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Inoltre lamentavo il fatto che mancasse la presenza di un soggetto politico non solo capace di essere davvero tale, ma anche di rappresentare la voce, i bisogni, i diritti e le speranze degli esclusi.
Ma non è vero. Il commento di Potere al Popolo "Gli amici non sono al governo" rivela, ancora una volta, l’esistenza di una realtà politica lucidamente critica e non assoggettata al degrado politico e ancor prima culturale ed etico. Un movimento politico che sta ricostruendo, a partire dai territori, relazioni sociali e pratiche fondate sul contrasto di ogni forma di sfruttamento e prevaricazione tra esseri umani e tra questi e la natura.

Effimera

La crisi ecologica globale è uno scenario in cui agiscono anche alcune tra le nuove prospettive critiche che stanno attraversando il dibattito planetario da decenni, obbliga a costruire nuove dinamiche dell’azione politica e richiede anche di ridefinire le pratiche in relazione alle possibilità concrete di costruire nuove forme di socialità. Si sta determinando, in modo sempre più evidente e su scala planetaria, un conflitto socio-ecologico che ancora non è definito nelle sue dirette conseguenze, ma che è necessariamente un campo di azione del pensiero critico. Per poter costruire un mondo radicalmente diverso bisogna confrontarsi con questo scenario, con la crisi in atto e con le possibilità concrete di mutamento.

1. Il vivente è una categoria rivoluzionaria

Al centro della mia riflessione c’è un assunto reso evidente dalla crisi socio-ecologica: il capitalismo è incompatibile con la perpetuazione del vivente. È incompatibile anche con la stessa struttura della biosfera, con il suo funzionamento e i suoi tempi, inoltre il capitalismo nella sua storia ha costantemente mirato a inglobare e ridefinire il funzionamento della vita. Dalla base biologica però è riuscito a passare alla sua espressione più generale, con il termine vivente intendo infatti qualcosa di più ampio: è l’insieme delle capacità produttive della vita, comprende, ad esempio, anche la capacità di produrre il pensiero e di definire la realtà, è tutto ciò che è vivo.

Il conflitto tra capitalismo e vivente è stato il fulcro centrale della storia degli ultimi secoli, ha prodotto in forme dirette una lunga serie di diversi metodi di sfruttamento e adesso ci ha portato alla crisi ecologica globale. È una fondamentale contraddizione interna al capitalismo, l’ennesima potenzialmente fatale per il sistema. Più di altre contraddizioni può però essere un luogo di mutamento perché si tratta di una contraddizione particolarmente radicale, in cui viene direttamente coinvolta anche la sopravvivenza generale della biosfera. Non si tratta della sussunzione della natura alla sfera della produzione, ma della progressiva tendenza, che si manifesta dall’inizio della modernità capitalista, ad inserire l’intera biosfera nei processi di produzione e di creazione del valore. Il capitalismo fin dalla sua nascita ha la tendenza ad incorporare gli stessi processi di funzionamento del vivente, la sua più intima natura e le modalità di riproduzione che ne rappresentano le fondamenta. Arrivati a questo punto, bisogna però ribaltare il punto di vista sulla questione, perché il problema riguarda il processo fondamentale che è iniziato con l’affermazione della modernità capitalista e adesso è giunto alle sue estreme conseguenze: bisogna considerare il vivente come una categoria potenzialmente rivoluzionaria.

Ristabilire il principio che il lavoro di riproduzione, per come è stato definito nel dibattito femminista, si debba contrapporre allo schema della produzione capitalista significa anche pensare ad un modo radicalmente differente di far funzionare le comunità umane in relazione alla biosfera, di ricomporre la frattura storica che tende a dividerle. Buona parte del dibattito critico costruito intorno alla questione della crisi ecologica globale è in realtà direttamente collegata ad una parte del pensiero rivoluzionario. Penso inoltre che sia evidente quanto già le prime formulazioni teoriche sulla crisi ecologica abbiano espresso una critica radicale all’ecologia filo-capitalista, così come al modello di produzione sovietico, ponendosi al di fuori della storia del modello industriale e dell’idea di crescita che ha caratterizza la modernità capitalista. Si può sicuramente definire quella critica come una forma di ambientalismo operaio. Adesso ritengo necessario mantenere il dibattito sulla crisi ecologica globale nel campo della critica indirizzata alla costruzione di un mondo diverso, un mondo non capitalista. Non si tratta semplicemente di discutere sulle conseguenze dell’affermazione del neoliberalismo; nel caso europeo, l’analisi delle contraddizioni che emerge sempre più chiaramente all’interno dei conflitti ecologici può trovare, ad esempio, una forte radice nell’impianto teorico dell’operaismo. Da alcuni nodi del dibattito dell’operaismo italiano, pesantemente represso anche nelle sue espressioni di critica ecologica, proviene, tra le altre cose, una seria indicazione di azione nel campo dell’ecologia politica. Non si tratta neanche di costruire una relazione tra due questioni separate, per cui l’ecologia politica di stampo marxista cerca di incorporare nel proprio discorso alcuni nodi del dibattito operaista. Al contrario è proprio la naturale conseguenza di un percorso che ha determinato l’allargamento progressivo dei campi di azione e di lotta, dal soggetto sociale alla generalità del mondo costruito dal capitale.

2. La macchina converte il vivente

«Dalla riformulazione della questione dell’accumulazione all’attenzione ai processi attuali come nodo centrale su cui agire. […] il lavoro si presenta come un organo cosciente […] nella forma dei singoli operai vivi; frantumato, sussunto sotto il processo complessivo delle macchine» [1].

Per comprendere il legame forte tra l’operaismo e l’attuale sviluppo teorico dell’ecologia politica, bisogna necessariamente ripartire da quello che da Panzieri in poi, con il decisivo apporto di Negri, è diventato il nostro Marx, quello dei Grundrisse, soprattutto del frammento sulle macchine. Quel passo deve la propria fortuna anche alla capacità di ribaltare completamente il modo in cui i testi marxiani sono stati letti per almeno un secolo. Quel dibattito ha aperto una strada per il superamento della visione monolitica del marxismo e dei processi rivoluzionari, attraverso la sua proposta di rilettura dei testi di Marx e della visione della società e della storia che ne emergevano. Soprattutto ha esaltato l’enorme portata filosofica del pensiero marxiano e la sua caratteristica di lavoro incompiuto, come devono essere necessariamente tutti i lavori rivoluzionari. Lo sforzo intellettuale che emerge da quella rilettura dei Grundrisse è chiaramente qualcosa di ancora più ampio di quanto contenuto nel Capitale e soprattutto permette di rivedere un progetto generale di cui la critica dell’economia politica era solo una parte. Personalmente non sono mai riuscito a vedere il pensiero di Marx come quella struttura monolitica e inflessibile proposta dai partiti comunisti europei né come un percorso compiuto che si potesse concretizzare solo in una specifica forma politica.

Come i sistemi di potere per perpetuarsi devono adattarsi facilmente al mutamento, così un pensiero rivoluzionario deve essere capace di preconizzare le scelte del sistema che intende cambiare e agire su piani differenti. Il dibattito operaista ha consentito finora proprio di liberare dal loro interno quelle riflessioni sulla rivoluzione che correvano, ad esempio, il rischio costante di cadere nella tentazione dell’esaltazione della fabbrica, come se non fosse il luogo della massima alienazione e dello sfruttamento. Lo stesso approccio, comune a molti dei vecchi partiti comunisti, che ha tentato di far diventare altro, di far mutare pelle alla grande proposta di liberazione dentro cui ci siamo mossi sempre, con il passo incerto di chi deve disegnare i propri sentieri. Si tratta di un lavoro folle e grandioso che continua ad aprire un potenziale conflittuale enorme e in cui in qualche modo siamo coinvolti su tutti i fronti nella nostra quotidianità e in cui adesso agiscono consapevolmente migliaia di esperienze conflittuali a livello planetario.

Il frammento sulle macchine ha una relazione fortissima con molte altre parti del pensiero di Marx e ne rivela un’interpretazione precisa, riesce infatti a chiarire parti complesse e più rigide, come i capitoli XX e XXI del libro II del Capitale, necessari a comprendere il processo di riproduzione complessiva del sistema. Quei passaggi ci dicono che il capitalismo riesce a produrre il proprio mondo e che il mondo è diventato la fabbrica di sé stesso; è uno dei principi che hanno guidato la composizione di un’area che si è data uno statuto politico molto forte e che ha saputo mettere in discussione la supposta radicalità del pensiero socialista europeo. Gli spazi di vita sono interni ad un sistema che ha bisogno di convertire a spazio di accumulazione ogni aspetto e luogo del vivente.

La città-fabbrica è lo stesso spazio in cui agiscono Lefebvre e Gorz, è lo spazio in cui è nata l’ecologia politica di stampo marxista, prima che si ponesse il problema della crisi ecologica globale. Il mondo prodotto dal capitale è lo spazio in cui deve agire adesso un pensiero della trasformazione costruito sulle dinamiche del vivente. Di fronte all’avanzare del processo di distruzione non c’è però possibile via d’uscita, non si può evitare di riconsiderare le cose anche in vista delle modalità con cui si inasprisce la crisi e con cui il sistema si articola nelle sue forme di controllo. Non c’è altra via d’uscita perché la soluzione deve per forza essere radicale e fornire alternative di vita e deve farlo per tutto il vivente. La proposta che emerge adesso si trova esattamente dove doveva essere: nel solco dell’esperienza aperta dalla critica operaia al capitale.

Come ha chiarito il dibattito sul capitalismo cognitivo, il frammento sulle macchine rende esplicito il fatto che il problema non risiede nella struttura fisica della macchina, ma nel suo funzionamento, nelle modalità attraverso cui realizza una trasformazione che determina un cambiamento nella vita dei lavoratori, nel modo in cui la macchina è un mezzo per trasformare il lavoro vivo. Ciò perché a fondamento del sistema c’è la capacità del capitalismo di tramutare il vivente in valore e il valore in prezzo. Lungo tutto il testo di quel frammento, che è chiaramente parte di un progetto più ampio, l’autore riesce a chiarire in modo risolutivo che sarà necessario aprire un campo preciso di azione politica e ci dice che ancora è necessario andare avanti, proseguire nello sforzo di ampliamento del campo di conflitto.

3. Ricostituire il processo di vita reale

«In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa»[2].

Il tempo di lavoro è un’altra questione che si colloca a fondamento di una riflessione sulla liberazione delle potenzialità del vivente. Si tratta di un problema perfettamente interno allo stesso dibattito perché non si può scindere la riflessione sul tempo di lavoro dalla ricerca della compatibilità ambientale. La totalizzazione del tempo di produzione ha coinvolto progressivamente la biosfera, si tratta di uno dei processi costitutivi del capitalismo cioè della tendenza a portare all’interno dei processi di produzione di valore la biosfera, ad usarla liberamente come riserva a cui attingere, a convertirne le basi e i tempi riproduttivi.

La stessa frattura metabolica, un elemento centrale della separazione con quella che Marx definisce natura, che rappresenta un tema importante dall’area marxista dell’ecologia politica, in realtà risulta un processo interno a questa tendenza, non l’origine del problema. Si realizza proprio nella relazione di lavoro e nell’uso delle macchine, ma soprattutto nella creazione di un modo per convertire anche i tempi della biosfera in tempi di produzione e di creare valore da quel furto di tempo. Il tempo di produzione e il tempo di lavoro non sono compatibili con i tempi di retroazione ambientale, i ritmi della biosfera non possono coincidere con l’accelerazione del capitalismo, che arriva, ad esempio, a produrre gli animali destinati alla macellazione riducendo i tempi della loro fase di crescita o a distruggere intere aree del pianeta per l’estrazione mineraria in poche ore.

La capacità di riproduzione comprende anche la capacità di creazione dell’informazione come risultato dell’azione del vivente. I sistemi biologici funzionano seguendo uno schema di produzione dell’informazione, quello stesso schema di cui la produzione capitalista è riuscita ad appropriarsi[3]. Il vivente produce informazioni, anzi è l’unica struttura in grado di trasformare in informazione i principi fisici di funzionamento del mondo. Lo stadio finale del capitalismo è dunque l’appropriazione delle capacità creative del vivente, da quelle riproduttive a quelle cognitive, è questo il motivo per cui la liberazione dal lavoro capitalista riguarda tutto il complesso del vivente.

4. Bloccare l’accumulazione e uscire dai processi di valorizzazione capitalista

«La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici, ecc.. Essi sono prodotti dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del General Intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale»[4].
La contraddizione insanabile tra il capitale e il vivente, espressa già all’inizio della grande critica al capitalismo, si esprime quindi compiutamente nella collocazione del lavoro vivo all’interno del valore. Il campo di azione è però adesso chiaramente la modalità con cui si può impedire la conversione del vivente in capitale, il principio generale di funzionamento del sistema. Quel campo resta ancora il lavoro umano, nella sua azione produttrice generale e nelle modalità con cui rappresenta ancora la forza determinante del general intellect. Nel quadro della crisi ecologica questo ci pone un enorme problema di carattere politico: liberarsi dal lavoro deve comportare una liberazione dei processi vitali, deve necessariamente includere la possibilità di costruire una relazione con il vivente liberata dai processi di valorizzazione. Nonostante ci siano moltissime esperienze di lotta che da decenni si muovono su questo terreno, è evidente che ancora siamo lontani dall’aver elaborato una chiara linea di azione, anche se la grande novità è che abbiamo ricominciato ad elaborare forme di prefigurazione della società futura, idee e proposte su come il nostro mondo può concretamente funzionare al di fuori del sistema capitalista. Il processo che comporta l’appropriazione progressiva del vivente in tutti i suoi aspetti va chiaramente fermato; quale possa essere il risultato di una trasformazione così profonda, che porterebbe alla strana forma di un mondo devalorizzato, è ancora da definire. Liberarsi dal valore di scambio è un progetto politico molto più complesso di quanto sembri anche sul piano pratico e comporta la capacità di proporre un mondo altro, radicalmente diverso, in cui non esista più il corrispettivo della vendita del tempo e della determinazione del valore in termini di prestazione di lavoro. Ricondurre il vivente al centro di un progetto rivoluzionario rimane però un passaggio essenziale per poter costruire un reale percorso di liberazione.

Note

[1]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Milano, La Nuova Italia, 1968, p. 399. Per comodità ho utilizzato l’edizione italiana del 1968 curata da Enzo Grillo, sebbene proprio su quel frammento siano state poste diverse questioni di traduzione.

[2]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., p. 401.

[3]Dal Gobbo A. e Torre S., (2019). Natura Valore Lavoro. Logiche di sfruttamento, politiche del vivente. Etica & Politica / Ethics & Politics, XXI, 2019, 1, pp. 165-171.

[4]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., p. 402.

Tratto dal sito di Effimera, qui raggiungibile

E' da tempo che raccogliamo le denunce e le analisi di uno dei più gravi crimini che si stanno compiendo nei confronti dell'umanità, si vedano sia la cartella 2015-Esodo XXI che 2017-Accoglienza Italia. Quest'articolo non poteva mancare perchè spiega come l'omissione di soccorso, il rifiuto all'asilo e all'accoglienza sono gravissime violazioni alle norme fondamentali del nostro diritto e della nostra civiltà. (a.b.)
Finalmente, dopo venti giorni, i naufraghi della Open Arms sono potuti sbarcare, grazie a un provvidenziale intervento della magistratura. Il sospiro di sollievo è legittimo e anche doveroso, ma c’è un aspetto della questione che merita un approfondimento. Per giorni si è discusso su quanti e quali profughi stessero abbastanza male da convincere le autorità a lasciarli scendere a terra. La contesa politico-umanitaria si è trasferita su un terreno che dovrebbe essere relativamente obiettivo, quello medico, sulla base di diagnosi contrapposte sulle condizioni delle persone trattenute a bordo.
Il punto è che le questioni dei salvataggi in mare e dell’asilo sono state dislocate dal piano dei diritti a quello della compassione. Non si tratta più di diritti umani incoercibili, e quindi di doveri inderogabili per uno Stato democratico che quei diritti ha liberamente riconosciuto e incorporato nella propria Costituzione e in svariati Trattati internazionali. Sono stati ridotti a situazioni da prevenire e da tenere a distanza il più possibile, e poi eventualmente da esaminare caso per caso ancora prima che gli interessati richiedano eventualmente la protezione internazionale.

I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli, ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne, specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile).

Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo, dotati –si dice– di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti, recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà. Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza.

Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine.

L’asilo, e a maggior ragione il soccorso in mare, non è motivato dalla povertà e neppure dalle condizioni di salute, ma è un diritto umano motivato dalla vulnerabilità delle persone interessate, dai rischi che correrebbero se non venissero prima soccorse e poi almeno provvisoriamente accolte. L’altro deprecabile ma insistente argomento polemico indirizzato contro chi si espone a favore dell’accoglienza, specie quando si tratta di persone note al grande pubblico, chiama in causa il loro impegno diretto nei confronti dei rifugiati: “Quanti ne accogli a casa tua?”.

L’ultimo bersaglio in ordine di tempo è stata l’attrice Luciana Littizzetto, che ha peraltro saputo rintuzzare l’attacco sulla base di un encomiabile curriculum di impegno sociale. Di nuovo però, la logica sottostante rivela la sostituzione della compassione ai diritti umani: se ti fanno tanta pena, accoglili tu, con i tuoi beni e sopportandone il presunto disagio. È come se, di fronte a chi chiede più attenzione ai malati o alle persone con disabilità, si rispondesse di provvedere a loro con le proprie sostanze. Surrettiziamente si abbandona la logica dello Stato sociale, chiamato a rispondere alle varie necessità – incluse quelle umanitarie – redistribuendo le risorse raccolte con il prelievo fiscale, per tornare a forme di carità discrezionale.

Di fronte a questo deterioramento della cultura civile oltre che giuridica – che su queste pagine si è continuato per un verso a denunciare e sottolineare e per l’altro a contraddire di speranza e buon diritto indicando esempi positivi e buone pratiche– sorge spontanea una richiesta: se davvero si formerà un nuovo Governo, improntato a una visione politica ben diversa dal Governo precedente, ponga tra i suoi primissimi atti un ripristino dell’impegno del nostro Stato nella tutela dei diritti umani.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Sottrarre l'uso del suolo alle esigenze elementari (dall'alimentazione all'acqua, dall'abitazione alla riserva per gli usi futuri) delle comunità che lo abitano, è diventato in vaste regioni del sud del mondo, un ulteriore strumento di sfruttamento degli ultimi e dei più fragili. Il Land Matrix, un osservatorio indipendente per monitorare il land grabbing registra che al momento sono state concluse 557 transazioni, per un totale di 16 milioni di ettari (più o meno la metà della superficie dell’Italia) e altre, riguardanti circa 10 milioni di ettari, sono in corso. Questo fenomeno provoca l’espropriazione forzata e conseguentemente l'impoverimento e l'annientamento di comunità locali, la cui sopravvivenza è strettamente legata all'accesso a queste terre.

Fonte: L'immagine è stata tratta dall'articolo "Land grabbing, il furto delle terre" di Fabrizio Floris pubblicato sul Blog "Nero su Bianco" di Africa, la rivista del continente vero.
Un'indagine recente ha rivelato che milioni di cittadini tedeschi, i quali avevano certamente avuto conoscenza diretta o indiretta della tragedia dei campi di sterminio, avevano completamente rimosso dalla loro memoria quell'evento. Ho l'impressione che questo stesso fenomeno si stia ripetendo identico nel caso dei cittadini italiani al cospetto dei massacri perpetuati dal colonialismo in Africa in nome di una presunta "civilizzazione" e più recentemente degli innocenti rigettati nei flutti del mare monstrum o addirittura colpiti dalle armi dei seguaci del ministro Salvini, nella completa passività dei suoi alleati di governo.
Bertold Brecht affermava che "il sonno della ragione genera mostri" ma ora non è solo la ragione a dormire ma anche l'uso "normale" di alcuno dei cinque sensi che la natura ha donato a ciascun essere umano. Le persone affette da questo morbo inumano sembrano all'apparenza cittadini del tutto normali: respirano e sorridono, si odiano ed amano, mettono su famiglia, producono, allevano ed educano figli appartenenti anch'essi alla razza umana. Se quello che mi appare appartiene alla mia stessa umanità, è essere membro di questa umanità che comincia a farmi paura.

Per tributare un riconoscimento che non potrebbe certo ripagare il debito incommensurabile che la mia generazione ha nei confronti di Giorgio Nebbia, forse con Laura Conti il più straordinario innovatore tra quanti hanno colto nella capacità trasformativa del lavoro assoggettato al capitale il pericolo più grave di minare irreversibilmente la natura, la sua integrità, la sua indiscutibile attitudine di alimentare una vita buona sulla Terra, rubo le parole ad una nota con cui un amico mio e di Giorgio – Gian Paolo Poggio – ha annunciato una scomparsa purtroppo da tempo messa in un conto doloroso.

«Sapevo – scrive Gian Paolo - di Giorgio Nebbia attraverso i suoi articoli, in particolare i contributi, molto originali, che apparivano nel bollettino di Italia Nostra. L’ho conosciuto di persona verso la fine degli anni ’80, in occasione della vicenda dell’Acna di Cengio (Savona). Il suo approccio era assolutamente non convenzionale, non era più giovane ma partecipava direttamente agli incontri in alta Valle Bormida, e con lui la moglie Gabriella, sobbarcandosi un lungo viaggio. La sua impostazione del problema era chiarissima e, nello stesso tempo, molto impegnativa. Andava bene contestare la fabbrica per il suo impatto sulla salute e sull’ambiente ma bisognava studiare i cicli produttivi, sapere esattamente cosa produceva e quali erano gli scarichi inquinanti, cosa aveva prodotto nel corso dei suoi cento anni di attività. E questo non per una pur meritevole conoscenza storica ma per poter intervenire in modo efficace, in termini di bonifica, di risanamento dell’ambiente e di controllo sulla salute dei lavoratori e della popolazione. Da allora è stato per me e per la Fondazione Micheletti, l’interlocutore principale, un infaticabile e inflessibile stimolatore di attività, iniziative, il più delle volte invisibili perché dedicate alla salvaguardia degli archivi che hanno a che fare con la produzione, le manifatture, il lavoro, l’energia. Gli studi più rilevanti sono quelli che ha dedicato al ciclo delle merci, definendosi sempre orgogliosamente merceologo, anche quando la merceologia veniva abolita, un po’ come se si potessero abolire le merci. Di cui, anche un po’ per provocazione intellettuale, metteva sempre in evidenza la dimensione materiale, naturale, il carico quantitativo sulle matrici ambientali».

Per quanto mi riguarda ho goduto della sua amicizia e di una curiosità quasi stupita per l’attenzione che un sindacalista - quale ero io allora - dedicava non tanto all’incidente clamoroso sul lavoro, che faceva notizia, quanto alla ricostruzione degli effetti irreversibili che i cicli di trasformazione di materie e energia, fagocitate nel vortice di produzioni spinte alla massimizzazione del profitto, producevano “normalmente e quotidianamente” su un ambiente degradato e sui cambiamenti della biosfera, mai presa seriamente in considerazione come spazio vitale, luogo di riproduzione, bene comune da conservare. “Giorgio – conclude il nostro comune amico - era persona estremamente avvertita, libera da schemi ideologici, appassionato ma estremamente consapevole delle debolezze umane, e però ostinatamente aperto alla speranza. Occorrerà molto tempo per conoscere Giorgio Nebbia nelle sue molteplici dimensioni”. Oggi lo ricordiamo con lo smarrimento che solo l’affetto più intenso può in minima parte colmare.

Il “Grigia”, al secolo Franco Berlanda, scomparso nei giorni scorsi a 99 anni a Torino, aveva una vocazione “maieutica,” accompagnata da grande semplicità, sul senso della vita. Il suo antifascismo non era fermo ai giorni in cui salì a Cogne in valle d’Aosta per formare una delle prime brigate partigiane del Piemonte: antifascismo per lui voleva dire libertà, studio, insegnare “il bello” delle città, difendendole dal degrado, dalle barbarie della speculazione.

Laureatosi in architettura, fu stimato docente all’Università di Venezia ed uno dei più autorevoli dirigenti dell’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica con Astengo, Renacco, Guiducci. La battaglia sul nuovo Piano Regolatore di Torino e sul consumo dei suoli in generale (il rapporto tra metri cubi edificati ed aree libere o destinate a servizi per la collettività) la condusse con grande decisione ed entusiasmo non solo nelle sedi istituzionali ma nei quartieri, nei consigli di fabbrica, nelle scuole di ogni ordine e grado suscitando anche qualche ironica riserva nel fronte amico, dove qualche compagno di complemento lo definì “urbamastico, urbamistico”.

Il “Grigia” non era credente, ma aveva molta considerazione nei confronti delle “moltitudini” per farle crescere, sollecitandole a «istruirsi, istruirsi ed ancora istruirsi», per dirla con Antonio Gramsci. Il suo laicismo non mancava mai di vederlo schierato evangelicamente dalla parte degli ultimi.

Wu Ming svela la verità nascosta dietro le esagerazioni mediatiche sull'esito delle elezioni europee in Italia: "Se proprio si vuole ragionare in termini di percentuali, ragionando sul 100% reale vediamo che la Lega ha il 19%, il PD il 12%, il M5S il 9,5%. Sono tutti largamente minoritari nel Paese [...] Salvini non ha con sé gli italiani [...] #Salviniscappa può essere un buon sismografo nei prossimi mesi. L’effetto-shock (ingiustificato) del «34%» finirà, il conflitto sociale no".
Fonte: Dall'articolo "Sui veri risultati delle Europee" di Wu Ming. Non facciamoci abbagliare da percentuali di percentuali". (a.b.)


Il 7 maggio scorso a Milano, proprio mentre fioccavano gli arresti di amministratori, politici e imprenditori, il Rettore del Politecnico Ferruccio Resta ha partecipato a una cena di gala organizzata dall’establishment lombardo, ospite d’onore Salvini; sede (prestigiosa): Villa Necchi Campiglio; costo: 10.000 euro a tavolo! Un professore del Politecnico, Giancarlo Gioda, ordinario di Ingegneria Geotecnica, ha scritto al rettore (e per conoscenza a tutti i docenti) una lettera ironicamente polemica che ben evidenzia la tradizione di compromessi con il potere dell’ateneo milanese (m.c.g.)

Caro Rettore, nei giorni passati la stampa ha divulgato una notizia che potrebbe essere anche vera, a meno che non sia una delle tante fake bufale. Siccome la notizia riguarda il nostro Rettore, ti chiedo lumi. Dice, la stampa, che il Rettore del Poli ha partecipato ad un incontro, con cena annessa, a villa Necchi in tema di “nuova giustizia” e dell’Impresa che serve al Paese. Ospite d’onore era il corrente segretario di stato per gli interni, simpaticamente detto “il Capitano”. Lo contornavano politici di varia estrazione, imprenditori, magistrati, banchieri, … in sintesi, la creme de la creme dell’establishment che conta. Nulla di strano, quindi, che tra i cremosi commensali facesse la sua bella figura pure il Rettore del Poli.

Dice anche, sempre la stampa, che costoro hanno scucito diecimila euretti per assicurarsi un tavolo. Metti che un tavolo fosse da 10-12 posti. Fanno mille euro a cranio o giù di lì. Beh, dovete aver cenato proprio bene (congratulazioni allo chef!).

Appare che il memorabile incontro-cena sulla “nuova giustizia” sia avvenuto in sincronia con una non meno significativa espressione della “vecchia giustizia”, quella che ha portato all’arresto di un nutrito manipolo di politici ed imprenditori lombardi (e poi vai a dire a giro che non credi ai bizzarri casi del destino).

Comunque, i lumi che chiedo al Rettore riguardano questo mio dubbio: il quattrino per la cena ce lo ha messo il Rettore himself o rientra nelle spese di rappresentanza delle Poli-Autorità? In qualunque caso, mi compiaccio vivamente per il suo impegno nel promuovere l’immagine dell’Ateneo in specie verso il Capitano, persona che tutti sanno sensibile alla cultura e allo studio, e verso l’ex-ministro Tremonti (presente pure lui alla cena), quello che “con la cultura non si mangia”.

V’è poi un altro aspetto, potenzialmente positivo assai, della faccenda. Mi spiego. Il Rettore precedente ha sempre provato attrazione per i “politici” e ha fatto del suo meglio per ”avvicinarli”. Iniziò il percorso con G. Fini (quello di Alleanza Nazionale) firmando con lui l’atto costitutivo di Fare Futuro, fondazione presieduta dal Fini medesimo al fine di “fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano”. Dopo poco il Fini cadde in disgrazia. Poi, sempre il predecessore, s’avvicinò a M. Renzi (allora primo ministro) guadagnandoci la presidenza di Casa Italia e altre prebende assortite. Il governo del Renzi cadde in men che non si dica. In sintesi, sembra che il predecessore avesse verso i politici lo straordinario influsso così ben descritto da Pirandello nella novella “La Patente”.

Ora metti che il corrente Rettore abbia ereditato dal predecessore, oltre all’impiego in piazza Leonardo, anche l’influsso che dicevo. A ben vedere, la concomitanza degli arresti con la cena dai Necchi appare come una sua iniziale e promettente manifestazione. Se così fosse, potrebbe darsi che il futuro politico del Capitano non si profili così roseo com’egli s’aspetta.

Nel caso, caro Rettore, meriteresti un monumento equestre, con fronzoli e ghirigori, di dimensioni davvero inimmaginabili.

Negli ultimi anni sono morti nel Mediterraneo almeno 15.000 migranti. E continuano a morire, anche se, allontanate le ONG, cade il silenzio su una strage continua, atroce, senza pietà neppure per i bambini. Il ministro della malavita però non si accontenta delle vite spezzate e del successo dei suoi slogan feroci. Vorrebbe di più. Per ogni vita strappata alla morte 5.000 euro di multa comminata ai salvatori. In un paese che alza muri, in città che si chiudono ai diversi, trattandoli come scarti dell’umanità, occorre ribellarsi prima che la barbarie di una nuova

shoa diventi la specificità intollerabile di questi tempi orribili. (m.c.g)

La città futura, 5 maggio 2019. Con il Decreto Emergenze un passo ulteriore per convertire l'agricoltura da attività per soddisfare bisogni umani a business nelle mani di sempre meno aziende, esposto a gestioni mafiose, più coltivazioni intensive e più meccanizzazione. Ma la chiamano «bioeconomia».

Qui il link all'articolo.

Il decreto legge sulle emergenze in agricoltura, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 marzo scorso, contiene disposizioni “urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi e di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale”. Con questo testo vengono adottate norme eccezionali per tre emergenze: latte ovino in Sardegna, Xylella, mutui bancari e tre settori (latte, olio di oliva, agrumi). Il decreto attende approvazione al Senato, discussione in calendario la settimana prossima.

Il 25 Aprile 1945 l'Italia si riscattò dall'asservimento al nazismo. Oggi più che mai è necessario il monito di Bertold Brecht: «E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava una volta per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiam vittoria troppo presto il grembo da cui nacque è ancora fecondo». Con queste parole si apre il Museo Monumento al Deportato di Carpi, costruito per tradurre in ricordo gli orrori di quel periodo nefasto della nostra storia, che nel Campo di Fossili (a sei km da Carpi) sono ancora vivi nei resti delle strutture. Fossoli fu costruito nel 1942 dal Regio Esercito per imprigionare i militari nemici. L'anno successivo diventò un campo di concentramento per ebrei. Nel marzo 1944 si trasforma in campo poliziesco e di transito, utilizzato dalle SS come centro nazionale di raccolta dei deportati da inviare ai campi di sterminio. Sono stati circa 5000 le persone internate a Fossoli e poi trasferite ai campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück.
Qui il link alla La Fondazione ex campo Fossoli, costituita nel gennaio 1996 dal Comune di Carpi e dall'Associazione Amici del Museo Monumento al Deportato, per informazioni su questo importante, ma spesso sottovalutato museo. Sulle vicende si veda il reportage del Corriere della Sera.
Fonte: nell'immagine il Museo Monumento al Deportato tratta dal sito della Fondazione.

A Verona è in corso il Congresso mondiale delle famiglie, espressione degli esponenti della più retriva e arcaica concezione patriarcale della famiglia, che vede anche la partecipazione di rappresentanti istituzionali, Matteo Salvini in testa.

Contemporanemente e in contrapposizione si svolge una tre giorni di mobilitazioni transfemmministe organizzata da «Non una di meno» per ribellarsi all'idea di famiglia patriarcale eteronormata, che riproduce un modello sociale gerarchico e sessista, propagandata dal Congresso. Oggi si è svolto un enorme corteo, appassionato e rigoroso controcanto, di oltre 100.000 persone provenienti da tutta Italia.

Parlare di famiglie oggi non può prescindere né dall'esperienza femminista né dalle drammatiche condizioni sociali ed economiche in cui molte di esse si trovano. A quest'ultimo proposito le parole (qui sotto riportate) di Viola Carofalo, portavoce di Potere al Popolo, diramate dai social network, sono una replica semplice ma chiara ai discorsi falsi, stereotipati e degradanti che sono emersi in questi giorni dal congresso.

Io lo vorrei fare un bel Congresso sulla Famiglia
di Viola Carofalo

Se Potere al Popolo! avesse i soldi, gli agganci, le coperture mediatiche di questi ricchi retrogradi, di questi corrotti politici, di queste fondazioni di miliardari che si stanno incontrando oggi a Verona, metterebbe su un bel congresso.

Chiameremmo la signora Anna, e ci faremmo dire come fa a portare avanti la sua famiglia a Napoli con tre figli e il solo stipendio del marito, muratore a nero.

Chiameremmo Giancarlo, e ci faremmo dire com'è essere papà di un bimbo con il tumore in Calabria, e dover fare avanti e indietro con il Nord perché gli stessi soggetti che ora discutono di famiglia hanno smantellato la sanità pubblica, soprattutto al Sud, per fare un favore ai loro amici delle cliniche private.

Chiameremmo Nicoletta che fa i salti mortali in Veneto per risparmiare sulla spesa di una famiglia di quattro persone ma i soldi per l'acqua in bottiglia li spende sempre da quando sua nipote piccola ha avuto un tumore e ha incominciato a informarsi sui PFAS...

Chiameremmo Giulia che nella periferia di Milano ha un figlio disabile e pochissimo aiuto da parte dello Stato, perché le famiglie piacciono solo quando non danno problemi, e per il resto affidati a Dio.

Chiameremmo Moussa che la sua famiglia la ama, ma ce l'ha ancora in Mali in una zona di guerra, e non può venire qui per le leggi di chi non vuole gli aborti ma affonderebbe volentieri i barconi, mentre Moussa lavora 10 ore al giorno in un magazzino in Emilia per fargli fare una vita decente.

Chiameremmo Maria che occupa una casa a Roma, in una palazzina insieme ad altre famiglie, di tutte le nazioni, e ci faremmo raccontare come si danno una mano a vicenda, come ci si tiene i figli l'un l'altro quando si deve lavorare, come tutto si mischi e non sia più importante sapere chi appartiene a chi, perché alla fine siamo uomini e donne, bambini di questa città, di questo paese, della grande famiglia umana.

Ecco, noi faremmo un Congresso così, dove non si parlerebbe di cazzate medievali, ma di problemi concreti, di soluzioni concrete, della vita della maggior parte delle famiglie italiane, che oggi è difficile, proprio a causa di chi è ricco e comanda, e di noi non se ne frega.

Oggi saremo a Verona a dire questo. Non solo a rispondere colpo su colpo a questo oscurantismo, che fa tornare indietro la mentalità del nostro paese. Ma a dire: non ci fregate, il vostro trucco è vecchio: cercare di cambiare il senso comune per incassare consenso anche se la vostra politica non sta risolvendo un problema che sia uno....

Non ci fregate, noi vi incalzeremo: su lavoro, diritti, redistribuzione della ricchezza, sull'emigrazione dei nostri giovani. A questo dovete rispondere. E Dio non vi aiuterà di certo!

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Oggi eddyburg.it non verrà aggiornato. Aderiamo allo sciopero indetto da «Non una di meno», in risposta a tutte le forme di sfruttamento e violenza che colpiscono le vite delle donne, delle persone trans e intersex, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini. Qui il testo dell'appello.

In queste pagine l'autore racconta di quando suo padre, Silvio Saraceni, divenne commissario di governo di Castrovillari nel 1944. Come condizione all'accettazione della sua carica Silvio stilò un decalogo in cui chiedeva poteri straordinari (perquisizioni, requisizioni), la possibilità di nominare su base volontaria e gratuita «ausiliari del Comune», da affiancare alla esigua (e non tutta affidabile) pattuglia dei vigili urbani e di usare il titolo di sindaco o commissario del popolo anziché quello di commissario di governo. Gli fu concesso pressoché tutto, ma non il titolo di sindaco. Poté usare quello di commissario straordinario. (a.b.)

Il seguente testo è tratto da «Un secolo e poco più» Sellerio Editore, 2019

Mio padre sceglie di insediarsi il 1° maggio, «festa del Lavoro e del Socialismo». La situazione logistica del Municipio è disastrosa. Tra l’altro manca anche una macchina da scrivere e, naturalmente, il dattilografo. Silvio possiede una Olivetti Lettera 22, su cui aveva imparato a scrivere la sua primogenita, allora quattordicenne. Macchina e figlia vengono trasferite in pianta stabile al Comune, ovviamente senza retribuzione. Il che era, se non proprio giusto, certamente opportuno. E condiviso in famiglia.

Ricordo che però mia madre non fu d’accordo quando, ad una delle mie sorelle che si era ammalata, negò il supplemento di latte e la razione di riso che spettava agli ammalati. E non era d’accordo, mia madre, neppure quando, per non incorrere nei fulmini di Silvio, era costretta a rispedire al mittente qualche modesto, ma all’epoca prezioso, regalo alimentare, un cesto di verdure, un chilo di pane, un litro d’olio. C’era, in questi atteggiamenti, un connotato estremista, un eccesso di «piacere dell’onestà» (l’opera di Pirandello di cui apprezzava soprattutto il titolo).
Un mese dopo l’insediamento in Municipio, il 3 giugno, Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura, gli chiede di assumere l’incarico della «Direzione Generale della Alimentazione», struttura del Governo di Salerno in prima linea nell’affrontare il principale problema del momento. Lui ringrazia e declina, gli sembra un tradimento del suo popolo, che lo ha voluto alla guida del Comune. In questa occasione confida all’amico ministro – forse anche in cerca di «protezione» – il recente scontro che ha avuto con il capitano dei carabinieri: lo aveva ha messo alla porta dopo che, durante una visita di cortesia, aveva detto che sull’approvvigionamento «personale» avrebbero senz’altro trovato un accordo (in seguito sulla stampa apparve la notizia che questo capitano, nel frattempo trasferitosi altrove, era stato arrestato in una delle rare indagini del tempo per corruzione).
Per esporre il suo programma e fare un appello ai cittadini, Silvio vorrebbe affiggere dei manifesti. La tipografia macchiatasi di colpa antifascista è ancora chiusa, così si dà da fare e riesce a farla riavere al tipografo. Dopo la ripulitura delle tracce della falsificazione delle Am Lire, la tipografia può entrare in funzione anche grazie ad alcuni vecchi rotoli di carta rimasti intatti. La prima stampa è il manifesto del «Sindaco», un appello ai cittadini: l’urgenza è assicurare alla popolazione intera il necessario per sopravvivere; tutti hanno il dovere di collaborare; chi dispone di scorte alimentari o di vestiario ha l’obbligo di dichiararlo al Comune, pena la requisizione; contadini e commercianti hanno l’obbligo di portare le loro mercanzie al mercato comunale, dove saranno vendute a prezzi calmierati; il commissario pro tempore intende impiegare i suoi poteri straordinari per snidare accaparratori e mercanti neri, contro i quali sarà usato il massimo rigore; i volontari disponibili al ruolo (gratuito) di «ausiliari» devono presentarsi al Comune che ne vaglierà i requisiti.
Nell’immediato l’appello e la minaccia producono qualche effetto. Al mercato per qualche settimana compaiono prodotti della terra, scarpe e vestiario. Si formano lunghe file, ma quasi tutti riescono a tornare a casa con qualcosa. Il commissario si reca spesso di persona al mercato per controllare che siano rispettati i prezzi e l’ordine nelle file, non sono ammessi favoritismi per censo o ceto sociale, solo donne incinte o con bambini piccoli, anziani e invalidi, hanno la precedenza. (Ricorda mia sorella Fiorenza che una volta, mentre era in attesa, il mercante la riconobbe e la chiamò per farle scavalcare la fila; ma «don Silvio» piombò come una furia e retrocesse mia sorella all’ultimo posto minacciando il mercante di revocargli la licenza).
Intanto arriva la chiusura dell’anno scolastico, che per le scuole elementari si è ridotto a pochi mesi. L’edificio scolastico era stato danneggiato dal bombardamento dell’agosto ’43 ed era tornato agibile solo nel febbraio ’44. Il commissario fa un accorato appello ai maestri, teniamo aperte le scuole almeno fino a ferragosto, poi vi resterà ancora un mese e mezzo di vacanze (allora l’anno scolastico si apriva formalmente il primo ottobre e la scuola cominciava a funzionare a regime addirittura a novembre, dopo i primi quattro giorni festivi).
All’appello rispondono in pochi, cinque o sei; ma sotto la loro guida si improvvisano maestri una decina di volontari, in maggioranza donne. Del resto – spiega il commissario in una riunione plenaria estesa ai genitori – si tratta soprattutto di tenere i bambini lontano dalla strada e dalle precarie condizioni delle famiglie, in cui gli adulti sono impegnati l’intera giornata per sbarcare il lunario. Silvio rimaneva al Comune tutto il giorno e spesso anche la notte, si era fatto portare una brandina («Mi basta un giaciglio», diceva). E altrettanto spesso mia madre gli preparava qualcosa da mangiare che lei stessa o un commesso gli portava sul posto di lavoro.
Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino.
I proprietari terrieri proibirono portava sul posto di lavoro. Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino. I proprietari terrieri proibirono ai loro contadini di raccogliere i prodotti da portare al mercato comunale: preferivano farli marcire, quando non riuscivano a venderli clandestinamente e di fronte alle ispezioni e alle minacce del commissario simulavano furti, danneggiamenti, allagamenti.
Giorno dopo giorno, gli approvvigionamenti si assottigliavano, finché il mercato comunale non rimase deserto. Il commissario tenne un discorso dal balcone del Comune e affisse un bando: dava tempo una settimana a contadini e commercianti per portare al mercato prodotti della terra e mercanzie. Scaduta inutilmente la settimana, requisì due camion di un «pescecane» locale, convocò il popolo e guidò una «spedizione» nei terreni agricoli. Per due giorni consecutivi furono raccolti quintali di prodotti, annotati alla bell’e meglio in un registro con il nome dei proprietari. I prodotti furono portati al mercato e venduti ai prezzi di calmiere. Il ricavato fu distribuito ai proprietari terrieri. L’impresa fu approvata dalla stragrande maggioranza della popolazione, ma incontrò la disapprovazione dei benpensanti e delle autorità costituite.
I carabinieri trasmisero un rapporto alla magistratura, il prefetto chiese giustificazioni scritte. La sezione locale del Comitato di Liberazione Nazionale affisse un manifesto in cui si dissociava. Il commissario rispose con un suo manifesto in cui ricordava al «sedicente» CLN che i partiti politici di cui si dicevano espressione avevano il dovere di stare dalla parte del popolo e non dei suoi affamatori. Il manifesto si concludeva annunciando un comizio del commissario per la domenica successiva. Al comizio partecipò praticamente l’intera comunità. Il popolo in piazza, mentre i dissenzienti se ne stavano ai margini o ascoltavano il discorso da dietro le finestre socchiuse delle case patrizie che si affacciavano sulla piazza.
L’essenza del discorso stava nella sua conclusione: visto che le autorità costituite in nome del re osteggiano l’opera del commissario che agisce in nome e nell’interesse del popolo, di cui riscuote il pieno consenso, non ci resta che proclamarci Repubblica. Il popolo applaudì, più per adesione all’operato del commissario che per fede repubblicana.
In un manifesto affisso qualche giorno dopo (ricordo la minuta, scritta a matita sul retro di una tessera annonaria scaduta), Silvio ribadì che «la Repubblica indipendente di Castrovillari» avrebbe fatto il suo corso nel rispetto della legge, che certamente consentiva al commissario di espropriare, anche con la forza, i beni imboscati dai nemici del popolo. La «Repubblica di Castrovillari» – che lo storico Vittorio Cappelli cita a p. 555 del volume della Storia d’Italia della Einaudi dedicato alla Calabria – è praticamente coeva alla ben più eroica Repubblica della Val d’Ossola, nata nel settembre 1944 in territorio ancora occupato dai nazifascisti e cessata dopo poche settimane di intensa vita democratica. Nel «Regno del Sud» la Repubblica di Castrovillari precede invece la più nota (e più cruenta) Repubblica di Caulonia, che nasce nel marzo 1945.
Alla pubblicazione del manifesto – firmato, in violazione dell’originario accordo, «il commissario del Popolo» – seguirono i fatti. Qualche giorno dopo, convocata ancora la comunità popolare, mio padre organizzò un’altra spedizione nei magazzini di due commercianti di calzature e vestiario. Anche questa mercanzia fu venduta al mercato e il ricavato messo a disposizione dei due, che però lo rifiutarono (il denaro fu depositato in banca con «offerta reale»). A questo punto gli interessi, leciti e illeciti, di contadini, mercanti, trafficanti vari si saldarono al composito fronte degli oppositori politici («sinceri democratici», democratici», neo-liberisti, ex fascisti riciclati, emergenti esponenti dei rinati partiti), in una alleanza che si mise al lavoro per destituire il commissario. Il primo tentativo fallì. Un gruppo di «personalità» si radunò sotto il Comune spalleggiato da una piccola folla. L’intento, probabilmente approvato in alto loco, era di occupare la sede municipale e imporre le dimissioni al commissario. Era il 27 gennaio, giorno della festa del patrono di Castrovillari (San Giuliano), considerato propizio dai «congiurati»: la gente era distratta dalla festa, lo spirito religioso che pervadeva in quel giorno la cittadinanza relegava il commissario, noto miscredente, nella solitudine del suo ufficio, da cui anche i vigili e gli ausiliari si erano allontanati per partecipare alla processione che seguiva il santo. Ma avevano sbagliato i conti. Qualcuno arrivò nel bel mezzo della processione gridando «vogliono cacciare il sindaco, vogliono cacciare don Silvio». D’incanto, tra lo sconcerto di sacrestani e sacerdoti officianti, la processione virò, tutta intera (salvo qualche irriducibile «bizzoca») verso il Comune. Quando il drappello delle «personalità» e la piccola folla che lo spalleggiava videro arrivare quel fiume di gente che inneggiava al sindaco, si diedero a precipitosa fuga, trovando scampo nei già ricordati palazzi patrizi o nei vicoli adiacenti la piazza. Invocato dal suo popolo, il commissario si affacciò al balcone e disse: «Oggi il vostro Santo, che io rispetto anche se non ci credo, così come rispetto tutti voi che ci credete, ha fatto il miracolo: ha ricacciato nelle loro tane i nemici del popolo, i vostri nemici. Viva la Repubblica di Castrovillari». In un tripudio di sacro e profano, il sindaco – ormai lo chiamavano tutti così – fu strappato alla casa comunale, dove rimase un presidio di volontari, e portato in trionfo per le strade principali del paese, fino alla sua abitazione. Qui si affacciò per un nuovo e caloroso discorso al balcone che dava sulla strada, la quale non riusciva a contenere tutta la folla, sicché in molti salirono sui tetti delle case di fronte, rischiando di sfondarli. Io ho un nitido ricordo dell’arrivo del corteo sotto casa nostra, annunciato da una «staffetta» con queste parole: «Stanno portando don Silvio». Mia madre inizialmente si allarmò, perché dalle nostre parti si «porta» qualcuno quando è morto o ferito. Ma mio padre arrivò «portato» sulle braccia dei dimostranti fin sotto casa, anzi fin dentro casa. Noi abitavamo al primo piano e le case di fronte erano tutte a piano terra; anch’io, come gli altri, mi affacciai al balcone e vidi la gente camminare sui tetti. Ecco cosa scrive su questo episodio l’atto giudiziario conclusivo della vicenda: «La maggior parte della popolazione, escluse la classe dei contadini arricchiti e dei commercianti accaparratori e di persone interessate, avea per lui la massima stima ed ammirazione, tanto vero che un tentativo di dimostrazione a lui contraria di qualche risentito si tramutò immediatamente in una dimostrazione a lui favorevole, di gratitudine e di trionfo». Dopo questa manifestazione di popolo si andò avanti tra alti e bassi nella guerra quotidiana contro speculatori e mercanti neri, sulla quale pesava ormai l’aperta ostilità delle autorità costituite e degli oppositori politici. Ovviamente alla fine l’ebbero vinta e il «commissario del Popolo» fu destituito. Accolse l’atto di destituzione – per «insubordinazione» e «lese prerogative delle Autorità costituite» – come un complimento. «È la prova che ho fatto il mio dovere verso il popolo» fu il suo primo commento. Non sapeva che il peggio doveva ancora venire.

19 febbraio 2019. Il governo italiano da mesi commette il crimine di omissione di soccorso nei confronti di naufraghi in pericolo e di sabotaggio dei soccorritori volontari che salvano vite umane nel Mediterraneo, negando loro approdo in porti sicuri. Complici del crimine tutti i partiti di destra, da M5s, alla Lega, Forza Italia, FdI e Autonomie, che hanno votato a favore dell'impunità di Salvini nella Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. (e.s.)

Per Israele la route 4370 è una «tangenziale» che permette al traffico di scorrere senza problemi all’ingresso orientale di Gerusalemme. Per i palestinesi, invece, è la prova dell’intenzione di Tel Aviv di sviluppare una doppia rete stradale, una per loro sotto occupazione e un’altra per gli israeliani. In effetti la corsia ovest a loro destinata preclude l’accesso alla Città Santa e prosegue verso il sud della Cisgiordania (Nena-news.it).

19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.

Sintesi del Tavolo Pace e beni comuni
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)
Intervengono:
Lisa Clark - Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Elio Pagani - Pax Christi
Guido Pollice - già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società
Luca Zevi - architetto e urbanista
Gli umani sono creature piuttosto pericolose per il pianeta in cui vivono. Il simbolo che rappresenta questo al meglio è probabilmente l'orologio del giorno del giudizio (il Doomsday Clock). Si tratta di un orologio o un simbolo immaginario, che rappresenta quanto è probabile che gli umani provochino una catastrofe globale. È stato messo in atto come una sorta di metafora, dal Bollettino degli Scienziati Atomici un consesso internazionale che pubblica una rivista accademica sulla sicurezza globale e sulla tecnologia. A Gennaio 2019 l’orologio segna 2 minuti alla mezzanotte. Le sue lancette sono rimaste sulla stessa posizione dell’anno precedente, ma sono pur sempre le più prossime alla fine dal 1953. La maggior minaccia per l'umanità consiste nel crescente arsenale nucleare in tutto il mondo.

Doomsday Clock

La faida tra Stati Uniti e Corea del Nord si è in gran parte ridotta, e questo è uno dei motivi per cui l'orologio non è cambiato dall'anno scorso. Ma le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono ancora molto tese, e gli Stati Uniti e la Russia possiedono il 90% di tutte le armi nucleari in tutto il mondo. I tempi erano buoni per un po ', ma da allora, il giorno del giudizio si avvicina sempre di più, ricordandoci che la fine del mondo è a solo una o due decisioni sbagliate. In queste decisioni rientrano anche le politiche di mancato contenimento dei cambiamenti climatici

Il 7 Luglio 2017 si è svolta a new York una storica votazione in cui 122 stati si impegnano sulla base del trattato TNP (Trattato di proibizione delle armi nucleari) a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Il Trattato potrà entrare in vigore quando sarà stato firmato e ratificato da almeno 50 stati. Sarà giuridicamente vincolante solo per gli stati che vi aderiscono e non proibirà loro di far parte di alleanze militari con stati in possesso di armi nucleari. Allo stato attuale non aderisce al Trattato nessuno degli stati in possesso di armi nucleari: gli Stati uniti la Francia e la Gran Bretagna, la Russia, Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea e gli altri membri della Nato, in particolare Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, che ospitano bombe nucleari statunitensi. Aderendo al Trattato, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari Usa schierate sul suo territorio a Ghedi ed Aviano (50 bombe nucleari B-61 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani). Ai 122 Stati membri dell'ONU, si sono associati parlamentari, sindaci e organizzazioni della società civile nel celebrare l'adozione di un trattato finalmente giuridicamente vincolante per vietare la bomba atomica impegnandosi ad accrescere la coscienza pubblica sui principi e sui valori dell'umanità. Il valore del TNP è innanzitutto quello di creare una norma universale e di aprire un negoziato umanitario che parte da una valutazione sull’essere umano.

La novità dopo Rio 1992 sta nella percezione che l’umanità possa perire non solo per la forza distruttiva della bomba, ma anche per la progressione brusca del cambiamento climatico. A livello politico, però, non ci sono adeguati segnali di preoccupazione e di azione per azzerare le emissioni di gas serra e cercare quindi di evitare i fenomeni più catastrofici. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C significa intrecciare sotto il segno del diritto della pace e della cura di Madre Terra le due emergenze più attuali.

La California, nell'ambito del movimento "We are still in" , contro la decisione di Trump di ritirare gli USA dall'accordo di Parigi, adotta un piano per il 100% rinnovabili entro il 2045 ed allo stesso tempo supporta il TNP. Questa è la prospettiva in cui si deve porre l’Unione Europea. E’ importante chiarire come il militarismo e la logica imperante dell'economia di guerra fungano da acceleratori della contaminazione ambientale e dei cambiamenti climatici in corso, nonché delle minacce della sicurezza globale e dell'ingiustizia sociale. Reagire a questa realtà di degrado complessivo contribuisce a far crescere una cultura politica e sociale che riaffermi la centralità di una rinnovata alleanza tra esseri umani e natura. “Dirottare risorse dal mondo fossile a quello pulito”, è la riedizione o la reiterazione complementare di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Lo spostamento di investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica è un’urgenza assoluta. Va ricordato che con le scelte o le non scelte che oggi faremo (o che lasceremo fare) in difesa o meno della comune umanità sarà costruita la qualità del futuro, da cui nessuno potrà neanche volendo sfuggire.

Il diritto “di” pace è l’opposto del diritto che vige in guerra e che riguarda l’uguaglianza e la giustizia sociale senza cui non c’è “pace” possibile, né in ambito nazionale né in quello internazionale. Nel caso della pace e nella formulazione dell’articolo 11 emergono quei diritti naturali e inalienabili dell'uomo che vengono posti dalla Costituzione prima dello Stato e dell'ordinamento. Emerge quindi una considerazione non nuova: che il principio di maggioranza non sempre è di per sé coincidente con il principio di democrazia.

Guerre per il petrolio, guerre per l'acqua, guerre per la terra, guerre per l'atmosfera: la scarsità di risorse e il loro rapido deterioramento sono all’origine di conflitti di così devastante impatto sulle condizioni di vita da provocare ondate di emigrazioni. Il degrado di materia vitale alla massima velocità (i processi naturali non ricorrono a forme di combustione) e con un impiego inusitato di energia (le esplosioni richiedono che la trasformazione energetiche si consumino nel più breve lasso di tempo possibile) trascende le potenzialità della natura e impedisce una rigenerazione della vita in dissintonia con i tempi della natura. Per semplificare: quanto più elevata sarà la densità energetica di una bomba, (termica chimica o nucleare), tanto più lunghi saranno i tempi di bonifica del territorio distrutto. L' impronta ecologica della guerra rende tanto più stringente per i popoli il “diritto della pace”, certamente più integrale del “diritto alla pace”. “Per conquistare la pace si deve abitare la Terra con leggerezza, distribuire le sue risorse vitali in modo equo, mantenere lo spazio ecologico delle comunità” (W. Sachs). C’è piena coerenza tra Laudato Sì e disarmo. E' indispensabile e urgente lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate in grado di garantire la Pace attraverso il disarmo integrale, la salvaguardia dell'ambiente, la sicurezza alimentare, l’accoglienza per regolare i flussi migratori.

Si stima che il solo Pentagono produca il 5% della CO2 globale, un valore che supera quello complessivo di diversi Paesi. La produzione di CO2 dell'insieme dei sistemi militari mondiali potrebbe ammontare al 15% della CO2 totale. (Oltre metà della quale imputabile ai 29 paesi della NATO). Il settore militare è esente (non viene contabilizzato!) da obblighi stabiliti alle convenzioni internazionali per il clima.

Il Nuovo Modello di Difesa presentato nel 1991 prevede la difesa armata degli interessi italiani ovunque nel mondo, in piena violazione dell'art.11 della Costituzione: spinge quindi verso l'acquisizione di sistemi d'attacco e di proiezione a lungo raggio e mortifica la corretta applicazione della L. 185/90 sulla esportazione di armi (L.185/'90). Va contestata la nostra presenza nella NATO: la sua spesa militare vale il 52% di quella mondiale e non è più statutariamente una alleanza solo difensiva. La UE deve rinunciare a capacità di proiezione militare all'estero, adottando un modello strettamente difensivo, non nucleare, nel rispetto dello Statuto ONU, che sola può, come ultima ratio, usare la forza militare per riportare la pace.

Un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle macchine è l’utopia del socialismo del Novecento. Negli ultimi quarant’anni le telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del suo possesso per altri. Si tratta di un “furto di tempo”, senza la cui comprensione si perde la pienezza del valore sociale del lavoro. Anche i tempi di vita, di ozio, di apprendimento sono oggetti di esproprio, al punto che il riscatto del “tempo proprio” rappresenta forse l’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni nostri. La colonizzazione del tempo maschera molti conflitti. Possedere e dominare il tempo – lavoro e ozio, orario vincolato e tempo libero - così come una volta possedere e dominare lo spazio, corrispondono, nel senso comune, ad una manifestazione di successo e di supremazia politica e sociale, mentre subire un imponente meccanismo di controllo e sequestro del tempo - saturato, accelerato, compresso, spiato, sprecato, ormai al di fuori di qualsiasi forma di negoziato – fa parte dell’affermazione di uno stile di vita imposto e passivamente accettato, contraddistinto dal consumo e dallo spreco. La natura, al contrario dell’impresa, sceglie, tra i vari concepibili modi di realizzare le sue azioni, la traiettoria più economica dal suo punto di vista, che è quella della minimizzazione dell’energia. Avvengono così delle scissioni irreparabili tra mondo artificiale e naturale, tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio e viene infranta definitivamente l’armonia tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro. Riappropriarsi del tempo ha anche una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di potere maschile. Siamo di fronte ad un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro, che accelera il degrado del mondo naturale. L’enorme “dividendo” che si ottiene a spese della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, deve essere restituito alla natura conservando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente sostenuta dell’orario di lavoro.

Nasce la necessità di uno spazio di educazione alla bellezza per sfuggire alla razionalità del calcolo utilitaristico volto al profitto. Il Capitolo II dell’Enciclica Laudato Sì, cerca nella tradizione ebraico-cristiana la radice di una possibile ecologia integrale fondata su una cultura del limite del potere umano.
Il sostrato morale della bellezza del paesaggio agrario storico italiano, non scaturisce da una progettazione a tavolino, ma da un processo produttivo virtuoso. La compresenza di tutte le coltivazioni – antesignana dell’agricoltura “a chilometro zero” – la rotazione sistematica delle coltivazioni stesse e il riposo periodico della terra danno infatti vita a un sistema complesso che, in quanto tale, assume una valenza figurativa equivalente e complementare a quella degli insediamenti urbani storici. Dobbiamo fare appello a percorsi di rigenerazione urbana consapevoli di “come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro” (Laudato si’,152). Essenziale è però coordinare le azioni di resistenza in un “paradigma ecosistemico”, da contrapporre a quello “tecnocratico dominante”. Coniugare solidarietà e innovazione è la grande sfida che ci si para innanzi.

Aggiunte finali del curatore

Il “diritto di pace”, riguarda una concezione del diritto attributiva ai popoli del potere di “autodeterminazione” e conferma il ruolo antagonistico della “sovranità popolare” rispetto al ruolo dell’élite economico-politiche dominanti. Rompere la Costituzione delle Repubblica antifascista e di democrazia-sociale “fondata sul lavoro” e sul diritto “di” pace, è di fatto una rottura di grandi proporzioni, in quanto limita la sovranità popolare che ha la sua rappresentanza nel Parlamento, non nel Governo.

Se non ci si rifà all’articolo 11 nella sua interezza, nel migliore dei casi quello della pace è un concetto assai relativo che suscita in ciascuno di noi immagini differenti e assume significati diversi a seconda della persona, del luogo e del tempo, un ideale, insomma, che di volta in volta diventa reale soltanto in un determinato contesto. L'anelito di potere e ricchezza, sia esso individuale o collettivo, se non viene mantenuto entro certi limiti mediante valori più elevati, finisce per condurre facilmente all'insoddisfazione, alla corruzione e alla guerra. Oggi al conflitto si aggiunge una nuova dimensione: consumiamo gli elementi naturali, l'aria, l'acqua, la terra, la flora e la fauna da cui dipende la vita tutta e quelle delle generazioni a venire.

Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza è quello per cui il Governo garantisce la sicurezza sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.

Negli anni del secondo governo Berlusconi il Parlamento italiano approvò la legge 30 marzo 2004, n.92,
 «Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti
 degli infoibati». Iniziò molto presto - come controcanto alle manifestazioni della destra neofascista e nazionalista - la civile e necessaria protesta delle voci più riflessive.

Il primo intervento critico fu forse quello di Corrado Staiano con un articolo sull'Unità, dal titolo emblematico: La memoria e gli avvoltoi. L'indignazione per la pesante mistificazione dei fatti ci spinse a raccogliere su eddyburg documenti che rivelassero ai frequentatori del sito la verità. Qui alcuni dei più rilevanti, raccolti nella cartella Italiani brava gente:

Si legga Foibe, la dignità di un dolore corale di Pre­drag Mat­ve­je­vic (il Manifesto, 2014) sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", La storia intorno alle foibe del collettivo Nicoletta Bourbaki, che ha chiesto a sette storici di rispondere alla domanda: In cosa consiste la “più complessa vicenda del confine orientale”? (Internazionale, 2017), e il mio articolo A proposito di un discorso monco del presidente Mattarella (eddyburg, 2018).

Nell'ultimo rapporto Oxfam "Public good or private wealth?" è illustrato come nel suo sviluppo più recente il sistema capitalistico accresce le diseguaglianze e prosegue nel privilegiare i già ricchi e a colpire fino alla disumanità le persone e le condizioni economiche e sociali più deboli, in primis le donne. Il sistema fiscale lungi dal ri-equilibrare le diseguaglianze, invece le accresce.

L'obiettivo di questo rapporto è quello di mettere in evidenza l'ineguagliabile potere che servizi pubblici universali come quelli per l'istruzione e la salute, così come la difesa dei diritti, potrebbero avere nell'affrontare la povertà e ridurre le disuguaglianze.
Il rapporto contiene una sintesi e una serie di capitoli in cui analisi e raccomandazioni sono invece approfondite. Oltre alle diseguaglianze sociali ed economiche mette in evidenza come progressivamente "i Paesi in cui Oxfam lavora eliminano gli spazi di libera espressione per icittadini e sopprimono la libertà di parola. CIVICUS, un’alleanza che si adopera per ilrafforzamento del ruolo dei cittadini, rileva che in oltre 100 Paesi le libertà civili sonoseriamente minacciate".

Del rapporto è stata redatta una versione in italiano "Ricompensare il lavoro, non la ricchezza" che traduce in parte i contenuti di quella originale.

Nell'edizione originale del rapporto, ma non ripresa nell'edizione italiana e né nei media, un capitolo è dedicato alla minaccia che il debito pubblico esercita sulle politiche e scelte di bilancio dei paesi debitori, in particolare quelli dell'Africa Sub Sahariana, ma non solo.
Eddyburg ha più volte affrontato questo tema e l'importanza di uscire dalla trappola del debito, che costringe i paesi debitori a ridurre le spese sociali e ad aumentare la dipendenza dai paesi creditori o dal sistema finanziario internazionale. Si legga ad introduzione del tema e dell'obiettivo di rompere la trappola del debito "Come decostruire l’ideologia del debito". Sulla situazione italiana si veda anche "Sveliamo il trucco del Grande Debito" e "Città libere dal debito: una giornata importante" di Marco Bersani, e il dibattito tra Edoardo Salzano e Roberto Camagni "Discutiamo del debito pubblico".

lacittàfutura.it, 8 dic 2018. Qui, ulteriori riflessioni sul pacchetto sicurezza, che non solo attacca ai diritti elementari dei migranti ma anche quelli di tutti noi. Sulla paura e la repressione promosse da questa legge si legga inoltre un articolo di eddyburg. (i.b.)

comune-info.net, 12 gen 2018. Seppellito sotto un mare di dollari l'art.11 della costituzione: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli [...]". Sono made in Italy gli destinati a ospitare i droni killer americani usati usati nelle guerre nel Corno d’Africa e nello Yemen. Qui la notizia. (a.b.)

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