o essere in mala fede o fare demagogia».
A trarre le conclusioni di questo ragionamento e a proporre altre strade d’intervento rispetto a quelle dei rimpatri forzati e degli aiuti ai paesi africani e mediorientali condizionati alla limitazione dei flussi di migranti, che sono i caposaldi della nuova politica di cooperazione studiata dai tecnocrati di Bruxelles, è un cartello di associazioni, ong e sindacati di cui fa parte anche l’Arci e la Cgil. Ieri i rappresentanti italiani di questo cartello hanno illustrato a Montecitorio la dichiarazione comune con cui contestano l’approccio del summit euro-africano sulla migrazione di Malta, che - dicono - sta esponendo l’Europa a un drammatico fallimento. In particolare, si legge ancora nella «chiamata urgente per i leader europei e africani», è inquietante che le negoziazioni bilaterali, che si tengono a La Valletta parallelamente all’agenda ufficiale del vertice siano nell’ombra, oscurate da una cappa di riserbo.
Un do ut des senza reale trasparenza, che lascia trasparire il mantenimento di logiche di corruzione molto diffuse nei rapporti post e neo coloniali. Anche secondo Lia Quartapelle, coordinatrice (renziana) dell’intergruppo parlamentare sulla cooperazione internazionale, la condizionalità degli aiuti ai paesi africani semmai deve riguardare il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, incoraggiando l’evoluzione dei regimi ora dittatoriali come l’Eritrea. Lo scopo degli aiuti - ripete Quartapelle - deve essere facilitare la rimozione delle cause che spingono tante persone a fuggire dalla loro terra. L’obiettivo della Ue è invece fermare la migrazione cosiddetta irregolare ma questo con interventi meramente repressivi o «dissuasori», senza offrire alternative concrete di accesso alla mobilità legale, in linea con i processi di Rabat e Khartoum, spiegano le ong.
«Sono state lacrime di coccodrillo quelle dei governanti europei sulla morte del piccolo Aylan Kurdi», sbotta Filippo Miraglia dell’Arci, che elenca le proposte da inviare al summit e al governo: accessi legali e corridoi umanitari, ripristinare le regole d’ingaggio di Mare Nostrum - rescue - per le missioni nel Mediterraneo, abolire le regole di Dublino «che producono clandestinità e nuove Gestapo negli hotspot», una legge europea sul diritto d’asilo, un piano di accoglienza europeo in modo da eliminare i campi profughi lungo le frontiere, abolire la Bossi-Fini. «Perché chi fugge da fame e carestia non è un criminale e ha lo stesso diritto di essere accolto di chi fugge dalla guerra».

D

Come era facilmente prevedibile il tentativo del presidente del Portogallo, Anibal Cavaco Silva, di operare un vero e proprio strappo alla democrazia affidando l’incarico di governo a chi aveva perso la maggioranza assoluta nelle elezioni e non aveva visibilmente i numeri in parlamento per costruire intese sufficienti a sostenere un esecutivo, è stato subito affondato. Infatti l’alleanza già in campo fra il Partido socialista Ps), il Bloco de Esquerda (Be, una formazione che fa parte del Partito della Sinistra Europea, di cui è membro anche la greca Syriza), il Partido ecologista os verdes (Pev) e il Partido comunista portugues (Pcp) ha liquidato l’esecutivo di minoranza guidato da Pedro Passos Coelho con 123 voti su 230.

Resta da chiedersi perché mai il Presidente del Portogallo si sia infilato in una simile mission impossibile, essendo i numeri già chiari in partenza. Certamente per dimostrarsi il più solerte – del resto lo aveva apertamente dichiarato – nei confronti dei desiderata dei mercati finanziari e delle elite che attualmente comandano nella Unione europea. Ma forse questa spiegazione da sola non basta. In realtà Cavaco Silva sperava che i socialisti ci ripensassero. Che cioè retrocedessero dall’idea di costruire un’alleanza di governo che le altre tre forze della sinistra. Invece l’accordo, messo nero su bianco ed estremamente articolato, ha retto. Ed ha anche ricevuto l’assenso di dirigenti del Partito socialista europeo.

E questo è certamente un elemento di novità nel quadro continentale. Non dimentichiamo che la formazione di punta della socialdemocrazia europea, la germanica Spd, pur avendo avuto a suo tempo i numeri per costituire un governo alleandosi con le formazioni alla propria sinistra, non lo ha mai fatto, preferendo in anticipo la Grosse Koalition con il partito di Angela Merkel. Né si può dire che i socialisti di Hollande abbiano dato grande prova di sé in termini di politiche alternative al neoliberismo da quando si sono insediati all’Eliseo.

La vicenda portoghese diventa quindi estremamente interessante anche per valutare se nella socialdemocrazia e tra i socialisti europei si sta aprendo un nuovo varco, una prima rottura nel monolitismo filo neoliberista, capace di aprire almeno una seria discussione nelle loro fila, oppure se si tratta di un episodio isolato, che magari qualcuno spera finisca male per proseguire imperterrito nelle politiche centriste.

Dopo il voto del Parlamento, il Presidente portoghese potrebbe in teoria dare vita ad un esecutivo tecnico che cerchi di guadagnare tempo, cioè i sei mesi previsti dalla Costituzione lusitana, perché sia possibile convocare nuove elezioni. Ma non appare la soluzione più probabile, poiché è molto dubbio che le destre ne trarrebbero vantaggio tale da riconquistare la maggioranza assoluta.

Fatti i necessari passaggi, Cavaco Silva dovrebbe quindi affidare l’incarico per il nuovo governo ad Antonio Costa, leader dei socialisti portoghesi, forte dell’appoggio delle altre forze della sinistra. “Il nostro obiettivo è chiudere con l’austerità rimanendo nel’euro”, ha dichiarato l’esponente socialista. L’analogia con l’impostazione politica e programmatica di Syriza su questo punto è evidente. Entrambi sono per un cambiamento radicale delle politiche della Ue, senza scegliere la strada della fuoriuscita dall’euro, che del resto è quella che il ministro delle finanze tedesco, Schauble aveva indicato alla Grecia. La famosa Grexit.

Un programma come quello stilato dalle sinistre portoghesi, che sul terreno sociale è l’esatto contrario di quello imposto dalla Troika in cambio degli “aiuti” forniti - tra i molti punti si può ricordare l’innalzamento graduale dello stipendio minimo, il ripristino della contrattazione collettiva, lo scongelamento dell’adeguamento delle pensioni, il ristabilimento delle festività abolite – e che avrebbe la forza di aprire un nuovo fronte di lotta contro l’austerità in un altro paese del Sud dell’Europa. Questo aiuterebbe sia la Grecia, nel suo tentativo di resistere alle misure più odiose contenute nel ricatto che ha dovuto subire, sia le sinistre spagnole che il 20 dicembre prossimo saranno chiamate a una decisiva prova elettorale. Il tutto rafforzerebbe la possibilità di imporre un cambiamento nelle politiche economiche, sociali e istituzionali della intera Unione Europea.

Mentre in Portogallo si apre questa concreta possibilità, in Gran Bretagna i conservatori guidati da David Cameron rilanciano la proposta di un Referendum sulla adesione alla Ue, previsto nella seconda metà dell’anno prossimo. Lo fanno con una lettera a Donald Tusk, Presidente del Consiglio della Ue, in cui formulano quattro richieste cui condizionare le scelte del Regno Unito per quanto riguarda la sua permanenza nella Ue. C’è chi considera questa di Cameron una mossa da spericolato giocatore. Spara ad alzo zero per strappare un accordo comunque vantaggioso per il suo paese. Cameron chiede la facoltà di rinuncia (opt-out) alla clausola dei Trattati su una Unione sempre più stretta; invoca tutele per il mercato interno di chi è fuori dall’Eurozona (a principale beneficio della sterlina, ovviamente); insiste su un maggiore ruolo dei parlamenti nazionali; pretende la sospensione per quattro anni dai benefici del welfare per gli immigrati extracomunitari. Misura, quest’ultima, quanto mai odiosa.

Come si vede i pericoli di implosione dell’Europa e di allargamento dell’antieuropeismo non derivano affatto dalle sinistre portoghesi, o di altri paesi, che vogliono combattere l’austerità, ma proprio dai paladini di quest’ultima, fra i quali militano i conservatori inglesi.

«L’autista Manuel Araya racconta gli ultimi giorni del poeta cileno “Dal processo aspetto la verità”»Una testimonianza sull'inizio dell'ascesa del dominio globale del finanzcapitalismo.

La Repubblica, 11 novembre 2015, con postilla

Circa quattro ore prima che Pablo Neruda morisse per “cancro alla prostata”, la domenica del 23 settembre del 1973, l’uomo che si prendeva cura di lui non riuscì a realizzare la sua penultima missione, perché i militari glielo impedirono: acquistare «un farmaco che avrebbe forse alleviato il dolore del poeta». Quarantadue anni dopo, Manuel Araya crede di dover portare a termine la sua ultima missione per Neruda: «Contribuire a dimostrare che fu assassinato». È convinto che il poeta non morì per le cause dichiarate ufficialmente. Ed è l’unico testimone diretto degli ultimi giorni del Nobel per la Letteratura. Aveva 27 anni allora.

Oggi, a 69 anni, dal suo Cile, ricorda per telefono quei giorni. Mentre andava a comprare quella medicina soldati armati di mitra lo fermarono. Fu insultato, picchiato, torturato. Poi lo trasferirono allo Stadio Nazionale, dove la dittatura spediva i suoi oppositori. Il giorno dopo, l’arcivescovo Raúl Silva Henríquez lo riconobbe: «Ma lo sa, Manuel? Pablito è morto ieri sera, alle dieci e mezzo». Araya esclamò: «Assassini!». L’arcivescovo chiese ai militari di lasciare uscire l’autista dallo stadio. Fu possibile solo 42 giorni dopo, col peso ridotto a 33 chili.

Araya forse si salvò per la seconda volta dalla morte quando, il 22 marzo 1976, suo fratello Patrick - scambiato per lui, assicura - fu fatto scomparire. Non se ne seppe più nulla. A sostegno della sua teoria, ricorda che uccisero Homero Arce, segretario personale di Pablo Neruda, nel 1977. «Tutti i collaboratori furono fatti sparire. Io sono l’unico rimasto vivo. Vivevo nascosto in casa di amici. Nessuno mi dava lavoro, finché nel 1977 cominciai a fare il tassista».

La dittatura finì nel 1990. Si mantenne in contatto con Matilde Urrutia, la terza moglie di Neruda, morta nel 1985. «Non volle mai parlare dell’omicidio. Ho smesso di vederla per questo. Siamo diventati nemici. Ho bussato a tante porte. Anche a quella del presidente Eduardo Lagos. Nessuno mi ha dato ascolto. Nè i politici, né i media». Finché, nel 2011, un giornalista della rivista messicana Proceso non pubblicò la sua storia. Allora, il partito comunista e Rodolfo Reyes, nipote di Neruda, presentarono una denuncia in base alla sua testimonianza.

Nel 2013 il cadavere dello scrittore venne riesumato, ma i medici forensi non trovarono tracce di veleno. Il caso si è riacceso in occasione della biografia Neruda. El príncipe de los poetas dello storico Mario Amorós, la cui principale rivelazione è il rapporto segreto del Programma per i diritti umani del ministero dell’Interno, inviato il 25 marzo 2015, al magistrato Mario Carroza Espinosa, responsabile del procedimento. Il documento, sulla base di testimonianze e prove documentali, segnala che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi» nella morte del Nobel. Inoltre, un team forense internazionale indaga sulla presenza dello staffilococco aureo nel corpo del poeta. Un batterio che, geneticamente modificato e applicato in dosi elevate, può essere letale.

Araya è nato il 29 aprile del 1946. «Nel 1972, quando Neruda torna in Cile per aiutare Allende nel caos che sta attraversando il paese, il partito Unidad Popular mi assegna a lui. Divento la sua guardia del corpo, il suo segretario e il suo autista. Ho vissuto con lui nella casa di Isla Negra. Neruda aveva una flebite alla gamba destra e zoppicava, a volte. Era in terapia per un cancro alla prostata, ma non era agonizzante. Era un uomo che pesava più di cento chili, robusto, che amava la buona tavola e le feste. L’11 settembre 1973, quando Pinochet mise in atto il colpo di Stato, ci troviamo a Isla Negra. Rimaniamo senza telefono. Il giorno dopo, ci mettono davanti una nave da guerra con i cannoni. Il giorno 14, arrivano i militari e perquisiscono la casa. Neruda parla con il suo medico, il dottor Roberto Vargas Salazar, che gli dice che il 19 settembre, presso la Clinica Santa Maria, si sarebbe liberata la stanza 406».

«Il 19 lasciamo Isla Negra in macchina e ci rechiamo a Santiago. Arriviamo verso le sei del pomeriggio. Non lasciammo mai Neruda da solo. Rimasi tutti i giorni lì a dormire. Domenica 23 Neruda mi dice di andare con Matilde a Isla Negra per prendere i bagagli. Stiamo per tornare quando chiede che dicano a Matilde di recarsi di corsa in clinica. Quando arriviamo, vedo che Neruda è rosso in viso. “Che succede?”, gli chiedo. “Mi hanno fatto un’iniezione sulla pancia e mi sento bruciare dentro”, mi rispose. In quel momento, entra un medico e mi dice: “Lei, che è l’autista, vada a comprare una confezione di Urogotan”. Non sapevo che cosa fosse, solo dopo ho saputo che è un farmaco per la gotta».

Uscì e non riuscì più a tornare. «Mentre sono in macchina, mi intercettano due automobili. Mi portano alla stazione di polizia, mi interrogano e mi torturano. Volevano che gli dicessi dov’erano i leader comunisti, e chi vedeva Neruda. Alla fine, mi portano allo Stadio Nazionale». Nel 2011, Manuel Araya dice che Pablo Neruda è stato assassinato. Si apre l’inchiesta. Ora Araya aspetta il verdetto. La sua ultima missione per Pablo Neruda è compiuta. Lo hanno ascoltato. Nel 2016, ormai settantenne, saprà come è andata a finire. In Cile adesso è primavera, come in quei giorni del 1973, ma lui ha freddo e dice: «Sono più tranquillo che mai».

© El País / LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Luis E. Moriones


postilla


Quanti ricordano, o sanno, che la sanguinosa vicenda della soppressione della Repubblica cilena governata da Salvador Allende, fu il primo atto dell'instaurazione del potere mondiale del finanzcapitalismo? Quell'atto criminoso fu la sperimentazione e l'avvio del dominio mondiale di cui la NATO, l'Unione europea e i governi europei - giù giù fina all'Italia di Matteo Renzi) sono l'espressione. L'occasione della testimonianza sulla morte del grande poeta è un invito a leggere, o rileggere, la breve storia del neoliberalismo, di David Harvey (vedi, su eddyburg, la recensione di Ilaria Boniburini), su un altro piano, i tre saggi di Enrico Berlinguer del 1973 (riuniti su eddyburg con il titolo Il Cile, l'Italia e il compromesso storico )
La Repubblica, ed. Firenze, 11 novembre 2015

UN Papa cittadino: è questa l’immagine, davvero inedita, con cui Francesco si è presentato tra noi. Abbiamo conosciuto pontefici condottieri e pontefici teologi: ma Francesco è il primo Papa che mostra di aver profondamente introiettato i valori della democrazia, considerando anche se stesso come membro della comunità civile, oltre che di quella religiosa. «I credenti sono cittadini – ha scandito ieri Francesco – E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta».
Arte e cittadinanza! Quanto si vorrebbe veder affiorare questo nesso essenziale sulle labbra di chi governa il nostro Paese, e la nostra città. Un nesso che – per Francesco – non è reso esclusivo o parziale dalla terza forza che ha invocato: quella per lui più importante, quella della fede. Il Papa si è fatto portare in Battistero l’opera d’arte che ama di più, il Crocifisso bianco di Marc Chagall: e qui non conta il giudizio estetico o storico artistico, conta il fatto che quel Gesù non è stato pensato e dipinto da un cristiano, ma da un ebreo, che per di più aveva partecipato alla Rivoluzione Russa del 1917. E da un ebreo nel 1938: dietro al Cristo si vedono le sinagoghe in fiamme, i patriarchi dell’Antico Testamento che urlano il loro dolore per il Popolo Eletto che precipita nell’Olocausto, l’Armata Rossa come unica speranza di riscatto. Bergoglio vede dunque davvero l’arte come una via maestra per costruire una cittadinanza inclusiva.
Pochi giorni fa un giornalista ‘di strada’ olandese ha chiesto al Papa: «Il Suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto papa, e vescovo di Roma, si sente mai sotto pressione per vendere i tesori della Chiesa?» Il papa ha risposto così: «Questa è una domanda facile. Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all’asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa». È una risposta straordinariamente importante: tanto più se si rammenta che, nel 1978, Paolo VI tentò di vendere proprio la Pietà vaticana di Michelangelo, lacerato dall’immagine di se stesso seduto su un trono dorato mentre il mondo moriva di fame.

Ma ora Francesco dice tre cose nuove. La prima è che non c’è solo la fame materiale: se quel Michelangelo rimane di tutti, può saziare la fame di conoscenza e cultura anche dei più poveri, che è una fame di eguaglianza e giustizia. La seconda è che sulle opere sacre in proprietà della Chiesa c’è una sorta di superproprietà collettiva morale e spirituale di tutta l’umanità (e dunque anche dei musulmani, degli atei, davvero di tutti), e che questa superproprietà vincola le scelte, e limita la libertà del proprietario giuridico: e questa è un’assoluta novità nel rapporto tra la Chiesa e i suoi tesori d’arte. La terza è che il patrimonio culturale non è riducibile al mercato: letteralmente e funzionalmente. Il denaro non può comprare tutto, e il patrimonio culturale non può e non deve essere mercificato, se vogliamo che continui a renderci esseri umani.

Lo dice anche la Costituzione, ma in Italia sembriamo averlo dimenticato.

Il Papa venuto dalla fine del mondo parla a Firenze, al suo rapporto malato con l’arte del passato ridotta a merce. Come dice lui stesso, è una denuncia ed è una proposta: accogliamole entrambe, e niente sarà più come prima.

Con Luciano Gallino, a cui oggi Torino darà l’ultimo saluto, se ne va via la dimostrazione più evidente di quanto la retorica della gioventù sia farlocca e demagogica. L’anagrafe non è garante di nulla, se non di una, peraltro solo statistica, salute migliore. L’essere giovani non è una patente di intelligenza.

La giovinezza, sbandierata come un programma politico, non produce in automatico né elasticità mentale, né progressismo, né pensieri illuminati, etici o lungimiranti. Non è un dispositivo per la generazione automatica di rivoluzionari, la giovane età. È un tempo, e il tempo è un organismo delicato: se mal trattato si ammala, e se si ammala il tempo si ammala il mondo.

Questa mattina verrà cremato un uomo di 88 anni, un intellettuale non incline al compromesso, lucido nel suo pensiero, visionario di quello che c’era – ovvero refrattario a ogni propaganda – insubordinato, impavido, osteggiatore di ogni status quo imposto come tale, disinnescatore di tutti gli ordigni ideologici. Questa mattina passerà attraverso il fuoco un gran lettore, ovvero, per definizione, qualcuno che non si accontenta del mondo che ha, qualcuno che quel mondo vuole interrogarlo, metterlo alla prova di una domanda.

Ha guardato in faccia il mondo della finanza e ha visto che non era un destino ma una scelta degli uomini, e quella scelta aveva un prezzo che solo alcuni avrebbero pagato. Ha guardato frontalmente le promesse e si è accorto, dati alla mano, che le parole posso ingannare, e che le promesse possono essere bugie vestite bene. Ha pensato che essere vecchi non fosse un valore ma una responsabilità, quella di mettere a disposizione di chi arriva una lettura aggiuntiva del mondo.

Per questo amava la letteratura, e per questo andava orgoglioso di avere tradotto quel romanzo immenso che è L’uomo invisibile di Ralph Ellison. Perché con la letteratura condivideva l’impertinenza, ovvero il sabotaggio costante di ogni forma prestabilita: l’ostilità a ogni accettazione acritica non come atto di protesta ma di cittadinanza, e in qualche modo di piacere.

Luciano Gallino era tutto questo, e naturalmente molto di più. E a metterle in fila, tutte queste che ho elencato sembrerebbero prerogative dell’età giovane. Della sua età aveva la compostezza, le abitudini estetiche, il rispetto di codici comportamentali che vorremmo non desueti ma assodati una volta per tutte.

Dall’altra parte, a Palazzo Chigi, abbiamo un Presidente del Consiglio di 40 anni. Stando all’anagrafe e al contesto in cui opera, quello della politica, si potrebbe persino definire giovane.

L’essere giovani è stato un programma elettorale, e grazie alla retorica del largo-ai-giovani si è fatto largo anche lui. Poi ha imposto politiche conformi ai diktat della finanza mondiale, chino ai voleri dei poteri forti, nell’applicazione più prevedibile di ricette già consolidate, in una postura politica già rodata in decenni di politiche italiane deleterie. L’ha fatto, però, trasformando la gioventù in una bandiera, devitalizzandola, degiovanizzandola. Ha trasformato la gioventù in propaganda.

L’ha fatto con la modalità, questa sì, di un uomo giovane, con tutta l’energia raddoppiata dall’età. Ha messo la gioventù in gabbia, ci si è fatto un selfie insieme, e poi ha lasciato che altri lanciassero qualche nocciolina di sostegno. Tutto questo oggi brucerà di più, quando, dopo il fuoco, Luciano Gallino sarà cenere.

La Repubblica, 11 novembre 2015

«Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all'immagine sociale della Chiesa. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni».

Nove ore di visita. Più di trentamila persone a Prato. Oltre cinquantamila a Firenze, solo allo stadio, per la messa che chiude la giornata. E parole chiarissime di Papa Francesco, nella sua visita in Toscana, con gli echi del caso Vatileaks2 che si ripercuotono in una giornata altrimenti di grande felicità per Jorge Bergoglio, piena di incontri con la gente più umile. Echi che riprendono quota in serata, con le dichiarazioni del suo Segretario di Stato. «Non credo che queste polemiche possano creare un'atmosfera serena» dice il cardinale Pietro Parolin Effettivamente c'è un'atosfera pesante. Se leggiamo i media, vediamo che ci sono attacchi, forse anche poco ragionati, poco pensati, anche molto emotivi, per non usare qualche altra parole. Direi isterici. Ci sono certe resistenze da vincere. Definirle fisiologiche è poco; definirle patologiche è troppo. Ci sono e vanno affrontate in modo costruttivo. Vorrei dire che tutti hanno desiderio di cambiare in meglio. É il miglioramento che il Papa stesso ha chiesto alla Curia»

Alle 7,45 del mattino, a Prato, assieme alle bandierine vaticane giallo-bianche che sventolano, si affiancano quelle cinesi con la scritta in mandarino «Ciao, benvenuto». Sono della copiosa comunità di lavoratori. Appena un'ora di visita qui («Sono un pellegrino di passaggio», scherza il Pontefice). Ma la città del distretto tessile, che porta le ferite della crisi economica e dello sfruttamento, lo accoglie festosa reduce da una notte bianca con canti e preghiere. Francesco nel suo discorso dal pulpito del Duomo va subito al punto: estirpare «il cancro della corruzione», dare un «lavoro dignitoso» perché la tragedia che si è consumata due anni fa, nella zona industriale dove sono morti sette operai cinesi «è una tragedia dello sfruttamento e delle condizioni inumane di vita, e questo non
è lavoro degno!».

Da Roma era arrivato in elicottero, quindi in utilitaria fino a Firenze, poi il giro in città in papamobile. Qui partecipa al convegno decennale della Conferenza episcopale italiana. «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d'immagine, di denaro». Francesco non cita mai il cardinale Camillo Ruini, l'ex presidente della Cei che ha impersonato un'era del cattolicesimo italiano, tra il collateralismo con la politica e le battaglie sui cosiddetti "valori non negoziabili" (bioetica, famiglia, ecc.), ma pungola i vescovi delle 226 diocesi italiane a voltare pagina.

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre pi• vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti», dice nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. «La nostra gioia è anche di andare controcorrente e di superare l'opinione corrente, che, oggi come allora, non riesce a vedere in Ges• pi• che un profeta o un maestro». Aggiunge: «Non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli». Bergoglio cita Dante, Michelangelo e anche Guareschi: ÇMi colpisce la semplicità di don Camillo che fa coppia con Peppone, e come la preghiera di un buon parroco si unisca all'evidente vicinanza con la gente». Davanti a lui, in cattedrale, risuonano le parole emozionanti di una coppia di coniugi divorziati da matrimoni precedenti, e poi felicemente risposati. Francesco incontra gli ammalati, fra loro anche il sottufficiale dei carabinieri Giuseppe Giangrande ferito nel 2013 davanti a Palazzo Chigi.

A pranzo il Papa va alla mensa Caritas di San Francesco Poverino. Presenta la "tesserina" per accedere, e al tavolo con i poveri assaggia un men• toscano con la ribollita e i cantucci finali. Con i commensali scherza, fa un selfie, chiama «papessa»la responsabile della mensa per il piglio con cui è riuscita a mettere ordine fra i sessanta bisognosi, oggi entusiasti.

Allo stadio "Artemio Franchi" («magari quest'anno ci porta fortuna», esclama il giocatore della Fiorentina, Pepito Rossi, molto religioso e presente con la madre), Francesco professa il suo vademecum: «Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo per poterla aiutare, formare e comunicare ». Ci sono la moglie del premier, Agnese Renzi, con i figli («Mio marito è a Milano a fare il suo lavoro altrimenti sarebbe venuto»), e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti («Sono qui da fiorentino »).

Non è ancora buio e il Papa va. Ma non prima di aver ringraziato «i carcerati, che hanno costruito questo altare». Prima di prendere la rotta per Roma, il suo elicottero bianco volteggia più volte sullo stadio. Una nube di fazzoletti bianchi rossi e gialli, da sotto, lo saluta commossa.

Un'analisi preoccupata della destra di Salvini e Meloni. Ma una moderata in Italia c'è: è il renzismo, e il suo partito.

La Repubblica, 11 novembre 2015
OLLEVA in realtà molti problemi la discesa in campo ufficiale del centrodestra post-berlusconiano: questo ha rappresentato la manifestazione di Bologna, pur con la residuale presenza dell’ex Cavaliere, e su questo occorre soffermarsi con attenzione. Per quel che ci dice della destra italiana e per le questioni che pone, o dovrebbe porre, ad un centrosinistra che appare ormai inafferrabile. Se così non fosse, e se si trattasse solo di una vicenda nostra, non ci dovremmo preoccupare più del dovuto per quel che si è visto domenica. Ci potremmo sin consolare per la sostanziale “mancanza di egemonia” di quella piazza, per la sua incapacità di rappresentare davvero una parte ampia del Paese. In realtà la speranza che possa emergere in Italia una “destra normale” è svanita da tempo e le ragioni non affondano solo nella storia del nostro Paese.

È sufficiente volger lo sguardo all’Europa per comprenderlo: dalla Francia di Marine Le Pen, da tempo interlocutrice di Matteo Salvini, a Paesi ex comunisti come l’Ungheria e la Polonia (senza dimenticare il voto di domenica in Croazia) e sino alla Danimarca o ad altre nazioni ancora. Nella crisi dell’Europa, questa è la destra.
Certo, a un primo sguardo non c’è paragone fra i toni sostanzialmente “monocordi” di Bologna e la capacità di egemonia messa in campo nel 1994 (anche allora però ce ne accorgemmo tardi). Confluirono in Forza Italia propensioni molto differenti del Paese: dagli umori degli anni Ottanta a quel misto di conformismo e di qualunquismo che era potuto crescere all’ombra stessa della Dc; dalle illusioni di un “secondo miracolo italiano” alla ripulsa dei vincoli collettivi; dalla speranza di un “futuro sregolato” alla fiducia nella propria capacità di affermazione, personale e di gruppo; e sino all’estraneità, se non alla ostilità, nei confronti dello Stato e dei valori civici. Senza tralasciare quella modernità intrisa di “predominio del sé”, quell’anticonformismo infastidito da egualitarismi e da solidarietà sociali che era cresciuto all’ombradel socialismo craxiano. Si aggiunga la forza di seduzione del linguaggio comunicativo di allora, maturato anch’esso negli anni Ottanta, e si comprenderà meglio quanto è stata diversa la “discesa in campo” di domenica.
Non si ironizzi però più del dovuto sullo sforzo di Salvini di dismettere la felpa o di rendere un po’ più morbida l’evocazione delle ruspe: la cultura delle ruspe e dei muri si è diffusa e si sta diffondendo, e con la “destra smoderata” occorrerà fare i conti sino in fondo. Conta poco allora la miserevole qualità del comizio urlato di Giorgia Meloni, quasi un aggiornamento degli umori missini prima di Fiuggi. Conta pochissimo l’immagine patetica che l’ex Cavaliere ha dato di sé. E conta ancor meno l’assenza in quella piazza di qualche disperso frammento del centrodestra, ormai in pericoloso avvicinamento al centrosinistra o impegnato in una ricerca di visibilità senza sbocchi. Conta molto di più, per altri versi, l’incombere dell’onda montante del Movimento Cinque Stelle: e conta, paradossalmente, soprattutto perche esso appare incapace di proporsi come alternativa politica credibile. Perché si aggiunge alle derive dell’astensionismo anziché convogliarle nel proprio progetto (parola grossa, in questo caso, ma non ne esistono altre); e perché si assomma alla marea della destra smoderata.

Lungi dal rallegrarsi per le autostrade che il “centrodestra di Bologna” le spalancherebbe, come qualcuno ha suggerito, il centrosinistra dovrebbe considerare con urgenza ancor maggiore — e con un senso del dramma ancor più acuto — le incertezze e l’impasse di cui sembra da tempo prigioniero. Quasi paralizzato nel suo frenetico eludere alcuni nodi di fondo o nel pensare che la partita principale, la vera “resa dei conti”, si svolga nel proprio campo e nelle sue immediate vicinanze. Anche per questo lo stesso dibattito sul profilo della sinistra, assolutamente fondamentale, appare oggi sterile e privo di sbocchi, nella divaricazione fra chi lo considera irrilevante — se non dannoso — e chi si attarda su formule malamente invecchiate. In questo scenario inoltre appaiono largamente assenti le questioni poste dalla crisi internazionale del 2008 e dalla sua onda lunga. Davvero dopo di essa e dopo le trasformazioni globali che sono intervenute la “ripresa” riproporrà i precedenti modi di vivere e di produrre? Davvero potremo ritornare a modelli noti? A terre incognite siamo in realtà giunti ed esse esigono scelte inedite e lungimiranti dei Parlamenti e dei cittadini.

Diventano ancor più decisive in questo quadro alcune bussole fondamentali della sinistra, a partire dall’equità sociale: dovrebbe essere un faro splendente, dopo i marosi che abbiamo attraversato, eppure nel dibattito politico non sembra avere la centralità necessaria. Si consideri anche il nodo delle compatibilità economiche: qual è il confine fra la necessità di ridare fiducia all’economia e ai soggetti sociali e il ritorno all’irresponsabilità degli anni berlusconiani? Terre incognite, davvero, e non è possibile inoltrarsi in esse senza quel rinnovamento della politica che era stato alla base della “spinta propulsiva” del Pd di Renzi e di cui però — difficile negarlo — non si vedono proprio le tracce. A due anni da quella proposta e da quell’impegno il panorama è sotto gli occhi di tutti: sia per quel che riguarda le modalità generali dell’agire politico sia per quel che riguarda il modo di essere del Pd, quasi abbandonato alle proprie derive. Le macerie del partito romano non hanno origini recenti: ed è silente su questi temi la minoranza interna, occupata in frantumazioni sempre nuove (e sempre identiche a se stesse) e con rilevanti responsabilità per il passato. Terre incognite e al tempo stesso avvolte da presagi sempre più preoccupanti: c’è solo da sperare che la consapevolezza del dramma inizi ad affacciarsi anche nei più convinti araldi dell’ottimismo.

Luciano Gallino ha scritto fino all’ultimo, fino a pochi giorni fa, quando le forze sono venute meno.

Perché sentiva l’importanza - forse anche l’angoscia - di ciò che aveva da dire. E cioè che il mondo non è «come ce lo raccontano». Che il meccanismo che le oligarchie finanziarie e politiche dominanti stanno costruendo e difendendo con ogni mezzo - quello che in un suo celebre libro ha definito il Finanz-capitalismo - è una follia, «insostenibile» dal punto di vista economico e da quello sociale. Che l’Europa stessa - l’Unione Europea, con la sua architettura arrogantemente imposta - è segnata da un’insostenibilità strutturale. E che il dovere di chi sa e vede - e lui sapeva e vedeva, per il culto dei dati e dell’analisi dei fatti e dei numeri che l’ha sempre caratterizzato -, è di dirlo. A tutti, ma in particolare ai giovani. A quelli che di quella rovina pagheranno il prezzo più amaro.

Non per niente il suo ultimo volume (Il denaro, il debito e la doppia crisi) è dedicato «ai nostri nipoti». E reca come exergo una frase di Rosa Luxemburg: «Dire ciò che è rimane l’atto più rivoluzionario».

Eppure Gallino non era stato, nella sua lunga vita di studio e di impegno, un rivoluzionario. E neppure quello che gramscianamente si potrebbe definire un «intellettuale organico».

La sua formazione primaria era avvenuta in quella Camelot moderna che era l’Ivrea di Adriano Olivetti, all’insegna di un «umanesimo industriale» che ovunque avrebbe costituito un ossimoro tranne che lì, dove in una finestra temporale eccezionale dovuta agli enormi vantaggi competitivi di quel prodotto e di quel modello produttivo, fu possibile sperimentare una sorta di «fordismo smart», intelligente e comunitario, in cui si provò a coniugare industria e cultura, produzione e arte, con l’obiettivo, neppur tanto utopico, di suturare la frattura tra persona e lavoro. E in cui poteva capitare che il capo del personale fosse il Paolo Volponi che poi scriverà Le mosche del capitale, e che alla pubblicità lavorasse uno come Franco Fortini, mentre a pensare la «città dell’uomo» c’erano uomini come Gallino, appunto, e Pizzorno, Rozzi, Novara… il fior fiore di una sociologia critica e di una psicologia del lavoro dal volto umano.

Intellettuale di fabbrica, dunque. E poi grande sociologo, uno dei «padri» della nostra sociologia, a cui si deve, fra l’altro, il fondamentale Dizionario di sociologia Utet. Straordinario studioso della società italiana, nella sua parabola dall’esplosione industrialista fino al declino attuale. E infine intellettuale impegnato - potremmo dire «intellettuale militante» - quando il degrado dei tempi l’ha costretto a un ruolo più diretto, e più esposto.

Gallino in realtà, negli ultimi decenni, ci ha camminato costantemente accanto, anzi davanti, anticipando di volta in volta, con i suoi libri, quello che poi avremmo dovuto constatare. È lui che ci ha ricordato, alla fine degli anni ’90, quando ancora frizzavano nell’aria le bollicine della Milano da bere, il dramma della disoccupazione con Se tre milioni vi sembran pochi, segnalandolo come la vera emergenza nazionale; e poco dopo, nel 2003 - cinque anni prima dell’esplodere della crisi! - ci ha aperto gli occhi sulla dissoluzione del nostro tessuto produttivo, con La scomparsa dell’Italia industriale, quando ancora si celebravano le magnifiche sorti e progressive della new economy e del «piccolo è bello».

È toccato ancora a lui, con un libro folgorante, ammonirci che Il lavoro non è una merce, per il semplice fatto che non è separabile dal corpo e dalla vita degli uomini e delle donne che lavorano, proprio mentre tra gli ex cultori delle teorie marxiane dell’alienazione faceva a gara per mettere a punto quelle riforme del mercato del lavoro che poi sarebbero sboccate nell’orrore del Jobs act, vero e proprio trionfo della mercificazione del lavoro.

Poi, la grande trilogia - Con i soldi degli altri, Finanzcapitalismo, Il colpo di Stato di banche e governi -, in cui Gallino ci ha spiegato, praticamente in tempo reale, con la sua argomentazione razionale e lineare, le ragioni e le dimensioni della crisi attuale: la doppia voragine della crisi economica e della crisi ecologica che affondano entrambi le radici nella smisurata dilatazione della ricchezza finanziaria da parte di banche e di privati, al di fuori di ogni limite o controllo, senza riguardo per le condizioni del lavoro, anzi «a prescindere» dal lavoro: produzione di denaro per mezzo di denaro, incuranti del paradosso che l’esigenza di crescita illimitata dei consumi da parte di questo capitalismo predatorio urta contro la riduzione del potere d’acquisto delle masse lavoratrici, mentre la spogliazione del pianeta da parte di una massa di capitale alla perenne ricerca d’impiego distrugge l’ambiente e le condizioni stesse della sopravvivenza.

E intanto, nelle stanze del potere, si mettono a punto «terapie» che sono veleno per le società malate, cancellando anche la traccia di quelle ricette che permisero l’uscita dalla Grande crisi del ’29. È per questo che l’ultimo Gallino, quello del suo libro più recente, aggiunge ai caratteri più noti della crisi, anche un altro aspetto, persino più profondo, e «finale».

Rivolgendosi ai nipoti, accennando alla storia che vorrebbe «provare a raccontarvi», parla di una sconfitta, personale e collettiva. Una sconfitta - così scrive - «politica, sociale, morale». E aggiunge, poco oltre, che la misura di quella sconfitta sta nella scomparsa di due «idee» - e relative «pratiche» - che «ritenevamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico».

Con un’ultima parola, in più. Imprevista: «Stupidità». La denuncia della «vittoria della stupidità» - scrive proprio così - delle attuali classi dominanti.

Credo che sia questo scenario di estrema inquietudine scientifica e umana, il fattore nuovo che ha spinto Luciano Gallino a quella forma di militanza intellettuale (e anche politica) che ha segnato i suoi ultimi anni.

Lo ricordiamo come il più autorevole dei «garanti» della lista L’Altra Europa con Tsipras, presente agli appuntamenti più importanti, sempre rigoroso e insieme intransigente, darci lezione di fermezza e combattività. E ancora a luglio, e poi a settembre, continuammo a discutere - e lui a scrivere un testo - per un seminario, da tenere in autunno, o in inverno, sull’Europa e le sue contraddizioni, per dare battaglia. E non arrendersi a un esistente insostenibile…

«Anche lo sport, come svelarono senza pudore Hitler, Mussolini, i gerarchi sovietici e i tedeschi dell’Est, può essere l’anticipazione della guerra con altri mezzi».

La Repubblica, 10 novembre 2015 (m.p.r.)

Mancavano l’accusa di “doping di Stato” e la richiesta di cacciare la Russia dal paradiso a cinque cerchi per riportare le lancette della nuova Guerra Fredda ancora più indietro nel tempo. Agli anni delle virili discobole, delle nuotatrici artefatte della Ddr e del commissario politico del Kbg al seguito delle squadre.

La frontiera mobile e multidimensionale del nuovo confronto globale fra la Russia di Putin e l’Occidente si estende. Si muove ormai dalla Siria al Donbass, dai cieli del nord Europa dove caccia russi fischiano attorno ad aerei Nato ai boicottaggi commerciali. Arriva alla sovraproduzione deliberata del petrolio per far crollare il prezzo del petrolio, fonte principale di ricchezza per i russi, per raggiungere il medagliere olimpico, la corruzione di Sochi 2014 e le colossali code di paglia di tutto il business, politico e commerciale, dello sport.
L’accusa, durissima, avanzata dalla Wada, l’agenzia mondiale creata per contenere la pandemia del doping nello sport e in particolare nell’atletica, diventa quindi involontariamente, ma inesorabilmente, un gesto politico. Va ben oltre il dubbio che un atleta russo o un’atleta americana o cinese si pompassero per vincere medaglie olimpiche, che sarebbe la triste, quanto classica scoperta dell’acqua calda e del verminaio che si nascondono dietro la mistica dello “sport separato dalla politica”.
Parla, in maniera esplicita, di doping sistematico, della “bomba di Stato” di una situazione di regime condonata o favorita dal governo della Federazione Russa, dunque da Putin, attraverso ministri e funzionari del nuovo Kgb ribattezzato Fsb. Un Villaggio Potemkin della superiorità atletica costruito esattamente per le stesse ragioni che, nell’Europa d’oltre muro, spingevano i governi a gestire quei tragici allevamenti di bambini trasformati in atleti e atlete in batteria capaci di portare un incredibile totale di 102 medaglie a una nazione di 16 milioni di abitanti, come la Repubblica Democratica Tedesca nell’ultima Olimpiade alle quale partecipò come tale, Seoul 1988.
La sostanza dell’assalto allo sport olimpico e all’atletica russa in particolare è diretta quindi contro il cuore stesso del “putinismo”, che non pulsa nella forza militare, nello stato dell’economia, nella mitologia putrefatta del Socialismo Reale, ma vive in qualche cosa che ogni cittadino russo, indipendentemente dalla propria condizione sociale o dalle propria opinioni politiche, considera irrinunciabile: l’orgoglio nazionale. Il prestigio della “Ròdina” della madre patria considerata, da sempre, come esposta alle minacce, alle umiliazioni, all’assedio del mondo esterno.
Espellere gli atleti russi dalle competizioni internazionali e soprattutto da quei Giochi Olimpici del 2016 ormai imminenti sarebbe più di una battaglia perduta per Putin. Sarebbe un affronto alla Russia intera che il piccolo zar non potrebbe tollerare per non incrinare la propria leggenda, come i suoi predecessori nei palazzi del Cremlino non poterono subire senza reagire il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca 1980, boicottando Los Angeles 1984. Se non potrebbe essere considerato come un atto di guerra, sarebbe vissuto come una sfida letale all’onore della Patria e aumenterebbe la temperatura di un confronto che ha sempre meno voglia di restare freddo.
I russi, nel racconto epico voluto da Putin, si sentono più che mai assediati e presi dalla storica paranoia della minaccia esterna, dicono i sondaggi. Vedono nell’Ucraina, che pure ha perduto e sta perdendo pezzi di territorio inghiottiti dalla Russia, come il grande avamposto dell’espasionismo neoimperialista americano e dei neonazi tedeschi. La Nato, canta la narrativa degli agit prop putiniani, sta meticolosamente preparando una guerra vera, per mettere definitivamente in ginocchio la Madre Russia.
Obama dispiega nuovi reparti americani in Polonia e nei Paesi Baltici, in realtà poche migliaia di soldati, batterie missilistiche e artiglierie del tutto insufficienti per lanciare qualsiasi azione offensiva, ma simbolicamente rappresentativi del continuo riposizionamento avanzato del “nemico” sulla porta di casa. E Dick Pound, l’avvocato che ha condotto gli 11 mesi di inchiesta sul “doping di Putin” è canadese, dunque sicuramente parte della trama nordamericana, per la paranoia popolare.
In questo grande balzo all’indietro verso il buio a mezzogiorno che ha avuto nel massacro dei turisti russi sul Metrojet l’ultima e atroce conferma della nuova esposizione e quindi vulnerabilità globale della Russia, la decapitazione dell’orgoglio nazionalistico sportivo sarebbe un insulto difficile da accettare per un pubblico russo convinto, come tanti, e non a torto, che in materia di doping sportivo la discriminante non sia fra chi si pompa o non si pompa. Ma tra chi viene scoperto e chi la fa franca. Alimenterebbe la sensazione che il mondo esterno, quello che sta oltre i confini occidentali, stia ricadendo nella dinamica politica del “containment” che guidò la strategia americana nel dopoguerra, del limitare e contenere le ambizioni e l’espansionismo di Mosca a ogni costo, resi allarmanti dall’annessione dell’Ucraina e ora dall’intervento militare per puntellate l’ultimo satellite russo in Medio Oriente, il regime siriano di Bashar al-Assad. È solo sport, sono solo medagliette, son soltanto “pere”, truffe sleali per correre più forte e saltare più in un alto, ma non è vero. Anche lo sport, come svelarono senza pudore Hitler, Mussolini, i gerarchi sovietici e i tedeschi dell’Est, può essere l’anticipazione della guerra con altri mezzi.
Piccolo viaggio alle radici del renzismo. Cominciò con Craxi e con Veltroni. Alessandro Ferrucci intervista Marisa Rodano protagonista della lotta per il suffragio universale in Italia.

Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015

Sigaretta tra le mani, capelligrigi, cardigan e camicia, risposte mai immediate ma frutto di una breveriflessione. “Vuole sapere da quando è iniziato tutto questo sconquassopolitico e sociale? Dall’avvento del CAF”. Maria Lisa Cinciari Rodano, classe1921, si accomoda in poltrona circondata dai suoi libri, libri che racchiudonouna storia ricca, irripetibile, decisiva in alcune battaglie civili, inparticolare per la parità dei sessi; lei che nel 1963 diventò, per il Pci, laprima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Camera.

Lei ha visto, vissuto, partecipato,a buona parte dell vicende del nostro secondo dopoguerra. Secondo lei stiamo ancora pagando il trittico Craxi-Andreotti-Forlani...
«Con loro inizia il processo di degrado della democraziaitaliana che poi esploderà con Mani pulite: la crisi dei partiti, illeaderismo, la personalizzazione della politica. I programmi diventati secondari».
C’è chi vede similitudini tra Renzie Craxi.
«Forse ci sono in alcune scelte, ma lo scopo è bendiverso: l’obiettivo di Renzi è governare, per produrre cambiamento, ma nonsempre cambiare significa progredire; non sempre cambiare è meglio, non semprevuol dire andare a sinistra, magari ci si sposta a destra. Sa qual è il veroproblema? Non è chiaro quale società vogliano, in che modo affrontare laquestione che metà della popolazione è sotto la soglia di povertà; come ridurrele disparità di reddito e di condizioni di vita».
Sul Fatto di lunedì scorso,Alfredo Reichlin ha parlato di Renzi come di un politico che non costruisce, diun uomo lontano da un'idea di partito...
«Condivido. Ribadisco: oramai la politica è solo scontrotra leader o presunti tali, si è personalizzata, e ciò spiega il perché metàdella popolazione non va a votare, metà della popolazione ritiene che lapolitica non è affare suo, che il voto non conta, non serve; è come se la politicafosse diventata qualcosa di riservato a pochi cittadini».
Deve essere particolarmentedoloroso per leiche ha combattuto per il suffragio universale...
«Molto. Mi ricordo la campagna per l’elezionedell’Assemblea Costituente, per far comprendere alle donne (che mai avevanovotato) l’importanza dell’urna, di quanto quel gesto poteva condizionare leloro vite e quelle di tutti. E alla fine, nel 1946, l’80 per cento si presentòcon la scheda in mano, la stessa percentuale degli uomini. Qualcosa di straordinario. Alcune di noi scoppiarono inlacrime».
Torniamo al CAF: avvertì subitoil cambio di marcia?
«Immediatamente. Non appena Craxi propose la cosiddetta“Grande riforma”, con l’obiettivo di arrivare a una legge elettorale maggioritariaper instaurare un sistema di alternanza tra due schieramenti, (tra la Dc e ilPsi) allo scopo, come ho già detto, di escludere il Pci. In parte l’idea di Stato che ha Renzi ricorda quella“Grande Riforma” di Craxi. La vada a prendere e vedrà le somiglianze».
Bipolarismo antelitteram.«Esatto, una proposta poi sancita al congresso socialistadi Rimini. Da quegli anni iniziarono a finire le ideologie e purtroppo leidealità».
È legata alle ideologie?
«No, sono sempre stata dell’idea che la politica dovesseessere laica, e non discendere dal fatto che uno crede in Dio, o é ateo, èmarxista o liberale. No. La politica deve riguardare tutti. Il problema è chela fine delle ideologie si è portata dietro anche l’addio alle idealità, ai progetti, quindi sono finite leprospettive».
Veltroni ha sponsorizzato il bipolarismo.
Mi ricordo il fastidio provato durante il suo discorso a Torino».
Secondo Cacciari da quell’intervento finisce il Pd...
Quel giorno Veltroni sembrò voler dire a proposito della sua militanza nel Pci:“Non c’ero e se c’ero dormivo”. Non si può affermare “non sono mai statocomunista”, se si è militato nel Pci. Si deve avere il coraggio di proporreun’analisi critica degli errori, di che cosa non si è capito; di cercare divalutare gli aspetti positivi e quelli negativi. Così si fa. Non si può buttarevia tutto, non si può rifiutare il proprio passato».
Veltroni ha smantellato anchele sezioni, per un partito fluido...
«Quello delle sezioni era un tessuto fondamentale».
Quanto?
Nei primi anni dopo la Liberazione, a Roma, ogni giovedì c’erano assembleedelle sezioni del Pci dove si discuteva degli eventi internazionali dellasettimana, di quelli nazionali, delle cose da fare, di quelle da evitare, diquello che aveva combinato la Democrazia cristiana, degli argomenti all’ordine del giorno in Parlamento, di qualeposizione tenere su di essi in Parlamento».
Una partecipazione di base.
«Sì, e molto viva: e di quella opinione bisognava tenerconto».
Un tipo di coinvolgimento chein parte hanno ereditato Grillo e il Movimento.
«Sì, ma il web è una questione un po’ diversa: una cosa ècliccare “mi piace” o scrivere tre parole di commento; altro è partecipare auna discussione viso a viso. Perché cliccare “mi piace” non costa niente, nonrischi niente, non ci si mette in gioco veramente, mentre le discussione vis avis duravano ore, e si creava anche una forma di solidarietà umana importante».
Reichlin si è definito sconfittocome uomo di sinistra.
«C’è una responsabilità grossa in tutti i gruppi dellasinistra che non sono mai riusciti ad aggregarsi, e da decenni».
Si riferisce al gruppo del Manifesto?
«Anche prima. In realtà c’è sempre stata questa frantumazioneche ha fatto sì che la sinistra non contasse».
Perché questa tendenza?
«Difficile dirlo. Torniamo all’inizio di questa nostrachiacchierata: la politica italiana è diventata di persone, e ognuno la fa inproprio, come singolo, a cominciare da Renzi. È l’interesse di un club, una specie di Rotary».
È stupita di cosa sta accadendoa Roma?
«Molto. Il mio ricordo di Roma è quello legato a un’altraepoca, con il movimento operaio attivo, vivace, presente. Ricordo cos’erano imovimenti, le sezioni delle borgate che si battevano per le fogne,l’illuminazione elettrica, la riparazione delle case, i trasporti. Era unacittà attiva, con momenti magnifici come nel periodo del sindaco Petroselli».
Anche dalla Roma di queglianni partì una sorta di rivincita civile contro il terrorismo.
«Non c’è dubbio, l’Estate Romana fu un’esperienzastraordinaria, dagli anni bui, la Capitale divenne una vetrina per il mondo».

Quella vetrina adesso èpurtroppo a Piazzale Clodio, dove si celebra Mafia-Capitale.

Nel rimpiangere il maestro che ci ha lasciati l'autore ce ne ricorda una pagina, che anche per noi è fondamentale. La Repubblica, blog "Articolo 9", 9 novembre 2015
Senza Luciano Gallino siamo più soli, più disarmati, meno capaci di capire il presente e di costruire un futuro diverso: uso il plurale, parlo di tutti coloro che credono che un altro mondo sia possibile.

In queste ore tristissime possiamo fare solo una cosa: rileggerlo, con animo profondamente grato.

«Se si guarda alla sua irresistibile ascesa come ideologia dominante dell'ultimo terzo del Novecento e del primo decennio Duemila, bisogna partire dalla constatazione che il neoliberalismo è una dottrina totalitaria che si applica alla società intera e non ammette critiche. In forza del suo dominio tale dottrina ha profondamente corrotto la vita sociale, il tessuto delle relazioni tra le persone, su cui le società si reggono; con i suoi errori ha condotto l'economia occidentale ad una delle peggiori recessioni della storia; ha straordinariamente favorito la crescita delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza di potere. ...

«È la più grande forma di pandemia del XXI secolo. È anche un grande pericolo per la democrazia. Per cui sarebbe necessario combatterla ogni giorno mediante rinnovate dosi di pensiero critico in ogni singolo luogo in cui si riproduce: nella scuola, negli atenei, nei manuali, nei quotidiani, in tv. Allo sguardo del pensiero critico, il neo liberalismo è nudo. L'ermellino che vanta è in realtà un panno di poco prezzo.
«Bisogna puntare a moltiplicare il numero di persone che così lo vedono. E, perché no, dare retta a Keynes, là dove dice (alla fine della Teoria generale) che prima o poi sono le idee, più ancora che gli interessi costituiti, a essere davvero pericolose, per il meglio e per il peggio. Che è uno dei pensieri utilizzati con maggior destrezza dal neoliberalismo, insieme con il concetto di egemonia, al fine di costruire un mondo dove il peggio tocca solo ai deboli, e il meglio ai più forti. Bisognerebbe tentare di rovesciare tale principio, allo scopo di costruire qualcosa di meglio a favore dei più deboli»
(L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L'attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013, pp. 251, 268)

Parole alle quali viene da rispondere con il Max Weber della Scienza come professione (1917): «Ne vogliamo trarre l’insegnamento che anelare e attendere non basta, e faremo altrimenti: ci metteremo al nostro lavoro, e adempiremo “alla richiesta di ogni giorno” come uomini, e nel nostro lavoro».

Grazie, professor Gallino: che la terra le sia lieve.

a Repubblica, 9 novembre 2015

Non sono sui libri e non hanno nemmeno un impiego. Quasi due milioni e mezzo di giovani vite sospese che non riescono a trovare un ruolo nel mercato del lavoro, nella società. E in questo momento fanno fatica anche solo a immaginarlo. L’Italia è la più grande fabbrica di Neet in Europa. Ragazzi fra i quindici e i ventinove anni fuori da qualsiasi circuito scolastico e lavorativo che di fatto vivono ancora sulle spalle di papà e mamma. Molti non hanno mai finito le superiori. Ma dentro quest’universo inerte finiscono sempre più laureati che non sono in grado di uscire di casa nemmeno dopo anni dalla discussione della tesi.

Il termine Neet compare per la prima volta nel 1999 in un documento della Social exclusion unit del governo britannico ed è l’acronimo di “Not in Education, Employment or Trading”. Un indicatore dalle braccia più larghe rispetto a quello sulla disoccupazione giovanile non solo perché si spinge fino alla soglia dei trent’anni, ma perché include anche chi un impiego ha smesso di cercarlo o è finito fra le maglie del lavoro nero. Fino al Ventesimo secolo questa voce non esisteva. Oggi è usata da tanti istituti di ricerca per raccontare una deriva talmente grande — anche in termini di perdite economiche e di spreco di capitale umano — da spingere più studiosi a parlare di “generazione perduta”.

Nel nostro Paese i Neet erano 1,8 milioni nel 2008. Nel giro di sette anni se ne sono aggiunti altri 550mila e oggi toccano i 2,4 milioni. Insieme potrebbero riempire una città grande quasi quanto Roma. «Un livello allarmante mai raggiunto nella storia ». A dirlo è una recentissima indagine di Alessandro Rosina, demografo e sociologo dell’università Cattolica di Milano: «La quantità di giovani lasciati in inoperosa attesa era già elevata prima della crisi — scrive nel volume “Neet”, edito da Vita e pensiero — ma è diventata una montagna sempre più elevata e siamo una delle vette più alte d’Europa ». Il 2014 è stato l’anno in cui l’Italia ha toccato il punto più basso di nascite ma il valore più alto di Neet: si muovono in questo labirinto il 26 per cento dei giovani italiani fra i quindici e i trent’anni. La media europea è del 17, di nove punti più bassa. Ma ci sono Paesi come la Germania e l’Austria dove i ragazzi in questa condizione non superano il 10 per cento.

Dietro questo acronimo si nascondono storie e vite molto diverse. Come quella di Francesca Romeo. Ventenne, nata e cresciuta a Varese e un diploma di liceo artistico conquistato con fatica dopo qualche brutto voto di troppo che le ha fatto perdere un anno. «Studiare non fa per me. Per questo ho deciso di lasciare perdere l’università». Dopo la maturità ha racimolato qualche soldo lavorando nelle sere d’estate dietro al bancone di un bar in un circolo culturale. «Ma hanno avuto bisogno di me per poco». Così si è iscritta all’ufficio di collocamento e nel frattempo ha provato a bussare alla porta dei negozi del centro. Grandi catene di abbigliamento e di articoli sportivi, boutique di scarpe e profumerie, poi casalinghi, negozi di elettrodomestici. Il suo curriculum è sempre caduto nel nulla. «Chi appende cartelli per cercare personale non manca. Ma non vogliono me».

Tutti chiedono un po’ di esperienza alle spalle. «Io non ne ho nemmeno una. Così però rischio di andare avanti all’infinito ». Francesca è ferma da mesi nella speranza che prima o poi qualche porta si apra. Non ha mai vissuto in un posto diverso dalla casa dov’è cresciuta e in questo momento ha il timore che il giorno in cui potrà mettere piede fuori casa non arriverà mai.
L'Italia è la penultima: meno della Bulgaria, più della Romania
Valentina Maddalena invece, 28 anni, nella casa dei genitori ci è tornata dopo cinque anni di università e una laurea mai raggiunta. Aveva salutato Fiumefreddo Bruzio, nel cosentino, per trasferirsi a Roma e iscriversi alla Sapienza. «Sono rimasta sui libri di sociologia per quattro anni, poi ho capito che non era la mia strada. La media del 28 non significa nulla: era un campo che non sentivo mio». Per un anno ha fatto l’addestratrice cinofila, poi la commessa. «Ero lontana anni luce anche solo dal pagarmi l’affitto ». Così è tornata in Calabria. Anche qui ha trovato un posto da commessa ma il negozio dodici mesi fa ha chiuso e un passo dai trent’anni bollette, spese e scontrino alla cassa del supermercato vengono pagati solo grazie agli sforzi dei genitori: il papà vende legna, la mamma lavora come domestica. «Va avanti così da un anno. Loro capiscono la situazione ma per me è pesantissimo».

Su dieci Neet, cinque sono diplomati mentre quattro hanno solo la licenza di terza media. Come Enea Testagrossa, che vive in provincia di Monza: ha lasciato gli studi in terza superiore e oggi, a 21 anni, lavora a titolo volontario in un asilo privato e non ha entrate. Spesso all’origine di tutto c’è un insuccesso a scuola o all’università. Il 10 per cento, però, ha in mano una laurea. E gira, come gli altri, a vuoto. In un’attesa che non finisce mai. È il caso di Francesco Marando, 27 anni, laureato in Ingegneria civile. È una vita sospesa anche la sua da quando è tornato a Marina di Ginosa Ionica dai genitori. «Io continuo a inviare curriculum, ma per il nostro settore il momento è quello che è: quando va bene mi rispondono “le faremo sapere”». E anche per lui, ritrovarsi a dormire nella camera di quand’era bambino non è semplice per nulla.

Di casi come questi ce ne sono tanti. E non sono solo under trenta. Basta pensare che in Italia, secondo l’Eurostat, quasi il 66 per cento dei “giovani adulti” vive a casa con i genitori. Una percentuale di quasi venti punti superiore rispetto alla media di tutti e ventotto i Paesi Ue. Le loro storie sono legate dalle stesse paure, sottolinea Rosina: «Vagano senza meta, sempre più disincantati e disillusi, con il timore di essere marginalizzati e di dover rinunciare definitivamente a un futuro di piena cittadinanza».

La fetta più consistente dei Neet è costituita da chi in questo momento sta cercando (più o meno attivamente) un impiego e quindi dai disoccupati. Ma se per loro questo limbo dovesse durare troppo a lungo, il rischio più grande è che passino dalla parte dei cosiddetti “inattivi”: uomini e donne che un impiego non lo cercano più. O che ingrossano le fila del lavoro nero. Gli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile sembrano purtroppo andare proprio in questa direzione. A settembre i senza lavoro fra i quindici e i ventiquattro anni erano il 40,5 per cento. Il loro lieve calo dello 0,2 per cento rispetto ad agosto non suona però esattamente come una buona notizia: nello stesso mese gli “inattivi” nella stessa fascia di età sono aumentati dello 0,5 per cento.

Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015

Quando ho sentito a Bruxelles la notizia della morte di Luciano Gallino mi è tornata in mente un’immagine della più bella autobiografia mai scritta, Dei miei sospiri estremi, di Luis Bunuel. Verso la fine del libro e della vita, ormai ottuagenario, il grande maestro surrealista, “ateo per grazia di Dio”, racconta un sogno, quello di uscire qualche volta dal cimitero per andare soltanto fino all’edicola, comprare l’ultima edizione e vedere a che punto sia giunta la follia del mondo. Fino agli ultimi mesi, ormai provato dalla malattia, dalle operazioni e dai ricoveri, Luciano Gallino è rimasto un uomo profondamente appassionato al futuro del nostro Paese, dell’Europa, del mondo.

Uno sguardo lungo che ha ispirato le sue ultime opere, per così dire pedagogiche, dove ha cercato di spiegare con parole semplici alle generazioni più giovani quanto stava accadendo nelle società occidentali, in gran parte alle loro spalle. Da molto tempo i fatti si erano incaricati di dare ragione alle sue lucide, chiarissime analisi s ul l’evoluzione del capitalismo globalizzato e sulle conseguenze catastrofiche di una sballatissima costruzione dell’Unione europea.

Nessuno come Gallino, neppure il giustamente celebrato Piketty, ha saputo raccontare in anticipo la follia delle oligarchie dominanti conservatrici, l’utopia negativa di voler rispondere alla crisi più potente degli ultimi ottant’anni, dalla Grande Depressione, con una ricetta ideologicamente opposta a quella del ’29, distruggendo lo stato sociale, imponendo assurde politiche di austerità e svalutando il lavoro e i diritti.

Nei suoi saggi e articoli erano annunciati già gli effetti catastrofici che si sarebbero materializzati negli anni, dal declino dei ceti medi alla ricomparsa di masse di poveri nel ricco Occidente, fino al furto di vita e futuro ai danni delle nuove generazioni e al pericolo di veder risorgere un nuovo fascismo in tutta Europa. Si può dire che l’avventura della Lista Tsipras, con tutti i suoi limiti certo, ma anche col merito di aver dato rappresentanza a una cultura di sinistra minacciata di estinzione dal trasformismo renziano, sia nata tutta attorno al pensiero di Luciano Gallino. Nel panorama conformista e provinciale della vita intellettuale italiana, le idee di Gallino erano un’oasi d’intelligenza e coraggio. In un Paese che ama gli anticonformisti soltanto in occasione degli anniversari della morte, si può soltanto sperare che questi meriti non gli vengano riconosciuti fra quar ant’anni, come per Pasolini.

ALa Repubblica, 9 novembre 2015




UN INTELLETTUALE RARO CHE ALLA PURA ANALISI
UNIVA SEMPRE L’EMPATIA PER I “VINTI”
di Guido Crainz
Un intellettuale raro, Luciano Gallino. Raro per l’arco complessivo del suo percorso, da quel luogo magico che è stata la Olivetti degli anni Cinquanta e Sessanta sino al ruolo svolto nei grandi campi del sapere sociologico; dall’Università di una città- simbolo dell’Italia industriale come Torino alle esperienze internazionali, e sino ai puntuali interventi connessi all’attualità. Un intellettuale raro per l’intreccio stretto fra ricerca scientifica e impegno civile, nel suo rigoroso seguire il delinearsi di un mondo e il suo dissolversi: con un’attenzione costante sia alle nervature interne di esso che alle ricadute umane dei processi che lo attraversavano.

Si riflette infatti nelle sue ricerche il definirsi del mondo industriale in Italia, il suo tardivo ed intenso espandersi, il suo specifico profilo; e poi il suo progressivo rimodellarsi ( Il lavoro e il suo doppio) e incrinarsi ( La scomparsa dell’Italia industriale) sino al suo radicale trasformarsi nell’era della globalizzazione. Senza rimuovere i drammi umani e le lacerazioni che quella dissoluzione ha provocato e provoca; con un’intensa attenzione ai nessi fra Globalizzazione e diseguaglianze, a Il costo umano della flessibilità o ai profili de L’impresa irresponsabile. Con l’analisi attenta delle forme e delle modalità complesse del lavoro, delle trasformazioni tecniche e al tempo stesso delle dimensioni umane che entravano in gioco.

È sufficiente scorrere alcuni titoli dei suoi libri per cogliere la ricchezza di un percorso e questo rinvia ad un altro suo tratto: alieno dalle più rigide ideologie del marxismo di scuola quando esso sembrava imperante, e alieno dalle liquidazioni altrettanto ideologiche di patrimoni conoscitivi quando quelle liquidazioni sono dilagate. Si legge con passione un libro-intervista di tre anni fa, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Con la riflessione sull’attuale ridefinirsi delle classi sociali, in una puntuale contestazione di chi ne nega l’esistenza; e con la delineazione di una lotta di classe (economica, sociale, culturale) condotta oggi dalle classi dominanti contro le classi lavoratrici e le classi medie. Con l’analisi non dello scomparire ma del progressivo estendersi - oltre la fabbrica e anche oltre il lavoro - di forme molteplici di dominio quotidiano.

Con l’analisi delle tragedie indotte non solo dai processi economici ma anche dal Dramma di una società disgregata, per citare un articolo pubblicato nel marzo del 2010 su questo giornale: una riflessione su quelle lacerazioni indotte dalla crisi di cui testimoniavano i drammi, e i suicidi, di imprenditori e di operai del Nord-Est. «Per resistere a un simile carico di rabbie e scoramento», scriveva, sarebbero necessarie coesioni sociali oggi quasi dissolte. Sarebbero necessari “gruppi di sostegno” che un tempo esistevano: «Certamente ne esistono ancora, ma forse non abbastanza». Era un’analisi e al tempo stesso un richiamo a responsabilità collettive: come tutti i suoi scritti.


IL RIFORMISTARIGOROSO CHE CI HA RACCONTATO
LE METAMORFOSI D’ITALIA
di Paolo Griseri

Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, mancherà la testimonianza rigorosa e appassionata, la serietà d’analisi che consentiva a tutti coloro che si occupano della società italiana di avere uno sguardo non preconfezionato sui mutamenti dell’ultimo mezzo secolo. Soprattutto mancherà il suo essere punto di riferimento, quasi una cartina di tornasole del mutare delle posizioni altrui: il suo mite radicalismo d’indagine aveva finito per farlo passare, negli ultimi anni, come un intellettuale no global mentre era semplicemente il coerente sostenitore di un riformismo rigoroso e non cortigiano. Dunque un riformismo autentico.

Dal capitalismo dal volto umano di Adriano Olivetti alla girandola impazzita della crisi dei mutui subprime, Luciano Gallino ha conosciuto e analizzato l’intera parabola del rapporto capitale-lavoro nella seconda parte del Novecento. Utilizzando come metro di valutazione le persone che in quei processi venivano rese protagoniste o schiacciate.

Non avrebbe potuto essere diversamente. Ivrea, negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata uno dei principali laboratori di analisi sociale e anche scuola di formazione per intellettuali e futuri esponenti della classe dirigente italiana. Lo ha raccontato nell’intervista su Adriano Olivetti riproposta lo scorso anno da Einaudi con il titolo L’impresa responsabile. Quasi una provocazione se si pensa a certe società quotate in Borsa. Ma, all’epoca, una specie di parola d’ordine per gli intellettuali riuniti intorno dall’azienda di Ivrea. La Olivetti di Adriano e la Torino di Gianni Agnelli erano, all’epoca, i due poli possibili della via italiana al capitalismo. Olivetti chiama Gallino nel 1956 a fare da consulente e sembrava una bestemmia, una stravaganza per un capitano d’industria. Le due one company town sistemate a soli 40 chilometri di distanza, rivaleggiavano sul modello di capitalismo che proponevano.

Una competizione vera, a colpi di marketing sociale: ancora alla fine degli anni Settanta ci fu chi osservò che sull’autostrada i cartelli chilometrici verso Torino erano sponsorizzati dalla Fiat e quelli sulla carreggiata opposta, verso Ivrea, dalla Olivetti. Industria di massa che aveva sconvolto la geografia sociale di Torino quella degli Agnelli, città-comunità che realizzava prodotti d’avanguardia quella degli Olivetti. È in questo secondo campo che il giovane Gallino aveva cominciato a studiare il lavoro e le sue conseguenze sulla società, all’ufficio “Studi relazioni sociali”.

È all’Università di Torino che negli anni Settanta inizia il suo percorso di docente e di ricercatore. Arriva in un momento particolare per la storia sociale ma anche per gli studi sociologici. A Torino il punto di riferimento era per tutti Filippo Barbano, uno dei pionieri della sociologia italiana. Erano anni in cui era diventata una scelta quasi obbligata per un intellettuale coniugare studio e verifica sul campo in una città che era diventata inevitabilmente un gigantesco laboratorio sociale. Approfondire i saggi teorici e distribuire questionari davanti ai cancelli delle fabbriche erano le due principali attività dei sociologi.

Gallino non amava le mode intellettuali. Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e questo gli ha reso la vita non semplicissima sia negli anni Settanta del Novecento sia in questo primo scorcio del nuovo millennio. Non aveva nemmeno timore di schierarsi. La sua adesione al comitato promotore della lista Tsipras alle elezioni europee è la dimostrazione che il riformista Gallino non era un intellettuale timoroso di sporcarsi le mani. Era invece convinto della necessità di un cambio radicale di sistema, non solo economico ma anche culturale. E per arrivarci non vedeva altra strada se non quella dello studio e della comprensione dei meccanismi sociali. Non amava scorciatoie populiste: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tantivo di salvarsi — scriveva — ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata».

Lo studio ma anche la proposta. Il suo piano per creare lavoro e uscire dalla crisi negli anni difficili dello spread alle stelle è stata una delle rare proposte concrete. Quell’idea di prender- si cura dell’Italia, utilizzare gli investimenti pubblici per creare lavoro, ristrutturare scuole e riparare strade è forse il vero testamento del sociologo che sapeva guardare oltre lo stato di cose esistente.


IHuffington Post, 7 novembre 2015

IL DOCUMENTO DI “SINISTRA ITALIANA”

1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale.

Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare.

L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste.

Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme.

2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile.

3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni.

4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.

LETTERA DI NADIA URBINATI

La formazione di un gruppo parlamentare della sinistra alla Camera e al Senato, che il documento di Carlo Galli esplicita nelle motivazioni e nelle ragioni, è una scelta necessaria anche se non facile e rischiosa. Non è facile perchè la sinistra che la promuove proviene da una tradizione che è ostile al frazionismo e allo scissionismo. E’ tuttavia necessaria, perchè questo Pd rappresenta un problema, non solo per la sinistra ma anche per il pluralismo politico, a causa della sua esplicita vocazione personalistica e plebiscitaria e dell’uso a dir poco cinico del compromesso politico – nel documento si parla di togliattismo senza idealità.

E’ necessaria anche perchè in materia di contenuti, ovvero di diritti sociali fondamentali (del e nel lavoro, dell’istruzione pubblica, della sicurezza sociale, e della salute), questo Pd non si distingue da un ordinario partito moderato e a tratti conservatore, comunque genuflesso al liberalismo economico. Non ha un’autonoma visione di giustizia sociale, che infatti identifica con la carità per i perdenti della lotta sociale e la filantropia privata di chi può verso chi non può. Questo linguaggio è estraneo sia alla cultura politica della sinistra sia alla democrazia, le quali assegnano centralità all’eguaglianza nei diritti e nella dignità politica di tutti i cittadini. E’ una scelta necessaria, infine, perchè sono molti gli elettori di sinistra privi di riferimenti politici credibili e validi, indotti per questa ragione a disertare le urne, una scelta sofferta e gravissima per un cittadino.

Certo, questa è anche una scelta rischiosa. Vi è il rischio che si tratti di una scelta tardiva (e sotto molti aspetti lo è) e soprattutto che resti una formazione solo parlamentare, senza la capacità di radicarsi nel paese, di diventare cioè un partito. Questi sono due rischi che nessuno può ragionevolmente sottovalutare perchè la sinistra parlamentare non ha una leadership fuori dal Parlamento. Tuttavia, l’agire politico democratico è naturalmente associato al rischio, al fallibilismo, al coraggio di fare scelte; e proprio per questo è aperta negli esiti e nelle possibilità. Occorre osare e lanciare una sfida da sinistra, con l’obiettivo di guadagnare ad essa consenso e autorevolezza in corso d’opera (le forze si acquistano camminando), due condizioni che non possono che far bene alla politica (e allo stesso Pd).

La critica sottesa a questa vostra scelta, come si evince molto chiaramente dal documento di Galli, è naturalmente rivolta al Pd, per quel che sta diventando o che non vuole più cercare di essere. Nonostante gli sforzi di intellettuali rappresentativi che hanno dato volto alla sinistra di ieri, associare questo Pd al “novello Principe” è anacronistico, a meno di non adattare il progetto gramsciano ad ogni formazione partitica che aspiri e rierca a dominare la società con qualunque metodo: tramite un partito cioè o per mezzo di un plebiscito dell’audience. Oltre a ciò, il valore del processo democratico sta nella sua capacità di regolare il conflitto politico consentendo un’aperta competizione per il governo del paese. Fino a quando chi perde un’elezione ha la forza di far sentire a chi vince la sua presenza e la possibilità di un’alternanza c’è vitalità politica e controllo democratico.

La democrazia non è unanimità o consensualismo dell’audience, ma dialettica tra maggioranza e opposizione, lotta politica non futile. Queste sono le ragioni che mi portano a sostenere questo progetto. Il pluralismo e il conflitto stanno in relazione simbiotica e sono entrambi a repentaglio in questa fase plebiscitaria a guida renziana. Il Pd è nato con un’ambiguità che nel corso del tempo si è ingigantita: indebolire le strutture di democrazia interna al partito ha facilitato la formazione di leader plebiscitari e la fuga degli iscritti o di chi cercava un luogo di partecipazione politica.

Questo Pd è generatore di un progetto di “partito totale” o “partito unico” che sembra adattarsi bene ad una società spoliticizzata e docile, a una cittadinanza che accetta di monetarizzare i diritti. Il Partito della Nazione suggerisce, in questo senso, analogie con le esperienze maggioritariste che si stanno affermando in alcuni paesi europei, se non altro per la vocazione a cercare di creare un dominio largo della maggioranza e neutralizzare il più possibile il pluralismo e il rischio dell’alternanza (in questo senso procede la riforma elettorale unitamente a quella della Costituzione). Non è stato questo l’ideale per il quale i resistenti hanno combattuto contro il plebiscitarismo fascista e che ha ispirato i costituenti che hanno siglato il nobile compromesso, la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948.

Vi auguro buon lavoro e, senza retorica, buona fortuna.

«Il manifesto

Alla ricerca della «con­nes­sione tra le lotte» nei ter­ri­tori col­piti dalla stra­te­gia di «deva­sta­zione e sac­cheg­gio» impo­sta dallo Sblocca Ita­lia di Renzi, dal tra­di­mento siste­ma­tico del refe­ren­dum dell’acqua pub­blica del 2011, dalla pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi e dei beni comuni. L’assise del forum dei movi­menti per l’Acqua a Roma (con­ti­nua oggi al cowork Mil­le­piani nel quar­tiere della Gar­ba­tella con inter­venti, tra gli altri, di Gae­tano Azza­riti, Marina Boscaino e Mau­ri­zio Lan­dini) ieri è diven­tata l’occasione per una rifles­sione su una stra­te­gia di resi­stenza, di disob­be­dienza civile e contro-insorgenza demo­cra­tica con­tro la gestione com­mis­sa­riale del paese ini­ziata con le grandi opere, pro­se­guita con l’Expo e oggi appli­cata nella Capi­tale con il Giubileo.

Lo spa­zio poli­tico per una simile stra­te­gia è for­nito, in nega­tivo, dalle poli­ti­che del governo Renzi in mate­ria di gestione dei ser­vizi essen­ziali (come l’acqua), dell’energia (gas e petro­lio), dello svi­luppo infra­strut­tu­rale del paese basato su ener­gie fos­sili, alta velo­cità, cemento, tri­vel­la­zioni, ren­dita finan­zia­ria e immo­bi­liare, gestione pri­va­ti­stica del pub­blico e dei beni comuni. Sono al momento due gli appun­ta­menti per rico­min­ciare un per­corso di riag­gre­ga­zione con­tro il «con­sumo distrut­tivo del ter­ri­to­rio, dell’energia e dell’acqua»: il primo è la con­fe­renza sui cam­bia­menti cli­ma­tici che si terrà a Parigi dal 30 novem­bre all’11 dicem­bre. Dome­nica 29 novem­bre è pre­vi­sta una mani­fe­sta­zione della Coa­li­zione per il clima tra piazza Far­nese e i Fori Impe­riali a Roma in con­tem­po­ra­nea con ini­zia­tive simili in altre città orga­niz­zate dalla Glo­bal Cli­mate March. L’altro fronte è l’opposizione alle tri­velle: le regioni Abruzzo, Cala­bria, Cam­pa­nia, Lom­bar­dia, Mar­che, Puglia e Veneto hanno impu­gnato lo Sblocca Ita­lia davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale che deci­derà sui ricorsi entro la pri­ma­vera 2016. Oggi a Roma al parco delle Ener­gie i movi­menti No Triv, pro­ta­go­ni­sti della pro­te­sta, ter­ranno un’assemblea.

Quella vista ieri a Roma è una società inquieta e ferita, alla ricerca di una via di fuga, con­sa­pe­vole del pos­sente con­trat­tacco che ha ridotto lo Stato di diritto costi­tu­zio­nale allo «Stato bor­ghese ori­gi­na­rio che difende gli inte­ressi dei ceti domi­nanti» ha detto Severo Lutra­rio, uno dei pro­ta­go­ni­sti del movi­mento per l’acqua pub­blica. In que­sta tra­sfor­ma­zione non è secon­da­ria la gestione del potere che ha esau­to­rato la poli­tica rap­pre­sen­ta­tiva, come i cosid­detti «corpi inter­medi», per non par­lare dei movi­menti e dell’associazionismo dif­fuso sog­getti a una stra­te­gia pre­ven­tiva del con­trollo e della repres­sione sem­pre più invasiva.

Più di altri il sim­bolo di que­sta offen­siva poli­tica, legi­sla­tiva e giu­di­zia­ria è stata con­si­de­rata una sen­tenza del Tar del Lazio che ha dato torto ai pochi sin­daci che si sono oppo­sti ai distac­chi «arbi­trari e ille­gali impo­sti dall’Acea. A un’autorità pub­blica come quella del sin­daco — ha aggiunto Lutra­rio — oggi viene negata la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire nella gestione di un bene pub­blico come l’acqua ridotto a gestione com­mer­ciale. Que­sto è il paese in cui viviamo. Pren­dia­mone atto».

Alla base di que­sta tra­sfor­ma­zione c’è «la Stra­te­gia ener­ge­tica nazio­nale (Sen) voluta da Monti e acce­le­rata da Renzi con lo Sblocca Ita­lia” ha ricor­dato Vin­cenzo Miliucci (Cobas). Il cre­scente mal­con­tento per que­sta misura emerge tra gli enti locali e le comu­nità alle quali è stata sot­tratta l’auto-determinazione sulla rea­liz­za­zione di gasdotti come il Tap in Salento, sui ter­mi­nali di rigas­si­fi­ca­zione del gas natu­rale lique­fatto o per le atti­vità di pro­spe­zione e ricerca di gas e greg­gio, nella ter­ra­ferma e nel mare. A que­sto pro­po­sito si parla di una «mili­ta­riz­za­zione ener­ge­tica» di cui si denun­cia da tempo l’incostituzionalità.

Emer­gono così i tratti di un dispo­si­tivo di governo basato sullo stato di emergenza.«Le gestione dell’emergenza è emersa negli ultimi tempi con le migra­zioni negli anni Novanta, è pro­se­guita con la pro­te­zione civile e oggi con­ti­nua con il com­mis­sa­ria­mento dei grandi eventi come Expo o il Giu­bi­leo– ha detto Alberto Di Monte (labo­ra­to­rio Off Topic Milano). Que­sta logica è stata intro­iet­tata dallo Sblocca Ita­lia che non col­pi­sce solo il Centro-Sud. A Milano sta creando 15 casi. In una chiave post-moderna, que­sta idea del governo tra­sforma l’eccezione in norma. Il pro­getto è unico, ma potrebbe essere l’occasione per unire le lotte. Per farlo biso­gna pas­sare dai beni comuni al fare in comune».

«Oggi sono le città a subire l’attacco più pesante della pri­va­tiz­za­zione» ha aggiunto Fran­ce­sco Bran­cac­cio, Rete per il diritto alla città di Roma, che ha rac­con­tato anche l’esperienza degli spor­telli anti-distacco dell’acqua. «Que­sto assetto del potere pro­spera sul con­cetto ambi­guo e peri­co­loso di “lega­lità” che chiede l’intervento del potere com­mis­sa­riale invece di spe­ri­men­tare nuovi per­corsi di legit­ti­mità poli­tica — ha aggiunto — Oggi la lotta per i beni comuni si può rilan­ciare matu­rando una capa­cità isti­tu­zio­nale al di là delle isti­tu­zioni esi­stenti». I con­cetti chiave sono: «muni­ci­pa­li­smo, auto-governo e ege­mo­nia». Le idee sono chiare, il per­corso poli­tico è ancora lungo.

«Lavoro forzato, prostituzione, matrimoni precoci, ragazzini soldato: 21 milioni di persone nel mondo sono prive di libertà». E il ruolo dei consumatori in questo grande mercato.

La Repubblica, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

Prede facili e deboli, corpi che diventano oggetti da sfruttare: nel sesso, nel lavoro, in guerra, in qualche altro interesse privato. Nelle pagine dei dizionari si legge che “la schiavitù è la condizione dell’individuo considerato giuridicamente proprietà di un altro individuo e quindi privo di ogni umano diritto”. Ma la gabbia di questa definizione non aiuta a comprendere i confini estesi che il fenomeno ha assunto nel mondo contemporaneo. «Siamo partiti dalle parole del Papa, è stato proprio Bergoglio a suggerire questo tema a monsignor Marcelo Sanchez Sorondo che è argentino e membro del Comitato Etico della Fondazione Veronesi». Il professor Umberto Veronesi, uno dei più celebri nomi della scienza italiana, racconta il retroscena che ha condotto la Fondazione che porta il suo nome a organizzare la settima conferenza internazionale di Science for Peace con il titolo: “Traffico di essere umani e schiavitù moderne”.

Science for Peace è il progetto nato nel 2009 con due obiettivi: diffondere una cultura di non violenza e ridurre le spese di ordigni nucleari e armamenti a favore di maggiori investimenti nella ricerca. «Sorondo ha spiegato a Papa Francesco - si conoscono da tempo e sono amici - che ogni anno organizziamo una conferenza per la pace», riprende Veronesi, «e allora lui ha detto che l’argomento più urgente oggi è la schiavitù moderna».
Una schiavitù senza una geografia precisa perché si insinua ovunque vi siano disuguaglianze: la materia prima che la alimenta è la povertà, economica, psicologica o culturale. L’International Labour Organization calcola che vi siano nel mondo circa 21 milioni di persone private della libertà, dei diritti e della dignità, fra loro 5 milioni sono bambini, il giro d’affari è stimato sui 150 miliardi di dollari. «Temo che i numeri possano essere più elevati, in ogni caso è un fenomeno che ci offende come esseri umani. Abbiamo il dovere ogni volta di indignarci, ma anche di muoverci verso soluzioni concrete e la scienza offre gli strumenti e i linguaggi giusti».
Nell’aula magna della Bocconi di Milano la Fondazione ha chiamato il 13 novembre esperti di politica estera, di cooperazione, responsabili Unesco per l’uguaglianza di genere, esponenti di associazioni impegnate per i diritti umani e due Nobel: l’iraniana Shirin Ebadi e la yemenita Tawakkul Karman.
Avete invitato l’ex ministro Emma Bonino e due donne Nobel per la Pace. La questione femminile è centrale?
«Parleremo molto di donne e di spose bambine, delle famiglie che le vendono per denaro, e anche delle ragazzine appena più grandi destinate alla prostituzione coatta, un’altra forma di schiavitù orrenda. Ma allargheremo il discorso ad altre forme di sfruttamento, dai bambini soldato alle violenze dentro casa».
La schiavitù è illegale eppure prolifera. Come combatterla?
«Con la solidarietà fra le persone e con l’istruzione. La pace è il valore universale più importante che abbiamo, senza pace anche tutti gli altri valori si disperdono».
In Europa stanno arrivando decine di migliaia di profughi...
«Sono persone in fuga dalle guerre e dalle povertà. È successo altre volte nella storia, basta pensare al passato, a Gengis Khan, tanto per fare un esempio: quando un esercito arriva in un Paese, la gente cerca salvezza scappando».
Anche contro i migranti ci sono forme di schiavismo.
«Sì, appena sbarcati in Europa c’è chi li sfrutta magari per lavorare in nero nei campi a raccogliere i pomodori».
Abbiamo letto di inchieste e processi su forme di sfruttamento nelle fabbriche in diverse parti del mondo e anche nelle chinatown d’Italia. Come possiamo intervenire?
«Come consumatori, facendo attenzione quando acquistiamo le cose, compresi i vestiti. Lo sfruttamento nelle fabbriche è antico, ne parlava già Marx. Poi c’è stato un attenuarsi del fenomeno, che invece la globalizzazione ha riportato in primo piano. Abbiamo scoperto che certi prodotti finiti sui nostri mercati venivano fatti da bambini di 8 o 9 anni in zone desolate del mondo, magari pagati mezzo dollaro al giorno».
Lei ha detto che l’istruzione è un’arma per combattere le schiavitù moderne: che cosa state facendo in concreto?
«Operiamo per diffondere la conoscenza, abbiamo un centro di prevenzione contro il tumore al seno in Afghanistan, abbiamo operato nella Repubblica del Congo per avviare un programma di screening per il tumore all’utero, e in Madagascar. Se tutti i Paesi si impegnassero su questa strada sarebbe facile fare dei passi avanti. Vogliamo aumentare l’esercito dei pacifisti e portare una maggiore diffusione della scienza perché siamo consapevoli che il sapere è la strada per far progredire il pianeta».
«Da tempo che non si vedeva tanta gente riunita per discutere e confrontarsi sulle ragioni e sul futuro possibile di una forza politica, non solo di opposizione al renzismo dominante e al blocco di centrodestra che cerca di riorganizzarsi».

Il manifesto, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

La sini­stra ita­liana c’è. E ha ini­ziato il suo viag­gio in un luogo aperto al popolo di sini­stra. Era da tempo che non si vedeva tanta gente riu­nita per discu­tere e con­fron­tarsi sulle ragioni e sul futuro pos­si­bile di una forza poli­tica, non solo di oppo­si­zione al ren­zi­smo domi­nante e al blocco di cen­tro­de­stra che cerca di rior­ga­niz­zarsi. Per­ché quello che abbiamo sem­pre pro­mosso e auspi­cato è la volontà di far incon­trare e unire più voci, più orga­niz­za­zioni, più aggre­gati sociali in grado di pro­porre e di costruire un’alternativa cre­di­bile, forte, con­vin­cente «di governo».

Lavoro garan­tito nei diritti e nel red­dito; wel­fare; scuola pub­blica; immi­gra­zione come risorsa cul­tu­rale e eco­no­mica; eco­lo­gia per lo svi­luppo soste­ni­bile; sobrietà nello stile poli­tico; assi­stenza sani­ta­ria uni­ver­sa­li­stica. Sono alcuni dei temi al cen­tro dell’incontro di Sini­stra ita­liana, essen­ziali e costi­tuenti di un pro­gramma diverso per il Paese.

Ritro­vare insieme sto­rie e anime della sini­stra, da Sel ai fuo­riu­sciti del Pd, agli espo­nenti di «Altra Europa per Tsi­pras» è per il mani­fe­sto cosa buona e giu­sta. Quando abbiamo lan­ciato il dibat­tito «C’è vita a sini­stra» cre­de­vamo nella sua uti­lità e spe­ra­vamo nel suo suc­cesso. Vedere il nostro sup­ple­mento, che rac­co­glie gli inter­venti e le let­tere arri­vate in reda­zione, in mano a tutte le per­sone riu­nite nel gre­mito tea­tro romano ci con­forta. È uno sti­molo in più per­ché il nostro gior­nale diventi un saldo punto di rife­ri­mento politico-giornalistico per chi si rico­no­sce in un pro­getto alternativo.

L’unico limite tan­gi­bile, e visi­bil­mente, era la scarsa pre­senza gio­va­nile. Non bastano i poli­tici di pro­fes­sione, gli intel­let­tuali, i mili­tanti di un tempo per ren­dere con­creta un’idea così ambi­ziosa. Se dovessi dare un sug­ge­ri­mento per le pros­sime ini­zia­tive è que­sto: pen­siamo alle nuove gene­ra­zioni, pun­tiamo sul loro coin­vol­gi­mento e sul loro pro­ta­go­ni­smo. Anche per­ché il ricam­bio può essere un anti­corpo al ver­ti­ci­smo dei gruppi par­la­men­tari che adesso uni­scono le loro ener­gie. Oltre­tutto un ampio con­tri­buto di gio­vani può aiu­tare a modi­fi­care e arric­chire il lin­guag­gio e le forme di comunicazione.

Alcuni espo­nenti della mag­gio­ranza rea­gi­scono con un sor­riso di suf­fi­cienza all’uscita dei diri­genti del Pd e a ini­zia­tive come quella di ieri. Ma dimen­ti­cano, o non vogliono vedere, che que­sta è un’epoca di cam­bia­menti. E, come già scritto, quello che abbiamo visto ieri non è che l’inizio di un cambiamento.

«Nasce "Sinistra italiana". Per il momento in parlamento. Dal Pd scatta l’accusa di intelligenza con la destra. Che però è alleata di Renzi. Oggi a Roma la presentazione del «"primo passo". Con Fassina, D’Attorre, Galli. Ma senza Civati, che pensa a unire una componente nel "misto"». Il manifesto, 7 novembre 2015

«Le uscite a sini­stra spesso hanno por­tato come risul­tato di favo­rire gli avver­sari, e loro così stanno facendo il gioco della destra». L’accusa di intel­li­genza con il nemico, grande clas­sico delle scis­sioni, ieri è arri­vata. Anche se in que­sto caso il para­dosso è che il nemico, almeno un pezzo del nemico, è un alleato di governo. Ieri Lorenzo Gue­rini, vice­se­gre­ta­rio Pd, ha attac­cato quelli che escono dal suo par­tito. Alfredo D’Attorre, dal banco degli impu­tati, respinge l’accusa al mit­tente: «Se deve tro­vare chi fa più il gioco della destra non a parole ma con le scelte con­crete, non ha che da rivol­gersi al segre­ta­rio di cui è vice».

Pro­ba­bil­mente è solo un assag­gio delle pole­mi­che dei pros­simi giorni. Per­ché gli anti ren­ziani del par­la­mento da ora ten­te­ranno l’opera di ero­sione del Pd. Oggi al Tea­tro Qui­rino di Roma va in scena la pre­sen­ta­zione del nuovo gruppo di Mon­te­ci­to­rio, «Sini­stra ita­liana», nome che ha il pre­gio della chia­rezza. La coin­ci­denza con l’anniversario della Rivo­lu­zione sovie­tica è casuale: la mag­gior parte dei pre­senti non l’ha mai festeg­giata per età e per con­vin­zione. Del «Sì» faranno parte i depu­tati eletti con Sel, gli ex Pd Fas­sina, Gre­gori, D’Attorre, Folino e Galli, l’ex Sel Clau­dio Fava. Ma «altri arri­ve­ranno pre­sto», giura D’Attorre, che a un appello ai suoi ex com­pa­gni di par­tito: «A chi è ancora nel Pd voglio dire che pur­troppo biso­gna guar­dare in fac­cia la realtà, anche se è dolo­roso, come lo è stato per me. In que­sto Pd per la sini­stra non c’è pos­si­bi­lità di inci­dere. E que­sto apre ancora più il campo al M5S».

La chia­mata non è rivolta solo ai par­la­men­tari. In alcune città saranno pro­mosse ini­zia­tive per pre­sen­tare i nuovi gruppi, «ter­mi­nali sociali», come li ha defi­niti Ste­fano Rodotà. Un docu­mento inti­to­lato «Rico­struire la sini­stra per il lavoro e per l’Italia» cir­cola nella ’base’ Pd insof­fe­rente al par­tito della nazione. Nei pros­simi mesi si vedrà con quali effetti. Vuole essere «un «nuovo ini­zio, non una cosa rossa», sot­to­li­nea D’Attorre. Certo una nuova for­ma­zione di sini­stra (o di recu­pero delle cul­ture del cen­tro­si­ni­stra, a seconda di chi parla) a cui da tempo si lavora anche nella sini­stra radi­cale. I per­corsi non sono sem­pre con­ver­genti, fin qui. Negli negli scorsi giorni è stato appro­vato un docu­mento comune fra Sel, Prc, Altra Europa con Tsi­pras, Act, Pos­si­bile (Civati) e Futuro a sini­stra (Fas­sina) per l’avvio della fase costi­tuente di un «nuovo sog­getto». L’unità della com­pa­gnia è la scom­messa dei pros­simi mesi, dalle ammi­ni­stra­tive di giugno.
«La sini­stra è in crisi eppure di una sini­stra si sente, oggi più che mai, il biso­gno», è l’appello un gruppo di docenti uni­ver­si­tari, eco­no­mi­sti, intel­let­tuali rivolto alla pla­tea romana. Aprirà le danze un mes­sag­gio della pre­si­dente della Camera Laura Bol­drini, poi il vero cal­cio di ini­zio sarà di Ste­fano Fas­sina, l’ex mini­stro del governo Letta, primo ad abban­do­nare il Pd ren­ziano insieme alla depu­tata romana Monica Gre­gori. Nel pome­rig­gio chiu­derà l’assemblea Arturo Scotto, capo­gruppo di Sel e ora di «Sì». In mezzo, oltre ai com­pa­gni di par­tito, par­le­ranno stu­denti, lavo­ra­tori, eso­dati e altre realtà di cui il nuovo gruppo vuole essere appunto «ter­mi­nale sociale». Ci sarà anche Fran­ce­sca Chia­vacci dell’Arci. Man­derà un mes­sag­gio Ser­gio Cof­fe­rati, ex Pd doc, che bene­dice l’iniziativa. C’è chi annun­cia una com­po­nente di «Sini­stra ita­liana» anche nel gruppo misto del senato. Ma non subito: a fre­nare sono i due sena­tori ex M5S Boc­chino e Cam­pa­nella, oggi dell’Altra Europa: «Siamo coin­volti nel per­corso costi­tuente di una nuova forza della sini­stra. Ma l’atto di iscri­zione al gruppo avverrà in un secondo momento», spiega il primo. E Cam­pa­nella: «Vogliamo fare da ponte fra Sel e le altre realtà che si muo­vono nella stessa dire­zione. Mi auguro che pre­sto saremo tutti insieme, anche con Civati».

In realtà Civati lavora a una com­po­nente auto­noma nel gruppo misto della camera. «Uni­remo insieme espe­rienze finora divise per offrire al Paese un’agenda cre­di­bile di cam­bia­mento», assi­cura Nichi Ven­dola. Per D’Attorre «la novità è che chi usciva dal Pd rima­neva disperso. Da domani parte un grande pro­cesso uni­ta­rio, c’è un rife­ri­mento che adesso è par­la­men­tare e poi si strut­tu­rerà nei ter­ri­tori e l’anno pros­simo ci sarà il pro­cesso di costru­zione del par­tito vero e proprio».
Mentre una parte della vecchia sinistra si accorge che il PD è di destra e vuole costruire una formazione alternativa, altri seguono la strada di Syriza e di Podemos e mobilitano il disagio sociale, a<articoli di Angelo Mastrandrea e Corrado Oddi.

Il manifesto, 7 novembre 2015



UN'AGORA PER L'ACQUA PUBBLICA
di Angelo Mastrandrea

Movimenti. Due giorni di dibattito a Roma tra comitati, militanti ed esperti, anche internazionali Per delineare le alternative di gestione dei beni comuni e opporsi alle privatizzazioni
<Appena tre giorni fa, il Tar del Lazio ha dato torto al sin­daco di Cas­sino che aveva ordi­nato di rial­lac­ciare l’acqua a un cit­ta­dino moroso, acco­gliendo un ricorso dell’Acea. I giu­dici ammi­ni­stra­tivi hanno sta­bi­lito che «il sin­daco non può inter­ve­nire con un’ordinanza» per­ché «in que­sto caso si rea­lizza uno svia­mento di potere, che vede il Comune estra­neo al rap­porto con­trat­tuale gestore-utente» e quindi non può impe­dire «al mede­simo gestore di azio­nare i rimedi di legge tesi a inter­rom­pere la som­mi­ni­stra­zione di acqua nei con­fronti di utenti non in regola con il paga­mento della tariffa, e ciò a pre­scin­dere dall’imputabilità di sif­fatto ina­dem­pi­mento a ragioni di ordine sociale». Si tratta di un pre­ce­dente signi­fi­ca­tivo, che testi­mo­nia quanto sia impor­tante non lasciare nelle mani degli ammi­ni­stra­tori (e dun­que dei giu­dici ammi­ni­stra­tivi) la patata bol­lente delle sof­fe­renze sociali, e l’importanza di avere leggi chiare al pro­po­sito. Una di que­ste (ne abbiamo par­lato a più riprese sul mani­fe­sto) è quella appro­vata dalla Regione Sici­lia, che pre­vede il minimo garan­tito di 50 litri gior­na­lieri a testa, che per l’Oms sono «il quan­ti­ta­tivo minimo per vivere una vita digni­tosa». Baste­rebbe, se appli­cata sull’intero ter­ri­to­rio nazio­nale, a evi­tare che le per­sone in dif­fi­coltà pos­sano tro­varsi da un giorno all’altro con i rubi­netti a secco.

Quello di Cas­sino è solo uno degli effetti col­la­te­rali, non diretti, della man­cata appli­ca­zione del refe­ren­dum che ha detto no alla pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi idrici nel nostro Paese. Fosse stato real­mente appli­cato, anche il costo del ser­vi­zio e la gestione dei distac­chi sarebbe stata diversa. In realtà, in que­sto caso sarebbe bastato che l’Ato5 (cui fa rife­ri­mento Cas­sino) avesse isti­tuito il Fondo per le per­sone indi­genti pre­vi­sto dalla legge Galli e finan­ziato con i pro­venti delle bol­lette, cosa che non è mai acca­duta. Di Cas­sino e delle vicende mes­si­nesi (e pure Gela, in que­sti giorni pure rima­sta a secco), delle man­cate ripub­bli­ciz­za­zioni e di come difen­dere i diritti e i ser­vizi essen­ziali in que­sta sta­gione di «pri­vato è bello», ma pure di come imma­gi­nare delle alter­na­tive rea­liz­za­bili alle forme di governo dei beni comuni si par­lerà, oggi e domani a Roma, nell’Agorà orga­niz­zata dal Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua al cowor­king Mil­le­piani a Gar­ba­tella. Il movi­mento per i beni comuni si con­fron­terà con ospiti inter­na­zio­nali come l’europarlamentare irlan­dese Lynn Boy­lan e l’ex pre­si­dente della società Eau de Paris (tor­nata in mani inte­ra­mente pub­bli­che) Anne Le Strat, con giu­ri­sti, ricer­ca­tori, sin­daci e atti­vi­sti (tra i par­te­ci­panti, padre Alex Zano­telli e il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Landini).

«Imma­gi­niamo que­sto incon­tro come un pas­sag­gio utile a foca­liz­zare le tema­ti­che e la defi­ni­zione del diritto all’acqua e la difesa dei beni comuni mediante una loro gestione diretta e par­te­ci­pa­tiva; a capire dove i beni comuni, natu­rali ed imma­te­riali, costrui­scono una con­nes­sione con un nuovo wel­fare; ad affer­mare la neces­sa­ria fuo­riu­scita dalla finan­zia­riz­za­zione dell’economia e della società; ad inten­dere un sistema natu­rale in maniera oli­stica, di cui siamo parte e che va tute­lato, tro­van­doci di fronte ad una crisi ambien­tale senza pre­ce­denti», scri­vono gli organizzatori.

Più dif­fi­cile a farsi che a dirsi, se è vero che a quat­tro anni dal refe­ren­dum le ripub­bli­ciz­za­zioni si con­tano sulla punta delle dita. Dov’è acca­duto, come in Sici­lia, la bat­ta­glia è appena comin­ciata e gli esiti non sono scon­tati, come dimo­stra la vicenda di Mes­sina. Il sot­to­se­gre­ta­rio alla Pre­si­denza del Con­si­glio Clau­dio De Vin­cenzi ne ha infatti appro­fit­tato per soste­nere la neces­sità di «cam­biare musica sulla gestione del ser­vi­zio idrico» e il Forum gli ha ricor­dato che è stata pro­prio la gestione di Sici­lia­que (spa al 75 per cento nelle mani dei fran­cesi di Veo­lia) a pro­vo­care que­sta situa­zione e a dimo­strare il fal­li­mento delle privatizzazioni.

Che il vento spiri in tutt’altra dire­zione rispetto a quella auspi­cata dai movi­menti lo dimo­stra pure il caso Cam­pa­nia di que­sti giorni: è cam­biata la mag­gio­ranza poli­tica (dal cen­tro­de­stra al cen­tro­si­ni­stra), ma la legge sul rior­dino del ser­vi­zio idrico in discus­sione in con­si­glio regio­nale è con­te­stata dai comi­tati. Motivo: pre­vede la costi­tu­zione di un Ambito ter­ri­to­riale unico per i 550 comuni della regione, «dele­gando le scelte fon­da­men­tali in mate­ria di acqua, quali la defi­ni­zione della tariffa, il piano d’ambito e la forma di gestione a un comi­tato ese­cu­tivo com­po­sto da soli venti mem­bri». In buona sostanza, esclu­dendo le comu­nità locali.

LA GALASSIA DEI BENI COMUNI
di Corrado Oddi

i riparte dal basso. Le nostre battaglie nel progetto di nuove connessioni con tutti i soggetti che lavorano per i diritti sociali

A più di 4 anni di distanza dalla straor­di­na­ria vit­to­ria refe­ren­da­ria del giu­gno 2011 e dalla sua suc­ces­siva mano­mis­sione, il movi­mento per l’acqua riprende il cam­mino e rilan­cia la sua ini­zia­tiva sul bene comune pri­ma­rio per la vita del pia­neta e dell’umanità.
E stretta è la rela­zione tra pre­ser­va­zione dell’acqua e cam­bia­mento cli­ma­tico. Non solo per­ché quest’ultimo accre­sce for­te­mente lo stress idrico in vaste aree del mondo, ma, ancor più, per­ché rende l’acqua risorsa sem­pre più scarsa, e dun­que sem­pre più appe­ti­bile dalle logi­che del mer­cato e del pro­fitto cau­sando con­flitti e guerre. Per que­sto il tema della costi­tu­zio­na­liz­za­zione del diritto all’acqua e dei diritti della natura supera un’idea pura­mente aggiun­tiva dell’elencazione dei diritti per diven­tare fon­da­tiva di una let­tura con­tem­po­ra­nea e ricca dell’attività umana nella vita nel nostro pianeta.
Dall’altra parte, diventa ancora più rav­vi­ci­nato il rap­porto tra la rispo­sta neo­li­be­ri­sta alla crisi eco­no­mica e sociale e le logi­che di pri­va­tiz­za­zione e finan­zia­riz­za­zione che inve­stono il ser­vi­zio idrico e tutti i ser­vizi pub­blici, sna­tu­ran­done le radici di fondo ( basta guar­dare, per stare all’attualità, la vicenda delle Poste).

Il nuovo ciclo di privatizzazione/finanziarizzazione del ser­vi­zio idrico si con­nota sia sul ver­sante dell’inserimento a pieno titolo nell’ “eco­no­mia del debito”, sia nell’incrementare la water poverty, cioè l’incidenza della spesa per l’accesso all’acqua sul red­dito delle per­sone. C’è una chiara rela­zione tra il rias­setto in corso nel set­tore, affi­dan­dolo alle 4 “grandi sorelle” quo­tate in Borsa (le mul­tiu­ti­li­ties Iren, A2A, Hera e Acea) la cui fina­liz­za­zione è sem­pre più orien­tata alla distri­bu­zione dei divi­dendi ai soci sem­pre più pri­vati (basta pen­sare al fatto che, negli ultimi 5 anni hanno ero­gato divi­dendi addi­rit­tura supe­riori agli utili che hanno rea­liz­zato!) con un inde­bi­ta­mento pro­gres­sivo, e il fatto che, come testi­mo­niato da una recente ricerca della Con­far­ti­gia­nato, le tariffe dell’acqua nel nostro Paese dal 2004 al 2014 sono aumen­tate media­mente del 95,8%, il tri­plo del rin­caro medio dei prezzi nei Paesi dell’Eurozona, che si aggira, per lo stesso periodo, attorno al 35%.
Con­ti­nue­remo a con­tra­stare que­ste scelte, come abbiamo fatto in tutti i que­sti anni: con la mobi­li­ta­zione, avan­zando pro­po­ste alter­na­tive. La rifles­sione di que­ste due gior­nate potrà arric­chire e raf­for­zare la pro­spet­tiva della tutela e della pre­ser­va­zione dell’acqua e quella della ripub­bli­ciz­za­zione del ser­vi­zio idrico.

Vogliamo farlo sapendo che non sarà pos­si­bile se non si acqui­si­sce la con­sa­pe­vo­lezza che quello in corso è un ten­ta­tivo gene­rale, sia pure illu­so­rio, di “moder­niz­za­zione”, di cui il governo Renzi è il più fedele inter­prete. Ovvero l’importazione coe­rente del modello neo­li­be­ri­sta di stampo anglo­sas­sone nel nostro Paese. La com­pres­sione dei diritti del lavoro, che toglie la tutela dai licen­zia­menti. I colpi al con­tratto nazio­nale di lavoro, attac­cando scuola e sanità, con l’intenzione non solo di ridi­men­sio­nare l’intervento pub­blico ma ancor più di pro­porre un modello azien­da­li­sta. La deva­sta­zione ambien­tale dei ter­ri­tori, di cui il rilan­cio delle tri­vel­la­zioni petro­li­fere costi­tui­sce l’elemento più ecla­tante, accom­pa­gnata non casual­mente dal rilan­cio della pri­va­tiz­za­zione dei beni comuni natu­rali, a par­tire dall’acqua e dal ser­vi­zio idrico. Tutti tas­selli di un dise­gno che mira a riaf­fer­mare la cen­tra­lità del mer­cato come unico rego­la­tore sociale.

Siamo per­ciò chia­mati a rima­nere fedeli alle nostre bat­ta­glie ma soprat­tutto a rea­liz­zare nuove con­nes­sioni tra i sog­getti e i movi­menti, a par­tire da quelli sociali, per supe­rare sepa­ra­tezze e indi­vi­duare per­corsi e obiet­tivi con­ver­genti. Non a caso abbiamo pen­sato di con­clu­dere le nostre due gior­nate di lavoro chia­mando a con­fron­tarsi con noi il movi­mento per la scuola pub­blica, quello con­tro lo Sblocca Ita­lia, la Fiom, la coa­li­zione che si riu­ni­sce attorno allo scio­pero sociale. Non sem­pli­ce­mente per un rico­no­sci­mento reci­proco del ruolo e della fun­zione che ogni realtà eser­cita, ma pro­vando ad espli­ci­tare i ter­reni su cui, nella pros­sima fase, può essere pos­si­bile met­tere in campo ini­zia­tive che coin­vol­gano l’insieme di que­sti e altri soggetti.

Cer­ta­mente, l’opposizione alla legge di sta­bi­lità del governo lo è, visto il carat­tere clas­si­sta e regres­sivo che la ispira e che inve­ste l’insieme della con­di­zione sociale e della cit­ta­di­nanza. Ma non si potrà sfug­gire dalla neces­sità di can­cel­lare, con gli stru­menti oppor­tuni, anche di carat­tere refe­ren­da­rio, e in modo coor­di­nato, la legi­sla­zione che in quest’ultimi anni – dallo Sblocca Ita­lia al Jobs Act, dalla “buona scuola” all’incentivo alle pri­va­tiz­za­zioni– sta facendo venire meno diritti fon­da­men­tali e, ancor più, prova a met­tere da parte qua­lun­que idea di pro­get­tare un modello sociale più soli­dale ed inclusivo.

* Forum Ita­liano Movi­menti per l’Acqua
Ciò che è accaduto e accade a Roma in Comune e al Parlamento è il segno palese che la politica ha svuotato di ragioni istituzioni. Allora, a che serve votare?

Il manifesto, 5 novembre 2015

Davanti ad un notaio s’è cer­ti­fi­cata la fine di un’esperienza poli­tica, senza che ne venisse coin­volta l’istituzione rap­pre­sen­ta­tiva. Nulla di ille­git­timo può essere rile­vato. Il caso di auto-scioglimento del con­si­glio per dimis­sioni della mag­gio­ranza dei con­si­glieri rien­tra tra quelli pre­vi­sti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indi­cata la pos­si­bi­lità di revo­care le dimis­sioni pre­sen­tate dal sin­daco entro il ter­mine di 20 giorni (art. 53).

Dun­que, entrambi gli atti che hanno carat­te­riz­zato la vicenda romana sono stati pos­si­bili ai sensi di legge. Eppure, per via legale, si è pro­dotto un vul­nus al sistema della rap­pre­sen­tanza democratica.

Non aver coin­volto il con­si­glio comu­nale, non aver espresso il pro­prio dis­senso in quella sede, assu­men­dosi — cia­scun con­si­gliere — la respon­sa­bi­lità poli­tica della pre­sen­ta­zione di una mozione moti­vata di sfi­du­cia, come indi­cato sem­pre dalla stessa legge (art. 52), appare una scelta signi­fi­ca­tiva della con­ce­zione di demo­cra­zia che ormai domina. Non è solo il caso di Roma, bensì un modo di ope­rare che rivela una cul­tura poli­tica del tutto insof­fe­rente al ruolo delle isti­tu­zioni. Una poli­tica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi della poli­tica, den­tro le stanze chiuse dei potenti.

Basta riper­cor­rere le più rile­vanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i pas­saggi più impor­tanti si siano con­su­mati fuori da ogni regola isti­tu­zio­nale e non nelle sedi pro­prie. Anzi­tutto il cam­bio di governo, deciso dalla dire­zione di un par­tito, senza alcun coin­vol­gi­mento parlamentare.

Ma anche l’accordo per la modi­fica della costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale, prima con­cor­dato in un incon­tro tra due lea­der (Ber­lu­sconi e Renzi) svolto in un luogo riser­vato senza alcuna pub­bli­cità e tra­spa­renza, poi — a seguito delle con­vulse e note vicende — rine­go­ziato tra pochi espo­nenti di un unico par­tito e con l’aiuto di una drap­pello di sena­tori senza partito.

I riflessi di que­sto modo di pro­ce­dere hanno por­tato ad un sostan­ziale svuo­ta­mento dei luo­ghi della rappresentanza.

Si pensi al (non) dibat­tito par­la­men­tare tanto sulla legge elet­to­rale quanto sulla riforma costi­tu­zio­nale: s’è fatto di tutto per evi­tare il con­fronto nel merito. In Par­la­mento, venute meno le con­di­zioni per una discus­sione sulle diverse visioni di demo­cra­zia che pote­vano por­tare a legit­ti­mare le sin­gole pro­po­ste, ci si è limi­tati a inter­pre­tare il rego­la­mento e ad uti­liz­zarlo nel modo più disin­volto (a volte ben oltre il pos­si­bile) al solo fine di con­se­guire il risul­tato (le forze di mag­gio­ranza) ovvero limi­tan­dosi ad urlare alla luna (le forze di opposizione).

Così abbiamo assi­stito ad un ben tri­ste spet­ta­colo: rimo­zioni in massa di par­la­men­tari dalle com­mis­sioni, richie­ste di disci­plina in mate­rie di coscienza, fis­sa­zione di tempi che impe­di­vano alle com­mis­sioni di svol­gere il pro­prio ruolo istrut­to­rio per arri­vare diret­ta­mente in aula senza rela­tori, senza testo base, senza parole medi­tate. In un arena ove l’unico obiet­tivo era quello di sfi­dare la sorte dei numeri, facendo asse­gna­mento sulla pro­pria capa­cità tat­tica, non certo con­fi­dando sulla forza della per­sua­sione e sulla capa­cità di con­se­guire un nobile com­pro­messo par­la­men­tare nel merito delle proposte.

D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il pro­prio sban­da­mento. Par­te­ci­pando a que­sta spet­ta­co­la­riz­za­zione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del Par­la­mento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimet­teva” a giorni alterni. Un giorno un po’ di Aven­tino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sem­bra si sia riu­sciti in tal modo a far chia­ra­mente emer­gere le reali ragioni di una bat­ta­glia poli­tica di con­tra­sto così impor­tante, a tutto van­tag­gio dell’uso reto­rico delle isti­tu­zioni per­se­guito dalla maggioranza.

Due pas­saggi mi sem­brano pos­sano sin­te­tiz­zare — anche in ter­mini meta­fo­rici — lo stato di crisi delle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive. Da un lato la pre­sen­ta­zione da parte del sena­tore Cal­de­roli di milioni di emen­da­menti incon­sulti ela­bo­rati da un algo­ritmo, dall’altro l’interpretazione disin­volta (a mio parere ille­git­tima) dei rego­la­menti par­la­men­tari che hanno impe­dito la discus­sione su tutto, in par­ti­co­lare con l’invenzione del cosid­detto “can­guro”. Una riforma costi­tu­zio­nale dun­que affi­data ad un metodo di cal­colo e ad un ani­male della fami­glia dei macro­po­didi. Credo ci si sia fatti pren­dere la mano.

Eppure die­tro tutte que­ste for­za­ture c’è una spie­ga­zione: la per­dita del senso delle isti­tu­zioni. Nes­suno sem­bra più cre­dere in esse. La poli­tica si svolge altrove, non pos­siede più forme. La deci­sione è assunta tra pochi, in luo­ghi e con mezzi inde­ter­mi­nati: sms, dia­lo­ghi diretti, mes­saggi indi­retti, affi­da­menti indi­vi­duali o garan­zie pre­state da gruppi d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divul­gata attra­verso una stra­te­gia ad effetto che non pre­vede pas­saggi isti­tu­zio­nali, bensì mero spet­ta­colo. A que­sto punto, il pas­sag­gio isti­tu­zio­nale, se non può essere evi­tato, diventa però uni­ca­mente un intral­cio, che deve essere gestito con qual­che insof­fe­renza. Sop­por­tato come un “costo” della demo­cra­zia, non certo come sua essenza e valore.

Un atteg­gia­mento psi­co­lo­gico, carat­te­riale e cul­tu­rale, prima ancora che espres­sione di una con­sa­pe­vole stra­te­gia poli­tica poten­zial­mente ever­siva. Il nuovo ceto poli­tico ha costan­te­mente teso ad elu­dere il con­fronto isti­tu­zio­nale, anche quello interno alle istanze di par­tito. Pri­ma­rie “aperte”, per scon­fig­gere le buro­cra­zie e rove­sciare gli equi­li­bri interni; dire­zioni in stree­ming, per par­lare con l’opinione pub­blica, non certo per tes­sere una stra­te­gia con­di­visa entro una comu­nità poli­tica; rap­porti diretti con i poli­tici locali da soste­nere (Pisa­pia e il “modello mila­nese” dell’Expo) ovvero da abban­do­nare (Marino e la man­canza di anti­corpi romani).

I com­por­ta­menti extrai­sti­tu­zio­nali dif­fusi, che carat­te­riz­zano il ritorno della poli­tica oggi, sono stati favo­riti dalle poli­ti­che di ieri. Sono anni che si denun­cia la crisi del Par­la­mento, delle rap­pre­sen­tanze locali, del ruolo isti­tu­zio­nale dei par­titi. Ciò nono­stante, per­lo­più, si è pre­fe­rito caval­care l’insofferenza, rac­co­gliere un facile con­senso sca­gliando pie­tre con­tro i Palazzi della poli­tica, nes­suno volendo rac­co­gliere la sfida com­plessa di un reale cam­bia­mento delle isti­tu­zioni ope­rando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco democratico.

Una sot­to­va­lu­ta­zione imper­do­na­bile che rischia di svuo­tare di ogni ruolo la rap­pre­sen­tanza. Ci si potrebbe alla fine chie­dere per­ché tor­nare a votare per un con­si­glio comu­nale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affi­darsi ad un com­mis­sa­rio pre­fet­ti­zio. In fondo la sto­ria ci ha già detto che esi­ste una “isti­tu­zione” in grado di ope­rare in situa­zioni di emer­genza: il dic­ta­tor com­mis­sa­rio ha sal­vato più di una volta Roma. Poi è arri­vato Giu­lio Cesare e la dit­ta­tura è diven­tata sovrana, ponendo fine alla repubblica.

L'attuale confusione che regna nell'ambito delle diverse formazioni politiche che popolano il palcoscenico italiano non giustificano le pretese di porsi "al di sopra delle parti". La politiche richiede compiere scelte, in chi governa come nel singolo cittadino. La Repubblica, 5 novembre 2025

GIUDICARE in politica è tenere una parte o prendere parte, scriveva Hannah Arendt commentando Aristotele. Non si può giudicare senza stare da una qualche parte o schierarsi. Questo vale soprattutto per i cittadini nelle loro considerazioni ordinarie sulle cose relative alla loro città o al loro Paese; anche quando dichiarano di volersi astenere dal giudicare o si professano indifferenti alle parti politiche. È a partire dalla natura fallibile del giudizio politico che i governi liberi vantano di essere quelli nei quali la ricerca del giudizio migliore trova la propria sede, poiché garantiscono le libertà civili grazie alle quali il giudicare pro e contro si dipana in un clima di tranquillità e rispetto. Giudizio e politica stanno in stretta connessione. Un narratore della condizione politica, Thomas Mann, diceva che, per questo, la democrazia è tra tutti i regimi quello più compiutamente politico, perché qui anche chi vuole tirarsi fuori da ogni giudizio politico deve fatalmente schierarsi, facendo della propria posizione impolitica un giudizio di parte.

Le pretese che oggi si levano contro il giudizio politico destano quindi legittimo sospetto. Un candidato possibile alla poltrona di sindaco del Comune di Roma, Alfio Marchini, si propone come al di sopra delle parti politiche — né di destra, né di sinistra.

È un imprenditore, parte della società civile intraprendente, ed è romano. Due ragioni certo rilevanti, la seconda soprattutto, ma non sufficienti.

Perché amministrare una città non è lo stesso che amministrare un’azienda, anche se le città hanno bisogno di buoni amministratori che sappiano ragionare in termini di prudenza, opportunità ed efficienza. Ma non basta. Poiché, contrariamente alle aziende private, l’amministratore di una città deve rendere conto delle sue decisioni, non ai suoi azionisti ma a tutti i cittadini, residenti che hanno diversissime condizioni sociali, economiche e culturali, tutte rappresentate nel voto che esprimono, pro o contro. Solo la politica può rappresentare questa generalità e insieme partigianeria.

E torniamo così al punto di partenza, al giudizio politico. Presentarsi come candidato né di destra né di sinistra è una strategia molto politica, che cerca di capitalizzare a partire dai fallimenti delle precedenti amministrazioni, di destra e di sinistra, le quali — per ragioni e con responsabilità molto diverse tra loro — hanno generato i problemi che portano ora al voto anticipato, dopo essere passati per una gestione commissariale della città capitale d’Italia. Ma si deve dubitare di questo ecumenismo poiché se Marchini diventasse sindaco dovrà pur scegliere dove investire o disinvestire le risorse pubbliche, se occuparsi delle periferie e come, se occuparsi del malgoverno e come, se prediligere il trasporto pubblico e come, eccetera. In tutti i casi, egli dovrà scegliere e si rivolgerà a una parte del consiglio comunale per avere sostegno e voti.

Destra/sinistra sono distinzioni generali che servono a orientare elettori ed eletti. Sono sempre più approssimative e sempre più liminali, ma esistono. La confusione prodotta in questi mesi non aiuta a distinguerle, è vero: la destra parlamentare spesso alleata del partito di centro-sinistra che governa, il quale ha una sua sinistra interna, e un’opposizione grillina che si definisce in ragione di chi contrasta, senza chiarezza sulle proprie posizioni. Tanta confusione disorienta. Ma non elimina le distinzioni di giudizio sulle politiche, che esistono. Rinunciare ad esse o pretendere che non esistano non è indice di oggettiva chiarezza, ma di strategica ambiguità — la speranza di capitalizzare dalla memoria vecchia e recente dei fallimenti della politica.

Scriveva John Stuart Mill — un liberale diffidente verso i partiti—che il sistema rappresentativo non può evitare divisioni di schieramento ideale o ideologico: la divisione tra “progressisti” e “conservatori” (alla quale egli pensava), ovvero tra “sinistra” e “destra”, corrisponde a due modi di giudicare, relativi a due criteri o principi generali non identici e nemmeno interscambiabili. Uno di essi orientato direttamente verso la promozione del benessere della maggioranza con scelte amministrative volte a risolvere i bisogni più urgenti e a includere quanti più possibile nel godimento del benessere generale; l’altro orientato a pensare che favorendo l’interesse dei pochi che hanno risorse da investire ne verrà giovamento per molti, eventualmente. Si tratta, come si vede, di divisioni molto meno esplicite di quelle che la vecchia terminologia ideologica offriva. Ma sono abbastanza chiare nonostante tutto, e corrispondono a due modi di intendere e di amministrare il bene pubblico.

Una riflessione profonda e accorata sulle ragioni per cui l'indignazione non si trasforma in azione conseguente, e sul cambiamento di prospettiva che è necessario assumere. Il manifesto, 4 novembre 2015
Da quando è ini­ziato il caso Marino ricevo tele­fo­nate e mes­saggi, da com­pa­gni e amici, il cui con­te­nuto è pres­sap­poco que­sto: «Fac­ciamo qual­cosa, non pos­siamo assi­stere alla morte della demo­cra­zia». Ma que­sto sen­ti­mento auten­tico di mal­con­tento, o di disa­gio, o di fru­stra­zione, non arriva oltre una sana quanto legit­tima indi­gna­zione «tra­sfor­mando la spon­ta­neità in orga­niz­za­zione, la folla in massa cosciente, il dis­senso in pro­po­sta poli­tica alter­na­tiva», come ha ben scritto Angelo d’Orsi (il mani­fe­sto, 1 novembre).

Essa, quando c’è - e non sem­pre c’è - appare un fuoco di paglia, una levata di scudi senza alcun esito poli­tico. Tant’è che molti di que­sti com­pa­gni e amici, finiti i cla­mori dello scan­dalo, tor­nano quasi subito alle loro occu­pa­zioni quo­ti­diane (come se le scon­fitte non pesas­sero, o fos­simo ormai abi­tuati ad esse come a un feno­meno naturale).

Al netto dei tanti errori di Marino (sui quali è inu­tile tor­nare), resta il fatto che la persona-sindaco Marino è stata let­te­ral­mente mas­sa­crata nella sua dignità di per­sona e desti­tuita di ogni ragione poli­tica, da cui l’indignazione feroce, e pur­troppo effi­mera, di tante per­sone. Di fronte a que­sti tra­gici (nel senso di tra­ge­dia greca) fatti a me ven­gono in mente le parole di Ingrao, scritte nel libro di Gof­fredo Bet­tini (Un sen­ti­mento tenace, Impri­ma­tur):

«Io sento peno­sa­mente la sof­fe­renza altrui: dei più deboli, o più esat­ta­mente dei più offesi. Ma la sento per­ché pesa a me: per così dire, mi dà fasti­dio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Per­ché alcune sof­fe­renze degli altri mi sono insop­por­ta­bili. Que­sto epi­so­dio può dire la ragione per cui io rimango incol­lato alla poli­tica, per­sino sotto l’aspetto tat­tico. Non sono sicuro che ciò si possa rap­pre­sen­tare come una moti­va­zione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro con­di­zione mi “turba”, e senza gli “altri” non esi­sto (nem­meno sarei nato)».

C’è, in quelle parole, il senso vero della poli­tica. Forse le per­sone (di sini­stra) non sof­frono più il dolore guar­dando le ingiu­sti­zie, i soprusi, lo scar­di­na­mento delle regole, l’abuso di potere, l’ineguaglianza sociale, la sof­fe­renza dei poveri e degli oppressi, come ad esem­pio, nel caso degli immi­grati. La poli­tica (anche quella buona) oggi ci invita sem­mai a guar­dare oltre: come rico­struire un’unità a sini­stra, come con­tra­stare o bat­tere l’avversario di turno. Detto in altri ter­mini, le per­sone sem­brano con­tare assai poco. Ma dav­vero siamo sicuri che non biso­gne­rebbe invece fare un passo indie­tro e ricon­si­de­rare quel senso di indi­gna­zione e di radi­ca­lità pro­fonda con­te­nuta nelle parole di Ingrao che pos­sono appa­rire ai pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, moti­va­zioni per­so­nali e per­fino moralistiche?

Le alchi­mie poli­ti­che per dare vita a nuovi sog­getti, o a un nuovo sog­getto della poli­tica o a nuove for­ma­zioni, si sono tutte sem­pre sgre­to­late nell’arco di pochi mesi dalla loro nascita e tanto più si mol­ti­pli­cano, tanto più espo­nen­zial­mente si dis­sol­vono. Forse non è la strada giu­sta, forse non siamo pazienti, forse non siamo così deci­sa­mente con­vinti che que­sto non è il migliore dei mondi, forse l’ingiustizia ai danni degli altri non ci pro­voca quella sof­fe­renza di cui par­lava Ingrao, forse c’è qual­cosa che ancora non riu­sciamo a capire e ad ela­bo­rare poli­ti­ca­mente. Se tante per­sone si sono recate a vedere l’Expo par­tendo da paesi lon­tani, sacri­fi­can­dosi a file inter­mi­na­bili per assi­stere a qual­che foto­gra­fia o a qual­che docu­men­ta­rio che pote­vano tran­quil­la­mente essere con­su­mati a casa pro­pria davanti alla Tv, qual­che motivo ci sarà pure.

Forza e potere dei mass-media, dirà qual­cuno, ma non basta a spie­gare il movi­mento di oltre 20 milioni di visi­ta­tori in fila, quando a pro­te­stare per la defe­ne­stra­zione del Sin­daco, sulla piazza del Cam­pi­do­glio, non ce n’era più di qual­che migliaio.

In que­sto toc­chiamo con mano la potenza dell’egemonia del capi­tale e dei poteri forti. Un’egemonia che disin­canta alcuni e che con­duce altri sulla strada della rivolta popu­li­sta con­tro un sistema che ormai non tutela i più svan­tag­giati e che offre spet­ta­coli effi­meri a quel ceto medio che crede ancora di poter con­ser­vare i vec­chi pri­vi­legi.

Chi ha cuore e capa­cità di pen­sare una nuova sini­stra deve ripar­tire da una revi­sione pro­fonda di alcune cate­go­rie sto­ri­che come, ad esem­pio, quella diven­tata astratta e gene­rica di popolo, fran­tu­mato, quest’ultimo, in un ven­ta­glio ampio di nuovi ceti sfrut­tati a vario titolo. Il rife­ri­mento deve essere alla per­sona offren­dole la pos­si­bi­lità di eman­ci­parsi e di capire come le sue esi­genze pos­sono con­vi­vere e anzi acqui­stare senso solo se messe a con­fronto con quelle dell’altro. Per­ché spesso accade, quando si tenta di creare una nuovo for­ma­zione poli­tica, che la per­sona venga ine­vi­ta­bil­mente oscu­rata in nome di vec­chie stra­te­gie e astute tat­ti­che che pro­du­cono ulte­riore disaf­fe­zione e disin­canto. Anche se non sof­fia più il vento della sto­ria, come afferma Cas­sano, si può andare a remi, se però si cono­sce la rotta e si ha la pazienza di remare e di stare insieme sulla stessa barca.
Due autorevoli esponenti della sinistra del XX secolo, Alfredo Reichlin e Massimo Cacciari, intervistati da Alessandro Ferrucci a proposito del PD: "Ha tradito e sconfitto la sinistra", "È morto con Veltroni e si sono spartiti il potere".

Il Fatto Quotidiano, 2-3 novembre 2015


Alfredo Reichlin
IL PD HA SCONFITTO E TRADITO LA SINISTRA


Il suo buongiorno è una riflessione tra sé e sé: “Non do mai interviste. È una cosa assurda. Assurda”. Cosa? “L’aver accettato questa chiacchierata”. Sì, e con il Fatto quotidiano, un giornale non molto amato dall’establishment del Partito democratico. “(Silenzio) Ultimamente state iniziando a diventarmi simpatici. E uno non può dire sempre di no”.

Alfredo Reichlin ha novant’anni, testa lucida, lucidissima, è una delle grandi memorie storiche del nostro paese, è uno dei pochi viventi ad aver conosciuto Palmiro Togliatti di persona, non sui libri del liceo; negli anni Sessanta ha diretto l’Unità, quindi Parlamentare, così vicino a Enrico Berlinguer, quanto distante dai miglioristi di Giorgio Napolitano. Al funerale di Pietro Ingrao è salito sul palco, ha schiaffeggiato la politica attuale con il ministro Maria Elena Boschi e il premier Matteo Renzi atterriti e al suo fianco, ha commosso i presenti con alcune riflessioni su com’era la politica, la sinistra, ideali, sogni, certezze. E la realtà di oggi. “Premessa: non ho né rimpianti né nostalgie, il passato è passato, resta la differente concezione della politica, dove non si badava soltanto al qui e ora e a questioni di governo”.

Palmiro Togliatti parlava di strategia e tattica.
«La politica non è solo immanenza, è anche formazione di una soggettività, è visione del futuro; la politica deve leggere il presente con in testa un disegno per andare oltre l’interesse immediato».

Lei ha detto: “Dietro a Renzi c’è un vuoto politico, non c’è alcuna cultura politica, non c’è un disegno del futuro”.
«Questo è il punto. Attenzione: Renzi è una personalità straordinaria, ma non è un fondatore di partito, non è il fondatore di una cultura di partito».

E qual è la sua idea di partito?
«È una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale. Il limite di Renzi è questo».

La visione odierna muta nell’arco di pochi mesi, come con la vicenda dei 3mila euro.
«Eh, sì. Però la politica deve anche essere gestione dell’esistente e soluzione dei problemi, ma la questione è che oggi la politica non conta più nulla».

E chi comanda?
«Il mio slogan sull’oggi è: i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione ad assolvere la funzione della gestione mediata e del simbolico».

Solo apparenza«Forse esagero, ma le grandi decisioni non vengono più prese dalla politica, oramai messa in mora dall’economia».

Da quando?
«Dalla grande svolta promossa da Reagan e dalla Thatcher, quando la finanza
da infrastruttura dell’economia è diventata struttura a sé, finalizzata a produrre denaro e ai capitali è stata data la totale libertà di circolazione. Vede, a suo tempo Gianni Agnelli era una potenza, ma Luciano Lama (ex segretario della Cgil dal 1970 al 1986) aveva un esercito alle spalle; tu sei il grande banchiere ma lo Stato può prendere delle decisioni che ti condizionano».

Ma perché questa rottura degli equilibri?
«L’economia si è mondializzata, la politica no, restano gli Stati nazione».

Noi siamo arrivati ad avere Monti presidente del Consiglio, e un governo di banchieri.
«È evidente, ma le ripeto: le vere grandi decisioni sono altrove e la politica ha cessato di esprimere la funzione precedente, quella di manifestare un grande potere, attraverso la formazione di classi dirigenti all’altezza.

Il Pci era radicato sul territorio come pochi, una forma piramidale distrutta negli ultimi dieci anni.
«È tutto lì, e l’ho detto anche alla commemorazione di Ingrao. Oggi il Parlamento non conta nulla, si governa solo con i decreti legge, il resto è chiasso».

Con Berlusconi si è rotto un argine...
«Lui è stato il segnale che oramai vinceva questo indirizzo, ma qualcosa è iniziato anche con la fine del compromesso storico, ma nessuno ricorda bene su quali basi era nato... Nasceva da grandi preoccupazioni, tra doppio Stato, terrorismo, trame, crisi economica, inflazione: era un periodo di grandissime difficoltà, quindi alcuni, in primis Berlinguer, avevano avvertito la necessità di un accordo simile a quello del secondo dopoguerra tra due grandi forze popolari.

Perché la storia di cui lei è rappresentante e protagonista a un certo punto si è interrotta?
«Semplice: siamo stati sconfitti. La sinistra ha inventato i sindacati, i partiti di massa, i diritti sociali, lo Stato sociale. Lo ha potuto fare perché questi poteri li ha esercitati, e poteva dire alla sua base ‘io ti conduco e ti apro un orizzonte’. Se lo Stato viene meno come soggetto in grado di gestire i poteri reali, va in crisi anche il ruolo della sinistra».

Renzi attacca continua mente i sindacati.
«Ovvio, per lui sono solo un intralcio. Mentre Giolitti rivendicava la trattativa con i rappresentati dei lavoratori».

Qualcuno ha azzardato il paragone tra Craxi e Renzi.
«Craxi ha inaugurato molto di questa fase, ha distrutto una grande forza come il Psi; il cerchio magico era suo, un cerchio che ha violato ogni regola».

Lei ha contribuito alla carta dei valori del Pd: quella carta è stata tradita?
«Penso di sì, mentre alcuni di noi, anche alcuni democristiani, credevano nella formazione di un partito, idee, progetti, in realtà l’unione è nata con la suddivisione delle sfere d’influenza: tu sei presidente, tu segretario».

Le due casse, i due patrimoni, quello dei Ds e quello della Margherita, non si sono mai uniti.
«Esatto, sono stati spezzoni di ceto politico, ognuno con il proprio rapporto con le masse».

Lei a fine anni Ottanta è stato candidato a sindaco di Roma (vinse il socialista Carraro). Che idea si è fatto di questa situazione?
«È gravissimo quello che sta avvenendo, trovo sbagliato che il presidente del Consiglio abbia fatto questa scelta di dire ‘arrangiatevi’, di prendere le distanze. Dimostra di non aver ben capito cos’è Roma: la Capitale non è una città che puoi affidare a Orfini, e dire occupatevene voi. Roma è una delle realtà più importanti al mondo. Si sta camminando dove ha camminato Giulio Cesare, si parla dove parlava Cicerone, dopo l’unità d’Italia Quintino Sella si poneva un dilemma: come si va a Roma e con quale idea? Chi governa la Capitale deve avere delle idee, deve conoscere questa realtà.

Ci vogliono le primarie?
«Credo di no, deve essere il partito in quanto tale e il suo capo a indicare un candidato. Le primarie saranno un gioco tra personaggi minori, perché i pochi grandi non vogliono partecipare».

Ha qualche nome da proporre?
«No, ma tenga conto di una aspetto: il sindaco di Roma conta più di un ministro.

Si era reso conto della situazione drammatica del Pd romano?
«Da troppi anni sono fuori dalla politica romana.

Ma si è stupito?
«Non molto, perché conosco il degrado della vita politica. E Roma è la Capitale»
.

Massimo Cacciari
“IL PD È MORTO CON VELTRONI
E SI SONOSPARTITI IL POTERE”


Ha ragione Alfredo Reichlin(intervistato ieri sul Fatto): oramai il Pd ha tradito le sue ragioni iniziali,quelle scritte dentro la Carta dei Valori presentata nel 2008. Ma vorreidomandare allo stesso Reichlin: quali sono le basi su cui è sorto il partito?”.
Ce la dà lei la risposta, professor Massimo Cacciari?Non bisogna confondere le idee con gli accordi, erispetto al secondo punto è chiaro un dato: il Pd è da sempre una combinazione,giustapposizione di ex comunisti ed ex democristiani che si sono spartiti ilpotere».
Con i due gruppi dirigenti lesti a non confondere, a nonmischiare le rispettive proprietà... «Esatto, questo è uno deipunti iniziali. Da lì era già tutto chiaro. Comunque il Pd è finito quasisubito».
In particolare ha in mente una data? «Con il primo Veltroni c’è il suicidio del gruppo dirigente. Da quelmomento è nata l’epoca renziana».
Reichlin parla di “fallimento della sinistra”. «Non solo della sinistra, ma è la fine dell’Europa delle grandi famiglie, emi riferisco a quella socialdemocratica e democratico-cristiana. E tutto ciòapre una stagione di transizione, il problema è chi governa tutto al momento».
Le leggo un passaggio della Carta dei Valori: “La sicurezzadei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità dellaCostituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza delmomento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri.Il Pd si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e adifenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riformecostituzionali imposte a colpi di maggioranza.
«
Tutto questo l’hocontrastato anni fa, non ero d’accordo, ma certo non mi aspettavo questaescalation».
Sempre Reichlin dice: Renzi non è un costruttore di partito.
«
Renzi è la novità proprio per questo, lui non c’entranulla con il gruppo fondativo, né con chi ha immaginato il Pd».
Lei è per la scissione da parte della minoranza? «Certo! Perché devono continuare nel ruolo di separati in casa? Qualificatevi,presentatevi, manifestate chiaramente le vostre idee, inutile continuare inquesto modo. Proprio non capisco ilrestare uniti».
Saranno attaccati all’idea di“partito” come casa da non abbandonare, o avranno paura del domani. «Non c’è un partito (e qui alza la voce); ci sono una serie di nuclei, dipotere, gruppi di amici che fingono di rappresentare un simbolo. Fingono».

Per Roma il Pd deve presentarsi con le primarie? «Sulla Capitale possono intervenire come vogliono, tanto Roma è persa, seva bene il Pd arriverà al dieci per cento, l’unica città per la quale possonodire la loro è Milano se presentano Sala (commissario unico di Expo, ndr). MaSala non può passare dalle primarie, non lo accetterebbe mai».
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