loader
menu
© 2024 Eddyburg

Roverè Veronese è un comune montano di poco più di duemila abitanti, con un'economia agricola, turistica, e legata alla trasformazione del latte. È anche uno dei paesi che rivendicano la nascita di Bertoldo, paradigmatico contadino furbo. Ma soprattutto, Roverè è il luogo dove all'ultimo referendum sulla cosiddetta «autonomia», fortemente voluto dalla Lega Nord trascinandosi appresso quasi tutti gli altri, si è stabilito il record assoluto di votanti, col 76% degli aventi diritto che si è recato ai seggi, conquistandosi il titolo di capitale morale della «Repubblica Autonoma dello Zaiastan». Un territorio forse immaginifico e immaginario, questo dello Zaiastan, ma che come osservano molti analisti dei flussi elettorali si può anche fisicamente articolare su una mappa geografica seguendo determinati contorni e schivandone accuratamente altri. Il percorso logico dei vari approcci delle discipline sociali e politiche classiche al territorio ha però una caratteristica (forse una virtù, da quello specifico punto di vista) nel suo disegnare mappe, ed è una sostanziale a-spazialità. Vale a dire una tendenza prevalente a proiettare su un territorio tabula rasa qualche informazione semplice, che siano opinioni o fatti socioeconomici, e a volte poi provare a confrontarli e sovrapporli ad altri. Il che va benissimo ma spesso prescinde per sua natura dalla complessità spaziale che definisce luoghi e identità.

E se non altro rallenta, in questo lento e sostanzialmente casuale accumularsi di approssimazioni successive che vogliono essere analitiche e quantificabili, l'acquisizione del dato di sintesi, noto là dove questi processi o sono più sedimentati, o semplicemente hanno avuto un approccio meno disarticolato: non esistono in realtà degli specifici Zaiastan o territori dominati da qualche divinità politica con poteri spirituali e temporali magici, ma molto semplicemente dei territori fisici e socioeconomici che regolarmente orientano i propri consensi verso una certa offerta politica. Detto ancor più terra terra e in linguaggio volutamente brutale: l'idiotismo della vita rustica vota conservatore, l'aria della città rende liberi di votare progressista. E tutto questo, precisiamo, spesso indipendentemente da chi propone quelle istanze, vale a dire dal colore della bandiera che sta occasionalmente sventolando, destra, sinistra, centro, libertà, solidarietà, sussidiarietà e via dicendo. Capita però che l'intuizione di questo abbastanza inafferrabile cocktail si focalizzi su un simbolo, ed è allora che scattano al tempo stesso l'altra intuizione (proiettare sul territorio) e la confusione (inventarsi il Regno del Celeste o analoghi).

Caratteri del «contado» politologico: né densità né addetti agricoli
(skyline di Buccinasco da Milano, foto F. Bottini)
Forse non è un caso, se stavolta l'attenzione della politologia si è concentrata sul Veneto, ovvero sul territorio che da decenni ormai vanta quel proprio ambiguo neologismo socio-insediativo detto «città diffusa» per verniciare nobilmente l'obbrobrio ambientale dello sprawl, con una patina di millenaria speranza in un luminoso sol dell'avvenire. Nel territorio amministrativo lombardo adiacente il cosiddetto Zaiastan è forse meno lineare da definire, anche per via del nome diverso di Maroni, ma in realtà proprio nelle pianure e valli della Lombardia si può trovare esattamente conferma al medesimo fenomeno, semplicemente oscurato dall'incomoda presenza della Alamo milanese, oscena concrezione metropolitana (dal punto di vista della destra politica naturalmente) di valori meticci, genericamente progressisti, identitari giusto quando si tratta di trovare qualche etichetta Doc o Dop a valorizzare un prodotto locale. Una questione di densità edilizia, da analizzare su dati satellitari e rilievi campione locali come si fa col consumo di suolo per usi urbani? Certamente no, come ben sa chiunque si sia mai occupato della parolina magica sprawl: l'urbanizzazione dispersa pur avendo solidi intrecci con le infrastrutture di trasporto, l'impermeabilizzazione relativa del suolo, ciò che insomma il nostro conservazionismo spontaneo ha bollato da un po' con lo schifato termine «cementificazione», è ben altro.
È il vivaio, lo zoccolo duro e sinora inscalfibile, del consenso conservatore reazionario più incarognito, fabbrica di sostanziale antipolitica che vede nella triade famiglia-lavoro-piccola patria l'unico orizzonte di vita possibile, e tutto ciò che sta fuori di esso come incombente minaccia aliena. Il voto è l'equivalente del ringhio minaccioso del cane dal buio oltre la siepe della villetta o palazzina familiare, quell'idea di «casa mia» frattale che si moltiplica senza la soluzione di continuità di alcuno spazio pubblico. Posti dove solo certa forse strumentale fresconaggine ideologica da architetti-urbanisti post-qualcosa può cercare di infondere vaga aria di libertà, ribattezzando il tutto Urbs in Horto ovvero ripescando dall'Ottocento industrial-contadino una delle radici del pensiero suburbano classico. E in fondo ricercando, chissà perché e chissà come, l'ennesima uscita laterale «senza fratture» dalla tradizione contadina del localismo familiare. Mentre invece queste fratture, diciamo in altre parole questi conflitti, andrebbero addirittura promossi e somministrati ad hoc, anche se auspicabilmente governati. Altrimenti toccherà aspettare che quella frattura arrivi, senza ammortizzatori, dallo spazio globale esterno dentro cui anche quei processi di impropria urbanizzazione dispersa si collocano, lasciando che nel frattempo gli Zaia, i Maroni, e tutti gli altri che più o meno alla loro ombra campano di piccolo cabotaggio rappresentando interessi vari, con le loro politiche di «sviluppo del territorio» edilizio-autostradali, riproducano tecnicamente e per clonazione il proprio collegio elettorale ideale. Sarà anche il trionfo di Bertoldo, ma non c'è niente da ridere.
www.cittaconquistatrice.it

il manifesto, 18 ottobre 2017. Un intervento del nostro opinionista nel dibattito sulla sinistra. Per un disguido ci è giunto in ritardo, ma il suo interesse ci sembra immutato

E’ ormai evidente, uno spettro si aggira per i cieli della politica italiana e minaccia la nostra prospera democrazia: la Cosa Rossa. Nessuno sa precisamente che cosa sia, ma assume già caratteri inquietanti. Giuliano Pisapia, che non è ancora riuscito a trovare «la formula che mondi possa aprirci», la indica ormai montalianamente come «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», una deriva minoritaria da scansare come la peste. Il giornalismo politico, che spesso va in cerca di sigle semplici, da qualche tempo la considera come l’indistinto coacervo dell’estremismo italiano. Fabrizio D’Esposito, ad esempio, riferisce « dell’inclinazione massimalista a fare una Cosa Rossa» a sinistra del Partito Democratico. (La corsa a contendersi il mito dell’Ulivo, Il Fatto quotidiano, 10 novembre 2017), contrapposta a «una spinta riformista». Ma pare che la paura per l’indistinta creatura dilaghi anche tra le più alte cariche dello Stato. Circola voce secondo cui la presidente della Camera, Laura Boldrini, «appare lontanissima dalla “Cosa rossa” » (Daniela Preziosi, "MdP-SI verso l’accordo", , 10/10/ 2017). Destino delle parole. E pensare che il termine, il terribile sintagma, apparso lo scorso anno sulle cronache politiche di tutta la stampa italiana, era stato coniato per designare qualcosa di nuovo che stava nascendo a sinistra del PD. Ma destino anche della vita politica di questo davvero malmesso Paese.

Per mesi a sinistra (come del resto a destra, ma forse meno) non si è dibattuto che di posizionamenti, di qua o di là, di leader, questo o quello, di partecipazioni consentite e vietate, tu si tu no, e mai un ragionamento programmatico, una indicazione di contenuto strategico che illuminasse la scena della depressa vicenda politica nostrana. Appena si fa un accenno ai contenuti si ricorre a formulette di pronto uso. Ma in questo caso la semplificazione non è innocente. La Cosa Rossa sta diventando un dispositivo ideologico per bollare con il marchio infamante dell’estremismo, del minoritarismo, del velleitarismo, del massimalismo (altri ismi si aggiungeranno a breve) le uniche forze politiche realmente ispirate da un progetto riformatore. E’ davvero singolare vedere bollati Sinistra Italiana, Possibile, il movimento civico di Tomaso Montanari e Anna Falcone come esponenti di un progetto estremista.

Qualcuno ha avuto la pazienza di leggere la Piattaforma programmatica di Sinistra Italiana, che ha celebrato il suo congresso fondativo nel febbraio di quest’anno? Qualcuno ha trovato velleitarismi eversivi nel discorso di apertura di Montanari al Brancaccio, un esponente che vuole fare dell’applicazione della nostra Costituzione l’asse di un programma strategico? Saremmo al ridicolo, se non fossimo al tragico, alle ulteriori prove di una degradazione culturale della politica nazionale che non sembra conoscere confini. La difesa e l’applicazione della Costituzione diventano programmi eversivi, nonostante il 60% degli elettori italiani abbiano da poco votato per la sua intangibilità.

Ma sotto l’immiserimento colturale o, meglio, di conserva con esso, si cela una trama di pratiche politiche oggi dominante nel fronte che si definisce riformista. La sinistra diventa una Cosa Rossa innominabile e infrequentabile perché impedirebbe le necessarie alleanze con le pattuglie parlamentari del trasformismo militante degli Alfano o dei Lupi, e di qualunque altro transfuga si presti alla bisogna. L’intransigenza politica e morale diventa così settarismo, impedisce elasticità di manovra, flessibilità e adattabilità nelle alleanze. Per alcuni esponenti di MDP e per tanti di Campo progressista, infatti, il riformismo che conta è quello che si fa dai banchi del governo, con buoni piazzamenti negli scranni del Parlamento, e consistente nella realizzazione di “quel che si può”, senza rischiare troppo, tenendo nel debito conto gli equilibri dominanti. Primum vivere.. E’ tale riformismo, indistinguibile da quello del centro-destra, che ha ispirato negli ultimi anni le magnifiche sorti e progressive dell’Italia di oggi.

Micromega



“Va costruita una via italiana per una nuova sinistra che abbia come pilastro il protagonismo dei cittadini”. I modelli da seguire? “Corbyn e Podemos sono le due esperienze che guardo con maggiore interesse”. Anna Falcone, avvocato cassazionista e combattiva leader dell'Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza, sta provando insieme a Tomaso Montanari a creare per le prossime politiche del 2018 una lista unitaria di sinistra, ma con facce e schemi rinnovati: “Gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti, la chiave del cambiamento sta nella partecipazione”.

Anna Falcone, il momento è veramente ora? Esiste lo spazio politico per un soggetto a sinistra del Pd?
«Il momento era buono già dopo la vittoria del 4 dicembre. Ma non è troppo tardi, siamo ancora in tempo: con il voto referendario – che ha rispedito al mittente la riforma costituzionale ispirata al modello dell’“uomo solo al comando” – è maturata nel Paese la consapevolezza che esiste un’alternativa possibile a quelle politiche neoliberiste di precarizzazione del lavoro, mercificazione dei diritti e cancellazione dello Stato sociale che hanno attraversato gli ultimi governi. E c’è un popolo vastissimo pronto a sostenere una forza politica che se ne faccia interprete. A condizione di segnare una netta rottura con il passato, di ridare protagonismo alla partecipazione dei cittadini, di rivendicare senza compromessi i diritti che ci sono stati tolti per costruire una società più giusta, inclusiva e realmente fondata sul riconoscimento dei talenti e sulla solidarietà sociale».

Lo scorso 18 giugno, al Teatro Brancaccio di Roma, è nata l'“Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza”, un nuovo soggetto che mira a rilanciare la Sinistra nel Paese attraverso il protagonismo dei cittadini. A quasi 4 mesi da quell'esordio, qual è la situazione?

«Più che un nuovo soggetto, direi un percorso democratico che mira a creare uno spazio aperto ai singoli cittadini, alle forze civiche e politiche, alle realtà sociali che vogliono impegnarsi in un percorso di costruzione della “Sinistra che non c’è ancora”. Non è un tentativo di mettere insieme i cocci del vecchio ceto politico, ma di costruire, anche in Italia, una forza capace di interpretare la voglia di partecipazione, di riscatto. Gli obiettivi sono da un lato creare un fronte unito e plurale in grado di contrastare le riforme dettate da un turbocapitalismo rapace a governi deboli e forze politiche autoreferenziali; dall'altro dar vita, in prospettiva, anche in Italia, a una forza politica capace di invertire la rotta di un modello di sviluppo fondato sulla cancellazione dei diritti e sullo sfruttamento cieco e dissennato dell’ambiente, territorio, delle risorse artistiche e culturali del Paese».

Cosa ne pensa della nuova legge elettorale in discussione? Siamo ad una nuova legge truffa?
«È il vergognoso prodotto di una maggioranza eletta con una legge incostituzionale, che – avendo fallito con l’Italicum l’obiettivo di tornare a blindare candidature, eletti e composizione del Parlamento – ricorre oggi a un accordo con i partiti di destra, con cui mira a governare per reiterare le politiche neoliberiste di cui entrambi sono stati promotori. Lo scopo non è dare una legge elettorale più giusta al Paese (il Consultellum con soglie equiparate fra Camera e Senato sarebbe stato più che sufficiente), ma favorire un governo di larghe intese PD-Destre, impedire agli italiani di scegliere candidati ed eletti, mortificare i partiti di opposizione, Sinistra e M5S. Il dramma è che, nella preoccupazione di mantenere ben saldo il potere nelle loro mani, hanno ulteriormente minato la fiducia dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni. Insomma, le forze della futura “santa alleanza” che si presenta come l’unica alternativa possibile (sempre l’unica eh!) per salvare il Paese dai “populismi” è la prima vera causa della fuga dalle urne e del rifugio nel voto di protesta e di rottura».

So che lei è intenta a costruire la Sinistra dai territori ma come giudica la rottura tra Giuliano Pisapia e Mdp-Articolo 1? Pisapia andrà con Renzi ed Mdp si metterà a servizio per la costruzione del Quarto Polo?

«Pisapia ha un progetto diverso da quello del popolo di Mdp: lui vuole ricostruire il centro-sinistra (che non c’è più) anche con Renzi. La sinistra del Pd che, dopo un lungo travaglio, è andata via dal Partito democratico, perché non si riconosce più nei suoi metodi e nelle sue politiche, vuole costruire un progetto autonomo fondato sul rilancio dei diritti e, giustamente, incompatibile con Renzi. Non è solo una questione di “geometrie politiche”, ma di credibilità. Non so dove andrà Pisapia, ma gli iscritti di Mdp partecipano già alle nostre riunioni sul programma, insieme a molti elettori delusi del Pd, e c’è un dialogo aperto per costruire un Polo civico e di Sinistra».

In realtà Massimo D'Alema ha ripetuto più volte che vuole ricostruire il centrosinistra ma che ciò richiede una discontinuità di contenuti e di leadership. Anche Anna Falcone vuole ricostruire il centrosinistra senza Renzi? Siete in sintonia?

«D’Alema ha compreso con grande lucidità, e prima di altri, che quello che manca al Paese è una grande forza politica che torni a rappresentare i diritti e le ragioni del lavoro, dei giovani senza futuro, della vecchia classe media che non esiste più, che è molto più a sinistra di noi e che non vota, né voterebbe mai questo Pd. Noi lo sosteniamo fin dall’inizio: quello da riconquistare non è un partito che è stato scippato di mano, e non ci interessano i regolamenti di conti fra vecchia e nuova dirigenza, ma un elettorato enorme e disperso che si astiene o che si rifugia nel voto di protesta. Un popolo che vorrebbe contribuire a un progetto più grande, che ambisca a costruire un futuro alternativo per questo Paese. Per farlo non bisogna stringere accordi con Renzi: il suo modello sociale lo abbiamo sotto gli occhi ed è incompatibile con questo progetto. Non bisogna insistere in politiche di compromesso, altrimenti vince la destra. Per essere coerenti con la costruzione di questo spazio politico nuovo e conseguenti con questi obiettivi occorre riconnettersi con un popolo senza guida e senza rappresentanza, un popolo vivo – e l’abbiamo visto il 4 dicembre – che freme per tornare a contare, a sognare, a costruire insieme un mondo migliore».

Ma riuscirete a fare un Quarto polo che andrà da Mdp a voi del Brancaccio passando per Sinistra Italiana, Possibile e Rifondazione? Una sola lista di sinistra, è questo l'intento? Lavora per questo?

«Una sola lista civica e di Sinistra, lo abbiamo detto nel nostro appello e lo ribadiamo. Ci sono tutti i presupposti e sono fiduciosa. La sfida non è solo la lista, ma costruire, anche in Italia, la via per la nuova Sinistra, una forza partecipata, innovativa e lungimirante, che possa imprimere alla politica quella svolta prodotta da Podemos in Spagna e da Corbyn nel Regno Unito. Solo per citare due esempi che, uniti a quello francese, dimostrano come la Sinistra vince solo se unita e se torna a fare la sinistra, a lottare per i diritti e su proposte concrete e alternative, con coraggio e senza compromessi».

Se alla fine andrete divisi – serpeggia malumore per l'alleanza con D'Alema e Bersani - non sarà impossibile raggiungere la soglia per entrare in Parlamento?

«Confido nel senso di responsabilità di tutti: la posta in gioco è molto alta ed è più importante degli interessi dei singoli pezzi e leader. Non abbiamo paura di sparire, ma di avere un Parlamento con tre diverse destre e un popolo fuori non rappresentato».

Ultima cosa, fondamentale: non teme che finirà con la solita sommatoria dei ceti politici simil Arcolabeno o Lista Ingroia? Perché questa volta dovrebbe essere diverso che in passato?
«Perché gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti e anche loro hanno imparato che non ci sono leader salvifici che possano risolvere da soli i problemi di tanti. La chiave del cambiamento sta nella partecipazione. Una consapevolezza ormai chiara anche nei leader degli attuali partiti di sinistra: quando il futuro arriva, sopravvive solo chi sa interpretarlo. Questa è la stagione del coraggio: più ne avremo, più gli elettori ci premieranno».

il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2017.

Esce Pisapia, entra la “sinistra del Brancaccio”. All’indomani della rottura con l’ex sindaco di Milano, lo scenario si aggiorna: Tomaso Montanari e Anna Falcone presentano la loro iniziativa con una conferenza nella sede di Stampa Romana. “Vogliamo la sinistra che non c’è”, dicono. Ovvero: una lista civica, nata dalla battaglia in difesa della Costituzione e costruita dal basso. Da fare anche insieme ai partiti – da Mdp fino a Rifondazione comunista – purché non siano i partiti a guidarla. Stelle polari: gli spagnoli di Podemos e i laburisti di Jeremy Corbyn.

Falcone e Montanari, insomma, vogliono contribuire alla nascita della lista unitaria – di cui si parla ormai da mesi – ma solo alle loro condizioni. Lo storico dell’arte lo spiega con una battuta. Neanche a dirlo, su Massimo D’Alema: “Abbiamo perso tanti mesi a discutere su chi dovesse guidare l’autobus (Pisapia, ndr), non è il caso di perdere tempo anche sui passeggeri”. Un messaggio feroce: se qualcosa può nascere a sinistra, i partiti non devono guidare un bel niente. D’Alema e Bersani sarebbero “passeggeri” e non conducenti. “Chi ha già avuto a lungo incarichi politici – spiega – potrebbe fare un passo di lato”. Montanari (forse involontariamente) utilizza la stessa, identica espressione di Pisapia su D’Alema. Ieri, per inciso, l’ex premier è stato omaggiato anche da uno dei suoi nemici storici: Achille Occhetto, l’uomo della svolta dal Pci al Pds, era di passaggio alla Camera. Interpellato su D’Alema, ha sibilato: “L’Italia è ancora nelle mani di un serial killer”… La replica del lider Maximo a Montanari arriva nel pomeriggio, da Milano.

Con la proverbiale ironia: “C’è chi mi chiede un passo in avanti, chi indietro e chi di lato. Sembra di essere alla scuola di tango”. D’Alema è in versione battutista: “Pisapia ha detto di volersi accordare con Renzi. Se non ci riesce ci siamo noi. Ma tra noi e il Pd, Giuliano rischia di stare stretto: non vorrei che alla fine sia lui a fare un partitino, che magari prende il 3%…”. Poi però si fa più serio: per l’ex sindaco, dice, le porte sono ancora apertissime. Viste le cronache di questi giorni, è una notizia: “Pisapia rimane il primo interlocutore”. E aggiunge: “Il nostro è un processo aperto. Speriamo possa starci anche Campo progressista”.

Quella che è stata raccontata come una rottura, dunque, potrebbe non essere ancora tale. Al massimo un’accelerazione: “Non si poteva continuare a tergiversare – spiega D’Alema – perché le elezioni sono vicine e andare avanti senza avere né un nome né un simbolo non sarebbe stato giusto. Così ci ha pensato Roberto Speranza”. Lo stesso Speranza che D’Alema definisce “leader” della nuova sinistra.

La confusione, nell’universo al di là del Pd, continua a regnare. Ricapitolando: c’è la proposta civica di Falcone e Montanari, la rottura (o presunta tale) con Pisapia, le ondeggianti posizioni dei padri nobili di Mdp, le richieste di Pippo Civati e Nicola Fratoianni. Il famoso “campo largo” per adesso è ancora un campo di battaglia.

Se ne capirà qualcosa in più in vista del 19 novembre, la data indicata da Speranza per l’assemblea fondativa. Fondativa di cosa, non si sa: sarà la costituente di Mdp o l’atto di nascita di una nuova lista unitaria? Risponde Speranza: “Sarà aperta a tutti coloro che vogliono costruire un’alternativa progressista alle politiche sbagliate di Renzi”. Chi vivrà, vedrà.

postilla

Difficile immaginare che si possa essere così vecchi come dimostra di esserlo la vecchia sinistra. Pensare che D'Alema, Bersani e Pisapia possano vincere contro la lista che scaturirà dall'"Alleanza popolare democrazia e giustizia" rientra nel campo delle possibilità, pensare invece che possano stare insieme di fronte agli elettori significa non aver compreso nulla. Se non lo hai letto, scorri l'articolo Una tesi sulla sinistra.

Qualche idea per le prossime elezioni politiche, nella speranza che siano elezioni vere e non una nuova truffa
Le elezioni politichesi avvicinano. Non sappiamo ancora con quale strumento quelli che comandanooggi ci obbligheranno a ridar loro il potere. Meno che meno sappiamo seriusciremo a sconfiggerli.

Comunque, poiché abbiamoimparato che le idee hanno mani e piedi, vogliamo contribuire alla campagnaelettorale con alcune idee che ci sembrano ancora valide. Esse partono da unassunto, da cui prende avvio il documento Democrazia e uguaglianza di Anna Falcone e Tomaso Montanari”: «La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide. Èpensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso einnovativo? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta»
UNA TESI sulla “Sinistra”
di Edoardo Salzano

Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente,in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIXe XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella“predicazione” socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi haproseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazionedeterminante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nelPCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.
Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente neglianni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido,si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicendautilizzando quattro parole chiave: globalizzazionecapitalista, sviluppismo, migrazioni, disoccupazione
1.Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesadelle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnatole varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando leforme e i limiti dello sfruttamento riuscendo, a al tempo stesso, in gran partedel mondo, i principi della Rivoluzione liberale dove essi consentivano ilmaggior peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.
Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestònegli anni delle Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altreclassi subalterne si era affermata come prima forma di un ordinamento nuovo (il“socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il “comunismo”).Esso tuttavia non aveva “rotto la catena del potere capitalista nel suo “puntopiù alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel “puntopiù basso” (là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocraziazarista e dalla servitù della gleba).
In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere delcapitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave delcapitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, ilGiappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì. Sperimentazione dinuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.
Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascistadegli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevanole due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello“privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi delliberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciava l’umanità:la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.
Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacquela nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: laDottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevanocondotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza dimolti stati dell’Africa.
Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”.

2.Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito”l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppureaveva subìto senza comprendere né reagire) in alcune operazioni che hannoradicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie edelle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto deipoteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definitodai diversi analisti: da “Neoliberalism”(David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).
Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere eoperanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana inmolte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistredel passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuataquando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classilavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamene eun ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi ladenuncia di Lenin in L’imperalismo fasesuprema del capitalismo).
E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “lacredenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Losviluppo, Storia di una credenza occidentale) Qualcosa che è molto più che unaideologia o una convinzione razionale, ma è unafede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento dellacapacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolutetecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.
La cecità di questa credenza è risultata evidente quando leragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dellosviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarloin dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica. E quando poi i fenomeni planetariconnessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, ilsurriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimentodei ghiacci).
Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato adiventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimastaincollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha inventato a slogan,strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.
È nata così la “green economy”: un aggiustamento marginaledel sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile.Il camuffamento operato dalla Commissione Bruntland, che ha fornito così oltretuttouna parola, “sostenibilità”, da pronunciare orerotundo da tutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affariall’altra creatura della cecità della “vecchia sinistra: il Neoliberalism.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se siesamina il ruolo svolto dalla “sinistra” nei confronti dell’altra grandetragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprenderel’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dellosviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin erasopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, poteredominatore molto al di là dello sfruttamento economico: potere capace diplasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono adasservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandimanifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si sianospente dopo la ventata del 1968. come se la sinistra si fosse ormai rassegnataalla vittoria definitiva del capitalismo.
Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello“sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le causedel dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciarecompletamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare pereliminare le cause dalle migrazioni provocate da guerre e persecuzioni,carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere etrasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione

Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridottoogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare difronte al crescente dramma dalla disoccupazione.
Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e dellavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi alcapitalismo: «Perforza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisichee intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivented'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso diqualsiasi genere. (Capitale, libro Primo, sezione III); «In primo luogo il lavoro è unprocesso che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzodella propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra sestesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze dellanatura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturaliappartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, perappropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).
Partendo da questa premessa e sviluppandola grazieal lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytorialen. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo nonsolo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasifine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utileapplicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate allaricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e allacomprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressiviimpiegabili.
Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbeessere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. Èl’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non illavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico.
Possiamo parlare di “comunismo”? non so. Soche si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembral’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questosistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, enon è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi:la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, ladisoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibileallora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli chehanno sbagliato (e continuano a sbagliare?).
L’errore di fondo della sinistra è stato quello dinon aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e conquel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza,era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorrevariprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e nonconsumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni.Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista?Forse, ma non solo parolaia.
Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questadirezione con i protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, dellasinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.
Non so quanta parte dell’elettorato che si àallontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, odelle mancate risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certoche l’offerta politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari, "Alleanza popolare per la democrazia e l'uguaglianza" sia immediatamente percepita nella suaconsistenza rinnovatrice. Così come, del resto. sono abbastanza sicuro chequella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultatisignificativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza unastrategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattichevalide. Perciò è probabile che nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora unavolta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dallastrategia preferita, nella speranza che sia l’ultima volta.

il Fatto Quotidiano,

HANNO DISTRUTTO

I NOSTRI VALORI
di Tomaso Montanari
Antonio Padellaro scrive che se la sinistra non sarà rappresentata nel prossimo Parlamento, i responsabili faranno “bene a espatriare”. Sono d’accordo: è per questo che, il 18 giugno scorso, ho lanciato – al Teatro Brancaccio, con Anna Falcone e quasi duemila persone – un appello per “una sola lista a sinistra”.
Ma non parliamo della stessa “sinistra”. Padellaro è convinto che il Partito democratico ne faccia parte, e che le divisioni dentro e fuori quel partito siano tutte imputabili alle “inimicizie personali” di Matteo Renzi e ai simmetrici personalismi dei troppi leader che si contendono il “comando”. Ma se c’è una cosa che appare chiara proprio leggendo il Fatto Quotidiano è che il Pd è un partito che da tempo non ha nulla a che fare con la sinistra: esso ha invece preso il posto della vecchia Democrazia cristiana, senza averne tuttavia la cultura né una sinistra interna altrettanto efficace e preparata. È il partito del potere: perché ha inteso il potere come un fine. L’unico.
L’Italia così com’è (segnata dalla massima crescita europea della diseguaglianza, Regno Unito escluso) è un prodotto del Pd, che – insieme ai partiti di cui è erede, nella formula del centrosinistra – ha governato più a lungo di Berlusconi. Lo smontaggio dello Stato, la distruzione del pubblico e la negazione sistematica di pressoché tutti i principi fondamentali della Costituzione sono da imputare al Pd almeno quanto a Forza Italia.
Arrivati a Renzi, il problema non è stato il “personalismo” (pure odiosamente pervasivo): ma la definitiva distruzione dei diritti dei lavoratori (Jobs act), la spallata finale alla scuola pubblica (la Buona scuola), la mazzata inflitta all’ambiente (lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi), la mercificazione completa del patrimonio culturale e la fine della tutela (la “riforma” Franceschini) e via elencando. Con Minniti, poi, siamo arrivati all’eradicazione dell’articolo 10 dalla Costituzione e a una politica securitaria per la quale i militanti di Fratelli d’Italia e Lega si spellano le mani. Un partito che blocca lo Ius soli mentre approva un maxi-condono per l’abusivismo edilizio: è questo il Pd.
A “espatriare” farebbe bene una sinistra pronta a sostenere e prolungare tutto ciò. Votare Pd per fermare la destra vuol dire ripetere l’errore di chi era convinto che la visione di Sanders fosse utopica e minoritaria e ha imposto la Clinton in nome del “realismo”: sappiamo com’è finita. Fermare la destra facendo la politica della destra serve solo a rinviare lo schianto finale, rendendolo ancora più devastante.
In tutta Europa sono nati movimenti radicali di sinistra (che usino o meno questa parola nel loro nome), che contestano alla radice lo stato delle cose e le politiche di centrosinistra degli ultimi vent’anni, rigettano il dominio della finanza sulla politica e rivendicano il diritto di governare puntando al “pieno sviluppo della persona umana” e non obbedendo al mercato. Tutti partiti meno “a sinistra” di papa Francesco, sia chiaro: tanto per dire quanto sia insensato parlare oggi di “centrosinistra” sul piano culturale.
Manca quasi solo l’Italia, e spero che il percorso del Brancaccio possa – con il tempo che ci vorrà – generare qualcosa di simile. Ma un simile progetto non può certo iniziare sostenendo gli alfieri dello stato delle cose. Alle prossime elezioni ci saranno tre, diverse, destre: quella padrona del marchio, i 5stelle di Di Maio e il Pd di Renzi. Una sinistra che voglia rovesciare il tavolo dello stato delle cose non può allearsi con nessuna delle tre.
E i numeri? Si può decidere di rivolgersi solo al 50% che vota, o decidersi finalmente a parlare all’altra metà del Paese, con un linguaggio nuovo e radicale. È la metà riemersa il 4 dicembre, determinando la vittoria del No: laddove i flussi elettorali dimostrano che l’85% dei votanti Pd ha scelto il Sì.
Siamo, dunque, a una scelta di campo. L’oracolare Giuliano Pisapia ha infine detto che sarà al fianco del Pd, mentre MdP deve ancora decidere: tutti gli altri vogliono un quarto polo. Non so come finirà: ma se ci si divide tra chi vuole lasciare tutto così com’è, e chi vuole invertire la rotta non è uno scandalo, è onestà intellettuale. Lo scandalo è non averlo fatto prima: oggi saremmo al 20 per cento. O al governo.
MA NON TUTTI
SONO COME RENZI
di Antonio Padellaro
Sulla sinistra (ancora) possibile, Tomaso Montanari riesce a dire e a scrivere cose che restituiscono speranza. Poi però esiste la dura realtà quotidiana che la buona politica può certo trasformare, non prima però di aver compreso. Mi limito al dato citato a proposito del Referendum costituzionale: pur avendo la riforma imposta da Matteo Renzi “straperso” nel Paese, l’85% dei votanti Pd ha scelto il Sì.
Dunque la domanda è: assodato che per tutte le ragioni esposte da Montanari il renzismo è il degno erede del berlusconismo, come mai pur avendo perso per strada larghe fette di consenso quel Pd continua a ricevere i voti di tanti milioni di italiani? Eredi del berlusconismo anch’essi? Tutti democristiani di ritorno? Tutti che, come le famose scimmiette, preferiscono non vedere e non sentire pur di continuare a subire gli effetti delle diseguaglianze e della distruzione progressiva della cosa pubblica? Come cronista del Corriere della Sera, poi come direttore dell’Unità ho conosciuto quel mondo: anche se qualche anno è trascorso sono convinto che, al di là di un ceto politico spesso impresentabile, nella base di iscritti ed elettori esso resti una realtà largamente ancorata ai valori fondanti della sinistra. Paradossalmente anche a quelli che il renzismo non ha fatto altro che rinnegare. Allora perché diavolo restano nel Pd invece di procedere a quella “scelta di campo” che nel loro stesso interesse sembrerebbe inevitabile? Non lo fanno, caro Montanari, perché non si fidano. Né dei Cinque Stelle, per molte delle ragioni su cui sicuramente concordiamo. Ma neppure intendono dare ascolto a coloro che a nome della sinistra dicono di parlare dando tuttavia di quella stessa sinistra un’immagine fumosa, rissosa e alla fine politicamente ininfluente. E allora, in mancanza di meglio prendono quello che c’è. “Parlare all’altra metà del Paese con un linguaggio nuovo e radicale” è un progetto entusiasmante a cui auguro di cuore le migliori fortune.
Nel frattempo, per affrontare quella dura realtà quotidiana sempre più stretta tra il ritorno della destra e l’incognita pentastellata suggerirei di compattare “quello che c’è”. Magari dialogando con chi nel Pd pensa di rappresentare molte delle cose di sinistra di cui tu parli, per nulla rassegnato a lasciare le cose come stanno. Non provarci, considerare il Pd un partito perduto alla causa, significa fare soltanto il gioco di Renzi. Ne vale davvero la pena?


Quello che a Padellaro sfugge è che il mutamento non sta solo nel fatto che un berlusconcino come Matteo Renzi si sia impadronito di ciò che restava del Pci, ma che è cambiato il carattere antropologico degli ex militanti della sinistra italiana, e che contemporaneamente è cambiato il mondo nel quale la vecchia sinistra combatteva. Il personale che è rimasto nel PD di Renzi e che continua a votare per lui è costituito da schegge della sinistra del millennio scorso, ma il significato di quella sinistra non ha più alcuna rilevanza di fronte ai problemi dei nostri giorni (vedi il nostro La parola "Sinistra". Da qui anche la profonda disaffezione verso i partiti di quell'epoca scomparsa, e il fenomeno dell'astensione dal voto.. L'intelligenza politica di Anna e Tom è di aver compreso questo cambiamento e di avere di conseguenza proposto una piattaforma politica radicalmente diversa da quelle delle tradizionali sinistre Per quello che so di loro, non verranno mai a patti: non si metteranno nella situazione in cui "le mort saisit le vif"("il morto afferra il vivo", e lo trascina con se).

Huffington post,

Leggo oggi sul Corriere della sera che: "Fra un paio di giorni, quando sarà rientrato dalla Palestina, Roberto Speranza convocherà un tavolo con Sinistra Italiana, Pippo Civati e il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari". Mi sono sempre chiesto se non esista una relazione tra il fatto che la Sinistra sia ridotta ad un fantasma e il fatto che per materializzarla si usi un "tavolo". Ma di certo ogni elettore di buon senso che legga una frase come quella trascritta penserebbe di trovarsi di fronte a liturgie ermetiche e remote, e si allontanerebbe ancora un po' dalla "politica politicata".

Il paradosso di questi immaginari riti segreti è che essi nascondono, nel discorso giornalistico, la realtà concreta di un percorso pubblico, invece sistematicamente ignorato. Qualcuno ha forse letto sul Corriere (o anche altrove, per carità) che migliaia di persone si stanno riunendo, in piazze e teatri di tutta Italia, per discutere di una sinistra che ancora non c'è, ma che sta lentamente prendendo forma? È il percorso partito il 18 giugno dal Teatro Brancaccio (che non è un movimento e non è di qualcuno), e che continua a snodarsi per l'Italia: in tutto ottobre ci saranno assemblee tematiche, e a novembre una grande assemblea romana che restituirà al paese un progetto di inclusione, eguaglianza, giustizia sociale. Un programma che suggerisca come si può attuare la Costituzione.

Chi partecipa a questo percorso? Cittadini senza tessere, singoli membri di associazioni, movimenti, sindacati (dall'Arci a Libera all'Anpi a Libertà e Giustizia alla Cgil e via elencando...), cattolici e laici, e anche ex elettori del Pd e dei Cinque stelle, o astenionisti impenitenti. E poi tanti iscritti (e dirigenti) di Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione, Mdp, l'Altra Europa, Diem e ancora altri partiti o movimenti.

Cosa unisce questo mondo variopinto, che nessun tavolo potrebbe per fortuna contenere? Due semplici cose: la consapevolezza che è necessario invertire drasticamente la rotta del paese; e la volontà di farlo costruendo una nuova sinistra, dal basso. È di questo che si discute, in quelle piazze e in quei teatri, intrecciando il discorso sulle cose, al discorso sul metodo. Inevitabilmente: perché nessun modo vecchio può far nascere una nuova politica capace di rinnovare l'Italia.

È, con ogni evidenza, un percorso culturale e politico di lungo periodo. Ma tutti coloro che partecipano hanno ben chiaro il fatto che non possiamo permetterci che nel prossimo Parlamento tutto questo non sia rappresentato.

Si tratta dunque di provare a costruire anche una lista. E perché ci sia una possibilità di successo, ci vuole una lista unica a sinistra. Ma non una lista arcobaleno fatta sommando sigle a un tavolo, bensì una lista aperta, insieme poltica e civica: costruita un po' come quelle che si sono imposte in tante città italiane. E cioè nelle piazze, nella trasparenza, nella partecipazione.

Come si fa, in pratica? Per esempio con una grande assemblea nazionale, eletta (con un sistema proporzionale: lo stesso che vogliamo per le elezioni politiche) da tutti i cittadini (con tessera e senza tessera) che si riconoscano in questo orizzonte comune. E affidando a questa assemblea tutte le decisioni: programma, liste, nome, della lista, leadership (che io credo debba essere plurale). Senza alcuna imposizione, senza alcuna scelta presa a priori. Tutto il contrario di un tavolo (che infatti nessuno ha convocato, per giovedì o per altre date): il dialogo con Roberto Speranza esiste fin da prima del 18 giugno e prosegue, come quello con tutti i diversi attori di questo processo.

I nodi sono tutti ben noti (in sintesi estrema: sinistra o centrosinistra; Pisapia leader designato o elezione democratica di una leadership; modello coalizione con primarie o modello lista civica dal basso), ed è altrettanto noto che se non si sciolgono non è possibile fare una lista unitaria. Ed è per questo che il dialogo continua, e continuerà: ma senza "tavoli", "convocazioni" e altri riti del passato.

La domanda è una sola. Alle prossime elezioni ci sarà la Destra, il Movimento 5 stelle guidato da Di Maio, e il Pd di Renzi. Vogliamo o no che esista un quarto polo: la Sinistra? Non un "centrosinistra" che denunci fin da quella incomprensibile (quale sarebbe il centro?) etichetta una sua insufficienza, prima culturale e poi politica: ma una Sinistra, anzi la Sinistra, unita e determinata a cambiare il paese.

La risposta di tutti coloro che partecipano al percorso iniziato al Brancaccio è un forte sì. Forte come il no che ha bocciato la riforma costituzionale, riaprendo lo spazio del conflitto sociale, unico motore possibile del cambiamento.

Dunque, chi vuole capire se una nuova sinistra può nascere, deve andare nelle piazze, non aspettare tavoli e convocazioni. Perché, in una nuova politica, il discorso pubblico e il discorso privato sono identici. E perché questa nuova politica non può che nascere dal basso, non dall'alto. Come ha scritto Emilio Lussu: «La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c'è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all'alto è capitolazione, sempre».

il manifesto

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.

Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».

Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista. Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.

Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.

Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.

Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.

Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.

Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.

Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.

Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).

Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.

Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.

Su

la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente... (segue)

Su la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente. Lo scritto merita di essere raccontato perché, proprio nella rivendicazione di presunti meriti ambientali, rende palese l’idea di ambiente che ha il segretario del Pd e consente di misurarne l’arretratezza intellettuale oltre che politica.

L’incipit ha una natura retorica e consiste nell’auto-presentazione, o meglio, nella auto-rappresentazione: Renzi amico di Hollande e di Obama, operoso insieme ai capi di stato che la pensano come lui, ferito da Trump. Prosegue il canovaccio con la magnificazione dell’opera del sindaco di Firenze “che ha chiuso al traffico la struggente bellezza dell’area del Duomo” insieme ad altri provvedimenti ecologici e depurativi. La retorica introduttiva si conclude con una captatio benevolentiae: “da sindaco del partito democratico, nel mio piccolo, ho fatto questo; e molti altri sindaci hanno fatto più di me, meglio di me.”; aggiungendo, senza ironia, che “i sindaci del Pd fanno di questo partito oggettivamente il più grande partito ambientalista d’Italia”.

Fin qui l’auto-rappresentazione di un uomo che dà del tu ai potenti ma sa anche occuparsi di questioni pratiche, non importa se apparentemente piccole.

Il secondo passo è lo sciorinamento di tutte le azioni che il governo Renzi o il Pd al governo hanno fatto a favore dell’ambiente: dalla lotta all’abusivismo di Caldoro, (ma non a quello di De Luca e di tanti sindaci Pd “oggettivamente ambientalisti”) alla nuova legge contro i reati ambientali: dai ben 1334 cantieri del progetto Italia Sicura (partito nel 2014 per prevenire il dissesto idrogeologico, se ne sono visti i risultati!), allo SbloccaItalia che “ha riaperto i cantieri immaginati 50 anni fa” (si spera aggiornandoli). Il tutto in una elencazione senza alcun nesso che faccia intravvedere una politica di qualche coerenza e respiro.

Arriva poi il piatto forte che manderà in brodo di giuggiole gli ambientalisti. Enel ed Eni sono incaricati di una nuova missione per la crescita delle energie rinnovabili. La missione implica trivellare l’Adriatico e sfruttare la geotermia dell’Amiata, tutte operazioni notoriamente ad alto contenuto ambientale - ma questo è sottinteso. Sempre elencando, diventano un successo l’Ilva e Bagnoli di cui sarebbero già iniziati i lavori (per ora c’è solo un accordo, certo non merito del Pd renziano).

Infine, c’è la cura del ferro, concordata tra Galletti e Del Rio. Di cui - Renzi non lo dice - quella più micidiale è riservata proprio a Firenze, con il dissennato progetto di sottoattraversamento per la Tav e una stazione sotterranea destinata a una manciata di viaggiatori per giustificare miliardi di spesa; tanto con qualche cantiere e qualche centinaio di milioni in più si può sempre rimediare ai futuri dissesti. Naturalmente, tutte queste belle cose possono essere fatte se la burocrazia non intralcia, (si intende con la pretesa del rispetto delle leggi, dei vincoli paesaggistici, dei piani regolatori, ecc.). Conclusione: chi non è d’accordo strizza l’occhio a Trump, chi è d’accordo venga a darci una mano.

La “risposta” di Renzi, oltre a essere farcita dei soliti annunci scambiati come fatti realizzati, è interessante perché mostra, senza alcun infingimento, l’idea che il segretario del Pd ha del mondo che ci circonda, della natura, di tutto ciò che riduttivamente chiamiamo ambiente, per non parlare di territorio e paesaggio bellamente ignorati. L’ambiente è per Renzi, una serie di criticità che devono essere rimediate, qualche volte prevenute. Renzi, il Pd, e purtroppo gran parte della sinistra con lui, non riflettono sull’idea di sviluppo e sulle scelte di governo che stanno a monte dei disastri ambientali.

Dopo la crisi del 2008, tutti i governi italiani, hanno in ogni modo cercato di stimolare una ripresa economica affidata al finanziamento e alla realizzazione di grandi infrastrutture, non importa se inutili e dannose per ambiente, territorio e paesaggio, non importa se con scarsissimo valore aggiunto (cioè, con pochi posti di lavoro, per lo più di bassa qualificazione). Per contro sono state neglette ricerca, università e cultura, il trinomio che altrove assicura una ripresa economica e uno sviluppo durevole - rispettoso dell’ambiente all’altezza dei tempi. E peggio sta facendo Gentiloni, letteralmente ostaggio delle lobby di Confindustria e delle banche che fanno e disfanno le leggi a loro piacimento: ne è prova l’infame Decreto legislativo 104, recentemente approvato, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo. Stupisce, perciò, che Renzi si sia dimenticato di annoverare il Decreto tra i meriti ambientali suoi e del Pd.

il manifesto, 10 settembre 2017, con riferimenti

L’inchiesta sulla rivoluzione d’ottobre, donata dal manifesto, fa bella mostra di sé nelle 33 tavole giganti che abbelliscono gli spazi della festa nazionale di Rifondazione comunista. I giardini dell’Obihall sono affollatissimi, almeno mezzo migliaio di donne e uomini di ogni età riempiono il ristorante e il contiguo spazio dibattiti, dove questa sera si parla di «Sinistra: come, dove e quando». Ci sono Tomaso Montanari, che appena due giorni prima ha catalizzato l’attenzione di trecento attivisti fiorentini nel suo giro d’Italia organizzato per dare fondamenta all’appello del Brancaccio. Poi Paolo Berdini, Chiara Giunti dell’Altra Europa e, naturalmente il padrone di casa Maurizio Acerbo con Nicola Fratoianni.

Il popolo della sinistra c’è. A 200 metri di distanza, alla festa Mdp, ci sono in contemporanea Pippo Civati e Arturo Scotto, Antonio Floridia e Daniela Lastri. Quello che ancora manca è la chiarezza, osserva Francesca Fornario che tiene le fila dell’incontro: «Alla sinistra del Pd c’è ua discussione surreale: c’è Rifondazione che attende Sinistra italiana, che a sua volta attende Mdp, che a sua volta attende Pisapia che attende il Pd. Sembra di essere alla fiera dell’est…».

Fornario coglie nel segno: «È vero, la sinistra unita si doveva fare prima, siamo in ritardo – le risponde Maurizio Acerbo – ma fare la sinistra non è come inventare una nuova marca di detersivo da vendere. È mettere insieme tutti quelli che in questi anni si sono opposti alle politiche neoliberiste, e alle guerre. Minoritari? Lo dicono a quelli che fanno seguire alle parole i fatti, che dicono cose nette, chiare. Come Sanders, come Corbyn, che sono stati efficaci perché sono credibili. Mentre noi, con tutto il rispetto, non possiamo mettere alla nostra testa chi le guerre le ha fatte, e continua perfino a difenderle. La sinistra è stata sconfitta nella società perché è stata troppo politicante».

Il segretario del Prc, nel merito, ribadisce la bontà del decalogo del Brancaccio. E così fa Nicola Fratoianni, che però segnala ad Acerbo: «Chi ha oggi vent’anni non ricorda il Kosovo. Invece ricorda benissimo il pareggio di bilancio in Costituzione, e Bersani in tv che prende le distanze da Corbyn. Un Corbyn, o un Iglesias o un Mélenchon, che però noi non abbiamo».

Qui il segretario di Sinistra italiana pone il tema della leadership: «Si deve costruire, perché la politica è dinamica». Poi, alla domanda di Fornario se non abbia il timore che i voti si elidano di fronte a un generico rassemblement alla sinistra del Pd, Fratoianni ammette: «È possibile. Per questo dobbiamo guardare al terreno delle proposte politiche. Se non costruiamo un progetto che dia risposte all’idea che abbiamo di questo paese nei prossimi vent’anni, non andiamo lontano. Sto girando l’Italia e tanti mi dicono: ‘Dateci la possibilità di votarvi’».

Da dove passa la conquista del consenso? Dalla ribadita – e meritoria – indisponibilità ad ammorbidire il senso politico del decalogo del Brancaccio (Acerbo); ma anche dalla faticosa riconquista di una egemonia socioculturale, che faccia massa critica e impedisca al paese di scivolare ancor di più a destra (Fratoianni). Nel mezzo Tomaso Montanari, a cercare un equilibrio non facile: «Al Brancaccio c’era anche D’Alema, e gli abbiamo detto in faccia quello che pensiamo sulla guerra del Kosovo. Poi gli abbiamo detto anche “guardiamo avanti, è essenziale che si possa costruire un’alleanza che si presenti con un volto solo, e che sia radicale”. Perché se ci impantaniamo con il passato, e cediamo a questo istinto che pure è forte anche per me, rischiamo di non dare risposte ai giovani che sono andati a votare per la prima volta il 4 dicembre, e che per i prossimi vent’anni si aspettano dalla sinistra risposte politiche opposte a quelle degli ultimi vent’anni. Perché se penso al nostro presidente regionale Rossi sull’aeroporto intercontinentale che vogliono fare a Peretola…».

Un tema caldissimo qui a Firenze. Così come sono sempre caldissimi i temi dei beni comuni a partire dall’acqua, rimarcati da Chiara Giunti, e dei servizi pubblici «che devono essere, appunto, pubblici» evocati da Paolo Berdini. Temi di sinistra.

Riferimenti
Sul tema della "Sinistra" c'è una ricca cartella in eddyburg, precisamente qui. Ma vi raccomandiamo di leggere anche l'articolo dedicato, appunto, a La parola "Sinistra". E magari siete d'accordo anche voi (e.s.)

Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo.


Premessa

La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.

Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.

UNA TESI
di Edoardo Salzano

Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.

Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, sviluppismo, migrazioni, disoccupazione

1.Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, i principi della Rivoluzione liberale dove essi consentivano il maggior peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.

Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni delle Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermata come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il”comunismo”). Esso tuttavia non aveva “rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba)

In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì. sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.

Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciava l’umanità:la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.

Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa.

Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”

2. Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure aveva subìto senza comprendere né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalism” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).

Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamene e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperalismo fase suprema del capitalismo).

E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale) Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.

La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).

Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha inventato a slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.

È nata così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile. Il camuffamento operato dalla Commissione Bruntland, che ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da tutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della “vecchia sinistra: il Neoliberalism.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla “ sinistra” nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là dello sfruttamento economico: potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo

Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione

Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.

Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale , libro Primo, sezione III); «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).

Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, Possiamo parlare di “comunismo”? non so. mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avvviene nel sistema capitalistico.

So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare?)

L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.

Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione con i protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.

Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna e Tomaso sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Così come, del resto. sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita.nella spernza che sia l’ultima volta.
Edoardo Salzano, 14 luglio 2017


UN DIALOGO
tra Enzo Scandurra e
Edoardo Salzano

Enzo a Eddy 17 luglio 2017

Caro Eddy,

rispondo solo ora alla tua lucidissima replica al mio articolo: “c’è vita a sinistra….”, perché sono in vacanza in un luogo da dove è difficile leggere la posta e, ancor più, spedirla. Ti scrivo in forma privata ma lascio a te la decisione di pubblicarla senza alcuna riserva, se la ritenessi utile al dibattito in corso.

Inutile dirti che concordo in tutto con la tua lunga analisi politica delle sventurate vicende della sinistra. Il mio, consentimi questa difesa, era un appello fatto con l’ottimismo della volontà. La tua replica è fatta con il (legittimo) pessimismo della ragione. Siamo entrambi, dunque, inseriti perfettamente nell’ossimoro gramsciano.

Ora io penso che nella storia vanno colte le occasioni che si presentano e che, una volta passate, rischiano di non presentarsi più o tra molti, troppi anni. Le condizioni favorevoli a un cambiamento (ovvero alla formazione di una vera sinistra) sono:
- La debolezza politica della “proposta” renziana che stenta ormai a tenere uniti anche i più fedeli seguaci, già stanchi della sua pomposa retorica;
- Lo spostamento fuori campo di Bersani, D’Alema e altri
- Il carisma di cui gode ancora Pisapia
- La novità della proposta Falcone-Montanari,
- L’avvitamento su posizioni di destra del Movimento 5 stelle: hanno smesso di credere nella politica e nel cambiamento e, non ultimo, lo sconcerto per l’inettitudine della gestione della Capitale da parte del Sindaco Raggi.

Se non ora, quando? Mi riferisco alla costruzione di una vera sinistra. Tu dici: perché credere in coloro che ci hanno traditi o, almeno, hanno tradito lo spirito di una sinistra (con riferimento a Bersani, ecc.)? Concordo con te, ma ripeto quello che ho già detto nell’articolo: le cattedrali si costruivano con le pietre che erano in terra. E questo noi abbiamo, altro non è dato o, almeno, la congiuntura storica non offre. L’anomalia della condizione italiana è che il cambiamento non può – per il momento – che essere innescato dall’alto, nella speranza che, dal basso, nel tempo, nasca un vero movimento che non si riduca semplicemente al dissenso o alla protesta, pur legittima. Solo allora assisteremo alla nascita di nuovi leader. Tu dici che questo assemblaggio, che dovrebbe costituire la vera sinistra, è diviso anche su questioni di fondo. Sì, diciamolo con franchezza, lo è e niente fa pensare, a breve termine, che non lo sarà più anche dopo. E del resto, dovremmo forse aspettare che una destra barbara salga al potere per sciogliere i tormenti della sinistra? Io ribadisco, non ignorando le tue giuste critiche, la convinzione che la congiuntura storico-politica è favorevole. Spetta a noi saperla cogliere.

Con ciò ti rinnovo, nell’apparente dissenso, tutta la mia stima e il mio affetto, Enzo

Eddy a Enzo 19 luglio 2017

Caro Enzo, ti ringrazio molto di proseguire questo dialogo e continuare ad aiutarmi pensare dialogando . Forse stiamo soltanto facendo una piccola testimonianza di democrazia…

Tu continui a pensare che i ruderi del passato non siano solo materiali per comprendere la nostra storia, ma anche pietre con cui costruire le cattedrali del futuro. E credi ancora nella possibilità di costruire qualcosa di nuovo innescandolo “dall’alto”. Io no.

Per scendere al concreto (si fa per dire) io vedo i residui della sinistra come profondamente intrisi, ancora oggi, da due elementi pestiferi poichè impediscono di comprendere il presente e progettare un futuro umano: la “credenza dello sviluppo” e la convinzione che il capitalismo non sia superabile. Non è, questo, un rimprovero che faccio ai D’Alema e ai Bersani del passato, ma a quelli di oggi.

Questo sul piano degli elementi di fondo. Sul piano elettorale sono altrettanto convinto che il bacino elettorale costituito dagli astenuti sia irraggiungibile agitando i nomi e le bandiere della sinistra trascorsa.

Non sono ancora sicuro che non sia necessario raggiungere il fondo dell’abisso («che una destra barbara salga al potere», come dici) per risalire. Del resto non vedo una grande differenza, a parte i modi, tra ciò che si agita nel complesso cuore-cervello-pancia di Minniti e quello di Salvini

E poi, che cosa significa oggi “una vera sinistra”? Se cerco di rispondere individuando un’analogia posso risponderti che la sinistra di oggi sarebbe (o sarà) quella che difende gli sfruttati di oggi. Ma se ragiono su quello che ho imparato dell’oggi in cui viviamo mi accorgo che oggi noi, il mondo della vecchia sinistra, apparteniamo, e da tempo, alla semisfera degli sfruttati, non a quella degli sfruttatori. Gli sfruttati di oggi sono quelli che giacciono al fondo del Mediterraneo, e gli altri bruciano nei loro deserti in attesa di raggiungerli.

Abbattere il capitalismo e costruire una nuova economia in una nuova società. Questo è forse il compito storico che ci spetterebbe. Lo sviluppismo è la cecità che ci impedisce di comprenderlo.

Per onestà e sincerità devo aggiungere che non sono sicuro che i nocchieri del piccolo vascello che si chiama “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” condividano interamente le mie posizioni. Ma sono certo che non esprimano semplicemente al dissenso o protesta, ma qualcosa di più. Mi sembra che questa frase del loro appello dica molto in proposito:

«La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta».

Ciao Enzo, alla prossima(poi, se sei d’accordo, inserirò su eddyburg tutto il dialogo)

Enzo a Eddy 20 luglio 2017-

leggo e rileggo le obiezioni che tu muovi al mio “ottimismo della volontà”. Cerco di trovare nella tua replica un errore, qualcosa che mi dica: “Ecco, qui Eddy sbaglia!” Ma non lo trovo. Anzi, a volte io stesso aggiungerei al tuo “pessimismo della ragione” ulteriori elementi e considerazioni.

Siamo una specie dannata, un incidente biologico, l’unica specie che si accanisce contro la natura considerata altro da noi. Il Mito di Prometeo, il fuoco salvifico della tecnica, continua a vivere nel nostro Occidente: fa proseliti, arruola giovani, ingrossa ogni giorno il suo esercito minaccioso. Siamo molecolarmente assuefatti all’idea di uno Sviluppo che infine ci salvi, a quella che una Tecnica possa risolvere per sempre i nostri problemi, nel mentre continuiamo imperterriti nella nostra opera di devastazione sociale e ambientale.

Eppure, ieri mattina ho sentito Vezio, emozionato all’idea che il progetto Bagnoli riparta. Ho sentito, e non è la prima volta, un amore incontenibile in lui, per Napoli, per Bagnoli, per la possibilità di un progetto di riscatto; un riscatto che quella città meriterebbe dopo essere stata profanata e, ancora oggi, vilipesa da giornalisti stranieri incompetenti. Quel suo amore mi ha contagiato, così che ho di nuovo pensato: “Eddy sbaglia, una possibilità ci deve essere ancora, c’è ancora”.

Ma poi la cronaca quotidiana degli avvenimenti - quanto morti affogati oggi? -, mi riporta alla nostra condizione di miseria sociale, all’indifferenza e all’apatia di un Europa che è solo un’immagine sbiadita di quella culla di civiltà che è stata nei tempi (ma non è in questa terra che sono nati Goethe, Shakespeare, San Francesco, Leopardi?), a quel mare tra le terre che è stato un ponte tra Occidente e Oriente, luogo dove è nata la civiltà che era frutto di ibridazione come ci ricorda Braudel, e oggi cimitero di vite miserabili, senza nome, di bambini che del mondo hanno conosciuto solo le sofferenze e le privazioni. E penso, come Cesare Pavese, che ogni guerra è una guerra civile, perché guerra tra umani contro altri umani.

Le statistiche ci dicono il numero di morti che non ha raggiunto quelle terre da dove sono partiti i colonizzatori a depredare le loro risorse. Ma ogni vita, ogni singola vita, chiede ascolto e pietà. Che ne sappiamo di loro? Solo numeri, cifre, statistiche. Cosa pensavano durante quel viaggio mai terminato sui barconi della morte? Quali amori hanno lasciato nelle loro terre e quali speranze coltivavano? Per loro il Mediterraneo non è stato un ponte, ma una bara. Noi non sappiamo nulla di loro, se non che sono i nostri nemici, che attentano il nostro effimero benessere, i nostri mercati di merci corrotte.

Tu, Vezio, io dopo di voi, altri ancora dopo di noi, hanno coltivato la speranza, e la passione, che buoni progetti potessero rendere accoglienti le nostre città, renderle più vivibili, più a misura d’uomo. E ogni giorno scopriamo che leggi ingiuste e mosse dal mito del mercato e dello sviluppo, distruggono territori, devastano paesaggi, mercificano bellezze. Venezia, come Firenze, come Roma, città stuprate, involgarite, dove la bellezza, come diceva Camus, si è ritirata, si è nascosta, in attesa di essere ricercata, semmai qualcuno se ne ricorderà di farlo.

Non vado oltre; come vedi non riesco a trovare in quel che dici l’”errore”. Ma coltivo un sogno, quel sogno che ha sempre animato la sinistra, che ha prodotto passioni, sacrifici di vite umane, agitato masse, e che non ha mai smesso di far girare il mondo.

Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017

A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:

«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.

Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.

Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.

Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…

«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo.

Enzo a Eddy, 11 agosto 2017

Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.

In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.

Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.

Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.

Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.

Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:

«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.

Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.

Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.

Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…

«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo. Ma per stasera basta. A presto, carissimo Enzo

11 agosto 2017 Enzo a Eddy

Che dire? Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.

In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.

Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.

Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.

Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.

20 agosto 2017 Eddy a Enzo

La folla c’è, Enzo, ma non sa di esserlo. È la massa crescente degli “sfruttati dallo Sviluppo”, dalla quale quali emerge, per ora, solo l’aggressione del terrorismo…

file scaricabile qui

«». il manifesto,

La globalizzazione ha seminato speranze e creato possibilità. Lo ha fatto nei paesi sviluppati (apertura dei mercati, importazioni a basso prezzo, possibilità di esportare e di produrre). Lo ha fatto nei più grandi paesi arretrati (afflusso di capitali, possibilità enormi di produrre ed esportare…). Insieme a merci e capitali si sono mosse anche persone (dall’est all’ovest dell’Europa, dai paesi asiatici verso l’Europa, dal sud al nord delle Americhe). Oggi questa fase espansiva si è arrestata.

Nei paesi avanzati le speranze si sono tramutate in paure (perdita di lavoro, incertezze sul futuro, abbassamento dei salari) alimentando un bisogno di protezione ed una tendenza a chiudersi. Nei paesi arretrati si è consolidata un’area dei paesi fermi che hanno visto peggiorare le condizioni di vita dei loro popoli (guerre, condizioni climatiche….) ai quali non rimane che la speranza di una fuga disperata verso i paesi ricchi. La coincidenza temporale tra queste due opposte spinte determina quella che possiamo chiamare la grande contraddizione dei nostri tempi.

Come governare una situazione così complessa? Ci vorrebbe un governo mondiale capace di varare un progetto di riequilibrio e di governo dei processi. Ci vorrebbe una grande ondata di solidarietà e l’assunzione del tema della redistribuzione come necessità storica di fronte alla grande stagnazione. La chiesa e Papa Francesco predicano e praticano con le loro missioni ed opere caritatevoli – sono le loro forme di azione – accoglienza e solidarietà. Due parole che appartenevano alla sinistra. Ma la sinistra di oggi sembra non avere le parole adatte per fronteggiare la grande contraddizione. Non le ha perché per la sinistra non è sufficiente dire parole giuste. Le parole non possono essere prediche, ma debbono essere strumenti di azione, strumenti che convincono, trascinano, impegnano a lottare per cambiare.

Le parole della sinistra dovrebbero unire i poveri dei paesi ricchi con quelli che arrivano dai paesi poveri. Ma questo non avviene e la sinistra appare debole quando apprezza e fa proprie le giuste parole della Chiesa ed appare succube quando finisce per accodarsi alle parole della destra. Nel frattempo la destra con le sue parole che seminano paure ed odio fa opinione, alimenta chiusure, esplosioni di razzismo.

Che fare allora? Non ci resta che sentirci impotenti e tagliati fuori dal corso degli eventi e della storia? Le risorse ci sono. Nelle tante forze giovanili ed impegnate nei movimenti per l’accoglienza, sono nelle tante persone che sanno cosa significano razzismo ed esclusione. Ma l’insieme di queste forze non riesce a fare massa critica, a creare opinione diffusa, a mobilitare. Il fatto che la sinistra tutta abbia più consensi nelle aree centrali e meno in quelle periferiche parla da solo e spiega perché essa non riesce a legare il disagio degli italiani a quello degli immigrati.

Ma pensiamoci bene. Anche quelli che urlano contro i migranti e magari vivono in periferie desolate, senza lavoro e senza servizi, sono dei fuggitivi: sfuggono dai problemi che li assillano, riversando le colpe sui poveri che arrivano invece di lottare e semmai di unirsi a loro. E così gli ultimi si dividono, si contrappongono, si disarticolano. Ma non è colpa loro se questo accade. Chi dovrebbe fare questo, proporlo, organizzarlo se non la sinistra? Ecco allora il problema. La sinistra non può oscillare tra l’accogliere in nome della solidarietà gli ultimi che arrivano senza mettersi in regola con gli ultimi che stanno tra noi. Né può pensare di affrontare il problema sposando la linea dura per recuperare consensi. Su questo terreno vincerà la destra, perché l’ha detto per prima ed è più credibile.

Quando parliamo di sinistra del futuro dovremmo parlare di queste difficoltà ad unire i tanti fuggitivi, interni ed esterni, in una grande battaglia per una più equa distribuzione, intanto, di quello che c’è, dei redditi, del lavoro, dei poteri. Altrimenti mentre noi parliamo di sinistra del futuro rischiamo di assistere al ritorno del passato, del razzismo, dei nazionalismi, della guerre.

Ps. Mi ha stimolato a scrivere questo articolo la lettera al manifesto di Mauro Polidori di Acilia che ci invita a guardare alle periferie urbane ed anche, aggiungo, ai piccoli centri, dove una informazione tutta centrata sui migranti nasconde la crisi da abbandono che essi vivono.

Vedi su eddyburg l'articolo La parola "sinistra" di Edoardo Salzano

«. MicroMega, 24 luglio 2017 (c.m.c)

L’analisi di Massimo Giannini sulla sinistra divisa e minoritaria è, come sempre, impietosamente lucida. Eppure credo che non sia l’unica lettura possibile.

Essa appare, ed è, realistica, se diamo per scontato, come sempre si fa, un dato di fondo: e cioè che i rapporti di forza tra destra, sinistra e pentastellati siano, sul breve periodo, stabili. Ma se proviamo a pensare che cambi la base elettorale attiva, anche questo scenario può cambiare. In altre parole, Giannini fa quello che fanno i leaders di tutti i partiti: dà per scontato che continuerà a votare circa la metà del Paese. E che l’altra metà sia sostanzialmente perduta alla vita della democrazia italiana.

Quello che Anna Falcone ed io abbiamo provato a proporre è di cambiare occhiali: e di provare a svegliare quest’altra metà del Paese. Perché noi due, che non siamo politici, né tantomeno leaders? Perché durante la campagna referendaria del No abbiamo visto con i nostri occhi questa altra Italia, quella che non vota: l’abbiamo vista partecipare a riunioni e assemblee. E poi il 4 dicembre l’abbiamo ritrovata nelle urne.

Ovviamente non tutta la valanga dei No era di sinistra: ma una parte lo era, eccome. Voti di giovani senza più fiducia. Voti di sommersi che sentono di non avere alcun interesse a sommarsi a quelli, ben più pesanti, dei salvati. Un elettorato potenzialmente di sinistra comprese allora che si combatteva una battaglia decisiva per la partecipazione e la rappresentanza degli ultimi: un elettorato che, se tornasse a votare, potrebbe sconvolgere gli equilibri. E, allora, perché non pensare che accanto al realismo dello stato delle cose possa esserci anche un altro realismo, quello di chi vuole provare a modificarla, la realtà? Antonio Gramsci ha scritto che l’idolo più difficile da abbattere è la credenza che tutto ciò che esiste, sia naturale che esista così.

La proposta del Brancaccio è provare ad abbattere quell’idolo, costruendo una lista unitaria della Sinistra non intesa come somma dei pezzetti già noti, ma come una realtà nuova, capace di coinvolgere e rendere protagonista quest’altro mondo. Per questo non ha molto senso parlare – come fa Giannini – di ‘montanariani’ o ‘falconiani’: non abbiamo alcuna intenzione di costruire l’ennesima listina da zero virgola, e non lo faremo. Se sarà evidente che non ci sono le condizioni per una lista unica davvero profondamente innovativa (che è l’obiettivo esplicito che abbiamo indicato), il percorso continuerà come costruzione (lenta, paziente e speriamo feconda) di uno spazio politico nuovo, ma non contribuirà ad aumentare la frammentazione elettorale.

Se l’obiettivo è questo, allora forse si capisce che le categorie da usare non sono più la ‘purezza’, l’‘identità’, o il ‘rancore’. La questione è molto più pragmatica: bisogna parlare un’altra lingua, cercare altri interlocutori, abbattere le pareti della stanza chiusa dove si gioca l’asfittica partita autoreferenziale che tiene lontana dalla politica metà del Paese. Giuliano Pisapia dice di sentirsi a casa nel Pd, e Giannini scrive che egli abbraccia la Boschi perché sa di appartenere alla stessa famiglia politica della sottosegretaria. Io, invece, credo che sia un errore: non perché il Pd o la Boschi siano il male, ma perché credo che chi vuole costruire la sinistra nuova debba stare da un’altra parte.

La casa dei sommersi non può essere la stessa casa di chi ha contribuito a sommergerli. Il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione di un Paese terribilmente diseguale e ingiusto: se vogliamo parlare alle vittime di questa diseguaglianza, di questa ingiustizia, dobbiamo cercare un’altra casa. E un’altra famiglia: perché difficilmente i milioni di giovani che hanno votato No, e che ora probabilmente si asterranno, si sentono della stessa famiglia della Boschi. Essi, insieme ad altri milioni di elettori, quando vedono la Boschi, pensano invece a un intreccio, appunto familistico, tra potere e banche: lontano mille miglia da ogni idea di giustizia o inclusione.

Insomma, accanto al realismo un po’ cinico che spinge alle alleanze dentro l’eterno recinto, c’è anche un realismo (forse più lungimirante) che spinge a uscire dal recinto. Una via che non porta subito al governo. Ma l’unica via per costruire una sinistra capace di cambiare lo stato delle cose.

o», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche». il manifesto, 20 luglio 2017

Una nuova forza di sinistra potrà nascere se saprà interpretare questo tempo, dimostrando di poter proporre un mutamento reale allo stato di cose presenti. Sarà giudicata – ed eventualmente votata – in ragione della sua capacità di definire un orizzonte ideale. Un orizzonte «sociale», se non «socialista»; «comune» se non «comunista», che si allontani dall’egoismo populista dominante.

Non sarà facile. Anzitutto, perché la paura del nuovo e le incertezze del presente portano molti – anche a sinistra – a limitarsi a resistere, adottando magari strategie di pura sopravvivenza. Ma v’è un’altra ragione che rende complesso impegnarsi per il cambiamento: esso non sarà immediato. Chi pensa di riscrivere la storia dell’ultimo quarantennio in un giorno (magari quello delle prossime elezioni) non potrà che andare incontro all’ennesima delusione.

Meglio attrezzarsi per una lunga marcia.

È questa la ragione per la quale dovremmo misurarci sulle cose, sulle idee, sulle prospettive e non invece sulle persone, sulle liste, sulle biografie personali. Ciò di cui abbiamo bisogno è un «pensiero lungo», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche.

La discussione non è iniziata bene. Il processo di definizione di una (nuova) soggettività politica mi sembra eccessivamente condizionato dai rapporti e dagli equilibri di vertice. Dei tanti piccoli vertici cui è divisa la galassia frantumata della sinistra.

Temo che limitandoci ad unire sigle e persone non andremo molto lontano. Anzi, alla fine non uniremo un bel nulla: le divisioni del passato, le incomprensioni del presente lo impediranno. Dovremmo prenderci tutti un impegno: non parliamo più di persone, ma solo di idee. Chiediamo a tutti di confrontarsi su queste, quale che sia il loro passato, per verificare se c’è un possibile futuro in comune.

Non si parte da zero. Intanto perché la storia della sinistra è certamente in una fase di confusione, ma ha anche radici profonde. Se la politica sembra aver abbandonato le ragioni della sinistra, non per questo i principi di eguaglianza, libertà e fraternità che l’innervano sono svaniti. Non basta, ovviamente, il richiamo ai grandi valori, è necessario riuscire a declinarli, renderli proposta politica concreta.

In quest’opera di traduzione di nostri ideali in un programma d’azione collettivo è alla realtà della storia che bisogna guardare. Alla Costituzione repubblicana, innanzitutto. Non certo perché la nostra «parte» (la sinistra) si possa appropriare del «tutto» (la Costituzione), ma per la semplice ragione che è dalla costituzione che si può ripartire per invertire la rotta.

Lo dimostra il recente passato. Vi sono stati due fatti di assoluto rilievo costituzionale che hanno segnalato la necessità del mutamento.

Da un lato, il rifiuto popolare della riforma costituzionale proposta del governo, dall’altro la doppia pronuncia dei giudici della Consulta sull’incostituzionalità delle leggi elettorali. Una scossa tellurica, che ha prodotto due vistose crepe nell’assetto consolidato dei poteri.

Lacerazioni che in molti – anche a sinistra – vorrebbero rapidamente ricomporre, per poi riprendere la stessa strada che ci ha condotto sin qui, eliminando solo gli eccessi che hanno determinato l’incidente di percorso. Così, gli inviti a non abbandonare il modello di democrazia maggioritaria si sprecano.

Un nuovo soggetto politico di sinistra dovrebbe, invece, assumere come prioritario il compito di dare seguito coerente alla rottura, cambiando finalmente strada, promuovendo un diverso modello di democrazia costituzionale.

Se, dunque, è la democrazia la vera posta in gioco (la sua qualità, la materialità delle sue forme istituzionali e sociali) non ci si potrà limitare a definire contenuti minimi o di sola convenienza elettorale, miope saprebbe guardare ai pur legittimi interessi delle attuali forze politiche organizzate. Bisogna essere più ambiziosi e operare in base ai valori, scegliere la direzione e poi cominciare a risalire la corrente.

Ma quale sarebbe in concreto il modello di democrazia attorno al quale costruire la soggettività della sinistra politica in Italia? Tre espressioni la potrebbero qualificare: «pluralismo», «partecipazione», «diritti fondamentali».

È il pluralismo che legittima la rivendicazione di un sistema elettorale tendenzialmente proporzionale, non invece una discussione basata sul calcolo di convenienza delle diverse forze politiche. È la partecipazione che impone di ripensare le forme dell’associazionismo politico e sociale, abbandonando le incomprensibili lotte personali che stanno dilaniando i partiti attuali.

Sono, infine, i diritti fondamentali che ci indicano da che parte stare: da quella di chi ne è privo. Il costituzionalismo democratico moderno nasce per dare un fondamento giuridico alla lotta per l’emancipazione dei soggetti storici concreti. La sinistra che è oggi alla ricerca di sé stessa potrebbe ripartire da una coraggiosa politica di salvaguardia dei diritti fondamentali e dalla indicazione dei correlati doveri di solidarietà.

Pensare in grande, tornare ai fondamentali: forse è questa la strada maestra per ritrovare il popolo della sinistra, che, alla fine, potrebbe pure convincersi che valga la pena tornare a votare.

Qualche giorno fa ho postillato un articolo di Enzo Scandurra dal titolo C'è vita a sinistra serve una lista contro i malati di realismo esprimendo il mio dissenso e riservandomi di argomentarlo. Ho impiegato qualche giorno più del previsto, e ringrazio Enzo per avermi stimolato a tentar di disporre con un po' di sistematicità cose cui riflettevo da tempo.

Credo che la chiave del dissenso sia nella parola ”sinistra”. Mi riferisco a quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, , migrazioni, disoccupazione.

1. Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento, riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, a tutelare i principi della Rivoluzione liberale laddove essi consentivano di accrescere il peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.

Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni della Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermato come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il ”comunismo”). Esso tuttavia non aveva rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel suo “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba).

In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì la sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.

Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciasse l’umanità: la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.

Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa. Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”.

2. Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure lo aveva subìto senza comprenderlo né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalismo” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).

Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamento e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperialismo fase suprema del capitalismo).

E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale). Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.

La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).

Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha accettato slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.

Ha potuto svilupparsi così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile”. Il compromesso operato dalla Commissione Bruntland, ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da parte ditutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della "vecchia sinistra" : il Neoliberalismo.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla sinistra nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là del solo sfruttamento economico.

Era divenuto potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. Come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo.

Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione


Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.

Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale, libro Primo, sezione III). E ancora: «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).

Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico. So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare)?

L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.

Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione in compagnia dei protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.

Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Ma è 'unica coerente con la mia visione delle cose.

Così come, del resto, sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che, nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita. Nella speranza che sia l’ultima volta.
14 luglio 2017 (correzioni formali 4 agosto 2017)

«Iil manifesto, 13 luglio 2017

La leadership mediatica di Giuliano Pisapia sul progetto di (centro)sinistra prossimo venturo sta stretto alla sinistra del teatro Brancaccio che non nasconde le sue critiche. In un incontro organizzato ieri al Senato dall’associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars), presieduta da Aldo Tortorella e Vincenzo Vita, i nodi sono venuti al pettine a cominciare con l’intervento di Anna Falcone, autrice dell’appello del Brancaccio con Tomaso Montanari: «Si sta creando un dibattito che si occupa del proprio ombelico con una discussione sulle alleanze e sulla leadership – ha detto – Al Brancaccio non abbiamo delimitato un’area chiusa della società civile contro la politica ma abbiamo parlato di una politica al servizio dei cittadini. Il nostro invito al dialogo viene rigettato giorno dopo giorno. Inizio a pensare che chi non vuole discutere non ha nulla da proporre. In queste condizioni si rischia di fare un accordicchio, non una lista unitaria e una sinistra seria con un programma credibile». Pur senza nominarlo, il riferimento polemico di Falcone era Pisapia.

A Arturo Scotto, ex Sel ora in Mdp, è toccato il compito di ribadire la centralità di Pisapia nel progetto del (centro)sinistra: «È necessario costruire una sinistra che ricostruisca il campo largo del centro-sinistra senza veti a destra e a sinistra, oltre il sì e il no» ha detto, probabilmente riferendosi al fatto che Pisapia ha votato «Sì» al referendum del 4 dicembre, mentre tutta la sinistra ha votato «No» e su questo intende dare battaglia in chiave anti-Renzi e anti-Pd. «È probabile che la sua sia solo una dimensione mediatica, e che fuori non esistiamo – ha continuato Scotto – Ma bisogna fare i conti con Pisapia: esiste e determina fatti politici».

Per Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana questa prospettiva ineluttabile non è accettabile. Dopo il forum al Manifesto, Maurizio Acerbo lo ha ribadito nella discussione di ieri all’Ars che invitava a riflettere sull’«unità della sinistra»: «Falcone e Montanari hanno chiesto ai partiti di fare un passo indietro per costruire una lista di sinistra. Noi e anche Sinistra Italiana ci stiamo – sostiene il segretario di Rifondazione – Mdp dice che vuole fare il centrosinistra che è un’altra cosa. Se l’appello del Brancaccio fosse stato accolto non ci troveremmo in questa impasse, la loro risposta è stata piazza SS. Apostoli. Insisteremo per creare un’unità, ma arriverà un momento in cui il tempo si fermerà e si dovranno prendere delle decisioni».

«Non vorrei che per la preoccupazione di evitare divisioni dopo le elezioni si finisca per dividersi prima» ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Il messaggio a Pisapia è chiaro: «Non sono disponibile a seguire come l’intendenza un processo che non trovo convincente. Penso che chi si sente unito più al Pd che a noi, come ha detto Pisapia di recente, ponga un problema politico gigantesco. Dopo l’«aiutiamoli a casa loro» che Renzi ha detto sui migranti non può dirlo. Le leadership e soprattutto i programmi si costruiscono insieme».

«È in corso una battaglia politica sul senso di questa lista – hanno detto Massimo Torelli e Alfonso Gianni (Altra Europa) – Bisogna spingere al confronto sui territori per capire chi esiste e chi no in questa partita». «Su cosa chiederemo il voto? Sul fatto che siamo uniti? Non è sufficiente – ha concluso Bia Sarasini (Altra Europa) – Un progetto politico deve farsi carico della vita materiale delle persone e da questo trovare un accordo su una lista elettorale».

«C'è vita a sinistra. Breve storia del «centro» e dei suoi compromessi più o meno storici (dal Pci al Pd). Ma oggi, nel tempo di papa Francesco, esiste ancora nel paese una questione cattolica?»

il manifesto, 12 luglio 2017 con postilla

Vale a dire la questione se la nuova creatura deve subito incorporare nel proprio orizzonte l’alleanza strategica con un centro moderato, o se debba invece puntare a definire, sulla base di un programma concordato, una nuova e unitaria identità. Vorrei limitarmi a guardare alla questione con un supplemento di considerazioni storiche.

La prima è che in Italia ha a lungo dominato la vita pubblica una “questione cattolica”. Il cosiddetto centro si identificava con la Dc, con le organizzazioni sindacali e associative collaterali della Chiesa. Con la natura di questo “centro” il Pci, ha avuto un rapporto duplice: di antagonismo aperto nel Paese, di sintesi e mediazione riformatrice nel Parlamento. E’ stato questo il reale e vincente “compromesso storico” che ha consentito l’accesso dei bisogni popolari nello stato italiano e la modernizzazione del Paese. E per quasi tre decenni: dalla fine degli anni ’40 alla seconda metà degli anni ’70.

E’ stato invece il compromesso storico di Berlinguer ad avviare la confusione delle fisionomie delle forze politiche, a disinnescare il motore del conflitto, a togliere al sistema politico italiano quel dinamismo eterodosso, diverso dagli altri paesi sviluppati, che lo aveva contrassegnato fin lì.

Mi spingo a dire che il dilagare della corruzione nella vita italiana, denunciata da Berlinguer nei primi anni ’80, e periodicamente ripresa dalla stampa, trova un nuovo alimento proprio negli effetti che la politica del compromesso storico ha a livello locale. Il controllo antagonistico del Pci nella vita amministrativa viene meno e dilagano gli accordi…

La questione del centro ritorna imperiosamente con Veltroni e il Pd. Il disegno è ambizioso. Si vuole non solo immettere le forze politiche cattoliche entro un organismo unitario, ma modellare l’intero sistema politico sullo schema bipartitico delle vecchie democrazie anglo-americane. Quest’ultimo pare un progetto modernizzatore, ed è invece un tentativo velleitario e tardivo.

Il sistema bipartitico è ormai in una crisi conclamata tanto nel Regno Unito che negli Usa. I due partiti, progressisti e conservatori, conducono entrambi, nella sostanza, la stessa politica e generano una diserzione sempre più larga degli elettori dal voto. L’intrusione dell’economia e della finanza nella vita dei partiti tende a unificarne le strategie e la condotta, anche perché le campagne elettorali sono sempre più costose.

Nel paese di Gianbattista Vico l’idea di fondare una nuova storia delle culture politiche italiane, eliminandone alcune, e puntando su una loro semplificazione per via giuridico- istituzionale non ha avuto successo. Le culture politiche sono pezzi di storia della società a cui non si possono imporre schemi organizzativi pensati a tavolino. Ma il Pd non ha successo perché ripete ed anzi fa radicalmente suo lo schema del compromesso storico: immette nel suo seno l’avversario-potenziale-alleato. E questo ha due conseguenze su cui devono riflettere coloro che oggi pensano al centro sinistra avant tout. La prima è che diventa sempre più difficile e macchinosa la mediazione politica interna. Qualcuno si ricorda che cosa accadeva nel Pd quando si trattava di decidere sui diritti civili, sui temi di bioetica? Scontri e conflitti interni si tacevano solo grazie alla paralisi generale.

La seconda ragione è strategicamente più rilevante. La fusione tra forze diverse ha annacquato le reciproche alterità e ha tolto alla sinistra la forza motrice del conflitto. Se fai sbiadire la tua storia, mortifichi i principi su cui si sono formati generazioni di militanti ed elettori, non hai poi la forza di imporre all’avversario-alleato il compromesso più avanzato. Il riformismo che ne deriva è inefficace, mortifica gli interessi popolari, crea delusione, allontana militanti e cittadini dalla vita politica.

Ma oggi, come si configura il centro? Esiste ancora una questione cattolica? Anche con il pontificato di papa Francesco? Inutile chiederlo ai partiti che passano da una competizione elettorale all’altra e vivono alla giornata.

In realtà sappiamo pochissimo, oggi, sia sul piano sociale che culturale, di questo fantomatico centro.

Forse sappiamo qualcosa di più su che cosa dovrebbe essere la sinistra. E non ci sono dubbi che ad essa il suo popolo disperso e deluso, ma anche un paio di generazioni di giovani disperati, chiedono una politica radicale, di redistribuzione della ricchezza del Paese, di investimenti pubblici, di difesa del territorio, di potenziamento degli istituti della formazione e della ricerca.

Ce lo confermano i relativi successi di Sanders e Corbyn, della sinistra in Portogallo, quello di Podemos e perfino quello di Syriza nella sinistra greca, schiacciato poi dall’arroganza delle potenze finanziarie europee.

Una politica radicale (spunti concreti in questo senso si sono sentiti anche in bocca a Bersani a Santi Apostoli) è quella che può ambire a un successo elettorale a due cifre. Privilegiare le alleanze rispetto al programma probabilmente non scongiurerà la sconfitta elettorale – assillo troppo esclusivo di tanti attori in campo – e farà fallire il progetto di più lunga lena dell’unità della sinistra.

postilla
Bevilacqua confonde due diversi momenti della proposta politica di Enrico Berlinguer. Quello del "compromesso storico", che tutto era ma non un accordo con la Dc (sebbene avesse bisogno di una "spalla "all'interno della Dc, come negli altri settori del variegato mondo cattolico). E il successivo momento della "solidarietà nazionale", nel cui prodursi si aggirarono molti avversari del compromesso storico, interni al Pci, ma anche espressione di interessi stranieri.

Una politica di destra, una cultura di destra, un vocabolario di destra. Questo è Renzi. Allora, per qualsivoglia sinistra si voglia vedere o sperare in Italia, Renzi e la sua corte non sono utilizzabili neppure per una politica di "centrosinistra". il

manifesto, 9 luglio 2017

Nella sua cruda parafrasi della slide di Renzi sui migranti da «aiutare a casa loro», Roberto Saviano ha detto una terribile verità: il Pd non solo guarda a destra, e fa politiche di destra. Ma parla con un linguaggio di destra: peggio, è parlato da una cultura di destra.

E d’altra parte: considerare i lavoratori alla stregua di merce (Jobs act), la scuola come un’azienda (Buona Scuola), la cementificazione come l’unico sviluppo possibile (lo Sblocca Italia), il patrimonio culturale come un supermercato (riforme Franceschini), scrivere una riforma costituzionale che intendeva diminuire gli spazi di democrazia e partecipazione, approvare una legge sulla tortura concepita per non punire la tortura di Stato. Cos’è, tutto questo, se non l’attuazione concreta di una cultura di destra?

Ma qua c’è di più.

«Aiutarli a casa loro» non solo è orrendamente ipocrita sul piano dei fatti perché facciamo tutto il contrario: dal mercato italiano delle armi di cui parla Saviano (aiutamoli a spararsi a casa loro) fino alla dolosa incapacità di invertire la marcia di una politica energetica che produce riscaldamento globale, e dunque la desertificazione che contribuisce ad innescare la migrazione di massa.

Ma quello slogan è soprattutto devastante sul piano simbolico e culturale. Perché contraddice radicalmente il principio stesso dello ius soli (una legge di sinistra che non a caso arranca alla fine della legislatura, mentre tutte le riforme di destra che ho elencato sono andate speditissime alla meta) contrapponendo «casa» a «casa».

«Questa è casa nostra», intende dire Matteo Renzi: e «padroni in casa nostra» è uno degli slogan più diffusi non solo nel vocabolario della Lega di Salvini (come si è ampiamente notato in queste ore), ma anche in quello delle peggiori destre xenofobe dell’est europeo. E se dobbiamo aiutarli a «casa loro» è perché ci rimangano; e perché questa «casa» rimanga nostra: senza confusioni, incontri, meticciato. Ognuno a casa propria.

Qua non si tratta di politiche: si tratta di visione del mondo, di concezione del futuro. O meglio di una non-visione del mondo, di una non-concezione del futuro: della scelta disperata di chiudere rabbiosamente gli occhi di fronte a una realtà ineludibile che non si riesce ad accettare. Perché non ci sono, né ci potranno mai più essere, «case» recintate, nostre, esclusive.

E invece quel «noi» opposto a quel «loro» è la chiave del discorso con cui Renzi parla alla pancia del Paese usando la lingua e la cultura di Salvini.

Ora, come si fa a trovare un terreno comune con questo modo di pensare, con questa mentalità, vorrei dire con questa antropologia? In queste condizioni come si fa a continuare a parlare di «centrosinistra»?

Se le parole hanno un senso, oggi in Italia l’unico «centro» con cui comporre un «centrosinistra» è questo Pd che ha rieletto trionfalmente Renzi, il quale è portatore della cultura che abbiamo appena descritto. Una cultura di destra.

Il fatto che il Pd faccia politiche di destra e sia intriso di una cultura di destra non basta per dire, come invece ho detto aprendo l’assemblea del Brancaccio, che il Pd sia da considerare un partito di destra? Può darsi: ma certo non è nemmeno più un «centro» con cui poter costruire un centrosinistra che non sia solo una macchina per il potere, una scala per raggiungere il governo inteso come fine ultimo. Se ce ne fosse stato ancora bisogno, la slide sull’«aiutiamoli a casa loro» dimostra che in questo tempo la casa politica del Pd non può essere la stessa di una sinistra, comunque la si voglia intendere.

C’è una via alternativa: più lunga, più erta e certo non capace di portare subito al governo. È quella che si potrebbe imboccare se ciò che esiste a sinistra del Pd sarà capace di unirsi, e di parlare un linguaggio tanto diverso e credibile da coinvolgere molti di coloro che non votano più. E che non votano perché pensano che una sinistra che pur di tornare al governo è disposta ad allearsi con chi pensa e parla come Salvini non potrà mai costruire eguaglianza e inclusione.


APPELLO DEL BRANCACCIO
18 giugno 2017
di Anna Falcone e Tomaso Montanari

La scandalosa realtàdi questo mondo è un’economia che uccide: E’ pensabile trasporre questa veritàin un programma politico coraggioso e innovativo? Noi pensiamo che non ci siaaltra scelta.
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è deciderequale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, macome far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragiledi questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sonoscivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuroe di prospettive.
La parte di tutti coloro che da anni non votano perché noncredono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana:coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario;coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti opensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: ladiseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano surisorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide:queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciateda un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso einnovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primopasso di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloroche vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politiconuovo, in cui il voto delle persone torni a contare.
Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesimalegge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”.Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e ilPartito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche enell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almenonon mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progettocondiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra,aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Unprogetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso èandato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quellaCostituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e nonlimitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita sivinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che ilpunto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classepolitica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politichedi destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni alpotere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: unprogetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioniinnovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e noncontrollato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia,anzi, la continuazione.
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership emetta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o aun reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione.
Un progetto che costruisca il futuro sull’economia dellaconoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, nonsull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonioculturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti iproblemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendoequità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive.
Un simile progetto, e una lista unitaria, non sicostruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto,che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, eche si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico,programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma siagià scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nelpiù importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono egualidavanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, direligione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compitodella Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono ilpieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ilavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art.3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, chevogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma chevogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamocandidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché lecandidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui glischemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, eimmutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – atitolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitatidi cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unicaadeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dalpopolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutticoloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questoprocesso.

«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l'antagonismo anche duro. Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi. Pisapia? Un progetto perdente».

MicroMega online, 5 luglio 2017 (c.m.c.)

E' ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. «E' la mia contraddizione personale» ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell'associazionismo diffuso nel Paese. Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l'unico motore per un cambiamento possibile: »Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa». Non a caso, questo weekend sarà a L'Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su "Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

In Italia, ma potremmo dire in Europa, cresce la disaffezione nei confronti della politica. Una crisi della rappresentanza forte a tal punto che ormai vota meno di una persona su due, intanto aumenta la disuguaglianza e il potere economico è nelle ferree mani dell'establishment. Viviamo una fase di crisi democratica o di post-democrazia?
«In tutto l'Occidente assistiamo ad un distaccamento tra la gran parte della popolazione e le classi dirigenti. E ciò, attenzione, non è causa delle tendenze epocali degli ultimi anni – il boom economico di Cina e India, le nuove tecnologie o l'emergenza migranti – bensì delle politiche sbagliate adottate per fronteggiare tali tematiche. E' diverso. Sono stati commessi due errori gravi. Anzitutto l'apertura al made in China, che ha fatto diventare più competitivo il mercato, ha portato vantaggi solo per le classi sociali abbienti mentre le più deboli sono state penalizzate. Di fronte a tale problema bisognava intervenire rafforzando lo Stato sociale, invece si è andati nella direzione opposta e dal 1985 ad oggi si è deciso coscientemente di indebolire il welfare lasciando soli i lavoratori».

Qual è il secondo errore commesso?
«I cittadini sono stati trasformati in votanti/consumatori. Chiamati in causa solo per formare il Parlamento, ogni cinque anni, ma per il resto non vengono coinvolti nella res publica. Assistiamo alla chiusura degli spazi di partecipazione e democrazia quando invece la fase chiederebbe di ampliarli».

Lo scontro ormai è tra popolo vs elite o è una semplice banalizzazione populista?
«Detta così si rasenta l'errore, perché i redditi medi e medio-alti che beneficiano della globalizzazione sono cospicui. Non si tratta di una semplice élite. Preferisco parlare di faglie presenti in seno al popolo, due faglie, secondo me, "di classe": da un lato gli esclusi, i precari, i lavoratori subordinati; dall'altra le borghesie e l'intellighenzia del Paese. Possiamo pensarle anche in termini di faglie territoriali – da un lato la città, dall'altra la campagna – o allo storico conflitto tra centro e periferia. Il popolo sta da entrambe le parti ma ne esiste uno (maggioritario) perdente e l'altro (minoritario) vincente».

In questa Europa esiste un problema di sovranità perduta?
«Il recupero della sovranità nazionale è un imbroglio di chi vuole sfruttare le faglie per farsi dare pieno mandato, per i propri interessi, scaricando le responsabilità della crisi sociale sulle aperture di mercato e delle frontiere, foraggiando così la guerra tra poveri. Soprattutto le destre populiste hanno assunto tali posizioni; però, com'è nella tradizione del movimento operaio, anche a sinistra sta prendendo piede questa infausta linea del ritorno al nazionalismo. Se ci riflettiamo, durante la Prima guerra mondiale, i socialisti si divisero e una cospicua parte appoggiò l'intervento bellico. La classe operaia - che esiste ancora e nella quale includo il precario o il lavoratore subordinato di Eataly - non si deve far ingannare: la soluzione non passa per la chiusura delle frontiere, ma per una nuova attivazione sociale. In Italia e in Europa».

La partecipazione civica è la risposta dal basso all'antipolitica?
«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli, perché in questo periodo storico è necessario l'antagonismo, anche duro. C’è un pezzo di popolo che non ha chance di rappresentanza politica pur avendo all'interno intelligenze collettive. Dato che i partiti tradizionali non riescono più a dar voce ai soggetti esclusi, vanno costruiti nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese».

Per mesi ha provato a riformare il partito del Pd, adesso invece parla di centralità della società civile. Ha cambiato idea?
«Siamo in una fase di ricerca. Continuo a pensare che ad un certo punto servirà un partito capace di rappresentare gli esclusi: un soggetto collettivo che riunisca pezzi di classi diversi, cittadini rurali – il 30 per cento della popolazione in Europa – con operai e borghesia illuminata. Quindi ritengo sia ancora fondamentale l'idea di un partito moderno, ma ad oggi non lo intravedo sullo scenario politico. Nel Pd non sono capace di vedere per ora margini di recupero. In questo momento preferisco focalizzare il mio impegno politico nella società civile dove vedo molto impegno e le esperienze migliori».

Crede in forme di democrazia diretta?
Bisogna dare sempre più strumenti di potere alle persone esterne ai Palazzi, ma senza nuove norme non esistono oggi i mezzi per conquistare peso sul campo. Inoltre, penso sia indispensabile un rafforzamento del welfare con agevolazioni su reddito e nuova mobilità.

Matteo Renzi, dopo la recente sconfitta alle amministrative, non sembra in grado di fare autocritica... che ne pensa?
«Quando alle ultime elezioni nella ricca Emilia Romagna scopriamo che ad aver votato è soltanto il 40 per cento degli aventi diritto, significa che siamo di fronte ad un fallimento. Una crisi incredibile della rappresentanza in cui tutti si dovrebbero sentire coinvolti e invece... non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire».

Dando per scontato che non ha sostenuto Renzi alle primarie, ha votato Orlando o Emiliano?
«Ho votato Orlando, perché ho ritrovato in lui un modo di agire giusto. Da ministro, quando è intervenuto sulle carceri non si è messo nelle mani degli “esperti” ma prima ha coinvolto le organizzazioni che da anni lavorano nei penitenziari e con i detenuti. La partecipazione non è un mero strumento per il consenso; bensì serve per capire cosa fare e come legiferare in quel campo. La vera partecipazione consiste nella raccolta di conoscenze».

Che destino intravede per il Pd?
«Non lo so, ci sono tanti Pd nel Pd. Alcune esperienze sono virtuose, penso a Parma, dove hanno perso bene contro Pizzarotti. Ma nel partito purtroppo ci sono pure persone che sono lì soltanto per avere un posto di lavoro. Io, dall'interno, ho provato a cambiare le cose, ma evidentemente non sono riuscito a spostare l'ago della bilancia. C'è un’assenza assoluta di visione ed organizzazione; nel Pd manca una rigenerazione culturale».

Si può considerare ancora un partito di sinistra?
«Su alcuni temi civili lo è. Mi riferisco alla proposta sullo ius soli o alle unioni civili. Diciamo che non è un partito di destra».

Pensa che dal sociale possa nascere un nuovo soggetto politico?
«Manca un'organizzazione complessiva, questo è il vero limite: si rischia che restino mille fiori, non in relazione tra loro. Molte organizzazioni svolgono un lavoro meritorio con competenza e concretezza, ma sono settoriali».

Insomma, non c'è nessuno che possa rappresentare i tanti esclusi e gli indignati del Paese?

«Ho rispetto per chi ha tentato in passato questa via, come per Maurizio Landini. O chi ci prova oggi, penso a Pisapia. Ma temo siano tentativi perdenti. I tempi sono lunghi. I giovani sono restii ad un nuovo soggetto, la disillusione soprattutto a sinistra è troppa. Troppi fallimenti nel recente passato. Non credono più al cambiamento politico, almeno finché il quadro resterà questo. In questo momento guardo con interesse ad alcune campagne come quella dell'Alleanza contro la povertà (Caritas, Acli etc) sul reddito di inclusione sociale. Sono mobilitazioni proficue e dal basso si possono ottenere risultati».

Barca, non si è pentito di aver perso il treno? In molti hanno sognato intorno alla sua figura la nascita di un nuovo centrosinistra. Potesse tornare indietro, rifarebbe ogni singola scelta?
«Non ho rimpianti. Non avevo il potere e gli strumenti per far cambiare rotta al Pd. Adesso vivo una contraddizione personale: il mio impegno è nella cittadinanza attiva, sono convinto che da lì possano nascere proposte politiche interessanti, poi nella democrazia rappresentativa voto Pd per non regalare il Paese a Salvini o Meloni».

Di Beppe Grillo invece ha paura?

«Io non ho paura nemmeno di Salvini e Meloni. Come non ho paura di Donald Trump; quell'elezione dimostra che la borghesia di sinistra o di destra delle città viene sconfitta al voto dalla massa di esclusi che vive nelle periferie e in campagna o fa parte dei ceti meno abbienti. Una logica conseguenza. Ripeto, ci vuole tempo per cambiare le cose, intanto punto a far dialogare le tante esperienze sociali».

Al Festival sulla partecipazione sarà anche moderatore di un dibattito tra Roberta Lombardi (M5s) e Alfio Mastropaolo (professore di Democrazia e Partecipazione Politica all'università di Torino) dal titolo: "Serve il finanziamento pubblico ai partiti?". Ci sarà da divertirsi?
«Sono orgoglioso che a L'Aquila ci sia un tale dibattito, immaginato dall’Associazione Etica ed economia. Noi abbiamo perso l'abitudine al confronto acceso, ragionevole ed aperto. Si tende sempre a ridicolizzare ed esultare l'avversario parlando a dibattiti senza contradditorio. Si sono ridotti i luoghi di confronto. Il Festival della Partecipazione, in tal senso, va in controtendenza. Abbiamo già sperimentato il formato in tre confronti romani. E ci siamo accorti, rilevando le opinioni prima e dopo il dialogo, che le persone sono pronte a cambiare opinione. E’ questa capacità di cambiare idea o di trovare punti di convergenza che rende la partecipazione uno strumento operativo».

Non è raggruppando in un cartello elettorale tutti gli antirenziani di "sinistra" che si costruirà una formazione politica all'altezza delle sfide di oggi, quale quella lanciata al Bracaccio da Falcone eMontanari Huffington Post, 3 luglio 2017 (c.m.c)

.

La domanda è: la manifestazione di Santi Apostoli ha resuscitato il desiderio di votare in chi fa parte di una sinistra senza casa, in chi magari il 4 dicembre è andato ai seggi per dire No, ma non sa ora dove guardare? Per quel che vale, come membro di quella categoria rispondo di no.

Intendiamoci, in quella piazza romana c’erano tantissime brave persone: a partire da Pier Luigi Bersani. Persone di sinistra: cioè intenzionate a cambiare lo stato delle cose, e a cambiarlo in direzione dell’eguaglianza, dell’inclusione e della giustizia sociale.Ma i discorsi, il tono politico, il filo conduttore della manifestazione e soprattutto la reticente conclusione di Giuliano Pisapia sono apparsi autoreferenziali, chiusi: a tratti ombelicali. Rivolti al passato, e non al futuro.

L’analisi della realtà condivisa da coloro che hanno parlato è sembrata la seguente: «il problema della Sinistra, e del Paese, è Matteo Renzi». Il fatto che quel nome non sia quasi stato pronunciato non ha fatto che aumentare la sua centralità, da fatale convitato di pietra: un gigantesco “rimosso” che tornava fuori ad ogni frase. La versione dei fatti è stata grosso modo questa: «la stagione del centrosinistra è indiscutibile, l’Ulivo è ancora la stella polare. Poi è arrivato Renzi e tutto si è rovinato. Ma se riusciamo a neutralizzarlo possiamo tornare indietro, come se non ci fosse mai stato».

Ora, non sarò io a minimizzare la portata eversiva della presenza di Renzi nella sinistra, e in generale nella politica, italiana. Credo, anzi, di essere stato tra i primissimi a denunciarne l’estrema pericolosità. Ma oggi ­– mentre Renzi galoppa senza freni verso un definitivo suicidio politico, trascinandosi dietro il Partito Democratico – sarebbe irresponsabile non chiedersi come siamo arrivati a lui. Non possiamo raccontarci che è venuto fuori come un fungo, senza radici e senza ragioni. Non possiamo nasconderci che Renzi è il più grave sintomo di una malattia degenerativa della sinistra, ma non ne è la causa.

Dalla classe dirigente del centrosinistra, cioè da coloro le cui scelte politiche hanno generato un Renzi, ci si aspetta dunque un’analisi profonda, e profondamente autocritica. Tanto più se hanno votato fino a ieri tutte le leggi renziane, magari arrivando a votare sì anche alla disastrosa riforma costituzionale. Sia chiaro: non si pretende un’abiura, non si chiedono delle scuse, ma questa inquietante rimozione rischia di preludere ad una coazione a ripetere che non possiamo permetterci.

Per intendersi, con un singolo brutale esempio: se oggi il ministro degli Interni del governo Gentiloni (governo sostenuto dalla fiducia dei parlamentari che da settembre si riuniranno nel gruppo di Insieme) minaccia di chiudere i porti italiani in faccia ai migranti non lo si deve ad una mutazione genetica renziana, ma ad un processo di smontaggio dell’identità della classe dirigente di sinistra che parte ben prima di Renzi, e minaccia di continuare ben dopo di lui.

Sul piano della tattica politica, tutto questo si traduce nella formula esibita dal ministro Andrea Orlando, non per caso presente dietro il palco di Santi Apostoli: «questa piazza non è alternativa al Pd». E Massimo D’Alema ha chiarito, con la consueta intelligenza: «parleremo dell’alleanza di governo con il Pd solo dopo il voto». E dunque è ormai chiaro: questo centrosinistra che si autodefinisce “di governo”, per tornare al governo avrà bisogno del Pd. Di un Pd senza Renzi, o con Renzi nell’angolo: questa è la scommessa di Santi Apostoli.

Ammettiamo che il gioco riesca: un simile governo non sarebbe quello che è già il governo Gentiloni (Lotti e Boschi a parte)? In concreto cosa cambierebbe? Un tale governo di centrosinistra senza Renzi fermerebbe il Tav in Val di Susa e l’Autostrada Tirrenica, bloccherebbe le privatizzazioni e le alienazioni del demanio, cancellerebbe la scellerata riforma Franceschini dei Beni Culturali, abrogherebbe la Buona Scuola, farebbe davvero (e non solo studierebbe, come ha detto Pisapia) una seria tassa patrimoniale, attuerebbe una progressività fiscale e la gratuità del diritto allo studio, ricostruirebbe i diritti dei lavoratori? Niente, nei discorsi di Santi Apostoli, permette di predire una simile “inversione a u” rispetto alle rotte degli ultimi vent’anni – e ho trovato francamente indegno il tentativo di Gad Lerner di arruolare Stefano Rodotà tra i sostenitori di un progetto così poco interessato al futuro.

Dunque non c’è ormai più speranza di costruire una sinistra unita, che sia davvero sinistra, e davvero unita? Io credo che, malgrado tutto, questa speranza ci sia ancora. Credo che ci debba essere. Perché sarebbe drammatico rassegnarci fin da ora a due percorsi paralleli e alternativi, anzi tra loro ostili: uno che guarda all’elettorato Pd, l’altro che guarda all’Italia dei sommersi e dei senza politica.

Ma c’è un solo modo di provare a tenere insieme queste due strade: aprire finalmente un confronto vero: sulle cose. E non sulla fuffa mediatica: leadership, alleanze, candidature. In uno dei pochi passaggi davvero chiari del suo discorso, Giuliano Pisapia ha detto che è stato un errore sopprimere l’articolo 18: ebbene, partiamo da lì, e vediamo fin dove si può arrivare. È per questo che lo avevamo invitato a parlare al Brancaccio (dove non è voluto venire), è per questo che gli avevamo chiesto di parlare a Santi Apostoli (ricevendo un diniego). Pazienza, acqua passata: iniziamo da domani, proviamoci senza rancore.

Lo so: è evidente che il paternalismo compassionevole di Pisapia, o il genuino revival (e lo dico con grande rispetto, e simpatia) di Bersani non bastano a costruire una sinistra nuova. Ma possono invece essere una parte di una casa comune ben più grande e ambiziosa di quella presentata a Santi Apostoli. Sarebbe certo velleitario anche solo pensarlo se lì fosse nato un colosso autosufficiente. Ma guardiamoci in faccia: il soggetto politico nato il primo luglio (Insieme, o come si chiamerà), non viene accreditato, nei sondaggi, per più di un 3-4%.

D’altra parte, il percorso che è iniziato al Brancaccio ha già ottenuto la disponibilità di Sinistra Italiana (pesata più o meno per un 3%), di Rifondazione Comunista (circa all’1%), di Possibile (circa allo 0,6 %) e di molte altre forze. Non c’è dunque pericolo di alcuna egemonia prescritta: c’è invece la possibilità che queste formazioni camminino insieme.

Ma soprattutto c’è la vitale necessità che queste piccole forze immaginino se stesse come una parte di una cosa molto più grande. Che esse accettino, cioè, di costruire una vera alleanza con i cittadini: cioè con quelle forze civiche che ormai passano alla larga dalla politica e dalle urne. L’esempio di Padova ci dice che se questa alleanza funziona, si può superare il 20%: a patto di cambiare linguaggio, di uscire dall’autoreferenzialità di riti comprensibili solo ai notisti politici. Ci vuole una politica nuova: un linguaggio, un forza, un entusiasmo capaci di far ricircolare il sangue nelle vene di questa povera democrazia in declino: e per capire cosa intendo si può confrontare il discorso di Pisapia con quello pronunciato qualche giorno fa da Corbyn davanti ai giovani riuniti a Glastonbury.

Per questo Insieme deve accettare l’idea di partecipare ad un insieme più grande. E una simile lista civica nazionale di sinistra non può nascere ponendosi il problema del governo, o dell’alleanza con il centro (leggi Pd), ma cercando invece di costruire prima di tutto se stessa, strutturandosi intorno ad alcuni grandi principi fondamentali. Non è affatto difficile: ricevo molte mail da militanti di Articolo Uno che chiedono di partecipare alle assemblee che, sul solco del Brancaccio, si stanno autoconvocando in tutta Italia, ennesimo segno che la base è molto, ma molto, più unita delle varie dirigenze in campo.

In conclusione: se la forza battezzata in Piazza Santi Apostoli pensa se stessa come un punto di arrivo, è finita prima di cominciare. Può essere invece davvero importante se pensa se stessa come il pezzo di un processo, di un percorso più grande e più largo. Un percorso vero: senza un destino già scritto, senza leader autoconsacrati e alleanze stabilite a priori. Un processo che si snodi intorno alla costruzione partecipata di un progetto culturale, civile e politico la cui bussola siano eguaglianza, inclusione, partecipazione.

Proviamoci: è questione di umiltà, generosità, lungimiranza, coraggio. E il momento è ora.

«». MicroMega online, 3 luglio 2017 (c.m.c.)

«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra.
Ora - a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo».

Autore di pubblicazioni di rango internazionale in tema di Europa e lavoro, promotore del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times, Brancaccio è un marxista rispettato anche dai suoi antagonisti teorici. Un bel po’ di gotha della finanza e della politica italiana è venuto ad ascoltarlo pochi giorni fa a Roma, in un seminario organizzato dalla società Vera e dal Foglio sul ruolo odierno dell’intervento statale, al quale partecipavano anche l’ex banchiere centrale Lorenzo Bini Smaghi, il presidente della Commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti e il ministro per la coesione territoriale Claudio De Vincenti.

Professor Brancaccio, nella sua relazione introduttiva al seminario di Roma lei ha fornito dati piuttosto sorprendenti sul ritorno dello Stato negli assetti proprietari del capitale globale...

I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all'inizio di una nuova fase storica.

Quali sono i segni distintivi di questa nuova fase?
Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni. Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008.

Quali sono le conseguenze di questi continui soccorsi statali a favore del capitale privato?
Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.

Gli economisti liberisti la raccontano diversamente: essi continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra per il capitale privato…
Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio.

Qualcuno di essi obietterebbe che lo Stato fa bene a soccorrere il capitale nelle fasi di crisi ma non deve restare a lungo nelle compagini proprietarie, dato che l’impresa pubblica è comunque meno efficiente di quella privata. Non trova?
La realtà è diversa. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’OCSE effettuata sulle prime 2000 aziende della classifica mondiale di Forbes, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.

Per l’Italia però si riporta sempre il caso del vecchio IRI, da molti considerato un “carrozzone” di sprechi. Che ne pensa?Bisognerebbe ricordare che al momento della sua privatizzazione molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate dell’IRI non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani. Come vede, sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia.

In Gran Bretagna il leader laburista Corbyn ha ottenuto un notevole risultato elettorale con un programma basato su un ritorno dell’intervento statale in un’ottica non “ancillare” ma di lungo periodo, che prevede pure la nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori chiave. In Francia Melenchon ha sfiorato il ballottaggio presidenziale su una lunghezza d’onda analoga e altri in Europa si muovono nella stessa direzione. Sembra farsi strada l’idea di un diverso modello di sviluppo, con un ruolo centrale per gli investimenti pubblici strategici e forti richiami alla partecipazione democratica alle decisioni. E’ giunto il tempo di una sinistra che intercetta i cambiamenti del capitalismo e tenta di sfruttarne le contraddizioni?
Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti.

Però questi fenomeni politici emergenti sono anche trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Mi pare un punto di forza importante.

Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe. Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra.

Lei dunque ci spiega che il capitalismo si muove, si trasforma, e apre nuove contraddizioni sociali. Nel resto d’Europa, pur con tanti limiti, alcune forze di sinistra iniziano a cogliere i segni di questo mutamento. E in Italia la sinistra che fa?
In Italia la sinistra sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro.

Cosa non la convince del dibattito che si è sviluppato in questi giorni alla sinistra del Partito democratico?
Ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo. Ma soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.

Un punto di discrimine netto però esiste: sulla scia della vittoria referendaria del 4 dicembre, molti esponenti della sinistra invocano la difesa della Costituzione e dei suoi principi di uguaglianza contro i ripetuti tentativi di rottamarla.Una difesa che ovviamente condivido, ma che ho sempre considerato insufficiente. Il modo migliore per tutelare i principi costituzionali della “Repubblica fondata sul lavoro” consiste nel delineare una proposta di politica economica coerente con essi. Mi pare che in materia ci sia ancora poco lavoro collettivo, e ancora molti nodi irrisolti.

Il prossimo numero di Micromega, un almanacco su Europa e Stati Uniti, pubblicherà i testi di un dibattito tra lei e Romano Prodi che si è tenuto all’Università di Bologna nel febbraio scorso. In quella occasione l’ex premier ed ex presidente della Commissione UE ha condiviso apertamente la sua proposta di introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitale. Lo considera un segnale positivo?
Lo è senz’altro, ma devo ricordare che già da qualche anno capita che persino il Fondo Monetario Internazionale plachi i propri entusiasmi per le liberalizzazioni finanziarie e segnali i pericoli di una indiscriminata libertà di circolazione dei capitali. Il mondo intorno a noi cambia rapidamente, la politica italiana sembra sempre un po’ in ritardo. Specialmente a sinistra.

«A tanta potenzialità desiderata, espressa o in formazione corrisponde una straordinaria povertà di politica pragmaticamente propositiva».

La Repubblica, 4 luglio 2017 (c.mc.)

E' in corso dal 4 dicembre un proliferare di movimenti a sinistra del Partito democratico, voci che emergono dalla società civile e aspirano a proporre visioni politiche. Singole personalità della cultura mosse dal senso civico di contribuire alla vita pubblica per rimediare alla debolezza dimostrata dalla leadership del Partito democratico. Sigle politiche nate per progressiva secessione dal Pd nel corso degli anni, a partire dalle primarie seguite al ritiro di Veltroni fino alle più recenti, e soprattutto dopo il 4 dicembre. Questo movimento plurale nella sfera pubblica è positivo, il segno di una società non apatica, ricca di potenzialità, insoddisfatta del corso attuale del partito di governo e del governo stesso e preoccupata del persistente e crescente astensionismo elettorale.

La questione sociale è grave e i timidissimi segnali di ripresa dell’economia non sono accompagnati da un effettivo percepito miglioramento delle condizioni di milioni di cittadini e lavoratori che vivono o nell’indigenza o vicini alla povertà. Diritti sociali che sono in molti casi diritti solo formali, e politiche governative che non hanno preso sul serio né i principi di giustizia ed eguaglianza contenuti nella Costituzione né le promesse democratiche, che non si riducono a mettere in piedi governi che durino. «Finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia», diceva Lelio Basso all’Assemblea costituente il 6 marzo 1947. Dopo settant’anni quegli intenti sono ancora allo stato di desiderio, con l’aggravante che oggi è debole la convinzione che lavoro e cittadinanza debbano stare insieme, che siano i valori fondamentali su cui impegnarsi. C’è uno spazio vuoto di progettualità politica da riempire perché l’insoddisfazione non si traduca in disillusione e senso di impotenza o, che è anche peggio, reazione xenofoba e nazionalistica.

A tanta potenzialità desiderata, espressa o in formazione corrisponde una straordinaria povertà di politica pragmaticamente propositiva. Povertà per troppa ricchezza di attori individuali e, soprattutto, per l’abitudine ad un linguaggio che è emotivo e morale, incapace di farsi politico, di nominare problemi invece che leader, idee programmatiche invece che frasi a effetto, critiche motivate sulle cose invece che attacchi personali. La “vibrante società civile”, per usare un’espressione habermasiana, dovrebbe riuscire a incanalarsi nella deliberazione politica; e perché questo avvenga sono indispensabili forme di partecipazione che sappiano articolare e unire. A questo servono i partiti. La loro asfissia, anzi la loro scomparsa fuori dalle istituzioni e la loro sostituzione con manifestazioni personali di leadership: questo è uno dei maggiori problemi del presente (che non sia solo italiano non è di alcun sollievo).

Il 4 dicembre ha squadernato questo problema, che è colossale, e ha messo a nudo la miopia di una politica leaderistica e plebiscitaria. Ma quel che ha lasciato è una pratica personalistica tracimante. Cosicché oggi il problema non deriva dalla scarsità dell’offerta individuale, ma dalla sua sovrabbondanza. Ogni voce si presenta come vera rappresentante della sinistra, come la parola che manca o quella più autentica. Alla fine, la sinistra sembra sempre più una categoria metafisica indecifrabile alla quale ci si appiglia per coprire un disordine di elaborazione che è proporzionale al numero dei candidati a risolverlo.

I partiti politici hanno una funzione che in questi tempi di attivismo senza bussola emerge con chiarezza: rendere le varie personalità che la vita politica naturalmente genera capaci di collaborare, di dialogare, di trovare nella loro rappresentatività singolare una forza che arricchisca progetti collettivi. Senza questa cooperazione per uno scopo elettorale comune, la pluralità di leader è un problema. Ed è quanto rischia di accadere a questa sinistra fatta di tanti soggetti individuali ma con una gracilissima coralità. Una sinistra di tanti capitani di ventura, con eserciti transitanti e, anche questi, composti di menti singole, abituate a dichiarare e asserire sui social, ma troppo poco a delibeare o discutere con altri. E invece, ad ogni idea una persona, ad ogni persona una sinistra, e a ogni sinistra un leader. Questa proliferazione per partenogenesi di individualismo dissociativo uccide la politica.

Senza dialogo, senza una trama comune di idee, senza una riflessione competente su progetti possibili, senza riannodare tradizioni di valori e di studio — senza l’accettazione del fatto che la politica nella democrazia elettorale deve costruire soggetti collettivi per competere e non può corrispondere soltanto a capi plebiscitari — senza tutto questo la vibrante società civile resta tale. E la profusione di bandiere nuove che sventolano, di siti internet e di sigle è destinata a restare una selva che non ha unità di senso, che non orienta ma disorienta.

«». Left online,

Oggi, primo luglio in piazza Santi Apostoli, a Roma, Giuliano Pisapia spiegherà finalmente – almeno così in molti speriamo – quale strada intende imboccare. Grande coalizione da Carlo Calenda a lui, passando per il Pd di Matteo Renzi, ma con un governo a guida di Piero Grasso, si dice oggi, mentre scrivo. La formula Genova, insomma: il che non suona rassicurante, visto il risultato. Ma non è questione di formule, è questione di sostanza. E la sostanza è che queste grandi manovre di vertice danno per scontato che metà del Paese non voti più. Se per caso l’altra metà degli italiani tornasse a manifestarsi, anche solo al dieci per cento, tutto questo castello di carte verrebbe giù: come insegna il voto del 4 dicembre.

Anna Falcone, io, le 1.500 persone che erano al Brancaccio e le 65.000 che hanno seguito in streaming l’assemblea del 18 giugno: saremmo stati tutti felici se Pisapia avesse accolto il nostro invito a parlare, e ad ascoltare. O se solo avesse risposto alla nostra richiesta di prendere oggi la parola a Santi Apostoli. Ma mi rendo conto che non abbiamo l’appeal di Bruno Tabacci, o del napoletano Michele Pisacane. Provo allora a scrivere qua ciò che gli avrei voluto chiedere in pubblico.

È d’accordo, caro Pisapia, sul ripristino dell’articolo 18 e anzi sull’estensione, che era prevista dal quesito referendario della Cgil? È d’accordo ad istituire un reddito di dignità così come lo propone Libera? È d’accordo con la ricostruzione di una seria progressività fiscale, che alzi oltre il 60% lo scaglione per i redditi più alti? È d’accordo nel riaffermare il ruolo centrale dello Stato nella economia? Cioè, in concreto, è d’accordo nel sospendere le alienazioni del patrimonio pubblico e nel fermare le privatizzazioni? È d’accordo nella ricostruzione di un vero diritto alla salute, omogeneo sul territorio nazionale? È d’accordo nello stabilire il consumo di suolo a zero e nel varare una grande opera pubblica di risanamento del territorio? È d’accordo nel dire no al Ceta? È pronto ad impegnarsi a togliere dall’articolo 81 della Costituzione il pareggio di bilancio? È d’accordo nel ritirare lo Sblocca Italia, la Buona Scuola e il decreto Minniti? È pronto a dividere draconianamente le cariche di partito dalle cariche di governo, a cominciare dalla presidenza del Consiglio?

Non è un programma estremistico. È anzi assai più moderato di quello che propone Jeremy Corbyn. Ed è esattamente questo l’orientamento condiviso dalla base a cui lo stesso Pisapia dice di richiamarsi. Per esempio: l’assemblea regionale lombarda di Articolo Uno – Mdp che si è riunita il 24 giugno, ha approvato una mozione in cui si legge: «Occorre un nuovo soggetto politico che sappia offrire al vasto mondo del centrosinistra un’alternativa al Pd, che sia credibile e con ambizioni di governo. Un nuovo centrosinistra non può esistere a prescindere da questo nuovo soggetto. Per fare questo serve: il riconoscimento degli errori compiuti negli ultimi tre anni di governo, ma anche una forte discontinuità con le politiche neoliberiste che hanno condizionato anche le migliori esperienze di centrosinistra degli ultimi 20 anni; la piena consapevolezza di ciò che ha rappresentato il voto del 4 dicembre».

Su questa base la sinistra non solo sarebbe unita: sarebbe anche una bella sinistra. Troppo bella, per essere vera?

© 2024 Eddyburg