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Ilaria Boniburini
Liberarsi dal neoliberismo si può
2 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Una analitica recensione per eddyburg dell’ultimo testo di David Harvey, uno dei più acuti critici del capitalismo globale e del neoliberismo (m.p.g.)

David Harvey, Breve storia del Neoliberismo , Il Saggiatore, 2007.Titolo originale: Brief History of Neoliberalism , Oxford University Press, 2005

David Harvey[1], nel suo ultimo libro pubblicato in Italia traccia in maniera incisiva le origini, l’ascesa, e le nuove tendenze del neoliberismo. Ne critica aspramente gli effetti disastrosi, ne affronta le contraddizioni economiche e politiche interne e ne delinea i rischi per il presente e il futuro. Ripercorrendo le ragioni meno ovvie della neoliberalizzazione, sostiene che non è tanto il progetto finalizzato alla riorganizzazione del capitalismo internazionale a prevalere, quanto il progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Harvey apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe” (p.229) e che quindi come tale occorre trattarla.

Che cos’è il neoliberismo? “Il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio” (p.10). Harvey vede, quindi, nel neoliberismo (neoliberalism) non un nuovo liberalismo (liberalism) in generale, ma una teoria economica distinta che ha sostituito l’embedded liberalism: cioè quella forma di organizzazione economico-politica che prevedeva l’esistenza, accanto ai processi di mercato, di una trama di restrizioni sociali e politiche e l’utilizzo di politiche fiscali e monetarie definite ‘keynesiane’ che limitavano e orientavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Il neoliberismo è, per l’autore, una teoria di pratiche di politica economica piuttosto che una completa ideologia politica.

Il fatto che il neoliberismo non sia un’ideologia politica non lo esime dal diventare un progetto di lotta di classe. Anzi, la mancanza di una dottrina vera e propria o di una ideologia, come invece erano ,per esempio, comunismo e il socialismo, lo rende più idoneo ad essere accettato e condiviso, perché apparentemente non schierato, neutro.

La copertina del volume, nell’edizione italiana come in quella inglese, raffigura Augusto Pinochet, Ronald Reagan, Teng Hsiao-ping e Margaret Thatcher. In realtà Harvey, nell’indicare coloro che tra il 1978 e il 1980 compirono le prime importanti azioni verso una svolta nella storia sociale ed economica del mondo, cita come primo Paul Volcker, la cui immagine dovrebbe sostituire quella del dittatore cileno. Volcker, alla guida della Federal Reserve (Fed), cambiò drasticamente la politica monetaria americana, abbandonando le politiche fiscali e monetarie keynesiane a favore di una politica diretta a frenare l’inflazione senza nessun riguardo per le conseguenze, abbandonando le politiche fiscali e monetarie keynesiane a favore di una politica diretta a frenare l’inflazione senza nessun riguardo per le conseguenze sull’occupazione. Ronald Reagan promosse la rivitalizzazione dell’economia americana sostenendo sia le manovre fatte da Volcker al Fed che una serie di politiche finalizzate a contenere i sindacati, deregolamentare l’industria, l’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse e a liberare le potenzialità della finanza a livello nazionale e sulla scena mondiale. Teng in Cina fece il primo passo verso la liberalizzazione di un’economia governata da comunisti, adottando il socialismo di mercato al posto della pianificazione centralizzata. Margaret Thatcher con l’obiettivo di riformare l’economia della Gran Bretagna, intraprese una vera e propria rivoluzione nelle politiche fiscali e sociali: contrastò il potere dei sindacati e delle forme di solidarietà sociale che ostacolavano la flessibilità competitiva, ridusse gli impegni del welfare state, privatizzò imprese pubbliche, ridusse le tasse e incoraggiò l’imprenditoria per creare un clima favorevole all’attività economica e agli investimenti stranieri. La stessa Thatcher disse “non esiste la società, esistono solo gli individui di sesso maschile e femminile” (p.33) aggiungendo in seguito “e le loro famiglie” (p.33). Le varie forme di solidarietà sociale quindi sarebbero dovute scomparire per favorire l’individualismo, la proprietà privata, la responsabilità individuale e i valori familiari.

Lo studioso americano analizza perché e come il neoliberismo, nelle sue varie versioni, è diventato la scelta prevalente, volontaria o talvolta indotta, della stragrande maggioranza degli stati, dalle socialdemocrazie occidentali agli stati nati dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dal Sudafrica del dopo apartheid alla Cina contemporanea.

Tra le ragioni che portarono al cambiamento sicuramente la crisi dell’accumulazione di capitale occupa un posto di primo piano, per gli effetti sulla disoccupazione crescente, l’accelerazione dell’inflazione e il conseguente diffuso malcontento.

Causa determinante fu la crescita vertiginosa del petrolio OPEC, causata dall’embargo petrolifero del 1973, che diede un enorme potere finanziario agli stati produttori come l’Arabia saudita e il Kuwait. I sauditi dovettero, sotto la minaccia di un intervento militare riclicare i loro petroldollari attraverso le banche di investimento americane, le quali, investirono queste ingenti somme di denaro all’estero: prestiti di capitali ai governi stranieri, in particolare paesi in via di sviluppo. Ma queste operazioni richiedevano la liberalizzazione del credito internazionale e dei mercati finanziari e così il governo statunitense cominciò a sostenere questa strategia a livello globale. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale divennero i maggiori sostenitori del ‘fondamentalismo del libero mercato’ e dell’ortodossia neoliberista, attraverso quell’invenzione chiamata aggiustamento strutturale: implementazione di riforme istituzionali come per esempio tagli alle spese pubbliche, privatizzazioni, leggi sul lavoro più flessibli, erano spesso richieste in cambio di una ri-negoziazione del debito.

Ma non solo. “Stava diventando palpabile la minaccia economica alle posizioni delle classi dominanti” (p.24). Infatti lavoratori e movimenti sociali urbani, alla metà degli anni settanta, si stavano mobilitando per maggiori riforme e servizi sociali e i partiti socialisti e comunisti in molti stati avevano raggiunto posizioni forti o si apprestavano ad affermarsi in una buona parte dell’Europa e anche nei paesi in via di sviluppo. Così come già argomentato da G.Duménil e D.Lévy[2], Harvey arriva quindi a sostenere che la neoliberalizzazione è stata fin dall’inizio un progetto mirante alla restaurazione del potere di classe. A sostegno di questa tesi divengono rilevanti anche i dati forniti sulla redistribuzione della crescita e la disuguaglianza sociale. Negli Stati Uniti dopo l’attuazione delle politiche neoliberiste alla fine degli anni settanta, la percentuale del reddito nazionale percepita dall’1% più ricco della popolazione é cresciuto enormemente, fino a raggiungere, alla fine del XX secolo, il 15%. Ancora, il rapporto tra i salari medi dei lavoratori e gli stipendi dei massimi dirigenti di azienda è passato da 1 a 30 nell’anno 1970 a quasi 1 a 500 nel anno 2000.

Quella svolta, che oggi potrebbe apparirci scontata, avvenne, sostiene Harvey, attraverso tentativi ed esperimenti caotici che vennero formulati in una nuova ortodossia solo alla fine degli anni novanta con quello che poi verrà definito il ‘consenso di Washington’. I modelli neoliberisti, americano e inglese, da allora furono considerati la risposta ai problemi globali. L’Europa, il Giappone, il Messico, l’Argentina, la Corea del Sud, l’Indonesia, per citarne solo alcuni, subirono pressioni notevoli affinché intraprendessero la strada del neoliberismo, e la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che definiva standard e regole per l’interazione nell’economia internazionale, rappresentò l’apice della spinta istituzionale.

Harvey riporta diverse esperienze neoliberiste (Messico, Argentina, Corea del Sud, Svezia, Cina, accanto a quelle della Gran Bretagna e degli Stati Uniti) e rileva che una prima lettura porterebbe a considerare l’irregolarità dello sviluppo come conseguenza di una diversificazione, innovazione e competizione dei diversi modelli di governance, tutti riconducibili al riconoscimento dell’efficacia delle idee neoliberiste a rispondere a crisi finanziarie di un qualche genere, oppure ad un approccio più pragmatico alle riforme dell’apparato statale per incrementare la competitività a livello internazionale. Un’analisi più approfondita farebbe invece pensare che altre sono le forze in campo: quelle di una classe dominante, che si attuano “ sia nella formazione di idee e ideologie, che tramite investimenti nei think-tanks, formazione di tecnocrati e controllo dei media” (p.134). Di fatto i sostenitori del neoliberismo occupano oggi posizioni rilevanti nelle università, nei media, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende, e degli organi internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Per quanto riguarda i risultati, Harvey afferma che non vi è stata neanche una vera crescita globale, ma piuttosto una redistribuzione di ricchezza e reddito, che ha generato meccanismi di sviluppo geograficamente disuguali attraverso l’‘accumulazione tramite esproprio’.

Vale la pena elencare alcune di queste pratiche, anche per le pesanti e dirette conseguenze che esse hanno sul territorio e sulla città in particolare. Come ha affermato Jessop[3]. le città e le città-regioni acquisiscono un’importanza notevole nel progetto neoliberista: sono considerate i motori della crescita economica e i centri dell’innovazione sociale, politica ed economica e giocano un ruolo importante nel promuovere e consolidare la competitività internazionale, ma, per converso, anche nel favorire lo sviluppo di una pluralità di comunità autorganizzate come dispositivo di sostegno per le inadeguatezze del meccanismo di mercato

Le principali pratiche poste in essere possono essere così riassunte:

1) La redistribuzione intenzionale di ricchezze dai paesi poveri a quelli ricchi attraverso la gestione e manipolazione delle crisi sullo scenario mondiale: per esempio le varie crisi debitorie dei molti paesi in via di sviluppo.

2) Il trasferimento di risorse dal pubblico al privato: privatizzazione e mercificazione di risorse sino ad ora rimaste pubbliche al solo scopo di aprire nuovi campi all’accumulazione di capitale. Dalla privatizzazione dei servizi pubblici (acqua, pensioni, assistenza sanitaria) e delle istituzioni pubbliche (università, ospedali, istituti di ricerca, prigioni) al crescente depauperamento delle ricchezze ambientali comuni e dell’habitat. Dalla mercificazione delle forme culturali alla cancellazione delle strutture di regolamentazione per proteggere la forza lavoro e l’ambiente. Il trasferimento a pochi, attraverso manipolazioni (churning, stock options e hedge funds) di immense ricchezze, a spese di molti: la finanziarizzazione, contrassegnata sempre più da uno stile speculativo e predatorio.

Il trasferimento da parte dello stato del flusso di beni e capitali dalle classi più basse a quelle più alte, soprattutto attraverso le privatizzazioni e i tagli delle spese statali che sostenevano il salario sociale. Per esempio la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico in Inghilterra sembrò portare ad un beneficio immediato alle classi inferiori, in quanto i beneficiari potevano diventare proprietari a costi relativamente bassi, accrescendo così la loro ricchezza e benessere. Ma a trasferimento compiuto subentrò la speculazione immobiliare, soprattutto nelle aree centrali e più importanti, convincendo o costringendo popolazioni a basso reddito a spostarsi verso la periferia, trasformando complessi di residenza sociale in centri residenziali signorili. Lo stesso sta succedendo a Pechino, dove in nome della rigenerazione urbanistica ( e delle olimpiadi) di gran parte della Pechino antica, moltissime famiglie (si parla di circa un milione di persone) sono costrette a lasciare le loro case.

Riguardo all’ambiente le politiche degli stati neoliberisti sono state e sono discontinue e instabili: se Reagan era indifferente alla questione ambientale, la Thatcher invece prese a cuore il problema e considerò con serietà la minaccia del surriscaldamento globale. Benchè la crescita e l’influenza dei movimenti ambientalisti abbiano contribuito a contenere danni e aumentare la sensibilità ai problemi, Harvey afferma che “il bilancio complessivo delle conseguenze della neoliberalizzazione sull’ambiente è certamente negativo” (p.196). Fa notare che i due principali responsabili della crescita delle emissioni di biossido di carbonio in questi ultimi anni sono gli Stati Uniti e la Cina, ovvero i due paesi che rappresentano le fucine dell’economia globale. Il fabbisogno energetico apre inoltre un’altra serie di problemi che ha ovvie ramificazioni geografiche soprattutto sullo sfruttamento delle risorse naturali e conseguenze geopolitiche, soprattutto nell’Africa subsahariana dove la Cina sta orientandosi alla ricerca di approvvigionamenti petroliferi.

La neoliberalizzazione ha un primato negativo sugli effetti dello sfruttamento delle risorse naturali: la preferenza dei rapporti contrattuali di breve durata spinge i produttori a ricavare il più possibile indipendentemente dalle conseguenze ambientali e produttive a lungo termine, con il conseguente depauperamento di sistemi ecologici, dalle riserve ittiche alle foreste. La spinta per accrescere le esportazioni e ad accordare diritti di proprietà privata nei paesi in via di sviluppo, soprattutto attraverso i “programmi di aggiustamento strutturale”, ha creato enormi danni ai patrimoni boschivi, spesso irreparabili.

Molti permangono i paradossi e le contraddizioni insiti nella teoria neoliberista: la questione del potere monopolistico spesso prodotto dalla competizione stessa; i difetti del mercato che emergono quando individui o imprese non pagano tutti i costi che spetterebbero loro esternalizzando quindi gli impegni passivi[4], l’accesso ineguale, di fatto, alle informazioni da parte di coloro che agiscono sul mercato; l’innovazione tecnologica che può diventare destabilizzante se non controproducente; la tensione tra individualismo e desiderio di una vita collettiva gratificante che conduce alla costruzione di forti istituzioni collettive come i sindacati.

Quando queste tensioni si manifestano, spesso la spinta alla ricostruzione del potere di classe distorce se non addirittura capovolge la prassi neoliberista, producendo contraddizione notevoli tra la teoria e la prassi effettiva, tra gli scopi dichiarati (il benessere di tutti) e i suoi risultati effettivi.

La sfiducia dichiarata nei confronti del potere statale mal si concilia con l’impegno politico a favore di ideali di libertà individuale, il diritto alla proprietà privata e delle libertà delle imprese commerciali, in quanto il rispetto dei contratti e dei diritti individuali richiedono il monopolio da parte dello stato degli strumenti di coercizione per la tutela di queste libertà.

Mentre da una parte si enfatizza il meccanismo virtuoso della competizione, in realtà si aumenta il consolidamento del potere oligopolistico o monopolistico.

La spinta verso il mercato, il consumismo e la trasformazione di ogni cosa in merce può produrre incoerenza sociale; e l’eliminazione di tutte le forme di solidarietà sociale, lascia un vuoto pericoloso. Ecco allora che ‘nuove’ forme di solidarietà e associazionismo sono promosse e ricostruite, spesso su basi diverse dalle precedenti: religiose, morali o si assiste al ritorno di vecchie forme politiche come il nazionalismo, fascismo, etc.

Un aspetto centrale della teoria neoliberista è la questione della libertà (cui nel libro sono significativamente dedicati il primo e l’ultimo capitolo).

Il pensiero neoliberista, osserva Harvey, adottò come fondamentali i valori di dignità e libertà individuali. La parola ‘libertà’ è stata utilizzata e strumentalizzata, per il suo valore universalmente riconosciuto, per raggiungere il consenso popolare sulle pratiche neoliberiste. Sostenendo che i valori della libertà sono garantiti dalla libertà di mercato e di scambio, quindi minacciati non solo dal fascismo, dal comunismo o dalle dittature, ma anche da tutte quelle forme interventiste che sostituivano al libero arbitrio degli individui le decisioni e il benessere collettivo, fu costruita una cultura populista basata sul mercato, fatta di consumismo differenziato e libertarismo individuale. Usando le parole di K.Polanyi[5], Harvey rilegge l’esperienza neoliberista: essa “significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà”(p.49). Aggiungendo che “trent’anni di libertà neoliberiste, dopo tutto, non hanno solo restaurato il potere di una classe capitalista assai ben definita, anche prodotto immense concentrazioni di potere aziendale nei campi dell’energia, dei media, dei prodotti farmaceutici, dei trasporti e del commercio al dettaglio” (pp.49-50).

Malgrado si parli molto di libertà, come sottolinea Harvey, manca veramente un dibattito serio su quale tra le varie concezioni divergenti di libertà sia la più adatta al nostro tempo. E in questa aspra critica l’autore non risparmia neppure Amartya Sen e il suo famoso testo Lo sviluppo è libertà [6], che “pur essendo di gran lunga il contributo più significativo degli ultimi anni alla discussione, avviluppa nel mantello delle interazioni del libero mercato importanti diritti sociali e politici. Senza un mercato di tipo liberale, sembra dire Sen, nessuna delle altre libertà può funzionare” (p.209).

Molti statunitensi credono che le libertà neoliberiste sostenute da Bush siano le uniche esistenti; e “coloro che sono pienamente inseriti nell’inesorabile logica del mercato e delle sue esigenze scoprono che c’è poco tempo o poco spazio per esplorare le potenzialità di emancipazione, al di fuori di ciò che viene venduto come avventura creativa, svago e spettacolo. […] il regno delle libertà si restringe davanti all’orribile logica e alla vuota intensità delle relazioni di mercato” (p.211).

E’ in questo contesto che emergono culture di opposizione, sia interne che esterne al sistema di mercato, che si oppongono all’etica di mercato e alle pratiche neoliberiste, ma Harvey sostiene che ancor prima di formulare un progetto di società futura occorre avviare un processo politico che consenta davvero di distinguere le alternative possibili e reali.

La ricca bibliografia, in appendice al libro, seppur non esaustiva, poiché non include tutto il minuto e necessario lavoro di coloro che all’interno delle proprie discipline contribuiscono attraverso l’analisi critica a mettere in luce le contraddizioni e negatività della costruzione neoliberista in campi specifici, potrà suggerire approfondimenti e interessanti letture. Schematizzando molto le critiche alla teoria e alle pratiche neoliberiste possono essere riassunte in due filoni: quella che opera dall’esterno del sistema e mette in discussione il sistema stesso e quella che vi opera dall’interno (figurativamente ma anche letteralmente). Il testo di Harvey si colloca nel primo filone, mentre gli scaffali delle librerie sono piene di volumi che possono essere inquadrati nel secondo, che rappresenta la prassi più usata dalle stesse organizzazioni neoliberiste. L’ultimo libro dell’economista Stiglitz[7], La globalizzazione che funziona, ne è un esempio perfetto. Stiglitz, parte da un attenta e utile critica, alle pratiche della Casa Bianca, della Banca Mondiale e di altri organi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e propone una serie di , raccomandazioni per fare funzionare, davvero questa volta, la globalizzazione, che di per se è, a suo parere, ‘ovviamente’ buona. Ma in realtà la sua dialettetica, molto piacevole e ricca di buone parole e nobili concetti, non propone di modificare nulla di sostanziale.

Per chiudere con le parole di Harvey. “La prassi neoliberista ha comportato una “ingente distruzione creativa, non solo di strutture e poteri istituzionali preesistenti […] ma anche nell’ambito della divisione del lavoro, delle relazioni sociali, del welfare, degli assetti tecnologici, degli stili di vita e di pensiero, delle attività riproduttive, dell’attaccamento alla propria terra e degli atteggiamenti affettivi. Facendo dello scambio di mercato un’etica in sé” (pp.11-12).

Ecco che allora sta a noi, come individui e come collettività, come cittadini e come professionisti, ricostruire una società comune e interrogarci di nuovo, dopo anni di disinteresse sul concetto di giustizia sociale all’interno della società contemporanea, e sulle tensioni tra particolarismo e universalismo, tra libertà individuali e benessere collettivo, ancor più inasprite dal neoliberismo[8].

[1] David Harvey distinguished professor di Antropologia al Graduate Center della City University di New York (CUNY), noto geografo, teorico di critica sociale e autore di saggi fondamentali per capire le trasformazioni economiche, politiche e culturali del nostro tempo, ha contribuito al dibattito sociale e politico sul capitalismo globale e il neoliberismo. Tra i suoi libri: L’esperienza urbana, Il Saggiatore, 1989; La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993; Spaces of Hope, Edinburgh University Press, 2000; La guerra perpetua, Il Saggiatore, 2006; Spaces of Global Capitalism. Towards a theory of uneven geographical Development, Verso, 2006; The right to the city in R.Scholar (a cura di) Divided cities, Oxford University Press, 2006.

[2] G.Duménil e D.Lévy, Neoliberal Dynamics. Towards a New Phase, in K.Van der Pijl, L.Assassi e D.Wigan (a cura di), Global regulation.Managin Crises After the Imperial Turn, 2004

[3] Bob Jessop, Liberalism, Neoliberalism, and Urban Governance: A State-Theoretical Perspective, in Antipode No. 34, 2002.

[4] L’esempio più evidente è l’inquinamento, che sia aziende che individui evitano di pagare, scaricando nell’ambiente i rifiuti nocivi che possono produrre degrado e nuocere ad ecosistemi produttivi.

[5]K.Polanyi, The Great Transformation, New York-Toronto, 1944.

[6] A.Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000.

[7]J.E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Torino, Einaudi, 2006 .

[8] Sulla giustizia sociale si può vedere: D.Harvey, Justice, Nature & the Geography of difference, 1996, in particolare la Parte IV; M.C.Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, 2002; e I.M.Young, Justice and the politics of difference, Chichester-UK, Princeton University Press, 1990.

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