« il manifesto,
30 giugno 2017 (c.m.c.)
Da molto andiamo dicendo che è passato il tempo di linguaggi e immaginari che si richiamano a concetti come l’«unità della sinistra» o, peggio ancora, il «centrosinistra» (vecchio o nuovo che sia). Abbiamo detto in tutte le salse – in tanti, in Italia e in Europa – di non essere interessati a riesumare idee di sinistra che non ci sono più o che paiono ormai in «stato vegetativo permanente».
Non è possibile pensare che il futuro siano una sinistra identitaria chiusa nella propria «autonomia», o all’opposto una «socialdemocrazia» impraticabile e inutile, nell’attuale contesto storico. Quel che ci interessa è camminare domandando, inventare una sinistra ancora da scrivere. È questa la risposta a quell’80% di giovani che il 4 dicembre ha bocciato la riforma Renzi-Boschi. Senza girarci intorno, è bene riconoscere che quel mare di giovani No, non ha difeso la «Costituzione più bella del mondo» per il semplice fatto che queste persone non hanno mai conosciuto la Costituzione come strumento di emancipazione quotidiana. Per queste persone, il referendum è stato soprattutto occasione di rigettare l’austerità come forma di governo delle proprie vite.
La sinistra, allora, ha senso se, a partire da questo dato generazionale e sociale, è in grado di trasformare ansia e rabbia in partecipazione ri-costituente. È importante aver trovato riscontri chiari di questa urgenza nella grande giornata del teatro Brancaccio. Anna Falcone e Tomaso Montanari, con la loro iniziativa, hanno segnato paletti rispetto ai quali non si torna indietro. Il percorso politico cominciato al Brancaccio prende congedo dal centrosinistra come ipotesi politica. E finalmente! Del resto, ciò non significa essere minoritari o settari. Nessun veto può essere posto alla partecipazione di chicchessia: ma allo stesso tempo al Brancaccio è emerso chiaramente che l’assenza di veti non può essere un alibi, usato ad arte per rimuovere le responsabilità politiche di tanti dei protagonisti del passato più o meno recente.
Con le responsabilità dei vecchi ceti politici occorre fare i conti senza nuovismi o rottamazioni. Al contrario è necessario lanciare, su pratiche e forme della politica, una grande sfida fatta di impegno teorico e di strumenti concreti quali la Carovana delle Piazze dell’Alternativa. Dato, però, che la mobilitazione politica non si inventa, su questo è bene insistere. Non abbiamo tempo né interesse di continuare a evocare come un mantra l’unità della sinistra, aspettando di volta in volta Godot, Gotor o Pisapia. Il nostro destino non può essere quello di diventare «frequentatori di kermesse della sinistra», che rischiano di ripetersi autoreferenziali e inconcludenti. Non possono interessarci allusioni evocative, dunque. Abbiamo bisogno – un bisogno figlio della precarietà che condividiamo con milioni di persone! – di qualificare subito questo percorso sulla qualità delle proposte e sulla intensità della presenza nella società.
Per queste ragioni è necessario rifiutare discussioni politiciste e inconsistenti, subito ripartite dopo l’assemblea del 18. Al contrario, è urgente prendere parola solo sui contenuti e sulle pratiche: ossia su ciò che concretizziamo ogni giorno nei territori, nelle battaglie cui partecipiamo, nella Carovana delle Piazze dell’Alternativa. Sforziamoci di capire se «unità» significhi avere proposte concrete e di rottura, solo per fare qualche esempio prioritario: su «industria 4.0», precarietà e composizione del lavoro; su welfare e senso del reddito minimo garantito; su diritto all’abitare e diritto alla città da opporre alle politiche securitarie; sulla conversione ecologica dell’economia; su quel bene comune che è la conoscenza; su migrazioni e accoglienza; sulla questione meridionale; sul contrasto alle mafie; sull’Europa che vogliamo.
Lo scorso 2 dicembre Stefano Rodotà ci ricordava che «abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare». Onoriamo la sua memoria con il nostro impegno militante. Sarebbe il miglior contributo possibile non tanto alla mitologica unità della sinistra, quanto piuttosto alla costruzione di un programma che abbia l’obiettivo di liberare parti sempre più grandi delle nostre vite dal bisogno e dal ricatto di quella violenta relazione sociale che chiamiamo capitale.
«Mentre emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come». il manifesto,
28 giugno 2017 (c.m.c.)
Inutile girarci intorno. Possiamo confrontare il numero dei Comuni in cui vince il centro-sinistra o il centro-destra, mettere insieme comuni grandi e piccoli o fare altre alchimie – Renzi ci ha già provato – ma il senso di queste elezioni è netto: ha vinto il centro-destra, soprattutto ha perso il centro-sinistra, più precisamente, è stato sconfitto il Partito Democratico. Perché un inizio così netto e drastico? Perché quello che è accaduto era scritto nella storia degli ultimi anni ed è la conseguenza di due fenomeni ben noti: astensionismo e sistemi con ballottaggio nelle realtà non più bipolari.
Se nei sistemi bipartitici o bipolari l’elettore si trova a scegliere tra il partito in cui si riconosce ed il partito avversario, in un sistema tripolare o multipolare gli elettori che non si riconoscono tra i due contendenti sono spinti in gran parte ad astenersi e per il resto a votare contro il partito più nemico. Questo produce una mutazione della stessa natura dell’atto elettorale: dal voto per al voto contro, dal voto per simpatia a quello per antipatia. Il fenomeno era stato evidente già nelle elezioni comunali di Roma e Torino. E non è bastato che Renzi non si presentasse nelle piazze dove si votava. Serviva forse un passo in più.
Oltretutto si è aggiunto un altro fattore che ha influito sul voto. Dopo il 4 dicembre siamo entrati in una fase di ristrutturazione delle forze politiche italiane che sta interessando soprattutto il campo che va dal centro alla sinistra. In questa fase si sono collocati il congresso «incompiuto» del Pd, la fuoriuscita da esso di tanti iscritti e dirigenti di valore, il congresso che ha visto Sinistra Italiana subire una scissione prima di nascere, e, più di recente, i movimenti di Art.1, di Pisapia e di Falcone e Montanari. Un grande fermento, insomma, che produrrà, speriamo, effetti positivi, ma che oggi non ha aiutato perché le elezioni sono intervenute a «lavori in corso». Mentre, cioè, emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, ma non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come e mentre i direttori di cantiere che si presentano sono guardati con sospetto.
Le prossime tappe del processo di ristrutturazione – legge elettorale e di conseguenza schieramenti ed alleanze – saranno decisive. E per tutti. Il processo riguarda anche il centro destra, ma esso opera col vento in poppa del populismo che indica nel migrante il nemico e nel protezionismo la risposta al bisogno di sicurezza che la crisi della globalizzazione produce. A sinistra il processo è, invece, più complesso: non dobbiamo smarrire i nostri valori – accoglienza, diritti civili e sociali – ma abbiamo un bisogno urgente di «fare opinione», mobilitare, unire, conquistare, costruire convergenze, individuare resistenze ed avversari.
Allora più che parlare di schieramenti ed alleanze la «Costituente della sinistra» dovrebbe fissare le nostre parole chiave. Eguaglianza, lavoro, garanzia di reddito debbono essere declinati per farli diventare nostri obiettivi precisi, condivisi e visibili, sui quali aggregare persone, società civile, organizzazioni. Ma abbiamo bisogno anche di indicare e far emergere le resistenze che troveremo, che dovremo contrastare ed i soggetti che le rappresentano: l’economia finanziaria, le banche, i grandi patrimoni, i grandi profitti dei nuovi padroni dell’economia digitale, i poteri e le corporazioni che bloccano la mobilità sociale e perpetuano stratificazioni economiche e sociali che bloccano speranze ed ambizioni dei giovani.
Insomma di fronte al rischio che ciascuno scarichi il suo malessere su quello che gli sta a fianco o sotto, dobbiamo ricostruire una gerarchia di ruoli e responsabilità perché in una società che cresce poco non ci potranno essere più uguaglianza e più lavoro senza progressività e redistribuzione. Il voto ci chiama a fare una sinistra nuova, ma più radicale. Quello che in altri paesi dirigenti – vecchi o nuovi che siano – stanno cercando di fare.
«». la Repubblica, 26 giugno 2017, con postilla
In fondo alle urne di un secondo turno desertificato dall’astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull’asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti.
Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara.
Per il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto.
A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare.
Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi. Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi.
Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel.
Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento. Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore.
Se il partito di Renzi avesse dovuto comprendere il segnale del 4 dicembre, come afferma Folli, avrebbe dovuto dissolversi. Non lo ha fatto, ci sta pensando l'elettorato a farlo. L'alto astensionismo non è certo un caso: perché mai gli elettori desiderosi di un qualche cambiamento "a sinistra" avrebbero dovuto scegliere tra Berlusconi e Renzusconi, visto che la merce offerta è la stessa?
«La cultura di massa sta cambiando. Corbyn, Sanders, il lavoro, i cortei in piazza... il passato non è più tutto da buttare. Il "nuovo" sta perdendo terreno. E va ricostruito». Ma, osserviamo noi, il "vintage" non basta, serve il "nuovissimo". il manifesto, 24 giugno 2017, con postilla
Il successo di Jeremy Corbyn nel resuscitare il Labour, che ormai tutti davano per cotto e stracotto, non è un fatto eccezionale nel panorama politico occidentale. E diversi segnali ci dicono che non si tratti di un caso isolaSotto traccia, infatti, stiamo assistendo a un mutamento culturale profondo che ha un effetto rilevante anche nella sfera della politica.La sbornia neoliberista non è finita ma sta perdendo una delle basi su cui si è costruito il suo successo: è entrata in crisi l’idea che il «nuovo» sia sempre meglio del «vecchio», che le magnifiche e progressive sorti dell’umanità ci attendono, che il domani sarà necessariamente migliore di ieri. È stata proprio questa visione dominante della vita, mutuata e prodotta dalla società dei consumi, dove l’innovazione è fondamentale per mantenere in vita il mercato, che ha portato anche nella sfera politica a sentire come superate quelle forze politiche che appartenevano al passato.A sentire come vecchie e superate parole come «uguaglianza», «giustizia sociale» o lotta di classe/conflitto sociale, a guardare come a riti inutili le commemorazioni dell’Anpi o le manifestazioni di piazza contro le politiche del governo. Al più, tra i più sensibili, resisteva un sentimento di solidarietà umana, quasi di benevola comprensione per queste forme politiche del passato.
Di contro il successo di Corbyin, simply red come lo ha giustamente definito/colorato Tommaso Di Francesco, ci dice che un anziano, nell’era del giovanilismo imperante, che parla il vecchio linguaggio della sinistra pre-Blair , che dice cose semplici ma le rende credibili con la propria storia personale, può riportare una parte importante delle forze popolari a votare per una autentica «Sinistra».Non diversamente qualcosa di simile si è registrato negli Usa con l’inaspettata ascesa dell’anziano Bernie Sanders, bloccato in maniera poco trasparente da una candidata espressione dell’establishment come Hillary Clinton .
Che cosa è successo, al di là di tanti elementi contingenti che possono spiegare il fenomeno? Per comprenderlo, proviamo a spostarci su un altro piano, quello del mondo delle merci.Negli ultimi anni in diverse città italiane ed europee, in particolare a Firenze, sono sorti diversi esercizi commerciali che vendono prodotti di un’altra epoca che sono tornati di moda, anzi sono diventati preziosi perché rari.Nelle strade cittadine vediamo sempre più spesso andare lentamente le vecchie 500 Fiat degli anni ’60 , così come il vecchio Maggiolino, la Lambretta, la Vespa, ecc. Lo stesso accade per alcuni abiti, per la forma antica dei telefoni fissi, per alcuni ambiti dell’arredamento e in tanti altri settori. È il trionfo del vintage che ha un significato che non può essere banalizzato.
Certo, si può leggere questo fenomeno come una scelta di consumo radical-chic, facente parte di quella spasmodica ricerca di distinzione in una società dai consumi standardizzati. Ma, se allarghiamo lo sguardo ci accorgiamo che il vintage esprime anche il bisogno di non buttare a mare il passato, di valorizzarne oggetti e valori che sembravano essere perduti. Ce ne accorgiamo guardando al ritorno con grande seguito dei cosiddetti classici, nel cinema (si pensi solo a Totò e al neorealismo che rivediamo spesso volentieri) quanto nella letteratura (basti pensare, al di là della bravura di Benigni, al revival della Divina Commedia).
se la sinistra diventa vintage esce da qual complesso di inferiorità culturale, di essere superata dal cambiamento imposto dal turbocapitalismo, e ridiventa un punto di riferimento per chi cerca persone e ideali ben radicati nella storia, per chi è stanco di una società «liquida» e narcisista.
Ma, tutto ciò non basta assolutamente. Non basta parlare di eguaglianza e di Costituzione che va realizzata nei suoi valori e programmi.
Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per rispondere alle grandi sfide che abbiamo di fronte. In primis la questione ambientale, la salvezza dell’ecosistema, la capacità di risposta ai mutamenti climatici, senza pensare di salvare capre e cavoli come tentò di fare il «Rapporto Brundtland» che coniò nel 1987 l’espressione «sviluppo sostenibile» con cui si è giustificato il perpetuarsi dello sfruttamento delle risorse naturali.
In secondo luogo la questione del lavoro, che diventerà drammatica nei prossimi anni con l’accelerazione dell’automazione. Senza una drastica riduzione dell’orario di lavoro non c’è via d’uscita chiunque governi. E ancora: le nuove forme di alienazione legate alla diffusione delle tecnologie della comunicazione che distruggono legami sociali e creano monadi che pensano di stare al mondo perché sono iperconnessi ogni momento.
E quindi tutta la grande sfida dell’educazione oggi, di una scuola/università che non possono essere ridotte ad aziende che producono merci. Infine la grande questione della sicurezza che è stata regalata alla Destra e ridotta a terrorismo islamico e immigrati quando la nostra insicurezza nasce sul luogo di lavoro, in quello che mangiamo, che respiriamo, e anche nel fatto di essere aggrediti dalla piccola quanto dalla grande criminalità organizzata (mafia, camorra e ‘ndrangheta), dall’emergere di una nuova classe sociale – la borghesia mafiosa – che si è alleata con la borghesia finanziaria producendo, su scala globale, una deriva criminale del capitalismo. Senza dimenticare l’urgenza di una politica di pace per tutta l’area del Mediterraneo come priorità per la sicurezza del nostro paese.
Questi ed altri i temi rilevanti e sensibili che riguardano la nostra vita quotidiana ed il nostro futuro. Una forza politica di vera sinistra deve provare a tradurli in proposte concrete, a parlare di nuovi stili di vita ed a praticarli prima della presa del potere, a dimostrare, anche simbolicamente, che è possibile.
Su questo punto passa una distinzione profonda col passato: non aspettare la conquista delle poltrone o il successo elettorale come misura della bontà della proposta politica ma praticare insieme a tutte le forze sociali disponibili nuovi modelli economici, sia pure su scala locale, nuove forme di mutualismo sociale, di consumo responsabile, di un uso alternativo del denaro (dalla moneta fiscale alle monete locali complementari), a un (neomunicipalismo realmente partecipato.
Se ci sarà questo cambiamento profondo allora la stessa, desueta, parola «compagno» potrà riacquistare un significato forte e chiaro.
postilla
"Il grande problema di fronte al quale ci troviamo oggi era sconosciutodalla sinistra del secolo scorso: appena intravisto da pochi misconosciuti profeti. Molto schematicamentepotremmo sintetizzarlo così. Il sistema capitalistico ha concluso il (oppure “un”?),suo ciclo storico in un processo nel quale ha avviluppato e coinvolto il suoantagonista storico, il proletariato. La crescita irrefrenabile dello sfruttamento (fino alla dissipazione) di tutte lerisorse disponibili (dall’uomo a tutte le altre componenti dell’ambiente) hareso impossible a masse sempre più ampie di esseri la sopravvivenza sul pianetaTerra. Al cospetto di una tale mutazione. Sebbene l’obiettivo finale rimane sempre quello del superamento delmodello economico del capitalismo, è lecito nutrire forti dubbi sul fatto chesia sufficiente una “sinistra vintage” per concepirlo (e.s.)
il manifesto, 23 giugno 2017, con riferimenti
In un articolo sul manifesto di poco tempo fa (8/6/2017) avanzavo una previsione che è risultata, inconsuetamente, azzeccata e formulavo un auspicio che invece, a quanto sembra, stenta non dico a concretizzarsi, ma più semplicemente a farsi strada.
La previsione era quella di un progressivo, sempre più rapido e sempre più insolentemente dichiarato, slittamento del Movimento 5 Stelle verso posizioni praticamente coincidenti con quelle dell’estrema destra. Le testimonianze, nel corso degli ultimi giorni, sono numerose.
Ma preferisco fermarmi all’ultima, per il suo carattere davvero speciale. E’ la posizione assunta sulla legge dello ius soli. In politica, com’è noto, esistono, a seconda delle prospettive, posizioni giuste, sbagliate, discutibili, contraddittorie, ecc… Ma se una posizione non è né giusta né sbagliata ma semplicemente disumana, come quella sostenuta da Grillo sulla richiamata legge, significa che tra quella forza e le altre, più o meno discutibili, ma che non la pensano come lui, s’è aperto un fossato invalicabile (come ovviamente per gli stessi motivi, e ancor più, con la Lega di Salvini ecc…).
Il brutto è che ciò era chiaro, chiarissimo fin dal giorno in cui Grillo emise il suo primo strillo incoerente su di una piazza italiana (si potrebbe manifestare qualche stupore perché tra gli attuali sostenitori di una sinistra “dura e pura” ce ne siano che se ne sono accorti con impressionante ritardo, per essere degli innovatori…).
Io,invece sulla base di una forse settaria ma alla fin fine fondatissima preveggenza, mi permetto di reiterare, anzi, di raddoppiare la previsione: con posizioni di questa natura Grillo perderà più voti di quanti pensa di acquistarne. Ossia: il declino del Movimento 5 Stelle sarà lento, ma è ormai inevitabile.
Quanto all’auspicio, mi auguravo che le sinistre, disunite, trovassero un’occasione o un luogo comune per discutere. Non sarebbe solo un problema di correttezza etico-politica, è molto, molto di più. E’ un problema di sopravvivenza. Si direbbe che, al contrario, ognuna di quelle sinistre si sforzi sempre più puntigliosamente di dimostrare e dichiarare come e perché sia diversa da tutte le altre. E’ ancora possibile invertire questa micidiale tendenza?
Avanzerò qualche sommaria riflessione.
Uno dei motivi del contendere, e perciò della divisione, è, a quanto sembra, la parola d’ordine del centro-sinistra. Si può cominciare a ragionarne, confrontando due apparentemente contrari ma in realtà simmetrici, e anzi convergenti, punti di vista.
Innanzi tutto: la parola d’ordine del centro-sinistra rappresenta una prospettiva strategica per la sinistra in Italia. Infatti quando mai la sinistra può aspirare a diventare in Italia forza di governo, localmente e nazionalmente, se non in una prospettiva di centro-sinistra? Non ignoro che nella sinistra esistono componenti e posizioni le quali, del tutto legittimamente, puntano su di un altro versante della lotta politica, quello movimentista, che nasce dal basso e agisce sul basso, ecc… Ma cosa impedisce ad un centro-sinistra di governo di avere rapporti e scambi molto proficui, anzi essenziali, con quest’altra sinistra? Ma il centro-sinistra di cui stiamo parlando è quello che si batte per arrivare a gestire il paese e le sue lotte da una posizione di governo. Quindi, è a questa prospettiva che l’unità delle sinistre dovrebbe innanzitutto guardare.
Ma: un centro- sinistra, nella pienezza delle sue forze e potenzialità, non si può fare con Matteo Renzi. Perché Matteo Renzi è la negazione vivente del centro-sinistra: cultura, ideologia (più o meno profonda), metodi e pratiche di governo spingono in lui, strumentalmente, nella direzione opposta. La battaglia per il centro-sinistra coincide dunque perfettamente – questo dev’essere chiaro – con la battaglia contro l’egemonia nel Pd, e fuori del Pd, di questo personaggio.
E’ ancora possibile questa battaglia? E cioè: è il Pd, innanzitutto, prima di qualsiasi altra componente di sinistra, recuperabile a una prospettiva di centro-sinistra (certo, con lacerazioni interne anche profonde e la liquidazione di ogni tipo di “giglio magico”)? Difficile dirlo. Ma di certo, se non ci si prova, i tempi si allungheranno, tenderanno di diventare semisecolari.
Ma: una battaglia di questa portata e natura, che va ben al di là delle contingenze elettorali, di oggi e di domani, si può iniziare e vittoriosamente condurre senza mettere le carte in tavola? E cioè: noi chiediamo legittimamente il cambiamento, chiediamo di abbattere Renzi per renderlo possibile, solo se discutiamo, progettiamo e propagandiamo un vero e proprio programma, appunto, una serie di punti chiari e definiti intorno a cui far quadrato e, come si diceva una volta, “chiamare alla lotta”.
Di tutto ciò per ora non c’è traccia, né da una parte né dall’altra. Una Costituente di sinistra consisterebbe semplicemente in questo: su cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo d’accordo? I disaccordi sono componibili oppure no? L’unità è una conseguenza di questo, non il presupposto.
Se si passa da qui, una luce si accende. Altrimenti resteremo nell’oscurità profonda che circonda i “quattro dell’Orsa maggiore”: Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini. Mamma mia.
Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato, oltre agli scritti di Anna Falcone e Tomaso Montanari, commenti di Norma Rangeri, Luciana Castellina, Livio Pepino, Piero Bevilacqua, Alfonso Gianni, ed espresso il nostro punto di vista in A proposito dell'iniziativa di Anna e Tomaso (e.s.)
« il manifesto, 23 giugno 2017 (c.m.c.)
L’assemblea del Brancaccio ha avuto il merito essenziale di porre con i piedi per terra il tema della costruzione di una «lista di cittadinanza a sinistra». Il percorso è tutto da costruire, né poteva essere preconfezionato. Ma alea iacta est, indietro non si deve e non si può tornare. Il percorso non sarà facile e il tempo è breve. Proprio per questo conviene da subito affrontare alcuni nodi. La contraddizione nella quale si dibatte la costruzione della lista di cittadinanza a sinistra è chiara e non va sottaciuta.
Da un lato si tratta di favorire il massimo dell’unità possibile, perché il risultato elettorale non risulti deprimente e perché la rappresentanza parlamentare che ne consegue sia dotata di forza e consistenza. Dall’altro lato bisogna garantire la sua autonomia in particolare da qualunque sogno di riedizione di un fantomatico centrosinistra, che ucciderebbe la nuova creatura prima del parto. Tenere insieme e conciliare questi due elementi non è semplice, ma neppure impossibile e soprattutto necessario. Le ragioni non sono solo elettorali, ma più profonde. Comincerei da queste ultime.
Qui non si tratta di (ri)unificare forze di sinistra già esistenti. Non che queste manchino e che non debbano in primo luogo unirsi. Sarebbe ingeneroso oltre che autolesionista dimenticarlo o pensare di farne a meno. Ma esperienze comprovate dimostrano che la somma non fa il totale. Anche se lo facesse, rischierebbe di essere troppo poco persino per superare l’inevitabile asticella del quorum, peraltro per ora ignota come il resto della legge elettorale con cui si voterà, ma soprattutto per reggere la sfida della stagione politica che si apre. La quale appare contrassegnata dal fronteggiarsi di diversi e spesso opposti populismi: lo scontro tra destra e sinistra non sparisce affatto – come dimostrano anche le recenti esperienze di voto europee – ma avviene su quel terreno, ovvero nella crisi della politica, entro un senso diffuso di distacco dalle istituzioni e di diffidenza – eufemismo – verso l’establishment politico-istituzionale ai suoi vari livelli.
L’unico punto fermo sono i valori di fondo della Costituzione, lo abbiamo ben visto con il voto popolare il 4 dicembre, quello stesso però che non si è ripresentato nella stessa misura alle urne delle recenti amministrative facendo lievitare ancora una volta l’astensionismo.
D’altro canto la recente crisi del M5Stelle, cui il gruppo dirigente reagisce con una evidente virata destrorsa, può liberare voti a sinistra (e non solo a destra, come sembra stia ora avvenendo) solo se lì vi è una forza in grado di attrarli. Il compito che ci sta di fronte è quindi ben più complesso: costruire senso, più che cercare consenso. Infatti va ben al di là dell’appuntamento elettorale. Lo trascende in un auspicabile, ma non predeterminato, processo costituente di un nuovo soggetto di sinistra, senza però poterlo bypassare perché la politica non prevede il salto del turno, ma al contrario che di volta in volta si spenda tutto quello che si ha in tasca.
Che senso avrebbe anteporre la scelta delle alleanze – il centrosinistra – senza avere dimostrato che una sinistra autonoma e riconoscibile per profilo politico-programmatico e qualità dell’agire, esiste? E poi centrosinistra con chi? Con un centro – il Pd – che guarda a destra (per parafrasare e capovolgere la celebre espressione di De Gasperi) come dimostrano politiche e recenti sostegni parlamentari? Propugnatore del più ambizioso quanto fallimentare progetto di stravolgimento oligarchico dell’ordine costituzionale?
Non sottovaluto affatto l’importanza delle scissioni e delle diaspore avvenute in campo Pd. Sono il frutto diretto o indiretto delle battaglia politiche e soprattutto referendarie di questi mesi. Queste ultime tanto temute da costruire la truffa del voucher reloaded. Un fatto positivo, dunque. Che andrebbe aiutato a liberarsi definitivamente dai fili vischiosi del bozzolo del passato. Non promuovendo l’abiura, ma una politica senza piombo sulle ali. Se invece si pensa a un centrosinistra senza Renzi, o ci si illude – visti gli esiti delle ultime primarie – o si finisce in bocca ai vagheggiamenti (à la Repubblica) di chi vuole semplicemente cambiare di spalla al fucile, sapendo che un Calenda sparerebbe nella stessa direzione.
La contraddizione di cui sopra può essere superata solo spostando la definizione, da subito e nei modi necessari, di programmi e candidature ai livelli della partecipazione popolare diretta. Da qui la centralità del carattere «di cittadinanza» della lista, che pratica un diverso agire nel momento stesso in cui lo proclama.
Significa costruire la sinistra a partire dalla responsabilizzazione del suo popolo diffuso, che non ha mai smesso di esistere anche se la sua espressione come forza e soggetto politico ancora non c’è.
Donatella Coccoli intervista il giurista Livio Pepino. «Bisogna partire da un programma coerente e dalla forza delle associazioni del territorio che rispondono all’appello
». Left, 22 giugno 2017 (c.m.c.)
Mentre ci si avvicina al secondo turno delle amministrative e diventa sempre più stretto il rapporto tra Mdp e Giuliano Pisapia che il 1 luglio convoca il suo Campo Progressista a Roma, continuano le reazioni dopo l’assemblea al Teatro Brancaccio del 18 giugno. All’appello per una lista unica di sinistra lanciato da Anna Falcone e Tomaso Montanari hanno aderito in molti, e tra questi c’è anche Livio Pepino, ex magistrato prestato all’editoria (cura le edizioni del Gruppo Abele). «Io sono uno dei molti che spera che sia questa sia la prospettiva giusta e cercherò di dare una mano» dice dopo l’incontro.
Durante il suo intervento aveva toccato tre punti, di cui uno era quello delle alleanze. Cioè, lei ha detto, non deve essere questa la principale preoccupazione per costruire una lista unitaria.
Bisogna partire dalle fondamenta e non dai tetti come ha detto anche Tomaso Montanari. Cioè bisogna partire dal programma, dalla forza delle associazioni che rispondono all’appello. E visto che c’è un po’ di tempo ancora, visto che la scadenza elettorale non sarà immediata, occorre stilare un un programma coerente e dopo di che procedere, senza fare l’esame del sangue a nessuno e senza fare recriminazioni sulle storie personali di ognuno. La cosa importante è che ci sia un’adesione convinta al programma, se non c’è, è inutile dire che mi alleo con Tizio, Caio o Sempronio. Ricordiamoci che nel passato questo modo di agire ha portato a sconfitte, come quelle della lista Arcobaleno.
Qual è la sensazione rispetto all’assemblea del 18 giugno?
C’è molto da lavorare, ma mi sembra una buona partenza, c’è stata un’ottima adesione, si sono ascoltati buoni interventi. Questa però è solo la premessa. Si gioca la prima parte della partita nei prossimi due mesi. A settembre bisogna capire se questo appello ha avuto nei territori delle reazioni positive, se c’è mobilitazione forte, voglia di costruire. Io credo che possa funzionare, ripeto, le premesse in qualche modo ci sono, anche se sono tutte le da verificare.
Nel secondo punto da lei toccato, ha parlato di chiarezza nel programma e nell’agire politico.
La chiarezza è collegata naturalmente al primo punto. La cosa importante è il radicamento nel territorio: ora questo potrebbe essere l’ennesimo slogan, ma per me significa che bisogna cercare di mettere insieme e di far ragionare tra di loro una serie di realtà che nel territorio ci sono, fanno cose interessanti e sono orientate verso prospettive egualitarie e però sono distanti dalla politica. Sono associazioni, sono persone che lavorano con i migranti, una parte dei movimenti studenteschi, pezzi del mondo del lavoro che non si sentono rappresentati, ma che però esistono. Ci sono tanti spezzoni che non hanno rappresentanza, il problema non è pensare alla sinistra come a un luogo del Parlamento, il problema è pensare a questi pezzi qui, che se si mettono in rete e in collegamento tra di loro possono fare molto.
Non saranno solo speranze?
Non sono un ingenuo movimentista che pensa che si possa realizzare tutto da un giorno all’altro, ma alcune esperienze ci sono nel mondo. Quello che ha fatto la differenza in Inghilterra con Corbyn e negli Usa con Sanders è stata la mobilitazione di una serie di settori che non lo facevano da decenni e che lo hanno fatto. Hanno trovato un riferimento. E al di là della distinzione vecchi-giovani, perché non è questo il problema, il problema è la coerenza del progetto, dire le parole giuste e avere una storia senza scheletri nell’armadio.
E a proposito di scheletri nell’armadio, lei ha detto al Brancaccio che è un errore non aver fatto una discontinuità con il passato.
Io parto da un’analisi sia del non voto che su quello che in parte, in Italia come in altre parti d’Europa, è diventato un “voto di vendetta” come l’ha chiamato Marco Revelli. In quel 20% delle classi subalterne che negli Usa ha votato per Trump, credo che nessuno pensasse che lui avrebbe risolto i suoi problemi ma che almeno con quel voto gliel’avrebbe fatta pagare agli altri. Anche il voto dei 5 stelle io lo vedo in quest’ottica. Lo si è visto sin dalle prime manifestazioni, quelle del vaffa. Ecco, questo è il sentire comune, io credo a torto ma in buona parte anche a ragione. Ora noi non bisogna cavalcare la demagogia, bisogna fare discorsi seri ma con modalità, facce, parole, forma di rappresentanza che dimostrino effettivamente che si è voltato pagina. E questo al di là delle responsabilità soggettive, perché non è vero che tutti sono uguali. In questi anni c’è chi ha sbagliato. E quando il ceto politico ha perso credibilità per una serie di ragioni, non è che glielo puoi riproporre agli elettori.
E allora cosa fare, come conciliare i vari pezzi dell’alleanza?
Il problema è che non bisogna escludere a priori nessuno. Ma se domani le liste possono anche comprendere pezzi che hanno fatto politica in passato tuttavia devono esserci in prevalenza volti nuovi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Il senso deve essere quello di un’altra cosa, diversa dal passato. Certo, bisogna dare delle risposte giuste. Per esempio, nel dibattito sulla sicurezza, a chi ha paura non si può dire non devi avere paura, bisogna saper dare delle soluzioni. A chi dice che questo sistema non funziona, è marcio, non gli puoi dire non è vero, gli devi dare delle risposte che, se mai dimostri che su alcuni punti ha torto, ma deve essere una risposta diversa che lo deve portare da qualche parte. Se no, faremo dei programmi bellissimi e nessuno li sosterrà.
Come deve essere una politica seria di sinistra?
Chi è riuscito di nuovo ad aggregare è riuscito a fare una politica concreta: in una città deve aprire delle mense, ambulatori medici gratuiti ecc. Insomma bisogna dare risposte alle persone. Se lo fai, la gente si fida e allora puoi essere anche credibile nel momento in cui fai anche dei progetti più ampi. Oggi, siccome tutti promettono ogni sorta di cosa, e la realtà poi è estremamente deludente, la reazione dell’opinione pubblica è quella di sfiducia.
Testo della lettera inviata ad Anna Falcone e Tomaso Montanari a proposito della loro iniziativa politica: le ragioni del consenso e la perplessità.
L’iniziativa politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari è,in Italia, l’evento più promettente degli ultimi anni, dopo la caduta delprogetto di Maurizio Landini. Per la prima volta si parla di Politica in sensoproprio: come un’impresa da condurre insieme per migliorare le condizioni di vita,tendenzialmente, di tutti. La stessa dimensione dell’evento del 18 maggio aRoma ne è la testimonianza.
Come spesso accade quando i media danno la loro impronta aciò che raccontano degli eventi, attorno all’incontro del 18 giugno, e allaproposta politica che è alla sua base, si è alzata una discreta quantità dipolvere, a partire dal peso assegnato dai media al ruolo svolto da quelli che definiremmo“entristi”: quei personaggi della vecchia storia delle sinistre italiane che sisono intrufolati cercando una nuova verginità. Qui voglio sottolineare leragioni per cui, fin dal primo momento, la proposta mi ha convinto e ho cercato,con eddyburg, di seguirla con attenzione.
Le ragioni delconsenso
In primo luogo, la netta rottura con il passato della “politicapoliticante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccoloPantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In unaparola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente ledestre) del secolo scorso. Voglio precisare: con i gusci, non con le personeche sono capaci di liberarsene.
In secondo luogo, l’affermazione dell’eguaglianza comeessenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo deidiritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che siail suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, lalingua che parla, la religione che professa.
Ancora il forte riferimento alla difesa e all’attuazione aivalori e principi della costituzione repubblicana del 1948, summula delpositivo che lo scorso millennio ci ha lasciato.
Infine, per scendere dall’ideologia alla politica nelleistituzioni, condivido la scelta di Anna e Tomaso di parlare a tutti ma dirivolgersi in primo luogo a quel “popolo di sinistra” che è sceso in campo e havinto nelle grandi battaglie per la difesa della Costituzione, e prima e insiemeper la difesa dei beni comuni (dall’acqua alla cultura, dalla salute alpaesaggio, dalla democrazia al lavoro). Tornerò criticamente sul termine “sinistra”,ma mi pare che intanto esprima abbastanza bene quella parte dell’elettorato cheha combattuto per quegli obiettivi.
Una larga porzione di questo popolo si è staccato dallapolitica, non ha più votato. Le ragioni sono evidenti, e sono implicite nellaproposta di Anna e Tomaso: sono nella degradazione della politica che èavvenuta per effetto, e nel quadro, dell’egemonia conquistata dal capitalismonella sua fase più recente. La politica del renzismo ne è l’epitome.
La perplessità
Esposte le ragioni per cui ho fin dall’inizio condiviso laproposta di Anna e Tomaso vorrei esprimere la mia perplessità su un punto: nonsul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferisco allaquestione del difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizionedi una identità “di parte”,radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storiadel nostro paese, e quella dell’efficacia nell’immediato.
Più d’un commentatore si è riferito a questo punto. Ma lamaggioranza (cito ad esempio Norma Rangeri e Luciana Castellina, che sulcomplesso dell’iniziativa pur si sono espresse in modo molto diverso) criticandol’insufficiente attenzione a quella vasta porzione della vecchia “sinistra” cheè (ancora) fuori e magari lontana dalla “parte” di Anna e Tomaso. La miapersonale opinione è che, nell’immediato, far prevalere la ricerca dell’efficaciaimmediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) costringa adannebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta.Prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità,poi stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivinella pratica politica: questo mi sembrerebbe il percorso preferibile.
La parola “sinistra"
Ciò detto, credo che un approfondimento serio vada fatto sulsignificato del termine “sinistra” oggi. Tutto è mutato radicalmente attorno anoi, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ma le linee guida del cambiamentoerano state tracciate all’indomani stesso della vittoria del fronteantifascista. Colpa grave della sinistra novecentesca non essersene accorta pertempo (salvo pochi e isolati gruppi e persone). Ciò ammesso, che cosa fareoggi? Che cosa recuperare del grande patrimonio e dall’insegnamento della “vecchia”sinistra”, e come inverarli nelle nuove sfide?
Io credo che una delle domande da porsi, per cominciare, sia“chi erano gli sfruttati e chi gli sfruttatori ieri, e chi sono gli sfruttati egli sfruttatori oggi”. Ovviamente, nonassumendo come campo di ricerca soltanto l’Italia né l’Europa, né il mondoNordatlantico oggi, ma l’intero pianeta Terra.
A quel punto ci accorgeremo che una parte estremamenteconsistente degli sfruttati di oggi sono stati prodotti da un’ideologia e unaprassi fortemente condivisa dalla “vecchia sinistra”: la “credenza” dellosviluppo, che è ancora parte dell’ideologia
dominante. Ci accorgeremo che la grande massa degli sfruttati di oggi è costituita proprio dagli
"sfruttati dallo sviluppo", come ha scritto Ilaria Boniburini sulla base di una letteratura vasta e poco nota. E ci accorgeremo infine che
sfruttati e sfruttatori sono molto vicini,molto spesso nella stessa persona. Allora dalla politica saremo costretti a rivolgerciverso altri saperi.
».
il manifesto, 22 giugno 2017 (c.m.c.)
Ci sono alcune buone ragioni, tanto soggettive quanto di contesto, che spingono a guardare con fiducia e speranza all’iniziativa avviata da Anna Falcone e Tomaso Montanari il 18 giugno scorso al teatro Brancaccio di Roma.
Soggettive, perché la relazione di Montanari ha rivelato una maturità politica non comune, sia per la profondità dell’analisi storica e attuale, sia per l’equilibrio, la coscienza delle difficoltà, con cui ha prospettato il percorso possibile da sperimentare.Ci sono almeno due punti che vorrei sottolineare – a parte gli elementi programmatici – di quella relazione, che ha messo in equilibrio radicalità di proposta e ancoraggio realistico alle possibilità concrete offerte oggi dalla situazione italiana ed europea.
Il primo riguarda il giudizio sull’esperienza storica del centro-sinistra. La riflessione di Montanari non era un saggio scientifico, così come il mio non è che un articolo di riflessione politica. Ma la critica alle iniziative caratterizzanti del centro-sinistra prima di Renzi, dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, passando per la legge Treu sul mercato del lavoro, sino alla riforma universitaria di Luigi Berlinguer, costituisce un passaggio obbligato per capire almeno un aspetto della storia degli ultimi 20 anni: la dissoluzione progressiva di ogni fede nell’animo del popolo della sinistra, la diserzione dall’impegno e dalla lotta.
Chi vuole trovare ragioni all’astensione elettorale in questo campo le trova tutte qui. Perché non c’è risentimento più profondo di quello che nasce dal sentirsi traditi dalla propria parte. Renzi è stato solo la degenerazione virulenta della malattia neoliberista che aveva già corroso la sinistra.Questo giudizio d’insieme, che può apparire sommario, non deve tuttavia pregiudicare il contributo di chi è stato dentro quella esperienza e vuol voltare pagina.
Nessuna richiesta di pentimento, né processi sommari. Ad ora non si ha notizia di tribunali speciali per quella vicenda. Ma certamente è richiesta una netta discontinuità con quel passato. Questa è una linea dirimente che Montanari ha tracciato con intransigenza, ma senza iattanza: opportunamente ripresa da Nicola Fratoianni e Pippo Civati che hanno aderito all’inziativa.
L’altro punto riguarda la capacità di Montanari di far rivivere alcuni punti della nostra Costituzione, come l’art. 3, quali elementi programmatici di una politica di superamento della democrazia formale.
Una interpretazione che negli ultimi anni ha trovato, per la verità, espressione negli scritti dei nostri migliori costituzionalisti. Ma Montanari ha mostrato sinteticamente come una forza politica che affonda le radici della propria azione nella carta fondativa della Repubblica, possiede una forza ideale straordinaria, una capacità egemonica ancora poco utilizzata nei suoi radicali presupposti egalitari.La situazione di contesto che dà speranza all’esperimento avviato è la non immediata scadenza elettorale.
Se una forza politica nascente è costretta, come sua prima iniziativa, alla corsa per le candidature, ormai lo sappiamo bene, è spacciata. C’è dunque tempo per ragionare e per affrontare le difficoltà gigantesche che si parano davanti. Magari pensando a una Costituente della sinistra, come propone Asor Rosa.
Ora, non c’è dubbio che i maggiori ostacoli vengono, a parte i vari aspetti tecnici e organizzativi, dal seguente problema: come far confluire le forze politiche organizzate, i partiti, come Sinistra Italiana e Rifondazione comunista, dentro il corso, certamente vitale, ma frammentato e magmatico, dei movimenti.
Questi partiti, sprezzantemente definiti “cespugli” dai nostri dottissimi media e da qualche politico altrettanto dotto, non sono ridotte di nostalgici. Benché non esenti da chiusure e settarismi, hanno una storia, talora radicamenti territoriali, sono frutto del lavoro volontario di migliaia di donne e di uomini che li fanno ancora vivere.
E’ giusto avere attenzione alle loro preoccupazioni di rischiare di scomparire in cambio di nulla. E’ giusto immaginare il riconoscimento del loro peso nella nuova organizzazione che dovrà nascere. Ma i loro dirigenti devono avere il coraggio di affrontare la sfida di un progetto indifferibile, senza il quale c’è forse la sopravvivenza di qualcuno, ma di certo la sconfitta di tutti: l’unificazione della sinistra in un nuovo organismo.
Provando a fare della presente debolezza – l’assenza di un leader massimo – un elemento di originalità: un partito-movimento diretto da un collettivo e coordinato da un portavoce che cambia a rotazione. Sarebbe una innovazione straordinaria, perché, diciamolo da storici, partito e democrazia non sono stati molto amici nel corso dell’ età contemporanea.
Infine, l’ambizione del tentativo è condizione del suo possibile successo. Non si tratta di costruire l’ennesimo cartello elettorale.Un orizzonte così limitato mostrerebbe l’irrimediabile strumentalità dell’operazione e allontanerebbe per sempre il popolo che vuole richiamare.
E’ il rischio di cui non si accorge Pisapia.
I lavoratori, i giovani, le donne, gli studenti, il ceto medio impoverito, il popolo delle periferie cerca donne e uomini che non solo li rappresentino in Parlamento, ma che condividano le loro lotte e bisogni, che stiano dalla loro parte, non solo nel momento della competizione elettorale, ma costantemente e all’interno di un progetto di lunga lena per cambiare la società italiana.
il manifesto,
21 giugno 2017 (c.m.c.)
Se ci fosse stato ancora bisogno di dimostrare che i grandi giornali hanno smesso di raccontare quello che succede per dar spazio solo ai dettagli che servono a corroborare la loro linea politica, l’assemblea del Brancaccio rappresenterebbe la migliore prova. Qualche migliaio di persone, protagonisti molti giovani (di per sé una notizia), 40.000 che seguono in streaming, decine di interventi che raccontano l’Italia invisibile alla vecchia politica ufficiale ma che esiste ed è ricca.
La vera salvezza di una democrazia altrimenti ridotta a povera cosa: comitati di base che si occupano di ambiente, migranti, scuola, solidarietà, lavoro, guerre. Questo è stato soprattutto l’assemblea di domenica, e di questo non una parola è comparsa sui quotidiani. Chi ha accennato all’evento è stato solo per misurare la distanza fra il teatro Brancaccio e Pisapia, che – diciamo la verità – non è “odiato” perché vuole unire, ma perché nessuno sa ancora chi rappres+enta e cosa vuole. (Non basta aver fatto bene il sindaco di Milano per proporsi come leader di una nuova sinistra).
Non è una lamentela , è l’ennesima drammatica prova che in Italia chi gestisce il potere, istituzionale e mediatico, non ha capito che qualcosa di grave è accaduto in questi ultimi decenni: la perdita di credibilità dei partiti e dei tradizionali corpi intermedi, ormai largamente incapaci di rappresentanza sociale e privi del loro tradizionale ruolo di organizzatori della partecipazione, ha prodotto una disaffezione per la democrazia gravida di possibili nefaste conseguenze.
La prima delle quali è il deliberato tentativo di sostituirla con l’accentramento del potere decisionale nelle mani di una governance che si vorrebbe neutrale (questa era la sostanza della posta in gioco del referendum costituzionale, e questa la principale ragione dell’opposizione al Pd di Renzi). Ebbene l’iniziativa di Falcone e Montanari prende le mosse da questa realtà per cercare di rigenerare la politica, e dunque la democrazia, ripartendo da quanto c’è di vivo: quelle forme di “cittadinanza attiva” che hanno dato vita ai tanti comitati di lotta sul territorio e, ultimamente, a coalizioni che le hanno raccolte a livello cittadino per tentare un nuovo tipo di presenza nelle istituzioni.
Rappresentano di per sé una compiuta alternativa di governo? Certo che no, ma indicano che ci sono forze che stanno costruendo le condizioni per ricostruire una rappresentanza democratica e così ridare legittimità alle istituzioni. Il dialogo con le aggregazioni che sono nate dallo sfaldamento del Pd si fa su questo, evitando le scorciatoie del leaderismo (un “grimaldello” cui abbocca anche qualche pezzo della sinistra); così come la sacralizzazione di una società civile buona e innocente e la demonizzazione dei partiti.
Su questi punti Montanari è stato chiarissimo: senza i partiti non c’è democrazia, la nostra Costituzione resterebbe monca. E chiarissima è stata Marta Nalin, la rappresentante della coalizione civica di Padova (23 % alle ultime comunali): «Reinventare i corpi intermedi, senza demonizzare i partiti e senza santificare la società civile».
Falcone e Montanari un percorso, non ancora la fondazione di un nuovo partito: questa è stata la loro sfida coraggiosa e intelligente. Fra i partiti esistenti ha raccolto l’adesione impegnata di Sinistra Italiana, ma, nonostante le sue consuete recriminazioni e diffidenze, anche di Rifondazione. E ha ricevuto attenzione anche da Articolo 1, sia pure, come è ovvio, ancora titubante. Perché, sia pure in modi diversi, tutti si rendono conto che siamo in una fase di trasformazione epocale e lontani ancora dall’aver raggiunto la maturità politica e culturale per indicare una compiuta strategia all’altezza dei problemi posti dal nuovo mondo.
Il Brancaccio registra la consapevolezza di questa insufficienza, salva i partiti esistenti come essenziali laboratori politici per forze che hanno già riscontrato una propria omogeneità di ispirazione e che però, per ora, si propongono di lanciare la sola sfida possibile in questa fase di transizione: quella di una risposta unitaria nelle prossime scadenze di lotta e istituzionali, una «Alleanza – come è stato detto – per l’uguaglianza e la democrazia».
Grazie dunque alla buona volontà di Anna e Tomaso, come sono stati ormai amichevolmente chiamati da tutti. Hanno avuto il merito di non farsi risucchiare, come purtroppo ancora tanti, dal «non c’è niente da fare», come se stando a casa, ognuno per conto proprio, se ne potesse poi uscire con una soluzione. Già declinare il “noi” e riprendere a riflettere assieme è una conquista.
Non pochi degli abituali pessimisti pessimisti (gli anziani, i giovani per fortuna non sono reduci di tante sconfitte) hanno osservato che di belle assemblee unitarie come questa del Brancaccio ce ne sono state tante negli ultimi 20 anni. E’ vero. Ma c’è un dato fondamentale che i promotori dell’iniziativa hanno capito: che il tempo attuale è molto diverso. Più pericoloso ma anche più consapevole dell’urgenza di una svolta rispetto a quanto è stato fatto in questi anni da chi ha governato e da chi è stato all’opposizione. Questa è la ragione per cui oggi si può ricominciare a proporsi un’alternativa.
I fischi, non tantissimi, , anche se deprecabili) a Gotor sono un segno delle diffidenze che questi difficili decenni che ci stanno alle spalle hanno creato. Non ci si può illudere che settarismi e estremismi, di cui anche il Brancaccio ha dato prova, potranno esser superati facilmente. Tocca a tutti ripensare se stessi e la propria parabola di questi anni: l’unità non si fa a partire da quel che siamo, ma da quello che ci si propone di diventare, ed è su questo che ci si confronta, se necessario anche duramente.
Mai col Pd, come ha detto Montanari? Ecco, su questo, solo su questo, un dubbio, ma forse siamo in realtà d’accordo: per quanto esangue, io credo ci sia ancora un corpo storico che viene dall’ormai dimenticato Pci, non solo vecchi ma anche una memoria, certo un po’ sbiadita, che coinvolge anche più giovani. Io credo che non dobbiamo ignorarli.
Ultimo problema, come si prosegue ora? Spero che nessuno si immagini che ci sarà un fantastico centro promotore di organizzazione dalle Alpi alla Sicilia. Bisognerà cercare di crearlo, ma questa nostra nuova sinistra deve soprattutto imparare a “fare da se”: ad ogni singolo militante in ogni singolo territorio l’onere e l’onore di promuovere l'”Alleanza”, e ogni altra forma di partecipazione che consenta a chi se la sente di costruirla. Reimparando a confrontarci, passo per passo, con gli altri compagni dell’avventura collettiva che abbiamo deciso di correre. Ripartire dai territori non vuol dire tornare all’Italia dei Comuni, ma all’Europa.
una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità». il manifesto, 20 giugno 2017
Non è che l’inizio,l’inizio di una perigliosa navigazione, però l’affollata assembleadi domenica al teatro Brancaccio hariunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione.
Accanto a una straripantepartecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sonoemersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità. Anzi,di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana dellasinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse edistinte.
Forse potrebberoincontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battagliepolitiche e sociali comuni. Ma se si votasse domani la spinta prevalentesarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i duepromotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la lorocoraggiosa iniziativa. Sarebbe un esito molto negativo.
Naturalmente non per chipensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo daraggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, conl’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti incampo negli ultimi, drammatici anni della crisi.
L’elenco dei presentiall’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime. I promotori Montanari eFalcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, SinistraItaliana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), eD’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vitepolitiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una vivae giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia –oltre il Partito democratico.
Però quello che si notavadi più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata neldeserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di nonvotare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuovegenerazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali.
E però nel rosso teatroviveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. Lacontestazione. Il rifiuto. Tangibile quando ha parlato il senatore MiguelGotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla salarumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo inrilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra conRenzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus».
Ma se un ex, un fuoriuscitodal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea,non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacoloin più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso.
L’immagine offerta alBrancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare,insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società,insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una«alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; loscarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi,perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza diquelli convinti di avere la «giusta» linea.
E quindi comeuscirne? Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualchesuggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita asinistra».
Innanzitutto non dovrebberoprevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzinon c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti neiconfronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato(penso a Bersani e ai bersaniani).
Poi ognuno dei «costruttoriper l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso,che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate aivalori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica.
Terzo punto, diconseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e socialeper il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo.
E, infine, last but notleast, identificare una leadership, un punto di riferimento,preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essereprotagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese eamericana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche,riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fondaanche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, comeRenzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.
La fantasia al potereè uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passatidal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sulterreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettantoforte e radicale.
Alla fine dell’estatequesta perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente,come suggeriva su queste pagine AlbertoAsor Rosa. Ovvero il risultato,l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, ilsimbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la qualelavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.
Una breve cronaca dell'evento e l'intervento di Tomaso Montanari.
libertaegiustizia.it, 19 giugno 2017 (p.d.)
FALCONE E MONTANARI,
PER LA SINISTRA
UNA NUOVA SPERANZA
di Rossella Guadagnini
L’esordio è esplicito: “Vogliamo costruire una grande coalizione civica di sinistra, alternativa al Pd, capace di portare in Parlamento quella metà del Paese che non vuole andare a votare”. Comincia così l’intervento di Tomaso Montanari che apre la giornata del 18 giugno al Teatro Brancaccio di Roma. Lo storico dell’arte inaugura i lavori dell’assemblea insieme ad Anna Falcone, avvocata e vice presidente del Comitato del No al Referendum costituzionale, che li chiuderà sei ore dopo. Insieme hanno lanciato un appello, “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” a cui oggi hanno risposto in oltre 1500. Più i 50mila contatti delle visualizzazioni in video. Sono presenti le varie anime della sinistra, dagli esponenti politici agli attivisti di movimenti sociali e agli ambientalisti; dagli studenti (il più giovane che interviene ha 18 anni) ai sindacalisti.
“L’obiettivo finale -prosegue Montanari- è una sola lista a sinistra e, da domani, può partire il passaggio costituente: non c’è un nome, non c’è un programma, non c’è una leadership. Vorremmo portare in Parlamento un’alleanza fra cittadini, associazioni e partiti. In autunno si farà una grande assemblea nazionale, per definire un nome, un simbolo, i criteri per le candidature”. Applausi, poi iniziano le considerazioni. “La stagione del centrosinistra è finita -afferma lo storico dell’arte- Non c’è alcuna esclusione, ma deve essere chiaro che chi è qui la Costituzione la vuole attuare, non rottamare. E’ il futuro che ci sta a cuore, non la resa dei conti col passato. Pisapia lo abbiamo invitato: ha risposto che ‘non ci sono le condizioni perché io venga’. Non è un buon inizio, ma ha almeno il pregio della realtà: il 1 luglio ci aspettiamo una risposta chiara su cosa pensa del Jobs Act, della buona scuola…”. Quindi conclude: “Noi puntiamo a percentuali a due cifre, una nuova lista Arcobaleno non serve a niente”.
Qualche polemica per Miguel Gotor, senatore di Articolo 1-Mdp, specie quando cita il nome di Pisapia in un richiamo all’unità politica. Apprezzato invece Pippo Civati di Possibile: “Dobbiamo essere uniti, ma se qualcuno insiste per andare con Renzi non lo trattiene nessuno”. E Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana: “L’unità è un valore, ma all’unità non si può sacrificare la credibilità” e accende la platea con la richiesta di “uscire dalle formule astratte, una discussione che non parla più alla vita delle persone”. Sul tema del lavoro, che serpeggia per tutta la giornata, il leader di SI ricorda: “E’ stato detto che in Italia si lavora poco: non è vero. Con una media di 1800 ore l’anno, lavoriamo di più. E’ venuto il momento di ridurre l’orario di lavoro”. Molto apprezzato anche Maurizio Acerbo, nuovo segretario di Rifondazione Comunista, che ha raccontato: “Al telefono un impiegato di un call center mi ha detto: lei è comunista? Ma se i comunisti non ci sono più”.
Seduti in prima fila, in platea, l’uno accanto all’altro, Massimo D’Alema e Nichi Vendola. Poi c’era Antonio Ingroia di Rivoluzione civile, che però non ha avuto la parola ed è andato via con la scorta, e decine di parlamentari delle formazioni presenti e passate della sinistra. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, Corradino Mineo, Vincenzo Vita, Raniero La Valle, Alfonso Gianni, Roberto Speranza, Stefano Fassina, Eleonora Forenza e l’Altra Europa con Tsipras.
E i giornalisti: Norma Rangeri, direttrice de il manifesto, Paolo Flores d’Arcais direttore di MicroMega, Massimo Bordin di Radio Radicale, Roberto Natale. Sul palco, invece, è salito Paolo Foschi del Corriere della Sera, che ha fatto il punto sullo stato dell’informazione in Italia, sui nuovi “servi di redazione”, giornalisti precari e collaboratori, sottopagati e minacciati. Si è parlato di donne con Francesca Koch della Casa internazionale delle donne e di scuola con Marina Boscaino. Di welfare e di salute. Infine i magistrati, Paolo Maddalena e Livio Pepino: il primo, già presidente della Corte Costituzionale, ha sottolineato i mali economici di un Paese come il nostro che, continuando con le attuali politiche, rischia di depauperare anche il proprio patrimonio di imprese, oltre a quello artistico e paesistico. Il secondo ha esortato la nuova forza nascente a non commettere gli errori del passato.
“La terza via ha fallito l’intento, dunque perché ripeterne gli sbagli?” ha ribadito a sua volta Anna Falcone nel prendere la parola per l’intervento conclusivo. “Si parla di una sinistra rancorosa, noi invece vogliamo una sinistra felice. I giovani sono importanti, purché siano con noi non solo per protestare, ma per costruire uno spazio nuovo. I cittadini italiani non hanno più tempo: il nostro obiettivo è operativo, individuare i punti che ci uniscono per presentarci alle prossimi elezioni e costituire una nuova speranza per chi si è disaffezionato alla politica, è deluso e si sente demotivato. Sulla scheda che è stata distribuita all’ingresso sono espresse due questioni cruciali su cui si chiede ai partecipanti dell’assemblea di esprimersi: le priorità di un programma condiviso e la vostra idea in più per un progetto coraggioso e innovativo. Dobbiamo operare un taglio netto con il passato per essere credibili, una discontinuità. Tutti devono fare un passo indietro per poterne fare uno in avanti. Dobbiamo offrire soluzioni praticabili per un reale rinnovamento, per una politica che rimetta al centro un ideale condiviso di società e faccia battere il cuore”.
“I nostri punti fermi -riassume Falcone- sono lavoro, reddito minimo di cittadinanza, ambiente e riconversione energetica, scuola, formazione e ricerca, sanità pubblica, sovranità popolare. Noi vogliamo una democrazia realmente partecipata, in cui uno vale uno; un’informazione libera e corretta. E vogliamo tempo, tempo per la nostra vita, per la cose che ci appassionano, per i nostri figli. Vogliamo equità fiscale, assistenza e inclusione sociale sui migranti. E un’economia sostenibile. La Costituzione è di tutti, va solo attuata. Il voto è utile se ti rappresenta e noi vogliamo costruire uno spazio che finalmente ci rappresenti. Siamo qui per tornare a combattere”.
UN PROGETTO DI
GIUSTIZIA E UGUAGLIANZA
di Tomaso Montanari
Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari pronunciato all’assemblea di Alleanza Popolare per la Democrazie e l’Uguaglianza, che si è svolta al Teatro Brancaccio di Roma, il 18 giugno 2017. Il presidente di Libertà e Giustizia ha scritto questo intervento e ha partecipato all’assemblea di cui è stato promotore, insieme a Anna Falcone, come privato cittadino e non nelle vesti associative.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica. Il cuore del progetto che uscì dall’antifascismo e dalla Resistenza. Ecco il nostro punto di partenza. Ma è anche il nostro punto di arrivo: l’attuazione dell’eguaglianza sostanziale, l’inclusione, la persona umana come misura di tutte le cose. Questa la bussola, questa la mèta. Questo il metro per costruire una vera coalizione civica di sinistra.
L’inclusione è una prospettiva rivoluzionaria, in una Italia in cui imputiamo ai migranti come una colpa, addirittura come un reato, l’essere nati altrove. Abbiamo ridotto ad un problema contabile – di quote e flussi – la questione centrale di questo tempo: una migrazione di massa che ci interpella senza sosta circa la qualità della nostra democrazia, circa la realtà della nostra Costituzione, e anzi circa la nostra stessa umanità. È a Lampedusa, è nel disastro umano e democratico di Ventimiglia – non qua a Roma – che si capisce cosa vuol dire essere eguali, o non esserlo.
Partiamo dalla Costituzione perché – lo sappiamo tutti – non saremmo oggi qua senza la lunga battaglia culminata nella straordinaria vittoria del No, lo scorso 4 dicembre. Ma bisogna essere molto chiari. Ci è stato spesso rimproverato che il No non fosse un progetto politico. E oggi ci si dice che non esiste un popolo del No. È vero. Hanno ragione: non esiste un popolo del No, esiste un popolo della Costituzione. Un popolo che sente proprio, e urgente, il progetto della Costituzione. E che ora vuole attuarlo. Abbiamo capito che con quella riforma costituzionale non erano in gioco solo singoli articoli. Era revocato in dubbio un intero progetto. Erano messi in discussione i principi fondamentali della Carta. Abbiamo detto no ad una oligarchia. Abbiamo detto no alla formalizzazione della oligarchia della finanza e delle banche. E abbiamo detto no perché volevamo dire un grande Sì: un Sì alla democrazia.
E la nostra idea di democrazia è quella che Michel Foucault leggeva in Aristotele: «La risposta di Aristotele (una risposta estremamente interessante, fondamentale, che entro certi limiti rischia forse di provocare un ribaltamento di tutto il pensiero politico greco): è che è il potere dei più poveri a caratterizzare la democrazia». Ebbene, oggi è vero il contrario. Il potere è saldamente nelle mani dei più ricchi. E, come ha scritto Tony Judt, «i ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione, e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico. … Le società sono organismi complessi, composti da interessi in conflitto fra di loro. Dire il contrario (negare le distinzioni di classe, di ricchezza, o di influenza) è solo un modo per favorire un insieme di interessi a discapito di un altro».
Oggi tutto il sistema serve a perpetuare una radicale negazione della democrazia, bloccandoci in gated communities: gruppi divisi per censo e ben recintati, culturalmente, socialmente e materialmente. Gruppi dai quali è impossibile evadere. Oggi si parla di una Sinistra rancorosa. Se ci si riferisce ai regolamenti interni di un ceto politico autoreferenziale e rissoso, sono d’accordo. Non sono d’accordo, invece, se ci si riferisce alla sacrosanta rabbia che in molti proviamo per questo stato delle cose. Una indignazione che è la molla fondamentale per ridiscutere i fondamentali di una politica profondamente corrotta, in tutti i sensi.
Occorre rovesciare il tavolo della sinistra, per tornare a guardare le cose dal punto di vista di chi è caduto a terra: non da quello di chi è garantito. Noi oggi siamo qua per fare nostro questo punto di vista. Il punto di vista di chi è caduto, di chi non si è mai alzato. Quando è stato chiaro che ciò che pure si continua a chiamare ‘sinistra’ sarebbe stata sotto il controllo di una oligarchia senza alcuna legittimazione dal basso, e intimamente legata al sistema, abbiamo detto: ‘basta’. Se l’unica prospettiva della sinistra era tornare ad allearsi, in qualunque forma, al Pd di Matteo Renzi, ebbene noi non avremmo nemmeno votato.
Io ed Anna Falcone abbiamo deciso di invitarvi a venire qua oggi, quando l’ennesimo amico ci ha detto che alle prossime elezioni politiche non avrebbe votato. Quando noi stessi ci siamo confessati un identico stato d’animo. Milioni di persone – tra cui moltissimi giovani – che il 4 dicembre erano andati ai seggi per dire no a quel progetto di oligarchia, ora non vedono niente a cui dire sì con un voto. Nessun progetto di giustizia ed eguaglianza. Solo giochi di potere: autoreferenziali, incomprensibili. Senza futuro: morti. E «lasciate che i morti seppelliscano i morti», dice il Vangelo. Tutti questi giochi sono basati su un assunto, un dogma, una certezza: che ormai in Italia voti solo il 50% dei cittadini. E sulla cinica consapevolezza che quel 50% che vota è la metà più garantita, più protetta. Quella che ha qualcosa da perdere. E che, invece, nel 50% che non vota ci sono i sommersi. I disperati. I disillusi. Gli scartati, di cui nessuno si cura.
Ebbene, l’idea che ci ha condotti oggi qua è molto semplice: costruire una grande coalizione civica nazionale e di sinistra capace di portare in Parlamento questa metà di Italia. Con il suo dolore, le sue ferite, le ingiustizie patite. Ma anche con il suo progetto, la sua voglia di riscatto, la sua fame di futuro. La sua fantasia. Abbiamo difeso con i denti una Repubblica parlamentare. Abbiamo rigettato il disegno di uno strapotere del potere esecutivo. Ebbene, siamo coerenti: è il Parlamento il centro della vita democratica. Una delle ragioni della decadenza della nostra democrazia è l’umiliazione perpetua del Parlamento, cristallizzata in sistemi elettorali che l’hanno consegnato alla cieca fedeltà a pochi capi. E allora: è venuto il momento di lavorare sulla rappresentanza, non sul feticcio della governabilità. In questi giorni siamo stati rimproverati perché non pensiamo ad una sinistra di governo. Vorrei rispondere con chiarezza e con forza. In questi ultimi vent’anni la sinistra italiana ha scambiato i fini con i mezzi: il governo è diventato un fine, e ci siamo dimenticati a cosa serviva, governare. E invece il governo è un mezzo, è uno strumento, per attuare un progetto: e noi oggi vogliamo lavorare al progetto, portando in Parlamento l’energia, la sofferenza, la visione di questo Paese. È questo l’unico voto veramente utile: quello che costruisce rappresentanza democratica, portando in Parlamento l’altra metà dell’Italia. Un grande progetto di inclusione e di attuazione della sovranità.
Sia chiaro. Sappiamo bene che è nelle città che si gioca la partita più carica di futuro. La distruzione delle economie dei comuni, la verticalizzazione elettorale delle figure dei sindaci, l’alienazione dello spazio pubblico, il massacro dei tessuti urbani hanno fatto delle cento città italiane altrettante fabbriche della diseguaglianza e della infelicità. Ma dove è il pericolo, là si trova anche il rimedio: ed è da quelle stesse città che sono partite mille esperienze di rinnovamento: molte delle quali oggi sono rappresentate tra noi. Si tratta di esperienze cruciali, la vera novità della scena politica italiana. Penso – per esempio – all’esperienza delle coalizioni civiche di sinistra di Padova e di Catanzaro. Quel che conta in questi esempi è la qualità di una partecipazione intensa e lucida, che ha tenuto insieme partiti, associazioni e cittadini. Tanti cittadini: cittadini che avevano da anni rinunciato alla politica. Ecco il punto: riunire, federare, far dialogare, mettere insieme, cucire tutte queste esperienze di partecipazione civica, facendole sfociare in Parlamento, centro della comunità civile italiana.
Basta guardare a queste esperienze sparse per tutta Italia per comprendere che siamo di fronte ad una rottura con la formula del centro-sinistra. Ma non è questione di sigle, né tantomeno si tratta di escludere un’area politica. È questione di storia, di fatti. È ai governi di centro sinistra che dobbiamo lo smontaggio sistematico del progetto della Costituzione. La prima riforma costituzionale votata dalla sola maggioranza parlamentare è stata la riforma del Titolo V della Costituzione sul finire della prima legislatura dell’Ulivo. È stato un governo di centro sinistra a decidere una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu, sia per la nostra Costituzione. L’approccio restrittivo all’immigrazione è stato introdotto dalla legge Turco-Napolitano. L’avvio della precarizzazione dei rapporti di lavoro la dobbiamo alla riforma Treu. L’abbandono del ruolo dello Stato nell’economia (e dunque nella vita dei cittadini) è avvenuto in forza delle privatizzazioni incontrollate e delle spesso altrettanto incontrollate liberalizzazioni volute da governi di centro sinistra. La mancanza di una seria legge contro la concentrazione dei mezzi di informazione è frutto di scelte compiute durante la prima legislatura dell’Ulivo. Il colpo finale alla progressività fiscale è venuto dalla stessa area politica. La “federalizzazione” dei diritti, che oggi ne impedisce l’uguale attuazione su tutto il territorio nazionale (pensiamo alla sanità!), è iniziata con le riforme di Franco Bassanini. L’infinita stagione della distruzione della scuola e della aziendalizzazione dell’università porta anche la firma di Luigi Berlinguer. E l’espianto di fatto dell’articolo 9 della Costituzione – quello che protegge ambiente e patrimonio culturale – non lo si deve a Lunardi o a Bondi, ma ai governi Renzi e Gentiloni, con lo Sblocca Italia e la riforma Franceschini.
Infine, il completo abbandono del Mezzogiorno d’Italia a se stesso: una delle macro-diseguaglianze più atroci e insopportabili. Un abbandono sancito dalla cinica alleanza tra il Pd e il peggio dei governi regionali del Sud: basti pensare allo scandalo della Campania. Quando noi diciamo che è finita la stagione del centro sinistra, diciamo che bisogna rompere con tutto questo: bisogna rompere con una sinistra alla Tony Blair, che fa il lavoro della destra. Con un Renzi indistinguibile da Berlusconi.
Bisogna finirla con un centro sinistra che ha sostanzialmente privatizzato il rapporto tra il cittadino e i suoi diritti, sterilizzando e di fatto abrogando i principi fondamentali della Costituzione. Come ha scritto Luciano Gallino, la «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – fatta propria in Italia dal centro sinistra dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».
Alcune personalità politiche che hanno contribuito a questo smontaggio dello Stato oggi non stanno con il Partito Democratico di Matteo Renzi (erede naturale di quelle politiche), ma dicono di voler partecipare ad un processo unitario a sinistra. «Ci siamo dimenticati dell’uguaglianza», ammette Romano Prodi nel suo ultimo libro: chi la pensa così, è benvenuto. Non c’è alcun bando, alcuna proscrizione, alcuna esclusione. Ma deve essere chiaro che la rotta è invertita. Che la rotta è diametralmente opposta a tutto questo. Non chiediamo un’abiura rispetto al passato (e come potremmo? a che titolo?): ma dev’essere chiaro che qua vogliamo costruire un futuro diverso. Lo stesso vale, sia chiaro, per le posizioni espresse al referendum del 4 dicembre. Nessuno è bandito perché ha votato sì. Ma nel momento in cui il Pd e Forza Italia annunciano che nella prossima legislatura riproveranno a manomettere la Costituzione, bisogna che ci sia un impegno esplicito e non derogabile: chi sta da questa parte la Costituzione vuole attuarla, non rottamarla.
È il futuro che ci sta a cuore: non la resa dei conti con il passato. E, allora, cosa vogliamo per il futuro? Provo a dire tre cose concrete, che indicano la direzione. Vogliamo applicare l’articolo 53 della Costituzione, quello che impone la progressività fiscale: sia per i redditi, che per i patrimoni.
Negli ultimi decenni sono state aumentate le tasse ai poveri per poterle diminuire ai ricchi. Occorre invertire la tendenza. Le tasse vanno ridotte a chi ne paga troppe: ai redditi bassi e ai redditi medi; vanno aumentate a chi ne paga poche: ai redditi alti e altissimi. Solo allora una lotta senza quartiere all’evasione fiscale potrà avere successo. Ci vuole una seria imposizione patrimoniale. E occorre ripristinare una seria imposta di successione. Perché una seria progressività fiscale realizza due obiettivi: consente di raccogliere le risorse necessarie a sostenere e incrementare lo stato sociale e opera una redistribuzione della ricchezza. Come ben sappiamo, la Costituzione è fondata sul lavoro, nel senso che indica una precisa prospettiva di trasformazione della società. È la rivoluzione promessa di cui parlava Piero Calamandrei. Ed è per questo che la disoccupazione sfigura le vite delle persone e contemporaneamente mina la tenuta della democrazia. Per questo la Costituzione non sarà attuata finché non ci sarà parità di retribuzione tra uomini e donne.
Solo ieri siamo scesi in piazza, con la CGIL, per denunciare il vero e proprio inganno costituzionale compiuto dal governo Gentiloni sui voucher: un atto grave nel merito, e ancor più grave perché aggirando e contraddicendo un referendum già convocato distrugge, dall’alto e dall’interno delle istituzioni, quel rispetto della legalità costituzionale che è il presupposto minimo per il funzionamento della nostra democrazia. La Costituzione costruisce i rapporti economici su un equilibrio tra capitale e lavoro. Ma oggi il capitale spadroneggia sul lavoro. Lo Stato per primo abusa del precariato (nella scuola, negli ospedali, nelle biblioteche, nei musei). Bisogna tornare a un rapporto più equilibrato. La prima cosa da fare è reintrodurre una disciplina il più possibile unitaria dei rapporti di lavoro: bisogna tornare a un contratto, tendenzialmente unico, a tempo indeterminato. A tutele uguali per tutti.
E poi l’ambiente: come ha detto con forza Barack Obama, siamo probabilmente l’ultima generazione che può ancora fermare l’autodistruzione del genere umano. L’Italia non l’ha capito. La media del nostro consumo di suolo è del 7% annuo, contro il 4,1 medio dell’Unione Europea. Matteo Renzi e Maurizio Lupi, con lo Sblocca Italia, hanno slegato le mani ai signori del cemento e delle grandi opere (dal Tav in Val di Susa al fantasma ricorrente del Ponte sullo Stretto), con un’idea di sviluppo distruttiva e tremendamente vecchia. Invece, l’unica vera opzione è UGO: l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento del territorio italiano. La prevenzione antisismica, la cura idrogeologica, la conservazione programmata del patrimonio culturale, che con il territorio è indissolubilmente fuso. Una vera spending review dei conti pubblici, ma orientata sui valori fondamentali della Costituzione (e dunque in primis rivolta a comprimere una sempre crescente spesa militare), è la premessa necessaria per finanziare questa immensa opera: capace di dare lavoro a centinaia di migliaia di persone, e di farci risparmiare i miliardi che buttiamo per riparare alle continue catastrofi ambientali in gran parte provocate da noi stessi.
È venuto il momento di ricostruire lo Stato, e il suo ruolo. Uno stato capace di fare l’interesse di tutti. Bisogna mettere fine “al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere”: sono parole di Enrico Berlinguer, pronunciate nel 1974.
Oggi l’interesse pubblico – anzi direi la possibile felicità pubblica – parte dalla scuola, dalla conoscenza, dalla cultura. Uno dei tratti più torvi del potere berlusconiano e renziano è stato, ed è, il disprezzo per la conoscenza, e il connesso travisamento del ruolo della scuola. La scuola ha un unico compito: formare il cittadino sovrano di domani, e creare uguaglianza. Non produrre clienti, consumatori o schiavi. E ogni bambino perduto è un cittadino perduto. L’ultima rilevazione dell’Istat dà la dispersione scolastica al 14,7%, con picchi del 24% in Sicilia o in Sardegna. La media europea è dell’11%, l’obiettivo per il 2020 è del 10%. Di fatto oggi in Europa percentuali più alte ci sono solo in Spagna e Portogallo, Malta e Romania. Nell’Italia di oggi l’analfabetismo funzionale (cioè la condizione di chi avendo letto un testo, non è in grado di riferirne correttamente i contenuti) è al 47%.
La Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca»: il progetto è quello di una redistribuzione di massa di una conoscenza continuamente rinnovata dalla ricerca, l’obiettivo è formare un cittadino consapevole, attivo, critico. Una società critica, una società del dissenso non è un ostacolo allo sviluppo: è una condizione essenziale per la democrazia. Ma le politiche degli ultimi decenni, con un’accelerazione finale, sono andate in direzione diametralmente opposta. La cosiddetta cultura, e con essa il patrimonio culturale e la ‘buona’ scuola: tutto è stato messo al servizio di una generale de-intellettualizzazione del Paese, al servizio di un assopimento collettivo della coscienza critica, al servizio di una nostra radicale metamorfosi da cittadini in clienti, consumatori, spettatori. Invertire la rotta è la prima condizione per cambiare lo stato delle cose: anzi per immaginare che cambiarlo sia possibile.
Sappiamo bene che perché lo Stato italiano provi ad attuare il progetto della sua Costituzione bisogna ridiscutere i fondamenti dell’Unione Europea. Non c’è dubbio che gli obiettivi dei trattati europei divergano in modo anche radicale da quelli che la nostra Costituzione ci impone. Questo oggettivo scontro finora ha piegato la Costituzione: fino al punto da farci inserire il pareggio di bilancio nell’articolo 81. Ebbene, anche su questo è ora di invertire la rotta. L’Italia è il più autorevole di un grande gruppo di paesi che può e deve chiedere una profonda revisione dei trattati. Mentre da subito bisogna attuare i punti più avanzati dei trattati attuali: per esempio l’articolo 3 del Trattato di Lisbona, che mette tra gli obiettivi dell’Unione la piena occupazione. Per far questo occorre costruire una sovranità europea, una vera politica europea. È questo l’unico europeismo che può darci ancora Europa e, domani, più Europa. Perché, sia chiaro, l’Italia non ha futuro fuori dall’Unione Europea. Ma questa Unione Europea va cambiata dalle fondamenta.
È su tutto questo, e su molto altro ancora, che dobbiamo e vogliamo discutere insieme, da oggi in poi. Ed è importante, anzi decisivo, decidere come farlo. Se le idee, i nodi, le prospettive che oggi proveremo a delineare vi sembreranno quelli essenziali, vitali, da domani può partire un vero processo costituente, dal basso. Non c’è nulla di stabilito, di deciso. Non un nome (alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza è solo una didascalia esplicativa di un progetto), non un programma, non una leadership, non candidature. Ciò che vorremmo è un’alleanza capace di portare in Parlamento la parte sommersa di questo Paese. Un’alleanza tra cittadini, associazioni, comitati e partiti. Su questo punto bisogna essere chiari. Un vento impetuoso soffia oggi in Italia contro l’idea stessa di partito. Noi non siamo d’accordo. Non crediamo alla favola che oppone una società buona ai partiti cattivi. Sentiamo invece il dovere di distinguere: tra partito e partito, e nella società stessa. Sappiamo quanto i partiti in sé siano cruciali nel funzionamento del sistema disegnato dalla nostra Costituzione.
Pensiamo che il Partito Democratico di Renzi sia ormai un pezzo della destra. Perché fa politiche di destra: e di destra non sempre moderata. Lo diciamo con grande dolore, e con profondo rispetto per una gran parte dei suoi militanti. Ma dove dovremmo collocare un partito che lavora per aumentare la diseguaglianza (si pensi al Job’s act)? Lo diciamo una volta per tutte: chi partecipa a questo processo costituente di una nuova sinistra partecipa alla costruzione di una forza radicalmente alternativa al PD.
Pensiamo che il Movimento 5 Stelle sia prigioniero di un’oligarchia imperscrutabile. E vediamo che nella sua agenda – sempre più spostata a destra, con tratti preoccupanti di xenofobia e intolleranza – non c’è posto per la parola eguaglianza.
Ma vediamo anche che ci sono partiti diversi. Possibile e Sinistra Italiana hanno subito risposto a questo appello. La loro adesione non ci ha sorpreso: eravamo stati accanto in mille battaglie, non da ultimo in quella per il No. E hanno risposto anche Rifondazione Comunista, e tante esperienze politiche di partecipazione, tra cui per esempio Dema, l’Altra europa per Tsipras e molte altre.
Naturalmente se fossimo convinti che la forma partito è sufficiente, oggi non saremmo qua: non si tratta di rifare una lista arcobaleno con una spruzzata di società civile. C’è forte l’esigenza di qualcosa di nuovo, e di qualcosa di più grande. Lo dico con le parole di Gustavo Zagrebelsky: è necessaria la «più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno, da risentimenti personali: come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia».
Altri partiti non hanno ancora deciso se partecipare. Articolo 1-Movimento Democratico Progressista ci ha chiesto di parlare: ascolteremo tra poco, e con grande attenzione, il senatore Miguel Gotor. Abbiamo invitato Giuliano Pisapia, e il suo Campo progressista: la risposta è stata che «non ci sono le condizioni». Non ci pare un buon inizio. Ma è una risposta che aiuta a spiegare perché oggi siamo qua: perché temiamo che nessun’altro voglia parlare alla metà del Paese che non vota.
Il nostro obiettivo finale rimane una sola lista a sinistra: e aspettiamo, il primo luglio, una risposta chiara. Una risposta sulle cose, non sulle formule. In questi giorni, le migliaia di persone che hanno aderito a questo invito hanno espresso due sentimenti contraddittori: entusiasmo e paura. L’entusiasmo di chi diceva: «Sono felice di poter tornare a votare!». La paura di chi teme che anche questo tentativo fallisca, come tutti quelli – generosi e coraggiosi – che l’hanno preceduto. Non li elenco: tutti li conoscete, molti di voi ne portano ancora le cicatrici. C’è chi teme che questo mondo sia troppo magmatico per unirsi anche solo in una lista. C’è chi teme che i partiti controllino questo processo, come burattinai da dietro le quinte. Entrambi questi rischi esistono. E l’esito di questo processo dipende tutto da quanti saremo, e da quanto determinati saremo.
Vogliamo costruire una vera ‘azione popolare’, come direbbe Salvatore Settis. Ma ci riusciremo solo se la partecipazione senza tessere sarà così ampia da superare di molte volte quella degli iscritti ai partiti. Una lista di cittadinanza a sinistra: questo vogliamo costruire. Qualcosa ci assicura che anche questa volta non finirà male? No, niente ce l’assicura: se non il nostro impegno. In una politica che si fonda sull’esibizione della forza, sull’arroganza e sul marketing del nulla noi diciamo al Paese: siamo poveri, siamo piccoli, siamo a mani nude, siamo pieni di limiti e avviati su un sentiero irto di ostacoli. Ma vogliamo mettere insieme tutte queste nostre debolezze: perché sappiamo che Davide può rovesciare Golia. Anche questo abbiamo imparato, il 4 dicembre. In una sinistra gremita da leaders senza popolo, noi siamo un popolo che non cerca un leader, ma partecipazione e condivisione. Sappiamo, sentiamo che ci dobbiamo provare: che non possiamo rassegnarci all’astensione. Che rimarrebbe, dopo un fallimento, l’unica possibilità. Ma non vogliamo rassegnarci ad una passione politica che escluda a priori il tema della rappresentanza parlamentare. Se vogliamo che il mondo cambi, dobbiamo portare in Parlamento chi vuole cambiare il mondo.
Da oggi dobbiamo costruire luoghi per decidere. Questo mare di idee, sofferenze, speranze, conoscenze deve sapersi organizzare. Deve saper decidere, dal basso e in modo trasparente: scegliendo un programma chiaro e forte, in dieci punti. In pratica, dobbiamo da domani avviare un percorso sul territorio, con assemblee che consentano il censimento e la raccolta delle energie disponibili e una sorta di carovana che attraversi l’Italia definendo i nodi del programma. Chi sottoscrive questo progetto dovrà riunirsi in assemblee territoriali capaci di eleggere una assemblea nazionale che definisca progetto, nome, simbolo e struttura organizzativa di questa coalizione. E un regolamento e dei criteri per far emergere le candidature. Io credo che queste ultime andranno scelte non al centro, ma collegio per collegio, circoscrizione per circoscrizione. Non con la truffa delle primarie aperte a chi passa, né con manovre occulte di centri organizzati di potere: ma in modo partecipato e veramente democratico.
Dobbiamo decidere con un processo in cui ogni cittadino conti a prescindere dalle tessere che ha o non ha in tasca. Un percorso che dovrebbe portare – lo ripeto – ad una grande lista civica nazionale, di sinistra e per l’attuazione della Costituzione. Se vogliamo che un processo come questo giunga in porto, ci sarà bisogno di una partecipazione più larga, e anche di una partecipazione nuova, di un altro modo di fare politica. Non basato sul leaderismo, ma sulla comunità. È per questo che io, personalmente, non mi candiderò a nulla. E mi auguro che saremo in tanti, ad impegnarci fino in fondo, ma senza candidarci. È infatti vitale che esista una cerchia di cittadini attivi e partecipanti, ma capaci di tenere alto il senso critico. Prendendo parte, anche appassionatamente, ma senza smorzare la critica.
Lo dico oggi per bloccare sul nascere un prevedibile tormentone. Ieri la Stampa ha, per esempio, scritto che «Tomaso Montanari e Anna Falcone … si candidano a diventare la faccia fresca e “presentabile” della sinistra radicale, quella che dalla sconfitta della Sinistra Arcobaleno del 2008, ha cambiato più volte sigle ma non le percentuali elettorali, sempre ferme al 3 per cento». Ecco, è esattamente il contrario. Non solo perché le nostre facce non rappresentano e non contano nulla. Ma perché questa ‘cosa’ nasce per ambire a percentuali a due cifre: perché ambisce a recuperare una parte dell’astensione di sinistra. E se dovesse ridursi a una lista arcobaleno con davanti le sagome della cosiddetta ‘società civile’ sarò il primo a dire che il tentativo è fallito. Riuscirà se ci sarà una travolgente azione popolare. Così travolgente da non aver bisogno né di narrazione né dell’attenzione dei giornali: perché sarà un realtà. E così plurale da avere tanti volti da rendere impossibile isolarne alcuni. Se oggi siamo qua è perché crediamo che questa azione popolare possa prendere vita: perché è l’unico mezzo per uscire da questo gorgo di infelicità. Perché – lo ha detto don Lorenzo Milani – «sortirne da soli è avarizia, sortirne tutti insieme è politica».
Un amico, militante del Movimento 5 Stelle, mi ha sorpreso in questi giorni, scrivendomi: «Una volta – molto tempo fa – chiesero a Vittorio Foa cosa desiderasse per Natale: la risposta fu” una destra democratica”. A noi grillini non farebbe schifo una sinistra fedele ai suoi ideali e alla Costituzione, tanto per cambiare…». Una sinistra fedele ai suoi ideali, e alla Costituzione: ecco, è proprio quella che da oggi vogliamo provare a costruire. Tutti insieme.
«In una società diseguale come la nostra, un pensiero di sinistra, una forza di sinistra non può che lottare contro una politica che regala diseguaglianze (mai viste così profonde nel secolo scorso nei paesi europei), come fossero eventi naturali.
il manifesto, 17 giugno 2017
Oggi in piazza San Giovanni ci saranno i dimenticati in carne e ossa, italiani e immigrati, lavoratori condannati alla precarietà, disoccupati, giovani che un lavoro non lo hanno mai visto. Sono una parte del nostro mondo, le loro battaglie fanno parte delle nostre radici.
Nello sfascio generale dei partiti, la Cgil resta un’organizzazione con una storia, un seguito di massa e un programma alternativo disegnato con il nuovo statuto dei diritti dei lavori insieme alle proposte di un’altra politica economica contro la crisi. Ieri impegnata nel referendum in difesa della Costituzione, oggi la Cgil è all’attacco sull’ultima vergogna del governo Renzi-Gentiloni che prima ha gambizzato il referendum contro i voucher, poi ha inserito la nuova normativa nel pacchetto della manovrina economica imposta con la novantreesima fiducia.
Se quel referendum fosse stato celebrato, gli italiani non si sarebbero astenuti e sarebbe stato un voto sulle condizioni sociali del lavoro, un voto tutto politico.
Susanna Camusso e Maurizio Landini, i leader sindacali di piazza San Giovanni, potrebbero ben essere i volti del partito laburista italiano. I due sindacalisti hanno nulla da invidiare ai Corbyn, ai Sanders, agli Igliesias, agli Tsipras. Sarebbero le persone giuste al posto giusto per un partito con la testa a una nuova programmazione economica europea e con il cuore tra le periferie sociali che nessuno ascolta più, salvo mettersi sui giornali a interpretarle dopo i risultati elettorali.
Piazze come quella di oggi riassumono le idee, nonostante la crisi abbia coinvolto tutti, Cgil compresa, di una forza di lotta e di governo, come tutta la variopinta galassia che si muove a sinistra del Pd ripete ogni giorno di voler diventare.
E, a proposito del Pd, non sarà secondario osservare che il suo segretario, con il jobs act e i voucher, a piazza San Giovanni non sarebbe bene accolto. Lui sta su un altro pianeta, esprime una cultura del lavoro e dell’impresa che con la sinistra non si intende.
La piazza e la leadership piddina rappresentano due mondi diversi. E non è ben chiaro come potrebbero, questi due mondi, ritrovarsi domani alleati in un centrosinistra di governo. Prima di arrampicarsi sugli specchi delle future alleanze, bisognerebbe rispondere a questa semplice domanda: che partito di sinistra è quello che vedrebbe oggi espulso dalla piazza del lavoro il suo leader?
Un’altra visione del lavoro e in sostanza dell’identità politica di un partito che vive di illusioni ottiche. Andrebbe smontata, per esempio, quella che mostra in bella evidenza le battaglie per i diritti civili come il necessario e sufficiente marchio di fabbrica di una moderna sinistra doc. Necessario non c’è dubbio, ma non sufficiente.
Si può essere liberali, di destra e a favore dei diritti civili, viceversa non si può essere liberali o di destra e battersi per i diritti che i lavoratori portano oggi in piazza. A cominciare dal ripristino dell’articolo 18, sostituito con il marketing politico del contratto a tutele crescenti. Quanti sinceri liberal democratici di destra sono per l’articolo 18? E quanti sono contro la vergogna dei voucher e di tutti gli altri strumenti di flessibilità che schiacciano il lavoratore al rango di merce sul mercato?
Destra e sinistra esistono ancora, basta volerle vedere. Per questo oggi il Pd di Renzi, paladino dei diritti civili (ma sempre con moderazione: unioni civili sì ma stepchild-adoption no; ius soli sì ma temperato…) e inflessibile avversario dei diritti del lavoro, è un partito che ha cambiato la sua natura. Per questo sembra fantascienza solo immaginare la sua presenza tra i lavoratori di piazza San Giovanni.
Paradossale ma non troppo, la storica piazza romana, viceversa, accoglierebbe benvolentieri papa Francesco, specialmente dopo il suo discorso all’Ilva di Genova. Dove il papa ha espresso un pensiero avanzato sul lavoro ma non solo. Il suo giudizio sulla bandiera renziana del “merito” è una lucida analisi sulla mistificazione di chi la sventola come principio di uguaglianza quando è vero che il “merito”, al contrario, esclude i più svantaggiati, colpevolizza chi viene respinto perché emarginato da ogni competizione che non ristabilisca l’uguaglianza dei punti di partenza.
In una società diseguale come la nostra, un pensiero di sinistra, una forza di sinistra non può che lottare contro una politica che regala diseguaglianze (mai viste così profonde nel secolo scorso nei paesi europei), come fossero eventi naturali e non frutti avvelenati di un’economia capitalistica globale, brutale e arida che desertifica le nostre società come la siccità che sta desertificando il pianeta.
«E’ ora di dichiarare in cosa crediamo, di unirsi e dimostrare che cambiare si può». il manifesto,
17 giugno 2017 (c.m.c)
Facciamo una scommessa? Attorno a un programma di rottura, ambizioso e convincente, è possibile creare unità e coinvolgere milioni di persone in un progetto di radicale rinnovamento del nostro Paese e del nostro continente. Basta alzare lo sguardo. Dinnanzi alla grandezza delle sfide che ci confrontano la piccolezza della politica che ci governa suona una triste, stridente nota di rinuncia.
Stride il rifiuto delle
élite di governo di accettare la necessità di un profondo mutamento di un sistema palesemente ingiusto. Stride lo spettacolo di una sinistra divisa. Stride un dibattito politico totalmente avulso dalla realtà, un teatrino di personalità narcise e ignoranti, una savana in cui sciacalli si avventano per una manciata di voti sui corpi di chi muore in mare.
E tutto ciò stride ancora di più perché ci troviamo nel mezzo di una grande trasformazione che nessuno pare interessato a governare. Il mondo di oggi è già quello che Stefan Zweig chiamava il mondo di ieri. Le contrazioni del futuro sono sotto gli occhi di tutti. A livello economico: stagnazione, picco delle ineguaglianze, scomparsa della classe media.
A livello produttivo: automazione, crisi ecologica, digitalizzazione. A livello politico: crisi della globalizzazione, crisi dell’Unione europea, migrazioni di massa. Abbiamo bisogno di un manifesto di rottura con un passato che non deve e non può più tornare. Ci servono parole chiare sulla ridistribuzione della ricchezza.
Perché se 8 uomini cumulano un patrimonio pari a quello della metà più povera del mondo, questo non è solamente uno scandalo morale, ma anche un incredibile ostacolo allo sviluppo, come perfino il Fondo Monetario Internazionale arriva ad ammettere. Tassazione progressiva, patrimoniale intelligente e tassa sulle grandi successioni sono politiche giuste quanto necessarie a rimettere in moto l’economia.
Parole chiare sull’evasione fiscale. Perché se le multinazionali cumulano miliardi di profitti grazie all’elusione permessa dal sistema dei paradisi fiscali questo rappresenta un’ipoteca sul futuro di milioni di persone e un’illegalità paragonabile a quella dei grandi trust criminali contro cui si scagliavano i versi di Bertolt Brecht. E’ scandaloso vedere i capi di stato europei accanirsi su un decimale di deficit di bilancio mentre sono proprio i Paesi considerati più virtuosi – quali l’Olanda, dove la finanziaria degli Agnelli ha trasferito la propria sede – a permettere l’emorragia fiscale che aumenta quel deficit.
Sul futuro del lavoro. Il reddito di cittadinanza è una misura ovvia, tra l’altro presente nella maggior parte dei Paesi a capitalismo avanzato. Ma bisogna andare oltre. Perché era il 1930 quando Keynes predisse per i suoi nipoti – che saremmo noi – una settimana lavorativa di 15 ore. E oggi si sta scoprendo che ridistribuire il lavoro farebbe crescere occupazione e produttività e diminuire inquinamento e ineguaglianze. E restituirebbe tempo libero alle persone. Perché si lavora per vivere, e si vive per essere liberi. E’ l’ora della settimana corta, incentivata da sgravi fiscali e diritto al part-time.
Sulle migrazioni. Perché non basterà il coraggio e l’umanità di chi salva donne e uomini in mare se non saremo in grado di governare un sistema di migrazione legale, circolare, che razionalizzi una richiesta di mobilità che non andrà a cessare. Servono canali sicuri che permettano l’ottenimento di un visto per la ricerca di lavoro nei Paesi di origine e un accesso semplificato alla cittadinanza.
Sulla democrazia europea. Perché non reggerà un’Unione incentrata sulla paura, sul ricatto e sullo schiacciamento dei diritti. Non reggerà un’Unione imperniata su un ottuso metodo intergovernativo in cui 27 capi di stato, i primi responsabili delle politiche nefaste di questi anni, gettano il sasso e nascondono la mano. Ma senza Europa unita e democratica saremo staterelli alla deriva in balia del potente di turno, dei muscoli di Putin e dei tweet di Trump.
Il cantiere europeo va riaperto. O non resteranno che macerie. E per farlo bisogna costruire una grande alleanza europea come non siamo stati in grado di fare durante la primavera calda di Atene. E poi sulla trasformazione del nostro sistema produttivo, perché il susseguirsi di crisi quotidiane non può farci dimenticare la grande crisi ecologica che ci attende.
Sul capitalismo monopolistico che va delineandosi nella Silicon Valley. Sull’automazione e sulla condivisione dei profitti derivanti dalla rivoluzione delle macchine. Sulla centralità dell’istruzione e della ricerca, per fermare la competizione al ribasso del lavoro. In breve: sulle grandi questioni necessarie a ridefinire un sistema in stallo fra trasformazione e implosione. Non sono questi tempi per il piccolo cabotaggio.
Il 18 giugno, in seguito all’appello di Montanari e Falcone, ci incontreremo a Roma. Con il movimento europeo DiEM25 abbiamo già dato la nostra adesione – convinti che non si possa cambiare questa Europa senza partire anche dall’Italia. Il primo luglio è stato invece Giuliano Pisapia a chiamare una piazza romana. Per avere successo partiamo dalle politiche e non dai nomi.
Partiamo da dieci punti attorno ai quali costruire uno spazio nuovo in cui confluiscano tutte le persone, le associazioni e i partiti che credono a questo obiettivo. Perché non sono le idee a dividerci. Non è più il tempo dei posizionamenti. E’ ora di dichiarare in cosa crediamo, di unirsi e dimostrare che cambiare si può. Perché ci giochiamo il futuro. E non è più consentito sbagliare.
La paradossale riflessione del filosofo sloveno su un comportamento dell sinistra nei confronti delle migrazioni. «Dovremmo chiederci se essere politicamente corretti sia davvero qualcosa che appartiene alla sinistra: non si tratta invece di una strategia di difesa contro le istanze della sinistra radicale?».
il Fatto quotidiano, 16 giugno 2017
Se qui in Occidente volessimo davvero sconfiggere il razzismo, il primo passo sarebbe farla finire con questo processo politicamente corretto di auto-colpevolizzazione. Anche se le critiche di Pascal Bruckner (uno scrittore francese, tra i nouveaux philosophes, ndr) agli approcci della sinistra di oggi spesso sfiorano il ridicolo, questo non gli impedisce di fare qualche analisi utile: non si può che essere d’accordo con lui quando identifica nella auto-flagellazione politicamente corretta dell’Europa il rovescio di una rivendicazione di superiorità.
Ogni volta che l’Occidente viene attaccato, la sua prima reazione non è una difesa aggressiva ma colpevolizzarsi: cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo? In ultima analisi, la colpa di ogni male è soltanto nostra, per le catastrofi del Terzo mondo e la violenza dei terroristi è soltanto una reazione ai nostri crimini… la forma positiva del “fardello dell’uomo bianco” (la responsabilità di colonizzare i barbari) viene rimpiazzata dalla sua versione negativa (la colpa dell’uomo bianco): se non possiamo più essere i dominatori benevoli del Terzo mondo, possiamo almeno essere la fonte privilegiata dei suoi mali, privandoli con paternalismo di ogni responsabilità riguardo al loro destino (se un Paese del Terzo mondo si macchia di terribili crimini, non è mai pienamente sua responsabilità: sta soltanto imitando quello che faceva il padrone coloniale ecc.).
La logica del politicamente corretto attiva quei meccanismi che possiamo chiamare di “sensibilità delegata”, spesso secondo questa linea di argomentazione: “Io sono un duro, non mi urtano i discorsi sessisti o razzisti o di odio, o chi si prende gioco delle minoranze, ma io parlo a nome di quelli che potrebbero essere offesi da quelle parole”. Il punto di vista è quindi quello di questi “altri” che, viene dato per scontato, sono così ingenui e indifesi da aver bisogno di protezione perché non capiscono l’ironia o non sono in condizione di rispondere agli attacchi. Deleghiamo l’esperienza passiva di una sensibilità da pastore su un “altro” ingenuo, producendo così una sua infantilizzazione. Per questo dovremmo chiederci se essere politicamente corretti sia davvero qualcosa che appartiene alla sinistra: non si tratta invece di una strategia di difesa contro le istanze della sinistra radicale? Di un modo per neutralizzare l’antagonismo invece che affrontarlo in modo esplicito? Molti degli oppressi percepiscono chiaramente come la strategia del politicamente corretto aggiunga insulti alle ingiurie: mentre l’oppressione rimane, loro – gli oppressi – devono anche ringraziare per come i liberal li proteggono…
Uno dei sottoprodotti più sgradevoli della ondata di rifugiati che è arrivata in Europa nell’inverno 2015-2016 è stata l’esplosione dell’indignazione moralista tra molti progressisti di sinistra: “L’Europa sta tradendo la sua tradizione di libertà e solidarietà! Ha perso la sua bussola morale! Tratta i rifugiati come invasori, bloccando il loro ingresso con filo spinato, chiudendoli in campi di concentramento!”. Questa empatia astratta, combinata con la richiesta di aprire le frontiere senza condizioni, merita la grande lezione hegeliana dell’Anima bella: quando qualcuno dipinge il quadro della definitiva degenerazione dell’Europa, bisognerebbe chiedersi che grado di complicità ha questa posizione con ciò che critica, in che modo coloro che si sentono superiori al mondo corrotto in realtà, segretamente, vi partecipano. Nessuna sorpresa che, con l’eccezione degli appelli umanitari alla compassione e alla solidarietà, gli effetti di questa auto-flagellazione siano completamente nulli… E se gli autori di questi appelli sapessero perfettamente che non contribuiscono in alcun modo ad alleviare la piaga dei rifugiati ma che l’effetto finale dei loro interventi è soltanto quello di nutrire il sentimento anti-immigrati? E se segretamente fossero ben consapevoli del fatto che quanto chiedono non succederà mai perché scatenerebbe all’istante una rivolta populista in Europa? Perché, quindi, si comportano così?
C’è soltanto una risposta coerente: il vero scopo di questa loro attività, dei paladini del politicamente corretto, non è quello di aiutare davvero i rifugiati, ma attraverso le proprie accuse raggiungere il Lustgewinn.
Il processo dell’ “ottenimento del piacere / Lustgewinn” opera attraverso la ripetizione: chi manca l’obiettivo ripete il movimento, provando ancora e ancora, così che alla fine il vero scopo non è più l’obiettivo desiderato ma il movimento ripetitivo del tentativo di raggiungerlo in se stesso. Mentre il contenuto desiderato (oggetto) promette di offrire piacere, un piacere ancora maggiore può essere ottenuto dalla forma stessa (procedura) di inseguimento dell’obiettivo. L’esempio classico: mentre l’obiettivo di succhiare un seno è di essere nutriti dal latte, l’aumento di libido è prodotto dal movimento ripetitivo di succhiare che quindi diventa un fine in se stesso.
Dopo la chiusura serale, nei supermarket della catena Walmart si trovano molti carrelli pieni di prodotti ma abbandonati tra gli scaffali: sono stati lasciati lì dagli appartenenti alla classe media impoverita che non sono più in grado di fare davvero acquisti. Così visitano il supermercato, attraversano il rituale dello shopping (mettendo le cose di cui hanno bisogno o che desiderano nel carrello) e poi abbandonano tutto nel negozio. In questa triste accezione, ottengono il surplus di piacere dovuto allo shopping in questa forma puramente isolata, senza comprare nulla. Non ci impegniamo spesso in attività simili la cui “irrazionalità” non è però altrettanto visibile? Facciamo qualcosa – come lo shopping stesso – senza uno scopo preciso, ma in realtà siamo indifferenti a quale dovrebbe essere questo scopo perché la vera soddisfazione deriva dalla attività stessa? Con il Lustgewinn, lo scopo del processo non è il suo obiettivo ufficiale (la soddisfazione di un bisogno), ma la riproduzione stessa del processo.
Il Lustgewinn prodotto delle accuse sui rifugiati è il sentimento di superiorità morale rispetto agli altri che prova chi le lancia. Più rifugiati vengono respinti e più crescono i populismi anti-immigrati, più queste “anime belle” si sentiranno giustificate: “Vedete, gli orrori continuano, avevamo ragione noi!”.
Un caloroso invito all'incontro del 18 giugno, che può rovesciare la decadenza della politica e ridare un senso a chi vuole unirsi per costruire un mondo migliore. Ma è decisivo che cosa si sarà capaci di fare dal giorno dopo.
il manifesto, 16 giugno 2017
Si sarebbe tentati di iniziare come si faceva una volta nei congressi di partito: dall’analisi della situazione internazionale per poi arrivare al «caso italiano». Varrebbe la pena perché fuori dall’Italia succedono cose interessanti. Corbyn, Mélenchon, Sanders, Podemos, Syriza.
Esiste una sinistra, dai valori antichi e alle adesioni giovani. Che cresce essendo sinistra, non cercando i voti al centro o realizzando il programma della destra, come da noi. Perché – alla rovescia dal secolo scorso – il caso italiano è un disastro. Siamo quasi l’unico paese d’Europa in cui non c’è una sinistra decente. E non come “etichetta” ideologica buona a coprire pratiche di ogni tipo. Su questo ha ragione Podemos. Come cultura politica vissuta, non solo dichiarata, senso della giustizia e della libertà. Costruire l’uguaglianza, liberare le differenze, era scritto su un muro del sessantotto parigino.
E però il voto del 4 dicembre indica che una certa idea di democrazia nel paese esiste – come contenuti, linguaggio, stile di vita.
Sono i contenuti che Falcone e Montanari hanno indicato nella loro proposta. Quelli della disuguaglianza crescente, ormai oltre i livelli di Balzac e Austen, come ha dimostrato Piketty; quelli dei migranti, dello Stato sociale, del paesaggio, della pace, della scuola e della sanità. Insomma i temi della carta costituzionale. Che ha dato prova in due referendum di non essere solo carta ma di avere radici profonde nella testa e nell’anima di una grande parte dell’Italia.
Ma adesso che fare?
L’appello conferma ancora una volta che esiste un mondo e una cultura diffusa che non sono rappresentati dai partiti e dai raggruppamenti della sinistra esistente. Dimostra anche, forse, che viviamo una crisi della rappresentanza e della politica; che c’è l’esigenza di inventare nuove forme della comunicazione e delle relazioni politiche, legate alla vita delle donne e degli uomini che vivono e soffrono la nuova antropologia del neoliberismo: solitudine, paura, competizione. E che sono radicali. Non stanno nell’orizzonte di questa Europa dell’austerità e della finanza. Non stanno dunque nemmeno nei paradigmi di pensiero e di pratiche che hanno tristemente definito e tristemente definiscono il centrosinistra in Italia. E la socialdemocrazia in Europa.
Perché la crisi italiana della “sinistra di governo” non nasce con Renzi. È l’incapacità di leggere le trasformazioni per gestirle e non esserne gestiti. È la caduta di un pensiero critico. Renzi le ha dato solo un di più di spettacolarità, cialtroneria e arroganza.
Il 18 giugno a Roma di sicuro una parte importante di questa società civile e politica si ritroverà al teatro Brancaccio. Sarà bello. Sarà la dimostrazione che un’altra Italia esiste, come comunità di cultura, impegno, solidarietà, associazionismo, come desiderio di partecipazione e di polis. Esiste, può resistere e costruire altro.
Però sarà soprattutto fondamentale il 19 giugno. Il giorno dopo, quello più difficile.
Sarebbe importante che quell’incontro non restasse solo una bella discussione. Tutte e tutti coloro che interverranno avranno naturalmente pari dignità, semplici cittadini o dirigenti di partito. Ognuno con la sua storia.
Ma quella parte di cittadinanza politica che chiama al confronto ha una responsabilità in più, diversa e notevole. Quella di non salutarsi felici e poi lasciare il campo agli addetti ai lavori di sempre. Ognuno ha le proprie competenze e il lavoro di tutte e di tutti ha una connotazione politica, ma se si resta chiusi nel proprio mondo, allora il rischio grave è che la politica continuino a farla i politici. E questo nell’Italia di oggi non ce lo possiamo permettere.
C’è bisogno di qualcosa di radicale e di radicalmente nuovo per uscire dalla crisi – dalla «frantumaglia» di Elena Ferrante. Qualcosa di travolgente. Una proposta che non si può rifiutare, che attragga e trascini con sé i soggetti adesso confusamente sulla scena. Non è possibile delegare ancora una volta le responsabilità ai partiti esistenti, né immaginare una semplice sommatoria, neppure un coordinamento o federazione di sigle polverizzate. Anche nel pensiero. C’è bisogno di una proposta netta, decisamente centrata su alcuni contenuti di fondo. Forse oggi di natura più etica che politica.
L’atteggiamento nei confronti dei migranti, la difesa dell’umano di fronte al disumano, come ha scritto Marco Revelli per la manifestazione di Milano del 20 maggio. L’attenzione verso le povertà, per la dignità del lavoro, i diritti civili cioè la libertà di inventare la propria vita ed essere se stessi, la liberazione delle donne dalla violenza del potere maschile, proprietario e la liberazione degli uomini dalla prigione del potere.
Per dare vita a un processo del genere occorre il protagonismo di soggetti nuovi. Occorre progettare un percorso diffuso sul territorio. Assemblee incontri iniziative. Che parlino e diano voce a quella società che soffre e cerca una dimensione collettiva della propria vita. Vuole esserci. Non solo come comparsa o spettatore disincantato dello show politico dominante da televendita.
La proposta elettorale che potrebbe uscire dovrà essere naturalmente la più ampia e inclusiva possibile. Presentarsi alle elezioni con l’obiettivo massimo di superare un qualche quorum è la cosa più minoritaria, triste e perdente, che si possa fare. La maniera migliore per non raggiungere lo scopo. Potrà essere effettivamente unitaria se appunto metterà al centro temi e obiettivi, rendendo ben riconoscibile la cultura politica che li produce. Un’identità forte ma tutt’altro che di nicchia.
Ci vorrà una notevole dose di creatività e invenzione. Anche di pazienza e capacità di mediazione. Si tratta di dare vita a uno spazio pubblico di confronto che sarà naturalmente anche il luogo di una competizione per l’egemonia. Ma va bene così: la diversità delle visioni e degli orizzonti può rendere tutto più difficile e faticoso, però può anche spingere finalmente alla costruzione di una soggettività fatta di un tessuto di relazioni politiche decenti. Forti quanto miti. Umane.
Dove non domini l’aggressività e il narcisismo di chi sa appartenere solo all’identico a sé; dove si accetti la presenza di letture anche diverse della realtà che ci circonda, se ci si riconosce compagne e compagni. Capaci di spezzare il pane insieme. E donarlo al mondo.
«Intervista a Susanna Camusso. La segretaria della Cgil lancia la mobilitazione di sabato contro la reintroduzione dei
voucher». MicroMega online, 15 giugno 2017 (c.m.c.)
“Si è sottratta al Paese la possibilità di poter decidere: ne esce sconfitta la democrazia. Prima, ad aprile, si sono abrogate le leggi che erano oggetto di referendum, poi si sono riproposte dentro una manovrina”. Susanna Camusso ci accoglie nel suo ufficio, al quarto piano del palazzo Cgil di Roma. È indaffarata a preparare la piazza di sabato 17 giugno dal titolo inequivocabile Uno schiaffo alla democrazia contro la reintroduzione dei voucher. Una manifestazione che si focalizzerà soprattutto sul mancato funzionamento dell’articolo 75 della Costituzione: “Il governo ha scelto coscientemente di violare le regole della nostra Carta”. Non si fanno previsioni sui numeri dei partecipanti, anche se i sentori fanno presagire una manifestazione imponente.
Il governo ha deciso di anticipare il voto sul maxi emendamento ad oggi, prima della piazza di sabato. È sempre più scippo della democrazia?
Hanno paura di confrontarsi con l’opinione delle persone, come se il lavoro non meritasse un pronunciamento dei cittadini. E, attenzione, ponendo la fiducia, dimostrano di aver paura persino del dibattito parlamentare. Un doppio inganno se consideriamo che è stato inserito in un decreto d’urgenza in violazione del dispositivo con cui la Corte costituzionale ha autorizzato i referendum.
Si spieghi meglio...
La Corte dice che le norme sono abrogabili perché sono prive di una definizione di cosa sia il lavoro occasionale, cosa che si ripete esattamente con questo nuovo provvedimento, al di là del cambio di nome: invece di chiamarlo voucher viene chiamato contratto di prestazione occasionale, ma è un’autodefinizione.
Eppure il governo insiste che non hanno nulla a che vedere con i vecchi voucher. Rispetto a prima si alza il compenso per chi svolge attività presso le imprese. Sale anche la quota contributiva a carico del datore (al 33%). Vengono poi stabiliti dei limiti: non sono ammesse le aziende con più di 5 dipendenti, quelle del settore dell’edilizia e prestazioni inferiori alle 4 ore. Infine, la gestione delle operazioni sarebbe infatti affidata a un portale ad hoc dell’Inps. Come controbatte?
Molti, sia nel Governo che nel Parlamento, quando discutono di lavoro non sanno concretamente di cosa parlano. Sono così convinti che debba esistere un lavoro occasionale che non lo sanno neanche definire: l’unica definizione è che debba costare 5000 euro all’anno. Un po’ poco, no? La precarietà è questione più complessa...
Sì, ma rispetto ai vecchi voucher non ci sono cambiamenti?
Innanzitutto è ridicolo parlare delle poche imprese con 5 dipendenti a tempo indeterminato, in realtà stiamo parlando di più del 90% delle imprese italiane! Inoltre nei PrestO la quota previdenziale è aumentata con una beffa perché riporta la contribuzione all’equivalenza col lavoro dipendente, ma la inserisce nella gestione separata. Quindi per quei lavoratori si ha una contribuzione previdenziale inutilizzabile e in più non si hanno gli stessi diritti come la malattia. Una seconda beffa è sulla tracciabilità: viene inserito l’obbligo di comunicazione a inizio lavoro ma contestualmente vengono concessi tre giorni per smentire quanto si è dichiarato e negare la prestazione. E’ assolutamente evidente che con un’efficacia dei controlli molto discutibile, gli abusi e I raggiri saranno all’ordine del giorno.
Secondo il giuslavorista Piergiovanni Alleva i PrestO sarebbero addirittura peggiorativi rispetto ai voucher. È d’accordo?
L’elemento peggiorativo sta nel fatto che, rispetto a una scelta giusta e necessaria, cioè ridurre le forme di precarietà, siamo di fronte ad una norma che le moltiplica e le peggiora.
Proprio ieri Matteo Renzi si è rivendicato il Jobs Act. Possibile che sul lavoro abbia procurato più danni lui dei governi Berlusconi?
Beh, mi soffermo su due aspetti. Con la manomissione dell’art. 18 il governo Renzi ha legittimato il paradigma secondo cui è giustificato che un’azienda licenzi un lavoratore senza giusta causa, un vero e proprio rovesciamento dei rapporti di forza. Un provvedimento con effetti più nefasti di quelli che ebbe la legge Fornero sul mercato del lavoro. Altro aspetto da considerare: il rapporto tra spesa e risultati. Il Jobs Act ha ridotto i diritti dei lavoratori e col tempo si è svelato anche il bluff sull’aumento dell’occupazione che era dovuta alla decontribuzione delle imprese facendo così venire meno la propaganda del governo sui successi della riforma. Quelle risorse pubbliche dovevano essere utilizzate per interventi strutturali capaci di creare nuovi posti di lavoro e crescita del Paese.
Susanna Camusso, come siamo arrivati ai voucher? Veniamo da anni di smantellamento dello Stato sociale, di compressione dei diritti dei lavoratori e di aumento delle forme di precarietà, il sindacato non ha responsabilità su questo sfacelo? In passato la Cgil non poteva avere atteggiamenti meno concertativi?
Sfatiamo una leggenda: se vuole le elenco tutti gli scioperi generali della Cgil dall’approvazione della legge 30 ad oggi. E sono molti. Negli ultimi anni non ricordo una riforma sul mercato del lavoro passata con atteggiamenti dialoganti col governo. Le riforme condivise tra le parti sociali sono un antico ricordo nel Paese. Se c’è un’autocritica da fare l’abbiamo anche fatta riguardo a un’interpretazione che per lungo tempo abbiamo dato, cioè l’idea che le forme di precarietà potessero essere transitorie e non fossero un intervento che avrebbe determinato una strutturalità nell’organizzazione dell’impresa fondata in parte consistente sulla precarietà. Abbiamo invertito la rotta con la Carta dei diritti universali del lavoro, che ha l’ambizione di riordinare la giurisprudenza sul lavoro e dare con essa diritti a tutti i lavoratori siano essi dipendenti, autonomi, precari o altro. Pensiamo che i diritti del e nel lavoro debbano essere in capo alle persone. Contemporaneamente, abbiamo raccolto le firme contro i voucher, che sono l’emblema della nuova frontiera di precarietà perché sanciscono la definitiva destrutturazione del rapporto di lavoro.
Mi vorrei soffermare sull’aspetto generazionale: in Italia gli under 30 si trovano di fronte un mercato del lavoro iper-precario e senza garanzie. Una generazione che, a differenza di quella dei genitori, non conosce il contratto a tempo indeterminato. Da questo punto di vista, non andrebbe riformata l’idea del sindacato, visto che è cambiato il mondo del lavoro, oppure crede che sia sufficiente la Carta dei diritti universali che avete recentemente elaborato?
È indubbio ci sia una questione anche generazionale, ma la rottura di una costruzione dei rapporti di lavoro sta diventando un tema trasversale che riguarda tutti. La precarietà diventa una condizione riproponibile in qualunque momento e a chiunque. Se pensi a un settore come l’agricoltura, dove si hanno dalla diffusione dei voucher al caporalato, non stai parlando solo dei giovani ma di tante figure e contraddizioni: migranti, dumping salariale, competizione tra lavoratori etc...
Rimane il fatto che i giovani non sanno cosa sia un sindacato come la Cgil...
I giovani non conoscono il sindacato in molti luoghi perché spesso il sindacato non c’è, ed è una sua responsabilità, ma in tantissime altre realtà i giovani sono anche al centro delle politiche delle nostre categorie. Penso alla Filcams dove l’età media è attorno ai 30-35 anni. Ragazzi che hanno anche inventato forme nuove di sindacalizzazione e di determinazione della loro possibilità di avere lotte e risultati, rispetto ai diritti.
Il sindacato o si riforma o muore?
Riformare se stessi è sempre essenziale, il sindacato deve evolversi in ragione di come cambia il mondo del lavoro e rispetto alle sfide da affrontare. Bisogna inventarsi nuovi strumenti: ad esempio è una piattaforma lo strumento con cui interloquisci coi lavoratori della gig economy? Come costruire dei luoghi di aggregazione per lavoratori fisicamente dispersi? Sono le domande che ci stiamo ponendo come sindacato. Come ci insegna la storia delle nuove catene, quelle che abbiamo sindacalizzato, per far vivere la Cgil resta essenziale che quei lavoratori entrino intanto in una relazione fra di loro, cioè nell’idea che serva un’organizzazione collettiva, che è esattamente il messaggio opposto di quello che viene socialmente proiettato. L’interrogativo è quali sono i rapporti che tu puoi costruire, su cui stiamo ragionando noi e altri sindacati europei – non è un tema esclusivamente nostro – e su come intercetti un mondo che non ha un luogo fisico di lavoro o è composto da poche persone. Penso sia questa la vera sfida del sindacato.
State pensando ad uno sciopero generale? Abbiamo una faticosa relazione con Cisl e Uil su questo punto di vista e certo si rischia la rottura dell’unità sindacale invocando uno sciopero generale su un tema, come quello dei voucher, sollevato attraverso una raccolta firme soltanto dalla Cgil. Però... non lo escludiamo, sta nei nostri strumenti.
Passiamo ad una questione che a sta a cuore a MicroMega: l’Ilva di Taranto. Lì il sindacato ha fatto prevalere, negli anni, il diritto al lavoro sul diritto alla salute dei cittadini. Almeno di questo vi accusano a Taranto, dove la Cgil ha avuto un calo di iscritti. Fate autocritica? Siete arrivati in ritardo a capire il problema dell’inquinamento dell’Ilva? Sinceramente penso che la salute nei luoghi di lavoro e la salute intorno ai luoghi di lavoro debbano andare di pari passo. È un dato ormai acquisito in Cgil che ha complessivamente cambiato condotta. Inoltre c’è un grande tema che riguarda le norme differenziate nel nostro Paese: non esistono i controlli e questo nodo andrebbe affrontato seriamente per il bene del mondo del lavoro ma anche per l’ambiente, il clima e la salute dei cittadini. Su un punto rimango ferma: la soluzione dell’Ilva di Taranto non passa per la chiusura degli impianti, che significherebbe la sconfitta dell’innovazione verso nuove strade. Penso ai processi di riconversione o alle ricerche per rendere l’Ilva compatibile con l’esterno, salvaguardando così i posti di lavoro e la salute. Nei casi di siderurgia si può intervenire, la chiusura dell’impianto è un simbolo di resa.
Ultima domanda: il dibattito a sinistra. Sabato in piazza con voi ci saranno tutti i partiti della cosiddetta sinistra radicale. Mentre il 18 giugno, il giorno dopo, al teatro Brancaccio di Roma si discuterà dell’appello lanciato da Tomaso Montanari ed Anna Falcone. Qual è il suo giudizio sui confronti in corso?
Come sempre la Cgil è molto interessata all’evoluzione della politica ma esprime delle valutazioni di interesse quando si affrontano i temi del lavoro, per il resto non commento.
Si esponga Camusso... Cosa auspica a sinistra? Vorrei semplicemente una sinistra o un centrosinistra – non mi formalizzo sulla definizione e sui trattini – che abbia il lavoro come perno centrale. Bisogna ripartire da qui. Per troppo tempo il lavoro è stato invece il grande assente del dibattito della politica, anche e specialmente a sinistra.
il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)
"I voti? Quanti voti? La sinistra ha perso il suo popolo durante i suoi governi, che io chiamo del suicidio. Lo ha regalato all’astensione, alla disperazione, ai Cinquestelle, alla Lega e persino a Fratelli d’Italia. Quindi mi terrei prudente, conterrei le speranze".
Luciano Canfora, il principe della filologia classica e sempre schierato sul limite estremo del pensiero di sinistra, è inesorabile nello stimare le percentuali di successo dell’arcipelago progressista nel caso si ritrovasse unito.
«Forse perché sono troppo vecchio e ricordo il flop dell’unificazione socialista. O perché in mente mi viene lo sfracello di voti che doveva prendere la Margherita quando diede vita al simbolo unico. E poi: flop. Oppure, ricorda?, all’altro sfracello annunciato dal Pd, il partito a vocazione maggioritaria. Walter Veltroni e la Giovanna Melandri ogni sera in tv con questa benedetta vocazione maggioritaria. Si autoproclamavano maggioritari. Mi ricordavano quelli che alla domanda perché il papavero facesse dormire, rispondevano: perché ha la virtus dormitiva. Irresistibile come spiegazione».
Le viene in mente il fallimento delle varie fusioni fredde.
«È la storia che ce lo dice. Anche quando si promosse Rifondazione comunista, e io facevo parte del gruppo di Cossutta, la cosiddetta terza mozione, parvero spalancarsi chissà quali porte, chissà quali praterie davanti a noi. Dopo un po’di tempo le percentuali si assottigliarono fino a divenire quasi irrilevanti».
Quindi Bersani & co non si facciano troppe illusioni.
«Io mi accontenterei della cifra che teme di perdere il Pd, ormai definitivamente partito di centro insieme a Forza Italia. Quel sei per cento che l’avversario Matteo Renzi paventa sarebbe già un bottino significativo».
Il Pd di Renzi?
«Questo partito ha prodotto un aborto. Ora lo votano i nipoti degli elettori democristiani, le élites urbane, i benpensanti. È definitivamente e dichiaratamente un partito di centro.
Se il Pd copre unicamente il centro, facendo concorrenza a Forza Italia, ci sarà dunque una speranza a sinistra? Saranno paragoni inappropriati, ma altrove, dove la sinistra si è presentata nel suo vestito più classico e con i volti persino datati dell’americano Sanders e del britannico Corbyn, il proprio popolo l’ha ritrovato eccome.
Anzitutto si ricordi che in America, e non da ora, esiste un pezzo della sua società illuminato che vota a sinistra. Bernie Sanders ha perso il confronto con la Clinton perché anche lì le primarie sono una buffonata. Però c’è u n’altra verità da riferire: negli Usa la sinistra non ha mai governato. E in Gran Bretagna i laburisti invece non si sono mai suicidati».
Invece in Italia la sinistra, governando, si è suicidata.
«Non so perché si parli con una tale sfrontatezza di ventennio berlusconiano. Silvio Berlusconi ha governato dodici anni, il resto è opera di altri. L’emorragia di voti che ne è conseguita, aver regalato temo definitivamente alla Lega la classe operaia lombarda, o quel che resta di essa, aver prodotto migrazioni bibliche verso i Cinquestelle e financo dalle parti di Fratelli d’Italia è l’esito di un disastro politico».
La sinistra non ha un popolo, dunque, e nemmeno un leader.
«La sinistra ha quel che ha, non la sopravvaluterei. Si affacceranno al voto nuove generazioni, vedremo come voteranno. Sul voto resto cauto. Sul leader possibile aggiungo che non bisogna trovare immediatamente il Giulio Cesare. Il leader deve uscire dal confronto delle idee, dal corpo a corpo nell’agone politico».
Torna in campo persino il nome di Prodi. E Bersani risulta addirittura più popolare di Pisapia. Di nomi nuovi e volti giovani nemmeno l’ombra.
«A parte che Giuliano Pisapia è quasi coetaneo di Pierluigi Bersani e non vedo perché dovrebbe essere più popolare, ma che fesseria è questa dell’anagrafe? Il più giovane presidente del Consiglio che abbiamo avuto si chiamava Benito Mussolini. E ho detto tutto».
Micromega online, 10 giugno 2017
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l'urgenza della
proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l'assalto soverchiante di tutti quelli che: "mamma mia come superiamo il 5%?".
Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte.
Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall'articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell'anima ha votato NO il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti.
Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato SÌ, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato NO, ma prima ha sostenuto il Jobs Act, la legge Fornero e soprattutto quella mina ad orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact.
Durante il governo Monti il parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l'austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.
Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l'intervento pubblico diretto nell'economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O il pubblico, o si e si svende ciò che resta del paese, questa è l'alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?
Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, ad esempio dall'impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in Valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio.
Il bilancio delle spese militari dello stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del PIL posto dagli accordi NATO. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all'estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace? Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra.
Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell'ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli UE e NATO? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma è posto all'indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.
Chi ha votato NO il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il SI. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la UE nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta?
Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell'appello di parlarne esplicitamente nell'assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l'opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d'altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.
il manifesto, 10 giugno 2017 (c.m.c.)
Dalla riproposizione di un maggioritario ormai privo di ogni appeal e di qualsivoglia praticabilità alla disinvolta rincorsa di proporzionali di importazione, di risulta o misti. Con la sola preoccupazione di arrivare al più presto al voto e di non intaccare il potere degli apparati di designare i futuri parlamentari.
Poi, in un giorno, è di nuovo cambiato tutto. La spallata referendaria del 4 dicembre, che ha chiuso una stagione politica fallimentare, non ha travolto – né era realistico pensarlo – un’idea di politica e un ceto di governo. E oggi il re è nudo. È in questo contesto che si colloca l’appello di Falcone e Montanari per un soggetto politico a sinistra del Pd: proposta interessante, soprattutto per il suo collocarsi nel solco della vittoria referendaria del 4 dicembre, ma non a qualunque costo, essendo sempre in agguato – come mostrano le prime reazioni – letture che tendono a riportarla nella prospettiva di un centrosinistra morto e sepolto o nella pura sommatoria dei vari (e non rigogliosi) cespugli nati fuori dal suo recinto.
Per non ripetere esperienze del passato ci sono alcune condizioni.
1) Prima i contenuti, poi gli schieramenti
Nella costruzione di un nuovo soggetto occorre abbandonare ogni logica di schieramento e puntare esclusivamente sui contenuti. Tanto più se si voterà con un sistema proporzionale (come è di fatto il Consultellum), il punto fondamentale sarà portare in Parlamento posizioni chiare e impegnative da immettere nel confronto politico in una prospettiva di medio termine e non di (irrealistiche) immediate alleanze. E il ricatto del “voto utile” o del “meno peggio” perderà di senso, qualunque sia la soglia di sbarramento.
2) La grande questione della diseguaglianza
Sui contenuti, la grande questione, evidenziata nell’appello di Falcone e Montanari, è quella della disuguaglianza, accentuata a dismisura dalla crisi. Alcuni – le destre, il Pd e i suoi satelliti – la considerano, nei fatti, un dato inevitabile, se non positivo, e ritengono che la ricetta per uscire dalla crisi sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall’abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall’espansione del privato, dall’investimento in opere faraoniche: è una linea politica che viene da lontano e solo chiudendo gli occhi si può pensare che, senza una sconfitta elettorale, possa cambiare nei tempi brevi.
Altri pensano che la strada sia quella opposta, cioè una rinegoziazione delle politiche europee a partire della esigenze dei paesi del Sud e un nuovo corso (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici sull’obiettivo della piena occupazione, sulla razionalizzazione del welfare, sul reddito di cittadinanza, sulla riconversione ecologica, sul riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, sulla valorizzazione delle migrazioni e via elencando.
Sono due prospettive inconciliabili tra cui non esistono vie intermedie. Occorre scegliere in maniera esplicita senza furbizie tattiche (e il voto inglese di ieri mostra che una scelta netta può essere pagante anche in chiave elettorale);
3) Una forte discontinuità
Non si va da nessuna parte senza una forte discontinuità in punto di metodo, persone, linguaggio. Una discontinuità che accantoni apparati impresentabili (anche al di là delle loro reali responsabilità) e sappia aggregare movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza.
Una discontinuità che sappia anche fare i conti con un sistema comunicativo semplificato, assertivo, spesso demagogico che non ci piace ma da cui non si può prescindere (pur mantenendone il necessario distacco critico). Già sentito, certo, e più volte. E negli ultimi dieci anni vi si è risposto con proposte verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008 e di Rivoluzione civile del 2013… Cosa autorizza a pensare che, oggi, si possa voltar pagine?
Un punto di partenza c’è: la mobilitazione referendaria che ha dimostrato come, qualche volta, l’impossibile diventa possibile.
4) Le buone idee non bastano, serve l'organizzazione
C’è un ultimo problema. In tutti i recenti tentativi di costruzione di esperienze alternative ci si è mossi sul presupposto che le buone idee siano da sole capaci di produrre l’organizzazione necessaria (e sufficiente).
Non è così. Lo dico pur consapevole, da vecchio movimentista, delle degenerazioni burocratiche e autoritarie che si annidano nell’organizzazione. Contro queste derive va tenuta alta la guardia ma la sottovalutazione del momento organizzativo (e della sua legittimazione) è stata una delle cause principali della rissosità e della inconcludenza di molte aggregazioni politiche ed elettorali dell’ultimo periodo, a cominciare da quella di “Cambiare si può” (nata con grande entusiasmo e partecipazione ma presto paralizzata dalla mancanza di luoghi di decisione e, per questo, diventata facile preda di una nefasta e alienante occupazione).
C’è – pare – un po’ di tempo prima delle elezioni: sarebbe bene sfruttarlo sin dal 18 giugno.
Il Renzusconismo non è una spuma passeggera, ma il prodotto del fluire costante di correnti profonde. Per combatterlo con efficacia i tatticismi non bastano. «Per ora possiamo contare solo su una credibilità che deve venire da chiarezza di analisi e di obbiettiv
i». il manifesto, 2 giugno 2017
So benissimo quanto sia poco elegante autocitarsi, con il sottointeso, inoltre, di suggerire: «vedete che avevo la vista lunga». Per ragionare, però, su quello che abbiamo oggi sotto gli occhi dobbiamo ragionare anche su quello che ci avevamo ieri e che la politica politicante aveva ignorato e che continua ad ignorare. «Molti commentatori odierni, purtroppo anche da sinistra, scambiano una partita di poker (…) con un mutamento strategico. Scambiano cioè la spuma di superficie mossa da venti incostanti, con il fluire costante delle correnti profonde (…). È sulle culture che lo ispirano, sulle strutture di ogni tipo che lo sorreggono, che vanno misurate le ragioni del ’lungo Nazareno’, non sulle necessità contingenti della tattica» (Le radici profonde del Nazareno, il manifesto, 10 febbraio 2015). Di fronte alla nuova partita di poker dei nostri giorni i cui risultati sembrano invertire la «svolta a sinistra» renziana relativa al metodo di elezione di Mattarella (così fu considerata dai sostenitori del centrosinistra «buono»), si potrebbero usare gli stessi termini dell’articolo di due anni e mezzo fa. E del resto non si sono certo modificate le coordinate che vengono da lontano e che si concretizzano, come ci spiega autorevolmente un ex economista critico, fortemente pentito proprio della dimensione «critica»
[Michele Salvai -n.d.r], nella consapevolezza che «entrambi i leader» hanno del «nesso che lega (…) indirizzi europei (…) alle riforme interne che dovranno essere attuate al fine di adeguarsi ad essi» (Il riformismo dei moderati Renzi e Berlusconi,
Corriere della sera, 20 maggio 2017).
Su questo punto, quello davvero dirimente per l’analisi «critica» e le politiche che intendono ispirarvisi, fin dagli anni ’90 le logiche dell’alternanza tra governi Berlusconi e governi di centrosinistra non sono mai state conflittuali se non su questioni marginali o su tattici aggiustamenti legati alla contingenza. L’ideologia economica condivisa e vissuta come seconda natura giustifica il «pilota automatico» che guida l’attuale fase dell’accumulazione. I due leader «riformisti» devono assicurarsi che niente interferisca con tale centro di controllo dell’economia e della società, ed una volta garantito il meccanismo possono dedicarsi in tutta libertà ai più gratificanti giochi dell’esercizio del potere. Giochi tutt’altro che innocenti peraltro.
Da «quali fragilità della nostra storia» (G. Orsina) sia derivato quel fenomeno che è stato chiamato berlusconismo sono ormai noti i lineamenti generali. Attenti studiosi (A. Gibelli, P. Ginsborg, N. Tranfaglia…) hanno impostato in termini storici, e dunque nei tempi della storia, l’ascesa e la pervasività del fenomeno. Se la commistione politica-affari attiene in generale alla tendenza «regressiva» che interessa l’Occidente nel suo complesso da più di trent’anni, i modi del «berlusconismo» sono connotati dalla storia italiana, dalla particolare estensione della sua «zona grigia». In nessun altro paese analogo l’accumulazione di ricchezza e potere personale avrebbe avuto spazi fuori legge tanto vasti. In nessun altro paese analogo le condanne definitive ed infamanti ai principali esponenti (Berlusconi, Previti, Dell’Utri) di un’operazione politica di tale centralità non avrebbe lasciato segno sulla continuità dell’operazione stessa.Questo non è avvenuto perché la cornice politico-culturale seguita all’eclissi (parziale) di Berlusconi altro non è stata, e non è, che una nuova forma di berlusconismo. Uno stato della «miseria della politica» a cui Berlusconi ha dato corpo ed immaginario, ma che trascende la sua persona.
Ora questo quadro politico con un nucleo centrale sostanzialmente compatto, un nucleo centrale che è espressione di un reticolo di strutture anch’esso sostanzialmente compatto, si appresta a cercare conferma in una tornata elettorale assai vicina. Una tornata elettorale importante anche per una definizione non provvisoria, non immediatamente funzionale alla scadenza, del processo di costruzione (ahimé infinito e ed ancora inficiato da insopportabili tatticismi) di un campo di sinistra radicalmente critico e politicamente efficace. Un appuntamento importante, certo, ed è necessario lasciare un segno nei risultati, ma non è il caso di farsi eccessive illusioni su spazi elettorali facili da conquistare. Il risultato francese di Melenchon, quasi il 20%, ha alle sue spalle una durissima lotta sociale durata mesi e sostenuta dalla Cgt. Non mi pare che ci possano essere paragoni con la situazione italiana.
Per ora possiamo contare solo su una credibilità che deve venire da chiarezza di analisi e di obbiettivi. Leggo che il 29 maggio la capogruppo Mdp al Senato ha dichiarato: «… noi ragioniamo nell’ottica di un centrosinistra coalizionale». Ebbene chiarezza e credibilità significano ragionare esattamente nella maniera opposta.
Una speranza dietro l'apparente paradosso del filosofo sloveno: l'unica cosa buona di Trump è che la paura che genera può spingere i veri liberali a reinventare una nuova sinistra, come accadde nel secolo scorso.
il Fatto quotidiano online, 30 maggio 2017Ci sono due generalizzazioni sbagliate sulla società di oggi. La prima dice che viviamo in un’epoca di antisemitismo universalizzato: con la sconfitta militare del fascismo, il ruolo un tempo giocato dalla figura antisemita dell’ebreo è ora ricoperto da qualsiasi gruppo straniero che venga percepito come una minaccia all’identità: i latinos, gli africani e soprattutto i musulmani, che oggi nelle società occidentali vengono trattati sempre più come i nuovi “ebrei”.
L’altra generalizzazione scorretta è quella secondo cui la caduta del Muro di Berlino avrebbe portato alla proliferazione di nuovi muri allo scopo di separarci dall’Altro pericoloso (il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, il muro in programma tra gli Stati Uniti e il Messico ecc.). Tutto vero, ma esiste una distinzione fondamentale tra i due tipi di muri. Il Muro di Berlino rappresentava la divisione del mondo al tempo della Guerra fredda e, pur essendo percepito come la barriera che teneva isolate le popolazioni degli Stati comunisti “totalitari”, segnalava anche che il capitalismo non era l’unica opzione, che un’alternativa, benché fallita, esisteva. I muri che vediamo levarsi oggi, per converso, sono muri la cui costruzione è stata scatenata dalla caduta dello stesso Muro di Berlino, cioè dalla disintegrazione dell’ordine comunista; essi non rappresentano la divisione tra capitalismo e comunismo, ma quella immanente all’ordine capitalista mondiale.
Gli immigrati musulmani non sono gli ebrei di oggi: essi non sono invisibili, anzi, sono fin troppo visibili; non sono affatto integrati nelle nostre società e nessuno afferma che siano coloro che nell’ombra tirano le fila. Se proprio si vuole scorgere nella loro “invasione dell’Europa” un complotto segreto, allora si deve supporre che dietro ci siano gli ebrei, come afferma un testo apparso poco tempo fa in uno dei principali settimanali di destra sloveni, in cui si può leggere: “George Soros è una delle persone più depravate e pericolose del nostro tempo, responsabile dell’invasione delle orde negroidi e semiti – che, e dunque del crepuscolo dell’Unione europea. […] Essendo un tipico sionista talmudico, egli è un nemico mortale della civiltà occidentale, dello Stato-nazione e dell’uomo bianco europeo”. Il suo scopo sarebbe quello di costruire “una coalizione arcobaleno composta da emarginati sociali come i froci, le femministe, i musulmani e i marxisti che odiano il lavoro”, al fine di attuare “una decostruzione dello Stato-nazionale e trasformare l’Unione europea nella distopia multiculturale degli Stati Uniti d’Europa”. Quali forze dunque si opporrebbero a Soros? “Viktor Orbán e Vladimir Putin sono gli unici politici lungimiranti ad aver compreso appieno le macchinazioni di Soros e ad aver proibito di conseguenza l’attività delle sue organizzazioni”.
Se i Repubblicani radicali non facevano altro che attaccare Obama per il suo atteggiamento fin troppo morbido verso Putin, un atteggiamento che tollerava le aggressioni militari russe (in Georgia, Crimea ecc.), mettendo in questo modo in pericolo gli alleati occidentali in Est Europa, ora i sostenitori di Trump difendono un approccio sempre più accondiscendente verso la Russia. Come si possono unire le due contrapposizioni ideologiche, quella fra il tradizionalismo e il relativismo secolare e quella da cui dipende tutta la legittimità dell’Occidente e della sua “guerra al terrore”, l’opposizione tra i diritti individuali liberaldemocratici e il fondamentalismo religioso incarnato principalmente dall’“islamofascismo”?
Oggi la sinistra liberale e la destra populista sono entrambe bloccate in una politica della paura: paura degli immigrati, delle femministe ecc., o paura dei populisti fondamentalisti e via dicendo. La prima cosa da fare è compiere il passaggio dalla paura all’angoscia. La paura è paura di un oggetto esterno percepito come minaccioso rispetto alla nostra identità, mentre l’angoscia compare quando ci rendiamo conto che nell’identità che vogliamo proteggere dalla minaccia esterna tanto temuta c’è qualcosa che non va. La paura ci spinge ad annientare l’oggetto esterno, mentre l’unico modo per affrontare l’angoscia è trasformare noi stessi.
Le elezioni americane del 2016 sono state il colpo mortale al sogno di Francis Fukuyama, la sconfitta finale della democrazia liberale, e l’unico modo per battere davvero Trump e redimere ciò che vale la pena di salvare nella democrazia liberale è compiere una scissione settaria dal nucleo principale della democrazia liberale – in breve, spostare il peso da Clinton a Bernie Sanders, di modo che le prossime elezioni siano tra lui e Trump.
I punti del programma di questa nuova sinistra sono abbastanza semplici da immaginare. Ovviamente, l’unica reazione possibile al “deficit democratico” del capitalismo mondiale sarebbe dovuta passare per un’entità transnazionale. Non era stato già Kant a riconoscere, più di due secoli fa, il bisogno di un ordine giuridico transnazionale fondato sulla nascente società globale? Questo, però, ci riporta a quella che è verosimilmente la “contraddizione principale” del Nuovo ordine mondiale: l’impossibilità strutturale di trovare un ordine politico globale che corrisponda all’economia capitalista. E se, per ragioni strutturali e non solo per via di limiti empirici, non ci potesse essere una democrazia internazionale o un governo mondiale rappresentativo?
Il problema (l’antinomia) strutturale del capitalismo globale sta nell’impossibilità (e, al contempo, nella necessità) di un ordine sociopolitico che gli sia adeguato: l’economia di mercato non può essere organizzata direttamente come una democrazia liberale globale tramite elezioni universali. Mentre le merci circolano sempre più liberamente, i popoli vengono tenuti separati da nuovi muri. Trump promette la cancellazione dei grandi accordi di libero scambio difesi da Clinton. L’alternativa di sinistra a entrambi dovrebbe consistere in un progetto di nuovi e diversi accordi internazionali: accordi che impongano il controllo delle banche, accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed etniche ecc.
La grande lezione del capitalismo globale è che gli Stati-nazione non possono svolgere il lavoro da soli. Solo una nuova internazionale politica può forse contenere il capitale mondiale. Un vecchio anticomunista di sinistra una volta mi disse che l’unica cosa buona di Stalin era la paura autentica che suscitava nelle potenze occidentali. Lo stesso si può dire di Trump: la cosa buona è che spaventa davvero i liberali. Le potenze occidentali impararono la lezione e si concentrarono in modo autocritico sulle proprie mancanze, sviluppando lo Stato sociale. I liberali di sinistra saranno in grado di fare qualcosa di analogo? Per citare Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.
». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
Ora che siamo qui, a chiederci se nelle prossime elezioni politiche – tra quattro o dieci mesi, si vedrà – ci sarà una lista di sinistra sinistra, la prima domanda è: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Lo dico con un pizzico di incoscienza e un certo sprezzo del pericolo.
L’argomento di solito scatena il fuggi fuggi – nei media mainstream, tra giornaloni e tv – quasi quanto il parlare di legge elettorale. Il tutto viene seppellito da un chissenefrega irrisorio, buttato lì per impedire di vedere qual è la posta in gioco, procedere nella cancellazione dell’opposizione sociale e politica, non solo in Italia ma in Europa. Basta vedere come si commentano le elezioni francesi, o la campagna elettorale di Corbyn. Come se fosse davvero incomprensibile che programmi che si propongono semplici obiettivi di redistribuzione di ricchezza e riequilibrio del welfare possano raccogliere voti.
La cosa bizzarra è che il chissenefrega in Italia percorre anche le sparse sinistre, i movimenti, i singoli ormai privi di legami politici, come se si fosse espresso un medievale giudizio di dio: divisi siamo e divisi dovremo rimanere. Una specie di maledizione, una sorta di condanna per errori insormontabili, impossibili da espiare, tantomeno da perdonare.
Intendiamoci, responsabilità ce ne sono state. Ma sono convinta che il rancore infinito non porta a nuova vita, seppellisce per sempre sotto macerie che rimangono tali. Non mi sembra una responsabilità lieve, per costruire occorre rovesciare il punto di vista – do you remember revolution? – lasciare alle spalle passato, e puntare al futuro.
Il 4 dicembre lo ha detto con chiarezza. In una situazione in cui il voto ha permesso di esprimersi, il popolo ha votato no. Un no che si è visto di recente, sempre in Italia, anche in un altro referendum, che pure aveva quasi l’aspetto di un ricatto, quello dell’Alitalia. Un no sorprendente, tanto è vero che si è detto che era stato sbagliato chiedere il voto. Tanto stupisce che ci siano volontà, desideri, progetti, richieste che non stanno nelle compatibilità prestabilite, nei prezzi scaricati sempre e solo su chi lavora. Certo non tutto il no è di sinistra, sarebbe disonestà intellettuale sostenerlo. Eppure giovani, sud, donne, lì dove si sono espresse le percentuali più alte di no, chiedono a gran voce un cambiamento che solo una sinistra sinistra può portare.
Quindi lavoro, lavoro e ancora lavoro. I lavori frammentati, spezzati, svalorizzati dal Jobs Act – sul quale si è impedito il referendum e che ora si vuole re-introdurre per decreto – lavori che non si dividono più tra fabbrica e fuori, lavori di cura e lavori di produzione. Il neocapitalismo con la sua violenza senza maschere è entrato nella vita quotidiana. Basta vivere, per capirlo, la vita ordinaria, comune. Di chi usa i mezzi di trasporto, si cura con il servizio sanitario pubblico, frequenta le scuole pubbliche, o ci lavora. Di chi non ha vite extra-ordinarie, non può garantirsi servizi speciali e su misura, non può pagare le privatizzazioni. Di chi si vede tagliare compensi, contributi, pensioni. Basta vivere giorno dopo giorno nelle città che si vogliono impossibili, in cui vengono additati “nemici” a cui si vuole togliere umanità, per renderci tutti disumani.
E non sto divagando, parlo di elezioni, di liste e di politica. La sfida del presente richiede nettezza. Dunque niente centrosinistra. Chi continua a proporlo – per esempio Massimo D’Alema intervistato ieri dal Corriere – fa confusione, invece di diminuirla. Non giova alla chiarezza di un campo politico che ha bisogno di slancio, di certezze per cui motivarsi. E dire che ci sono segni evidenti che si può andare in una direzione comune: forze politiche, movimenti, la grande forza che spinto il risultato referendario per la difesa della Costituzione, intellettuali generosi, pronti a spendersi.
Ci vuole coraggio. L’umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione, accettare che il nuovo avrà bisogno di raccontarsi anche con facce nuove. Ma non c’è da averne paura. Ci sarà spazio per chiunque avrà filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi, la sfida è mantenere nello spazio pubblico la voce dei dimenticati e degli esclusi.
«Verso le elezioni. È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico di una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare a sinistra le alleanze elettorali».
il manifesto, 26 maggio 2017, con postilla
È bene che la riflessione a sinistra salga di qualità. Non è pensabile che il dibattito sulle “fondamenta” si riduca a questioni di schieramento. Un discorso cartesiano sul metodo si impone: la coalizione con il Pd non è il problema principale sul quale acciuffarsi. Prima delle alleanze viene il progetto, cioè l’idea che si coltiva della sinistra nell’Italia e nell’Europa di oggi.
Partire dalle fondamenta dovrebbe significare questo. Interpretare con efficacia la funzione che, in una data congiuntura storico-politica, è necessario svolgere.
In Europa le formazioni del socialismo sono in gravi difficoltà. Alcune sono già scomparse, altre attraversano dilemmi esistenziali profondi. Crescono offerte politiche più radicali, spesso in netta contrapposizione con una sinistra storica ritenuta troppo omologata agli imperativi di un sistema sociale contro cui cresce la rivolta.
In Italia manca un partito del socialismo europeo, essendo la confluenza del Pd nelle sue fila solo un ritrovato tattico. E vuoto è rimasto anche uno spazio più a sinistra paragonabile a quello occupato in Germania, Francia, Spagna. Tra un Pd troppo al centro e con una cultura liberale non riconducibile al socialismo europeo, e un M5S troppo ambiguo per essere percepito come una variante italiana di Podemos, esiste un margine per la costruzione di una più grande aggregazione della sinistra.
L’imperativo è di recuperare una autonomia politica e culturale rispetto al Pd e al M5S. In un quadro politico che pare confermare la propria ossatura tripolare, la sinistra deve uscire dalla coazione ad anteporre la questione delle alleanze (e cedere così al richiamo del voto utile) allo sforzo di precisare il suo ruolo politico-culturale di medio-lungo periodo. Non perché le alleanze siano da escludere (persino Lenin reputava impolitica ogni velleità di escludere per principio le intese e i compromessi). Ma perché non sono il punto di partenza, ma una eventualità da prendere in considerazione solo dopo aver misurato i rapporti di forza.
I rapporti di forza, appunto. Ci sono le condizioni per edificare una sinistra paragonabile alla Linke o alla sinistra francese e spagnola però anche più accorta politicamente e più curiosa nella sua cultura (contano ancora le ceneri di Gramsci?). Occorre una coalizione della sinistra, plurale e non residuale, radicale e però non sterile nel suo minoritarismo. Le fondamenta su cui deve poggiare la ricomposizione della sinistra sono le due grandi fratture che hanno spaccato il Pd e rotto la sua coalizione sociale: il Jobs Act e il plebiscito costituzionale.
Una nuova soggettività politica per decollare prima politicizza le fratture, cioè dà rappresentazione ai movimenti profondi che spostano i consensi perché scaturiti da questioni non effimere, e poi in parlamento si cimenta con i rapporti delle forze emersi dal voto.
Se si giunge a ottobre (o a primavera) con sterili accapigliamenti sulle coalizioni preventive con il Pd, o con repentine intese tra vecchie sigle indotte ad accordarsi solo per lo spavento della clausola di sbarramento, per la sinistra è finita. Serve perciò un salto logico, degno di un pensiero politico egemonico: la priorità è quella di dare espressione politica alle “fondamenta” (rotture su costituzione e lavoro rimaste impresse nelle coscienze collettive).
È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico-razionale di arrendersi a una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare alla sua sinistra le alleanze elettorali. Più che la dimenticanza delle lezioni del passato (l’arcobaleno naufragò come risposta tattica alla vocazione maggioritaria di Veltroni) colpisce la mancata comprensione dell’oggi. È in corso una lunga crisi di sistema che scongela le antiche culture politiche in Europa.
A questo sommovimento epocale occorre fornire una interpretazione politica. I fuoriusciti dal Pd, Si, i comunisti, le liste civiche o rispondono con intelligenza alla emergenza dello scongelamento delle culture politiche europee o precipitano nell’irrilevanza di chi ha il timore di osare nuove cose in tempi di svolta.
postilla
Più che ragionevole domandarsi prima "chi siamo e che vogliamo", e solo dopo "con chi vogliamo lavorare". Poco ragionevole non porre, tra le questioni nodali da affrontare e su cui schierarsi/riconoscersi, quelle planetarie del disastro ambientale e della crescente forbice tra popoli ricchi, o almeno benestanti, e popoli poveri, o addirittura privi di tutto. In una parola, quelli del capitalismo giunto alla sua fase attuale. Hic Rhodus, hic salta. E' su questo punto che è avvenuta la frattura tra il renzismo e la tradizione/posizione del comunismo italiano, da Gramsci e Togliatti a Berlinguer. Dopo di che, una volta definito la "identità", si potrà ragionare sul con chi allearsi per fare qualche passo significativo nelle direzione giusta (e.s)