ytali, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
Interrogarsi se sia il degrado del ceto politico (o delle classi dirigenti in generale) la causa dello sfarinarsi di quasi tutti i legami che strutturano la società contemporanea o se sia vero il contrario, è domanda meno oziosa di quanto possa apparire. Perché l’assunzione di uno dei due poli di riflessione induce a comportamenti e a posizioni culturali e persino psicologiche del tutto diverse (anche se, in fondo, complementari).
Chi investe tutta la sua imprenditorialità sulla dimensione separata ed impermeabile della politica rispetto alla sfera drammatica di una società in cui crescono fortemente diseguaglianze sociali e culturali, coglie una parziale verità, ma si attribuisce inopinatamente un compito demiurgico di rappresentazione di sentimenti espressi in forme spesso contraddittorie se non proprio aggressive. Se contro la “casta”, indistintamente definita, tendi a raffigurare una società illibata e priva di pesanti increspature culturali e psicologiche finisci con l’essere travolto da una violenta vandea che rifiuta ogni forma di relazione con i migranti, i diversi ed alimenta scene di conflitti egoistici interni alla stessa società. Non può essere questa una tentazione per qualsiasi ipotesi che si autodefinisca progressista.
Eppure il deficit spaventoso di progettualità e di rappresentanza di un pezzo di ceto politico che fa riferimento a valori vaghi di radicalità progressista tenta questa avventura come aggiramento ad una mancanza di consenso. Ma se impasti temi sociali veri e fondati con egoismi violenti e grevi diventi inconsciamente, e un po’ stupidamente, parte attiva di un collante culturale e politico che è alla base di tutti i movimenti reazionari che stanno animando la scena politica del vecchio continente con esperienze di governo fino a ieri impensabili.
Ma anche fuori dal vecchio continente il populismo approda al governo sconquassando equilibri geopolitici. Trump ha vinto negli Usa con l’annuncio di politiche protezionistiche e di forte arretramento culturale, sociale e civile. Nonostante ciò la presidenza Trump viene salutata in alcuni ambienti di sinistra radicale come la “caduta del muro del liberismo globalizzato” (sarebbe comico se non fosse tragico dipingere così un governo composto da miliardari e finanzieri, da nemici giurati dei diritti delle donne, dei neri, dei gay, dei migranti e di ogni forma di ambientalismo). E se, in Europa, le destre xenofobe, razziste e reazionarie inneggiano coerentemente al nuovo modello di riferimento, anche il M5s saluta con entusiasmo la novità d’oltreoceano.
L’errore strategico
La povertà culturale ed analitica di una critica amplificata alla politica “tout court“, pur avendo spesso conferme da quel mondo, determina un pesante errore strategico non privo di conseguenze. L’eccesso di soggettivismo e politicismo di cui è figlia questa facile scorciatoia oscura colpevolmente un dato che è evidente da qualche decennio: la perdita di potere, di ruolo e di funzioni delle istituzioni a tutti i livelli. In particolar modo delle assemblee elettive in danno degli esecutivi. La globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, il peso crescente della tecnocrazia hanno svuotato la capacità di incidenza dei processi istituzionali e sottratto ogni forma di capacità alla politica di mutare i destini individuali e collettivi.
“Foglie morte in attesa dell’ultimo refolo di vento di autunno”, così il filosofo Emanuele Severino raffigura i politici lasciando intravedere quasi una vita autonoma della tecnocrazia nei processi di governo del mondo. Con quanta efficacia, però, è facile constatarlo nella polarizzazione della ricchezza in aree sempre più ristrette e con sempre meno legittimazione democratica a fronte di un impoverimento che tocca realtà sociali prima neanche sfiorate dalle varie congiunture economiche.
L’urlo indistinto contro la politica, l’urlo che reclama un cambio salvifico, l’urlo privo di progettualità alternativa e di un blocco sociale coeso di riferimento, alimenta facili illusioni e produce fortissime disillusioni che a loro volta incoraggiano passività e rabbia, depressioni e rivolte individualistiche. Se il problema del permanere della tua condizione di sofferenza è legato ad una rapida sostituzione del ceto politico di governo, l’obiettivo sembra così a portata di mano che quando si realizza e le attese vengono però deluse, il divario tra politica e società diventa una voragine.
I nuovi populismi
La via breve e spesso strumentale del populismo rimbalza sui social con toni apodittici e gravi. Brucia ogni ipotesi di soluzioni alternative e credibili ad una crisi economica e culturale che non ha alcun precedente storico per intensità, forma e durata. Un tempo queste modalità erano appannaggio di forze ristrette. Oggi queste forze, nella crisi perdurante, se non proprio l’agonia, delle vecchie formazioni politiche, hanno consensi sempre più significativi.
La soluzione semplice se pur improbabile di problemi complessi ha un appeal superiore a qualsiasi altra soluzione praticabile. Prima queste modalità erano atteggiamenti estremi di forze estreme spesso nostalgiche di altri periodi storici che narrano di un benessere antico il più delle volte mai esistito. Oggi il populismo è di sinistra, di destra e di…centro. È di opposizione e di governo.
Magari con forme di diversa intensità. Al populismo ci si oppone spesso con un “embrassons-nous” del sistema politico che si rinserra in una sorta di cittadella separata in un meccanismo di autodifesa che viene percepito come tutela di facili prerogative e antichi privilegi. Ovviamente questo atteggiamento non fa che alimentare il fuoco del rancore, della rabbia, fino al sentimento ingovernabile dell’odio.
La complessità della crisi
La complicazione strutturale del nostro tempo è determinata dal fatto che il degrado della società e l’irrilevanza della politica si intrecciano e si autoalimentano reciprocamente. Se non si produce un’analisi unitaria si finisce con il rincorrere vecchie antinomie tra autonomia del sociale ed autonomia del politico, entrambe deprivate di una dimensione vitale positiva e fortemente deteriorate. Qui siamo. Il paese che ha conosciuto il più alto livello di socializzazione e partecipazione politica, l’Italia, è stretto tra opzioni liberiste di natura tecnocratica e varie forme di populismo.
Il paese che, negli anni Settanta, ha conosciuto il più alto livello di conflitto sociale organizzato e, forse, la più importante sperimentazione di modelli sociali alternativi, vive oggi la dissoluzione di ogni forma di legame sociale e solidaristico. Dal conflitto collettivo ispirato alla giustizia sociale all’invidia di tipo individualistico. Dalla consapevolezza di essere parte di un grande movimento di massa con una idea di trasformazione o trascendenza della realtà al vuoto di senso esasperato che si cristallizza nel tempo presente. L’Italia, più che altri paesi europei, conosce la distruzione se non la dissoluzione dei corpi intermedi della società.
“L’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Pare che la dissoluzione liquida della società descritta tante volte da Bauman trovi qui una applicazione particolarmente favorevole. Ma di liquido ci sono solo i soggetti organizzati: partiti, associazioni ed in parte anche sindacati. Remo Bodei in una recente intervista parla infatti di un ritorno alla materialità dura determinato dalla crisi economica, dalle crescenti disparità e dalle sacche nuove e vaste de povertà. È singolare rilevare che in una delle fasi di maggiore difficoltà del capitalismo (forse la più critica dalla sua nascita) nel governare le società siano scomparsi i suoi antagonisti. Il capitalismo in crisi travolge i suoi avversari. Eppure non convince, anzi si disaccoppia dalle forme di democrazia liberali finora sperimentate in occidente disarmando e rendendo inutile la politica.
Possiamo affermare con buone ragioni che questo liberismo contemporaneo sia profondamente illiberale. A ben guardare sta mutando profondamente la dimensione dell’umano. C’è il capo e ci sono le folle. Un clima culturale e psicologico non dissimile dai periodi inquietanti dei totalitarismi del secolo scorso. Ma ancora Bodei osserva giustamente che tutto è cambiato. Si è chiusa un’era apertasi con la rivoluzione francese. C’è una copiosa letteratura che disvela l’allarmante prospettiva che ci attende, ma a differenza del secolo scorso la funzione intellettuale non orienta grandi masse. Torna la nota profezia di Keynes: ” l’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Il fattore umano
“L’inatteso”, nelle relazioni umane, accentua sentimenti estremi, esaspera competizioni e narcisismi. Trasforma il bisogno di giustizia sociale in invidia e rancore. Sedimenta sacche di odio che sfociano in episodi sempre più diffusi di violenza improvvisa e priva di una spiegazione razionale. Il narcisismo è sicuramente la malattia del nostro tempo. C’è un narcisismo manifesto ed esibito nelle competizioni dell’apparire. C’è un più diffuso narcisismo che possiamo definire “represso”. È quello di chi aspira a godere di uno status che non potrà mai raggiungere.
Una potente deprivazione che lacera gli individui lasciandoli macerare in una rabbia interiore a stento tenuta a freno da meccanismi di controllo che impediscono sentimenti e legami autentici. Una deprivazione di beni materiali ed emotivi che vengono assurti a beni irrinunciabili anche se spesso inconfessabili. Il rapporto del capo con le folle imprigiona gli individui in un rapporto muto ed unidirezionale.
È un rapporto di tipo adattivo privo di elementi di criticità. È una sorta di identificazione ed induce ad atteggiamenti compiacenti al volere del modello di riferimento. Atteggiamenti vissuti in condizione di solitudine rancorosa. È una forma di relazione di tipo verticale che impedisce la dimensione orizzontale del legame sociale.
La perdita della libertà
Di questo tipo di relazione è utile indagare la perdita di libertà dei soggetti coinvolti. Nel suo ultimo libro Il coraggio di essere liberi il teologo Vito Mancuso utilizza efficacemente la metafora della professione dell’attore che usa tante maschere e recita su testi di cui non è evidentemente l’autore. « L’attore parla obbedendo ad un copione… Né i movimenti sono naturali, ma costruiti, artefatti». È gratificato dalla sua capacità tecnica se apprezzata da chi giudica la sua prestazione. Ognuno di noi tenta di recitare sui diversi palcoscenici dell’esistenza. Tutte le nostre parole, il linguaggio corporeo, le movenze sono finalizzati al compiacimento di un regista esterno.
Per dare un senso al vuoto esistenziale del tempo presente lo si riempie con una trama comportamentale dettata da un modello esterno mitizzato. Non c’è possibilità di entrare in conflitto con l’altro da te, affrontare l’incertezza della relazione o subire le possibili ferite narcisistiche. L’altro è potenzialmente e tendenzialmente un competitore se non proprio un nemico. Il rapporto fideistico con il capo sottrae anche lo spazio di una riflessione sul sé e su quella parte del sè in cui abitano le “ombre” di cui ha tante volte parlato Jung. Si finisce con l’essere soli e contemporaneamente fuori da sè. Si placa così, artificialmente, un senso insopportabile di vuoto. È evidente che in questo contesto perdono senso e significato valori come libertà ed uguaglianza. Libertà da chi? Non certo dal capo. Uguaglianza con chi? Non certo con l’altro.
Solidarietà
Anche termini come fratellanza e solidarietà, valori propri non solo di un mondo laico ma anche cattolico e religioso hanno perso peso. Riappaiono in congiunture ed eventi straordinari, ma se la congiuntura e l’evento si protraggono nel tempo questi sentimenti rapidamente rifluiscono per lasciare il campo ad un sentimento di tipo individualistico ed utilitaristico. Il termine solidarietà rischia di essere una parola sempre più vuota se non viene praticata e vissuta in una dimensione concreta.
La politica che proclama solidarietà non viene creduta perché spesso non rappresenta un mondo o una comunità che la praticano. E quella parola si rovescia quasi fosse un disvalore propagandistico. Quella parola continua ad avere un senso in aree di volontariato ed associazionismo sia laico che religioso. Vale a dire in mondi vitali che hanno dato alternative concrete al senso di vuoto, di ingiustizia, di precarietà esistenziale provando a mettere in discussione sè stessi nella relazione con l’altro.
Papa Francesco ha proposto questa dimensione originaria della fede per cercare di recuperare una scissione evidente tra la Chiesa e la società. Processo non dissimile dalla divaricazione tra politica e società. Ma questi sforzi incontrano resistenze molto grandi. Si può evidenziare un conflitto aspro tra le gerarchie ecclesiastiche, ma anche, problema più serio, una resistenza o, nel migliore dei casi, una disabitudine a praticare la solidarietà concreta in tante strutture territoriali fino a disattendere apertamente le indicazioni del Pontefice.
Nel pieno della tragedia dei migranti e dei profughi la proposta di Papa Francesco di aprire chiese e sedi per dare loro ricovero è stata straordinariamente importante. Non a caso è stata dileggiata dai capi razzisti e da coloro che osannano i muri alzati di tutta Europa. Ma questa indicazione ha incontrato inerzie e ostilità anche all’interno della Chiesa. Anche il mondo cattolico è, dunque, attraversato da questa crisi di senso e di vuoto delle società contemporanee.
Radicalità nella società e responsabilità in politica
Il tema cogente è quello di provare a ricostruire legami, pratiche sociali, mutualismi. Per semplificare si potrebbe dire che occorrerebbero comportamenti determinati e coraggiosi nella società per sradicare convinzioni incancrenite o atteggiamenti narcisistici e cinici. Occorrerebbe investire personalmente e collettivamente nella costruzione di legami di tipo solidaristico e mutualistico. Ricostruire in forme moderne e contemporanee luoghi in cui far nascere assistenza, protezione sociale, scambio culturale ed emotivo, socialità e gratuità. Ma questi spazi dovrebbero avvalersi di una politica compatibile con la loro crescita. Una politica responsabile e di governo che si lascia contaminare da queste pratiche sociali.
Un tempo avremmo chiamato questi luoghi con un termine gramsciano “casematte”. Una politica capace di esprimere anche compromessi, sane mediazioni con l’intento di facilitare il diffondersi di queste esperienze di tipo comunitario. Radicali nella società e responsabili in politica. Solo così si può favorire un processo molecolare di trasformazione sociale e culturale.
Rifondare il popolo contro ogni tentazione populistica. Rifondare la politica contro ogni tentazione autoreferenziale o settaria. Non è più tempo, a sinistra, di posizioni moderate o rigoriste. Così si fa solo il gioco delle destre. Ma non è più tempo, a sinistra, di posizioni estremistiche e propagandistiche. Servono solo a riprodurre ceti politici mediocri e parassitari privi di qualsiasi relazione sociale. Spazio e tempo si sono stretti come una morsa.
Serve una nuova teoria e nuove idee credibili di governo della società. Ma serve un grande coraggio nel mettere in discussione unilateralmente sè stessi per incontrare l’altro/a e sostituire pazientemente la tela stracciata della vecchia società in un nuovo ordito in cui cominciano a prendere vita e senso parole come uguaglianza, libertà, fratellanza/sorellanza, solidarietà.
L'obiettivo: «avviare da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione».
il manifesto, 28 gennaio 2017
Il «laboratorio» della sinistra è ormai partito. Il 28 gennaio si riunisce "Possibile", a febbraio il primo congresso di Sinistra Italiana e ad aprile il congresso di "Rifondazione Comunista". Nel frattempo il 21 gennaio è svolta l’assemblea dei "Comitati per il No" e l’11 (a Roma) e il 18 dicembre (a Bologna) si sono riunite le reti delle liste civiche e delle associazioni. In primavera si terranno i referendum promossi dalla Cgil. E le elezioni politiche – sia che si tengano a giugno che a febbraio del 2018 – sono alle porte. Ci sono alcuni punti su cui riflettere.
Primo. La crisi perdura in modo feroce. La profezia di Krugman di una lunga stagnazione dopo gli anni del crollo si sta avverando. Non sarà lo zero virgola a cambiare le cose nei prossimi mesi e anche le locomotive del Pil mondiale arrancano. In Italia le cose vanno peggio.
A questi tassi di crescita, ci vorrà ancora una decina d’anni per tornare allo stesso livello del Pil del 2007. Nel frattempo il Censis ci dice che 10 milioni di italiani rinunciano a curarsi per mancanza di soldi, l’Istat che più di un giovane su tre non ha lavoro e che la povertà assoluta è tornata a crescere: 4milioni e 600mila italiani nel 2016.
Secondo. L’Europa. È diventata nel corso di questi anni non la soluzione, ma parte del problema. Uscire dall’euro risolverà i problemi? Fare l’euro senza politiche comuni è stato un grave errore. Ma è un errore anche pensare che senza euro sarebbe possibile tornare a fare politiche keynesiane.
Se si dovesse uscire dall’euro il segno sarà quello della destra nazionalista e non quello della sinistra radicale. I lavoratori hanno pagato un enorme prezzo per entrare nell’euro: non gliene facciamo pagare un altro per uscirne.
Serve un «aggiustamento radicale», dice Varoufakis: politiche comuni, democratizzazione della Bce, conferenza del debito, ecc. Non ci sono i rapporti di forza? Perché ci sono forse i rapporti di forza per uscire dall’euro senza il rischio di una catastrofe sociale?
Terzo. L’Italia ha sofferto più di altri questa crisi, ma l’ha affrontata con gli stessi strumenti del neoliberismo europeo ed atlantico: riduzione della spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, mercato. Prima con la tecnocrazia di Monti, poi con il populismo dall’alto di Renzi, le politiche seguite sono state le stesse: quelle neoliberiste, con risultati economici catastrofici, conseguenze sociali drammatiche, un sistema industriale devastato. Le imprese italiane sono state svendute al miglior offerente o (come la Fca/Fiat) se ne sono andate: il nostro paese è diventato una sorta di bad company del modello neoliberista globale.
Quarto. Il Pd – Renzi o non Renzi – ha alzato bandiera bianca di fronte alla destra. Ed è questo che rende impossibile alcuna coalizione o le primarie con un partito che ha fatto politiche neoliberiste. C’è una mutazione strutturale e irreversibile che ha trasformato il Pd, da «partito» di centro-sinistra a «partito della nazione», coacervo di comitati elettorali. La minoranza del Pd – che ha alternato afonia politica ed errori madornali – appare assolutamente ininfluente e residuale.
Quinto. Il centro-sinistra è morto. Dobbiamo invece costruire una sinistra alternativa, fondata sull’autonomia e non sull’opportunismo di alleanze spurie. Il congresso di Sinistra Italiana può dare un decisivo contributo, ma senza autosufficienza. Solo un campo aperto di una politica diffusa e plurale – fatto di partiti, movimenti, associazioni, liste civiche, territoriali, organizzazioni del lavoro, ecc. – può ricostruire una cultura politica che si sottrae ad un politicismo rifiutato da chi a sinistra non va più a votare. Si tratta poi di prepararsi alle imminenti elezioni. In coalizione con questo Pd non si può andare. E nemmeno con tre più liste diverse alla sinistra del Pd o con una lista frutto di accordi dell’ultimo minuto.
Serve da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione. E serve una leadership corale capace di federare e di interpretare – anche con la propria storia personale nelle lotte sociali e per i diritti- la volontà di unità e di cambiamento che ci ha consegnato il voto del 4 dicembre. A queste condizioni è possibile mantenere aperta la costruzione di una sinistra capace di dare voce alle domande di cambiamento del paese.
«La parola "progresso" ha perso il significato univoco dei secoli passati. Oggi la critica alla società del rischio dovrebbe suggerire alla sinistra un altro vocabolario».
il manifesto, 24 gennaio 2017
Nella discussione sulla costruzione di un “campo progressista”, in risposta alla crisi della sinistra, chi ha criticato questa formula ha fatto riferimento al campo, richiamando il centro sinistra e l’Ulivo, più che a progressista, la cui positività è data per scontata.
E lo è stata in effetti per tutto il diciottesimo e per gran parte del diciannovesimo secolo. Con essa si esprimeva la fiducia nel miglioramento continuo della vita umana, sulla base di progressi scientifici e tecnologici, e sullo sviluppo economico conseguente alla nascita dell’industria moderna. La fede nel progresso era la fede nella centralità dell’uomo sulla terra, sia da parte dei laici che dei religiosi, per cui la natura era stata creata per l’uomo.
A dire il vero già nell’800 ci fu chi mise in dubbio questa fede e l’antropocentrismo che la ispirava. Giacomo Leopardi, La ginestra, ironizza su «le magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, di fronte al tragico spettacolo de «lo sterminator Vesevo» che spazza via le opere dell’uomo che ha con stolta fede nel progresso disseminato di manufatti - ora diremo che ha cementificato - le pendici del Vesuvio, al cui furore ha resistito solo l’umile fiore della ginestra. La voce di Leopardi rimase per molto tempo isolata. I giganteschi passi avanti nella ricerca tecnica e scientifica, gli spettacolari successi della rivoluzione industriale misero in ombra il radicalismo del pensiero critico del poeta di Recanati.
Ma ai nostri tempi è sorprendente trovare un eco delle tesi dell’ateo e materialista Leopardi nell’Enciclica di papa Francesco, che fra le altre cose sembra farla finita con il tradizionale antropocentrismo della dottrina cattolica. L’uomo più che il centro dell’Universo, dopo Dio si intende, è solo una componente di una natura, che se l’uomo continuasse nella sua opera dissennata trainata dal profitto e dal consumismo, potrebbe addirittura fare a meno di lui.
Il cambiamento cessa in quest’ottica di essere di per sé una cosa sempre positiva, e ancor meno il cambiamento veloce, le decisioni rapide volte all’accelerazione della crescita economica. Siamo entrati nella società del rischio come l’ha definita Ulrik Beck, in cui i rischi sono provocati soprattutto dall’opera dell’uomo, dagli stessi “progressi”, che sia sul terreno socioeconomico, che su quello ambientale, l’umanità ha portato avanti senza curarsi delle conseguenze sulla natura e sulla coesione sociale. Il progresso trova un limite nel principio di precauzione, in cui la positività del cambiamento viene messa alla prova sulla base delle sue conseguenze sulla sicurezza ambientale, sulla salute e sulle opportunità di vita buona che apre o chiude al genere umano.
Oggi i cambiamenti, le riforme appaiono come una cosa che peggiorerà le proprie condizioni di vita e di lavoro.. Zygmut Baumann lo ha detto così: «Il ’progresso’, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso ’progresso’ sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui».
Credo ce ne sia abbastanza per non dare alla parola progressista un significato univocamente positivo. Oltre tutto il campo che definisce risulta connotato quasi per necessità da due altri elementi altrettanto meritevoli di una disamina critica. Perché i progressisti per natura sono governisti, perché è essenzialmente dal governo che si diffondono e si controllano i cambiamenti, e riformisti, tesi cioè a perseguire i cambiamenti conseguibili nel quadro economico dato, da fare evolvere con la necessaria cautela..
Viene in mente a questo punto Enrico Berlinguer che di fronte ai progressisti e ai riformisti del suo tempo non esitò a dichiararsi conservatore e rivoluzionario. Perché la conservazione di un equilibrato rapporto tra l’uomo e la natura, dei nostri beni culturali e ambientali, dei valori della nostra storia, e dei diritti civili e sociali in questa lunga storia conquistati, richiedono la messa in discussione radicale dello stato di cose presente.
«il manifesto, 21 gennaio 2017
Centinaia di persone – gli organizzatori azzardano la cifra ragguardevole di mille uomini e donne – che prendono appunti per cinque ore al giorno sulle relazioni che hanno come oggetto il comunismo.
È questa la prima immagine che emerge nel convegno in corso a Roma – tra la Gnam e lo spazio occupato Esc Atelier – che ha visto alternarsi sui due palchi filosofi, sociologi, antropologi ed economisti provenienti oltre che dall’Italia, da Australia, Stati Uniti, America Latina, Russia, Francia, Germania, Inghilterra.
La seconda immagine è la eterogeneità generazionale. Giovani uomini e donne di venti, trenta anni assieme a chi ha attraversato altri decenni. Infine, molti dei partecipanti non sono solo italiani.
I temi affrontati finora hanno molto a che fare con la storia, anzi le storie dei vari movimenti comunisti. La critica dell’economia politica, il concetto di proletariato, l’esperienza dei socialismi reali. Ma nel convegno non c’è nostalgia del passato: tutti i relatori, e molte delle domande emerse nei workshop svolti alla Gnam, invitano a guardare al futuro e a pensare una trasformazione radicale dell’esistente, che segua strade nuove. Il pubblico è parco di applausi facili. Ascolta in silenzio e con una attenzione che meraviglia – per primi gli stessi organizzatori, i quali per oltre un anno si sono incontrati e hanno discusso su come poter parlare del comunismo. In base a quello che è accaduto nei primi due giorni, l’obiettivo è stato raggiunto.
Lo ha anche sottolineato Toni Negri prima di prendere la parola in una sala strapiena e con altrettante persone che sono rimaste in strada senza riuscire a entrare. Se ci sono momenti come questi, ha affermato Negri, vuol dire che non tutto è perduto, come sostengono i cantori del capitalismo.
I relatori, spesso, hanno una lunga militanza politica e teorica alle spalle. Verso di loro molte le manifestazioni di affetto, segno di un riconoscimento per una scelta di vita perseguita con coerenza. È stato così con Luciana Castellina che, nel giorno di apertura con passione ha difeso una scelta di vita e di militanza comunista. Castellina ha però sgomberato il campo da ogni equivoco. Il comunismo storico è cosa finita, bisogna pensare ad altre forme della politica per conseguire l’obiettivo di una società di liberi ed eguali, ma se quella esperienza va considerata chiusa, ciò che invece non può essere archiviata è la storia dei comunisti, cioè di chi in nome della propria visione del mondo ha messo a rischio la vita, il lavoro, gli affetti.
Tutto può essere ripensato, ma quelle storie individuali vanno ricordate, rispettate: senza di esse non saremmo qui a pensare le sconfitte, le vittorie e il come ripartire. È in questo passaggio che è partito il primo lungo applauso che ha accompagnato il suo intervento. Eppure, l’intervento di Castellina non è stato l’unico ascoltato quasi in religioso silenzio. Anche quelli di Mario Tronti e Maria Luisa Boccia sono stati diligentemente appuntati.
Tronti ha presentato la sua sofferta riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista. Il mondo che vede dipanarsi davanti gli occhi non gli piace, è scettico se non all’opposizione verso chi prova a sbrogliare la matassa del presente facendo leva su una idea plurale di comunismo e di marxismo.
Maria Luisa Boccia, invece, ha messo sul piatto della bilancia il rapporto e le differenze tra il comunismo e il femminismo, due esperienze che hanno scandito la prima e la seconda metà del Novecento.
L’ultima, maliziosa, immagine di questa iniziativa è che il comunismo da queste parti è un oggetto pop. Non c’è però nessuna aura vintage nella platea, a partire dagli sforzi fatti dai relatori per misurarsi con il presente.
L’elezione di Donald Trump, il populismo xenofobo in ascesa, una crisi economica che mette in ginocchio economie nazionali. Un lavoro frantumato nelle prestazione lavorativa e nei diritti.
È questo il mondo dove i più giovani sono cresciuti, cioè un mondo dove la parola comunista evoca ere lontane nel tempo. E per questo concedono l’applauso a chi parla di precarietà, di sessismo, di razzismo. L’invito di Franco Berardi Bifo è quello di passare a loro il testimone. Un intervento coinvolgente, il suo, accolto anche con scetticismo da chi non crede che il problema del comunismo sia una questione di generazioni passate (Riccardo Bellofiore).
Ieri è stata la volta di Christian Laval e Pierre Dardot, che a Marx hanno dedicato lavori importanti, tra i quali Karl, prenome Marx, uno dei testi più interessanti usciti negli ultimi anni sull’opera del filosofo di Treviri. Che come un fantasma si aggirava nei locali della Gnam e di Esc. Ma non destava paura, bensì la curiosità di poterlo finalmente – e nuovamente – spendere come compagno di strada in quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.
«Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente».
la Repubblica, 18 gennaio 2017 (c.m.c.)
Quel che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’elettorato da conquistare ma anche dei suoi simpatizzanti che spesso (come è successo negli Stati Uniti ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo che a coloro che lo applicano.
E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa.
Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, per l’occasione ristampato da Donzelli. Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra.
Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee — quelle che danno identità alla nostra come a tutte le costituzioni democratiche — non servono ad orientarci né nel giudizio politico né nelle scelte.
Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “ self- made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro.
Nella recente intervista rilasciata a Repubblica Renzi è tornato sul luogo del delitto: ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?). Ma come fare questo? Una risposta (di sinistra) sarebbe quella di partire dalla Costituzione, che non è una carta di vuote promesse e che impegna i partiti e i cittadini, che con essi “concorrono” alla determinazione delle politiche, a mettere in atto scelte coerenti.
Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente. Ma non basta: occorre prendere sul serio gli articoli 2 e 3 che spronano a promuovere coraggiose politiche di opportunità al lavoro e all’educazione. Non si tratta di una lotta per fare “primi” gli “ultimi” ma per dare a tutti/e le condizioni essenziali affinché la realizzazione personale non sia un’illusione o una vuota speranza.
In questo contesto sta la sinistra: il contesto delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle capacità. Il lavoro è la condizione imprescindibile dei cittadini moderni, e alcune costituzioni, come la nostra, sono molto esplicite nel riconoscerlo. Amintore Fanfani (che comunista non era) difese l’articolo 1 dicendo con limpida chiarezza (che fa difetto alla sinistra attuale) che il lavoro è sinonimo di eguaglianza democratica, contro il privilegio e il parassitismo; è un dovere responsabile verso se stessi e la società, perciò luogo di diritti, tra i quali quelli a salari che consentano «una esistenza libera e dignitosa» (a questo proposito l’articolo 35 dice che «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»).
È da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).
Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”.
Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebuslosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia.
«C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni».
il manifesto, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)
In occasione del congresso di Sinistra Italiana, alcuni parlamentari ex Sel hanno scritto (come informa il manifesto del 15 gennaio), ad altri che entrerebbero nella nuova formazione, di abbassare i toni dello scontro politico: «La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando».
Quale che ne sia stata la ragione, è un’espressione da non sottovalutare e bene ha fatto il manifesto a citarla in vista di uno scontro che potrebbe avvelenare l’atmosfera del congresso fondativo, tanto quanto le diversità dei contenuti e della linea politica.
Se molte persone, e tra queste, molti giovani, avvertono la politica come un luogo estraneo, questo avviene anche, o soprattutto, per il linguaggio utilizzato e per le forme dello stare insieme dei partiti tradizionali (quali che siano). C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni.
Il messaggio di un mondo nuovo, o almeno diverso dall’attuale (meno ingiustizie, meno disuguaglianze, più occasioni di studio come conoscenza critica, più occasioni di lavoro vero, eccetera), esige un nuovo e adeguato linguaggio che non è solo questione di forma, ma di relazioni, di emozioni, di passioni che aspettano da anni di essere accolte e valorizzate: il vero rimosso della politica.
Un Partito deve anche assolvere una funzione pedagogica, ricreare una cultura del vivere insieme, rifondare un linguaggio per la democrazia (così come era nei propositi di Tullio De Mauro), altrimenti i giovani saranno attratti dalle semplificazioni (anche e non solo) dei Cinque Stelle, dalla loro grinta aggressiva e falsamente contestataria dei poteri dominanti. Purtroppo vale anche per i giovani la legge di Gresham, il banchiere inglese che sosteneva l’assunto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Fine e mezzi non sono separabili: se il fine è giusto allora anche i mezzi per raggiungerlo devono essere autentici, sani; non si può bleffare con chi attende o lavora da anni per un vero cambiamento.
Credo che parte del successo ottenuto da Pisapia a Sindaco di Milano sia dovuto al suo carattere mite, di gentiluomo di altri tempi. Ricorderete il dibattito finale tra lui e la candidata Letizia Moratti in televisione: quando stavano ormai per scadere i tempi, Moratti – sapendo che il suo avversario non avrebbe potuto replicare per mancanza di tempo -, tirò fuori una vecchia e archiviata questione di un procedimento penale a carico del futuro sindaco. Il sentimento di stupore si disegnò sul viso di Pisapia, prima ancora che di indignazione. Moratti dovette successivamente chiedere scusa; ma, tutto sommato, non aveva fatto altro che ricorrere alle vecchie tecniche della politica (e della boxe): colpire dove l’avversario sanguina per decretarne il ko tecnico, legittimo o meno che sia il gesto (e in questo caso addirittura falso).
Nel suo recente libro, Passione politica, Paul Ginsborg (insieme a Sergio Labate), si chiede: «Quanti tentativi di costruzione di soggetti collettivi sono stati vanificati da un vizio passionale, un eccesso di egoismo o d’arroganza. Molto più che per motivi ideali, il loro insuccesso è spesso causato da una competizione fra primedonne e da una diffidenza astuta esercitata anche nei confronti dei propri compagni, che spesso finisce per trasformare la necessaria condivisione in inimicizia. Come se pretendessimo di contestare l’ordine del neoliberismo usando le sue armi più efficaci». La lezione femminista con la sua solidarietà di genere, non è mai entrata nella pratica politica diffusa, dove il modello machista e guappista di De Luca miete successo.
Dal canto suo, il condottiero Renzi, dopo una istantanea, quanto astuta e opportunistica, pausa, torna alla carica riconoscendo «qualche errore» (la Repubblica del 15 gennaio): «Brucia, eccome se brucia. Tanto che il vero dubbio (durato l’arco di qualche giorno, nda) è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la voglia di ripartire». Vecchia astuzia politica anche questa che traspare (tra gli altri vizi) nella continuità di aggressione al sindacato («usano anche loro i voucher»). Nessuna autocritica, nessun pentimento, nessun lutto, se non il rimpianto di non essere stato così furbo all’altezza della situazione.
Allora nel nuovo statuto del partito nascente – Sinistra Italiana – quei nuovi contenuti che molti aspettano, dovrebbero essere espressi e spiegati con parole nuove come: mitezza, umiltà, dialogo, solidarietà, e, perfino, direi, amore e rispetto per l’altro: l’avversario, che sempre è portatore di una qualche ragione con la quale vale la pena di confrontarsi e dalla quale si può sempre imparare qualcosa.
L'impiego truffaldino delle parole per mascherare il vuoto delle idee e conquistare fette di potere. «Renzi si dichiara "riformista di sinistra", Pisapia si battezza come "campo progressista". Due costruzioni retoriche, in danno dell’analisi e della critica della realtà». il manifesto, 15 gennaio 2017
Da tempo ormai, in gran parte dei politici di sinistra, è venuta consolidandosi una paradossale forma di automatismo nei modi di pensare la complessità della dimensione politica. Quanto meno essi si misurano con l’analisi delle condizioni materiali tanto più esercitano la fantasia nelle formule verbali.
E maggiormente nelle formule verbali adatte a mantenere la necessaria agilità di esercizio nel contesto del gioco politico. Costoro si sono specializzati nell’uso di parole e/o locuzioni «suggestive», cioè, come recita il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Utet), tali da suscitare «uno stato di coinvolgimento emotivo, sentimentale, fantastico (…) che rappresenta evocativamente, pateticamente» piuttosto che analiticamente. Si è cominciato con la destrutturazione del termine «riformismo», ridotto alla piattezza unilineare di un valore positivo in sé indipendentemente dai contenuti, e poi via via all’uso sempre più frequente di parole tese alla costruzione di una retorica che falsifica i dati di realtà. Un uso che tende a consolidare un contesto politico-culturale che si potrebbe definire miserabile. Non in un’accezione ingiuriosa e/o d’invettiva, bensì nell’accezione in cui utilizza il termine Galileo: rinsecchimento della prospettiva intellettuale, o Leopardi: difficoltà a reagire a stimoli intellettuali.
Nell’attuale dibattito politico «di sinistra» è entrata una nuova/vecchia locuzione, una sorta di collettore, come vedremo, delle parole suggestive: «campo progressista».
Renzi ha detto: «Il renzismo non è un incidente di percorso, una parentesi della storia. Questo Pd rappresenta ancora la sinistra riformista italiana» (la Repubblica, 10 gennaio). Un’affermazione sulla dimensione complementare dell’«area progressista» al riformismo di Renzi. Renzismo come «sinistra riformista» ed «area progressista», infatti, appartengono alla stessa sfera della falsificazione tramite evanescenza concettuale, anzi tramite rifiuto esplicito di ogni concettualizzazione. «Riformismo», «progressismo» non si manifestano come concetti, cioè strumenti di analisi, ma come feticci del bene politico.
L’aggettivo «progressivo» usato per definire un «campo» politico già di per sé si riferisce ad un concetto, progresso, la cui ambiguità è da tempo al centro di una vasta letteratura critica. La «ambiguità», comunque, comporta la necessità di pensare problematicamente l’oggetto. Invece, nel modo in cui il «campo progressista» è entrato come proposta politica nel dibattito di «sinistra», non solo non si trova alcuna traccia di pensiero critico, ma neppure nessun elemento di connotazione.
Il «campo progressista», secondo le parole di Pisapia, dovrà essere capace di unire «il civismo, la sinistra, e il centrosinistra» e questo non solo è necessario, ma possibile visto che «sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono» (Corriere della Sera, 10 gennaio). È giusto prendere in parola Pisapia sulle cose che dice di avere in comune con la forza largamente maggioritaria del «campo», il Pd; il problema è il carattere «progressista» delle «cose» vista la connessione essenziale che queste non possono non aver con la «cosa» Pd. Si invoca la «discontinuità», ma ci si guarda bene dal cercare le ragioni di una «continuità» che nel suo fondo resta immodificabile.
Un personalità del Pd, Goffredo Bettini, argomenta in questi termini la necessità dell’autocritica relativa ad uno dei punti chiave della invocata discontinuità: occorre che il Pd ponga rimedio alla «scarsa empatia» dimostrata «verso la sofferenza dei disagiati» (Blog Bettini, 7 dicembre). Parole analoghe a quelle che avrebbe usato un filantropo dell’Ottocento. D’altra parte quali sono gli strumenti tramite i quali è possibile aumentare il livello di empatia nei confronti dei «disagiati»? Gli scritti dell’ala sinistra del «campo progressista», e della parte del Pd che ha riscoperto la sua «anima» di sinistra, abbondano di esortazioni ad affinare la capacità di «ascoltare» i lamenti dei «più deboli» (Chiamparino), le esortazioni a rappresentare, nell’ambito dei progressisti, il gruppo con la maggiore «sensibilità» sociale.
«Empatia», «ascolto», «sensibilità», con qualche variazione di sinonimi, rappresentano il vocabolario che esprime l’orizzonte delle cose che «uniscono» il «civismo, la sinistra, il centrosinistra». L’oggetto di queste manifestazioni «empatiche» sono i «disagiati», i «diseredati», i «deboli». Per ora ci vengono risparmiati gli «umili».
In verità ogni tanto appare anche il termine «esclusi». Con un po’ di sforzo si potrebbe anche arrivare a vedere i «superflui». Ecco, magari riflettere sui meccanismi che creano continuamente una umanità superflua, sarebbe forse meno emotivamente accattivante, ma analiticamente più produttivo per dare senso ai variabili percorsi del «progresso». Si tratterebbe infatti di ragionare sui modi di accumulazione del capitale nelle diverse fasi. Si tratterebbe di «vedere se gli “animosi intelletti” che ancora si arrovellano nel pensare la politica, e magari provano anche a farla» abbiano la voglia di usare la strumentazione analitica del profondo, «e, eventualmente, il coraggio di tentare un radicale ripensamento della prospettiva della sinistra» (C. Galli, Ragioni Politiche, 6 Gennaio)
jam session
senza nostalgia. Il crollo del Muro di Berlino sancisce la fine di un’epoca. Sull’eredità di quelle maccerie c’è ancora molto da indagare .Il fallimento del socialismo reale non coincide con il venir meno della necessità politica «del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». il manifesto supplemento-comunismo 1917- 2017,
12 gennaio 2017 (c.m.c.)
Per un giornale che come il nostro ( ormai unico in Italia e raro nel mondo) si ostina a definirsi«quotidiano comunista», un grande convegno internazionale proprio a Roma che rilancia l’attualità dell’aggettivo,è buona cosa. Si terrà, iniziando niente di meno che nei locali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e proseguendo anche in altre sedi (il Cinema Palazzo e EscAtelier), dal 18 al 22 gennaio.
«Un’idea di comunismo» era stato il nome delle analoghe precedenti edizioni, pensate sopratutto da AlainBadiou e Slavoj Zizek: quella di Londra del 2009, poi di Berlino, di New York, di Seul. Questa di Roma è però speciale e infatti si chiama «Comunismo 17», perché sarà il primo evento di un centenario importante: quello della Rivoluzione d’ottobre. E già questo pone un primo interrogativo e non di poco conto: quando parliamo di comunismo in che rapporto lo poniamo con quella vicenda?
Si tratta di un problema che ha a lungo travagliato il movimento operaio e però è vero che negli ultimi decenni, dopo la fine dell’Urss, è stato rimosso, difficile rintracciare un interesse per il tema nelle generazioni maturate in questo secolo, facilmente reclutate dal pensiero dominante: che si sia trattato soltanto di un altro, forse il principale, orrore del XX secolo. La giudiziosa espressione usata da Berlnguer nel 1981, al momento della definitiva rottura con il Pcus l’ottobre ha perso la sua spinta propulsiva ma guai se non ci fosse stato ha finito, nel migliore dei casi, come sappiamo, per esser memorizzata solo a metà. ( Per la verità il ’17 è anniversario - 150 anni - anche del primo volume del Capitale, altro evento su cui chi si definisce comunista farebbe bene a meditare).
È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?
L’indeterminatezza del termine è antica, anzi originaria. Marx infatti non si è mai sognato di indicare un preciso modello di società comunista se non attraverso qualche idilliaca immaginazione di come avrebbe potuto essere la vita una volta sconfitta l’alienazione del lavoro. E proprio lui, così severo con i pasticcieri dell’avvenire, si lascia andare, nell’ Ideologia tedesca, a dire: «quel che vogliamo è un mondo dove sia possibile per tutti far crescere i bambini, arredare la casa, intrattenere gli ospiti, cucinare buoni pasti, fare e ascoltare musica».
In effetti sebbene un po’ troppo familista non è male come obiettivo. Giustamente Herbert Marcuse aveva conferito indirettamente al progetto una sua concretezza politica con le parole dette, nell’euforia del ’68: che l’evoluzione della società contemporanea, la dinamica della produttività, ha privato la nozione di utopia del suo carattere irrealistico. Se non si possono ottenere le cose che si vogliono, non è perché è impossibile, ma solo perché sono bloccate dai rapporti sociali di produzione del capitalismo.
Basta farli saltare, dunque. Sul perché non ci siamo ancora riusciti in realtà da tempo si è discusso poco, e temo non se ne discuterà molto nemmeno nella prossima conferenza romana: la riflessione critica e l’analisi storica sembrano essere oggi le più mortificate fra le attività cui i comunisti si sono dedicati, sebbene sia Marx che Lenin ci avessero abituato al contrario.
Perché credo che se dobbiamo indicare il senso vero della parola comunismo, fra i molti che possono esserle conferiti, il più appropriato resti quello usato da Marx stesso: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; e dunque conta l’esperienza storica, quella che ha coinvolto milioni di persone nel tentativo di uscire dal sistema capitalista e dalle sue miserie; quella che ha governato, nel bene e nel male, i più grandi paesi della terra, il fenomeno che ha forse più di ogni altro segnato l’intero secolo scorso. Un grande processo rivoluzionario, poi degenerato e sconfitto.
Su questo, prioritariamente, credo occorrerebbe riflettere seriamente tutti. È comunque merito del convegno in preparazione aver rilanciato l’ipotesi comunista, aver sdoganato il termine, contro la vulgata che ha finito negli ultimi decenni per relegarlo ad una variante del totalitarismo, un cumulo di macerie.
A renderlo di nuovo attuale sono stati i tempi più recenti, che hanno riportato all’odg in forma macroscopica i peccati del capitalismo, dimostrando la sua incapacità di garantire le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di umani. E hanno al tempio stesso reso più limpido il messaggio originario di Marx che si è sempre distinto da ogni altra critica «progressista» perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era insomma una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione) Ma «la maturità del comunismo», come noi de il manifesto nelle famose nostre tesi del 1970 indicammo come il nocciolo di quanto si manifestava nel nuovo movimento di critica della modernità capitalista, non va scambiato per attualità politica (anche allora ci fu chi lo interpretò in questi termini ).
Dal ’68 un tempo epocale è comunque passato: e per chi crede, come io credo, che non possa esserci un movimento capace di cambiare lo stato di cose presenti senza un soggetto collettivo e la capacità della politica di rappresentarlo coerentemente; che pensa che il drammatico impoverimento della democrazia non sia liberazione da una gabbia filistea ma il logorarsi del terreno più favorevole allo sviluppo di un lungo processo sociale, di cose da ripensare ce ne sono non poche.
Conquistare la società ancor prima del potere statale questo è stato il comunismo italiano, forse l’esperienza più ricca ancorché così travisata dalla sinistra anglosassone implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto. Non sarà il capitalismo nel suo divenire che produrrà di per sé il suo becchino. Meno che mai. Proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.
Tutte cose che si possono fare, naturalmente. Ha ragione il filosofo francese Alain Badiou quando dice che la scienza ci insegna che un successo è sempre preceduto da tanti fallimenti, perché questa è la ricerca. Sono anche convinta che il famoso sarto di Ulm, assunto da Bertold Brecht come apologo del comunismo, si è sì schiantato gettandosi dal campanile per dimostrare che l’uomo poteva volare, ma poi l’uomo ha effettivamente volato.
Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi. Dubito però che saremo molto convincenti se non sapremo dire ai nostri compagni di avventura di quali attrezzi avremo bisogno per non subire la stessa sorte del sarto.
Che ci si debba impegnare, evitando di farsi paralizzare da TINA (there is no alternative) il mostro del XXI secolo è fuori discussione. Resto convinta di quanto diceva Sartre: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche».
Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2017 (p.d.)
LA SINISTRA EUROPEISTA
CI RIPROVA
di Marco Maroni
Oggi a Roma, in una sala nei pressi di Campo de’Fiori, si riuniscono gli iscritti italiani di Diem25, nuovo movimento politico paneuropeo, che si pone come alternativa sia alle destre nazionaliste e post fasciste, sia alle sinistre socialdemocratiche blairiane.
L’assemblea, a porte chiuse, serve a delineare l'organizzazione territoriale italiana: sedi, comitati, dirigenti e via dicendo. Ispiratore del movimento è Yanis Varoufakis, economista ed ex ministro delle Finanze della Grecia nel primo governo Tsipras, la cui linea intransigente nella crisi finanziaria dell'estate 2015 si scontrò, perdendo, con quella altrettanto intransigente della Troika, obbligandolo a lasciare l'incarico. Varoufakis sarà presente domani all'assemblea romana.
A prima vista l'iniziativa sembra l'ennesimo tentativo di trovare un perché, un per come e una nuova credibilità della sinistra italiana. Peraltro, avere come riferimento politico una star della sinistra ellenica non è un precedente felice. A molti può venire in mente l'ingloriosa parabola della lista Tsipras, che aveva acceso qualche speranza nei progressisti in crisi nel 2014, tanto da riuscire a superare lo sbarramento del 4% alle Europee, per poi estinguere la sua spinta innovatrice tra litigi sui seggi, abbandoni, irrilevanza politica.
Non contribuisce alla chiarezza, inoltre, l'ermetismo del nome (significa Democracy in Europe movement 2025, dove 2025 sarebbe l'orizzonte di dieci anni, il termine che si è dato il movimento per democratizzare l'Europa). Gli organizzatori italiani assicurano però che in futuro gli sarà aggiunto un nome italiano.
L'obiettivo è contrastare l’Europa arroccata nella difesa dei grandi interessi. “Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea”, ha detto Varoufakis in primavera alla presentazione del movimento. “Vogliamo un’Europa giusta, democratica e inclusiva”, dice al Fatto Lorenzo Marsili, fondatore dell'organizzazione di attivisti European alternatives, e ora responsabile italiano di Diem25. I temi sono quelli decisamente progressisti delle sinistre radicali europeiste. Ma le parole “partito” e “sinistra”, sono estranee al lessico del movimento.
Così come a distanza, e qui viene l’altra parte interessante, ci si vuole tenere per ora dall’arena politica e partitica italiana. Diem25 punta a raccogliere consensi in quell’ampio fronte che ha detto no al referendum di dicembre, ma tenendosi fuori dai giochi e dai protagonisti della politica nazionale, che è già in sella per cavalcare in quelle praterie. “Per ora non andiamo a metterci nel ginepraio politico nazionale”, assicura Marsili.
IL MINOTAURO GLOBALE
DIETRO LA CRISI
DI GRECIA E ITALIA
di Yanis Varoufakis
La metafora del Minotauro Globale si era insinuata in me nel 2002 dopo conversazioni infinite con l’amico, collega e co-autore Joseph Halevi. Le nostre discussioni su cosa avesse mosso il mondo dopo le crisi economiche degli anni Settanta produssero una visione del sistema economico globale nella quale i deficit dell’America, Wall Street e il valore reale costantemente in declino dei salari americani avevano un ruolo determinante e, paradossalmente, egemonico. Le nostre argomentazioni erano incentrate sulla caratteristica determinante dell’era post 1971, che ha rappresentato un momento di inversione del commercio e dei surplus di capitale tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. L’egemone, per la prima volta nella storia del mondo, rafforzava la sua egemonia aumentando volontariamente i suoi deficit. Il trucco era capire come l’America ci fosse riuscita e il modo tragico in cui il suo successo aveva fatto sorgere la finanziarizzazione che, rafforzando la dominazione statunitense, piantò i semi della sua potenziale caduta.
Quando, cinque anni dopo, nel 2008 il sistema finanziario implose, Danae Stratou, la mia compagna in tutto, mi incitò a scrivere un libro proprio grazie alla forza comunicativa della metafora principale, il minotauro globale. Iniziai a scrivere nella nostra casa di Atene, in un periodo in cui le nuvole nel cielo del nostro Paese non erano ancora minacciose e la maggior parte dei nostri amici e familiari non credeva che la Grecia fosse in caduta libera. In un contesto in cui ci si rifiutava di vedere i presagi funesti, cominciai a ottenere un certo grado di notorietà in Grecia e sui media internazionali, nella veste di Cassandra che credeva che la bancarotta della Grecia non solo fosse inevitabile, ma che allo stesso tempo fosse annunciatrice del disfacimento dell’eurozona. Solo allora mi resi conto dell’ironia implicita nell’usare una metafora greca (quella del Minotauro minoico) per raccontare una catastrofe internazionale della quale la Grecia sarebbe stata la vittima maggiore.
Immerso nella scrittura, tuttavia, mi rifiutai di dare alla Grecia un ruolo troppo prominente: da una parte passavo ore e ore negli studi tv o alla radio a discutere del costante deterioramento della Grecia, dall’altra ero determinato più che mai a lasciare la Grecia fuori dalle pagine del libro. Se la mia diagnosi sulle sventure della Grecia fosse risultata giusta (non esiste una crisi greca, piuttosto la Grecia è il sintomo di uno smottamento più ampio), era gioco forza che il mio libro riflettesse questa diagnosi. Quindi, gli Stati Uniti rimanevano il punto focale dell’analisi. L’essermi occupato intensamente del quadro più ampio della crisi dell’euro mi ha dato l’opportunità di testare la capacità del Minotauro Globale di gettare una luce utile sulle circostanze post 2008 e di sollecitare proposte sulla linea politica da adottare.
Come sempre accade con metafore potenti, il pericolo che le mie analisi potessero essere influenzate dal potere allegorico del Minotauro Globale, era in agguato. Ma nei mesi tra l’ultima revisione delle bozze e il momento in cui ho avuto in mano la copia pubblicata, il mondo pareva non avere compiuto niente che non fosse in linea con la metafora del libro.
La nuova edizione è stata completata negli Stati Uniti, dove viviamo Danae e io. È da qui che, con un certo senso di colpa, scandaglio il deserto del mio Paese, dando di tanto in tanto un’intervista ai vari network che mi pongono continuamente la stessa domanda: cosa dovrebbe fare la Grecia per districarsi dalla sua Grande Depressione? Come dovrebbero rispondere la Spagna o l’Italia a delle richieste che, ci dice la logica, peggioreranno ulteriormente la situazione? La risposta che do con sempre maggiore monotonia è che non c’è altro che i nostri orgogliosi Paesi possano fare, se non dire di no a politiche insensate il cui obiettivo reale è quello di aumentare la depressione per motivi apocrifi che solo uno studio attento dell’eredità del Minotauro Globale può rivelare.
». il manifesto, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il motivo per cui la sinistra si è estinta, risiede nel suo peccato originale. Questo peccato si chiama “Terza Via” e cioè il pensiero unico nella sua visione più aggiornata e priva di anticorpi.
Per capire bisogna tornare al crollo del muro di Berlino e alla convinzione generalizzata di fallimento del Comunismo che l’accompagna. Si parla di fine della storia e per la prima volta il capitalismo diventa un’entità incontestabile, priva di opposizione possibile. La sinistra si converte al neoliberismo, ma in una forma più radicale, che non ammette opposizione interna.
Nella sua prima formulazione (prendiamo ad esempio l’Italia) la rivoluzione liberale Berlusconiana, esalta l’intraprendenza del singolo come forma di libertà per competere con le masse, in vista del raggiungimento di obiettivi che solo il leader è in grado di concepire, in base alla sua visione utopistica del futuro. La lotta di classe non è più ammessa, ma rimane l’agonismo tra singolo e singolo e massa amorfa.
Con la "terza via" si riconosce un'unica verità, di cui è depositario il mercato. Non al leader ma al mercato vanno sacrificati quei diritti sociali che per l’illuminismo e la rivoluzione francese costituivano le basi su cui edificare la nuova società, attraverso le nuove costituzioni: libertà, eguaglianza, fraternità. I diritti sociali europei si basano su questi due ultimi concetti, fraternità ed eguaglianza, di cui il pensiero unico chiede il sacrificio in nome della libertà dei mercati. Per questo la sinistra della “Terza via”, conseguita questa sedicente verità può procedere a quella rottamazione del sociale di cui, fino al giorno prima era stata garante.
Non riconoscendo più i diritti sociali perché in contrasto col mercato, (eguaglianza e fraternità sono l’opposto del mercato) la sinistra rifonda la propria identità sui diritti umani ispirati alla libertà del singolo individuo. Incorpora cioè nel proprio codice costitutivo i diritti propugnati nei cultural studies e cioè la differenza culturale e l’autodeterminazione della propria sessualità come concetto di gender contrapposto all’identità biologica di nascita. Questi sono i valori di libertà da conseguire a scapito dei valori sociali e socialisti che piegano, secondo il pensiero unico, la libertà individuale ai valori collettivi. La sinistra diventa antisociale in nome delle libertà individuali.
Socialismo e mercato sono necessariamente in conflitto. Se la verità è il mercato, il socialismo è tirannide. Questa è proprio l’analisi in base alla quale JP Morgan chiedeva la revisione delle costituzioni socialiste dell’Europa del sud. Ma, secondo me, le garanzie sociali costituzionali sono il fronte di resistenza da cui non bisogna arretrare se ci proponiamo di riedificare un’idea di sinistra. Perché dei tanti significati che alla sinistra possono essere attribuiti quello fondante è quello di società contrapposta ad individuo. Una società di individui è un ossimoro. Qui sta la differenza tra pensiero europeo e americano e costituzioni europee e americana.
Sin dalla Grecia Antica l'Europa concepisce la democrazia sulla base di un bene sociale che trascende il singolo individuo. Le fondamenta della nostra democrazia non stanno nella libertà individuale, ma nella dimensione sociale costitutiva dell’uomo, secondo la definizione aristotelica per cui «l’uomo è un animale sociale» e, se non è sociale è un dio o è un animale. Questo primato del sociale è la base della costituzione che noi italiani abbiamo già difeso due volte votando NO al referendum. Ed è la linea di resistenza che dobbiamo difendere.
Ed arriviamo alle definizioni di sinistra e populismo. La parola populismo deriva da uno storico movimento di opposizione socialista allo zar: il Populismo Russo. Sin dalle origini la parola populismo implica un’opposizione al potere “di pancia” non appoggiata su dati scientifici. Facendo propria la vocazione marxiana di socialismo scientifico, contrapposto al socialismo utopistico precedente, l’attuale sinistra delle varie “Terze vie”, pensa di doversi opporre al populismo. E la sinistra radicale approva, in linea di massima. Ma siamo di fronte a un paradosso: il populismo, pur con le sue derive in senso nazionalistico e tradizionale (dio, patria, famiglia) rappresenta oggi, nel bene e nel male, l’unica forma di resistenza esistente al “robinsonismo” del pensiero unico. Come tale va appoggiato e non combattuto.
L’accozzaglia stigmatizzata da Renzi, non sarà stata elegante, ma ha funzionato per la vittoria del NO. E Tsipras per primo, quando pensava ancora di opporsi alla Troika, ha cercato il supporto non del centro, ma dell’estrema destra. Insomma, oggi paradossalmente, la sinistra radicale deve riconoscere che il suo nemico naturale non è il populismo, ma il pensiero unico incorporato nella sinistra tradizionale- moderata. Il pensiero unico è oggi il Pd, non l’accozzaglia. Il populismo non è il nemico, ma l’alleato strategico nella lotta al nemico comune.
Possiamo dare due opposte definizioni di sinistra. Una sulla base dei contenuti, l’altra sulla base della funzione. Cos’è che riteniamo costitutivo della sinistra? La sua opposizione al fascismo e ai suoi contenuti o la sua funzione oppositiva tout court all’unico nemico oggi esistente ?
Leggo sulla sua pagina Fb il bel saggio di Bifo che traduce in termini attuali l’analisi marxiana costruita sul capitalismo produttore di merci, a cui oggi si contrappone un capitalismo dell’immateriale. Secondo Bifo, per quanto si opponga al pensiero unico, il populismo non può costruire nulla perché manca di fatto degli strumenti di lettura della complessità in cui viviamo.
Il populismo vuol abbattere il pensiero unico per tornare al passato: frontiere, scambio ineguale, diritti nazionalistici, ma anche impossibilità di partecipare alla globalizzazione tagliandosene fuori. E’ così come per Marx esisteva una classe, il proletariato, che conoscendo dall’interno i meccanismi della produzione poteva ribaltarne il senso da macchina per il benessere di pochi a matrice del benessere sociale, esiste oggi per Bifo una classe, il cognitariato, capace di rabaltare la globalizzazione trasformandola da fabbrica di prevaricazione a benessere di tutti: redditto minimo garantito, assenza di lavoro, diritti sociali.
Ora, perché possa verificarsi questo passaggio dalla falsa alla vera coscienza della classe produttiva, dobbiamo conservare il concetto basilare di società come totalità. Il pensiero unico, ne sta chiedendo il genocidio in nome dell’individualismo. La vittoria del NO è il primo tassello su sui ricostruire perché conserva una costituzione costruita sul concetto di società.
Analogamente abbiamo vissuto il rovesciamento da parte di Trump nei confronti dei democratici come una vittoria perché se Trump, come ha detto, intende disinteressarsi dell’Europa, l’Europa avrà per la prima volta dall’avvento del pensiero unico, la possibilità di riedificare i suoi valori partendo dalla differenza fondante tra soggetto individuale e soggetto sociale. La totalità sociale, sono il presupposto fondamentale per la ricostruzione di un pensiero di sinistra. Il proletariato marxiano, hegelianamente, non doveva affrancare solo il singolo o se stesso come classe, ma tutta la società, compresi gli ex nemici borghesi. Oggi se il cognitariato vuole liberarsi e liberare la società, bisogna che il concetto di socialità dei fondamenti, su cui si basa la politica europea dello stato sociale venga ripristinato.
In quest’ottica di retroguardia, di preservazione, dell’esistente perché fondamentale per ogni progresso futuro, anche il populismo, l’unica forza di opposizione oggi presente al pensiero unico, può svolgere una funzione strumentale. E se il populismo fa leva sui valori antropologici della cultura locale (i dialetti, il presepe, la caseola) per opporsi alla penetrazione dell’individualismo americano, la sinistra deve rivalutare la cultura europea in senso alto (letteratura, arte, filosofia) ma, soprattutto sociale (welfare).
Come Marx ci ha insegnato,la rivoluzione non sarebbe pensabile se non a partire dal capitalismo e dalla sua rivoluzione produttiva. Ma come ci ha insegnato oltre a lui Lukàcs, non può esserci prassi, rivoluzione se non a partire dai concetti di soggetto collettivo, totalità, società. Niente società, niente rivoluzione. Meglio una società conservatrice da sovvertire (dio, patria, famiglia) che nessuna società da cui riprendere il cammino.
l collettivo si dà appuntamento a Roma il 7 gennaio. Obiettivo: farsi promotori di "una proposta politica con al centro la lotta alle disuguaglianze". Finisce l'esperienza di Sinistra Ecologia e Libertà».
La Repubblica, 18 dicembre 2016, con postilla sulla parola "sinistra"
Creare uno spazio alternativo alla destra arrabbiata e alle grandi coalizioni, contro una politica «arroccata a difesa del fortino dello status quo, impegnata in un vano tentativo di proteggere un estremo centro che non può e non deve più reggere». Ripartendo dalle disuguaglianze: «Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea». L'appello è firmato dall'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, l'intellettuale americano Noam Chomsky, il musicista Brian Eno e altri membri del collettivo Diem25. Che si danno appuntamento per il prossimo 7 gennaio a Roma.
L'obiettivo è dichiarato: «Le energie liberate dal referendum debbano essere la base su cui costruire in Italia quel terzo spazio che in altri Paesi sta già nascendo: dal popolo di Sanders negli Stati Uniti, a Podemos e i movimenti municipalisti in Spagna fino alle donne che riprendono le piazze in Polonia». Tradotto: gettare le basi per un movimento di protesta (e insieme di sinistra, a livello di contenuti) anche in Italia. Che però ambisca a "fare egemonia", cioè puntare ad un ruolo di governo ma non a traino del centrosinistra. Ma c'è uno spazio politico, nel nostro Paese, già diviso in tre grandi aree (centrodestra, Pd e Cinque Stelle)? Secondo i promotori sì: «L'affluenza molto alta del 4 dicembre ha infatti portato alle urne – e a votare No - una fetta di cittadinanza che non si identifica in nessuna proposta politica esistente. Radicalmente arrabbiata con le politiche sociali ed economiche, con il Jobs Act, con i voucher, con l'assenza di reddito e di prospettive per gli under 35, per gli intermittenti, per le piccole partite Iva. Eppure tendenzialmente astensionista».
Recuperare quindi gli astensionisti e i delusi dalla politica con una proposta radicale. Di sinistra nei fatti, ma senza nominarla. Nell'appello ("Il tempo del coraggio") infatti la parola non viene mai nominata. Nella convinzione che sia ormai un campo inflazionato e presidiato dal Pd. La stessa strategia degli spagnoli di Podemos, il braccio politico erede degli Indignados che hanno sempre rifiutato l'etichetta classica di movimento di sinistra, nonostante la successiva alleanza con i comunisti di Izquierda Unida. Il referente italiano, Lorenzo Marsili, spiega che «bisogna avere il coraggio delle proprie idee e tornare a pronunciare parole nette. Che se i LePen dicono muri noi dobbiamo dire giù le frontiere. Che se i Trump dicono Goldman Sachs noi dobbiamo dire redistribuzione della ricchezza. Che rincorrere la destra fa solo inciampare».
Chi potrebbero essere i compagni di strada del gruppo Diem25? I rapporti sono buoni con pezzi di Sinistra Italiana (la ormai ex Sel che proprio oggi si scioglie), la quale però è divisa tra due aree: una che guarda al Pd e un'altra che invece, come spiegato nell'appello di Varoufakis e co., ritiene l'esperienza di centrosinistra conclusa. Come Nichi Vendola che, non a caso, davanti ai suoi riuniti a Roma, ha sottolineato che «se il compito della sinistra è quello di fare l'ammorbidente nella lavatrice del liberismo, oggi si vede bene che la parola sinistra non ha più ragion d'essere«. Il futuro quindi è "rimettere al centro la parola 'alternativa', come forza che si pone il compito di governare il Paese».
postilla
Il punto è che la parola "sinistra" oggi non va più bene, perché rinvia alla situazione di secoli ormai tramontati. Allora, nell'era delle vecchie forme del capitalismo, lo sfruttamento era interno al mondo della produzione: sfruttati erano gli operai in fabbrica e i contadini nei campi. Oggi, nella nuova forma del capitalismo, l'area dello sfruttamento è enormemente estesa, e opera in tutte le dimensioni della vita delle persone e su tutte le sfere della loro attività, e lo stesso significato della "lotta di classe" è mutato. Infine, la minaccia non è solo rivolta agli sfruttati, ma anche la materialità del pianeta che abitano è a rischio. Se la missione di una "nuova sinistra" è ancora la difesa degli sfruttati, l'avversario è lo stesso - il sistema capitalistico - la base sociale di riferimento è radicalmente diversa, e così le formule organizzative, le strategie e le tattiche. (e.s.)
Due ipotesi di "Sinistra da fare subito molto diverse tra loro: l'una, raccontata da Paolo Favilli, accetta l'ideologia del renzismo, l'altra, nella cronaca di Roberto Ciccarelli, per fortuna sembra di no. Ma è sufficiente anche per domani?
Il manifesto, 13 dicembre 2016
L’INSERVIBILE «REALPOLITIK»
DEI POLITICI «PACIFICATI»
di Paolo Favilli
«Alleanze. Invocare il realismo di un "renzismo senza Renzi" (o viceversa), come fanno - tra gli altri - Pisapia e Asor Rosa è solo il segno della falsa coscienza di questi tempi».
Nella grande confusione sotto il cielo evocata da Alberto Asor Rosa su questo giornale (vedi il manifesto del 10 dicembre) si sprecano le esortazioni a tenere ben fermi i piedi per terra, a dare prova di «realismo», cioè della virtù politica per eccellenza. La «grande confusione», però, esprime diverse forme di realismo.Ac cennerò a due che, al momento, stanno interessando alcuni aspetti della discussione «a sinistra».
1. La prima è quella espressa da coloro che possono essere chiamati i «pacificati» con l’ordine naturale delle cose.
I «pacificati» più indicativi, nel senso che producono scritti che ci permettono di cogliere con chiarezza i meccanismi della «pacificazione», sono in genere giornalisti e autori televisivi con incursioni letterarie. Oppure la stessa cosa ma con partenze diverse: non dal giornalismo, ma dalla letteratura. Si tratta, per lo più, di produzione letteraria «media», oscillante tra i diversi livelli della medietas.
La letteratura più adatta, insomma, a dare conto dei percorsi che portano alla convinzione che la realtà delle cose presente è, nei suoi fondamenti, immodificabile e dunque è necessario fare la pace con chi è stato l’interprete più conseguente, giustamente perciò vittorioso, delle ferree leggi dell’economia e della trasformazione sociale.
Lo sguardo della "grande letteratura" letteratura, invece, esplora sempre i recessi delle tensioni irriducibili, indipendentemente dalle concezioni politico-ideologiche degli autori. Quando nel 1924 esce La montagna magica, il Thomas Mann ideologico è ancora quello di Considerazioni di un impolitico, un «neoconservatore», come, con molta imprecisione, è stato definito. Ha prodotto forse un’opera di tensioni pacificate?
«Chi non è socialista a vent’anni è senza cuore, chi è ancora socialista a quaranta è senza cervello», ecco, il percorso dei nostri «pacificati» è tutto interno alla logica di questo senso comune minimo. Una logica che, pur nella inevitabile vittoria del cervello, permette di scrivere sui tormenti del cuore.
Da questo punto di vista, la proposta Pisapia di una «sinistra» distinta ma unita a Renzi è perfettamente «realistica». Permette di conciliare la vittoria del cervello con gli spasimi del cuore. I pacificati stanno con Renzi, ma hanno una diversa «sensibilità». E «sensibilità» è la parola chiave di una «sinistra» dai sentimenti delicati.
2. La seconda declinazione di realismo ha una logica del tutto diversa, estranea a qualsivoglia volontà pacificatoria. Il realismo riguarda piuttosto la dimensione del che fare qui ed ora in un contesto politico passibile di sbocchi assai pericolosi. E che la possibilità di sbocchi del genere sia tutt’altro che impensabile è, purtroppo, un evidente dato di realtà. Per fare fronte a tali esiti, realismo vorrebbe che, una volta liberatisi di Renzi, si ritornasse a una coalizione di centro sinistra sul modello di quella del 2013: Italia bene comune.
Mi pare, realisticamente, che la condizione preliminare per il percorso indicato, il Pd che si libera di Renzi, sia piuttosto improbabile. Più probabile che Renzi si liberi di gran parte dei suoi oppositori interni, i quali, del resto, non hanno mai dimostrato particolare combattività. La storia degli ultimi tre anni di «opposizione» è sufficientemente indicativa a proposito.
Inoltre non è possibile prescindere dall’analisi della dinamica strutturale che ha contraddistinto iscritti, gruppi dirigenti locali, sfere d’influenza ecc. del Pd; dinamica che ne determina la fisionomia attuale. Tratti di quest’analisi sono del resto già noti e pubblicati in studi specifici.
3. Renzi e i suoi sono potuti germogliare e diventare forti alberi fronzuti perché le loro radici hanno affondato in un humus particolarmente fertile. È il caso di ricordare che nel 2012 il segretario del Pd Bersani fu uno dei protagonisti della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, cioè della costituzionalizzazione della teoria economica chiave nelle forme attuali dell’accumulazione del capitale.
Una vera e propria scelta di campo su un aspetto teoricamente, e politicamente, dirimente. Non risulta che nella cosiddetta «sinistra» del Pd sia in corso una riflessione vera sul senso profondo di quella scelta.I n condizioni siffatte, anche un centro-sinistra derenzizzato l’unica attenzione che potrebbe concedere alle ragioni fondanti della sinistra, quelle legate alla «questione sociale», sarebbe appunto uno sguardo da fuori e da lontano.
E comunque, perché lo sguardo del partito di centro-sinistra possa rappresentare qualcosa di più rispetto a una ricognizione di superficie, occorre in primo luogo che la sinistra che si misura con le radici degli accadimenti sia davvero una forza reale.
Nella costruzione questa forza sta tutto il senso del nostro «noi». Intanto un elemento forte di definizione di questo «noi» si è concretizzato in quella parte dell’elettorato del No che ha correttamente letto nel tentativo di manomettere la Costituzione un aspetto della questione sociale. Una forma di lotta di classe, in ultima istanza. Una precisa scelta di campo, opposta a quella che ha determinato la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.
Non è, ovviamente, una dimensione che possa riguardare la cultura dei «pacificati». E infatti noi continuiamo a cercare elementi di riflessione nei grandi libri, di Karl Marx, di Thomas Mann…… I libri della medietas pacificata ci servono solo come fonti per lo studio della falsa coscienza di questi nostri tempi.
LA SINISTRA CHE VUOLE RIPARTIRE
DALLA COSTITUZIONE
di Roberto Ciccarelli
«Dopo il "No" sociale. La proposta: un polo di sinistra che ha come programma ideale l'applicazione della Costituzione»
Un polo di sinistra che ha come programma ideale l’applicazione della Costituzione. Dopo il successo del «No» al referendum del 4 dicembre, la sinistra delle liste civiche, dell’associazionismo, in dialogo con Rifondazione, Altra Europa e una parte della costituenda Sinistra Italiana, rilancia l’allargamento del campo politico a realtà sociali e locali in una chiara opposizione al Pd e alle politiche neo-liberiste. Prossime tappe: domenica prossima un’assemblea a Bologna; entro gennaio, un’assemblea sul «metodo» per provare a unire un mondo plurale e litigioso. In primavera, se non ci saranno elezioni politiche, chiedere l’indizione dei referendum per abrogare i voucher, i licenziamenti illegittimi e per tutelare i lavoratori degli appalti indetti dalla Cgil che ha raccolto milioni di firme.
Applicazione della costituzione e creazione di comitati per il «Sì» all’abrogazione del Jobs Act: queste sono le coordinate emerse da «ricominciamo da (no)i», un’assemblea che si è tenuta domenica scorsa a Roma, indetta dal raggruppamento delle liste civiche di sinistra «Le città in comune», «la politica di tutti», promossa da un appello sottoscritto tra gli altri da Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Stefano Fassina, Adriano Labbucci, Giulio Marcon, Sandro Medici. Un’alternativa alla proposta di Giuliano Pisapia (un’alleanza con il Pd di Renzi senza Verdini e Alfano) o al «centro-sinistra» con un Pd «derenzizzato».
Si parla di una «sinistra sociale», un’idea presente anche in soggetti diversi da quelli che si sono auto-convocati a Roma (e a Bologna). Fino a oggi non si è manifestata in un’opzione politica concreta. «Vige una schizofrenia tra la volontà di costruire dal basso un “soggetto politico di sinistra” e la coazione a ripetere degli accordi tra le nomenklature dei partiti» (Paolo Ferrero, Rifondazione). In questo risiko va aggiunta un’altra tessera: il sindaco di Napoli De Magistris. Il sindaco ha inviato un messaggio all’assemblea. Un altro lo invierà all’assemblea di Bologna. Nel mezzo del percorso ci saranno i congressi dei partiti della sinistra. «C’è bisogno di una nuova soggettività politica» sostiene Nicola Fratoianni. Per Stefano Fassina «la Costituzione è inconciliabile con i trattati Ue. L’euro svaluta il lavoro».
Prospettive, forse, diverse che si muovono in un mosaico di altri percorsi in atto nei movimenti e nei sindacati di base che hanno lanciato il «No sociale» negli scioperi e manifestazioni del 21 e 22 ottobre. «Vogliamo costruire uno spazio aperto e inclusivo – afferma Sandro Medici – C’è la spinta delle realtà locali e civiche che hanno vinto il referendum. Esiste una tensione sincera verso l’unità. Molte persone pensano alla sinistra come qualcosa che gli dà forza. Non vogliamo restare subalterni».
«La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che sia venuto il momento di riparare i guasti del mondo e non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi».
La Repubblica, 10 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il cuore dell’analisi di Michele Serra sulla Sinistra del no, no, no è questo: «Il No referendario a sinistra prescindeva largamente dal motivo del contendere: quel passaggio elettorale serviva effettivamente come una sentenza senza appello contro il governo Renzi. Tanto è vero che il Sì di Pisapia gli viene rinfacciato come una colpa che lo rende improponibile come potenziale leader di una sinistra non renziana: perché la sinistra o è contro Renzi, oppure non sussiste».
Per molti italiani di sinistra, tra cui chi scrive, le cose non stanno così. Abbiamo votato sul merito della riforma, e abbiamo votato No perché essa proponeva (sono parole di un pacato costituzionalista, tutt’altro che antirenziano, come Ugo De Siervo) «una riduzione della democrazia». Matteo Renzi (primo firmatario della legge di riforma) ha proposto uno scambio tra diminuzione della rappresentanza e della partecipazione e (presunto) aumento della possibilità di decidere: ha risposto Sì chi sentiva di poter rinunciare ad essere rappresentato perché già sufficientemente garantito sul piano economico e sociale.
Ha detto No chi non ha altra difesa che il voto. Basterebbe questo a suggerire che il No abbia qualcosa a che fare con l’orizzonte della Sinistra. Ma c’è una ragione più profonda. La Brexit, la vittoria di Trump e ora quella del No in Italia hanno indotto molti osservatori e protagonisti (tra questi Giorgio Napolitano) ad additare i rischi del suffragio universale: la democrazia comincia ad essere avvertita come un pericolo, perché la maggioranza può votare per sovvertire il sistema.
Perché siamo arrivati a questo? Perché la diseguaglianza interna agli stati occidentali ha raggiunto un tale livello che la maggioranza dei cittadini è disposta a tutto pur di cambiare lo stato delle cose. È qua la radice della riforma: oltre un certo limite la diseguaglianza è incompatibile con la democrazia. E allora o si riduce la prima, o si riduce la seconda. E questa riforma ha scelto la seconda opzione: che a me pare il contrario di ciò che dovrebbe fare una qualunque Sinistra.
D’altra parte questa scelta è stata coerente con la linea del governo Renzi: cosa c’è di sinistra nei voucher, e nel Jobs Act che riduce i lavoratori a merce, introducendo il principio che pagando si può licenziare? Cosa c’è di sinistra nel procedere per bonus una tantum che non provano nemmeno a cambiare le diseguaglianze strutturali, ma le leniscono con qualcosa che ricorda una compassionevole beneficenza di Stato?
Cosa c’è di sinistra nel “battere i pugni sul tavolo” con l’Unione Europea, invece di costruire un asse capace di chiedere la ricontrattazione dei trattati (a partire da Maastricht) imperniati sulle regole di bilancio e sulla libera circolazione delle merci, e non sul lavoro e i diritti dei cittadini? Cosa c’è di sinistra nel puntare tutto su una nuova stagione di cementificazione, attraverso lo smontaggio delle regole (lo Sblocca Italia)?
Cosa c’è di sinistra in una Buona Scuola orientata a «formare persone altamente qualificate come il mercato richiede, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica» (così la ministra Giannini)? Cosa c’è di Sinistra nello smantellare la tutela pubblica del patrimonio storico e artistico, condannando a morte archivi e biblioteche, e mercificando in modo parossistico i grandi musei, detti ormai “grandi attrattori” di investimenti?
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di mercato. E mentre la prima ripete Tina (there is no alternative), la seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle cose.
Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di Renzi è stato paradigmatico.
Allora la questione è: ha senso costruire - come propone Pisapia - una nuova forza di sinistra che nasca con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in rovina » ( Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi.
Il testo del discorso che Walter Tocci aveva scritto per il suo intervento alla Direzione nazionale del Pd e che non ha potuto pronunciare. Lì ha parlato solo il Duce. Gli altri possono solo dire di si, altrimenti tacere.
C'est l'Italie d'aujourd'huiIl manifesto, 8 dicembre 2012 con postilla
Ripubblichiamo qui il testo del discorso che Walter Tocci aveva scritto per il suo intervento alla Direzione nazionale del PD.
«Intervento che non ha potuto svolgere per quelle che ha definito “dubbie ragioni di orario. La direzione era stata convocata per oggi alle 15, ed è poi stata spostata alle 17.30 a causa degli impegni del Senato. Il voto di fiducia al Senato, però, è terminato alle 14.30. Ci sarebbe stato ampiamente tempo per qualche ora di dibattito sulle cause, gli esiti e le responsabilità nel post-referendum tra la fine del voto e la salita al Quirinale del Presidente Renzi. Invece si è evitata qualsiasi discussione politica. Lascio quindi che sia il testo a parlare per me».
l testo è stato pubblicato nel sito di Walter Tocci il 7 dicembre 2016 poco dopo le 20.
Non è più tempo di scagliare le pietre; è tempo di raccogliere le pietre per consolidare ciò che è duraturo. Nell’Italia spaesata e divisa si erge la Costituzione come unica certezza. Dovremmo curarne la condivisione nel cuore e nelle menti degli italiani.
Anche compiendo gesti semplici, prendendo l’abitudine magari di aprire qualsiasi nostra assemblea leggendo un articolo della Carta. Nei dibattiti leggevo l’articolo 36, secondo il quale la retribuzione del lavoratore dovrebbe essere “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Cento milioni di voucher sono in contrasto con la Costituzione! I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma un’eredità vivente e una promessa per l’avvenire. Così l’avvertono i ceti popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti non riescono più a comprenderlo, perché hanno smarrito la “competenza della vita”, come la chiamava Martinazzoli.
Anche i giovani hanno votato per conservare la Carta, al di là del merito della revisione. Nelle burrasche del mare globalizzato cercano un’àncora nel capolavoro italiano del Novecento. Seguono l’esempio dei nonni per sopperire alla penuria educativa dei padri, come i millennials di Sanders.
Ci sono queste correnti profonde nel risultato referendario. Sbaglieremmo a vedere solo le correnti superficiali degli schieramenti partitici. C’è un’astuzia della Costituzione – come l’astuzia della Ragione hegeliana – che per resistere ai ripetuti assalti, di volta in volta si serve delle diverse forze che trova sul campo, della sinistra nel 2006 e della destra e ancora una parte della sinistra dieci anni dopo.
Per noi del PD sarebbe meglio valorizzare le correnti profonde piuttosto che quelle superficiali. Le seconde ci hanno diviso, mentre le prime uniscono il Si e il No nel comune impegno: attuare la Costituzione, la prima e la seconda parte.
Potrei dimostrare che si possono realizzare molti obiettivi del SI con il testo vigente. Si possono dimezzare da subito il numero e la lunghezza delle leggi, delegando e controllando la pubblica amministrazione negli adempimenti, e ottenendo un bicameralismo più rapido, efficace e trasparente.
Le limitazioni ai decreti legge e le leggi a data certa sono in parte già in vigore e debbono essere solo rispettate. I poteri governativi di surroga contro la malasanità sono già previsti nel vecchio Titolo V e non sono mai stati applicati dal ministero. La riduzione delle poltrone è stato un argomento miserabile che non poteva fondare un patto costituente, ma la riduzione dei costi della politica è da fare subito con legge ordinaria; si convochi un’assemblea straordinaria dei gruppi parlamentari e regionali del Pd per assumere precisi impegni nelle rispettive assemblee.
A mio avviso, questa legislatura doveva terminare nel 2014, approvando una buona legge elettorale, e senza avventurarsi nella revisione costituzionale. Si proseguì promettendo faville. Oggi non si può sentire “dopo di me non c’è nessuno”. I conservatori inglesi, dopo la Brexit, hanno sostituito Cameron con la signora May e hanno ripreso a governare. Anche noi possiamo esprimere un premier autorevole tra gli attuali ministri.
Non abbiamo bisogno di governi tecnici, che già hanno combinato guai in passato. Ci vuole un esecutivo a guida Pd per risolvere i problemi urgenti dell’economia, per proseguire le cose buone e la politica europea sui migranti, ma anche per correggere gli errori compiuti – ad esempio su lavoro e scuola – con uno stile di governo non rissoso, e che anzi riporti serenità in un Paese già troppo lacerato.
Nel frattempo, il Parlamento può approvare la legge elettorale senza intromissioni del governo. Andare subito alle elezioni significa dichiarare che il leader sconfitto è insostituibile.
È lo stesso autolesionismo che ha portato a un plebiscito personale sul cambiamento costituzionale.
Senza quel cupio dissolvi oggi ci sarebbe ancora il governo Renzi, e forse avremmo visto approvata anche la legge Boschi. Il demone della disfatta referendaria è ancora al lavoro per la sconfitta alle elezioni anticipate. Chi può fermarlo si faccia sentire in questa sala, prima che sia troppo tardi.
Invece delle elezioni bisogna anticipare il congresso in primavera. Mentre governa, il PD deve curare sé stesso. Per dieci anni abbiamo pensato solo al leader e non ci siamo mai occupati del resto: un’idea del Paese, una cultura politica per il nuovo secolo, un’organizzazione innovativa, una selezione dei dirigenti. Il PD che non abbiamo ancora conosciuto è il compito del congresso.
Il primo passo è riconciliare il PD con l’Ulivo, inteso come vasto campo di cultura, etica, cittadinanza attiva e forze sociali. Per non ripetere i riti del passato la minoranza deve uscire dal guscio e la maggioranza deve riconoscere onestamente i suoi insuccessi.
Per creare un clima più sereno si dovrebbe affidare la guida del partito fino alla primavera a una personalità autorevole e stimata. Sarebbe utile per tutti un passo indietro del segretario, e aiuterebbe anche lui a prepararsi meglio al congresso. L’ordine del giorno dell’assise è l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
L’Italia ha bisogno di moderni partiti popolari che governino con ampio consenso, non solo con il premio di maggioranza. Riformare il PD è la principale riforma istituzionale che possiamo realizzare. Non dipende dalle leggi e dai referendum, ma vive nella passione e nell’intelligenza di milioni di militanti e di elettori. Se guadagneremo la loro stima, molti torneranno a dare una mano per la vittoria.
postilla
Ho commentato sul suo sito il testo dell'amatissimo Walter Tocci come segue: Il partito al quale continui a restare iscritto è diventato un partito che si regge sulla corruzione, l'intimidazione e il ricatto, esercitati soprattutto in due tipi di ambienti, spesso sovrapposti: (1) dove storicamente il PCI era riuscito a costruire rapporti stretti con un mondo imprenditoriale che è diventato in questi anni una componente del sistema finanziario/immobiliare globale; (2) dove l'intreccio tra partito, istituzioni comunale e regionali e governo sono più stretti.
n alcune aree di lavoro come la pubblica amministrazione e la scuola sono frequenti i casi di intimidazione che giungono alle mio orecchie. Soprattutto dalle province nelle quali il SI al referendum è stato maggioritario, e dove quei due tipi di dominio si sovrappongono. Sarebbe interessante un'indagine quale quella che il Fabrizio Barca d'antan svolse sul PD romano...
«Se non vogliamo che domenica sia stata una vittoria di Pirro, il vero impegno per la sinistra comincia adesso. Il governo è importante, ma superato lo slogan "se andremo al governo faremo...". Dobbiamo fare subito, laddove siamo»,
il manifesto, 6 dicembre 2016
Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla Costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No.
La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria.
Contrariamente a quanto è stato detto – «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. – quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione.
In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo.
Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.
Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede, non solo in Italia, ormai da decenni. E che il nostro No non basterà di per sè, purtroppo, ad arrestare.
Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa,su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini.
E’ da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione.
Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo.
Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti.
Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica – il liberismo, l’austerity – e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica.
Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi “leggeri”, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni.
Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare.
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali – ma anche politici – in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo.
Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione.
La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perchè solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque.
Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi).
Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni ’70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perchè avevamo un ministricolo in qualche governo?
Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo.
Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo “Libertà è partecipazione”. Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).
Giorgio Gaber, Libertà
Piccola storia della decadenza culturale di una parte del vecchio Partito comunista italiano. Cui molto ci sarebbe da aggiungere, a partire dalla sconfitta di Enrico Berlinguer (e dall'assassinio di Aldo Moro).
Il manifesto, 3 dicembre 2016Perché gran parte del ceto politico e intellettuale di provenienza comunista è schierata con il Sì? Cedimenti, calcoli, opportunismi ci sono anche stavolta. Ma, a riverire il capo di turno con giravolte sensazionali, spingono anche ragioni di cultura politica. A franare, in appoggio alla manipolazione governativa della costituzione, è soprattutto quello che, con un qualche schematismo, si può definire il centro destra del vecchio Pci. La componente di centro sinistra, ad esclusione di Bassolino e Turco, è invece mobilitata attivamente per il no: da D’Alema a Bersani e Folena, da Tortorella a Reichlin e Salvi.
Che proprio dalle propaggini di un partito che aveva fatto del vincolo costituzionale un tratto di identità provenga oggi un pericoloso tentativo di destabilizzazione dell’ordinamento repubblicano è certo sorprendente. E però una caduta della normatività della costituzione, come bene comune, si ebbe già con la segreteria di Veltroni. Nel 2001 si consumò il primo grave strappo alla regola per cui le riforme costituzionali trascendono la volontà del solo governo del momento.
A questo tabù, che postulava l’impossibilità di mettere mano alla Carta senza un largo consenso, si attenne lo stesso D’Alema. Quando il patto della bicamerale saltò, egli si guardò dal proseguire a colpi di maggioranza. Minando le necessarie consuetudini dialogiche, per introdurre il nuovo titolo quinto della costituzione con una manciata di voti, i Ds hanno introdotto un precedente scivoloso.
Con la sua venerazione dei falsi miti della democrazia immediata, con l’ubriacatura per il fragile miraggio del sindaco d’Italia, Veltroni ha proseguito il lavoro di destrutturazione della cultura istituzionale avviato da un Occhetto nuovista e invaghito delle leggende maggioritarie di Segni.
Accantonati gli schemi tradizionali di stampo parlamentare, i Ds hanno attinto dalle elaborazioni dell’area giuridico-politologica della Fuci (da Barbera e dagli ideologi del bipolarismo immaginario, suoi seguaci). La resistenza di rigorosi giuristi del mondo cattolico, come Elia e Onida, ha per un certo tempo ostacolato la penetrazione nell’Ulivo delle suggestioni per il premierato assoluto.
Per aggirare lo scoglio, Veltroni ha però disegnato lo statuto del Pd sul modello dell’investitura di un capo che opera nel vuoto di canali di mediazione, destinati a spegnersi dopo la chiusura dei gazebo che hanno riconosciuto il volto del leader. La coincidenza delle cariche di segretario e premier ha demolito l’impianto della democrazia parlamentare con irrazionalità, forzature, fughe.
La riforma di Renzi è per questo il compimento di una devastante cultura istituzionale maturata nell’ambiente della Fuci e recuperata come ideologia del Pd. Due sono gli assiomi. Il primo è una caricaturale nozione di bipolarismo come miracolo politico (elezione diretta del governo al calar della sera). Il secondo rinvia a una donchisciottesca lotta al consociativismo (rifiuto di ogni ruolo dell’aula dopo lo scrutinio) come male assoluto. Le ambigue categorie istituzionali della Fuci (Ceccanti, Vassallo, Guzzetta) hanno trovato sbocco nel combinato disposto tra Italicum e riforme del bicameralismo.
Il presidente Napolitano, diversamente dall’amletico Macaluso di oggi e dal resto della sua area molto vicina alle posizioni di Barbera, non ha condiviso questo impianto culturale. Il sostegno a Renzi nasce non già dalle sirene del direttismo ma dalla preoccupazione di proteggere la sua interpretazione creativa del ruolo presidenziale nel periodo cruciale che va dalla caduta di Berlusconi (regia della soluzione tecnica) alla sterilizzazione (con un incarico fantasma) della velleità di Bersani di procedere verso un governo di svolta.
Quello che accomuna le tante personalità delle aree di centro-destra del vecchio Pci è una perdita secca di cultura della costituzione. L’avallo miope a una riforma decisa da una minoranza del 25 per cento, che tramuta un parlamento a debole legittimazione in assemblea costituente che ritocca 47 articoli, segna infatti la sostanziale de-costituzionalizzazione della repubblica.
La rinuncia a fare della Carta un bene condiviso, legittima qualsiasi forzatura decisa da chi sta al potere. C’è da sperare che l’elettorato di sinistra, con il No alla follia di un dispotismo di minoranza in tempi di crisi della democrazia, continui a scaldare la connessione sentimentale con la Carta siglata da Terracini.
«il manifesto, 26 novembre 2016 (c.m.c.)
Al di là di quello che realmente farà il nuovo presidente statunitense, è indubbio che gli slogan della sua campagna elettorale hanno trovato ascolto anche fuori dai confini del nord America, in particolare la sua battaglia per difendere i prodotti made in Usa. Ritorna in auge la politica protezionistica, e non è una novità. Sappiamo bene che nel corso della storia il capitalismo ha fatto registrare ondate di globalizzazione dei mercati a cui sono seguite delle contromisure, con innalzamento delle barriere doganali e contingentamento delle importazioni. Anche sul piano teorico, la scienza economica ha visto imporsi, agli inizi del XIX secolo, la teoria dei «vantaggi comparati» di David Ricardo.
Una teoria su cui tutt’ora si basa la vulgata dei vantaggi del “libero scambio” a livello internazionale, a cui trent’anni dopo si è opposta la strategia protezionistica teorizzata da Friedrich List, il promotore di una via tedesca allo sviluppo basata su una articolata barriera doganale che proteggesse i primi germogli dell’industria tedesca nella seconda metà dell’Ottocento.
Come ha messo in evidenza Gianni Toniolo in un acuto editoriale (sul Sole 24 ore), l’ondata di globalizzazione della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei Parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Ancora più dura e drastica fu la risposta politica alla globalizzazione negli anni Trenta, creando le basi dell’intervento forte e deciso dello Stato nell’economia, sia nella versione dell’autarchia fascista e del nazionalsocialismo in Germania , sia del New Deal nordamericano.
Il fallimento delle ondate di globalizzazione dei mercati dimostrano che il mercato “autoregolato” non può durare a lungo senza distruggere la società, come è stato ampiamente documentato da Karl Polanyi. Purtroppo, la risposta sociale e politica agli effetti perversi della globalizzazione ha avuto ed ha ancora oggi una matrice prevalente di Destra. Come molti analisti hanno evidenziato in questi giorni, la vittoria di Trump, ma anche il successo crescente delle destre in Europa, si basa in gran parte su ricette “protezionistiche” che rifiutano il cosiddetto ”libero mercato internazionale” del lavoro e delle merci.
C’è una coerenza e una estrema chiarezza nella proposta politica della destra occidentale: difendere i propri prodotti dalla concorrenza sleale cinese, impedire alle multinazionali con base nei paesi occidentali di andare a produrre all’estero a costi decisamente più bassi per poi rivendere in patria ai prezzi correnti.
Allo stesso modo, bloccare i flussi migratori in quanto il cosiddetto “libero mercato internazionale” del lavoro comporta, soprattutto in una fase di stagnazione, una concorrenza crescente con la forza lavoro locale. Anche negli Usa o in Germania dove la crescita economica negli ultimi dieci anni si è accompagnata alla dequalificazione del lavoro ed una riduzione del salario medio.
In sintesi, la proposta della destra, che si può definire come Neoprotezionismo, perché è un misto di protezionismo verso l’esterno e liberazione/privatizzazione dello Stato all’interno, è molto chiara e popolare e il Neoliberismo “tal quale” finisce per essere sostenuto dalle forze politiche un tempo appartenenti alla sinistra storica (Hollande, Renzi, Obama, e C.).
Paradossalmente la nuova sinistra, o la sola sinistra che è rimasta a criticare il turbocapitalismo neoliberista non è riuscita ad andare oltre quello che i movimenti sociali hanno espresso nei primi meeting internazionali di Porto Alegre.
Il movimento No Global (poi ribattezzato New Global) contestava e denunciava i danni sociali ed ambientali di questa forma di globalizzazione capitalistica, e ne proponeva un’altra, ma in termini generici e volontaristici. In altri termini, né dai movimenti di contestazione né dalle forze politiche della sinistra radicale è scaturita una proposta chiara e comprensibile all’operaio, al lavoratore precario, al disoccupato, che si sentono minacciati, dalle merci e dalla forza lavoro che vengono da lontano. La critica anche aspra del capitalismo se non accompagnata da contromisure credibili, non rappresenta una proposta politica. Né è stato sufficiente il mutamento culturale che ha portato negli ultimi decenni ad una rivalutazione del “prodotto locale”, del consumo a km zero, dei Gruppi di Acquisto Solidale, ecc. Un risposta alla globalizzazione capitalistica dal basso, certamente importante, che però non riesce ad intaccare i grandi numeri dell’economia.
Da molti anni la sinistra italiana, quella rimasta tale, ha proposto un reddito minimo di cittadinanza come misura di protezione sociale, proposta oggi fatta propria dal M5S. Ma, sul piano della concorrenza sleale che per esempio il governo cinese attua da oltre un ventennio, manipolando il tasso di cambio dello yuan, non c’è mai stata una chiara presa di posizione. Come è ormai noto, c’è un accordo tacito tra imprese multinazionali e governo cinese, vietnamita, ecc. di mantenere un tasso di cambio «politicamente» manovrato che conviene ad entrambi i soggetti.
Per spiegarci meglio: un operaio cinese che guadagna 250 euro al mese ha un potere d’acquisto pari a circa 1200 euro in Italia, l’impresa multinazionale che lo ha assunto ha un risparmio sul costo del lavoro per unità prodotta nella Ue di circa il 70%, il governo cinese ha creato in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro ed ha fatto entrare nel paese valuta pregiata con cui oggi compra imprese in Occidente e terre in Africa, e non solo.
Tutti questi attori ci guadagnano, sia pure in misura diversa, ma il resto del mondo? Come si rompe questo meccanismo ? Non certo come propone Trump con i dazi sui prodotti cinesi al 45% , perché oggi la Cina è in grado di colpire al cuore il sistema finanziario statunitense (a partire dai titoli del debito pubblico), ma anche perché queste misure abbasserebbero il tenore di vita della maggioranza dei lavoratori nordamericani. Se non c’è stata più inflazione a due cifre in Europa e negli Usa, dagli anni ’90, è proprio grazie ai bassi prezzi dei prodotti provenienti dall’industria asiatica.
Ma, se non vogliamo consegnare alla destra il futuro della Ue dobbiamo rispondere al neoliberismo con proposte credibili e praticabili, dobbiamo trovare necessariamente un’altra via che non sia quella biecamente neoprotezionistica e nazionalsocialista. E’ sul piano internazionale, delle contraddizioni del nostro tempo, che dobbiamo costruire una proposta chiara e praticabile.
Una utile premessa a un ragionamento sulla "sinistra" in Italia. Per andare avanti bisognerebbe domandarsi che cosa non si sapeva vedere del mondo nel XX sec. e che cosa si sa vedere oggi.
il manifesto, 19 novembre 2016, con postilla
Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.
La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.
La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).
Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).
Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.
La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).
Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.
Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.
Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.
All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.
Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.
La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure. Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.
Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.
Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle. Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo.
postilla
Tre quarti di ciò che c’era nella sinistra del secolo scorso si è lasciato conquistare o corrompere dal neoliberalismo, frutto tossico del capitalismo globalizzato, alimentato nelle sue serre culturali (a partire dalla Mont Pèlerin Society e dalla Trilaterale). L’altro quarto si attarda ancora con i temi che erano centrali allora (lo sfruttamento in fabbrica, la visione delle istituzioni come luogo di possibile composizione del conflitto tra sfruttati e sfruttatori, la centralità del Primo mondo sul resto del pianeta, la sottovalutazione della questione ambientale, il segno ancora progressista del compromesso storico tra capitale e lavoro, una visione limitata del lavoro umano e una concezione condivisa della "sviluppo"). Eppure, i segni premonitori erano visibili da tempo: Packard, Galbraith, Harvey (per nominarne solo alcuni) seppero vederli. Alcune intelligenze politiche seppero comprenderli, e altri seppero raccontare la mutazione antropologica che stava avvenendo, ma i loro ammonimenti vennero ignorati.
Forse cominciare a ragionare su quali erano i meccanismi, gli autori e le vittime dello sfruttamento ieri e oggi potrebbe aiutare a comprendere che cosa fare, in che direzione muoversi per costruire (non ri-costruire) qualcosa di analogo alla sinistra di ieri. Ma il primo passo da compiere dovrebbe essere divenir consapevoli che per superare il male che i secoli passati ci hanno lasciato è andare alle loro radici e svellerle. Essere radicali significa questo
«La globalizzazione deregolata ha prodotto i suoi frutti avvelenati, è sfuggita di mano alle èlite che l’hanno promossa, e si riaprono contraddizioni di enorme portata, su cui le forze democratiche e di sinistra dovrebbero sforzarsi di intervenire
».il manifesto, 16 novembre 2016 (c.m.c.)
Qualcuno comincia a chiedersi quale impatto avrà l’elezione di Trump sul voto italiano del 4 dicembre. In particolare, comincia a circolare un argomento: «Teniamoci caro e stretto il nostro Renzi: avete visto cosa può accadere? Un Trump è sempre alle porte». Si può rispondere che Renzi è parte del problema, non la soluzione. Siamo nell’epoca in cui domina il sentimento anti-establishment e su questa idea il presidente-segretario ha disegnato la propria immagine e la propria «narrazione».
Questa strategia ha funzionato quando si trattava di contrapporsi a una precedente leadership di partito. Dimostrando tutti i suoi limiti quando si è trasfusa in un’azione di governo. Non ci si può auto-dipingere come il corifeo dell’anti-elitismo e poi esaltare le doti dell’ing. Marchionne. Non si può trasudare di retorica quando si esaltano le «punte» avanzate dell’innovazione e della creatività italica, senza tener conto che – per definizione – quando qualcuno riesce a «emergere» altri sono necessariamente «sommersi» (o «dimenticati», per usare l’espressione che Trump, molto abilmente, – ed è una chiave della sua vittoria – ha usato nel suo primo discorso).
Non si può proporre una riforma della Costituzione parlando “contro” i politici e la politica, e non pensare poi che qualcun altro – molto più credibile di te – se ne gioverà ampiamente. Renzi non è l’argine al populismo: al contrario, ha profondamente legittimato un discorso pubblico «populista». E non – si badi bene – di un qualche «populismo di sinistra», come pure sarebbe possibile provare a fare, ma di un populismo che si nutre di tutti i tasselli ideologici di destra che hanno profonde radici nella cultura politica italiana, e che già avevano fatto la fortuna di Berlusconi: qualunquismo, antiparlamentarismo, rifiuto della politica come mediazione, «decisionismo»…
Il secondo ritornello dice che «non c’è alternativa a Renzi», come qualcuno dice, motivando il proprio Sì. La vittoria del No sarebbe il classico «salto nel buio»?
Tutt’altro. Intanto, la vittoria del No aprirà la via ad un più fisiologico sviluppo della situazione politica. In primo luogo, costringerà a fare una riforma elettorale sensata e coerente (non l’incredibile «bricolage» contenuto nel documento partorito dalla commissione del Pd); e, in secondo luogo, – sulla base di una legge elettorale decente, e in vista delle elezioni del 2018 – , potrebbero crearsi le condizioni per tornare ad orientare la politica italiana sull’asse destra-sinistra, non su quello sistema/anti-sistema.
Il più potente antidoto al veleno del populismo di destra è la riapertura di un conflitto politico aperto e regolato, che abbia al centro i grandi temi del nostro tempo: uguaglianza e ridistribuzione della ricchezza (contro privilegi e ingiustizie), democrazia e partecipazione (contro accentramento, plebiscitarismo, tecnocrazia). Solo così, i “dimenticati» non saranno abbandonati nelle mani del tycoon di turno, o almeno si potrà provare a evitarlo. E per riuscirci, bisognerà anche che – da sinistra – su questi due grandi temi, giustizia sociale e democrazia, si riesca a dire qualcosa di nuovo e di credibile.
Ci sarà bisogno di tempo per metabolizzare il senso e le conseguenze dell’elezione di Trump. Sarà veramente in grado il neo-eletto di perseguire le politiche neo-protezionistiche che ha promesso, senza aprire un fase storica di guerre commerciali (e forse non solo commerciali)? È davvero possibile tornare indietro, dai livelli attuali di integrazione dell’economia mondiale, senza innescare una reazione a catena altamente destabilizzante? O non ci riuscirà, ed allora ben presto saremo di fronte all’ennesima manifestazione tipica dei cicli populisti, con il rapido alternarsi di aspettative salvifiche e poi di disillusioni e risentimenti?
Si dovrà riflettere sulla nuova fase in cui la sindrome dell’«apprendista stregone» esplode in tutta la sua virulenza. In particolare, le analisi che dipingevano un dominio neoliberista compatto, pervasivo e totalizzante, devono oggi lasciare il campo ad analisi – e possibilmente, azioni politiche – guidate da tutt’altri presupposti.
Si ritiene davvero che anche la sinistra possa puntare su un ripiegamento all’interno dei confini dei vecchi stati nazionali, o non è suo compito – difficilissimo ma ineludibile – quello di indicare la via di una democrazia trans-nazionale, in grado di «addomesticare» le tendenze distruttive delle logiche sistemiche (impersonali, «automatiche») del capitalismo contemporaneo e di prospettare per esso nuove forme di regolazione?
Nel suo piccolo, anche Renzi è un apprendista stregone. Per questo, la vittoria del No, il 4 dicembre è un essenziale spartiacque. Se il No vincerà, sarà per motivazioni diverse, anche opposte. Toccherà alla sinistra, se sarà in grado di farlo, orientare la rivolta contro le «elite» in senso democratico e progressista.
«La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie».Ma di quale "sinistra" parla? Renzi, Hollande, Schulz, magari Clinton e Obama
? La Repubblica 16 novembre 2016 (c.m.c.)
Dopo la Brexit, Donald Trump. E in prospettiva, il referendum del 4 dicembre in Italia. L’esito di questo voto, quale che sia, rischia di provocare una rottura irrimediabile in seno al Pd.
Lo stesso giorno, in Austria, il candidato del partito di estrema destra Fpö potrebbe essere eletto presidente della Repubblica. In Olanda, nel marzo 2017 i populisti del Partito per la Libertà di Geert Wilders peseranno sulle elezioni legislative. E a primavera in Francia la sinistra rischia di non arrivare al secondo turno delle presidenziali, che si giocherebbe allora tra il candidato della destra e Marine Le Pen. Infine, in Germania l’Spd guarda con apprensione al voto dell’autunno 2017.
La sinistra è sotto shock. Dopo la crisi del periodo tra le due guerre, quando rischiò di essere annientata non solo dal fascismo e dal nazismo ma anche dalle lacerazioni fratricide tra comunisti e socialisti, oggi affronta una nuova sfida: l’ascesa dei vari populismi, di destra, di sinistra, o anche né di destra né di sinistra, regionalisti, nazionalisti o generati da imprenditori straricchi, come nel caso di Silvio Berlusconi in Italia, e ora in quello di Donald Trump negli Stati Uniti.
Populismi che peraltro non scuotono solo la sinistra, ma anche la destra, sia pure in misura minore. Prima di vincere le presidenziali, Trump aveva battuto i suoi rivali alle primarie e stravolto il partito repubblicano. In Francia Marine Le Pen sottrae voti alla sinistra, e al tempo stesso attira sulle sue tematiche, ma anche sulla sua persona, gran parte della destra. In Italia il Movimento 5 Stelle ha sparigliato il gioco politico captando voti a sinistra e a destra, e riportando una parte degli astensionisti alle urne.
Di fatto, tutte le grandi famiglie politiche di destra, di sinistra e di centro che hanno dominato la competizione politica in Europa e guidato i governi sono destabilizzate. Non solo: i populisti riescono a imporre la loro percezione della realtà. Pretendono di incarnare il popolo unito e portatore di verità contro un’élite che descrivono come omogenea, corrotta, sclerotizzata e malefica. E non pochi osservatori danno credito a tali argomenti, spiegando ad esempio che Trump ha vinto perché il popolo ha voluto punire le élite; ma dimenticano che una maggioranza di americani, ancorché risicata, ha votato per Hillary Clinton. Nel contesto attuale non possiamo accontentarci di spiegazioni semplicistiche, che riportano tutto a un’unica causa.
Se i populismi avanzano ovunque in Europa, è per l’azione congiunta di vari fattori, diversamente articolati a seconda dei Paesi: la globalizzazione senza regole, le disuguaglianze crescenti, una democrazia senza popolo e un’Europa senz’anima né progetto.
Queste le sfide che la sinistra è chiamata ad affrontare. Di concerto con altre forze, dovrà inventare procedure per imporre regole alla globalizzazione, rifiutando al tempo stesso il protezionismo che sta riemergendo ovunque.
E operare per il ritorno della crescita, nel rispetto dell’ambiente, creando posti di lavoro e riducendo la disoccupazione che distrugge i rapporti sociali, condanna alla precarietà intere fasce di popolazione, inasprisce le disuguaglianze sociali, di genere, territoriali, generazionali, culturali (tra laureati e chi non ha un titolo di studio), nonché tra cittadini di un Paese e immigrati. La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione — dagli operai ai ceti medi, ai giovani a basso livello di istruzione o in via di declassamento, che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie.
D’altra parte la sinistra è vittima di una profonda diffidenza nei riguardi delle istituzioni, a livello sia nazionale che europeo, in particolare da parte delle fasce di popolazione meno abbienti a basso livello di istruzione, che guardano alla politica e alle élite dirigenti con disaffezione o addirittura disgusto; e dunque non può più accontentarsi di rivendicare la propria esperienza e responsabilità, né di puntare tutto sulla politica pubblica. Dovrà rilegittimare la politica. Perché esiste nella società una profonda aspirazione a una politica diversa, più trasparente, più aperta, più partecipativa. Ciò presuppone una profonda riconversione dei suoi dirigenti, del suo modo di fare politica, del suo rapporto coi cittadini e delle sue forme organizzative.
Infine, l’Europa è scossa dalla spinta degli egoismi, dalla tentazione del ripiegamento, dall’ascesa del razzismo e della xenofobia, da timori e angosce d’ogni genere, a cominciare dalla paura dello straniero. Questo impone alla sinistra di rilanciare il progetto europeo, e di condurre una coraggiosa battaglia culturale, evitando gli atteggiamenti moralistici e sprezzanti verso chi si sente abbandonato e non sapendo a che santo votarsi presta orecchio agli argomenti più demagogici.
La sinistra del XIX e del XX secolo è acqua passata. Costretta, ancora una volta, ad adattarsi alla realtà per non essere spazzata via, dovrà certamente affrontare terribili lacerazioni interne, e portare avanti una grande opera di ricomposizione politica. In quest’impresa gravida di incognite, dovrà però essere guidata da due valori cardinali: l’uguaglianza, ripensata nelle condizioni attuali, e — per riprendere la parole di Carlo Rosselli — la libertà per i più umili.
». il manifesto, 15 novembre 2016 (c.m.c.)
«Ci fu un momento più populista di quello in cui 99 anni fa qualcuno gridò ’pace e pane’»? Si tratta di un’affermazione di Pablo Iglesias, leader di Podemos (Publico.es, 9 novembre). «Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane». Così ha scritto su questo giornale (12 novembre) Leonardo Paggi. Mi sembra del tutto evidente che né Iglesias, né Paggi suggeriscano analogie forti tra Trump e Lenin. Entrambi usano l’analogia come iperbole concettuale, in grado di cogliere affinità tra contenuti assai diversi.
Dice ancora Iglesias: «Il populismo non definisce le opzioni politiche, ma i momenti politici». I populismi sono, per eccellenza, parametri di definizione e di svelamento delle crisi, in particolare di quelle di lungo periodo come l’attuale. Il populismo di Trump, e di tante sue varianti europee, ha certamente tratti parafascisti, ovviamente in contesti (e forme) del tutto diversi dal fascismo storico, ma ci mostra con chiarezza che non esistono possibilità di sbocchi della crisi a «sinistra» senza popolo.
È ancora particolarmente attuale la questione che il responsabile esteri del Partito comunista cinese pose a Bertinotti nel dicembre del 2005: «Mi spiegate come mai vista la vostra intelligenza, poi nel vostro Paese, quando andate alle elezioni prendete poco più del 5 per cento?». Ed oggi anche il 5% è un obbiettivo ambizioso. Ebbene, Paggi nel suo articolo è proprio di questo problema che parla.
Se la nostra sinistra da quel 5%, peraltro nemmeno garantito, vuole iniziare con coerenza e rigore il difficile percorso necessario per acquisire una forza reale, può farlo senza entrare in una comunicazione non monodirezionale con il popolo degli sconfitti dall’attuale fase di accumulazione del capitale? Senza partire dalle condizioni materiali di quel popolo e dagli effetti che quelle condizioni materiali hanno sui modi di espressione politica?
Per questo non basta la critica al neoliberismo e/o all’ordoliberismo, ma è necessario che questa critica coniughi gli aspetti generali dell’analisi con un ri-pensamento di alcune categorie interpretative di questo nostro presente. Ri-pensarle alla luce della possibilità di proposte politiche che siano chiaramente riferibili al complesso delle condizioni materiali di quel popolo che vorremmo ancora nostro.
Ed allora categorie come cosmopolitismo, europeismo, unità monetaria dell’Europa, forme di autonomia nazionale, vanno sottoposte al vaglio di una critica realistica, alla pietra di paragone degli effetti di disgregazione che la loro interpretazione dominante ha avuto sulla vita dei subalterni.
Paggi cita assai opportunamente Karl Polanyi a proposito della necessità di difendere umanità e democrazia dalle tendenze strutturalmente distruttive della società di mercato. Vorrei ricordare che Polany chiama «socialismo» tale azione di autodifesa.
Lo stesso fenomeno delle migrazioni deve essere pensato nella coniugazione delle forme del loro governo. È problema difficilissimo che scuote alle fondamenta la nostra ragione e la nostra coscienza. Ma non possiamo più permetterci di affrontarlo soltanto attraverso pur lodevoli petizioni di principio.
Per certi aspetti si ripropone oggi, in condizioni non certo paragonabili, il problema dell’incontro avvenuto nella seconda metà del XIX secolo, tra movimento operaio, socialismo, teorie critiche del capitalismo. Sarebbe il caso di non dimenticare che uno dei momenti iniziali di quel percorso, il momento fondamentale, fu la fondazione della I Internazionale. Alle origini del meeting tra organizzazioni operaie francesi e Trade Unions, confronto preliminare alla fondazione dell’Internazionale, fu la questione del controllo del mercato del lavoro, a partire dalle possibilità per le Unioni di impedire l’esportazione di lavoro francese (allora nella forma del crumiraggio) in Inghilterra.
Possiamo ignorare una questione, il controllo del mercato del lavoro, che è quasi consustanziale alle ragioni fondative dell’organizzazione operaia?
Una analisi della scelta di voto degli americani e un impegno preciso per il suo partito e un suggerimento difficile da seguire al Partito Democratico.
The New York Times, 11 novembre 2016 (p.d.)
Bernie Sanders, candidato alle primarie presidenziali democratiche e ridotto al ruolo di portatore d'acqua a Clinton, si dice amareggiato ma non sorpreso dalla vittoria di Trump, il quale, per mezzo di una efficace campagna elettorale populista, ha saputo attirare il voto dei lavoratori americani, da trent'anni sempre più schiacciati dalle scelte operate dalle grandi compagnie e dalla finanza di Wall Street.
Trump avrà il coraggio di cambiare verso o si limiterà a scaricare la rabbia degli americani su minoranze, immigrati, poveri e bisognosi? Nel primo caso Sanders si dice ben disposto a collaborare e a presentare proposte di riforma ma, soprattutto, auspica che il Partito Democratico subisca una radicale trasformazione, rompendo i legami che lo stringono agli interessi economici a aprendosi di nuovo a quanti lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale [si ricordi che Clinton e Obama non vollero accettare che fosse Sanders il competitore di Trump, mentre molti ritengono che fosse l'unico capace di raccogliere la rabbia contro l'establishment, sgonfiando così le vele di Trump].
BERNIE SANDERS:
WHERE THE DEMOCRATS
GO FROM HERE
By Bernie Sanders
Millions of Americans registered a protest vote on Tuesday, expressing their fierce opposition to an economic and political system that puts wealthy and corporate interests over their own. I strongly supported Hillary Clinton, campaigned hard on her behalf, and believed she was the right choice on Election Day. But Donald J. Trump won the White House because his campaign rhetoric successfully tapped into a very real and justified anger, an anger that many traditional Democrats feel.
I am saddened, but not surprised, by the outcome. It is no shock to me that millions of people who voted for Mr. Trump did so because they are sick and tired of the economic, political and media status quo.
Working families watch as politicians get campaign financial support from billionaires and corporate interests — and then ignore the needs of ordinary Americans. Over the last 30 years, too many Americans were sold out by their corporate bosses. They work longer hours for lower wages as they see decent paying jobs go to China, Mexico or some other low-wage country. They are tired of having chief executives make 300 times what they do, while 52 percent of all new income goes to the top 1 percent. Many of their once beautiful rural towns have depopulated, their downtown stores are shuttered, and their kids are leaving home because there are no jobs — all while corporations suck the wealth out of their communities and stuff them into offshore accounts.
Working Americans can’t afford decent, quality child care for their children. They can’t send their kids to college, and they have nothing in the bank as they head into retirement. In many parts of the country they can’t find affordable housing, and they find the cost of health insurance much too high. Too many families exist in despair as drugs, alcohol and suicide cut life short for a growing number of people.
President-elect Trump is right: The American people want change. But what kind of change will he be offering them? Will he have the courage to stand up to the most powerful people in this country who are responsible for the economic pain that so many working families feel, or will he turn the anger of the majority against minorities, immigrants, the poor and the helpless?
Will he have the courage to stand up to Wall Street, work to break up the “too big to fail” financial institutions and demand that big banks invest in small businesses and create jobs in rural America and inner cities? Or, will he appoint another Wall Street banker to run the Treasury Department and continue business as usual? Will he, as he promised during the campaign, really take on the pharmaceutical industry and lower the price of prescription drugs?
I am deeply distressed to hear stories of Americans being intimidated and harassed in the wake of Mr. Trump’s victory, and I hear the cries of families who are living in fear of being torn apart. We have come too far as a country in combating discrimination. We are not going back. Rest assured, there is no compromise on racism, bigotry, xenophobia and sexism. We will fight it in all its forms, whenever and wherever it re-emerges.
I will keep an open mind to see what ideas Mr. Trump offers and when and how we can work together. Having lost the nationwide popular vote, however, he would do well to heed the views of progressives. If the president-elect is serious about pursuing policies that improve the lives of working families, I’m going to present some very real opportunities for him to earn my support.
Let’s rebuild our crumbling infrastructure and create millions of well-paying jobs. Let’s raise the minimum wage to a living wage, help students afford to go to college, provide paid family and medical leave and expand Social Security. Let’s reform an economic system that enables billionaires like Mr. Trump not to pay a nickel in federal income taxes. And most important, let’s end the ability of wealthy campaign contributors to buy elections.
In the coming days, I will also provide a series of reforms to reinvigorate the Democratic Party. I believe strongly that the party must break loose from its corporate establishment ties and, once again, become a grass-roots party of working people, the elderly and the poor. We must open the doors of the party to welcome in the idealism and energy of young people and all Americans who are fighting for economic, social, racial and environmental justice. We must have the courage to take on the greed and power of Wall Street, the drug companies, the insurance companies and the fossil fuel industry.
When my presidential campaign came to an end, I pledged to my supporters that the political revolution would continue. And now, more than ever, that must happen. We are the wealthiest nation in the history of the world. When we stand together and don’t let demagogues divide us up by race, gender or national origin, there is nothing we cannot accomplish. We must go forward, not backward.
Bisogna guardare un po' al di là del "pensiero unico" degli apologeti della globalizzazione capitalista per cogliere la verità di ciò che sta avvenendo«La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali».
Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016 (p.d.)
Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. l loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.
Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’ globalizzato, delle politiche neoliberali che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo, i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle,e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. La Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Al contempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana (dalle lotte della classe media), e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.
Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders di marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Usa avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.
Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettori. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a esser qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente”degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto Jp Morgan è divenuto lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby nazionali e transnazionali.
Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico Usa, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.
È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Monti contro il Parlamento e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegele senza remore dichiarò: “Capisco che (i governi) debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles”.
Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto (…) Siamo in una fase pericolosa (…) In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.
Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.
Un’ultima considerazione sul Movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Ue dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.
Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Zizek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”. Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri.