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l Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2016 (m.p.r.)

Scena uno. Aprile 2014.Matteo Renzi, nella salastampa di Palazzo Chigi,annuncia il decretosugli 80 euro di bonus Irpef e irelativi tagli di spesa per finanziarlo:una slide dice che ibandi di gara dal 2015 sarebberostati pubblicizzati solo online- e non più con (l’obbligatoria) “pubblicità legale”sui giornali di carta - e così loStato “risparmierà 120 milionidi euro l’anno”. In realtà la Ragioneriagenerale, dopo, avrebbeparlato di “risparmio zero” per via di una legge diMonti che caricava sul vincitoredell’appalto il costo della“pubblicità legale” attraversouna sorta di tassa occulta.

Gli editori, comunque, nonla presero bene: 120 milioni diincasso non sono pochi, specialmentein tempo di crisi,specialmente se si è un grandegruppo editoriale - come ad esempioil Gruppo Espresso -che ha un sacco di quotidianilocali che drenano i bandi dienti locali e regioni. Le pressionisu Palazzo Chigi e Parlamentosi sprecarono e così siarriva alla scena due. Giugno2014: arriva l’emendamentocon cui tutto viene rinviato al1° gennaio 2016. E siamo allascena tre. Giugno 2015. Un emendamentinofirmato dai relatoriin Senato (uno del Pd euno di Forza Italia) al nuovocodice degli appalti cerca dicancellare l’obbligo di pubblicizzarei bandi di gara solo online:prima viene approvato,poi – e siamo a ottobre 2015 –bocciato. Insomma, gli editoristanno per perdere una tortache nel 2014 gli ha fruttato 120milioni.

La scena quattro è l’ultima.Siamo al 30 dicembre 2015 e inGazzetta Ufficiale arriva il solitodecreto Milleproroghe.Tra le altre mille, come il lettoreavrà già capito, c’è anchela proroga per il passaggio della“pubblicità legale” on line:gli editori, per tutto il 2016,continueranno a incassare.Non solo: viene pure prorogatodi un anno l’obbligo di passaggioal sistema di tracciabilitàdigitale di vendite e resedei giornali (e pure il relativocredito d’imposta). Il cartaceosarà anche in crisi, ma il premier- e il fido Luca Lotti, chegestisce i rapporti con gli editori- non vogliono guastare lerelazioni con l’ingegner DeBenedetti o la famiglia Agnelli(La Stampa e Corriere della Sera,con relative edizioni locali).

Prorogato di un anno pure ildivieto di incroci stampa quotidiana-tv:in sostanza, SilvioBerlusconi e Urbano Caironon possono avere un giornale.A spulciare il decreto di fineanno, però, ci sono anche altrecosette notevoli. Slitta ancoradi un anno, per dire, l’entrata aregime del sistema di tracciabilitàdei rifiuti chiamato “Sistri”(era previsto da un decretodel 2013 e se ne parla da moltoprima). Viene prorogato al31 dicembre 2016 pure il contrattodi servizio tra Stato eFerrovie, come pure il tempolimite per il ministero delloSviluppo per emanare un decretolegislativo che sistemi laquestione Uber, taxi e Ncc.

Certe proroghe, poi, denuncianoquanta distanza cisia tra le parole e i fatti. Ben trenorme, ad esempio, riguardanol’edilizia scolastica, uno deicavalli di battaglia di Renzi: èprorogato al 30 aprile 2016 iltermine per l’affidamento deilavori di messa in sicurezzadegli edifici scolastici (il chevuol dire, se ci si pensa, che nonli hanno affidati nei tempi stabiliti,nonostante la solita “cabina di regia”a Palazzo Chigi);conseguentemente slitta al 31dicembre 2016 il termine ultimoper spendere i fondi stanziatiper le “scuole belle”, le“scuole sicure” e via propagandando. Deliziosa l’ultima:slitta al 31 dicembre 2016 il terminedi attuazione delle disposizioniin materia di prevenzioneincendi per l’ediliziascolastica.

Altre proroghe, invece, sonouna delizia per come raccontanolo stato di confusionedel dibattito pubblico - gestitoanche da quelli che si godonola “pubblicità legale”– e dellastessa attività di governo. Comesi sa, infatti, c’è l’emergenza smog e si tengono i riscaldamentibassi e si deve andare inauto a passo d’uomo: inveceper i grandi impianti industrialianteriori al 2006 il termineper l’applicazione dei valorilimite di emissione (cosìcome definiti nel codicedell’ambiente) è prorogato al1° gennaio 2017. Mica per tutti,però: gli impianti in questionedevono avere presentato regolarmentele istanze di deroga(cioè aver richiesto il permessodi inquinare). Un caso pertutti, è l’Ilva. Equitalia, infine,che era la sentina di ogni vizioe che nessun sindaco volevapiù usare, è autorizzata a lavorareper i Comuni (cosa chenon vorrebbe fare, perché nonconviene) altri sei mesi: se cosìnon fosse, gli enti locali non saprebberocome recuperaremulte e tasse non pagate.

«La campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc.».

La Repubblica. 2 gennaio 2016 (m.p.r.)

Matteo Renzi si gioca tutto sul referendum confermativo della riforma del Senato. È come se il presidente del Consiglio avesse lanciato il guanto della sfida all’elettorato: o me o il caos, come diceva il generale De Gaulle. Questa di Renzi è una sfida rischiosa sia per l’oggetto del contendere - la riforma del Senato - , sia, e soprattutto, perché i referendum in Italia sono sempre stati “contro”.
Da quando è stato introdotto il referendum, il consenso è andato quasi sempre in direzione opposta all’establishment politico o alle idee correnti.

Il primo, quello sul divorzio del 1974, fece epoca perché contraddisse platealmente i timori della classe politica laica. Allora i partiti favorevoli al divorzio e soprattutto il Pci temevano che il “popolo non capisse” e scegliesse la tradizione. Invece votò “contro”: contro il clericalismo e contro l’arretratezza dei suoi rappresentanti. Per una volta la società civile dimostrò di essere molti passi avanti rispetto alla politica.Ma il più clamoroso voto contro si ebbe nel 1978 quando si andò alle urne per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Mentre solo radicali e liberali erano a favore (poco più del 5% dell’elettorato), il 43% dei cittadini sostenne l’abrogazione. Uno schiaffo a tutti i partiti “tradizionali”.
Ultimo esempio significativo: i referendum post-Tangentopoli indetti da un comitato variegato di politici e intellettuali capitanato da Mario Segni e Augusto Barbera, per eliminare, tra l’altro, la legge elettorale proporzionale e (ancora) il finanziamento pubblico: la valanga di consensi che ricevettero quelle proposte seppellì la classe politica della “prima repubblica”.
Affidare la propria sorte politica all’esito di una consultazione referendaria costituisce quindi un azzardo, proprio perché il referendum è stato interpretato come uno strumento correttivo delle scelte politiche operate dalle istituzioni. Essendo una espressione di democrazia diretta tende a porsi come un contropotere, e soprattutto così è stato praticato nella recente storia politica nazionale. Renzi oggi rappresenta il potere, l’establishment, la “classe politica”. Quando gli elettori andranno a votare guarderanno anche a questo aspetto, del tutto estraneo al merito della questione.
Se poi prendiamo in considerazione l’oggetto del referendum, la riforma del Senato, anche qui emerge una difficoltà supplementare per il presidente del Consiglio. Non si deve infatti decidere se confermare o meno l’abolizione del Senato bensì una sua trasformazione affidando i seggi a una rappresentanza di consiglieri regionali. Al di là di ogni giudizio nel merito, se la riduzione numerica e funzionale del Senato doveva placare pulsioni antipolitiche - e molte argomentazioni dello stesso Renzi hanno avuto questo registro (si risparmiano soldi, ci sono meno politici in giro, e così via) - la riforma lascerà scontenta quella grande platea che oggi si sente estranea e persino antitetica rispetto alle istituzioni.
Questo perché, semplificando, Renzi non può rincorrere Grillo. Non si cavalcano dal governo i sentimenti antipolitici se non si è dei populisti, come lo erano Bossi e Berlusconi. Se invece si è legati, più o meno saldamente e più o meno convintamente, ad una visione riformista, non si è credibili nel solleticare sentimenti che non fanno parte della cultura di governo della sinistra. Per questo la campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc. Un esercizio difficile quando si ha di fronte una opinione pubblica che ha perso fiducia nella politica e nei partiti, senza grandi distinzioni.
Rimane la via d’uscita già indicata nella conferenza stampa del premier: portare il referendum su un terreno diverso, più congeniale alle risorse del capo del governo. E cioè arrivare ad uno scontro imperniato sulla sua figura, in una sorta di replica a livello nazionale delle primarie. Di nuovo, o con me o contro di me. Ma, in questo caso, non voteranno solo i simpatizzanti del Pd. La coalizione “contro” può essere numerosa, molto numerosa.

Ci accontentiamo davvero di poco i questi tempi di tormento. Eppure, dobbiamo soffiare su ogni fiammella che appare all'orizzonte. Articoli di Stefano Folli, Andrea Fabozzi e Andrea Padellaro,

La Repubblica il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2016

il manifesto
QUELLO CHE MATTARELLA NON DICE

di Andrea Fabozzi

«Un discorso a-renziano che non incrocia l’attività del governo, innovando profondamente rispetto alla stagione di Napolitano. E con una clamorosa omissione: il presidente non cita mai la riforma costituzionale»
L’anno vecchio che secondo il bilancio del presidente del Consiglio «è andato meglio del precedente e meglio delle nostre previsioni» consegna invece nel discorso del presidente della Repubblica una lunga lista di problemi, antichi eppure inattaccabili dalle slide.

Il lavoro, che «manca ancora a troppi» giovani, quarantenni e cinquantenni, donne. Le diseguaglianze, che «rendono più fragile l’economia» e le discriminazioni che «aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà». L’eterna questione meridionale. L’illegalità di «chi corrompe e chi si fa corrompere», di chi «ruba, inquina, sfrutta, in nome del profitto calpesta i diritti più elementari». E tra le illegalità il presidente della Repubblica sottolinea l’evasione fiscale, quella contro la quale secondo il presidente del Consiglio «abbiamo fatto passi in avanti da gigante»; diventa nel testo letto da Sergio Mattarella l’unico punto esclamativo: «L’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti».

Nell’elenco dei problemi entra anche l’inquinamento, tema di cronaca affrontato politicamente: «L’impegno delle istituzioni deve essere in questo campo sempre maggiore. Si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così». Due giorni prima il presidente del Consiglio aveva scaricato anche quest’emergenza sui gufi: «Siamo passati da piove governo ladro a non piove governo killer».

Un discorso non certamente antirenziano il primo di capodanno di Sergio Mattarella, bensì a-renziano: la proposta di una realtà tenacemente diversa da quella raccontata ogni giorno e con ogni mezzo dal capo del governo. Ma in una chiave per nulla polemica. E con una modalità che - fatte le dovute differenze di ruolo, formazione, età - può persino essere avvicinata a quella consueta per Renzi: la posa informale, non ex cathedra, il rivolgersi direttamente ai cittadini e non ai palazzi della politica.

E il fatto che il presidente abbia scelto di non incrociare per niente l’attività di governo - in questo innovando profondamente rispetto alla lunga stagione di Napolitano - è stato certamente apprezzato da palazzo Chigi. Renzi lo ha prontamente sottolineato, lodando un «discorso bello e diretto al cuore degli italiani», quasi un messaggio sentimentale. Al contrario l’opposizione ha potuto apprezzare l’insistenza sui «problemi irrisolti» che, come ha detto il forzista Paolo Romani, «è un monito al governo che ha precise responsabilità». «Discorso leale», si è invece compiaciuto il presidente dei senatori Pd Zanda; per i renziani il fatto che il capo dello stato abbia scelto di tenersi lontano da ogni contrapposizione con il governo è ormai una solida certezza.

Il che non significa automaticamente che sul Quirinale si condivida ogni passo della strategia renziana. Qualche divergenza può ben esserci. In coerenza con il minimalismo di Mattarella, lo suggerisce stavolta un’omissione più che un’affermazione, un’omissione assai significativa. Malgrado il presidente della Repubblica abbia più volte nel corso dell’anno sostenuto la «grande riforma» costituzionale voluta dal governo, anche deludendo qualche avversario del premier, giovedì sera il presidente ha del tutto evitato l’argomento. Scelta clamorosa, essendo il 2016 l’anno in cui terminerà il lungo percorso di revisione costituzionale, con il referendum confermativo.

La parola più (ab)usata nello storytelling renziano, la parola «riforma», non è comparsa neanche una volta nei venti minuti del messaggio di fine anno. Se un referendum Mattarella ha citato è stato quello istituzionale del 1946 - «nel 2016 celebreremo i settant’anni della Repubblica» -; se una volta ha parlato della Costituzione non è stato per invocarne il necessario aggiornamento ma per descriverla come «non soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori». E se Renzi ha presentato l’ultimo passaggio della riscrittura della Carta come un plebiscito sulla sua persona, il capo dello stato ha compreso nel suo discorso un unico appello, il classico “monito” del Quirinale: «Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica».
La Repubblica
IL DOPPIO DISCORSO DEL PRESIDENTE
di Stefano Folli

La novità di questo Capodanno è che il discorso del Capo dello Stato era in realtà diviso in due parti. Una è quella che gli italiani hanno ascoltato la sera di San Silvestro in televisione. Ed il messaggio rivolto ai cittadini, un tempo si sarebbe detto alla gente comune. Un messaggio la cui caratteristica era l’educazione civica, l’invito ad aver «cura della Repubblica». L’idea che esistono i doveri accanto ai diritti. L’incoraggiamento a tener duro perché qualche segnale positivo s’intravede.
L’altra metà del discorso era rivolta all’insieme della classe dirigente, ma non è stata pronunciata il 31 bensì qualche giorno prima, in occasione della cerimonia degli auguri al Quirinale. Un intervento più formale, come è logico, nessuna poltroncina e nessuna stella di Natale sullo sfondo. Quel giorno Mattarella ha parlato all’establishment del Paese e ha toccato temi meno facili. Ha usato quel suo linguaggio un po’ criptico, ma di solito non oscuro, per chiedere che sia rispettato il complessivo equilibrio delle istituzioni. E ha citato in modo specifico il dramma delle banche, ammonendo fra le righe a fare attenzione. Il rischio di compromettere delicati assetti, con conseguenze gravi per il cosiddetto “sistema Paese”, è tutt’altro che remoto.
Sarà un caso, ma della commissione d’inchiesta parlamentare (dotata, come è noto, di poteri d’inchiesta equivalenti a quelli di cui gode la magistratura) non si parla quasi più. E lo stesso premier Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, si è ben guardato dall’insistere su questo tasto. La prudenza è d’obbligo. Ecco allora il senso dei due interventi del presidente della Repubblica. È necessario leggerli o ascoltarli insieme per cogliere il loro senso generale. Nel primo discorso Mattarella ha parlato da garante istituzionale. Ha suggerito cautela sulle banche e quindi anche sulla Banca d’Italia: non per lasciare impuniti coloro che hanno commesso eventuali abusi, bensì per evitare passi falsi e conseguenti rischi di destabilizzazione. Un conto è la ricerca delle responsabilità, un altro è la rincorsa al consenso immediato.
La sera di San Silvestro il presidente si è rivolto invece a chi non ha un lavoro e lo cerca senza trovarlo; a chi è disorientato perché non è sicuro della ripresa economica; a chi teme per la propria sicurezza nella nuova stagione del terrorismo («di matrice islamista », ha voluto precisare il Capo dello Stato). Un discorso rivolto ai giovani e alle donne, alcune delle quali citate per nome fra le eccellenze italiane. Mattarella ha una sua cifra espressiva pacata e severa che certo non fa di lui un trascinatore. Ma ha la capacità di parlare senza ricorrere alla retorica, con una naturale vocazione alla concretezza e nel rifiuto dell’enfasi.
Non ha bisogno di blandire il governo e nemmeno di citarlo: si muove su un terreno diverso da quello proprio dell’esecutivo e infatti nessuno può immaginare che l’attuale inquilino del Quirinale viva una qualsiasi tentazione “presidenzialista”. Al tempo stesso trasmette l’impressione di un Capo dello Stato che agisce molto dietro le quinte. In primo luogo con la conoscenza dei problemi e dei vari “dossier”, poi con il controllo delle leggi e infine esercitando una persuasione discreta sui diversi protagonisti della vita pubblica. È un ruolo e un compito in cui Mattarella sembra ormai essersi calato, dopo il necessario apprendistato istituzionale.
Ecco perché il messaggio di Capodanno è piaciuto a molti. Fino a raccogliere un parziale giudizio positivo persino dal leghista Salvini, il quale ha dovuto ammettere che sulla questione dell’immigrazione il cattolico Mattarella, l’uomo della solidarietà e dell’accoglienza, ha detto parole ferme circa il dovere di allontanare dal territorio nazionale chi non ha i requisiti per restarvi. Ma per capire bene quello che il capo dello Stato ha voluto dire agli italiani bisogna considerare insieme i due momenti: il discorso alle classi dirigenti e quello al paese reale. Incollati insieme i pezzi, il doppio intervento restituisce forse per la prima volta la cifra autentica e definitiva di questa presidenza.

Il Fatto Quotidiano
IL PRESIDENTENON URLAMA ALZA LA VOCE
di Andrea Padellaro

Questa volta Beppe Grillo ha avuto troppa fretta nel definire “un ologramma” Sergio Mattarella, perché se prima di registrare il suo contromessaggio avesse avuto la pazienza di ascoltare il messaggio del capo dello Stato, vi avrebbe trovato molti temi familiari ai Cinquestelle. Infatti, era dai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, e forse anche di Sandro Pertini, che al Quirinale, nell’ultimo giorno dell’anno, non si alzava la voce (tenendola bassa com’è nello stile del nuovo inquilino) contro le metastasi del malaffare che stanno divorano l’Italia.

L’evasione fiscale giunta a livelli «inaccettabili»: 122 miliardi, come ha ripetuto due volte vista l’enormità dello scandalo. «L’illegalità di chi ruba, di chi corrompe e di chi si fa corrompere». L’attacco frontale contro «chi sfrutta, e chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, trascurando la sicurezza e la salute dei lavoratori». La «riconoscenza» ai magistrati e alle forze dell’ordine che conducono «una lotta senza esitazioni contro le mafie». Che differenza di linguaggio dal suo predecessore Giorgio Napolitano, che parlava dei magistrati preferibilmente quando c’era da sgridarli per il loro «protagonismo». Non è forse su queste battaglie che il M5S ha raccolto il suo crescente successo elettorale e costruito l’unica opposizione credibile alla vecchia partitocrazia?
Perché non rivendicarle, invece che sbattere Mattarella nel mazzo abusato del «sono tutti uguali»? Quanto a Matteo Renzi, al di là degli apprezzamenti rituali può dirsi davvero soddisfatto da un discorso che tocca i nervi scoperti di un’azione di governo che l’evasione fiscale pensa di combatterla alzando a tremila euro il limite del pagamento in contanti? Impedendo la tracciabilità dei versamenti in nero, che rappresentano il mare, anzi l’oceano dell’evasione sommersa? Dall’attacco di Mattarella contro una certa imprenditoria rapace esce poi malconcio un altro concetto caro al premier, quello secondo cui basta creare posti di lavoro, non importa come e a che prezzo, per meritarsi la medaglietta di Palazzo Chigi.
Nessun antagonismo, ci mancherebbe altro, con il governo Renzi a cui ha riconosciuto (senza mai nominarlo) il miglioramento della condizione economica. Però, rispetto al trionfalismo sui mirabolanti risultati del Jobs act, il presidente preferisce ricordare come i troppi giovani senza lavoro rappresentino per la nazione un disastro morale, prima ancora che sociale. Infine, la Costituzione. Non una parola sulle cosiddette riforme e sul referendum confermativo che Renzi usa in modo ricattatorio per farsi campagna elettorale. Per l’uomo del Colle, invece, «rispettare le regole vuol dire attuare la Carta, realtà viva di principi e valori». Messaggio coerente con la sua storia di cattolico di sinistra, quello di Mattarella non può esser il solito pistolotto natalizio ma deve tradursi in un impegno solenne con il Paese. Poiché il presidente rivendica, giustamente, il suo ruolo di arbitro lo aspettiamo alla prova dei fatti: quella delle leggi sbagliate da respingere e delle leggi giuste da pretendere.
«Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società» Intervista di Andrea Fabozzi.

Il manifesto, 30 dicembre 2015
«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. «In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo».

Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere.

Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: «A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità». Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica.

In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo «spagnolo» è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum?

L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum.

Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice?

È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista.

In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo.

Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti.

La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, «spirito Repubblicano» da far scattare ne abbiamo poco.

Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole.

Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla?

Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, «democratura» e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni.

Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali?
È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo.

L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica.

Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali — la rappresentatività, i diritti sociali e individuali — in cambio del mantenimento di quelli formali — il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo.

L'Espresso, 29 dicembre 2015

Parlo all’Italia riformista. Perché stiamo perdonando a Matteo Renzi quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere il popolo renziano per il raduno annuale.

Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un decreto del governo.

Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda «un’accolita che difende i malversatori». Ma esaurita l’indignazione di giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore, bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là della singola questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo principe venuto da Rignano.

Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatrantiScrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima fila nella firma di appelli e manifesti. Pronti a ingaggiare il corpo a corpo delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali. Con parole e opere: romanzi, film, canzoni, articoli. E ora, invece, stretti tra due accuse. Quella di Renzi e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco «professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione». «Un giorno si parlerà finalmente delle responsabilità delle élite culturali nella crisi italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014. «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda.

E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella avanzata dall’autore di Gomorra. La timidezza verso il nuovo potere renziano nell’ambiente culturale «riformista». Gli intellettuali di sinistra che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione.

«Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in Mia madre, anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire cose generiche o banali… Sono contento se il governo è di centrosinistra, facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso». Nanni Moretti ha interrotto di recente con un’intervista a Oggi e poi a Le Monde la sua distanza dalla politica. Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla.

Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci e della sinistra, da Palombella Rossa a Aprile, gli psicodrammi di militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di partito. L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse” di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli. E poi “Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e televisioni. E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003, quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica dei partiti di centro-sinistra.

Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantenni-sessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa. «A me Renzi sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e mezzo”. In continuità con quanto l’ex direttore di Cuore aveva scritto su l’Espresso (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua».

De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto merito suo, se con facilità impressionante ha conquistato il potere, scalato la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il pantheon dei miti fondativi. Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei partiti, più forti e resistenti delle ideologie.

Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo trionfante. E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche perché, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi».

C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità e senza farsi troppi problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi, aveva già ben rappresentato la felicità di un intellettuale di sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca.

Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci. Sono loro i «famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà o come Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la «leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là senza alcun costante e maturo impegno per un’opera degna della parola politica».

Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano. Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore delle riforme del governo Renzi.

Perché in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle, piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà infinite volte nelle zone grigie della storia». Un modello di potere post-democratico nell’Europa attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridare di accelerare».

Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti all’ultima edizione della Leopolda. Nelle precedenti kermesse aveva colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da muovere per primi, navi da bruciare alle spalle.

Ma questa volta non si è fatto vedere, né lui né altri artigiani dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal premier. Forse perché almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e “Youth - La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente renziani. O forse perché, semplicemente, Sorrentino è un outsider che vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano.

Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà il compito di formare la classe dirigente di domani. A dirigere “Volta” sarà Giuliano Da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già ssessore alla Cultura con Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio. Il suo “La prova del potere (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i Renzi e i Saviano, e già, c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina.

La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio, 2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua.

C’è anche questo, la difficoltà per gli intellettuali di professione di interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato. In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari. In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”. Forse per questo Moretti è confuso. E anche gli altri non stanno tanto bene.

Il manifesto, 30 dicembre 2015

Come era prevedibile Matteo Renzi si è affidato alla guerra dei decimali per cercare di dimostrare che in Italia spira aria di ripresa. Ma si tratta di uno striminzito 0,8% in più, persino meno di quanto era nelle previsioni del Ministro dell’economia. D’altro canto l’Istat aveva già segnalato ai primi di dicembre che la tendenza è quella al rallentamento dell’economia italiana. Quindi c’è da dubitare sul raggiungimento degli obiettivi già modesti di fine 2016. Sarà per recuperare credibilità dopo gli scandali bancari tuttora in pieno svolgimento, sarà perché ormai è evidente anche ai ciechi, nella conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha mostrato una certa aggressività verbale verso le politiche europee. “Di sola austerità il Continente muore” ha affermato, mentre l’Italia avrebbe puntato più sullo sviluppo, solo che le autorità europee non vogliono riconoscerle la flessibilità desiderata sui conti.

Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta del vittimismo. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona; soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012-2014 il Pil si è ridotto del 5%, più o meno come nel lontano 1929!

Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007 la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%. Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo ricordano i più attenti economisti - spinge anche il più pigro imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della produttività di sistema.

Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più, pagati a carissimo prezzo.

L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato l’articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste – più di 40 - la preferita restava sempre quella del semplice contratto a termine. D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.

Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro, di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un contratto a termine a totale discrezionalità padronale.

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Tutti i giornali parlano in questi giorni dell’emergenza smog. Pochi ammettono che non si tratta di emergenza. Siamo d’accordo con il grillino Grillo e il Verde Bonelli, tra i pochissimi che hanno rotto la coltre dell’understatement. Ieri abbiamo pubblicato due articoli de la Repubblica: riassumono bene i fatti, le dichiarazioni, il clima generale. Li trovate qui sotto, ma chissà quanti altri ne avete letti. Vogliamo dire la nostra in uno spazio un pochino più ampio di una postilla.

La colpa non è di una natura estranea e sconosciuta. Non si tratta neppure di una "emergenza". Fanno ridere i "piani del governo" proclamati dal ministro Delrio (che pure è stato sindaco e quindi qualcosa più degli altri dovrebbe saperla), così come le misure annunciate dal ministro Galletti, preposto all'ambiente. Anzi, fanno piangere perché ci convincono una volta di più che la nostra salute, il benessere nostro e dei nostri posteri è in mano a una masnada di imbecilli incapaci di comprendere di che cosa si tratta, e perciò di agire di conseguenza.

Abbiamo usato una parola tenue per definire la ir-responsabilità di chi ci governa. Qui non c'entra "la politica", non parliamo di Renzi e dei renzichenecchi, ma di un plotone molto più ampio e variegato. Parliamo degli uomini che ci hanno governato in questo secolo, e forse anche un po' prima.

Parliamo dei potenti (nella politica, nella finanza, nei massmedia) che non hanno compreso quelle poche cose elementari che i gufi da decenni ripetono: che incentivare la motorizzazione individuale è un errore madornale, che la rotaia (dotata di vettori confortevoli, frequenti e a basso prezzo) deve sostituire la gomma soprattutto nelle aree densamente popolate, dove dominano gli spostamenti pendolari; e soprattutto che il modo in cui gli oggetti (le residenze, i servizi, i supermercati, gli stadi, le fabbriche) si collocano sul territorio non può essere lasciata al caso - e che quindi il “fai da te” nel governo del territorio equivale a spararsi sui testicoli, e che la pianificazione del territorio e delle città è uno strumento essenziale perché gli abitanti di una terra densamente abitata possano sopravvivere.

L’abbandono di queste verità (che non sono necessariamente frutto di studi severi, ma il portato del semplice buon senso) è la causa principale di tutte le “emergenze” che ci minacciano.

Il fatto è che di buonsenso ce n’è sempre meno. Questo è il vero problema: anzi, la vera perdurante emergenza. Il buon senso (la capacità di riconoscere, intuitivamente, i fondamentali principi del conoscere, e dell'agire) è stato sostituito dal senso comune, quello foggiato dall’ideologia dominante, propagandato con perversa efficacia dai media e dalla propaganda commerciale: quei “persuasori occulti” (vedi Vance Packard, 1957) che hanno trasformato i cittadini in “uomini eterodiretti” (vedi Gramsci, 1929-1935). Ecco perché tanti credono nelle bubbole dei ministri e dei loro corifei, senza accorgersi di essere diventati parte di quel popolo delle teste impagliate di cui ha scrittoThomas Stearns Eliot, nelle sua preveggente poesia che trovate anche qui, su eddyburg.

Il grande pensatore comunista lo aveva già compreso. «Con l’evoluzione della "società dello spettacolo" sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia».

Filosofiainmovimento online

«Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica»H. Marcuse
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi.

Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia».
All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimento filosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita».

Il nesso fra teoria e pratica, o tra filosofia e politica, insomma, era fondato sulla prolifica unione di pensiero e azione, con la finalità di evitare un’elaborazione teorica e una prassi politica che, se separate, si allontanassero dalle questioni reali e concrete della società umana. Ma anche per scongiurare quel distacco tra intellettuali e masse popolari che, specialmente con la Prima Guerra Mondiale, aveva finito col ridurre le classi subalterne a recitare il ruolo di «materiale umano» o «materiale grezzo» per la storia delle classi privilegiate.

Il recupero della centralità dell’uomo, in quanto capace di elaborare un pensiero che si traduca inazione e lo configuri come soggetto consapevole della società e della storia, è quanto oggigiorno appare più a rischio di fronte agli sviluppi di una tecnologia massmediatica che, se da una parte fornisce l’illusione dell’«onnipotenza informativa», dall’altra produce individui sempre meno in grado di pensare autonomamente e di agire consapevolmente, sempre più isolati all’interno di quattro pareti e davanti al video di un computer. Computer che, per molti aspetti, finisce col pensare e agire al posto degli uomini stessi, producendo non soltanto degli effetti deleteri sulle facoltà precipue dell’individuo, ma minando anche quelle possibilità di relazioni e azioni sociali che rappresentano il nerbo della polis umana.
L’odierna società della comunicazione, che ha ormai assunto le fattezze della società dello spettacolo descritta da Debord, sta contribuendo alla costruzione di un uomo sempre più isolato ed eterodiretto e, in quanto tale, sottoposto a forme di dominio nella dimensione sovrastrutturale che gli rendono impossibile, o peggio sterile, ogni possibilità di azione concreta ed efficace nel campo sociale .

La natura sociale dell’azione

Dopo un periodo in cui fu predominante la tesi che negava questo ed altri tipi di influenza dei media sull’uomo, nel 1981, significativamente sulla Annual Review of Psychology, compare un saggio pressoché ignorato dalla stampa e dalla comunità scientifica americane. In questa pubblicazione, dai toni peraltro misurati, viene lanciato un messaggio di profonda importanza per i professionisti e gli studiosi della comunicazione, volto a rimarcare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, di pensare e in ultima analisi di agire delle persone nel proprio mondo».

Concentriamoci su quest’ultimo aspetto. L’azione fa parte della dimensione umana, rappresenta un punto fondamentale tanto quanto la percezione e il pensiero e, anzi, potremmo dire ripensando a Gramsci, ne costituisce la naturale proiezione nel campo sociale. Se è vero che «tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme», scriveva la Arendt, è ancora più vero che «soltanto l’azione non può essere neppure immaginata al di fuori della società degli uomini». Essa soltanto costituisce una «prerogativa esclusiva degli uomini», di cui né una bestia né un dio possono essere capaci.
È nell’agire, quindi, un agire cosciente e razionale proprio perché preceduto da una corretta percezione e da un libero pensiero, che la natura dell’uomo si rivela «sociale», imprescindibile dalla presenza di altri individui e dalla cooperazione con essi al fine di costruire una società libera e capace dimettere al centro l’uomo e i suoi bisogni. Ma per «agire» in questo senso sociale e politico, occorre che i cittadini siano interessati all’azione stessa, «impegnati» nel valutare con la propria testa e in maniera critica i limiti e le incongruenze della società di cui si trovano a far parte.
Ora, ai nostri giorni esiste un’ampia letteratura che ha studiato lo straordinario sviluppo tecnologico e strutturale dei mezzi di comunicazione di massa, arrivando a un generale consenso sul fatto che in riferimento ai mass media delle società industrializzate, questi sviluppi allo stato attuale non hanno contribuito né a creare democrazie più robuste né formare cittadini più «impegnati (engaged citizens)».
Se da una parte, quindi, è assai agevole documentare le rivoluzioni che le nuove tecnologie informatiche e comunicative hanno operato rispetto a tutte le sfere della nostra vita, tanto che c’è chi arriva a qualificarle come «costitutive» della modernità stessa, dall’altra rimangono non poche perplessità rispetto alla loro capacità effettiva di potenziare la democrazia. Con particolare riferimento a Internet, per esempio, si possono riscontrare alcuni elementi che vanno in direzione contraria:
1) l’uso che si fa di Internet per scopi civili e politici è infinitamente minore rispetto a quello che concerne l’intrattenimento e lo shopping;
2) per quanto riguarda il reperimento di informazioni, prevale di gran lunga la ricerca di «non-notizie», afferenti a tematiche come la salute, la finanza o le questioni riguardanti il consumo, che superano abbondantemente la ricerca di informazioni sugli affari correnti o sulle cronache giornalistiche;
3) dalle odierne società dell’informazione non sono usciti cittadini politicamente impegnati né politicamente attivi. Dato che si riscontrava anche prima dell’avvento di Internet, ma rispetto al quale la rete ha finito con l’avere un ruolo ancora più disimpegnante: infatti se è vero che lo spettro ideologico delle discussioni fra individui su Internet è più ampio rispetto a tutti gli altri media, è anche vero che queste discussioni si mantengono su un piano «virtuale», che tende a escludere quasi sempre una traduzione nella pratica delle discussioni teoriche;
4) una visione molto diffusa era stata quella per cui Internet avrebbe potuto dare più potere ai meno forti: tale visione è stata smentita dai fatti poiché si è rilevato che i gruppi marginalizzati non hanno assolutamente visto incrementare il proprio impatto rispetto alle relazioni di potere all’interno delle società.
Tanto i massmedia sono diventati elemento centrale delle nostre società moderne e della vita quotidiana di tutti noi, si potrebbe dire, tanto balza agli occhi il loro effetto disimpegnante e omologante sulla nostra identità di cittadini facenti parte di una comunità. Tale effetto si ripercuote sull’assetto democratico delle nostre società, su quella che, in accordo con quanto stabilito da Habermas e prima ancora da Dewey, viene chiamata «sfera pubblica» e che è fondata sulla componente cruciale dell’«interazione» fra individui liberi, interessati alla res publica: senza una libera discussione fra i cittadini, scrive uno studioso del rapporto tra sfera pubblica e mass media, la stessa definizione di «pubblico» diviene senza senso.
Da questo punto di vista la società della comunicazione crea molti motivi di preoccupazione per le sorti della democrazia. Facciamo riferimento ad analisi che documentano come la cultura dei media in generale, con la sua enfasi sul consumo e sull’intrattenimento,ha tagliato l’erba sotto ai piedi a quel tipo di cultura pubblica che è richiesta per una democrazia in salute.
Più specificamente il giornalismo contemporaneo è spesso accusato di sovvertire i valori democratici nella trattazione delle vicende politiche, per via della sua sempre crescente commercializzazione, per il sensazionalismo, la trivialità, tutti elementi che conducono a due risultati:
1) da una parte il giornalismo (e la cultura dei media in generale) contribuisce al generale ammutolimento della cittadinanza (che non è più in grado di intervenire su questioni trattate inmaniera tanto enfatica e iperbolica, quanto poco fornita di contenuti effettivamente informativi);
2) dall’altra promuove nei cittadini cinismo, disaffezione e, alla fine, disinteresse verso il sistema politico e i suoi rappresentanti, parimenti a un senso di impotenza nel poter intervenire su vicende che si sentono lontane.
Né queste critiche possono essere limitate al giornalismo tradizionale (su carta stampata o su radio e telegiornali), poiché anche le modalità politiche ed economiche che caratterizzano l’informazione su Internet suggeriscono che il suo sviluppo sta rapidamente deviando verso quel tipo di «commercializzazione» (ossia banalizzazione ad uso e consumo di masse disimpegnate) che già da tempo caratterizza il modello dei media tradizionali 16.
Cittadini passivi

I mass media che producono cittadini disimpegnati e disinteressati alla sfera pubblica, media dietro ai quali vi sono poteri forti di natura economica e politica, finiscono col ritagliarsi anche un ruolo esclusivo rispetto alla formazione dell’opinione pubblica. Più l’individuo, per tutte le ragioni viste finora, perde la propria autonomia di giudizio e le proprie facoltà intellettive ed esperienziali, più questo stesso individuo perde la capacità di incontrarsi coi suoi concittadini per «dibattere», «organizzarsi» e «mobilitarsi» su questioni di interesse collettivo, più alla fine verrà lasciato ai media e a chi vi sta dietro la facoltà di formare l’opinione pubblica e di dirigerla secondo interessi di natura economica o, comunque, privata: «Al giorno d’oggi – scriveva Sartori vent’anni addietro –sono i mass media a giocare il ruolo più grande e centrale nel formare l’opinione pubblica […] Il mondo, per larga parte del pubblico, si riduce al messaggio veicolato dal media».

Cittadini di questo tipo, resi passivi ed eterodiretti, sono le vittime preferite dei poteri economici (che spesso e volentieri controllano i media), che si trovano così di fronte «consumatori passivi» dei loro prodotti, cervelli meccanicamente predisposti all’acritica accettazione del prodotto, come del messaggio, imposto da qualcun altro. Si tratta di un meccanismo che aveva già colto McLuhan, analizzando il fenomeno della pubblicità (advertising) e riscontrando come essa si fondi «sull’avanzatissimo principio per cui anche la più piccola parte di un motivo o di uno schema, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradualmente per imporsi. La pubblicità spinge il principio del rumore fino al livello della persuasione, sistema che corrisponde pienamente alle procedure di lavaggio del cervello (brain washing)».
E proprio l’assalto all’inconscio potrebbe essere la ragione che sta dietro al meccanismo della pubblicità, è la deduzione di McLuhan: «Per dirla brutalmente –concludeva infatti lo studioso dei media – l’industria pubblicitaria è un rozzo tentativo di estendere i principi dell’automazione a ogni aspetto della società». Del resto, come mirabilmente descritto e anticipato da Orwell in 1984, la società della comunicazione si sta sempre più rivelando come quel sistema capzioso e sottile in cui viene finalmente conquistato anche «l’ultimo santuario», la mente umana, tramite meccanismi terrificanti ed efficacissimi quali il lavaggio del cervello, la persuasione subliminale e il controllo narcotizzante: in altre parole, per dirla con Sartori, una vera e propria «realtà totalitaria» fondata su un «sistema unicentrico di produzione dell’opinione».
Ad accostare società della comunicazione e totalitarismo era stato lo stesso McLuhan, laddove evidenziava che mentre «la minaccia di Hitler o di Stalin era una minaccia esterna», «la tecnologia elettrica entra dentro le nostre case e noi assistiamo intorpiditi (numb), sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg, sulla quale e attraverso la quale si è formata l’american way of life» .
Se i mass media, e gli interessi forti che li controllano, sono in grado di stravolgere e controllare le nostre capacità di percezione e pensiero, il nostro modo di agire (o non agire) nella società, manipolando le nostre menti fino a renderle atte ad accettare passivamente messaggi, informazioni e financo prodotti, utili ad alcuni interessi particolari e non a noi stessi o al bene comune della società in cui viviamo, è evidente che si pone il problema della democrazia. Non a caso gli autori succitati tirano in ballo il totalitarismo, ossia quel sistema che è considerato antipodico rispetto ai modelli democratici che conosciamo nel nostro benestante Occidente.
Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide. Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla.
Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante.
Ritorno a Gramsci

L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi.

Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore».
Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!».
Riferimenti bibliografici:

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Avvertenza

Le note a pie' di pagina possono essere lette nel testo originale, sul sito Filosofiainmovimento, e precisamente qui. Siamo arrivati a questo testo (di grande interesse nella fase attuale della politica non solo italiana, scorrendo le pagine del sito gabriella giudici.it. Su quest'ultimo sito vi consigliamo anche di sorridere guardando gli sketch, di incredibile humour e umanità, di Nanni Loy. La zuppetta. La nota di Gabriella Giudici che introduce lo sketch vi spiega con poche parole perché tra le invenzioni di Nanni Loy e gli altri esemplari di candid camera corre la stessa differenza che c'è tra una perla e un ciottolo.

Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015, con postilla

Un attacco violento. L’ennesimo atto di “populismo di governo”, come teorizza in Dentro e contro (Laterza), il suo ultimo saggio. Così Marco Revelli, professore di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale, descrive la riforma della Rai approvata dal Senato il 22 dicembre.

Come giudica questa riforma della Tv di Stato?

«Difficile trovare una parola giusta. Forse “indecente” è quella che più si addice. È una violenza al sistema mediatico e forse nemmeno Silvio Berlusconi sarebbe arrivato a far tanto, facendo dipendere la tv pubblica direttamente dal governo. Si va al di fuori del quadro democratico».

C’era da aspettarselo?
«Sì, perché segue una serie di ‘editti bulgari’ per far conformare i media all’ottimismo di Stato».

Quali editti?
«Penso a tutte le dichiarazioni di fastidio verso i media ostili a Renzi che sono filtrate, dall’attacco volgare ai ‘professoroni’, quelle voci che non si sono conformate al suo pensiero, alle critiche al Tg3 c h e – io personalmente – ri tenevo conforme, fino alla Leopolda con le graduatorie di insofferenza (alle prime pagine dei quotidiani, tra cui il Fatto, ndr)».

Dalla Leopolda arriva l’amministratore delegato della Rai Antonio Campo Dall’Orto. Cosa si è creato: un’oligarchia o un cerchio magico?
«È stata un’operazione di “comando e controllo” francamente sconcertante. Se confrontiamo gli organigrammi e il modo in cui sono state collocate le diverse figure negli enti e nelle aziende di Stato, allora vediamo che la lda è stata il luiogo dell’accreditamento dell’esecutivo. Sin dalle prime nomine sono stati piazzati gli amici trovati tra quel- li che hanno contribuito alla raccolta fondi o alla scalata del sindaco di Firenze a Palazzo Chigi».

Nel suo ultimo libro lei parla di “populismo di governo”. In che maniera questo si attua con la riforma della Rai?
«La prima cosa che può fare un populista di governo è impadronirsi della televisione pubblica. Come i populismi si usa un linguaggio caldo, emotivo, che sconvolge gli equilibri per indebolire o cancellare i corpi intermedi – sindacati, organizzazioni di categoria... – e instaurare un rapporto diretto tra capo e moltitudine. Lo fanno un po’ tutti, però la differenza di Renzi è che lo fa dall’interno delle istituzioni».

Per lei è un passaggio del “populismo di governo?

«Sì, perché Renzi è molto coerente col suo programma. Lavora a 360 gradi sulla riforma costituzional e sella legge erklettorale, sull’assetto del Parlamento e del suo stesso partito. È la costruzione verticale del potere sotto la sua persona».

In che senso?
«Si guardi ai recenti fatti delle banche, con le figure dei ‘babbi’ e dei legami familiari arrivati da luoghi periferici, dalla Toscana a Roma, è il ritorno dello ‘strapaese’ che domina con strumenti bolsi. Sono circoli magici di amici, amiconi e amiche che rappresentano un mondo provinciale della gestione del potere. Se la Prima Repubblica vedeva in posizioni influenti i capitalisti moderni e dinamici per il loro tempo, e se nella Seconda Repubblica c’era un capitalista di seconda fila al potere, ora abbiamo figure di terza fila».

Che conseguenze avrà la riforma della Tv di Stato?
«La Rai era un baraccone e tale rimarrà con la subalternità al potere e la reticenza a raccontare la realtà. Si va verso una narrazione addomesticata, dettata dall’alto e monocorde. Accadrà ai grandi quotidiani come Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa, se guardiamo alle nuove nomine, e non possiamo aspettarci una contronarrazione da Mediaset. Rimangono poche voci libere».

Cosa sarebbe accaduto se questa riforma fosse stata fatta una decina di anni fa coi governi di Berlusconi?
«Ci sarebbero state tre milioni di persone in piazza, non solo per la Rai, ma per tutto. Repubblica avrebbe fatto dei titoli a tutta pagina, i Ds avrebbero chiamato alla mobilitazione, i sindacati dei giornalisti avrebbero fatto fuoco e fiamme... »

Non ci sono più anticorpi?
«Sono stati messi alla berlina dalla mutazione genetica del Pd. Una parte di quegli anticorpi sono diventati portatori sani della subalternità a ciò che non sarebbe mai stato accettato, e così sono diventati trasmettitori del contagio».

postilla
In verità nel secolo scorso c'è stato in Italia un altro illustre esempio di "populismo di governo". Quella volta fu un romagnolo, anche lui di provincia. La differenza è che allora fu necessaria un'azione violenta, questa volta no. Ma Mussolini non aveva avuto un preparatore come Silvio Berlusconi, nè un ambiente internazionale favorevole come il neoliberismo.

Continua inesorabile la marcia verso la demolizione della democrazia e la costruzione dello stato feudale. Occupata una postazione decisiva: il luogo dove si de-formano le teste.

Il manifesto, 27 dicembre 2015

Dopo vent’anni di occasioni mancate dal centrosinistra, di riforme malfatte e di altre inevase (solo la «par condicio», oggi fatta fuori nei fatti, fu all’altezza delle aspettative e conforme alle esigenze del «far west» italico), questa cosiddetta «riforma Rai» di Renzi ha il sapore amaro della beffa.

Anche qui più che prendersela con il premier ci sarebbe da scavare sulle colpe di una sinistra che non ha mai voluto seriamente affrontare, anche quando è stata al governo, la questione televisiva e quella della messa in sicurezza della Rai in particolare.

Ora la Rai è al sicuro, ma nelle mani del governo, e l’on. Anzaldi, già rutelliano, aggiusta il tiro per colpire meglio la terza rete. Ma lo sa l’on. Anzaldi che il presidente del Consiglio moltiplica le presenze televisive in programmi d’informazione e d’intrattenimento in una misura che avrebbe fatto gridare al «golpe» solo pochi anni fa? Al contrario delle discutibili sortite di quest’ultimo, ahimè, le timidezze a sinistra (come ha ricordato Vincenzo Vita su questo giornale), o in quel che resta di essa, sul tema tv appaiono sconcertanti.

La Rai liberata dai partiti? Sì, ma nelle mani dell’esecutivo. La lottizzazione di reti e testate finalmente un ricordo del passato? Sì, ma dai lotti si passa al feudo, e non sarà certo meglio. Anche ammesso che Renzi non è Berlusconi e Campo Dall’Orto non è Masi, cosa succederà quando il feudatario di turno vorrà esercitare tutto il potere che la legge gli conferisce, pensando, più che alle competenze, alle fedeltà di cordata?

E dire che se il premier avesse voluto far bene non aveva che da chiedere a chi gli sta vicino. Come Paolo Gentiloni che, da ministro della Comunicazione durante il secondo governo Prodi, aveva provato a cambiare il sistema con un disegno di legge coraggioso che affidava la Rai ad una Fondazione. Non solo. Il progetto in particolare prevedeva l’istituzione di un Consiglio per le Comunicazioni audiovisive composto da 21 membri: 7 indicati dai presidenti delle Camere, 11 da sindacati, imprenditori, artisti, terzo settore, associazioni di utenti, università e consumatori, e 3 dalla conferenza delle regioni, dall’Anci e dall’unione delle provincie.

Il Consiglio avrebbe provveduto a nominare sia i vertici dell’azienda del servizio pubblico sia i membri dell’Autorità delle telecomunicazioni. A sua volta quest’ultima avrebbe dovuto garantire il rispetto da parte della tv privata di quegli indirizzi vincolanti che il Consiglio superiore decideva di emanare all’intero comparto televisivo. Nella proposta, udite, udite, si prospettava anche l’invio sul satellite entro 15 mesi di una rete Rai e una Mediaset e un limite alla raccolta pubblicitaria del 45% per ogni singolo attore del mercato.

Il disegno, approvato dal consiglio di ministri dopo le elezioni, passava nel 2007 alla Camera poco prima dell’ingloriosa caduta del governo.

Ecco, sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il ministro degli esteri Gentiloni di quanto ha partorito il governo di cui è autorevole rappresentante in tema di televisione. Ma Renzi l’avrà almeno consultato?

Sembrano parole profetiche, ma sono parole e moniti di scottante attualità: l'intervista di Silvia Truzzi a Enzo Bianchi è da conservare e rileggere.

IlFatto Quotidiano, 24 dicembre 2015

"L'atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana"

La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.

Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di unamalattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.

Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all'abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c'è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s'ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all'azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.

Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.

E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico – cattolici, valdesi, battisti, ortodossi – che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l'apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l'idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.

Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all'ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.

Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c'era l'acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.

Qui cosa producete?

Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.

Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all'anno, più o meno. C'è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso – da circa cinque anni – si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall'Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l'italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?

“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.

Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.

Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta – ingiusta perché contro gli innocenti – ad altra violenza.

L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.

La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre – a qualunque costo – chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.

Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?

Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.

La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità – tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo – allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.

È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.

Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.

Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche – sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche – la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.

Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.

Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair – che non è proprio un giusto – fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.

Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.

Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza… Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!

La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.

Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.

«Drammi storici. Pubblicata la piéce sulla rivolta dei Ciompi "Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze" di Jeremy Lester. Testo sul passato che proietta la sua attualità sul presente».

Il manifesto, 24 dicembre 2015

È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso – lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida – rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.

È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.

Il sorriso dell’oppressa

Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».

La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).

Le storie di Machiavelli

Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.

Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».

È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.

Il divenire della mutazione

L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».

I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».

La città conquistatrice, rivista online, 24 dicembre 2015


The Guardian, 23 dicembre 2015, titolo originale: A monster crawls into the city – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini per La città conquistatrice
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un villaggio lungo il fiume, dal nome impronunciabile. Quando ci arrivarono gli antichi romani, per risolvere almeno la questione del nome, lo chiamarono Londinium. Poi divenne una città, e ci arrivavano dal fiume re, regine, duchi e tanti altri potenti. Passavano gli anni, i secoli, e tutti i re, regine, duchi, grandi imprese industriali, banche, concentrazioni finanziarie, si affermavano e poi decadevano. Oggi nessuno se li ricorda più. Ma la città sopravvisse fino ad oggi, duemila anni di storia dopo, e con tanta voglia di continuare a esistere. Diceva una leggenda, che a mantenerla viva nella buona e nella cattiva sorte non erano tanto i palazzi del potere, ma i suoi quartieri, o rioni come li chiamava qualcuno. Gran parte degli abitanti non era né ricca né potente, ma era bravissima a farli prosperare quei quartieri, con tutte le botteghe, le chiese, i teatri, artigiani che lavoravano metalli, legno, e tanti altri materiali.

In ciascuno di questi quartieri c’era anche una piazza del mercato, niente di particolare in fondo, ma c’era proprio di tutto, i negozietti, i locali, la gente che andava e veniva. Quartieri tutti diversi uno dall’altro, ma che insieme componevano una trama, una specie di barriera corallina. Un bel giorno arrivò un visitatore da molto lontano, da una città della Cina che si chiamava Shanghai, sul fiume Yangtze. Doveva stare a spiegare a tutti quanti come si pronunciasse quella strana parola, Yangtze, ma appariva comunque molto imponente. Con quella sua voce autorevole, raccontava alla gente di Londra delle strane cose avvenute là a Shanghai. Cose che in un primo tempo apparivano magiche e incantate: una vera e propria esplosione di architetture come fuochi artificiali, edifici diversissimi ma tutti alti e imponenti. Ma poi il racconto si faceva un po’ tetro: «Avevamo abitato sempre in quartieri densi e brulicanti. Poveri, ma in fondo ci si viveva bene, a Shanghai».

Proseguiva, quel visitatore: «Poi tutto cambiò, con le demolizioni. I nostri quartieri Scomparivano sotto le ruspe». E perché, chiedevamo noi. Come avremmo scoperto presto, era per far spazio ai nuovi grandi edifici, scacciando la gente dalle proprie case e quartieri: spinti via verso le più lontane periferie, a milioni.

«Da lontano – proseguiva il racconto del visitatore – non sapendo cosa succedeva Shanghai poteva apparire magnifica e grandiosa con tutte le sue torri svettanti. Ma da dentro i quartieri si viveva l’altra faccia della medaglia». Anche gli abitanti di Londra ci vedevano qualcosa di familiare in quella storia. Era stato spettacolare in un primo tempo guardare la costruzione di nuovi grandi edifici, anche se si spianavano vecchi quartieri, ma poi quelle demolizioni erano diventate davvero troppe, e la città diventava un posto estraneo.

Si sentiva anche di altri posti dove succedevano le medesime cose, città che diventavano tutte identiche una all’altra, con quegli edifici alti. Era come se un mostro gli strisciasse dentro nelle viscere divorandola dall’interno: Gnam-gnam-gnam. «Non si può vivere in una città se non è fatta di quartieri – diceva tutta la gente – perché è lì dove abitiamo, facciamo la spesa, andiamo a scuola». Ma il mostro continuava a divorarli, i quartieri, per far spazio alle sue torri, in un enorme posto senza forma a cui non si sapeva più che nome dare. Il mostro lo chiamava «urbano», ma non c’era più nessuna trama come nei vecchi quartieri, e neppure nel centro della città. Si cancellavano le case, i negozi, le vie, le piazze. Tempi grami, dove sparivano tutti i posti per vivere, sepolti dalle torri che il mostro continuava a eruttare: non c’era ormai nient’altro che quel nulla.

Si capiva che il mostro veniva alimentato dall’esterno, arrivava ovunque per metterci una nuova torre, anche nel cuore di vecchi quartieri dove nessuno si sarebbe mai sognato di invitarlo. Lo si temeva in ogni luogo, quel mostro vorace, ma la città non si sarebbe certo lasciata divorare così, senza combattere. In fondo, era sopravvissuta a tanti momenti oscuri nei secoli, uscendone sempre viva, a differenza di tutti quei re, regine e tanti potenti di un tempo. I quartieri si unirono nella battaglia contro il mostro.

… Poi una notte, una bambina ebbe un sogno. Si chiamava Copernica, e la sua famiglia era stata sfrattata dal quartiere dove abitavano. O forse non era un sogno, magari una visione, o magari una notizia in televisione chissà. Comunque sia, Copernica sognò che quanto il mostro aveva fatto a Londra, lo aveva fatto anche in altre città che aveva studiato a scuola: New York, Istanbul, Rio de Janeiro, Tokyo, San Francisco. Quel sogno assomigliava sempre più a un incubo. Il mostro adesso era lì aggrappato al davanzale della finestra della camera. Ma, sorpresa, parlava adesso con voce infantile e lamentosa, era quasi divertente: «Ciao, non so più dove andare. Quel che mi alimenta continua a crescere sempre più, ma so che dovrebbe vivere al sole, non certo in quella fosca ombra sotto le torri». La bambina aveva smesso di essere spaventata, perché chi piagnucola così non può essere pericoloso, l’aveva imparato in cortile a scuola. Il mostro proseguiva: «Hai qualche consiglio da darmi? Me ne danno tanti, ma poi hanno paura anche a guardarmi, non vogliono avere a che fare con me, quei consulenti».

La bambina non capiva molto bene, soprattutto chi diavolo fossero quei cosi, quei «consulenti», ma intuiva che ci fosse la possibilità di cambiare in qualche modo le cose. Doveva farlo, e farlo subito, prima che il mostro potesse ridiventare all’improvviso cattivo e pericoloso un’altra volta. Non le veniva nessuna idea, finché alla fine si ricordò di una lezione di geografia a scuola, quella sui deserti e le tecniche per le energie solari.«Forse posso suggerirti una cosa: di riversare tutte le tue energie nel Sahara!» disse al mostro. «Ne hai abbastanza per ricoprire chilometri e chilometri quadrati di deserto con celle solari. E poi metterci sotto quartieri giardino con le case per tutta la gente che ne ha un gran bisogno».

Era davvero tutto molto eccitante, pensava, bellissimo anche se a farlo era il mostro. Che però pareva perplesso: «Ma come faccio – piagnucolava – a distendermi così sopra il deserto?». Gli rispose Copernica: «Pensa che per ogni singola cella, guadagni una monetina di quelle di cui ti nutri». E alla fine il mostro uscì dalle tenebre dove si annidava, tra le torri, dirigendosi verso il deserto del Sahara. La gente era entusiasta all’idea di tutti quei pannelli solari per la vita, delle nuova generazione di «città-oasi» a ospitare tutti, non solo turisti, uomini d’affari e ricconi.

Ma poi la bambina si svegliò di colpo, con un brivido di terrore: quel mostro non avrebbe mai e poi mai usato il suo potere per la gente, lui pensava solo a sé stesso: «Andrà a finire che costruirà l’ennesima selva di torri smisurate anche in mezzo al Sahara – gridò – chiamandola smart city …»

La Città Conquistatrice

l manifesto, 24 dicembre 2015



CARA SINISTRA, È FINITO
IL PARTITO MONOTEISTA
di Lidia Menapace
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza

Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.

Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?

Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?

Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!

Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.

Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.

Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».

Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.

Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.

Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.

Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.

Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.



IL PARTITO DELLE CITTÀPER BATTERE
QUELLO DELLA NAZIONE
di Massimiliano Smeriglio

Per battere la destra bisogna prima battere un’idea di centro sinistra. E non ridursi a testimonianza

Come ci ha raccontato in questi anni Aldo Bonomi la potenza dei flussi scompone e violenta la vitalità dei luoghi perché incapace di interpretare la cura del paesaggio e la presa in carico della coscienza di luogo. Questa disputa vale sul piano economico nel rapporto tra economia finanziaria, un flusso, anzi un algoritmo che si muove nella rete, e processo produttivo. Le politiche dell’austerity sono un flusso che spezza i luoghi, le comunità, la nuda vita. Vale nel rapporto tra ciò che è delocalizzabile e ciò che produce valore perché intrinsecamente connesso alla identità, alla cultura profonda di un luogo, ai beni comuni di una municipalità, alla sua storia. Vale nel rapporto complicato tra i flussi migratori e il loro impatto con le piccole patrie occidentali. In questa faglia vi è persino un filone inesauribile di consenso elettorale razzista e a buon mercato.

Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?

Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.

Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.

La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.

Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.

Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.

Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.

Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.

Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.

Devo parlare della giustizia. Siete in diritto di pensare ch’io sappia che cos’è. Invece no. Secondo il celebre detto di Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare con chiarezza deve essere taciuto”, essendo giustizia parola oscura, dovremmo iniziare e finire qui il nostro incontro. Tuttavia, da sempre proprio le massime questioni dell’esistenza si esprimono con parole tutt’altro che univoche. Dovremmo tacere? Se fosse tutto chiaro, perché parlare? Quante migliaia di parole Socrate ha dedicato alla giustizia, “cosa ben più preziosa dell’oro”? Eppure, perfino lui si diceva incapace di giungere ad afferrarla (Repubblica 336e).

Se parliamo della giustizia, e non possiamo non parlarne, è proprio perché, socraticamente, sappiamo di non sapere. Possiamo però girarle intorno con qualche domanda e circondarla di parole prudenti. Iniziamo così: può ammettersi che per uno sia giusto ciò che non lo è per un altro? Alla luce dell’esperienza: «sì, dobbiamo ammettere che ciò che è giusto per uno, può essere ingiusto per un altro».
La storia dell’umanità è una grande contesa tra diverse concezioni della giustizia. Se, invece, dicessimo: «no, ciò che è giusto per gli uni deve essere giusto anche per gli altri», dovremmo presupporre che esista la giustizia in senso assoluto e che noi si sia capaci di farla nostra. Prendiamo il più celebre tra i criteri di giustizia, “unicuique suum”: a ciascuno il suo. È facile essere d’accordo, perché ciascuno può riempire “il suo” del contenuto che vuole. Ricordate San Martino che, incontrando un ignudo, scende da cavallo e divide con lui il suo mantello. Ecco: a ciascuno il suo. Ma, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald, sapete che cosa c’era scritto? “A ciascuno il suo”. Come è possibile che questa formula della giustizia valga per San Martino e per gli aguzzini nazisti? Perché è di per sé vuota.
Lo stesso può dirsi per le altre formule generali come: a ciascuno secondo i suoi meriti o i suoi bisogni. Chi stabilisce che cosa sono i meriti e i bisogni? Si dice anche: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te o, in positivo, fai agli altri, ecc. Ma, chi sono “gli altri”? Sono “il prossimo tuo”. Ma, chi è il prossimo? Gesù di Nazareth ha risposto con la parabola del Samaritano. Ma, altri potrebbero dire: quelli che appartengono al mio clan, al mio popolo, alla mia stirpe; oppure, è tutta l’umanità.
Ma, ancora, siamo d’accordo sulla parola “umanità”? Quanto s’è faticato a superare l’idea che “i selvaggi” non vi rientrino, e così “le razze inferiori”, i delinquenti-nati, i malati mentali! L’etica cristiana supera queste difficoltà, non però con la giustizia, bensì con l’amore, che è altra cosa dalla giustizia. L’amore disincarnato, che tanto piaceva anche agli Illuministi del XVIII secolo, entra in crisi, si svuota e s’affloscia non appena entra in contatto con esseri in carne e ossa. Allora compaiono le ghigliottine preparate per i “nemici dell’umanità”, o i roghi delle Inquisizioni per i “nemici della fede”.

In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione.

Gli esseri umani, fortunatamente, non sono a una sola dimensione. Ricordo, per esempio, un libro di Martha Nussbaum ( L’intelligenza delle emozioni) in cui questo lato della coscienza è valorizzato, dicendo una cosa importante: le emozioni hanno capacità cognitive. Con le emozioni, talora, conosciamo più profondamente che non con i soli concetti. Ad esempio, quando i campi di sterminio nazisti furono liberati, gli Alleati obbligarono migliaia di tedeschi a un faccia- a-faccia con quegli orrori. Perché? Non era né crudeltà, né umiliazione del popolo tedesco, ma l’esigenza d’una reazione emozionale, fino ad allora assente, di fronte alle politiche razziste. Si trattava di educare provocando emozioni.

Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi.

I mostri non sono generati solo dal “sonno della ragione”: talora vengono dalle veglie della ragione. L’antidoto del razzismo è certo la dimostrazione scientifica dell’infondatezza delle sue basi storiche e biologiche; ma la confutazione definitiva sta nell’insostenibilità morale concreta, nella sfera delle emozioni, delle sue conseguenze viste e documentate.
Ma, c’è un’obiezione che viene da un grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen, che dice «come le idee di giustizia razionali sono tante, così anche le emozioni». Un latifondista e un bracciante reagiscono emotivamente in maniera diversa davanti a un provvedimento di esproprio. Il primo s’affligge, il secondo si rallegra. Al relativismo delle concezioni razionali corrisponde il relativismo delle emozioni.
Vero. Forse, però, riusciamo a individuare un terreno di comunanza tra tutti gli esseri umani se pensiamo non alla giustizia massima, ma all’ingiustizia massima. Di fronte all’ingiustizia massima forse tutti noi reagiamo nel medesimo modo. In I fratelli Karamazov c’è un dialogo sul tema dell’ingiustizia nel mondo. Ivan Karamazov, dice: «nel mondo regna l’ingiustizia, io lo rifiuto e il mio destino è il suicidio». Porta alcuni esempi di ingiustizia radicale, somma, da ogni punto di vista intollerabile. È il male inferto agli innocenti. Chi sono gli innocenti? Sono gli animali e i bimbi. Una cavallina tirava un pesante carretto per una salita, cascava e continuava a cascare e il padrone la frusta fino alla morte sugli occhi dolci che lo guardano. Un principe russo, preparandosi alla caccia, ordina ai servi di scatenare i cani per far sbranare, davanti alla madre serva della gleba, il bimbo che giocando con una pietra aveva azzoppato uno di quelli. Ditemi voi se, di fronte a ingiustizie di questo genere, non reagiremmo tutti nello stesso modo emozionalmente, al di sopra delle nostre divisioni razionali. Gli atti aberranti cui gli uomini sono spesso indotti presuppongono che si spenga il loro senso di umanità. Gli uomini dei Sonderkommando (squadre di ebrei che conducevano altri ebrei alla morte: averle concepite è stato il delitto più demoniaco del nazismo, ha scritto Primo Levi) erano privati della loro umanità da grandi distribuzioni di alcolici. Lo stesso, per i reparti militari incaricati delle esecuzioni di massa. Analogo effetto degli stupefacenti si otteneva con la propaganda martellante e i lavaggi del cervello. Ciò sta a dire che, senza l’avvelenamento della psiche, l’umanità si sarebbe ribellata.

Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica.

«Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura». Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)

In attesa che gli spagnoli copino la legge elettorale italiana voluta da Renzi, come prevede Renzi, è il caso di ricordare quando gli attuali sostenitori dell’Italicum tifavano per il sistema spagnolo. Per esempio il senatore del Pd Tonini, che ieri su Repubblica spiegava perché con l’Italicum il nostro paese è «all’avanguardia in Europa» e non rischia «di fare la fine della Spagna». È lo stesso Tonini che ha presentato un disegno di legge (con l’attuale viceministro Morando) per importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Era la moda, lanciata da Veltroni quando segretario del Pd cercò di agganciare Berlusconi (ha fatto scuola). Il sistema fu chiamato Veltronellum, lo studiarono i professori Ceccanti e Vassallo (oggi sostenitori dell’Italicum), convinse rapidamente il centrodestra. Alfano e Quagliariello, per dirne due, pensavano per quella via di risolvere tutti i problemi dell’Italia. Lo stesso compito che oggi affidano al ballottaggio.

Più recentemente anche il Movimento 5 Stelle ha scelto il sistema spagnolo, al quale proponeva di aggiungere le preferenze in un ordine del giorno di due anni fa che sarebbe coerente con l’attuale opposizione dei grillini all’Italicum. Non fosse che oggi, con un altro ordine del giorno, hanno chiesto il contrario: conservare l’Italicum senza cambiamenti. Del resto è l’unico sistema che può condurli alla vittoria. Ma ancora di più ha fatto Renzi, che lunedì davanti ai risultati spagnoli ha «benedetto» l’Italicum. Anche lui propose il sistema spagnolo, quando eletto segretario offrì al confronto tre proposte «equivalenti»: la prima era proprio il modello iberico. Con una correzione, un premio di maggioranza del 15% che, assicurava, assieme allo sbarramento avrebbe «garantito la maggioranza». E invece no, al Partido popular - pure favorito dallo sbarramento che è conseguenza dei collegi piccoli - oggi per conquistare la maggioranza assoluta nel Congreso non basterebbe l’omaggio di 52 seggi immaginato da Renzi. Per quello ci vorrebbe l’Italicum.
Con la nuova legge italiana (congelata fino al luglio dell’anno prossimo in attesa della riforma costituzionale) il calcolo è assai semplice. Nessun partito in Spagna ha raggiunto il 40% dei voti validi, dunque per assegnare il premio che garantisce il 54% dei seggi della camera servirebbe il secondo turno. Vi parteciperebbero i popolari e i socialisti, che in totale al primo turno - pur essendo calato l’astensionismo - hanno raccolto il voto del 34% degli aventi diritto; in pratica di un elettore su tre. Come dice l’avvocato Felice Besostri, che ha istruito i ricorsi in tribunale contro l’Italicum, «si giocherebbero la vittoria finale i due grandi perdenti di domenica. I popolari che hanno perso 62 seggi e i socialisti che hanno segnato il minimo storico».
Non solo, se il nuovo sistema italiano venisse adottato in Spagna, al secondo turno è prevedibile un’astensione in massa degli elettori di Podemos, partito che ha condotto la campagna elettorale attaccando contemporaneamente socialisti e popolari, giudicati equivalenti. E così a decidere il vincitore, titolare della maggioranza assoluta, sarebbe una minoranza assoluta. Se per ipotesi vincessero i socialisti, che hanno raccolto al primo turno il 22% dei voti, grazie al premio previsto dall’Italicum si ritroverebbero con oltre il doppio dei seggi realmente guadagnati: 189 invece dei 90 che hanno adesso effettivamente. Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura.
Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ogni parola pronunciata da Papa Francesco viene - giustamente, molto giustamente a mio parere - riportata con grande attenzione e ampio spazio. E viene spesso condivisa e approfondita. Ma anche questa regola prevede una eccezione e accade così che una parola del pontefice - quella parola - sia inesorabilmente censurata. E la parola è: amnistia. L'attuale papa la pronunciò una prima volta lo scorso settembre: «Il Giubileo ha sempre costituito l'opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell'ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto».

Chiaro, no? Eppure si verificò un fatto singolare e istruttivo. Monsignor Rino Fisichella che, in qualità di presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, era il destinatario del documento, si affrettò manzonianamente a «sopire, troncare». Fisichella, da decenni definito «cappellano di Montecitorio» e aduso a comportarsi come tale, affermò che in quella lettera non c'era «alcuna intenzione di rivolgersi al governo e agli Stati». E così, «il monsignore più chic che c'è» (appellativo che un suo autorevole collega mi sussurrò un giorno all'orecchio) sostenne in sostanza che si era scherzato. Si potrebbe dire, uno scherzo da prete destinato a dare la baia a Giorgio Napolitano e ai radicali, al manifesto e a chi scrive, a numerosi e autorevoli giuristi e, soprattutto, a decine di migliaia di detenuti. Secondo Fisichella, insomma quella parola - amnistia - non andava presa alla lettera, non andava intesa in senso strettamente giuridico e non era indirizzata alle autorità politiche italiane e a quelle di altri paesi.
La cosa venne così tanto apprezzata dalla classe politica, si fa per dire, laica, che la parola impronunciabile ritornò immediatamente nell'oblio. Ma ecco che il 16 dicembre, implacabile, il Pontefice riprende l'argomento e le sue parole non consentono più dubbi: «Desidero rinnovare l’appello alle autorità statali (attenzione: rinnovare, nda) per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia». E tuttavia anche questo secondo e vigoroso richiamo rimane assolutamente inascoltato: al punto che non si apre nemmeno uno straccio di discussione pubblica. Eppure - è proprio il caso di dire - dio solo sa quanto un'amnistia sia oggi indispensabile e indifferibile, tenuto conto che le positive misure adottate dagli ultimi due ministri della giustizia, Annamaria Cancellieri e Andrea Orlando, hanno deflazionato una situazione abnorme, ma certo non l'hanno avviata a soluzione. E se c'è stata una riduzione del sovraffollamento penitenziario, le condizioni complessive della reclusione in Italia restano drammatiche; e il sovraccarico di fascicoli e procedimenti per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia penale, per limitarci a questa, costituisce un macigno che arriva a compromettere la stessa tenuta democratica del sistema.
Ciò nonostante, quella parola o, meglio, quelle due parole, amnistia e indulto, rimangono sottoposte a censura. Una censura in primo luogo culturale e ideologica. E che è il frutto della combinazione perversa tra il populismo penale di una classe politica codarda e priva di autonomia e un senso comune nevrotizzato da campagne d'odio che producono allarme sociale e panico morale. Tutto ciò è già accaduto e tende a riprodursi all'infinito. Nel novembre del 2002 papa Giovanni Paolo II, in visita alla Camera dei deputati chiese «alle pubbliche istituzioni» di manifestare «un segno di clemenza» attraverso una «riduzione della pena per i detenuti». Ci vollero quasi quattro anni prima che il Parlamento approvasse quella «riduzione della pena» (l'indulto). C'è da chiedersi: quanto ce ne vorrà, oggi, di tempo? Buon Natale a tutti, custoditi e custodi.
«In un libro l’evoluzione dello status delle italiane in dieci anni. In crescita le iscritte a facoltà mediche e scientifiche. E si riduce il divario tecnologico. Tante luci, a partire dall’istruzione, ma anche le ombre del gap salariale».

La Repubblica, 23 dicembre 2015

LE DONNE italiane sono state protagoniste di importanti cambiamenti negli ultimi dieci anni. Il fenomeno riguarda soprattutto le più giovani, ma coinvolge anche le anziane, le italiane come le straniere. Le donne, infatti, sono sempre più istruite e nelle generazioni più giovani sorpassano i loro coetanei sia per livello di istruzione, sia per regolarità dei percorsi formativi (meno bocciature, meno fuori corso), sia per i voti che ottengono. Stanno anche in parte cambiando le scelte formative. Più ragazze iscritte a ingegneria, medicina, chimica, agraria, meno iscritte al gruppo letterario e politico- sociale. Anche le straniere, tra le quali sono in aumento coloro che arrivano non per ricongiungimento famigliare, ma come lavoratrici, sono spesso più istruite dei loro conterranei maschi (fanno eccezione le marocchine e le cinesi).
Si sono anche ridotte le differenze di genere nei percorsi formativi, che sono in parte responsabili delle maggiori difficoltà che le donne trovano nel mercato del lavoro. Tra le più giovani (italiane o straniere), si è anche chiuso il divario con i coetanei nell’uso delle nuove tecnologie, che rimane ancora ampio tra le più vecchie; anche se tra queste ultime si sta facendo avanti una generazione di anziane con buona istruzione e con una vita professionale alle spalle pienamente protagoniste dell’“invecchiamento attivo”.
Una maggiore istruzione si è accompagnata a un rimando della maternità, che non dipende solo dalle difficoltà che giovani donne e uomini incontrano nel mercato dal lavoro, ma anche dal desiderio delle giovani donne di investire su di sé, sul piano professionale, della vita di relazione, delle attività culturali e di tempo libero, prima di impegnarsi a formare una famiglia propria. E quando lo fanno, sempre più non passano innanzitutto dal matrimonio, preferendo una convivenza e ritenendo del tutto normale e accettabile avere un figlio anche senza essere sposate.
Tra le più giovani e istruite sono in aumento rapporti di coppia più simmetrici, sul piano del contributo sia al reddito famigliare sia (in minor misura) al lavoro famigliare. Non ci sono solo più donne in Parlamento e al governo e nei consigli di amministrazione. Ci sono più donne che partecipano attivamente al mercato del lavoro, alla cultura, alla vita associata, anche quando hanno responsabilità famigliari.

È quanto emerge dalla fotografia scattata dal rapporto Istat Come cambia la vita delle donne, uscito ieri a cura di Sara Demofonti, Romina Frabboni e Linda Laura Sabbadini, confrontandola con quella di anni fa. Sono mutamenti importanti. Al punto che potremmo dire che gran parte dell’innovazione sociale è dovuta a cambiamenti nei comportamenti femminili.

Rimangono, tuttavia, forti ostacoli a che il cambiamento si generalizzi a tutti i livelli. Proprio questi ostacoli, oltre a pesare in modo sproporzionato sulle donne che spesso devono portare tutta la fatica del cambiamento, rafforzano diseguaglianze sociali e ne creano di nuove. Permangono forti disuguaglianze nel mercato del lavoro, nonostante la maggiore istruzione delle donne nelle coorti più giovani. Non solo, a fronte di un aumento lentissimo dell’occupazione femminile, per altro interrotto dalla crisi, è persino aumentata la percentuale di donne che escono dal mercato del lavoro a causa della maternità, costrette a scelte radicali da una combinazione perversa di rigidità del mercato del lavoro (anche quando chiede flessibilità ai lavoratori/lavoratrici) e carenza di servizi, soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno.

Una questione per altro ignorata nella legge di stabilità. Ciò crea disuguaglianze tra uomini e donne, ma anche tra donne, tra chi può rivolgersi al mercato (o alle nonne/i) per surrogare servizi mancanti e chi no. L’aumento dell’istruzione, inoltre, non ha riguardato tutte. Mediamente più istruite degli uomini, le giovani donne tuttavia costituiscono la maggioranza dei Neet e quella più difficile da coinvolgere in una operazione di riorientamento (questione del tutto assente dalla riflessione sulla Garanzia Giovani). Rimangono anche forti stereotipi di genere, relativamente a ciò che possono fare le donne e gli uomini, a ciò che spetta agli uni e alle altre. Il che rende difficile modificare sia i comportamenti sia le politiche.

postilla

Si potrebbe concludere che nel panorama statistico rappresentato dall'ISTAT le luci siono dovute alle donne e le ombre alla società. Le
luci nascono dal fatto che sono diminuiti gli ostacoli che impediscano l'emersione sociale delle qualità del genere femminile (certamente in sè non inferiori a quelle del maschile). Tra le ombre la più evidente quella rappresentata dal gap retributivo B isognerebbe segnalare però come segnale negativo anche il fatto che le presenze femminili sono molte nei settori che sono "al servizio"del sistema economico sociale esistente (materie "scientifiche", "nuove tecnologie"), e meno in quelle più utili alla ricerca di nuove strade per il futuro, quali quelle del "gruppo letterario e politico- sociale". Il rapporto sottolinea accenna alvincoli che bloccano ancora la pienezza del contributo che le donne potrebbero dare alla società: il gap restributivo e quello costituito dai servizi sociali (per l'assistenza, l'infanzia, la salute, l'educazione) : Il fatto è che come movimenti femministi hanno compreso in Italia da almeno mezzo secolo) è la città nel suo insieme che dvrebb essere trasformata nella sua struttura: a partire dalla quantità e nelle risorse dedicate alla "città pubblica". Non va dimenticato che una delle conquiste del movimento femminile degli anni Sessanta, gli "standard urbanistici", sono continuamente erosi nell'ultimo ventennio e tendono alla sparizione.

Ancora un generoso tentativo per ricominciare un cammino iniziato con lle elezioni europee e poi perso in un incomprensibile grovigli.

Il manifesro, 22 dicembre 2015

Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca. Usiamolo liberamente, copiamolo, condividiamolo, diffondiamolo, è un testo proprietà di nessuno per una sinistra di tutte e tutti.

Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma per ridare senso alla parola “politica” come strumento utile a cambiare concretamente le nostre vite. Incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo. Non è un annuncio. È una proposta. Non sarà un evento cui assistere da spettatori. Non ti chiediamo di venire a riempire la sala, battere le mani e chiacchierare in un corridoio come accade di solito in queste assemblee.

Mettiamoci in cammino per condividere un processo e costruire insieme un nuovo progetto politico innovativo e all’altezza della sfida. Un progetto alternativo alla politica d’oggi, svuotata e autoreferenziale, che ritrovi tanto il legame con la propria storia, quanto la capacità di scrivere il futuro.

L’obiettivo

È ora di cambiare questo paese e le condizioni di vita di milioni di persone, colpite dalla crisi e dalle politiche neoliberiste e di austerità, svuotate della capacità di immaginare il proprio futuro. Vogliamo costruire un’alternativa di società, pensata da donne e uomini, fatta di pace e giustizia sociale e ambientale, unici veri antidoti per fermare le destre e l’antipolitica, il terrore di Daesh, i cambiamenti climatici. Serve una netta discontinuità con il recente passato di sconfitte e testimonianza, per metterci in sintonia con le sinistre europee che indicano un’alternativa di lotta e speranza. Dobbiamo metterci in connessione con il nostro popolo, con i suoi desideri e le sue paure, con le centinaia di esperienze territoriali e innovative che stanno già cambiando l’Italia, spesso lontani dalla politica.

Bisognerà cambiare molto: redistribuire le ricchezze e abbattere le diseguaglianze sociali e di genere, costruire un nuovo welfare e eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro. È ora di cambiare il modo in cui si produce e quello in cui si consuma, il modo in cui si fa scuola e formazione, le politiche per accogliere. Intendiamo difendere la Costituzione e i suoi valori, per difendere la democrazia.

Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa. Per noi invece non solo un’alternativa è possibile ma è necessaria ed è basata sui diritti, sull’uguaglianza, sui beni comuni.

Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento, chi non crede più alla politica; lottando tanto nelle istituzioni quanto nella società. Una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile, in competizione con tutti gli altri poli esistenti.

Partecipa

Probabilmente ti starai facendo alcune domande: «come funzionerà il nuovo soggetto?», «come si chiamerà?», «quale sarà il suo programma?», «è possibile innovare la forma partito?», «chi sarà il suo o la sua leader?», «c’è davvero bisogno di un leader? E, se sì, come verrà scelto?». A queste e tante altre domande la risposta è semplice e per questo rivoluzionaria: lo decideremo insieme.

Partecipiamo a questo percorso come persone, “una testa un voto”, riconoscendogli piena sovranità. Abbiamo bisogno di una sinistra di tutti e di tutte: non un percorso pattizio, ma una nuova forza politica che nasca dalla partecipazione diretta di migliaia di persone.

Cambiamo la politica, innoviamo le forme della democrazia, diamo la parola ai cittadini, attraverso una piattaforma digitale per il confronto, la codecisione, la cooperazione e l’azione. Ma non basta: serve restituire protagonismo alla vita dei territori attraverso una campagna di ascolto con assemblee per connettere percorsi e conflitti, scrivere collettivamente il nostro programma, la nostra idea di società, la strada per il cambiamento.

Invitiamo tutti e tutte a partecipare, a rimescolare ogni appartenenza, a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento delle forze organizzate, sapendo che solo un cammino realmente inclusivo può essere la strada per coinvolgere i tanti che purtroppo sono scettici e disillusi. Sarà importante l’impegno dei rappresentanti istituzionali a tutti i livelli a mettersi al servizio del processo, agendo da terminale sociale. Non vogliamo raccogliere solo le istanze dei singoli, ma anche quelle di tutte le esperienze collettive, le reti sociali, le forze sindacali, l’associazionismo diffuso, i movimenti, che in questi anni hanno elaborato e realizzato proposte concrete ed efficaci.

Non siamo i proprietari di questo percorso, e questo documento non ne vuole determinare gli esiti: proponiamo un obiettivo (costruire un nuovo soggetto di alternativa), un metodo (un cammino fatto di assemblee territoriali e di una piattaforma digitale, adesione individuale, piena sovranità), una data di partenza. Da quella data in poi, sarà chi deciderà di partecipare a indicare la rotta. Cominciamo un viaggio che sappia cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda. Mettiamoci in cammino.

Sul voto spagnolo e sulla riforma elettorale italiana "a misura di un sol uomo" le opinioni del politologo Gianfranco Pasquino, della giornalista Irene Hernàndez Velasco, del giurista Gianluigi Pellegrino e dell'eurodeputato Curzio Maltese. Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2015 (m.p.r.)

MATTEO È IGNORANTE:
IL SUO MODELLO NON RISPETTA LA VOLONTÀ POPOLARE
di Gianfranco Pasquino

C on l’esito di questo voto, preannunciato dai sondaggi, la Spagna è diventata in un certo qual modo europea. Non è più una nazione con due grandi partiti a dominare la scena, come era avvenuto negli ultimi 35 anni: ora ha anche altre due formazioni nella Camera bassa, Podemos e Ciudadanos. Ed è lo stesso schema che ritroviamo nel resto del continente, dove non si trovano Paesi con il bipartitismo. Ora la Spagna dovrà imparare quella che Roberto Ruffilli (politologo e parlamentare della Dc, ndr) chiamava la cultura delle coalizioni.

Attenzione però, chi celebra l’Italicum come soluzione all’ingovernabilità dà un segnale di ignoranza assoluta. Gli elettori votano in base ai sistemi elettorali, usano le regole date. In uno scenario diverso, probabilmente molti elettori di Podemos avrebbero scelto i socialisti per mandarli al ballottaggio, o viceversa. L’Italicum rimane una legge proporzionale fortemente distorsiva della rappresentanza popolare, anche perché al secondo turno costringe tanti cittadini a fare una scelta forzata rispetto al primo voto dato. Quanto ai paragoni tra 5Stelle e Podemos, sono impropri: quello di Iglesias è di fatto un partito.

SBAGLIATE VOI,
CON LA NUOVA LEGGE RISCHIATE
UNA SORTA DI DITTATURA

di Irene Hernàndez Velasco

N on darei un premio di maggioranza forte al primo partito come prevede l’Italicum in Italia: a volte i governi con la maggioranza assoluta non sono veramente democratici perché non sono aperti al confronto e non negoziano con le altre forze politiche. A volte questi governi si comportano quasi come una dittatura.

L’avanzata di Podemos e Ciudadanos e la crisi dei partiti tradizionali non mi sorprendono. Il governo di José Luis Rodríguez Zapatero è stato accusato di negare la crisi e l’attuale leader del Psoe, Pedro Sanchez, è senza carisma e non ha fatto sentire le sue proposte: assomigliava alla vecchia politica che la gente non vuole, sembra piú un’operazione di marketing che un vero leader politico.

L’avanzata di Podemos ricorda quella di Syriza, ma non penso che Pp e Psoe faranno un’alleanza come il Pasok e Nuova Democrazia dopo la quale i socialisti greci sono praticamente scomparsi, sarebbe un suicidio per il Psoe. I socialisti potrebbero non sostenere Mariano Rajoy e astenersi nella cerimonia di nomina del presidente del Governo, lasciando che il Pp formi un esecutivo di minoranza.

IL PREMIER COSÌ CI PORTA FUORI
DALLE DEMOCRAZIE PARLAMENTARI

di Gianluigi Pellegrino

S i può pure convenire con Renzi sui risultati in Spagna e sull’Italicum ma a patto di dire a chiare lettere che si abbandona la democrazia parlamentare. Però, se si ritiene che essa sia incompatibile con l’epoca attuale e con la necessità di prendere decisioni rapidamente, allora bisogna creare dei contrappesi adatti, con garanzie per l’opposizione e per la Corte costituzionale, altrimenti si fa una rivoluzione a metà e il paese si scava da solo la fossa.

Che ci sia bisogno di una legge maggioritaria va bene, mentre non va bene il mix di preferenze e candidati nominati dai vertici romani. Sarebbe meglio adottare il sistema dei collegi uninominali, capaci di garantire insieme una maggioranza forte e parlamentari più indipendenti dal governo. Un sistema che può consentire di vincere con una piccola minoranza rischia di portare al governo le forze antisistema. Non si deve scherzare col fuoco come l’apprendista stregone. Peraltro è sempre meglio dare rappresentanza parlamentare alle pulsioni populiste e comunque doveroso apprestare bilanciamenti e garanzie al potere esecutivo.

IL SISTEMA COL TRUCCO DEL PD
PROVOCHERÀ LA SCONFITTA DEL PD

di Curzio Maltese

Il risultato delle elezioni in Spagna rende evidente la crisi dei partiti dell’establishment come Pp e Psoe, che gli elettori identificano come forze indistinte del sistema. È preoccupante l’idea di arginare il dissenso popolare contro le élite con i trucchetti della legge elettorale che dà la maggioranza a chi non l’ha, come pensano Matteo Renzi e il ministro Maria Elena Boschi. Lei, con il suo tweet sull’Italicum «utile e giusto», ha dimostrato la sua scarsa capacità di analisi politica e dovrebbe dimettersi per un’affermazione come questa più che per la storia della Banca Etruria. Quel tweet mi ricorda il brano «Quelli che...» di Enzo Jannacci, quando dice «Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro»: non sarà l’Italicum a risolvere una crisi del sistema. Renzi benedice la sua legge, ma tutte le leggi elettorali hanno portato alla sconfitta della maggioranza che le ha approvate e così l’Italicum sarà il sistema migliore per far vincere tutti i rivali del Pd: il gradimento del governo è molto basso, quindi sarebbe difficile per i dem vincere al ballottaggio contro il M5S o una forza del centrodestra.

Dopo Syriza, Podemos, . Se si lavora bene, se non prevale la volontà di conservare i vecchi guscu e degli individualismi, allora il disagio profocato dall'emonia del neoliberismo su tutto l'arco della politiqe polkiticienne potrè essere sconfitto da sinistra. due aeìrticoli di Norma Rageri e .

Imanifesto, 22 dicembre 2015


Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta di curarla con l’austerità hanno cambiato la geografia sociale di questi paesi, e ora il responso delle urne restituisce, nel voto, la profondità del cambiamento politico. Vacillano i pilastri delle forze di governo e si rafforzano i nuovi raggruppamenti nati nel decennio horribilis: a sinistra come a destra.

Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.

Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.

La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».

E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento.

Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.

In ogni caso alle elezioni mancano, sulla carta, ancora due anni mentre il paese resta in forte affanno. Bce e Confindustria spengono i facili entusiasmi sulla ripresa, lo stesso ministro Padoan parla di una fase di «stagnazione secolare». E non è facile, nonostante la grancassa governativa e l’abuso in perfetto stile “berlusconiano” delle televisioni, manipolare la realtà. Grande è la confusione sotto il cielo d’Europa, magari la situazione non è eccellente, di sicuro la rendita di chi governa è finita.
L'ironica risposta di una persona dotata di molta saggezza, evidentemente prodotto da una raffinata cultura lontana da noi nelle storia e nella geografia, a molte brave persone che esortano molto ma capiscono poco.

La Repubblica, 21 dicembre 2015

SONO in ansia per i musulmani. L’islam mi insegna ad aver cura di tutti gli esseri umani e anche degli animali, ma la vita è breve e non riesco neppure a trovare il tempo di preoccuparmi di tutti i musulmani. Non mi preoccupano tanto i musulmani vittima di oltraggi razzisti in Europa e in America, quelli che sul posto di lavoro sono guardati con sospetto per timore che covino intenti omicidi, o che ai controlli per l’immigrazione vengono bersagliati di domande assurde sul contenuto del loro bagaglio e sui loro antenati. Mi dico che alla fine di questi umilianti travagli potranno godere di privilegi come l’acqua corrente, l’elettricità e fasulle promesse d’eguaglianza.

Mi preoccupo per i musulmani minacciati di estinzione da parte di altri musulmani nella loro patria, dove in genere costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. La mia amica Sabeen Mahmud è stata assassinata quest’anno probabilmente perché non corrispondeva al canone della buona musulmana ed è successo in Pakistan, un paese talmente musulmano che vi si può trascorrere una vita intera senza mai stringere la mano a un non musulmano.

Ma soprattutto sono in ansia per i musulmani come me, quelli chiamati a spiegare al mondo intero qual è il vero islam. A noi musulmani cosiddetti moderati viene chiesto di prendere le redini della narrazione, strappandole ai radicali — come se fossimo allievi di un master di scrittura alle prese con un saggio, invece che un miliardo e seicento milioni di persone diversissime tra loro.

Mi preoccupo per gli esperti che finiscono in tv a distanza di poche ore da un’atrocità e devono condannare, o difendere e spiegare, a nome nostro. Mi preoccupo per quella brava gente che ha il compito di ricordare al mondo che l’islam è una religione di pace.

È vero, la parola islam significa pace. Lo dice il dizionario. Ma ci vuole un bel coraggio ad agitare un dizionario davanti a chi ha perso una figlia, un figlio o il partner: “Guarda un po’ qui, vedi, c’è scritto che islam significa pace”.

Dire che l’islam è una religione di pace è come ridurre l’induismo al rispetto per le mucche e il buddismo alla posizione del Loto. L’ebraismo è fondamentalmente una disputa sulla proprietà? E i cristiani sono sempre alla ricerca dell’altra guancia?

Ogni volta che sento dire che l’islam è una religione di pace mi vien voglia di gridare “Attento, guardati alle spalle”.

È un’impresa impossibile spiegare l’islam, sia per i musulmani osservanti (niente alcol, niente bacon, niente jihad) che per i musulmani per caso (un po’ di tutto e certamente niente jihad) o per quelli che stanno in mezzo. Ma se non riusciamo a spiegare, ci dicono, almeno possiamo un tantino condannare. A quanto pare i musulmani non condannano a dovere.

Se da buon musulmano iniziassi a condannare tutte le malefatte dei musulmani non avrei più tempo da dedicare alle mie cinque preghiere giornaliere, né tanto meno a preparare i maccheroni al formaggio ai miei bambini o a portarli al parco. E diventerei un musulmano peggiore.

Continuano a ripeterci che è solo un numero esiguo di musulmani a rovinarci la reputazione. A mio avviso tra quei pochi andrebbero inclusi anche i nostri rappresentanti nei media, quelli che immaginano di poter salvare la reputazione dell’islam in tv e scrivono articoli per rassicurare il mondo sulle nostre intenzioni pacifiche.

Dicono che, sì, l’autore della strage citava il Corano, ma ne travisava il senso. Molti rilanciano la palla: e i vostri killer laici allora? Chiedono che gli assassini di massa musulmani siano trattati come gli assassini di massa non musulmani, i killer che sparano all’impazzata nei campus delle università americane o gli invasori dell’Iraq. Dovremmo ringraziarli per questo loro impegno a favore della par condicio tra assassini? Ma non si parlava di pace?

Dicono che l’islam insegna il rispetto di tutte le religioni. Riprendono in mano il Corano: vedete, c’è Gesù, è anche profeta nostro. Ma non spiegano che senso ha scegliere una religione se il suo dio e il suo profeta non sono i più grandi, i migliori, o i più veloci.

Ci invitano a guardare al sufismo come modello di islam moderato. Ma i sufi, brandendo i versi di Rumi e roteando come distici in una brutta poesia, neppure fanno finta di fornire una qualche soluzione. Se gli chiedi dell’islam ti invitano ad ascoltare un po’ di musica. Loro almeno sono più onesti dei nostri portavoce.

E vi siamo grati, cari portavoce, perché ricordate al mondo che i musulmani non sono una razza. Certi parlano cinese, altri swahili. Tra noi ci sono gay, pittori, avvocati, prostitute, magnaccia, batteristi e, ovviamente, assassini di massa. I musulmani non sono quasi mai d’accordo tra loro, neppure su questa vita e sull’altra. In famiglia noi siamo in sei e non riusciamo ad andare d’accordo su niente, anche se uno è un neonato e due sono cani.

Chi è il buon musulmano? Quello che prega e lascia fare Allah? Quello che non prega e lascia fare a Allah? Quello che pensa che Allah sia troppo occupato e allora fa da sé e prende una scorciatoia per l’aldilà? Beh, no, forse quello no, perché, come dicevamo, l’islam è una religione di pace.

L’affermazione più poetica che si sente per bocca degli esperti è che secondo l’islam, uccidendo un essere umano si uccide l’intera razza umana. Come mai allora Sabeen Mahmud non c’è più e tutta la maledetta razza umana, inclusi i suoi assassini, sono ancora vivi?

( Traduzione di Emilia Benghi)

Ecco una delle storie che spiegano in che modo le aziende del Primo mondo, ivi compresa l'italiana e stale ENI, sorregge governi la cui corruzione contribuisce a spegnere i vagiti della democrazia e ad aumentare miseria e rabbia.

Il Fatto Quotidiano on line, 21 dicembre 2015

L’azienda fino a poco prima dell’accordo con il governo federale ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd di Etete, ex ministro del petrolio. Lo scambio di posta dimostra che il colosso sa bene che solo una piccola parte dei soldi vanno al governo per strade, ospedali o scuole. Il resto va al vero venditore: la società dell’ex ministro
Ci sono alcune mail dei manager dell’Eni della primavera del 2011 che svelano le verità finora nascoste sull’affare nigeriano da un miliardo e 92 milioni di dollari dell’acquisto del blocco petrolifero Opl 245. L’Eni - come si legge nelle mail - fino a pochi giorni prima dell’accordo con il governo federale della Nigeria del 29 aprile 2011 ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd del nigeriano Dan Etete, l’uomo che nel 1998, quando era ministro del petrolio, si era auto-assegnato la concessione petrolifera per pochi milioni.

Quelle mail dimostrano ciò che Eni non ha mai ammesso: nell’aprile del 2011 quando firma l’accordo con la Nigeria sa benissimo che solo 207 milioni di dollari vanno al governo per strade, ospedali o scuole. A parte questo piccolo bonus (in cambio del timbro di legalità sull’acquisto) il miliardo e 92 milioni pagato per la concessione petrolifera più promettente della Nigeria (si stima possa contenere più di 9 miliardi di barili, un quindicesimo di tutte le riserve dell’Iraq) vanno al vero venditore: Malabu Oil & Gas dell’ex ministro Etete.

Eni sapeva che il suo bonifico miliardario al governo Nigeriano sarebbe stato seguito da un secondo bonifico a Malabu. Sulla destinazione finale di questa enorme somma sono aperti vari procedimenti. La Southwark Crown Court di Londra, il 15 dicembre, ha respinto la richiesta di Etete di sbloccare 84 milioni di dollari sequestrati su richiesta della Procura di Milano che indaga l’ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni e il suo braccio destro che poi ne ha preso il posto, Claudio Descalzi, con altri due ex manager Eni e con Luigi Bisignani e Gianluca di Nardo. I pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale sospettano che parte della mediazione promessa da Etete a un altro nigeriano in grado di arrivare tramite la filiera De Nardo-Bisignani-Scaroni al sì dell’Eni, cioè Emeka Obi, sarebbe poi stata destinata ai retro pagamenti per non meglio precisati manager italiani.

La decisione della corte inglese di mantenere il sequestro è dovuta alle carte americane che mostrano “pagamenti per un totale di 523 milioni di dollari, tramite percorsi molto tortuosi giunti a Abubakar Aliyu”. Secondo gli investigatori “le società di Aliyu sarebbero collegate al presidente (ora ex presidente nigeriano, Ndr) Jonathan”. Anche l’agenzia anti-corruzione nigeriana (EFCC) sta indagando e ha ascoltato Etete e Aliyu mentre una commissione del Parlamento nigeriano ha chiesto al governo di annullare la concessione all’Eni.

Al di là del profilo penale ed economico resta una questione politica: Eni nel 2011 sapeva di trattare con un ex ministro che si era impadronito delle risorse del suo popolo e che era stato condannato nel 2007 per riciclaggio in Francia. Le mail interne di Eni sono state pubblicate dal giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti sul suo sito Gradozeroblog dopo la trasmissione Report di Milena Gabanelli di domenica scorsa. Gatti si è inserito nel dibattito scatenato sul web dalla scelta di Eni di ribattere, durante la trasmissione, ai contenuti del servizio di Luca Chianca “La trattativa” con una serie di tweet.

Mentre i giornali italiani si dedicavano al dito della ‘svolta comunicativa’ dei tweet di Eni, Gatti ha continuato a concentrarsi sulla luna dell’affare miliardario scovando le mail interne a Eni che, a quanto si apprende da fonti investigative, sono confluite nel fascicolo dei pm milanesi. Le mail pubblicate da Gatti e non smentite da Eni dimostrano l’ipocrisia della società petrolifera guidata da Descalzi.

Il 7 marzo 2011 un funzionario di Eni in Nigeria, Enrico Caligaris scrive a Roberto Casula, l’allora presidente di Nae, la società di Eni in loco: “Vi rimetto in allegato la versione (…) dell’Escrow Agreement (cioè l’accordo di garanzia sul pagamento, ndr) … Faccio presente che (…) la bozza allegata non disciplina ancora il pagamento a Fgn (governo federale nigeriano, Ndr) per Malabu in due tranche”.

Allegata alla mail c’è la bozza del contratto di garanzia che dimostra la consapevolezza di Eni sul fatto che il destinatario finale del pagamento fosse Malabu. La parte più interessante della bozza dell’Escrow Agreement (accordo di garanzia) sono i punti C e D. Nel primo si legge che Eni “ha l’obbligo di bonificare sul conto Escrow la cifra di XXX milioni di dollari Usa a favore del Fgn (governo nigeriano, Ndr)” e nel secondo si legge che “la suddetta cifra sarà rilasciata dall’agente Escrow (la banca, Ndr) a favore di Malabu per conto del Fgn”.

L’accordo non è stato firmato in questi termini troppo sfacciati ma la mail dimostra la consapevolezza di Eni sul reale destinatario finale del pagamento. In una mail del 30 marzo 2011 il responsabile delle contrattazioni di Eni, Guido Zappalà scrive: “È previsto che Fgn sia quello che paghi direttamente Malabu (…) Fgn (governo federale della Nigeria, Ndr) pagherà Malabu e il fatto che il denaro arrivi a Fgn da Nae (la controllata nigeriana di ENI, Ndr) è una questione separata”.

I due pagamenti Eni-Fgn e Fgn-Malabu e i due accordi dovevano restare divisi giuridicamente proprio per evitare tutti i problemi che ora Eni sta incontrando. Il 6 aprile 2011, il solito Casula di Nae scrive alla collega Donatella Ranco di Eni una mail con oggetto: “Sintesi incontri 245” in cui si legge: “Al di là di una informativa per Claudio (Descalzi, Ndr) trasmetto un aggiornamento sintetico sugli ultimi incontri con le Autorità Nigeriane”. Nella ‘sintesi degli incontri’ si legge che agli incontri tra Eni e governo dell’11, 24 e 28 febbraio e 14 aprile 2011 erano presenti anche i rappresentanti di Malabu. Il mattino del 28 aprile, cioé il giorno prima dell’accordo il manager Eni Guido Zappala scrive: “sarà presente anche Malabu? ”.

Eni replica al Fatto: “Le negoziazioni con gli advisor finanziari di Malabu non hanno avuto buon fine e si sono interrotte nel novembre 2010. Fu proprio Eni a bloccare la transazione. Le ultime comunicazioni email pubblicate da Claudio Gatti sul suo blog, a prescindere dal fatto che siano veritiere o meno e dalla lettura strumentale che ne viene data dal giornalista, sono riferite al 2011, anno in cui Eni e Shell da una parte e il governo nigeriano dall’altra sottoscrissero gli accordi commerciali relativi all’unica operazione effettivamente realizzata da Eni in merito al blocco Opl 245. Eni e Shell eseguirono il pagamento per una nuova licenza sul blocco su un conto del governo nigeriano. Il governo nigeriano, per rilasciare una nuova licenza per l’Opl 245, doveva necessariamente cancellare la vecchia licenza Opl 245 intestata a Malabu e risolvere l’annoso contenzioso tra governo, Shell e Malabu. È un fatto incontestabile che Eni abbia firmato accordi commerciali solo con Shell e il governo federale nigeriano e che Eni e Shell abbiano eseguito il pagamento per la nuova licenza Opl 245 su un conto intestato al governo nigeriano”.

L’organizzazione non profit Re-Common, che da anni conduce una battaglia sull’Opl 245, ha pubblicato una nota dal titolo: “mail ‘soffiate’ (leaked, Ndr) mostrano come Shell e Eni abbiano operato per nascondere il pagamento alla società dell’ex ministro per l’affare corrotto dell’Opl245”. In Italia i giornali e i siti non lo hanno ripreso preferendo rilanciare i tweet colorati di Eni.

«Elezioni spagnole. La grande maggioranza di spagnole e spagnoli continua a volere farla finita con l’austerità e i tagli alle prestazioni dello stato sociale, ma c’è anche la consapevolezza che perseguire questi obiettivi comporta sfidare chi oggi governa l’Europa».

il manifesto, 20 dicembre 2015

Nell’indifferenza generale sulla campagna elettorale spagnola è puntualmente piombato il diktat dei liberisti europei: chiunque vincerà le elezioni del prossimo 20 dicembre dovrà rispettare i patti e compiere ulteriori massacri sociali, altrimenti chi governerà verrà sottoposto allo stesso trattamento riservato a Tsipras e al suo governo.

Da nessuno dei quattro partiti, cinque se si aggiunge Izquierda Unida, che si contendono il prossimo governo spagnolo è arrivata una presa di posizione. Forse si pensa che elettori ed elettrici spagnole e soprattutto quel 41% che ancora si dichiara indeciso, secondo gli ultimi sondaggi, non diano alcuna importanza a questa minaccia e comunque che essa non abbia un peso nella loro decisione di voto. In realtà la durissima punizione a cui sono stati sottoposti il popolo greco e il suo governo hanno già pesantemente influito sulle intenzioni di voto degli spagnoli, soprattutto su coloro che reclamano cambiamenti sociali e politici profondi, come Podemos. Non a caso il partito, nato per portare al governo l’indignazione sociale che paralizzò la Spagna quattro anni fa, ha perso consensi nei sondaggi proprio a partire dalla conclusione amara della vicenda greca.

Il principale argomento che le destre, ma anche i socialisti, hanno usato contro Podemos è proprio quello che una sua vittoria farebbe fare alla Spagna la stessa fine della Grecia. Non c’è dubbio che la grande maggioranza di spagnole e spagnoli continua a volere farla finita con l’austerità e i tagli alle prestazioni dello stato sociale, ma c’è anche la consapevolezza che perseguire questi obiettivi comporta sfidare chi oggi governa l’Europa.

Che a mettere la testa sotto la sabbia siano le destre si può capire, perché sia il Partito Popolare che Ciudadanos, se dovessero vincere le elezioni e allearsi per governare, rispetterebbero le condizioni capestro che provengono da Bruxelles. Per Rajoy si tratterebbe solo di dare un seguito alle disastrose politiche economiche, sociali ed ambientali che il suo governo ha imposto in questi ultimi anni. Altrettanto farebbe Ciudadanos, cioè la destra presentabile e modernizzante, in grande ascesa nei sondaggi. Il suo leader, Rivera, ha sempre dichiarato che in caso di vittoria si guarderebbe bene dal rimettere in discussione il patto di stabilità e tantomeno abrogare dalla costituzione spagnola l’articolo sul pareggio di bilancio.

Meno comprensibile è il silenzio della sinistra che ha appoggiato il generoso tentativo di Tsipras, cioè Podemos e Unidad Popular-Iu. Altrettanto ambiguo è il silenzio del Psoe. È abbastanza evidente che le promesse di Sanchez e dei socialisti di rilanciare lo stato sociale e il lavoro sarebbero carta straccia senza un no alle richieste dei falchi liberisti. La stessa sorte riceverebbero la rivoluzione energetica rinnovabile, il rilancio della sanità e dell’istruzione pubbliche, la redistribuzione del reddito lanciate dal programma di Podemos o il lavoro (garantito) per tutti richiesto dal giovanissimo candidato premier, Alberto Garzón, di Izquierda Unida.

Pensare che elettrici ed elettori siano solo una folla facilmente manipolabile è vecchio vizio perdente della vecchia politica, che giustamente si condanna. Non era quello della partecipazione e del rifiuto della delega uno degli elementi costitutivi del movimento degli indignados, a cui Podemos e Izquierda Unida si ispirano?

Quindi chi vuole e propone di farla finita con il massacro dello stato sociale e una iniqua distribuzione della ricchezza ha l’obbligo, per essere credibile, di dire chiaramente se intende sottostare ai vincoli imposti da Bruxelles o sovvertirli. Gli ultimi sondaggi, oltre ai tanti indecisi, evidenziano anche che l’unica concreta alternativa a Rajoy sarebbe solo un’alleanza fra socialisti, Podemos e Unidad Popular-Iu. Non sembrano essere queste le intenzioni.

Sia il Psoe che Podemos rinviano qualsiasi eventuale intesa al dopo elezioni, facendola dipendere da come il voto di oggi, 20 dicembre, definirà i rapporti di forza fra questi partiti. Per ora il Psoe, tristemente, sembra attratto a cercare un accordo più con Ciudadanos che con Podemos. Una risposta chiara all’arrogante ingerenza di Bruxelles, dovrebbe obbligare il Psoe ad unirsi a sinistra.

Un no comune della sinistra al diktat aiuterebbe l’elettorato a capire la natura di destra di Ciudadanos che, con una sua vittoria, nulla cambierebbe in Spagna rispetto ad ora. Dare un volto giovane e più rispettabile alle politiche liberiste non le rende meno socialmente disastrose, come dimostra Renzi in Italia. Non solo. Invece un no comune alle pretese di Bruxelles, come è successo in Portogallo, renderebbe più facile un accordo a sinistra per governare.

Fare irrompere, anziché occultare, il proposito comune di una nuova Spagna in una Europa differente avrebbe potuto spostare quegli equilibri, che i sondaggi sembrano aver consolidato, e rilanciare il cambiamento.

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