L'intervento che l'autore non ha potuto svolgere alla riunione della Direzione del suo partito, il PD. Un'ulteriore, splendida analisi delle ragioni per cui il partito di Renzi è quello che è. In calce il mio commento (e.s.).
Di seguito l'intervento che avevo preparato per la Direzione del PD sull'analisi del voto. Purtroppo non è stato possibile pronunciarlo all'assemblea del 4 Luglio 2016.(W.T.)
C'è un aspetto surreale della nostra campagna elettorale; mai si era visto finora un partito impegnato in due diverse consultazioni popolari. Mentre i candidati e i militanti combattevano nelle città, il PD nazionale si mobilitava per un referendum che si terrà in una data imprecisata. La sovrapposizione non ha portato voti, ma ha contribuito a unire gli avversari. L'anticipazione del referendum sembrava un tentativo di oscurare le amministrative, perché non turbassero la narrazione del leader vincente. Meglio sarebbe stato provare a vincere nelle città con l’impegno del leader.
All’assemblea romana del PD, prima del ballottaggio, proposi di rafforzare Giachetti nelle periferie affiancandolo con Renzi, che così avrebbe potuto spiegare al popolo il “cantiere sociale” di cui ci ha parlato oggi. Sulla mia proposta calò il silenzio imbarazzato dei dirigenti locali. Mi rispose un giovane renziano sostenendo che la presenza del segretario ci avrebbe fatto perdere voti. C’è voluto il candore giovanile per svelare il problema politico delle amministrative.
È un errore di provincialismo continuare a sottovalutare il voto nelle storiche capitali italiane: Torino, Napoli e soprattutto l’umiliante sconfitta di Roma. Se ne è parlato sui giornali di tutto il mondo, ma qui si fa finta di niente; la lunga relazione introduttiva ha glissato e anche Orfini ha parlato in generale, dimenticando il ruolo di Commissario del PD romano. L'unica menzione è nel triste riferimento sessista di De Luca alla sindaca Raggi.
Nella campagna elettorale alcuni hanno hanno preso sul serio la priorità referendaria, fino a promettere la riforma del bicameralismo a quei cittadini che chiedevano pane e lavoro. E come biasimarli, d’altronde? Da tanto tempo i politici che non sanno governare il Paese attribuiscono la colpa alla Costituzione. L’ossessione ormai trentennale nel modificare la Carta non trova paragoni in nessun paese occidentale, è una patologia solo italiana. È stato il sogno della nostra generazione, ha ricordato Franceschini; direi meglio, è stata la fuga onirica dalla realtà del Paese. La nuova generazione doveva cambiare verso e invece scopiazza maldestramente i progetti di Aldo Bozzi, di Ciriaco De Mita e di Massimo D’Alema. Si adottano vecchie soluzioni ormai travolte da nuovi problemi. Si applica il modello Westminster quando il bipolarismo non funziona più in nessun paese europeo. Si concentrano i poteri sui governi, proprio mentre perdono la fiducia dei cittadini e non vengono quasi mai rieletti. Si aumentano i premi di maggioranza per compensare gli elettori che non votano, così voteranno sempre di meno.
Con l’Italicum e la revisione costituzionale viene meno la saggezza, sia nella politica che nelle istituzioni. Si crea la possibilità di un leader aggressivo che, con il sostegno del 20% dei cittadini, arrivi a conquistare il banco e modificare le regole fondamentali.
Si poteva fare meglio? Certo, seguendo un percorso diverso. Poco fa abbiamo rivisto sullo schermo il discorso di Napolitano al Parlamento per la sua rielezione. Quel giorno c'ero e non l’ho applaudito. Perché trasferiva in una crisi costituzionale quella che era invece una crisi politica del Pd, incapace di eleggere il suo fondatore al Quirinale. Si doveva tornare al voto al più presto, approvando la nuova legge elettorale basata sui collegi, c’erano anche i numeri alla Camera e al Senato. Invece si avviò la revisione costituzionale per legittimare governi sprovvisti di mandato popolare e per tenere in vita un Parlamento eletto con legge incostituzionale.
Le Costituzioni non devono scriverle i governi, altrimenti durano poco e alimentano la discordia nazionale. Era già accaduto nel 2005 con la destra, e nel 2000 con la sinistra. Avevamo promesso di non farlo più, ma ripetiamo l’errore.
Voterò No al referendum per aprire la strada a una riforma più saggia e più condivisa. E per cambiare le priorità, nonché l'asticella del leader.
Il Presidente del Consiglio non dovrebbe drammatizzare l’esito referendario. Da troppo tempo si creano emergenze artificiose per imporre scelte sbagliate. Invece, il segretario fallirebbe il suo compito se non riuscisse a cambiare il Pd come aveva promesso nelle primarie.
La crisi italiana non dipende dall'ingegneria istituzionale, ma dalla sfiducia nei partiti. La prima riforma costituzionale è la riforma della politica. Proprio con questa ambizione avevamo fondato il PD, ormai quasi dieci anni fa. Possiamo dire di aver realizzato le speranze di allora?
Avevamo immaginato il partito degli elettori, ci ritroviamo il partito degli eletti. Volevamo costruire una moderna forza popolare, siamo stati spiantati dalle periferie italiane. Volevamo rinnovare la classe dirigente, non abbiamo candidati vincenti nelle grandi città.
Il PD che sognammo non è mai nato, è cresciuta invece una filiera di notabili, chiusa in se stessa, senza anima e senza progetti. Quando amministra bene, come a Torino, non riesce a rappresentare né le speranze né i lamenti della gente. Quando delude gli elettori, come a Napoli e a Roma, non ha né l’umiltà né il coraggio per riconquistare la loro stima. Dopo Mafia Capitale bisognava dimostrare di aver capito la lezione. Almeno l’umiliazione si poteva evitare, promuovendo una lista civica del centrosinistra, mettendo a disposizione le nostre forze migliori per ricostruire una classe dirigente competente e autorevole. Invece, il ceto politico locale ha conservato se stesso e ha puntato l’indice sui circoli, mortificando i militanti e scambiando gli effetti con le cause.
Eppure dovremmo essere orgogliosi del volontariato, dell’impegno civile e del buongoverno di tante democratiche e democratici. C’è voluta una rivista americana per valorizzare il capolavoro del nostro sindaco di Riace che ha rigenerato il centro storico accogliendo i migranti. Le migliori risorse del Pd non sono ancora state messe a frutto.
Se non abbiamo realizzato quel sogno di dieci anni fa, nessuno qui può sottrarsi alla responsabilità: né i dirigenti attuali, né quelli precedenti. Riconoscerlo sinceramente aiuterebbe a superare una dialettica interna spesso ripetitiva e propagandistica. Nessuno di noi può essere contento di come funziona questa assise. La minoranza si sente inascoltata e reitera le sue critiche, le quali servono alla maggioranza per compattarsi in un velleitario Avanti Savoia, eludendo l’onere di un’autonoma spiegazione delle cose che non vanno. Temo un congresso che aggiunga solo le percentuali a un conflitto sterile. Meglio sarebbe un compromesso generativo. Sì, proprio compromesso, la bella parola dei grandi politici, tanto vituperata dai piccoli politici. E generativo di ambizioni e di impegni condivisi.
Primo: costruire il partito come luogo della cittadinanza attiva, della cultura delle riforme e dell’educazione dei giovani. Secondo: riconquistare la fiducia popolare con nuove politiche sociali per il lavoro e l’eguaglianza. Terzo: prendere la guida della malmessa sinistra europea, non solo con le ottime iniziative nel Parlamento europeo e della diplomazia governativa, ma con una mobilitazione culturale e sociale nel continente.
Oggi il PD è la forza che può cambiare l’Italia, influire sull’indirizzo europeo e contribuire alla pace nel mondo. La responsabilità che portiamo sulle spalle è enorme. Siamo orgogliosi delle buone cose realizzate, ma consapevoli che dobbiamo cambiare noi stessi per essere all’altezza del compito. Lo dico agli amici della minoranza, non è tempo di chiudersi in una riserva. Lo chiedo alla maggioranza, non è tempo di vivere sugli allori. Tutti insieme dovremmo rivolgerci agli elettori e ai militanti che ci hanno abbandonato per comprenderne le ragioni. Il primo passo spetta a Matteo Renzi, domandando prima di tutto a se stesso che cosa non ha funzionato. I leader nascono con le proprie certezze, ma diventano grandi attraversando il dubbio dei vincitori.
il commento che ho rilasciato sul blog di Walter Tocci:
Caro Walter, ancora una volta ti declino il mio pensiero, a partire dall’incipit di Dora Markus: “non so come stremato tu resisti” in questo lago di nefandezze politiche che tu da anni analizzi con rarissima lucidità e palese sofferenza. Non so come stremato resisti a coprire, con la tua presenza, la politica di una ex sinistra ormai interamente riplasmata, in ogni sua molecola, dal morbo del neoliberismo. Non so, e perciò soffro. Con affetto e.s.
Nelle democrazie consolidate «il popolo» e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il voto per vendicarsi. La vendetta riguarda le sconfitte economiche/politiche e l’emarginazione sociale subite senza potersi difendere. Per difendersi avevano bisogno di rappresentanti all’altezza dei loro bisogni sotto scacco e che avessero un’alternativa alla crescente deindustrializzazione, alla flessibilità del lavoro, alla ghettigazione urbana. Rappresentanti che nei governi locali, nelle istituzioni nazionali e transnazionali avessero una politica contrapposta all’altra in corso.
E cioè alla politica che ha abdicato al suo ruolo e si fa suggerire dall’economia come democraticamente realizzare le esigenze dell’economia. Esigenze di valore universale: meno lavoro operaio significa un minor prezzo del bene prodotto e dunque un vantaggio anche per l’operaio che ha perso il lavoro.
Il mercato unico e l’appuntamento elettorale son divenute una sorta di brevetto di legittimazione di come si deve stare nel mondo. È poi quel mondo in cui il dito viola dell’elettore analfabeta e il degrado di città come Detroit o Manchester o Bagnoli testimoniano la guerra combattuta, vinta dagli uni e persa dagli altri. Coloro che l’hanno vinta si son resi conto che potevano vincerla quando hanno capito di non avere più avversari. E anzi che il loro governo del mondo era accettato da chi nel passato lo combatteva in campo opposto.
The unipolar moment è stato giustamente esaltato dai neo-conservatori di George Bush come la fine di una cogestione dello stato delle cose nel mondo. L’esaltazione conseguiva dalla dissoluzione dell’avversario, dalla sua sparizione non solo dal terreno geopolitico ma anche dal cielo teorico. Le idee «contro» sono state le prime a sparire, sostituite da proposte «per» che nel breve periodo si sono adeguate alle strategie di potere di chi aveva in mano le carte vincenti. E la partita si avvaleva di sofisticati mezzi di comunicazione politica che la identificava come la partita di tutti per il progresso e la libertà politica per tutti. È stata la partita che gli avversari di ieri hanno fatto vincere senza combattere. E l’hanno fatta vincere perché avevano smarrito le coordinate di ieri: era meglio difendere il lavoro dell’operaio o il diritto del consumatore?
L’interrogativo avendo a che fare con l’economia, è stato di per sé una messa in non cale della politica. Della politica progetto con programmi per i rappresentati e percorsi di realizzazione dei programmi per i loro rappresentanti. Difatti quell’interrogativo era già oltre le coordinate di ieri, non vi erano più due campi concorrenti, avversari, nemici. Sull’unico campo visibile vi era l’interesse comune per il bene comune, identificabile con etichette da considerare sacre come globalizzazione e democrazia.
Guai ad avere dubbi sulle conseguenze dell’una o sulla praticabilità dell’altra. Il rischio minimo è l’accusa di non saper accettare la morte delle ideologie, la fine dei partiti di massa, il superamento delle lotta di classe, anzi delle classi. Rimane consentito – seriosissimamente – indagare sulle diseguaglianze di reddito, su ricchi e poveri, sul ritorno da protagoniste delle èlite, sul loro rapporto con le masse. Un rapporto che ridà consistenza alla democrazia plebiscitaria, a quella diretta, a quella referendaria. Un rapporto che nessuno si azzarda a riconoscere (ed averne paura) come il principale effetto della sconfitta subita allorchè si è rimasti senza più idee «contro». Nessuno più si aspetta che esistano ancora idee differenti da quelle messe sugli altari dagli uomini del potere economico transnazionale. È in questo spazio che va inserito il voto di vendetta espresso in diverse occasioni e luoghi.
La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato. Per i giovani è un voto contro i padri che si sono arresi e per chi si è arreso è un voto contro chi non li ha fatti lottare.
P.S. Le disquisizioni sul populismo di destra e di sinistra sono per coloro che lo studiano.
I risultati elettorali impongono alle forze di sinistra una riflessione critica non facile e che proseguirà nei prossimi mesi. Da anni si lavora per la costituzione di un nuovo soggetto politico di sinistra capace di colmare il vuoto che separa milioni di persone dai partiti di governo. Un vuoto che si esprime sia in un astensionismo crescente ad ogni tornata elettorale sia in un disorientamento nelle scelte da compiere.
Al fondo c’è un malessere sociale diffuso in ampi strati della popolazione ma che sembra non trovare sbocco in un progetto di trasformazione sociale e politica in grado di interpretarlo adeguatamente. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi. E per trovare elementi di spiegazione utili occorre risalire alla fine degli anni ’90 ed alla rottura che allora si consumò con quel che restava del riformismo e della tradizione socialdemocratica europea.
La frattura si espresse nella «terza via» teorizzata da Tony Blair, nel «nuovo centro» proposto da Gerhard Schröder, contrassegnò i ripiegamenti dei socialisti francesi e provocò la crisi del secondo centro-sinistra in Italia.
Nell’ultimo decennio l’ulteriore rafforzamento e concentrazione del sistema di potere dominante ha imposto un appiattimento ancor maggiore degli equilibri politici. I governi di coalizione o di pseudo-alternanza in vari paesi europei hanno accentuato il vuoto di proposte politiche alternative. Si aggiungano politiche di rigore a senso unico, flessibilità del lavoro, tagli alle spese sociali predicate dall’Unione europea e diligentemente adottate dai governi degli stati membri, e ci si renderà ragione di quella sorta d’ingabbiamento politico dal quale sembra difficile uscire.
Occorre chiedersi se sia sufficiente che un raggruppamento politico elabori un programma di cambiamento, per quanto articolato e corrispondente a bisogni reali, e lo propagandi diffusamente per far convergere su di esso un ampio consenso da tradurre in voti e, per questa via, modificare l’assetto politico. L’esperienza dimostra che programmi del genere possono risultare inefficaci.
In altri termini, non si può pensare di svolgere un’azione politica efficace per via “pedagogica”. Quando si è davanti a vasti strati di popolazione che, già di per sé passivi, sono sfiduciati e distaccati, gli appelli all’impegno politico sono destinati a cadere nel vuoto. La strada da percorrere sembra piuttosto quella di far riferimento a quei settori della popolazione che sono politicamente attivi e in movimento.
Basta ricordare come sono nati i sindacati di massa e i primi partiti socialisti nell’Europa di fine Ottocento. Da tempo esistevano gruppi socialisti di varie tendenze, ma la loro azione a lungo ebbe un seguito assai limitato. Però quando masse di operai e contadini, colpiti dai duri effetti della seconda rivoluzione industriale e dalla più decisa trasformazione capitalistica delle campagne furono costretti ad auto-organizzarsi per difendersi e resistere, allora e solo allora alcuni gruppi socialisti riuscirono a collegarsi con lavoratrici e lavoratori che erano già in movimento.
L’insegnamento che viene da quella e da altre fondamentali tappe della storia del socialismo in Europa consiste appunto nel fatto che gruppi, o «avanguardie», promotori di mutamenti sociali e politici hanno raggiunto dimensioni di massa quando sono riusciti a interpretare bisogni e rivendicazioni espressi da movimenti in essere.
Anche oggi la sinistra europea deve cercare la connessione con soggetti sociali già attivi. Basta guardarsi intorno. In Italia, come in altri paesi, vi sono centinaia di associazioni e movimenti auto-organizzati che si battono per vari obiettivi politici e sociali. Si va dalla difesa dei diritti umani alla salvaguardia dell’ambiente, dalla lotta contro le discriminazioni di genere a quella contro la precarietà del lavoro, dai movimenti in difesa della scuola pubblica a quelli contro i tagli alla sanità. Le numerose lotte per i diritti dei lavoratori non di rado si sono consolidate in organizzazioni durevoli che si affiancano o competono con l’azione dei sindacati tradizionali.
Sempre più numerose e di varia ispirazione sono le associazioni che si mobilitano in difesa dei diritti degli immigrati e per politiche di accoglienza. Altrettanto significativo è l’impegno di quanti militano in associazioni pacifiste, per debellare fame e malattie endemiche nei paesi più poveri. O nelle organizzazioni in difesa dei beni comuni o della stessa Costituzione.
Molte di queste organizzazioni svolgono la loro azione in modo implicitamente o esplicitamente alternativo alla mappa degli interessi, poteri e politiche dominanti. Con tratti d’unione potenziali o in atto tra i diversi movimenti. Realtà testimoniata anche dal fatto che molte persone militano in più movimenti e organizzazioni di questo tipo. D’altra parte, non c’è dubbio che le rivendicazioni e gli obiettivi perseguiti attingono a livelli di consapevolezza politica decisamente alti. Né si può trascurare minimamente il fatto che molte di queste organizzazioni hanno carattere internazionale o si collegano ad omologhe attive in altri paesi. È a questi movimenti che occorre guardare. È con essi che si può e si deve cercare la saldatura comprendendone la maieutica e le nuove forme di espressione politica.
In che modo è avvenuto il coagulo di movimenti come gli Indignados spagnoli poi sfociati nella formazione di Podemos? Come è lievitato il movimento di Occupy Wall Street e come si è intrecciato ad altri fino a costituire la base più attiva dell’elettorato di Bernie Sanders nelle primarie americane? E da dove nasce la forza insospettata e irriducibile del movimento di protesta contro la Loi Travail in Francia? Perché nulla di simile si è verificato nel contrastare il Jobs Act italiano, che pure è decisamente peggiore?
Auto-organizzazione, trasversalità, maieutica dei movimenti ci sembrano elementi da cui non si può prescindere se si vogliono innescare processi di trasformazione in una società in cui i vincoli sembrano prevalere sulle possibilità.
postilla
La metà degli italiani (tra astenuti e voti M5S) ha votato contro il sistema e gli uomini che si riallacciano alle sigle della sinistra novecentesxa. Non è forse arrivato il momenti di abbandonare tutte le croste del passato per cercarne l'anima, e ritrovarla in un nuovo modo di fare politica? Per esempio, Podemos
Il manifesto, 15 giugno 2016, con postilla
Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano.
2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate). La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili.
3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione.
Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può.
Per almeno tre buoni motivi:
a) Il Movimento 5Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia;
b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì);
c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no.
4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e preparare un governo di centro-sinistra, ragionante e solidamente strutturato, nel nostro paese.
Ma chi è l’avversario attualmente più solido e autorevole della formula di governo denominata di centro-sinistra, almeno in Italia? Anche qui la risposta non è difficile.
E’, senza ombra di dubbio, Matteo Renzi, che è, come noto, l’attuale segretario del Pd, oltre che capo di un governo tendenzialmente più di centro-destra che di centro-sinistra.
La cosa è tanto paradossale, e anche scandalosa, in quanto la linea renziana è stata portata avanti con una situazione sostanzialmente favorevole alle Camere solo perché essa è stata creata con una proposta elettorale (appunto) di centro-sinistra. Per realizzarla, dunque, è stato necessario rovesciarla; e questo è stato possibile solo perché siffatta maggioranza si è adeguata senza sostanziale resistenza al mutamento, e con essa la maggioranza del partito, ossia del Pd. E allora?
5) Allora, è evidente che una linea di centro-sinistra può essere restaurata e praticata solo battendo Renzi nei suoi punti più vitali, che sono anche quelli cui lui attribuisce più importanza. E’ possibile?
Osserverei questo. La linea Renzi, e quindi l’abbandono di una prospettiva di governo di centro-sinistra, sta chiaramente portando il paese, non solo a una sconfitta personale del Capo, ma ad una vera e propria catastrofe politica, istituzionale, economica e sociale: di cui altri, non la cosiddetta sinistra, ma una destra sempre più estrema, oltre che, ovviamente, il Movimento 5Stelle, si affretterebbero a giovarsi (come appunto sta già accadendo).
A mio giudizio questa consapevolezza si sta sotterraneamente diffondendo, al di là della sfera, attualmente un po’ limitata, della nostra sinistra: nei grandi giornali d’informazione ne sono già comparsi i segni, e persino in qualche snodo della maggioranza (come sempre in Italia sono i vecchi democristiani ad aver fiutato il vento che cambia). Sembrava che fosse un condottiero instancabile e infallibile. E se fosse un perdente predestinato? Ha organizzato tutto per stravincere: e se per gli stessi motivi, come è sempre più probabile, fosse destinato alla più sonora delle sconfitte?
6) E’ evidente che la battaglia decisiva è quella sul referendum: anch’essa non priva di ambiguità, se è vero che a ottobre, per la prima volta in vita nostra, voteremo insieme con la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tuttavia, bisogna assolutamente ottenere che al referendum vinca il no.
Anche se più decisiva ancora del referendum costituzionale risulta per noi (noi sinistra) la nuova legge elettorale, l’Italicum. Sempre più lampante appare infatti che essa sia pensata, più che altri motivi, appositamente per rendere impossibile perfino sul piano istituzionale l’alleanza di centro-sinistra.
Cambiare l’Italicum significa dunque, non soltanto assicurare al voto, in generale, migliori garanzie di correttezza istituzionale: ma rendere di nuovo possibile la prospettiva dell’alleanza di centro-sinistra. Del resto in Italia chi pensa di poter fare da sé, e fa da sé, spesso “ruina“. Nella storia recente è già accaduto almeno una volta.
7) Il problema ora è: come si arriva, se possibile, ordinatamente e ancora in forza, al voto di ottobre, e non in una situazione d’irrimediabile, – ripeto: irrimediabile, – catastrofe? Qui le strade, me ne rendo conto, si separano.
Io penso che lavorare ora (ballottaggio delle comunali) per abbattere, o, peggio, contribuire ad abbattere Renzi sia un errore.
Per arrivare a ottobre in condizioni di sopravvivenza (parlo in questo caso anche della sinistra strettamente intesa), e garantire la possibilità dell’unico passaggio positivo possibile, occorre che non prevalgano gli avversari più potenti e determinati della prospettiva di centro-sinistra, e cioè la Destra (sempre più estrema) e il Movimento 5Stelle.
E occorre che il Pd, – attualmente di Renzi, ma domani chissà, non si disgreghi, non si disgreghi letteralmente sotto il peso di una clamorosa sconfitta, prima di essere messo in grado di riprendere la strada violentemente interrotta.
Perciò io penso che i candidati Pd alla carica di sindaco, ovunque, ma soprattutto a Milano, Torino e Roma, vadano votati nelle consultazioni di ballottaggio (Napoli e, sul versante esattamente opposto, Sesto Fiorentino sono casi totalmente anomali, che non possono essere collocati all’interno di questa casistica).
Ma: nel caso che il voto dia in questo senso un esito positivo, non potrebbe Renzi vantarsene per rafforzare la sua posizione? Sì, certo potrebbe.
Ma ho già scritto in passato su questo giornale che ogni battaglia per la sinistra è sempre, di questi tempi, double face. In ogni occasione, e ad ogni snodo, bisogna scegliere nell’immediato il male minore, o, in prospettiva, e se ci si riesce, l’opportunità migliore e più desiderabile.
Io direi che, in questo caso, puramente e semplicemente, non ne esiste un’altra.
postilla
Da molti lustri siamo entrati in un mondo che è radicalmente nuovo rispetto al passato. Il capitalismo di oggi ha ben poco a che fare con il capitalismo di ieri: ieri gli sfruttati erano le classi lavoratrici, oggi sono la maggior parte dell'umanità. La colpa maggiore della sinistra novecentesca è stata quella di non averlo compreso e di aver tradotto la politica a mero gioco per il potere. Le ricette (e le etichette) della sinistra novecentesca non servono più: serve comprendere le verità che aveva elaborato nel suo percorso storico, e serve comprendere come possono reincarnarsi nel mondo di oggi. L'intuizione felice l'aveva avuta proprio Alberto Asor Rosa quando aveva scritto «La sinistra del futuro o sarà rossoverde o non sarà» (il manifesto, 30 aprile 2005). Se questa sinistra esistesse non potrebbe costruire nessuna alleanza con una formazione, una strategia e un'ideologia come quella della quale Matteo Renzi e il renzismo sono l'espressione.
P.S. Cercando su eddyburg (e non trovando) l'articolo di AAR del 2005 ho trovato invece uno scritto di Giuseppe Chiarante che mi sembra utile riproporre oggi: Perchè è finito il PCI (e.s.)
L’arruolamento postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei comunisti che hanno fatto la storia di questo paese.
Da ragazzo era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la Serbia.
Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che vuole «ripensare e rinnovare la sinistra».
Dell’uso dei grandi del Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è stupito.
«È significativo che per giustificare la propria condotta si ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma, che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è grottesco prima che rozzo».
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così?
«Ma per Berlinguer e Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta».
Perché il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo, per legittimarsi?
«Perché sente che una parte del paese, della sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i più giovani berlingueriana, come Cuperlo».
Ma fra gli ex Pci c’è anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi.
»Il Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo.
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione.
«Quando ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della Costituzione.
«E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione, quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci.
Ma l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che «la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie. Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva l’altra ed entrambe si garantivano.
«Da qui anche la posizione dell’Anpi: le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non sono lontane. E l’Austria è al confine».
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni?«C’è chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i conservatori e i reazionari.
Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare la Costituzione».
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha?
«Nella satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo. Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e di potere legislativo rispetto all’esecutivo.
«Il documento della JP Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni antifasciste«.
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum. Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche certo che li raccolga lui e il suo Pd.
«Infatti, il sistema delle garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato.
«Anche per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra. Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto difficile.
«Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce n’erano due.
«Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale.
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici.«Forse lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair, che è un fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario.
«In ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva.
«Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi vince ha ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi pensa di poter piegare il mondo a piacimento.
Il pensiero critico non vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al mondo così com’è.
Precisazione del 3 giugno 2016
Nella sintesi della conversazione con me, pubblicata sul manifesto in edicola, è saltata una piccola frase là dove si accenna alla necessità di una rinascita della sinistra. Segnalavo che l’assemblea costitutiva della Sinistra italiana era iniziata con un utile ripensamento culturale.
Aldo Tortorella
. Il manifesto, 2 giugno 2016 , con postilla
Nel non senso della politica italiana e particolarmente romana, la domanda pubblica posta da Asor Rosa appare quantomeno (ma non soltanto) salutare: si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza?
La domanda è così pertinente (dati i tempi) che forse accanto ai noti candidati sindaci: Meloni, Giachetti, Marchini, Raggi, e Fassina (che merita un discorso a parte come tenterò di dire oltre), nei talk show nostrani ne dovrebbe comparire un sesto il quale, appunto, dovrebbe rappresentare la domanda di Asor Rosa.
La tanto gloriosa Roma appare, come recita il libro di De Lucia ed Erbani, non più una città tanto il degrado fisico, urbanistico, morale, sociale e politico si è aggravato. Quasi ci sarebbe da chiedersi perché ci ostiniamo a vivere in questa città nonostante sia ormai quasi impossibile attraversarla da una parte all’altra senza affrontare i rischi, le sofferenze e i disagi di un avventuroso viaggio in un qualche paese straniero sconsigliato ai turisti. E non c’è nemmeno più il bisogno di dimostrare questa impressione tanto essa è diventata luogo comune, sensazione diffusa e generale (basta aspettare il bus in un giorno di festa o in un qualsiasi giorno di sera, che non arriverà).
A sentire i candidati sindaci, risolvere i problemi citati e arcinoti è semplicissimo: basta fare questo o quello e voilà i problemi spariscono, senza che nessuno di essi riesca però a spiegare perché fino ad oggi non si sono fatte queste o quelle cose (buche docet). Insomma manca un progetto (nel senso nobile del termine) per questa città e un candidato che comunque possa esprimerlo e tanto più realizzarlo.
Detto questo concordo totalmente con Asor Rosa e con Bevilacqua che la lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, anzi di più: una occasione che può rivelarsi fondamentale per il futuro prossimo della città se solo le istanze e le forze che essa rappresenta (la sinistra che rimane, o, se volete, l’unica che possa chiamarsi tale) non si dissolveranno a campagna elettorale conclusa (esperienza avvenuta troppe volte).
E qui mi permetto di dissentire con le conclusioni di Asor Rosa perché ho l’impressione che la eventuale vittoria finale del candidato dem possa liquefare rapidamente quel coagulo di forze popolari messo insieme da Fassina: è già accaduto con Rutelli e Veltroni, artefici del Piano Regolatore Generale e di quel nefasto Modello Roma (glorificato da Giachetti che propone di nuovo la politica dei Grandi Eventi) che sembrava annunciare il rinascimento urbano della Capitale; sinonimo di modernismo, innovazione, cambiamento.
Quel quindicennio (1993-2008) fu caratterizzato da una ingannevole assenza totale di ogni conflitto sociale. In altre parole sembra a me che Asor Rosa nutra quello stesso “giovanile ottimismo” che lui addebita (senza condividerlo) a Piero Bevilacqua. Perché Asor si chiede, in finale del suo articolo (come sempre lucidissimo, quasi didascalico): Roma che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere.
E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? La mia impressione è che, a sinistra, le lacerazioni siano ancora troppo forti (e purtroppo quasi sempre di natura personali) perché la coalizione Fassina possa sopravvivere a una eventuale vittoria del candidato dem senza esserne sussunta o ridotta a inutile alleanza.
Mi si chiederà: e allora? E allora, io penso, bisognerebbe prendere l’abitudine (che un tempo esisteva) di lavorare insieme prima e oltre le scadenze elettorali (ce lo ripetiamo sempre ma mai lo facciamo), perché per risalire la china dalla quale siamo rotolati in tanti anni, ci vorrà tempo, pazienza e fatica, senza cedere alle lusinghe di qualche furba tattica (sport prediletto e praticato dalla cultura italiota) che sembra mostrarci ingannevoli scorciatoie (che in politica non esistono e comunque non pagano): tertium non datur.
Un esempio che forse farà sorridere: un tempo esisteva a Roma una Casa della Cultura a Largo Argentina, dove si discuteva insieme dei tanti problemi emergenti: si facevano analisi, si polemizzava, si affrontavano (insieme) problemi. Qualcosa di analogo è ancora possibile per dare cemento (mi si scusi la parola che a Roma mette i brividi) a questo coagulo di forze che ancora crede sia possibile un’altra Roma (e un’altra Politica)?
postilla
Su eddyburg potete leggere gli articoli di Alberto Asor Rosa e di Piero Bevilacqua, cui si riferisce Enzo Scandurra. La critica di quest'ultimo riguarda l'affermazione di Asor Rosa secondo il quale nel ballottaggio finale si dovrà inevitabilmente scegliere t Giachetti , poichè l'alternativa sarebbe la destra oppure il movimento 5 stelle Non condivido questa posizione, per una ragione che si aggiunge a quelle di Scandurra. A mio parere il rischio più grave che corre la democrazia italiana è l'affermazione del regime rappresentato da Matteo Renzi, prosecutore del disegno avviato da Craxi e Berlusconi, con una lucidità ed efficacia ben superiore a quella dei suoi predecessori. La vittoria di Giachetti sarebbe un'ulteriore rafforzamento da Renzi, perciò se votassi a Roma certamente non voterei per lui (come a Venezia non votai per il pur stimabile Casson). Vedo anch'io, come Scandurra e Bevilacqua l'unica speranza per il futura nella nascita di una forza capace di svolgere oggi il ruolo che la sinistra del secolo scorso seppe svolgere per gli sfruttati e per la democrazia nelle condizioni di allora, e per il primo turno voterei senza esitazioni Fassina, mentre dubito fortemente che nel ballottaggio mi turerei il naso e voterei l'uomo del Monarca. (e.s.)
«». Il manifesto
Si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza? Se non si può, questo che segue, ospitato benevolmente da il manifesto, si presterà alle più feroci e giustificate critiche. Ma tanto vale provare… Vediamo.
Il soggetto è Roma e le sue imminenti elezioni comunali. Roma è una città millenaria, carica di gloria e di bellezza, e i candidati a ricoprire la carica di Sindaco sembrano, salvo qualche limitata eccezione, nati al massimo l’altroieri. Roma è sull’orlo di un collasso istituzionale ed esistenziale che non ha precedenti. Roma è la capitale più sporca, anzi, più correttamente, più “zozza” dell’Occidente democratico-capitalistico.
Roma è vittima di un degrado urbanistico ed edificatorio praticamente senza limiti (il recente libro di Francesco Erbani e Vezio De Lucia, Roma disfatta per Castelvecchi Editore, offre da questo punto di vista documentazioni e considerazioni che possono considerarsi definitive).
Se si passa al capitolo “traffico”, di cui praticamente nessuno parla, Roma non è più una città, è un “delirio”, una sorta di affannosa e disperata gara verso il nulla. Al tempo stesso il servizio di trasporto pubblico è inesistente o è catastrofico. La fiducia nelle istituzioni, dopo lo sciagurato fallimento dell’avventura Marino, è arrivata prossima allo zero. La corruzione s’era (s’è?) annidata dappertutto; se non ci fosse stata la magistratura, ci sarebbe ancora.
I segni di reazione, dopo le tristi esperienze degli anni passati, ci sono, ma sono molto limitati. La restituzione dell’onore delle urne della lista Fassina ha ridato fortunatamente spazio e spinta a una risposta, politica e popolare, positiva. Ma siamo ancora, – e non potrebbe essere diversamente, – a minoranze attive sul piano sociale e istituzionale, ma destinate, ovviamente, a una lunga battaglia, che non potrà avere esito con l’esito di questo voto (condivido quasi tutto dell’ultimo articolo di Piero Bevilacqua, salvo il suo giovanile ottimismo).
E allora, nel frattempo, che si fa? Io penso che la sinistra, – quella che ambisce presentarsi come più legata al passato e al tempo stesso più modernamente nuova e anticipatrice, – si trovi oggi classicamente stretta fra l’incudine e il martello (è accaduto altre volte nella storia). L’incudine è la protervia senza limiti (falsamente razionalizzatrice) del nostro attuale Presidente del consiglio; e il martello è la spinta, anch’essa durissima e feroce, della destra (qualsiasi tipo di destra, oggi tatticamente separata, ma sempre disponibile a ritrovarsi unita) allo scopo di riacquistare lo spazio che per ora le è stato sottratto. In questa situazione le scelte ferme e limpide del passato, – o si è da una parte o si è dall’altra, – sono tramontate.
La battaglia si svolge continuamente su di un duplice o addirittura triplice fronte: si può essere contro l’uno e contemporaneamente contro l’altro; ma, se serve, si può essere provvisoriamente con uno per essere meglio contro l’altro. Oppure: per combattere l’uno bisogna evitare di favorire (troppo) l’altro.
Questo vale, praticamente, per qualsiasi occasione politico-istituzionale contemporanea. Si pensi al referendum di ottobre. L’altro giorno passavo dal televisore acceso ho sentito una voce che pronunziava, con tono calmo e solenne, la seguente affermazione: «La nostra Costituzione è messa in pericolo dalla sciagurata riforma Renzi, Per questo, nel referendum di ottobre, bisogna votare fermamente e decisamente no». Mi sono voltato. A parlare era Silvio Berlusconi. Mi è venuto un forte senso di nausea. Ma certo non penso per questo che non sia opportuno e necessario votare “no” al referendum di ottobre. Solo che mi chiedo dove possa portarci l’insensata politicizzazione che di quel referendum (tutto costituzionale) ha dato in primissimo luogo il nostro ineguagliabile premier («o con me o contro di me»), e che è stata prontamente raccolta dalla nostra, – da tutta la nostra – destra, in attesa di riunirsi.
Ne usciremo (ne usciremmo) recuperando tout court spazio a sinistra (ma per ora come si fa?) o aprendo le porte alla rivincita di una (attualmente) delle destre più torbide e inquietanti del continente? Mi si potrà ragionevolmente rispondere: intanto vinciamo il referendum, – per giunta, molto probabilmente, senza l’apporto della destra non si vincerebbe, – poi si vedrà. Sì, certo, ma le domande restano. Insomma, ci vorrebbe una strategia di lungo periodo, che provi a mettere insieme queste cose difformi e suggerisca loro una possibile coerenza. Non basta, io penso, l’opposizione ferma e dura all'”attuale stato di cose esistenti”. Ma dove arrivare. E con quali tappe.
Le elezioni comunali a Roma, che per giunta si svolgono, come ho cercato sinteticamente di dire, nelle condizioni catastrofiche della Capitale, rappresentano secondo me un esempio calzante, anche se minore rispetto a tutto il resto, di tale discorso. La lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, si tratta di capire come meglio portarlo avanti.
Cerchiamo di circostanziare il quadro. In ballo ci sono due liste chiaramente e dichiaratamente di destra (Marchini-Berlusconi; Meloni-Salvini). Non ci si può certo augurare che una di esse prevalga. Poi c’è la lista, particolarmente forte del Movimento 5 Stelle.
Su questo punto, secondo me, occorrerebbe fare più chiarezza di quanto finora fra noi non ce ne sia stata. Il Movimento 5 Stelle è un singolare fenomeno tutto italiano, che nasce interamente dalla crisi del nostro sistema politico-istituzionale. E’ un partito ereditario, in cui le redini del potere trasmigrano, senza neanche bisogno del notaio, nelle mani del figlio quando il padre venga meno. E’ un partito autoritario, anzi dittatoriale, nel quale la volontà del Capo, e dei suoi più stretti accoliti, che del resto sono anche loro i primi ad esserle sottomessi, occupa solidamente il ruolo supremo, cancellando ogni sia pur timida manifestazione di democrazia interna (è necessario portare esempi, anche recenti e anche di grande portata?). Il Movimento 5 Stelle non ha nessuna vocazione sociale; in compenso ne nutre in seno una d’ispirazione xenofoba, abbastanza nascosta, per ora, ma visibile.
La vittoria della candidata grillina a Roma sarebbe dunque gravissima, per la sua carica gravida di significati nazionali; e anche perché, in caso di ballottaggio con il candidato dem, la massa dei voti di destra si riverserebbe su di lei onde ottenere la sconfitta del candidato dem, così come accadrà con il referendum di ottobre, dove votare per il no può non significare affatto in difesa della Costituzione, ma piuttosto per detronizzare il ducetto di Rignano sull’Arno e sostituirgli un orrido potere al tempo stesso antieuropeista, antisociale e antisolidaristico.
Dunque, in caso di ballottaggio non c’è altra scelta fra il non andare a votare e il votare per il candidato dem? Ma non andare a votare, ammesso che il candidato dem vada al ballottaggio, significherebbe inevitabilmente favorire la vittoria del candidato antagonista, sia che si tratti del candidato di destra sia che si tratti della candidata grillina.
Dunque, non c’è scelta, in caso di ballottaggio: ossia, votare per il candidato che a Roma rappresenta, anche molto ortodossamente, le posizioni del ducetto di Rignano sull’Arno? Se le condizioni sono quelle che finora ho descritto, mi pare che non ci sia altra scelta. Domanda: se le cose stanno così, non sarebbe meglio votare il candidato dem fin dal primo turno, onde assicurare più facilmente che vada al ballottaggio?
No, un seme va piantato. Nel rispetto di tutte le rispettive responsabilità e peculiarità. Per andare all’ultimo voto non basterà infatti solo la disponibilità della sinistra. Bisognerà che altre si manifestino. E’ così che un processo va avanti. E per deciderlo bisognerà essere in più di uno. Non spetta solo a noi farlo.
Ma in fondo, – in fondo a tutti i ragionamenti possibili, – dovrebbe esserci, – e ancora non c’è, non c’è proprio, – Roma, la grande, millenaria, bellissima, e sudicia, puzzolente, disastrata città, che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere. E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? Aspettiamo risposte, prima e dopo il voto
Ad alto livello – e anche questa è una novità – parecchi esponenti dei partiti Verdi tedesco, austriaco, danese, e un paio di rappresentanti della sinistra del Psf, che, sebbene si noti poco di questi tempi nella Francia di Hollande, all’ultimo congresso di quel partito aveva preso ben il 40% e insiste per un fronte comune con le forze raccolte nel Gue. Insomma: la nostra sinistra si rinnova, e si allarga. Ancora poco all’est, che pure era questa volta finalmente presente, almeno con qualche associazione o intellettuale.
Con commozione ho riabbracciato Jan Kavan, ben conosciuto da tutti i pacifisti degli anni ’80, perché era il nostro riferimento in Cecoslovacchia, uno dei pochi che pur essendo dissidente non invocava l’intervento della Nato, ma si batteva come noi per un’Europa fuori dai blocchi e perciò venivamo indicati dalla Cia come agenti del Kgb e dal Kgb come agenti della Cia. Caduto il Muro, Jan divenne persino ministro, ma per poco: dissentiva anche dal nuovo regime anticomunista. Con qualche ragione.
E poi c’erano i sindacati: folta e autorevole la partecipazione italiana, della Fiom e della Cgil, le Commissioni Obreras, la Cgt francese e la Confederazione belga. Anche su questo tema, una discussione concreta, per affrontare l’offensiva in atto ovunque contro il sindacato (e dunque per smantellare un caposaldo del modello europeo) impegnandosi non solo a difendersi ma a conquistare diritti che nell’Unione europea non sono mai stati riconosciuti, né ci si è mai veramente battuti per avere: per cominciare il diritto a convocare scioperi transfrontalieri da parte delle Confederazioni europee relegate al ruolo di uffici studi più che a quello di strumenti di lotta.
Il tema sindacato in Grecia è un dente che duole: la Gsee, dei lavoratori del settore privato, è egemonizzato dal Pasok e dal Kke (il partito comunista ) è in queste stesse ore, riunito a Congresso a Rodi, è in subbuglio perché questi due partiti si sono alleati per escludere i rappresentanti di Siryza e della destra dagli organismi dirigenti, provocando contestazioni e anche ricorsi. Anche la Adedy, il sindacato del settore pubblico, è controllato dalla vecchia burocrazia del Pasok. Difficile superare questa debolezza storica in una situazione in cui il governo Tsipras è costretto dal Memorandum a tagliare il welfare, sebbene con più equità possibile. I rappresentanti del sindacato dei lavoratori del porto del Pireo sono presenti: in grande sofferenza per via delle conseguenze indotte dalla “imposta” privatizzazione in corso.
Il clima sociale è teso in Grecia e sarebbe ingenuo aspettarsi che così non fosse. Ne abbiamo avuto la prova anche al convegno dove ha fatto irruzione un drappello di ragazzi con uno striscione polemico. Parlano arrabbiati, non avranno la pensione, nessuna prospettiva di vita. Anche il tema immigrazione è causa di turbamento: il governo ha firmato l’orribile accordo europeo e lo stesso Tsipras ci spiega che, altrimenti, gli avrebbero scaricato migliaia e migliaia di rifugiati in Grecia, dove è facilissimo approdare, e dove però non c’è, nelle condizioni attuali, la possibilità di poterli integrare.
Ho sottolineato il livello e la pluralità della partecipazione perché è l’indice di due cose importanti: finalmente c’è davvero interesse per le cose europee, fino ad oggi normalmente oggetto di incontri distratti, come del resto tutti quelli promossi dai fantomatici partiti europei di ogni colore, quelli di cui a suo tempo Willy Brandt diceva che erano il luogo migliore per andar a leggere i propri giornali. Il livello del dibattito non formale – sugli immigrati, sulla svolta ecologica, sull’economia – ha dimostrato che finalmente la sinistra ha cominciato a occuparsi d’Europa sul serio. Merito della crisi, certamente, che ha imposto il tema; ma anche di Syriza, che in questo ultimo anno ha reso l’Unione Europea un campo di battaglia e non più il titolo di qualche seminario.
In secondo luogo emerge anche che “qualcosa a sinistra si muove”: con tutti i limiti che restano oggi un soggetto di sinistra a livello europeo comincia a vedersi. Anche la sinistra italiana era ben rappresentata: oltre all’Arci, Sisel, i comitati Tsipras, Rifondazione Comunista. Potremmo dire: troppi. E infatti, come in ogni occasione, gli italiani sono sempre tanti, ma non hanno diritto di figurare al tavolo maggiore, cui hanno accesso solo i paesi dove a sinistra c’è un solo, indiscusso partito di sinistra. Che da noi ancora non c’è (per questo è così importante il processo costituente avviato con Cosmopolitica).
La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale: quella di tenere insieme libertà e giustizia; un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone di scegliere» Ma Renzi appartiene alla "sinistra democratica"?Huffington post, 20 marzo 2016
La sofferenza della sinistra va oltre le vicende nazionali e le scissioni, minacciate o reali, che la segnano. Come un processo di partenogenesi, da un seme comune -- che porta il nome di giustizia sociale tra liberi e eguali -- molti e diversi corpi nascono, cadono e si sviluppano senza interruzione. E’ possibile leggere questo fenomeno come un segno di libertà e di vivacità politica che esiste solo nelle società aperte e libere. Partenogenesi è, dopo tutto, nuova vita non frammentazione ed espressone di un segno per fortuna mai sopito che esiste il bisogno di pensare, di riflettere criticamente sulle modificazioni sociali e su come queste cambino le interpretazioni dei comuni valori e principi. Dissenso implica ricerca.
Tuttavia, nonostante questo sforzo di vedere le cose in positivo, per la tradizione della sinistra democratica e liberale questa è e sarà ricordata come un’età di grande sofferenza, per la difficoltà di trovare un punto di riferimento solido che stia oltre le figure politiche individuali, oltre leader rappresentativi, e invece nei processi sociali e nelle costruzioni ideali che tengono insieme forme collettive. E’ nel partito che le trasformazioni e le ricerche possono e devono trovare radicamento, in un movimento collettivo. La leadership in solitudine non basta e in alcuni casi può essere ostruttiva del processo di trasformazione.
La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale. Quella di tenere insieme libertà e giustizia -- un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone agli attori politici, ai cittadini e ai leader, di scegliere. In un clima di scarsità delle risorse, come è quello in cui ci troviamo, finita la fase di crescita espansiva dei consumi e della programmazione via stato della redistribuzione della ricchezza tra eguali cittadini della nazione democratica, la sinistra nei paesi occidentali, ed europei soprattutto, ha cominciato a registrare una reale crisi di identità e un declino di identificazione. Si tratta di un fenomeno non recentissimo e che ha preso i caratteri specifici dei paesi di appartenenza.
E' la profonda insoddisfazione verso le politiche sociali del Partito Democratico che mette in risalto la difficoltà di Hillary Clinton a conquistare una forte e chiara nomination nelle primarie per le prossime elezioni presidenziali. Come un fiume carsico, l’energia contestatrice di democrazia sociale e di criitica della straordinaria disegueglianza economica che si è sprigionata con Occupy Wall Street sta emergendo in maniera dirompente, senza timidezza, con lo straordinario successo di opinione e identificazione intorno a Berny Sanders. E anche se la sua campagna per la nomination non avrà successo, le richieste che rappresenta – fare del sogno americano una promessa realizzabile non un opium populi—non sono destinate a scomparire. E così, in Francia, gli scioperi contro laderegolamentazione del lavoro e la decurtazione dei diritti sociali rendeno isocialisti al governo la controparte contro la quale i cittadini (e isocialisti) contestano la violazione della promessa di giustizia sociale. Nonsarà facile per il partito di Holland arginare il movimento e restare allaguida del movimento. Essere partito dilotta e di governo, arduo in sè, è praticamente impossibile quando lecondizioni per la redistribuzione della ricchezza sono ridotte all’osso. In questa Europa, gruppi sociali e poterihanno voci molto ineguali e indubbiamente la radicalizzazione dei conflitti puòdiventare isostenibile per le democrazie costituzionali.
E’ in questa età complessa che la sinistra vive lasofferenza di una cultura politica che non sembra riuscire più ad orientare leazioni e unire larghe forze collettive, che ha smarrito il linguaggio delriformismo sociale. Accanto agli esempidi indubbio coraggio politico che vengono dagli Stati Uniti (e dal pocomenzionato Canada, un esempio di vittoria della sinistra democratica dirilievo) vi sono casi come quello italiano di profonda e radicale frammentazione.In Italia, dove l'erosione della tradizione e dei valori delle sinistra si èintrecciata al declino per vie giudiziarie della classe politica e dei partitiche fecero la ricostruzione post-bellica, la transizione verso un soggettopolitico nuovo sembra infinita. E nonancora approdata ad una sedimentazione delle fondamenta. Nel moto tellurico disigle, statuti, e leadership, sembrano essere stati travolti quegli stessiprincipi di democrazia sociale che vengono tuttavia propagandati e proclamati.La sinistra italiana sembra annaspare senza riuscire a trovare un appigliosicuro a partire dal quale recuperare energie e tornare a nagivare in mareaperto. Essa é l’immagine più esemplare della sofferenza
Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce ... (continua la lettura)
L'analisi sferzante e sarcastica che D'Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce più per l'autorevolezza del vecchio dirigente e per il campo da cui proviene, che per la sua originalità. Non pochi commentatori avevano già mostrato per tempo che cosa fosse diventato il PD di Renzi. Non lo dico per sminuire l'efficacia politica di quel messaggio, utile quanto meno per svegliare tanta parte del popolo della sinistra (forse anche qualche vecchio intellettuale) che crede ancora di appartenere al partito che fu di Berlinguer. Ma lo sottolineo per più sostanziali ragioni.
Intanto la mossa tattica nasconde una grave insidia. Sarebbe un errore non vedere le complicazioni che una scissione del PD, capeggiata da D'Alema, creerebbe al nascente soggetto politico della sinistra. La tentazione di dar vita a una riedizione del centro-sinistra diventerebbe così forte da esercitare un irresistibile potere di attrazione su alcuni dei protagonisti oggi al lavoro, disarticolando l'intero progetto. E' un timore che non nasce certo dalla pretesa settaria di costruire in purezza un partito privo di contaminazioni con la realtà e con la storia. Ma che al contrario è fondato sull'analisi storica. Il bisogno drammatico del nostro Paese è oggi la costruzione di un partito di sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella società, progetto e visione. Non di una formula di alleanza per vincere le elezioni.
Occorrerebbe notare che mai è venuta dai dirigenti del PD (e delle sue precedenti incarnazioni) una seria autocritica delle scelte compiute dal questa mutevole formazione negli ultimi 30 anni, mai un serio sforzo di ricostruzione storica per comprendere in profondità quel che era avvenuto nei rapporti tra il partito e la classe operaia italiana, le grandi masse popolari, le figure intellettuali, un tempo forza e punto di riferimento del vecchio PCI. Allorché gli intellettuali concorrevano allo sforzo di comprendere un mondo che si aveva l'ambizione di trasformare, e non servivano per vincere dei turni elettorali.
Senza questa riflessione storica l'avvento di Renzi appare come un caso fortuito, ed è invece la continuazione coerente di un percorso. Il jobs act del presente governo conclude un itinerario avviato nel 1997 con la prima riforma del lavoro firmata da un ministro di centro-sinistra. La “buona scuola” e l'emarginazione dell' Università, pur con tutti i distinguo necessari, continua sulla scia delle riforme avviate da Luigi Berlinguer, ed è continuata senza soluzioni di continuità tra governi di centro-destra e di centro-sinistra. La filosofia della contrattazione programmata, quella politica che ha dato mano libera ai costruttori di devastare senza vincoli le nostre città, di cementificare il territorio, è stata accettata di fatto da tutti i governi nazionali degli ultimi 30 anni e ora viene rinvigorita dal cosiddetto “sblocca Italia”. E si potrebbe continuare.
In realtà è mancata e manca, anche in chi critica Renzi, non solo la capacità di guardare dentro la natura del riformismo del centro-sinistra, ma di vedere a quali imperiosi interessi dell'epoca esso di fatto ha finito col rispondere. Perché dopo 1989 nulla è più stato come prima. Il tracollo dell'URSS non ha messo all'angolo solo i vecchi partiti comunisti, ha colpito anche la socialdemocrazia europea. Il potere del capitalismo occidentale, rivitalizzato dai governi della Thatcher e di Reagan, e coadiuvato dalla nuova intellettualità neoliberista, ha affondato la sua critica demolitrice anche contro la burocratizzazione del welfare, la rigidità corporativa dei sindacati, il crescente peso fiscale dello Stato: tutte costruzioni, in buona parte, della sinistra europea del dopoguerra. Debolezze che racchiudevano tuttavia conquiste e diritti.
E questo bisogna proprio dirselo: la sinistra, tutte le sinistre maggioritarie europee, hanno accettato quella critica, l'hanno fatta propria. Se non si comprende tale passaggio si capisce ben poco della storia europea degli ultimi decenni. Dopotutto, di che stupirsi? Le teorie neoliberistiche non prospettavano una società pauperistica. Al contrario, esse promettevano una straordinaria ripresa dello sviluppo, cioé del processo di accumulazione capitalistica, sol che la macchina economica fosse stata liberata da “lacci e laccioli”. Maggiore produzione di ricchezza che si sarebbe ripartita automaticamente fra tutti.
Nessuna meraviglia, dunque, se, in seguito all'accettazione di tale lettura, i vecchi partiti popolari si son dovuti muovere in uno spazio ristretto e in un'unica direzione: indietreggiare, indietreggiare lentamente, lasciare sempre più libertà ai gruppi industriali e finanziari e nel frattempo gestire presso i ceti popolari il processo di riduzione progressiva del welfare. Una ritirata, diventata sempre più ardua quando gli effetti della globalizzazione si sono manifestati in tutto la loro pienezza. Allorché le imprese occidentali delocalizzate hanno messo in concorrenza i salari operai del Bangladesh con quelli di Stoccarda e di Torino.
La costituzione dell'UE poteva essere un'occasione per battere nuove strade. Qualcuno si ricorda della promessa di costruire una “economia sociale di mercato”? Com'è noto, né gli ex comunisti italiani, né gli altri partiti della sinistra europea sono stati in grado di incidere sulla filosofia neoliberistica dei trattati su cui si veniva costruendo l'Unione, sulla fragilità costitutiva dell'euro, sull'architettura complessiva dei poteri, alcuni dei quali, come la BCE, sottratti a ogni controllo democratico.
Ebbene, la vicenda di questi ultimi 30 anni trova pochi storici dentro il vecchio schieramento della sinistra perché il tentativo riformatore, compiuto nel cono d'ombra del nuovo potere del capitale, è fallito. E' morto con la Grande Crisi esplosa nel 2008. Sia il progetto neoliberista di un Nuovo Ordine mondiale dello sviluppo, che il tentativo di una sua gestione riformista, sono caduti insieme. E tale verità trova nuove verifiche nel presente. Mentre la BCE inonda di denaro le banche del continente, la disoccupazione resta fuori controllo, i ceti medi si assottigliano, si espandono le aree di povertà, le diseguaglianze si fanno più aspre, si riduce il welfare, si restringono gli spazi della democrazia, il lavoro si compra ormai con un voucher come un viaggio ai tropici.... Ebbene, nonostante questo debordante potere del capitale (o esattamente per questo?) l'agognata crescita non riparte. Il capitalismo pare una balena spiaggiata nelle secche delle sue iniquità.
Dunque, un nuovo soggetto politico, che realisticamente si deve muovere su un terreno riformatore, non può prescindere da una rilettura radicalmente classista della storia recente del mondo. Occorre porre al centro, come ha ricordato Gallino, la consapevolezza che il capitale sta muovendo guerra al lavoro e alle sue conquiste storiche. E tale presa d'atto non può venire da una riedizione del centro-sinistra e dal ripescaggio dei suoi vecchi protagonisti. Il tentativo in corso di cambiar strada deve avere l'ambizione di lasciarsi alle spalle il vecchio industrialismo sviluppista, unico orizzonte culturale degli uomini e delle donne di quella pur illustre tradizione. Non può non nutrirsi delle nuove culture ecologiche, di un ripensamento radicale delle forme della produzione industriale e della durata del lavoro, di una nuova attenzione ai caratteri del nostro territorio, al destino del bene comune delle città e al loro carattere ecosistemico, ai limiti che il riscaldamento climatico pone nell'uso delle risorse, a un nuovo immaginario - che è un salto di civiltà - in cui il rapporto uomo natura sia dominato dalla cura e non più dallo spirito di predazione.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
Il manifesto, 23 febbraio 2016
Ma oltre a questo c’è il mondo social che interviene a sostegno. Per limitarci a Facebook esistono una varietà di gruppi di supporter di Renzi: Italiani con Renzi, gruppo dedicato a coloro che credono in Matteo Renzi; Italiani in Polonia con Renzi, Amici lucani insieme con M. E. Boschi; Matteo Renzi il futuro è solo l’inizio; Per M. Renzi insieme, ed altri ancora.
Si tratta di decine di migliaia di partecipanti che sono portatori del messaggio renziano.
Che rimbrottano chi protesta per le statue coperte dicendo che «parlando di questo si fanno passare in secondo piano i miliardi che arrivano e che creeranno posti di lavoro»; che si vittimizzano perché «tutti attaccano Renzi» e si consolano perché «questo dimostra il suo grande potere e questo giustifica tanti nemici»; che tifano «Renzi e vai.…l’Italia sta proprio prendendo il volo!»; che minacciano «volete riportarci all’immobilismo.…non ci provate»; che non sono ancora contenti della svolta di Repubblica: «bene Calabresi, ma ancora poco perché nel tono degli articoli prevale ancora la linea livorosa di Scalfari e Mauro»; non abbastanza soddisfatti nemmeno della Gruber perché ospita Scanzi e Travaglio; per non parlare della crociata antifannulloni: «era ora di un bel repulisti!!»; o dello squallido post con una M.E.Boschi in ampio décolleté e un commento che più maschilista non si può: «rosicate, rosicate..gufi e corvi!».
Naturalmente talvolta esagerano e ricevono questo post: scusatemi siete stati gentili ad inserirmi in questo gruppo, ma purtroppo non ho alcun interesse per il partito della nazione, anzi contatemi tra gli avversari non violenti, ma decisi. Succede, per eccesso di euforia, ai neofiti di esagerare.
Questi agit prop di nuova generazione sono la vera la base attiva del Pd di oggi.
Naturalmente vi sono anche quelli che non condividono, ma subiscono e quelli che si sono allontanati. Ma in un partito sempre più rinsecchito di circoli ed iscritti questo è il corpo vero del partito e la relazione affidata a tweet e social è il vero canale di comunicazione democratica. E’ la combinazione di questa componente con quelle prima descritte la vera chiave del successo renziano, malgrado tutto.
Ma se questo è lo scenario come vi si colloca la sinistra? Una carrellata parallela negli ambienti social frequentati dalla sinistra ci mostra una realtà ben diversa da quella prima descritta: sostanzialmente inesistenti post e commenti ottimisti o entusiasti.
Amarezza, contrapposizione, critiche su tutto, astio, processi al passato ed alle intenzioni, ferite recenti e lontane visibili, sono i tratti più diffusi. La comunità di sinistra somiglia ad una massa di persone che si aggira tra le macerie di un terremoto e che guardano con invidia chi ha subito meno danni, che si rinfacciano l’un l’altro le responsabilità dell’accaduto, perché c’era chi aveva previsto tutto e non è stato ascoltato e così via.
Quasi nessuno parla di proposte e cose da fare, quasi tutti di schieramenti, il nemico è sempre il vicino, nessuno guarda avanti e trascina gli altri verso un progetto di ricostruzione.
Emerge, insomma, una sinistra che non ha ancora elaborato il lutto delle vecchie sconfitte e divisioni e che guarda con sospetto e sfiducia ogni tentativo.
«Il nuovo partito sarà l’ufficio di collocamento dei sinistri che vogliono tenere il culo al caldo su una poltroncina gentilmente offerta dal Pd». «Cosmopolitica, una iniziativa totalmente preconfezionata: sabato andrò a scuola di mazurca»; «Una iniziativa veramente pessima: andate a quel paese!»; «Si debbono rimuovere gli errori commessi!», (intendendo naturalmente sempre gli errori degli altri).
Tutto questo fino a pochi giorni fa. Ma con Cosmopolitica qualcosa sembra poter cambiare. E, ad evento ancora in corso, cominciano a circolare post di tutt’altro segno: «Ci siamo! Dobbiamo svegliare questo paese addormentato», «Spero che i giovani riescano a prendere in mano il loro futuro». Fino ai cori da stadio: «Daje!», «E SIiiiii! Grande!!»; «Avanti compagni, diciamo SI!».
L’iniziativa dell’Eur, gestita bene dai giovani — i cosmopolitani sono stati i veri protagonisti organizzativi e politici — sembra segnare una inversione fino ad elevarsi in un: «Domenica sarebbe bello se potessimo dire: la sinistra è bellissima, senza frontiere e senza confini. Ovviamente potrà farlo chi ha il coraggio di mollare la terra ed assaltare il cielo. Buona cosmoavventura!».
Uno scatto di fiducia e speranza improvviso e nuovo. Una bella scommessa ed una enorme responsabilità per chi dovrà facilitare il processo. E, se così è, questa volta non si potrà certo sbagliare.
Il manifesto, 23 febbraio 2016
La «sinistra massimalista» non vince «neanche le elezioni di condominio»; quelli che hanno vinto, come Alexis Tsipras in Grecia, «poi hanno assunto una posizione sanamente e pragmaticamente riformista». Davanti ai cronisti della sala stampa estera il presidente Renzi la prende la larga per dire quello che pensa di chi sta alla sua sinistra. Quelli fuori dal Pd sono «massimalisti», quelli dentro o si adeguano oppure «ciao», come ha spiegato domenica scorsa all’indirizzo della minoranza Pd.
Basterebbe questo per spiegare la mutazione che si è formalmente compiuta lo scorso week end al Palazzo dei Congressi di Roma in tre giorni fantasiosamente denominati «Cosmopolitica» che di fatto hanno consumato lo shackeraggio fra Sel, un gruppo di ex Pd con un tesoretto di militanti al seguito, alcune associazioni (Tilt, Act, Sinistra e lavoro), singole personalità, fra intellettuali ed ex social forum.
La giornata di domenica ha sancito il passaggio di testimone di Nichi Vendola, consegnato ad un video: «È tempo che una nuova generazione avanzi sulla prima linea». E il testimone sarebbe evidentemente destinato a Nicola Fratoianni, che ha fatto l’ultimo intervento (formalmente in quanto coordinatore della segreteria). Ma il leader in pectore della nuova formazione si è attenuto ai tempi stretti, come tutti gli altri, per dare l’idea che ancora niente è deciso. E comunque nella tre giorni è affiorata una trama di giovani leader già in prima linea, e infatti molto applauditi: da Marco Furfaro di Sel («Che bello vedere due sindaci come Zedda e Pisapia venire in un laboratorio tematico, ascoltare e poi portare il proprio contributo. La sinistra torna a vincere se va per aggregazione, non per sottrazione»), Claudio Riccio, Act («Vogliamo costruire una grande forza popolare, saremo impegnati per non fare la solita cosa, la solita sinistra», Mapi Pizzolante di Tilt («Non mi abituo alla sinistra del rancore, delle formule, degli uomini che se lo misurano, voglio costruire un’intelligenza collettiva in cui governa la solidarietà, la condivisione, il mutualismo»). Per non parlare dell’esplosiva sindaca di Molfetta Paola Natalicchio, un vero fenomeno dal palco. Ma l’assemblea è finita tutta in piedi per Luciana Castellina, fondatrice del manifesto e ormai un’icona di quest’area, che con ironia allegra elogiava i ragazzi e proponeva «una federazione dei vecchi». Prima aveva tributato applausi allo «zapatismo partenopeo» di Luigi De Magistris e a Leoluca Orlando. Più fredda l’accoglienza per un coraggioso Gianni Cuperlo venuto a offrire la sua mano per «continuare a costruire ponti». Il nuovo soggetto nasce dalla rottura del centrosinistra. Le comunali, il referendum sulle trivelle del 17 aprile e quello costituzionale — i primi tre appuntamenti del nuovo partito — non accorceranno le distanze.
Si vedrà al congresso che si terrà dal 3 al 5 dicembre. Da qui a quei giorni la platea di Cosmopolitica ha deciso un percorso, con inevitabili dosi di riunioni di backstage. La proposta accettata è quella di Peppe De Cristoforo, responsabile organizzazione di Sel, e discussa in due lunghe sessioni venerdì e sabato. A breve nascerà un comitatone promotore di 150 persone ripartito in tre «gambe». La prima è quella dei parlamentari di Sinistra italiana. Una quarantina ormai: oltre a quelli di Sel e agli ex pd fin qui già confluiti, hanno annunciato la loro adesione gli ex dem Giovanna Martelli e Corradino Mineo, gli ex 5 stelle Campanella e Bocchino (un altro ex grillino, Zaccagnini, aveva già aderito). Resta di sapere cosa decideranno i senatori Uras e Stefano, vendoliani ma contrari al nuovo corso. La seconda gamba sarà una delegazione ’centrale’ composta dalla segreteria nazionale di Sel e dai rappresentanti delle organizzazioni e associazioni fondatrici, insieme a singole personalità, in tutto una cinquantina di persone. La terza gamba verrà dai famosi «territori»: entro due mesi saranno saranno sce lti tre rappresentanti per ciascuna regione «su base consensuale». Tradotto: dovranno mettersi d’accordo evitando i litigi. Cosa non semplice soprattutto in alcune città, leggasi Roma e Milano, dove la scelta arriverà in piena campagna per le amministrative e costringerà alla conta le componenti favorevoli alla ricostruzione del centrosinistra. Non sarà un pranzo di gala, lo si è visto già nel corso della tre giorni del Palacongressi in cui non sono mancate le polemiche anche ruvide: Cofferati e Fassina da una parte, Pisapia, Zedda e Smeriglio dall’altra.
I 150 del comitatone (a occhio solo il 50 per cento proverrà da Sel) dovranno decidere le regole per il congresso e per il tesseramento (sia online, sulla piattaforma «Commo», che nei circoli). Ma è una partita tutta ancora aperta. Così come quella delicatissima della modalità dell’elezione del o dei leader, della scelta di un congresso per mozioni o per tesi, quella del nome. «Sinistra italiana», nome provvisorio deciso prima dell’assemblea romana non ha riscosso l’entusiasmo dei più giovani né del coté ambientalista di Sel, preoccupato per questioni anche di impianto culturale del nuovo soggetto. Il simbolo è piaciuto ancora meno.
Resta anche il nodo di chi non c’è. Non solo l’elettore della sinistra inseguito dal nuovo soggetto. ma anche i «compagni di strada» che per ora restano su un’altra strada. Ferrero del Prc, presente a Cosmopolitica, ha ripetuto la sua proposta di coalizione di sinistra. Marco Revelli, dell’Altra Europa, quella di una «vera costituente di un soggetto plurale, unitario, inclusivo, aperto». Pippo Civati invece non c’era. Una risposta più possibilista è arrivata dai candidati unitari (Fassina e Airaudo) ma per Nicola Fratoianni la condizione resta l’ingresso nel nuovo partito: «Con oggi chiudiamo la stagione degli accrocchi a sinistra».
Il manifesto, 21 febbraio 2016
La prima standing ovation della platea di Sinistra italiana è per un uomo del partito democratico. Ma quello «del popolo»: è l’anziano Ertugul Kurkcu, già presidente dell’Hdp. Sale sul palco e porta i saluti «del popolo curdo e del popolo turco». A Palazzo dei Congressi spunta la lacrima.
La seconda giornata di Cosmopolitica è quella delle tremila presenze, dei 24 tavoli, del parterre de roi dei costituzionalisti, delle assemblee su democrazia, scuola, ambiente e lavoro. Dell’esordio di Commo, la piattaforma digitale su cui Sel ha investito 60mila euro perché il nuovo soggetto abbia una «casa online». E che ieri, dice Roberto Iovino, «ha fatto mille iscritti nelle sue prime otto ore di vita».
Ma è anche la giornata dei botta e risposta fra ’big’. In mattinata arriva Giuliano Pisapia, il sindaco di Milano. Partecipa ai tavoli, ma sul nuovo partito la prende larga: «Sel è una parte importante della mia storia politica, ma sono qui per affetto. Per i prossimi quattro mesi continuerò a fare il sindaco». Il fatto è che qui, in molti, gli chiedono di mollare Sala. Lo ha fatto a più riprese Sergio Cofferati, già sindaco di Bologna e ora padre nobile della sinistra-sinistra genovese. Lo ha fatto Stefano Fassina, candidato a Roma, che pur avendo non poche gatte da pelare nella Capitale dice che «la priorità a Milano è unire le forze e recuperare la parte della città che non si riconosce in Sala». Pisapia incontra l’ex segretario della Cgil in un corridoio elo abbraccia con affetto. Ma ai cronisti risponde secco: «Sel sta ragionando. Ma ha fatto un patto di lealtà per le primarie: ha vinto Sala e ora saremo tutti in campo per sostenerlo sapendo che deve continuare un’esperienza di centrosinistra. Spero, e ne sono convinto, che Sel sia accanto a me». Si schiera con lui Massimiliano Smeriglio, vice di Nicola Zingaretti alla regione Lazio: «A Milano abbiamo accettato la sfida del popolo che decide. E il popolo ha deciso in maniera interessante, perché per Majorino e Balzani hanno votato più di 30mila persone. Non dobbiamo mantenere un patto con Sala ma con il nostro popolo». Poi sbotta: «Bisognerebbe avere più aderenza alle proprie biografie. E parlo di certi ex Pd che considerano tutto il campo di centrosinistra come destra. È paradossale». Il riferimento è proprio a Fassina e a Cofferati che, una volta usciti dal Pd, sono diventati i più combattivi sostenitori della rottura delle alleanze. Cofferati replica: «Sala è di destra. Cioè, di centrodestra», quindi «è un dovere» sfidarlo con un nome di sinistra. Per esempio Pippo Civati? Civati non è qui ma manda a dire: «Io non sono candidato. In ogni caso sarebbe il caso che Sinistra italiana si mettesse d’ accordo su una posizione».
Intanto dal Pd arriva il missile del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini: «Dopo aver fatto vincere la destra in Liguria, Cofferati ci prova anche a Milano… non ci riuscirà». Replica di Cofferati: «La verita’ e’ che il Pd ha sbagliato candidato, ha lasciato che si inquinassero le primarie ed alle urne ha pagato il prezzo di aver amministrato male la Regione Liguria. Guerini finge di non ricordare le ingerenze della destra nelle primarie, ingerenze che io gli ho segnalato puntualmente».
Dice la sua, per la verità costretto dai cronisti, anche il sindaco di Cagliari, l’enfant prodige Massimo Zedda, che è di Sel ma è stato confermato anche dall’alleato Pd per il voto di giugno. Si schiera con Pisapia: «Se vince Sala, vince il centrosinistra che dimostra così di non essere morto ma poter ripartire dalle città. Alle comunali non ci può essere un dogma nelle alleanze, ma c’è una realtà molto variabile, legata come sempre alle singole realtà locali». Zedda, a differenza del sindaco uscente di Milano, si dichiara convintamente dentro il ’percorso’ di Sinistra italiana. Ma le differenze interne già si misurano. E solo un patto stretto nel nucleo fondatore del nuova cosa alla vigilia della kermesse tiene a bada i fuochi. Infatti è Nicola Fratoianni, leader in pectore della nuova forza politica, a incaricarsi di buttare otri d’acqua: «Nessun dramma, il partito non esiste ancora». Per questa semplice ragione fisica ancora non può dividersi. L’invito è a guardare oltre le comunali, come pure fa Alfredo D’Attorre: presto sarà lanciata la raccolta firme per tre referendum contro Jobs act, riforma della scuola, Italicum. Il 17 aprile il referendum sulle trivelle, poi a ottobre la «grande prova» del referendum costituzionale. Il congresso del nuovo ’partito oltre il partito’ arriverà solo a dicembre, se tutto va bene.
Ieri Fratoianni viene gratificato di un sondaggio commissionato da Huffington post. Alla domanda ’chi vorrebbe come segretario di Si’ ha raccolto il 23,08% delle preferenze, seguito da Fassina con il 15,38, da D’Attore con il 13,46. A Vendola — che oggi ’parlerà’ attraverso un video che conterrà l’annuncio di «un passo a lato» — solo l’11,54. Un ragguardevole 29,8% per cento risponde «nessuno di questi».
Per il responsabile organizzazione di Sel, Peppe De Cristofaro, mettere in ordine l’elenco oratori per il gran finale di oggi è stata una faticaccia. Dal palco sono previsti trenta interventi, il video di Vendola e il saluto — scritto — di Maurizio Landini. Fra gli altri Luigi De Magistris e Leoluca Orlando, il segretario del Prc Ferrero. La deputata ex Pd Giovanna Martelli, già consigliera del governo per le pari opportunità, annuncerà un avvicinamento. Il senatore ex grillino Francesco Campanella, oggi nel misto con la casacca Altra Europa per Tsipras, l’ingresso in Sinistra italiana (malumori nell’Altra Europa che invece non entra nella nuova cosa). Annunci di adesione anche dall’ex grillino Fabrizio Bocchino e dall’ex Pd Corradino Mineo. Ci saranno Ilaria Cucchi e Luciana Castellina. E Gianni Cuperlo, che per essere qui si allontanerà dall’assemblea Pd: ma solo temporaneamente
Cosmopolitica. Davanti a duemila persone via al nuovo partito, il nome definitivo al congresso. Ci sarà un comitato promotore largo. "Ultima chiamata, riconquistiamo la fiducia dei nostri"». Il manifesto, 20 febbraio 2016
Grandi palloni rossi e sottili frecce gialle tipo patatine fritte, elementi stranianti nel razionalissimo Palazzo dei Congressi di Roma. Oltre 2mila presenze registrate, un palco che s’infila nella platea in un tentativo di accorciare le distanze fra chi parla e chi ascolta, come dire fra la sinistra e il suo popolo, perché l’obiettivo è «riconquistare la fiducia dei nostri», spiega Peppe De Cristofaro. È partita ieri pomeriggio la tre giorni di Cosmopolitica, ’cosmo’ anche perché è la ricerca di mettere ordine al ’caos’, spiega il professore Carlo Galli. È il primo giorno di «un’assemblea libera, che non può essere congressuale» (ancora De Cristofaro). Oggi si apriranno i 24 tavoli stile Leopolda e le quattro assemblee tematiche sulle quattro campagne del nuovo soggetto: democrazia, scuola, ambiente, lavoro e welfare. Poi un’intera sessione sulla democrazia digitale e su ’Commo’, la «casa online» di Si. Domenica sarà la giornata clou.
Ma il vero congresso invece arriverà a dicembre, così il vero simbolo, il vero nome, le vere regole. Fin lì è tutto provvisorio: il nome Sinistra italiana, che è quello del gruppo parlamentare nato alla camera dalla fusione fra Sel e cinque ex Pd. È noto il dissenso dei ragazzi del movimento Act sul nome, forse addirittura sulla parola «sinistra» per essere stata consumata da molti usurpatori, ma se ne riparlerà. Paolo Cento proporrà «Sinistra verde». Ma per ora giovani scapigliati e vecchie glorie sembrano d’accordo che bisogna tenere la creatura al riparo delle polemiche. Anche sulle perplessità sull’idea di «partito», altro termine su cui le anime più movimentiste sbuffano. Il risultato è la proposta di De Cristoaro: «Una formula ibrida, un partito oltre il classico partito», in grado — nelle intenzioni — di chiudere «il tempo degli accrocchi e di tutto quello che ha segnato la sconfitta della sinistra».
Ci sarà un comitato «ampio, imponente e aperto», e uno esecutivo più ristretto su cui si percepisce una certa effervescenza. Le questioni organizzative non scaldano i cuori (ma il confronto sì, mentre il manifesto va in stampa si svolge la prima delle due plenarie su questo delicato aspetto), ma sono importanti per capire se il nuovo soggetto avrà le gambe per affrontare la lunga traversata di una sinistra che diventa autonoma e indipendente.
La sfilata degli interventi, coordinati da Betta Piccolotti, affronta le battaglie qualificanti future. Immigrazione, democrazia, referendum sulle trivelle e quello sulla riforma costituzionale, la platea paziente ascolta. Si commuove per l’omaggio a Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, e Valeria Solesin, la ricercatrice morta al Bataclan di Parigi.
I temi sono tanti, si passano il testimone, a volte con qualche contraddizione. Voluta, non casuale: sono le contraddizioni della sinistra, intesa almeno fin qui nel suo significato più estensivo. Basta ascoltare Franco Martini, Cgil, l’autocritica di un sindacato che si è attestato «sulla difesa di quello che eravamo, di quello che ci stavano portando via», e subito dopo la ricercatrice Marta Fana che contesta alla Cgil proprio gli accordi per i quali i salari sono andati giù.
Il cimento del percorso costituente è rimettere insieme non tanto i pezzi della sinistra ma un suo punto di vista. C’era Sel, ma non è bastata, il fallimento della coalizione Italia Bene comune lo dimostra. C’erano i movimenti e adesso non ci sono più, o almeno ci sono poco. Il rischio di chiudersi in una ridotta: per alcuni è considerato un pretesto per la conservazione dell’esistente, per altri è forte. In un’intervista video Laura Boldrini lo dice: «Il cambiamento non si fa in un angolo, il cambiamento non si fa ballando da soli».
Lo sa bene Stefano Fassina, qui presente, che cerca di mettere insieme tutta la sinistra romana per le amministrative. Dal versante opposto del residuo centrosinistra, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi ci sarà, ma non ha ancora deciso se parlare: a occhio questa la platea non voterebbe Sala, il candidato renziano che ha vinto le primarie. Sergio Cofferati lo dice: «Sala è la negazione della stagione dei sindaci arancioni». L’ex segretario Cgil però non vuole rubare la scena: «Oggi c’è la necessità e l’impegno a far emergere le forze dei giovani». Farà il padre nobile, magari un padre ancora molto attivo. Così anche Nichi Vendola, il cui intervento registrato è atteso per domenica.
Per dissenso invece non ci sono anche altri protagonisti: Civati, per esempio. Rifondazione e l’Altra Europa sono ospiti ma per ora stanno fuori da Si. «Spero che arrivino, nessuno è proprietario del processo costituente», dice l’ex dem Alfredo D’Attorre. Ma è il problema dei problemi. E non è questione (solo) di qualche parlamentare o qualche sigla, riguarda il popolo di una sinistra oggi senza popolo. «Il punto è che questo processo non ci chiuda in sé, che sappia dialogare con quello che c’è fuori. Che con i movimenti non costruisca un rapporto di cooptazione, che non abbia la pretesa di rappresentare tutto», è l’invito del professore Sandro Mezzadra.
Un'occasione da non perdere per tentare di costituire una forza politica nettamente "di parte" che dia voce e speranza alle vittime della fase attuale del sistema capitalistico. Una cronaca del primo giorno dell'assemblea nazionale e il documento d'apertura. Il manifesto, 19 febbraio 2016
NUOVO SOGGETTO COSMOPOLITICO
di D.P.
Un ricordo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo, dei cui assassini ancora non si sa nulla. Un video sull’esaltante campagna elettorale di Bernie Sanders. Il promo di un film sulle trivelle (il regista è Emanuele Bonaccorsi) per ricordare che il primo appuntamento con il destino, per la nuova creatura politica che nasce, è quello del referendum del 17 aprile.
Partono oggi pomeriggio alle quattro — al Palazzo dei Congressi di Roma — le tre giornate di Cosmopolitica, la quasi-nascita del nuovo soggetto della sinistra. Il vero parto avverrà a dicembre, almeno secondo la proposta di molti del gruppo di organizzatori, quando dovrebbe tenersi il congresso fondativo; dopo il referendum sulla riforma costituzionale, che sarà uno spartiacque per il futuro del paese.
Il programma è fitto di dibattiti, laboratori, tavoli ma anche piccoli eventi e colpi di scena, in qualche misura. Il modello è quello della kermesse ’sellina’ Human Factor, e non è diversissimo dalla Leopolda renziana. Ma gli organizzatori smentiscono con fastidio: i dibattiti dei tavoli finiranno condensati in una sintesi che poi andrà a implementare il programma politico. Si vedrà.
Nei laboratori o nel palco della plenaria arriveranno figure storiche della sinistra italiana, come Luciana Castellina, ma anche storie più recenti, e più impreviste, come quella di Giovanna Martelli, consigliera per le pari opportunità del governo Renzi che qualche settimana fa ha lasciato il gruppo del Pd in polemica. C’è chi dice che potrebbe annunciare il suo avvicinamento a Sinistra italiana.
Ci saranno i sindaci Leoluca Orlando e Luigi De Magistris, ma anche Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che è vero che sono di Sel, ma la loro presenza non era per niente scontata: si tratta pur sempre della nascita di un soggetto ostile alle alleanze con il Pd in piena campagna elettorale nelle proprie rispettive città.
Fra gli scettici, ma con motivazioni opposte, anche Marco Revelli dell’Altra Europa e Paolo Ferrero del Prc, ma anche loro ci saranno. Come i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, un messaggio di Maurizio Landini, i presidenti di Legambiente, Arci, Arcigay.
Nichi Vendola non ci sarà, sarà presente con un video che sarà proiettato domenica. E c’è da scommettere che sarà un momento delicato per l’assemblea, quello del fondatore di Sel non presente al suo evento di trasformazione in nuovo partito.
Ma l’elenco è impossibile, il programma completo si trova su Cosmopolitica.org. Il calcio d’avvio è affidato a Betta Piccolotti, responsabile comunicazione di Sel, poi a Andrea Ranieri, il braccio destro di Sergio Cofferati che riassumerà il documento politico su cui nasce l’ipotesi del nuovo soggetto, e ancora il sociologo Carlo Galli, ex deputato Pd e ora entrato nel gruppo di Sinistra italiana e poi la filosofa Laura Bazzicalupo.
Più o meno a questo punto dovrebbe andare in onda il video di Laura Boldrini, la presidente della camera proveniente dalle file di Sel ma che guarda con qualche apprensione il percorso della ’nuova cosa’. Per la quale, spiega, è certa che ci sia «uno spazio politico». Altri due ’scettici’ della possibile radicalizzazione a sinistra saranno presenti di persona: domani Giuliano Pisapia, alle prese con grosse turbolenze nella sua ex lista, domenica Massimo Zedda.
Più tardi, già oggi, la prima assemblea plenaria sul percorso costituente, per dare un minimo di organizzazione e un comitato provvisorio nel periodo transitorio di qui al congresso (questa sessione sarà tenuta da Peppe De Cristofaro, senatore e responsabile organizzazione di Sel).
L’assemblea si riconvocherà domani alla stessa ora. Qui si parlerà della forma partito, qui si deciderà il nome della nuova cosa, almeno quello provvisorio. «Sinistra italiana» per ora è il più quotato da Sel ed ex Pd, ma anche il più criticato dai movimenti.
Domani sarà giorno dei ventiquattro tavoli tematici (dai diritti civili al disarmo, dalla sanità al futuro del terzo settore, dalle banche all’antimafia fino al Sud e all’accesso ai saperi, dal Jobs Act all’austerità alla criminalizzazione delle migrazioni), e della discussione sulla democrazia digitale anche per cominciare a prendere le misure con Commo, la piattaforma digitale del nuovo soggetto politico, che rischia di essere una presenza sovraccarica di senso — forse anche di aspettative — sin dall’inizio del nuovo percorso.
Nel pomeriggio quattro assemblee sulle altrettante aree tematiche che sostanzieranno le quattro prime campagne del nuovo soggetto, insomma il primo abbozzo di programma. «Democrazia, partecipazione, riforme costituzionali», «Saperi, scuola, istruzione, conoscenza», «Ambiente, clima, conversione ecologica dell’economia», «Lavoro, welfare, politiche economiche».
«L’economista ed ex ministro delle finanze greco parla del Movimento per la democrazia in Europa lanciato a Berlino. "La tempesta perfetta del 2015 allarma anche chi non aveva posizioni critiche sull’Unione. C’è spazio per nuove coalizioni"». Il manifesto,
Hai parlato in questi giorni dell’austerità come una forma di “guerra di classe” dall’alto. Ma quali forze oggi possono essere messe in campo dal basso non solo per difendersi dall’attacco ma per esercitare un reale potere costituente?
«Molti compagni e amici mi hanno rimproverato un riferimento troppo generico alla democrazia. Ma pensate alla definizione che ne ha dato Aristotele, il quale non era certo un democratico: il governo dei liberi e dei poveri. È una buona definizione: i poveri, i subalterni, gli sfruttati sono la maggioranza. E dunque una democrazia reale non può che essere dominata dai movimenti dei poveri. Le democrazia liberali, che hanno le loro radici nella tradizione della Magna Charta, sono state certo un’altra cosa. La Magna Charta è una carta dei baroni, dei proprietari terrieri contro il Re, che garantiva loro di avere i propri servi e di non vederseli portare via dal sovrano. La democrazia liberale ha questo pedigree. Questa democrazia è arrivata ai suoi limiti con il capitalismo finanziarizzato. Un movimento democratico oggi è per definizione un movimento che punta a mettere fine alla guerra di classe dall’altro organizzando un contrattacco dal basso».
«Se è la stabilizzazione il problema basilare in Europa, questa non è possibile senza la crescita tumultuosa di un movimento democratico. I poteri esistenti non ne sono in grado. Immaginate un movimento che imponga alla Banca centrale di cominciare ad acquistare il debito della Banca Europea per gli Investimenti anziché quello tedesco o italiano, per finanziare un ambizioso Green New Deal per l’Europa. Invece di stampare moneta per i circuiti del capitale finanziario, la creazione di moneta andrebbe a finanziare la cooperazione produttiva, a creare posti di lavoro in settori innovativi, ponendo al tempo stesso condizioni favorevoli per l’organizzazione e la lotta dei lavoratori e contrastando la mercificazione e la precarizzazione del lavoro».
«La disintegrazione dell’Ue è qualcosa di inedito, contraddice una storia fondata sul progressivo avanzamento dell’integrazione. Per questo c’è bisogno di uno strumento nuovo. I partiti di sinistra europei hanno la loro base negli Stati nazionali, e il Gue ne costituisce una sorta di confederazione, che non mette in discussione il fondamento nazionale. È una delle ragioni della loro impotenza. Non è una questione di cattiva volontà: sono costretti ad articolare programmi di governo che non potranno mai essere attuati. Se questa diagnosi è corretta una piattaforma comune per i democratici in Europa deve essere costruita attraverso un’azione politica che non abbia la propria base negli Stati nazionali. E non può essere un partito, per definizione gerarchico. I militanti dei partiti di sinistra possono aderire a DiEM e continuare a militare nel loro partito nazionale. Ma in DiEM affrontiamo i nostri problemi comuni indipendentemente dalla affiliazione partitica o dalle convinzioni filosofiche di ciascuno. La risposta alla vostra domanda non potrà che essere trovata gradualmente. È un work in progress. Come diceva Brian Eno alla Volksbühne martedì, se non hai una ricetta comincia a cucinare, la ricetta arriverà».
«Abbiamo già annunciato una petizione, indirizzata ai Presidenti dell’Eurogruppo, del Consiglio Europeo e della Bce, chiedendo che assicurino lo streaming delle loro riunioni (alla Bce chiediamo di fare quello che fa la Federal Reserve: rendere pubblici i verbali delle riunioni due settimane dopo che si sono tenute). Sarà anche un’occasione per cominciare a organizzare il movimento attorno a una campagna concreta. Stiamo cominciando a costituire gruppi di lavoro per costruire una piattaforma digitale che ci consenta di intervenire nel dibattito pubblico e di articolare il nostro lavoro. Abbiamo poi individuato cinque aree tematiche, di cruciale importanza per il futuro dell’Europa: il Green New Deal, la questione del debito e del sistema bancario, le migrazioni e i confini, la trasparenza e il tipo di Costituzione di cui l’Europa ha bisogno. Vogliamo arrivare nel giro di un anno ad avere cinque policy papers su questi temi. Cominceremo con il comporre un elenco di problemi e di domande per ciascuna di queste aree tematiche, per poi lanciare una grande campagna di consultazione in diverse sedi e in diversi Paesi. Da queste riunioni emergeranno proposte che verranno “filtrate” e “ricombinate” da gruppi di lavoro che sottoporranno il risultato a grandi assemblee tematiche. Queste assemblee voteranno un documento finale, che sarà poi sottoposto al giudizio di tutti i membri di DiEM. È un processo che può essere definito di democrazia in azione, da cui emergerà un vero Manifesto di DiEM, non una semplice dichiarazione di principi».
Il manifesto, 10 febbraio 2016
L’attenzione mediatica per l’avventura di Yanis Varoufakis a Berlino non è certo mancata. Sala strapiena, giornalisti in coda, domande a raffica: così la conferenza stampa che ha aperto il meeting organizzato alla Volksbühne di Berlino per la presentazione del manifesto di DiEM 2025 («Democracy in Europe Movement 2025»). È un testo che ha l’ambizione di aggregare intorno a un programma pluriennale di democratizzazione dell’Unione Europea movimenti sociali, forze politiche, circoli intellettuali, associazioni, lavoratori della conoscenza, e artisti attivi sulla scena continentale.
Le risposte di Varoufakis sono state di estrema chiarezza ed efficacia soprattutto su un punto che figurava tra i più delicati: ovvero il rapporto tra la sua iniziativa e le posizioni che in diversi Paesi europei di fronte alla gestione neoliberale della crisi puntano a un recupero della sovranità e della moneta nazionale. Si tratta di posizioni condivise anche da diverse forze della sinistra, tradizionale e non. Per fare i nomi più noti che sostengono simili punti di vista si possono ricordare Oskar Lafontaine in Germania e Jean-Luc Mélenchon in Francia. La posizione dell’ex ministro delle finanze greco su questo punto è stata di inequivocabile rifiuto. Al centro della sua iniziativa c’è l’obiettivo di una ripoliticizzazione dello spazio e delle istituzioni europee, come antidoto alle tendenze alla frammentazione, alla chiusura e alla competizione. In poche parole come antidoto alla deriva verso una riedizione “post-moderna” degli scenari degli anni Trenta, un rischio su cui ha spesso insistito. Del discorso nazionale non possono che avvantaggiarsi le destre più o meno estreme, come del resto gli orientamenti elettorali in Europa ci stanno ripetutamente dimostrando.
La giornata di presentazione di DiEM alla Volksbühne si è articolata in lunghe conversazioni tematiche, secondo il modello di una jam session a cui hanno partecipato attivisti e intellettuali, operatori dei media, sindacalisti ed esponenti di innovative esperienze municipali, a partire da quella di Barcellona. Nessuno in rappresentanza di organizzazioni o gruppi, ma tutti provenienti da una pluralità di esperienze collettive. La discussione ha preso le mosse da una «mappatura cognitiva» della crisi europea, per poi concentrarsi su un’analisi più specifica della situazione economica e su quello che potrà essere nei prossimi mesi il ruolo di DiEM. La giornata si è conclusa con l’effettivo lancio del manifesto, in una sala affollata da centinaia di persone, con schermi allestiti all’esterno per coloro che non hanno trovato posto. Ne parleremo domani.
Durante la conferenza stampa, così come durante «talk real» (il talk show organizzato da Europan Alternatives, a cui ha partecipato lunedì sera), Varoufakis ha adottato uno stile marcatamente «post-ideologico», quasi da liberal di oltre Oceano. Non ha certo taciuto la sua militanza nella sinistra, ma si è rivolto a «tutti i democratici, liberali, verdi o radicali che siano». Poiché la questione al centro della governance europea, ha insistito Varoufakis, è un plateale svuotamento della democrazia, con la totale esclusione dei cittadini – del demos – dai processi decisionali. In quest’ottica l’esperienza dell’anno 2015 in Europa è stata illuminante, tanto per lo scontro tra il governo greco e la troika dei creditori quanto per la cosiddetta «crisi dei migranti» e i suoi riflessi sui rapporti tra i Paesi membri dell’Unione: l’acuirsi della frattura tra Est e Ovest, che si aggiunge a quella tra Nord e Sud, le crepe sempre più vistose all’interno dello spazio di Schengen. Quanto ai movimenti di profughi e migranti verso l’Europa, Varoufakis ha espresso ancora una volta posizioni molto chiare: di fronte a chi fugge dalla guerra e dalla povertà «non si possono fare calcoli costi-benefici» e l’Europa non può sottrarsi al dovere di fare i conti con la propria storia. Una storia che attraverso il colonialismo ha cambiato irreversibilmente gli equilibri mondiali.
L’ambizione che caratterizza il progetto di DiEM non è affatto modesta. Non si tratta infatti di un semplice appello alla difesa delle forme e delle procedure democratiche. Al contrario, è il contenuto sociale del processo quello che sostanzia politicamente la democrazia europea di cui qui si parla. A questo scopo la sinistra, così come la conosciamo e a maggior ragione dopo le numerose sconfitte subite in questi anni, non ha forza sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è una radicale innovazione politica, capace di costruire materialmente una democrazia che non esiste su scala continentale e appare radicalmente svuotata di legittimità e contenuti su scala nazionale.
Da questo punto di vista, Varoufakis ha sottolineato la rilevanza essenziale – all’interno di un processo che si qualifica come «costituente» – dell’azione autonoma dei movimenti e delle lotte sociali. Non a caso, il suo soggiorno a Berlino è cominciato domenica, con un intervento all’assemblea di Blockupy, la coalizione che ha organizzato l’assedio dell’Eurotower a Francoforte lo scorso 18 marzo.
Un movimento per la democrazia in Europa continua ad avere numerosi ostacoli sulla sua strada sebbene se ne colga appieno l’urgenza. Ed è inevitabile che questo stato embrionale del movimento si rispecchi nel carattere ancora generico e indefinito della stessa rivendicazione di democrazia su scala europea. Di questo risente naturalmente allo stato attuale anche il progetto DiEM. E tuttavia la ricchezza della discussione che si è aperta a Berlino, l’eterogeneità dei partecipanti e dei linguaggi, la tensione e perfino l’entusiasmo che l’hanno caratterizzata indicano chiaramente l’apertura di una possibilità politica realmente nuova. Saranno i prossimi mesi a dirci quanto efficace.
Il manifesto, 16 gennaio 2016
La rottura intervenuta all’ormai famoso tavolo promosso da L’Altra Europa con Tsipras per un processo costituente di un soggetto politico della sinistra – avvenuta per ben distribuite e differenziate responsabilità – non può e non deve significare l’abbandono di quel progetto. Diversi sono gli appelli unitari che vengono dai territori in questi giorni che ne reclamano giustamente il perseguimento. Certamente quel tavolo non può essere rimesso in piedi così come era. Probabilmente la sua stessa ristretta composizione non ha aiutato. Logiche identitarie e conservative hanno prevalso. Né si può accettare il paradosso che l’allargamento della sua composizione a chi nel frattempo ha abbandonato il Pd sia stato di per sé fattore di crisi anziché di arricchimento. Il percorso si fa quindi più articolato, complesso e forse più lungo. Ma non va abbandonato.
Tanto più che l’anno che comincia ci offre una occasione difficilmente ripetibile di fare rivivere alla politica una dimensione di massa. Mi riferisco in primo luogo alla stagione referendaria che sta per aprirsi, senza trascurare le elezioni amministrative in importanti città. Renzi scommette tutto sul referendum costituzionale. Ha posto una sorta di fiducia sul suo esito. Vuole ingaggiare il guru della campagna per l’elezione di Obama, per una campagna martellante e non solo televisiva. Battaglia soda, avrebbe detto il Machiavelli. Da un lato dimostra tutta la pochezza di questa classe dirigente. Mai i costituenti di un tempo avrebbero pensato di schiacciare sulla contingenza politica il tema della Costituzione che dovrebbe avere ben altro respiro. Dall’altro lato è vero che se dovesse perdere, neppure l’Italicum starebbe in piedi e crollerebbe l’intero impianto neoautoritario su cui Renzi fonda il suo governo e il suo potere. E questo Pd senza il governo non è nulla. Anche perché nella sua foga di distruggere i corpi intermedi della società, tra cui i sindacati e i partiti, Renzi ha in primo luogo macinato il proprio.
Il referendum costituzionale è senza quorum, uno scontro diretto fra il No e il Sì senza l’ausilio dell’astensione.. Se lo si vuole vincere – e non è impossibile –bisogna mettere in campo tutta la passione, l’intelligenza e le forze di cui disponiamo e che dobbiamo accrescere e affinare nella campagna stessa. Non solo, ma è fondamentale legare i temi sociali con quelli istituzionali. Per questo sarà decisiva la raccolta delle firme nella primavera per l’abolizione dell’Italicum, delle cattive leggi sul lavoro, la scuola e l’ambiente che hanno caratterizzato il neoliberismo renziano. Non c’è nulla di automatico in questo, anzi ci vorrà molto pensiero e buona comunicazione: ma l’occasione per legare assieme battaglia politica e sociale, per fornire nuova linfa alla coalizione sociale e ad un necessario nuovo soggetto politico della sinistra è troppo ghiotta. L’idea che si possa fare a meno di una rappresentanza politica della sinistra bastando in sua vece l’autorappresentazione sociale è smentita dalla storia e anche dai recenti successi di una rinata sinistra in più punti d’Europa.
Un contributo alle prove di una sinistra autonoma dal Pd e da un centrosinistra -morto nell’anima e di cui si vorrebbero fare sopravvivere solo le vuote spoglie – potrà venire anche dalle prossime elezioni amministrative. A condizione che si separi concettualmente prima ancora che fattualmente, la politica delle alleanze dalla logica del vincolo coalizionale. La prima è un classico sempre rideclinabile della politica del movimento operaio, a livello politico e sociale. Ma parte dalla condizione imprescindibile dell’autonomia politica e organizzativa del soggetto di sinistra. La seconda costituisce una prigione che condanna forze minori a essere satelliti attorno al pianeta Pd. E’ curioso che di fronte a una legge elettorale che conferisce il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, ci sia ancora chi indulge al tema delle primarie e della coalizione preventiva con il Pd. Tema che solleverei anche all’attenzione di Aldo Bonomi, pur nel rispetto delle specificità sociali e culturali del quadro milanese, che non mi sono ignote. In alcune città, ricordo per difetto Torino, Bologna, Roma, si stanno costruendo percorsi che dimostrano non solo la necessità, ma la possibilità di liste unitarie di sinistra alternative al Pd capaci di affrontare nella sua complessità la problematica del vivere urbano.
Nel frattempo non vanno perdute occasioni di incontro unitario. Non è l’inizio del processo immaginato dal tavolo, ma l’appuntamento previsto per febbraio da Act può diventarne una tappa se si apre alla codecisione di temi, modalità e finalità. Se così non avverrà, sarà una sconfitta per tutti.
Ma che caratteristiche deve avere questo nuovo soggetto politico della sinistra? In molti giustamente se lo domandano e tutti invocano innovazione. Più facile dire cosa non deve essere – viste le esperienze fallimentari in questo campo – cioè non un semplice soggetto elettorale, non una federazione di sigle, certamente non un partito ‘monolitico’. Alcuni si ispirano ai modelli esistenti - da Syriza a Podemos passando per la Linke, spingendosi fino alle formazioni latinoamericane - che però sono uno diverso dall’altro e ogni processo se è reale deve anche essere originale. Se pensiamo che si tratti di organizzare politicamente una parte della società, ora depredata delle sue rappresentanze e delle sue “casematte”, la parola partito non dovrebbe costituire uno scandalo per alcuno, pur non esaurendo l’opera di ricostruzione dei corpi intermedi, cioè delle vene della democrazia.
Ma non nasce come Minerva dalla testa di Giove. Deve essere frutto di un processo costituente, immerso nel dibattito culturale e teorico – senza la costruzione di un profilo politico e programmatico riconoscibile non si va da nessuna parte - quanto nella più concreta lotta sociale e politica. Ma questo comporta che non si pongano pregiudiziali tanto all’inizio del processo – come lo scioglimento immediato delle forze esistenti, perdendosi così nel bicchiere d’acqua dei veti e delle pretese – quanto e soprattutto al suo esito che, per avere successo, dovrà andare ben oltre il quadro peraltro assai gracile e incerto che oggi ci offre la sinistra.
Il manifesto, 14 gennaio 2016
Domenica si riunirà il Comitato Nazionale dell’Altra Europa per Tsipras , l’organismo — un centinaio di persone — eletto ormai parecchio tempo fa, quando si decise di rendere stabile la rete dei comitati che aveva partecipato alla campagna elettorale europea del maggio 2014. Sarà il primo incontro dopo la così detta rottura del famoso tavolo incaricato di negoziare come far partire il processo di costituzione di un nuovo soggetto della sinistra, un passaggio dunque importante per tutti quelli che ancora insistono nel puntare a questo obiettivo.
Dico “così detta” rottura, perché una percezione così drammatica di quanto è accaduto quel giorno io francamente non la condivido. Sebbene speri in una sua ulteriore riflessione, ho compreso la posizione espressa con molta onestà da Paolo Ferrero quando ha dichiarato l’indisponibilità del suo partito anche solo di ipotizzare il proprio scioglimento, perché Rifondazione è un partito molto strutturato e identitariamente determinato. E ho pensato che per ora occorresse prenderne atto, indicando subito, però, come stabilire un’intesa per continuare a collaborare.
Il processo costituente del resto non è chiuso, è appena aperto, e se funzionerà gli innesti potranno (e dovranno) essere ancora molti.
Ho capito meno le reazioni che ho visto espresse on line da molti dell’Altra Europa, perché non vedo francamente in cosa consista il colpo di stato che sarebbe stato operato da chi ha deciso di procedere con chi sia d’accordo nell’avviare un processo — che tutti sappiamo lungo e per niente garantito — al termine del quale, e solo allora, nascerà — forse — un soggetto unitario. Non un’alleanza elettorale, e dunque non fondata soltanto sulla cessione di ciascuna componente della sovranità in questa peraltro quantomai scivolosa materia: questa l’abbiamo già sperimentata e non è stata mai brillante.
Fino a quando non si rimescolano le carte — e cioè non ci si mischia anche umanamente nelle stesse sedi; non si creano nuove amicizie e nuove solidarietà; non si discute assieme senza la paura che un’ipotesi o l’altra privilegi questo o quello; non ci si senta solidali anziché pronti all’accusa reciproca; non ci si impegni a capire le ragioni dell’altro, che non vanno solo rispettate ma anche usate come risorsa critica per se stessi — non si andrà da nessuna parte. Per questo la formula “arcobaleno” non va bene: significa immobilizzare le diversità anziché farle vivere come positivo innesco.
Ho detto che quanto si discute importa a chi ancora insiste nel puntare all’obiettivo del nuovo soggetto, perché mi rendo conto che siamo sempre meno a sperarci e io che sono piuttosto attempata comincio a sentirmi persino un po’ ridicola. Gli amici e compagni — tanti — che so che potrebbero esser coinvolti nell’avventura cominciano a guardarmi come personaggio un po’ patetico. Il linguaggio del dibattito che si è sviluppato on line è di per sé sufficiente a farsi passare la voglia: grondante di sospetti; a prendere qualsiasi perplessità — pur comprensibile — da parte di chi ha passato anni impegnato in questa o quella amministrazione locale come mero desiderio di mantenere uno sgabello; qualsiasi impazienza per intenzione di tagliar fuori questo o quello; un’intervista di Fassina per indebito protagonismo (che qualcuno esca dal comodo Pd per unirsi alla nostra, per ora almeno, armata brancaleone, non c’è tutti i giorni, non vi pare?); e così via. Ce l’ho anche con chi, a una come me e a tanti compagni anche parecchio più giovani di me, dice che siamo compromessi col ‘900: certo che lo siamo, perché lo abbiamo vissuto pienamente senza tirarci indietro. Ogni generazione ha evidentemente il diritto di ricominciare daccapo: ma lasciamo a Renzi (e a Berlusconi) giudicare quel secolo come fosse stato solo immondizia, gli serve a cancellare tutte le cose che bene o male, e in mezzo a tanti errori, si sono pur conquistate.
Io capisco i timori di molti compagni di comitati locali per la possibilità che le organizzazioni nazionalmente strutturate e persino dotate di una rappresentanza parlamentare possano prevaricare le altre. Ma, suvvia, avete paura della “corazzata” Sel? (Magari fosse una nave un po’ più solida!). Se si sentisse tanto autosufficiente non si sarebbe resa disponibile a sciogliersi, tanto più che c’è — ancora, per fortuna — aspettativa in una parte del popolo di sinistra per uno nuovo corso, un’area che non si esaurisce con chi stava a quel famoso tavolo e cui Sel potrebbe guardare. Credo che se Sel insiste nel rapporto in particolare con l’Altra Europa sia per il desiderio di non perdere una esperienza e una cultura — quella che è stata chiamata “generazione di Genova” — che è propria invece ai comitati o reti che a quel tavolo avevano fatto capo.
Sia pure quantitativamente non decisivi, quelle forze sono importanti per caratterizzare il nuovo soggetto che intendiamo costruire; ed è perciò che l’apporto dell’ “Altra Europa” è importante. Ma non si può neppure pensare che questa area rappresenti tutta la forza potenzialmente aggregabile. Se tergiversa troppo, rischia di ignorare pericolosamente l’importanza dei tempi politici: siamo alla vigilia di una battaglia referendaria decisiva, di scadenze di lotta sui temi del lavoro e a urgenze di iniziativa internazionale che non consentono tempi biblici.
Credo sia il momento di avere il coraggio di provare. Cosa sarà il nuovo soggetto della sinistra dipenderà da chi nel corso del processo ne conquisterà l’egemonia (non il controllo, fido che tutti abbiano letto Gramsci) . Perché di una egemonia c’è bisogno, perché se non riusciamo ad esprimere una leadership, resteremo sempre paralizzati.
La costruzione di un gruppo dirigente è stata per qualsiasi forza che ambisca a cambiare il mondo uno dei processi più delicati e importanti, non è una “bestemmia novecentesca”. E’ indispensabile se si vuole un soggetto deliberante e capace di un pensiero lungo, non solo un aggregato che testimonia confuso malessere. (Il 99% contro l’1% può sembrare una bella formula ma non è un caso che quel 99 non vinca mai: perché è facilissimo unirsi sulla protesta, difficilissimo sulle proposte).
Non si evitano i rischi di prevaricazione, di autoreferenzialità, di arrogante pretesa di essere il solo soggetto della politica (questo il difetto maggiore del vecchio Pci), di separatezza, in cui sono caduti vittime anche i migliori partiti , evitando di porsi questo problema. (Pensate al leaderismo estremo di tutte le formazioni che si sono volute informali, dal Partito radiale, a Cinque stelle in poi). Si evitano se si riescono a costruire, assieme al partito (io lo chiamo così, ma anche questo è un tema da discutere), forme nuove, stabili e partecipate di democrazia organizzata, che investano il partito e lo costringano a ridefinirsi in rapporto alle nuove soggettività che crescono nella società.
Ad impedire ogni separazione interna fra vertice e base serve poi ben più che un insieme di regolette lo sforzo di ridurre al minimo la distanza fra dirigenti e diretti, che vuol dire anche trovare i modi di una crescita collettiva che non separi chi sa (o pretende di sapere) da chi davvero non sa. L’arbitrio ha sempre origine da qui.
E allora: possiamo farcela? Potremmo se nessuno si ritrae con paura ma se tutti si sentono abbastanza forti da contribuire a fare questa cosa che vogliamo fare. Come sarà è esito ancora piuttosto aperto. Ed è naturale che sia così. Perché la difficoltà dell’operazione non sta nella malafede di questo o di quello, ma negli stravolgimenti che hanno colpito il mondo e che ci costringono a ripensare tutto. Uno spaesamento di fronte al quale purtroppo nessuno è riuscito a trovare strategie vincenti.
Ci sono fasi della storia così, e noi siamo nel pieno di una di queste fasi. E’ una constatazione che rischia di diventare paralizzante, e infatti è qui la radice di tanti abbandoni. Credo sia necessario impegnarsi ugualmente perché c’è speranza di trovare una via se ci parliamo, con la pazienza di ascoltarci reciprocamente, non se restiamo ciascuno a casa propria.
Il manifesto, 7 gennaio 2016
Mentre la politica si avvita praticando, in varie versioni, il cosiddetto «pensiero unico» neoliberista, che coincide con la privatizzazione di tutto l’esistente, un mondo operoso e attento ignorato dall’informazione e dalle istituzioni, se non apertamente combattuto, lavora da tempo sottotraccia per cercare di cambiare le proprie vite e il Paese.
Che fare?
La gravità della situazione in cui la politica, in tutte le sue versioni, risulta incapace di una visione rivolta all’interesse collettivo anziché a quello delle solite lobby con cui è irrimediabilmente compromessa, ci induce a cercare insieme risposte creative ed originali, in grado di avviare, attraverso un dialogo concreto con quelle parti della società in cui ciascuno di noi è immerso, un percorso virtuoso e onesto per ricostituire condizioni di vita accettabili per tutti. E’ un proposito molto ambizioso, ma realistico: milioni di persone in Italia, in Europa e nel mondo stanno operando con lo stesso intento e il nostro non sarà che un contributo a un disegno comune.
Il 9 e 10 gennaio a Bologna (Centro Costa, Via Azzo Gardino, 44) ci porremo assieme questa domanda, convinti che oggi nessuno possa avere da solo tutte le risposte necessarie; ma che insieme, sperimentando nuove pratiche e nuove prospettive e dando valore all’intelligenza di tutti, si possa aprire un cammino nuovo. Abbiamo bisogno dell’apporto, della competenza e dell’esperienza di tutti e di ognuno. Pensiamo che le risposte più innovative possano nascere solo dal confronto e dalla interconnessione tra le persone che già danno vita a iniziative sociali, di lotta e di proposta attive su tutto il nostro territorio.
Vogliamo affrontare con voi molte questioni che giudichiamo prioritarie per il nostro Paese: le riforme costituzionali, la legge elettorale detta Italicum e la questione più generale della democrazia oggi; la conversione ecologica dell’economia e la transizione energetica verso un mondo senza più combustibili fossili e minacce per il clima di tutto il pianeta, tema fortemente connesso con la creazione di tanti nuovi posti di lavoro per tutti; il diritto al lavoro, ma anche a un reddito di dignità per tutti coloro che sono senza lavoro; la questione dei migranti e dei rifugiati; il tema della pace e degli equilibri economici e politici in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo; la pessima riforma che il governo, e solo lui, ha chiamato della «buona scuola»; il tema dell’organizzazione della sanità e quello più generale della salute di tutti, soprattutto in termini di prevenzione; il tema delle grandi opere che devastano l’ambiente e la vita di intere comunità; quello delle privatizzazioni e dell’esproprio dei beni comuni; il tema dei diritti di tutti e, tra questi, soprattutto di quelli delle donne che subiscono stupri, femminicidi, discriminazioni di ogni genere e che sono sottoposte a mille forme di sfruttamento, anche grazie a un governo che risparmia e taglia ovunque, riducendo lo stato sociale e scaricando le conseguenze di tutto questo sul lavoro di cura non pagato delle donne.
E’ un tema per noi di primaria importanza perché pensiamo che il riscatto della condizione delle donne, e soprattutto di quelle immigrate che vivono qui tra noi come di quelle dei paesi da cui provengono, è la via più efficace per neutralizzare e sconfiggere la violenza feroce che si manifesta in molte delle guerre in corso e in molti dei recenti episodi di terrorismo, la cui posta in gioco principale è il mantenimento o la riconquista di un dominio incontrastato degli uomini sulle donne che continuano a considerare una «cosa loro».
Sono tutti temi fortemente interconnessi tra loro che richiedono una risposta complessiva e sui quali potremmo lavorare insieme.
Tra questi, quello che a noi sembra ricomprendere un po’ tutti gli altri, perché mette in gioco tutti gli aspetti dell’ambiente in cui viviamo e vivranno in nostri figli e i nostri nipoti, l’opportunità di un lavoro giusto e sensato per tutte e tutti, la partecipazione di tutte e tutti, su un piede di parità, alle decisioni relative a ogni aspetto della nostra esistenza, a partire dal che cosa produrre, come e quanto, e che cosa consumare o utilizzare senza più squilibri tra chi ha troppo e chi niente, è il tema attualissimo, dopo il vertice di Parigi COP 21, della conversione ecologica.
Abbiamo comunque delle scadenze immediate a cui far fronte, che si intrecciano strettamente con i temi di carattere più generale: innanzitutto il prossimo referendum per il no alle riforme costituzionali e la proposizione di nuovi referendum contro la legge elettorale detta Italicum, contro la «Cattiva Scuola» e probabilmente contro il Jobs Act. Ma anche attraverso una nuova stagione di proposte di legge di iniziativa popolare con le quali animare l’asfittico e mistificato dibattito nel paese coinvolgendo finalmente i cittadini.
Il passo avanti su cui vorremmo confrontarci tra tutti è rappresentato a nostro avviso dalla possibilità, tutta da costruire se ci sarà la volontà di farlo, di fare rete e sostenerci reciprocamente mettendo a frutto ogni nostra competenza a beneficio degli altri, affinché i nostri sforzi non rischino di essere vanificati andando «tutti alla spicciolata».
Per questo anche il metodo della discussione che vi proponiamo, il world café, è aperto a ogni possibile contributo ed esito. Cominciamo sperimentando tra noi forme di discussione aperte e orizzontali, lavorando in profondità, con lentezza e con dolcezza, come esortava a fare Alex Langer; costruiamo un collettivo dell’autorappresentanza dandoci i tempi che saranno necessari per costruire uno «spazio» di tutti che ridia voce ai bisogni reali, che sappia guardare all’Europa con l’obiettivo di riprendere il cammino profilato a Ventotene e sistematicamente boicottato dai poteri economico-finanziari e da una dirigenza europea appiattita su questi.
Non basta convergere sugli obiettivi, dovremmo darci dei nuovi metodi, promuovendo una profonda trasformazione culturale a partire da noi stessi, che ci faccia transitare tutti da osservatori spesso impotenti di processi decisionali verticistici o anacronistiche forme di assemblea che creano maggioranze e minoranze sempre molto marginali, a promotori di forme decisionali partecipative e orizzontali, capaci di creare un confronto aperto e fecondo, relazioni di fiducia e di rispetto reciproco, decisioni condivise e realmente utili a provare a dare risposta ai bisogni del mondo sociale non più prorogabili.
È il momento di assumerci tutti una responsabilità nuova. Vogliamo provarci insieme?
Il manifesto, 6 gennaio 2016
Furbizie e provincialismi, tentazione di scorciatoie facili,timore d'abbandonare comode cucce, miopie culturali sono gli ostacoli che impediscono il formarsi d'una forza alternativa convincente. Ilmanifesto, 5 gennaio, con postilla
Lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski è riuscito a trasformare il genere giornalistico del reportage in alta letteratura, cioè in una scrittura capace di «vedere di più» nelle pieghe degli svolgimenti quotidiani. Ha potuto farlo perché viaggiava con Erodoto. Riusciva a «varcare le frontiere del tempo», sono le sue parole, proprio perché intratteneva un dialogo continuo con uno dei padri della storiografia occidentale.
Chi non si pone il problema di varcare queste frontiere, chi pensa che «la storia altro non sia che la cronaca» è un «provinciale del tempo», limitato come un «provinciale dello spazio». Il «provincialismo temporale», dice ancora Kapuscinski, è un luogo particolarmente frequentato dai «politici furbi», perché non necessita di pensieri lunghi. Un luogo ostile ai «politici intelligenti», che hanno la necessità di «pensare» oltre il tempo della «cronaca» (della tattica) la realtà che vogliono cambiare.
La costruzione di quella che è stata chiamata «casa comune» della sinistra è, appunto, questione che solo con i «pensieri lunghi» può essere affrontata.
Non esiste «a sinistra», infatti, alcuna ampia prateria aperta a nostre immaginarie scorrerie. Ci sono soltanto sentieri impervi ed in gran parte inesplorati che non promettono, in tempi brevi, alcun particolare successo di rapidi avanzamenti.
Condizione necessaria perché il faticoso e stretto sentiero possa aprirsi a spazi più ampi è che non ne vengano abbandonate le coordinate profonde una volta che si è iniziato a percorrerlo.
Il nostro cammino comune è cominciato con l’esperienza dell’«Altra Europa per Tsipras». Ho già citato, allora, una delle coordinate enunciata da Marco Revelli al momento di tirare le fila di quell’esperienza. Credo sia di particolare attualità. Revelli, dunque, riflettendo in particolare sul ruolo della «task force di Rosa (Rinaldi, nda)» essenziale per la raccolta delle firme in Val d’Aosta, e in genere sui contributi di tutte le «identità» coinvolte nell’operazione, concludeva: «… dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza». Per «provincialismo temporale», potremmo aggiungere, con Kapuscinski, per «furbizia».
È ovvio che la «furbizia» non è necessariamente un difetto in politica. Togliatti in un’occasione ha definito il Pci puer robustus et malitiosus. La manovra tattica, il comportamento malitiosus era, però, funzionale al suo essere robustus, sul piano della teoria, sul piano della cultura politica, sul piano dei numeri.
Un momento, dunque, della grande politica. Aspetti di cui il processo di costruzione del «nuovo soggetto» è del tutto privo.
In tale processo l’unità di quello che c’è («non … smarrirne nemmeno uno…») è precondizione essenziale di un obbiettivo che sia davvero «nuovo» e non «novello», spuma di superficie, senza corpo, senza struttura che possa sorreggere un reale processo di maturazione. Ed invece si è perso subito, in piena coscienza e con «furbizia», il contesto che aveva reso possibile la «task force di Rosa».
Il «provincialismo temporale» spinge a massimizzare nell’immediato una rendita di posizione. Di qui la tentazione di utilizzare la forza e la visibilità di un gruppo parlamentare, frutto drogato di un meccanismo elettorale scomparso, per indirizzare il processo in corso verso gli esiti desiderati. Su tali basi, però, gli esiti non potranno essere che «minoritari», con buona pace di coloro che hanno usato e continuano ad usare il termine come arma contundente.
Senza un’ulteriore e profonda riflessione, infatti, andremo verso nuove divisioni e conflitti e resteremo ancora per tempi imprevedibili nell’attuale stato di irrilevanza. A meno che non si pensi che la via d’uscita dal «minoritarismo» sia l’approdo confortevole a un centrosinistra «buono» come lo era quello di Bersani, prima che il corpo «estraneo» del renzismo non ne mutasse i geni.
D’altra parte il fatto che questa tesi, tra il detto e il non detto, continui ad essere presente nelle pieghe della discussione sul «nuovo soggetto politico», è indice certo della miseria analitica con cui dobbiamo fare i conti. Indice certo di «provincialismo temporale», di scomparsa dei tempi lunghi e delle ragioni sistemiche della regressione.
C’è poi un’altra forma di «provincialismo temporale», quella da cui derivano le sconsolate perorazioni a tirare una riga definitiva su tutto ciò che esiste di organizzato a sinistra per ripartire da zero, dal «basso», da «nuove generazioni».
Il tempo attuale, il tempo della politica è, in realtà, momento in cui convergono temporalità diverse, intrecciate inestricabilmente. Non c’è nessun tempo lineare sul quale possano separarsi nettamente le rotture dalle continuità, comprese quelle generazionali.
Di tabulae rasae, di big-bang, di ripartenze, è piena la vicenda che ci ha condotti all’odierna irrilevanza. È tempo che ognuno faccia i conti davvero con le proprie responsabilità. Voglio credere (sperare) che anche dalla parte dei «furbi» possano svilupparsi (ri)pensamenti «intelligenti».
postilla
Il mondo è cambiato e troppo pochi se neaccorsero mentre cambiava, e non furono ascoltati. Moltissimi non l’hannocapito nemmeno adesso – o non hanno compreso il senso del cambiamento. Ieri losfruttamento si esercitava soprattutto nelle fabbriche e nei campi, oggi in tuttele dimensioni del territorio e della vita. Ieri generava la resistenza e larivolta solo nelle forme di lotta del proletariato urbano e rurale. È in quelcontesto che si è costruita la vecchia sinistra, si sono inventati e praticatigli strumenti della sua lotta sociale e politica.
Il manifesto, 2 gennaio 2016
Vediamo di fissare alcuni punti per trovare la risposta. La narrazione renziana, come ha scritto Michele Prospero, volge alla fine.
I risultati economici, in termini di Pil ed occupazione, sono ben magri; Banca Europea e Confindustria cominciano a prenderne coscienza e lo stesso Padoan non esclude la stagnazione secolare per giustificare la mancata crescita. Se questo è lo scenario, dopo tanto attivismo e tanti soldi indirizzati poco allo sviluppo e molto a raccogliere voti — che comunque non schiodano il Pd dal 30% — a Renzi serve spostare l’attenzione degli italiani dai problemi interni a un nuovo e più ampio terreno di confronto.
La svolta di questi giorni contro l’Europa austera e germanocentrica si inscrive in questo quadro e individua un terreno fertile per cavalcare sentimenti e ragioni di un elettorato più ampio, che, non a caso, è il terreno a lui più congeniale per rilanciare la costruzione del partito della nazione.
I risultati spagnoli, possiamo esserne certi, saranno utilizzati per riconfermare la sua idea di governabilità e rilanciare Italicum e partito della nazione come la versione italiana della grande coalizione.
La confluenza dei verdiniani vecchi e nuovi verso la nuova grande casa madre si accelererà di conseguenza. Anche a una parte di elettorato Pd, il partito della nazione potrebbe a questo punto apparire meglio di una grande coalizione. A questo punto converrebbe al governo che le prossime elezioni potessero svolgersi subito dopo il referendum di autunno per non dare il tempo al centro destra di riorganizzarsi.
Veniamo, così, alla sinistra. In questo scenario se essa dovesse affrontare le elezioni con le forze oggi in campo e con l’Italicum, rischierebbe di essere spazzata via. Avviare al più presto un processo di ricomposizione, quindi, non è un capriccio dei vertici, ma una necessità storica.
Certo se si potesse fermare l’orologio sarebbe meglio discutere prima di una carta dei valori da porre a base del processo ed anche aspettare le prossime elezioni locali per smaltire le divergenze che esse creeranno. Come sarebbe meglio impegnarsi nella campagna per il referendum e in quella per il nuovo statuto dei lavoratori della Cgil per consentire, così, processi di aggregazione sul campo. Ma il tempo non si può fermare e non è nemmeno sicuro che rinviare ancora una volta le scelte annunciate non determinerebbe un’ulteriore sfiducia o addirittura un ulteriore spostamento di elettori di sinistra verso il M5s o verso l’astensione o verso l’accettazione obtorto collo del renzismo come necessità.
Per questo insieme di valutazioni penso che il processo appena avviato debba essere portato avanti e che le divergenze che esistono dovrebbero essere affrontate insieme per cementare nel cammino la nuova unità. Penso, cioè, che possiamo e dobbiamo risolvere i problemi aperti insieme e cammin facendo, durante e non prima.
Si può fare senza pregiudicare il processo? Qui è la vera scommessa per tutti. Se ci sono divergenze che impediscono oggi di dare vita a una nuova organizzazione unitaria, questo non deve impedire a chi è disponibile ad andare avanti di farlo. E non deve significare vivere come una tragedia il fatto che qualcuno si tiri fuori o voglia percorrere un’altra strada. L’importante è che i diversi percorsi non siano totalmente separati, alternativi o contrapposti. Anzi, al contrario, si potrebbero configurare percorsi organizzativi diversi e percorsi di ricerca, elaborazione e azione comuni.
Due iniziative comuni possibili.
Sicuramente siamo in ritardo nell’analisi dei cambiamenti intervenuti nel lavoro e nel rapporto dei giovani col lavoro. Non penso si tratti solo di fare una bella analisi statistica della composizione e delle classi sociali oggi (anche se dopo i tanti anni passati da quella di Sylos Labini non guasterebbe) ma di chiederci che fine hanno fatto oggi le classi sociali sì. Sì perché oggi sempre più spesso e addirittura dentro uno stesso individuo convivono, alternandosi e intrecciandosi, lavoro dipendente e lavoro autonomo, precario e stabile, lavoro per campare e attività creative per realizzarsi, fasi di benessere e fasi di povertà, benessere economico e disagio esistenziale. Si tratta di fattori soggetti a una dinamica velocissima e continua che riguarda sia la collocazione oggettiva che quella soggettiva di una persona. Come rappresentare questo mondo dobbiamo affrontarlo insieme ai soggetti che vivono questa mutazione e le sua contraddizioni e dobbiamo farlo al più presto. Con una crisi dalla quale non si vede uscita, la contrapposizione giovani anziani, garantiti e non rischia di diventare drammatica e di spingere i giovani a considerare gli altri più come privilegiati che come alleati.
Viviamo una crisi profonda del modello di democrazia partecipata e della funzione dei partiti come tramite tra cittadini e istituzioni. Negli ultimi anni l’unica risposta che siano riusciti a dare alle esigenze di partecipazione è stata l’utilizzo delle primarie. Ma le primarie, importate da un sistema bipolare e per la scelta di persone dentro un partito, le abbiano cucinate in salsa italiana, anzi in tante salse regionali e comunali nelle quali esse non sono più né la scelta dei candidati all’interno di una coalizione con un programma condiviso, né la scelta tra opzioni politiche diverse. Una nuova sinistra deve oggi porsi il problema di come costruire con la partecipazione popolare il suo programma, la sua carta dei valori. Si possono rilanciare le primarie su punti programmatici per far risalire dal basso il processo di costruzione della nuova sinistra? Si potrebbe integrare un processo vivo fatto con le persone in carne ed ossa con un processo parallelo da sviluppare sulla rete per ricostruire insieme il nuovo vocabolario della sinistra, ritrovando le parole chiave e costruendo, con una processo partecipato, la loro declinazione? Possiamo produrre una sorta di Wikisinistra? Ecco penso che se decidessimo di marciare insieme con chi ci sta, e di fare insieme anche con tutti gli altri questo cammino di ricerca sul campo potremmo uscire dall’impasse ed evitare l’ennesima falsa partenza.
Naturalmente tutto questo rischia di restare confinato al ceto politico fino a quando i giovani e, soprattutto, le tante giovani donne impegnate nelle associazioni, nei movimenti, nell’attività politica di base, che hanno competenze e passioni da vendere, non troveranno il coraggio di scendere in campo.
Non è una speranza. E’ un appello.