C’è però da chiedersi se è Barbara Spinelli a non volersi più considerare parte de L’Altra Europa o è L’Altra Europa – o i suoi “organi centrali” – a non considerarla più, e da tempo, parte del proprio “progetto”. Vi sembra un modo normale di tenere i rapporti tra colleghi di uno stesso gruppo parlamentare definire in una riunione pubblica “un carnevale” le scelte di Barbara Spinelli, come ha fatto Curzio Maltese, e senza che il COT abbia sentito il bisogno di eccepire alcunché (e ricevendone in premio l’assunzione negli organi direttivi di Sel)? Ma non si tratta purtroppo di una novità,
Barbara Spinelli è stata, fin dall’inizio di questa vicenda, per il suo nome, per il suo lavoro di giornalista, per i suoi interessi, testimone e garante non solo dell’orizzonte europeo del progetto, che è la prima delle grandi novità che fanno la differenza dell’Altra Europa rispetto a tutte le altre formazioni politiche; ma anche del suo carattere unitario ma apartitico, che è ciò che ha permesso a quel progetto di arrivare là dove tutte le precedenti “iniziative unitarie” non erano più da tempo riuscite ad arrivare. La lista Arcobaleno, quella Ingroia o la Federazione della sinistra avevano già abbondantemente dimostrato come anche gli elettori di sinistra avessero ormai voltato le spalle a qualsiasi lista con una caratterizzazione partitica.
Il fatto che Barbara si fosse “rimangiato” l’impegno a non accettare un eventuale seggio nell’Europarlamento, così come era stata indotta a “rimangiarsi” la decisione di non candidarsi, come tutti gli altri garanti (ma allora senza alcuna protesta) avrebbe potuto e dovuto essere accolto come un altro grande passo avanti lungo la strada intrapresa. Nessuno infatti osava negarlo; tanto che persino il segretario e il coordinatore dei due principali partiti che avevano sostenuto la lista erano stati concordi nel riconoscerlo. E l’autentica rappresentante, nel nome e nei fatti, della lista l’Altra Europa avrebbe potuto entrare nell’aula del Parlamento Europeo intitolata a suo padre come prova vivente di quel nuovo inizio. Invece ci è dovuta entrare accompagnata sì, dall’entusiasmo di tanti di noi, ma anche inseguita dagli insulti e dai lazzi di molti di coloro che avrebbero dovuta sostenerla (non poi così tanti; ma sufficienti a fare caciara, anche con il rincalzo di tanti nemici giurati della lista). Che cosa era mai successo? Era successo che Barbara aveva “portato via” il posto non a un altro candidato de L’Altra Europa (cosa che nelle liste elettorali è ordinaria amministrazione); ma all’”Europarlamentare di SEL”, rompendo quell’equilibrio così diligentemente illustrato dai cultori dell’alta politica (uno a Rifondazione, uno alla “società civile” e uno a Sel) che avrebbe dovuto riportare la lista a quella condizione di mera aggregazione di organizzazioni diverse a cui si era cercato in tutti i modi di sottrarla; peraltro non sempre riuscendoci, come evidenziato in molte situazioni da una conduzione separata della campagna elettorale.
Quella guerra contro Barbara, scatenata dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione, è stata in realtà una guerra contro il progetto dell’Altra Europa; che da allora è rimasta paralizzata, nell’attesa di arrivare a un qualche compromesso con le sue presunte “componenti”. Che da allora, poco per volta, sono diventate tre: Rifondazione, Sel, ma anche l’Altra Europa: al tempo stesso (presunto) contenitore sia delle altre due componenti che di se stessa… Oggi si rinfaccia a chi non ha un partito il lavoro che i membri dei partiti hanno fatto per raccogliere le firme e fare campagna elettorale (i volantini, i manifesti, i comizi, i viaggi, i soldi, il tempo…). Ma non hanno fatto le stesse cose anche quelle e quelli senza partito? E non eravamo, o non avremmo dovuto essere, tutti della stessa partita? Invece oggi si invoca invece quell’impegno come se dovesse legittimare la compartecipazione alla gestione de L’Altra Europa non di chi vi milita, il che sarebbe normale, ma degli apparati dei relativi partiti. E perché mai? Perché questa è la strada che è stata imboccata da L’Altra Europa.
In realtà, una scelta o una decisione ufficiale non c’è mai stata; c’è stata una pratica che si è andata trascinando per mesi e mesi nell’inconcludenza: niente gruppi di lavoro (quindi niente elaborazione); niente apertura dell’associazione (perché Sel non voleva; ma chi l’ha deciso?); niente appoggio alle liste regionali Altra Emilia Romagna e Altra Calabria (il silenzio, in una situazione del genere, si chiama boicottaggio, che significa non “vendere” e non “comperare” un prodotto. Ma Sel si presentava con il PD, e non bisognava “dividersi”); niente rapporto con i movimenti (tutti) e, in particolare con No-triv e No-expo per non disturbare governanti e amministratori di Sel; niente autofinanziamento e quindi niente comunicazione per mesi e mesi (10); niente regole di funzionamento fino a che non sono state messe a punto quelle che, scimmiottando un congresso, hanno garantito al gruppo permanente al comando la propria perpetuazione; niente, ovviamente, dibattito su quelle regole, da prendere o lasciare. Ma abbiamo appoggiato la Grecia, Syriza e il governo Tsipras! Ci mancherebbe solo che non si fosse fatto… Ma una scelta del genere non basta a tenere in piedi un’organizzazione che si pretende politica. (di associazioni Italia-qualcosa ne abbiamo tante; tutte o quasi meritorie, anche se certo meno importanti). Ma quanto maggiore è stato il riferimento, sacrosanto, alla Grecia, di altrettanto si è affievolita la capacità di misurarsi con i maggiori processi sociali in corso nel nostro paese. Il punto di approdo di questa parabola è stato l’appoggio alla lista Pastorino. Certo è una lista che potrebbe anche avere un certo successo: non per proprio merito, ma per l’incancrenimento del PD. Dubito però, per come si è costituita, che possa pescare gran che tra tutti coloro che non votano più perché sono disgustati dalla politica, e non solo dal PD così com’è ora.
Ma quel punto di approdo era nella logica delle cose. Dal documento Siamo a un bivio, che è stata la bandiera del finto congresso di aprile dell’Altra Europa, si era esplicitamente voluto escludere una clausola – ed è stato il motivo per cui ho rifiutato di sottoscriverlo - che prevedeva di darsi “una struttura provvisoria, democraticamente eletta, che abbia il suo fulcro nei comitati e nelle associazioni dell’Altra Europa che si sono andati costituendo o si costituiranno nei territori”. La si è esclusa con l’esplicita affermazione che quei comitati “non contano nulla”, e che occorreva guardare al di là: alle decine di migliaia di firmatari dell’appello iniziale (quelli che così facendo abbiamo in gran parte perso) e al milione e passa di nostri elettori (idem): apparentemente un rapporto demiurgico tra il “centro” e una platea tutta da costituire; in realtà, la predisposizione di una sommatoria di “componenti” da non mettere in discussione.
eddyburg. In calce le prime firme
Abbiamo condiviso e continuiamo a condividere l’appello iniziale L’Europa a un bivio, che alcuni di noi hanno contribuito a redigere e che altri hanno sostenuto con la propria candidatura e con la propria militanza, ma – nonostante molte mediazioni – non possiamo condividere il percorso che l’attuale gruppo dirigente dell’Altra Europa sta perseguendo.
Durante l’ultima assemblea nazionale di Bologna, il 18 e 19 gennaio, non è stato definito alcun programma, dato che quell’assemblea era stata messa nell’impossibilità di esprimere un voto.
Non votare e non contarsi significa sempre eludere la sostanza: cioè i temi politici fondamentali su cui non c’è eventualmente accordo.
Era stato però designato un “Comitato operativo transitorio” formato dalle stesse persone che avevano dato corpo in precedenza ai molti e spesso stravaganti acronimi (Con, Cot) che indicavano organismi non eletti, incaricati di condurre all’assemblea successiva. Di assemblea in assemblea, con sempre meno militanti e sempre più invisibili al mondo, siamo giunti a compiere quel presunto “percorso unitario” – mai votato e mai deciso, reso possibile dall’immobilismo e dalla subalternità ai piccoli ceti partitici della sinistra – che ha portato a delegittimare il lavoro di aggregazione fatto con continuità e abnegazione dai comitati regionali nati in vista delle elezioni.
Fino a giungere al caso esemplare dell’Altra Liguria, di cui la dirigenza di Altra Europa ha ignorato o misconosciuto le scelte – analogamente a quanto accaduto per L’altra Sardegna, L’altra Calabria e L’altra Emilia Romagna - insieme a quelle delle tante forze con cui questa struttura locale era riuscita a costruire un primo embrione di coalizione sociale. Un disconoscimento volto ad appoggiare la candidatura Pastorino che, per le passate prese di posizione, contrasta con gran parte dei principi ispiratori e dei punti programmatici della nostra comunità. In particolare, contrasta con uno dei cardini dell’appello istitutivo de L’Altra Europa: quello di non candidare personaggi che ricoprissero o avessero ricoperto cariche elettive o ruoli dirigenti in altri partiti nella passata e nella presente legislazione, onde salvaguardare il carattere sostanzialmente apartitico della lista.
Il superamento delle piccole identità partitiche era la caratteristica che aveva maggiormente distinto il nostro progetto, permettendoci di raggiungere il risicato quattro per cento che ci aveva fatto esistere come forza politica: un principio che per l’Altra Europa dovrebbe avere valore statutario.
Le cose sono andate diversamente. La dirigenza che gestisce oggi quel che resta dell’Altra Europa ha voluto perseguire ciò che già aveva enunciato nel documento Siamo a un bivio: l’unità, in vista di una fantomatica e sempre di nuovo rinviata unificazione, tra i piccoli partiti della cosiddetta sinistra radicale, e dell’ancor più fantomatica unificazione con una frangia della sinistra Pd di cui non si conoscono le reali prospettive.
Il nucleo di una ventina di persone che, pur non essendo mai state elette, si sono insediate al comando dell’Altra Europa, si è di fatto ritagliato, all’interno dei circa quarantamila sottoscrittori dell’appello iniziale, un proprio “corpo sociale” costituito da poco più di settemila adesioni (dopo averne preannunciate decine di migliaia e aver detto che il vero referente erano il milione e centomila elettori), ormai formato in gran parte da militanti di partiti (soprattutto Rifondazione comunista) che tutt’ora hanno forti legami con le proprie case di appartenenza.
Il cosiddetto Comitato di Transizione ha trasformato la prossima assemblea nazionale del 18-19 aprile in un congresso per delegati – un ossimoro, e in buona parte un tradimento delle intese inziali – che eleggerà un organismo su lista unica bloccata, un comitato centrale inamovibile, solo formalmente legittimato “democraticamente”. Si sono tenute assemblee territoriali con la pretesa di voto su mozioni (una della quali, per altro, ritirata dagli stessi estensori) e con “controllori” centrali a verificare il rispetto dei criteri imposti. In questo modo, migliaia di militanti sono stati esclusi dal corpo sociale dell’Altra Europa. Dei sei promotori iniziali (poi garanti) del progetto, ne è rimasto solo uno. Tutti gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi, gli esponenti di rilievo dei tanti movimenti che si erano raccolti intorno al progetto – un gran numero di persone, tra cui decine dei nostri candidati e candidate – ci hanno lasciato strada facendo.
Il risultato è che la linea politica dell’Altra Europa si piega ormai di volta in volta alle esigenze tattiche imposte dalla sua subalternità agli interessi dei partiti con cui vorrebbe unificarsi: basti pensare al voltafaccia sulla nostra costituzione in associazione, che Sel non gradiva e che per questo non si è più fatta, o al voltafaccia sulla partecipazione alle elezioni regionali, prima scartata perché “le Regioni non contano nulla”, poi sostenuta per offrire uno spazio a Sel, dove questo partito non riesce ad accordarsi con il Pd; o, ancora, al voltafaccia nei confronti del tema “coalizione sociale”, prima marginalizzato e addirittura irriso, e poi, dopo le prese di posizione di Landini e Rodotà, riannesso in modo posticcio al percorso della “Casa comune della sinistra e dei democratici”. Per non dire dei contorsionismi necessari a stare con i movimenti No Tav, No Triv, No Expo e al tempo stesso mantenersene fuori, così da non costituire una minaccia per chi, pur abbracciando astrattamente una posizione, ne pratica un’altra, spesso diametralmente opposta, quando siede in giunte comunali e regionali. Lo stesso vale per la vicenda di Tempa Rossa e per i movimenti che lottano contro le Grandi Opere, l’erosione del suolo in Liguria, il No Muos in Sicilia, le Grandi Navi e il No Mose in Veneto.
Tutto questo ha disgregato ciò che era unito: molti di coloro che hanno sostenuto la nascita dell’Altra Europa si sentono ormai come esuli in patria, alcuni si sono allontanati, altri hanno ritrovato entusiasmo riavviando un processo partecipativo. Tutti però sono convinti che il percorso seguito attualmente non abbia futuro, essendo una stanca e ancor più contorta riedizione di progetti di aggregazione tra forze politiche prive di una propria ragion d’essere, per quanto ben decise a salvaguardare la propria sopravvivenza, la propria identità e, il più delle volte, i propri apparati (o zavorra, come li definisce Stefano Rodotà).
Stanno tuttavia prendendo forma e moltiplicandosi molti punti da cui partire per far rivivere quello spirito unitario – fondato su partecipazione orizzontale e attenzione ai processi sociali, anziché sugli schieramenti partitici – che aveva animato l’adesione al nostro progetto iniziale. Li ritroviamo nelle reti fra movimenti, nella trasversalità delle mobilitazioni per i migranti, nella perseveranza di tanti militanti e comitati, nella fierezza con cui L’Altro Veneto e molte “Altre” Regioni hanno deciso di affrontare le elezioni regionali con slogan come “basta cemento, basta tangenti”, chiedendo che la politica ritrovi un rapporto con l’etica del bene comune e sappia mettere al primo posto la solidarietà, l’accoglienza, le persone. La politica vera dell’Altra Europa, per noi, si fa lì.
15aprile 2015. Primi firmatari: Antonella Leto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Barbara Spinelli, Guido Viale
La Repubblica, 13 maggio 2015 con postilla
Barbara Spinelli, la sua decisione di lasciare la lista in cui era stata eletta all’europarlamento, “L’Altra Europa con Tsipras”, ha scatenato le polemiche. Il coordinatore di Sel, Fratoianni, la accusa di essere incoerente, rimproverandole di aver voluto tenere il seggio proprio per garantire la tenuta di quel progetto di cui oggi dichiara il fallimento. E sui social network c’è addirittura chi la accusa di tradimento. Come risponde?
«Io non trovo che ci siano né incoerenza né tradimento. Il motivo per cui, da tempo ormai, ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che secondo me è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile. E soprattutto non dominato dai vecchi partiti della sinistra radicale. In questo anno e mezzo, piano piano ho avuto invece l’impressione di un predominio dei piccoli partiti che avevano promesso di sciogliersi ma non si sciolgono mai».
Quando ho letto la lettera di presa di distanza dalla lista ho scritto a Barbara Spinelli: «sono molto addolorato ma ti comprendo». Sono convinto che in un nuovo soggetto politico all'altezza dei problemi di oggi, che voglia promuovere una mobilitazione di massa, deve rivolgersi alle persone e non alle organizzazioni. Sono altrettanto convinto che la tecnica della lottizzazione delle posizioni di responsabilità sulla base delle appartenenze di gruppo non sia accettabile da parte di quanti hanno espresso la loro diffidenza verso la vecchia politica con l'astensionismo. Sono altrettanto convinto che oggi il pericolo maggiore sia rappresentato da Matteo Renzi, e che combattere dall'interno della sua macchina di guerra sia del tutto perdente. Infine, sono convinto che la priorità della lotta al renzismo non consenta alleanze con chi di Renzi è alleato. Per quanto riguarda la permanenza di Spinelli nel parlamento europeo ho votato con entusiasmo per lei non perchè la consideravo un buon capopartito, ma un ottimo parlamentare europeo e un magnifico rappresentante, in quella sede, di una nuova sinistra. Come ha dimostrato di saper essere. (e.s.)
Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015
Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.
1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.
3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.
4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.
5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.
6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.
7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.
8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.
9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.
10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.
Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.
Il manifesto, 19 aprile 2015
Prima giornata di lavoro, e prima effettiva assemblea decisionale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsipras nella Sala Roma Eventi (in via Alibert 5), soprattutto primo evento nazionale dalla nascita della ’Coalizione sociale’ lanciata da Maurizio Landini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i relatori della mattinata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, braccio destro di Landini e qui a nome della neonata Coalizione. Ma nel menù del dibattito c’è molto: dai 100 anni di Pietro Ingrao raccontati da Maria Luisa Boccia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo torturato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, grazie al cui ricorso la Corte europea ha condannato l’Italia fino alle elezioni spagnole e, neanche a dirlo, alla situazione greca.
350 i presenti, stavolta nel ruolo di delegati da 72 assemblee in giro per i nodi territoriali di tutta Italia. Non per «partitizzarsi», spiegano gli organizzatori, ma per avere un assemblea che possa legittimamente decidere e lanciare una proposta «per un processo costituente unico alternativo alle politiche di austerità». Tema delicato, come sempre, al centro della relazione del sociologo Marco Revelli che ha illustrato il cambio di fase, e di marcia, della (ex) lista elettorale dalle europee di un anno fa.
Il manifesto, 16 aprile 2015
La miseria al centro del libro di Pierre Bourdieu non è la povertà assoluta (una condizione materiale documentabile e certificabile), bensì la «miseria di posizione», cioè la miseria che nasce e si riproduce in uno spazio fisico e sociale degradato, precario, instabile, cui si appartiene e in cui si è coinvolti senza possibilità reale di uscirne: insomma, la miseria contemporanea è innanzitutto un sistema di relazioni sociali che influenza negativamente il modo in cui le persone pensano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a disposizione. In questo senso, l’apparentemente improbabile parallelismo tra Tacito e il sociologo francese va al di là della suggestione retorica: la miseria che emerge dalle analisi di Bourdieu e collaboratori è frutto di una desertificazione sociale, vale a dire dell’impoverimento materiale e della contemporanea pauperizzazione sociale.
Un universo fantasmatico
Il declino di un vecchio mondo (quello della società del benessere) e il sorgere di un nuovo universo, più spietato, meno civico e solidale. All’interno di questo ordine che possiamo chiamare neo-liberista lo Stato si è ritirato e ha perso (per scelta politica) autorevolezza e capacità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono frantumate le istituzioni sociali intermedie che assicuravano sostegno agli individui (la famiglia) ma anche mediazione dei conflitti (le associazioni), sintesi e organizzazione delle diversità culturali e delle aspirazioni individuali (i partiti, i sindacati). Bourdieu e la sua equipe analizzano le manifestazioni di questa miseria contemporanea (che è anche diffusione della violenza e dell’intolleranza) mettendola in collegamento con le sue radici sociali e politiche occulte (perché rimosse dal dibattito pubblico e politico) intervistando una vasta e variegata platea di soggetti: dall’anziano che vive nella banlieue al lavoratore immigrato; dalla giovane disoccupata all’assistente sociale e al piccolo commerciante. Tutte queste figure, i cui vissuti e percorsi sono ricostruiti attraverso un approccio che unisce sempre all’avvincente narrazione d’inchiesta una serrata riflessione teorica in grado di restituire i collegamenti tra le biografie individuali e le più vaste dinamiche sociali e economiche, sono accomunate dalla condivisione di un comune orizzonte e spazio sociale: quello dei ceti popolari, depotenziati nella propria dignità, nel proprio rispetto di sé e nella propria autonomia. Questo immiserimento nasce dalla precarizzazione del mercato del lavoro, dalla contrazione del welfare state, dall’esclusione sociale, dai meccanismi classisti della scuola e dall’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni pubbliche.
In questo caleidoscopio sociale «dal basso», nel quale biografia individuale e trasformazioni collettive si intrecciano costantemente, ritroviamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure professionali che rappresentano ciò che resta della rete di protezione sociale statuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il piccolo commerciante che non ce la fa più a reggere la concorrenza della grande distribuzione e che vive, ormai anziano, le sue difficoltà reagendo in modo rabbioso, facendo appello ad un nuovo nazionalismo che lo possa proteggere dalle conseguenze della globalizzazione. Un’ampia galleria di giovani, dall’operaio precario che guarda come inutile residuo del passato il sindacato pur vivendo una situazione di forte precarietà lavorativa, al giovane studente marginalizzato e taciturno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruolarsi come volontario nelle milizie croate. E i continui conflitti, ormai diffusi ovunque nel tessuto della vita quotidiana delle banlieue, tra francesi di nascita e francesi naturalizzati (cioè migranti), praticamente per ogni cosa: dagli odori provenienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai giochi nei cortili. Indicatore di una lotta per il controllo del territorio (ormai in fasce di declassamento) tra gruppi che condividono poco, ma anche risultato del deciso indebolimento dell’autorità nelle famiglie naturalizzate, che conduce i giovani ad assumere comportamenti sempre più fuori controllo.
La prateria della politica
Su questo variegato fronte di guerra – nel quale sindacati e partiti di sinistra sono oramai assenti anche come terreno di incontro e di mediazione tra vari tipi di ceti popolari – ritroviamo anche gli assistenti sociali e i giudici minorili, che non vivono semplicemente le pur tante difficoltà connaturate al loro lavoro ma la sempre più ampia sensazione di essere svalutati socialmente e professionalmente, proprio da quello Stato per cui lavorano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La miseria del mondo di Bourdieu fa emergere così tre aspetti molto interessanti: la differenziazione e frammentazione soprattutto per linee etniche e generazionali dei ceti popolari contemporanei; l’abbandono sistematico dei più deboli da parte della politica e delle classi dirigenti, che apre la strada ad una visione sempre più darwiniana della vita sociale; l’apertura di una prateria politica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampiamente sottovalutata) sia per il nazionalismo populista che per la radicalizzazione islamista, in conseguenza del dissolvimento della sinistra e del suo radicamento popolare.
La miseria è stato uno dei temi dominanti nella vita delle masse popolari nel corso della storia fino ad emergere come un attributo fondamentale di quella questione sociale (e non più semplicemente religiosa) che, a partire dall’ascesa della società industriale, ha dominato la scena politica e il dibattito pubblico della modernità. La miseria è una categoria e uno stato diverso dalla «semplice» povertà: la miseria è penuria di risorse ma anche meschinità morale, condizione materiale deprivata ma anche sofferenza e bassezza spirituale, in termini sociologici quella fine della coesione sociale retta da valori non solo condivisi ma anche capaci di dare una meta e un orizzonte di miglioramento alla vita individuale e collettiva. Così, la miseria non è mai il contrario dell’opulenza ma della «vita buona» e della possibilità di realizzarla in qualche luogo. Come tale la possiamo ritrovare tanto nei ghetti e nelle favelas quanto nei grattaceli scintillanti di Manhattan, ogniqualvolta la deprivazione materiale si accompagna ad un eterno presente senza speranze di riscatto morale, civile e materiale.
L’utopia del socialismo – e poi la stessa ideologia dello Stato sociale, compreso quello di marca liberaldemocratica – è consistita nel ritenere che la società industriale fosse la dimensione all’interno della quale offrire una soluzione a questo problema, una volta eliminato o messo sotto controllo il capitalismo; e, per questa via, in questo mondo, riscattare dalla miseria l’umanità intera, tanto il proletariato quanto gli stessi borghesi. La miseria contemporanea è negazione di questa utopia ed estraneazione della sinistra dai ceti popolari; ed è stata occultata, anche durante e nonostante la grande crisi del 2007. Rileggere l’attualissima ricerca di Pierre Bourdieu ce ne fa capire il perché: non si tratta solo di mera convenienza politica.
Eclisse della sinistra
Ci troviamo di fronte alla scomparsa dal dibattito pubblico della società stessa e dei ceti popolari ora che, dopo la fine del fordismo e della società del benessere, si fanno più differenziati, estesi e precari: fine della società perché la miseria quando è raccontata e messa a tema lo è sempre come questione individuale, disturbo psicosomatico, male esistenziale senza radici sociali, che invece persistono e sono resistentissime, radicate nei meccanismi di funzionamento economico e nei poteri sociali. Abbandono dei ceti popolari perché questi non sono più coinvolti in un progetto di riscatto e progresso sociale ma lasciati in balia dei meccanismi più selvaggi del mercato e di una narrazione mediatica e politica che ne esalta le reazioni di pancia, funzionali al mantenimento di quell’ordine sociale che li priva, contemporaneamente, della prospettiva della «vita buona» (populismo e radicalismo a sfondo religioso). Si pensi a questo proposito al racconto pietistico che in Italia si fa a volte dei disoccupati o dei pensionati rovinati da videopoker o videolottery: in tutti questi casi si cede alla commiserazione, si parla di psicopatologia ma si occulta il fatto che quelle miserie sono funzionali a precisi interessi economici (anche di stampo mafioso), possibili e promossi dalle leggi dello Stato. La miseria del mondo di Bourdieu mostra la possibilità di rendere reversibile (perché prodotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scambiato per un destino senza scampo: la miseria dei tempi presenti in tutte le sue complesse ed articolate forme.
Il manifesto, 12 aprile 2015
La prossima settimana il manifesto della coalizione sociale sarà diffuso in vista di un’assemblea di due giorni programmata a metà maggio. Nelle intenzioni del segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe chiarire che la «coalizione sociale» non è un partito ma «un processo aperto e in divenire». Nella bozza distribuita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quartiere Centocelle di Roma, poi diffusa dall’Ansa, si legge che la coalizione vuole «dimostrare che si può fare politica attraverso un agire condiviso, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».
La coalizione sociale sarebbe dunque il risultato di un «agire condiviso», «fuori e non in competizione» con i partiti. Probabilmente la precisazione serve a raffreddare le reazioni della «sinistra Pd» o dei Cinque Stelle, che vedono con insofferenza l’esperimento di Landini. Si punta a fare coalizione con tutti i lavoratori, precari e «nuovi poveri» con la partita Iva, sul «territorio» e «nei luoghi di lavoro», non tra gli schieramenti.
All’incontro hanno partecipato associazioni come Act, movimenti come il Forum dell’acqua e centri sociali dell’Emilia Romagna. È intervenuto anche Stefano Rodotà che ha ribadito il giudizio contro la «zavorra» dei partiti. Una posizione, ha ammesso, che ha innervosito molti nei partiti. A suo avviso la «coalizione sociale» ha «una carica polemica positiva»: registra la crisi della rappresentanza della politica e intende restituire rappresentanza sociale e politica al lavoro. Per Rodotà questa è la base di un’altra cultura e agenda politica da sottoporre anche a chi, nei partiti, è sensibile ai beni comuni o alla proposta di legge d’iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione.
L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pomeriggio le agenzie hanno riportato le dichiarazioni di Landini e dei partecipanti. Dopo le 13,30 sugli smartphone sono apparse le dure parole della segretaria Cgil Susanna Camusso. La coalizione sociale è una «scorciatoia – ha detto — non mi pare che vada da nessuna parte». Per la segretaria la strada è diversa: primato del sindacato e autonomia dai soggetti sociali e politici. Obiettivo: ritrovare «l’unità tra i lavoratori e le organizzazioni sindacali».
Su questo scontro tra Landini e Camusso si sta giocando il futuro del sindacato. La sua proposta di coalizione sociale vuole costruirne uno diverso, mettendo in comune «saperi e esperienze» con la società, anche attraverso il «mutualismo», altra parola chiave. Ai soggetti che la compongono sono state proposte «campagne per obiettivi comuni» contro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pensione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinunciare a ciò che sono, ma di partecipare a quelle su cui sono d’accordo.
Gli avvocati di Mga, i farmacisti di Fnpi, gli attivisti dello sciopero sociale che fanno parte della «Coalizione 27 febbraio» hanno sostenuto le ragioni di una campagna contro il «business» della Garanzia giovani, fisco e previdenza equi per i precari e le partite Iva, il reddito di base. Su questo manifesteranno il 24 aprile alla sede centrale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coalizioni in formazione – sostengono – Bisogna determinare le combinazioni che aumentano la forza di tutti ed evitare di definire subito il perimetro di una sola».
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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa parliamo quando parliamo di coalizione sociale?
il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla
Quando parliamo di sociale, ci riferiamo alle relazioni tra le persone — e, da qualche tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel linguaggio politico, sociale si riferisce alle modificazioni di quei rapporti con l’azione collettiva: iniziative condivise da una pluralità di attori che indichiamo con il termine generico di movimenti.
Con il termine politico ci riferiamo invece in modo esplicito ai rapporti di potere, cioè alla gerarchia che contraddistingue l’assetto sociale: sia che l’azione politica sia diretta alla sua conservazione, sia che sia diretta alla sua modificazione.
Quella tra sociale e politico è una distinzione che nel corso del tempo ha subito molte modificazioni in relazione al contesto e oggi tende a sfumare: è venuta meno “l’autonomia del politico”, nel senso che la politica non viene più percepita come una sfera disincarnata, dotata di una sua logica interna, dove si confrontano visioni del mondo, obiettivi, strategie e tattiche differenti; viene invece considerata sempre più un aggregato sociale, dotato di una propria dinamica — a cui ci si riferisce spesso con il termine “casta” — da analizzare e spiegare in termini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i connessi privilegi — di mediare il rapporto tra i centri del potere finanziario mondiale che dominano sull’economia globale e chi ne subisce il comando. Viceversa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movimenti per trasformare la realtà, viene da tempo riconosciuta una dimensione intrinsecamente politica, perché non si ritiene più possibile modificare quei rapporti, anche nei suoi aspetti più parziali, senza mettere in discussione il potere, la struttura gerarchica da cui dipendono.
Ma è comunque un salto logico identificare sociale con sindacale e politico con partitico (Marco Revelli, il manifesto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà possono solo intercorrere rapporti analoghi a quelli configuratisi nel corso del Novecento: il modello socialdemocratico, quello laburista e quello “francese”. Se questi “tipi ideali” sono accettabili in riferimento al secolo scorso, ora il sociale non è più riconducibile al solo sindacale; né il politico al solo partitico. Questa era peraltro la ragione che aveva indotto Revelli a teorizzare l’impasse del suo “Finale di partito”. Per questo il dibattito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sempre allontanati, non può essere usato, come suggeriscono Favilli e Revelli, per definire le opzioni che abbiamo di fronte, né per raccomandare — troppo facile dirlo senza praticarlo — di “cercare ancora”.
La situazione odierna non è più quella in cui si era andato costituendo il movimento operaio dell’Occidente; né quella in cui aveva imposto alla controparte capitalistica e statuale le innovazioni dello Stato sociale: contrattazione collettiva con valenza normativa e gestione statuale dei servizi sociali: sanità, istruzione, pensioni e, in parte, abitazione.
La prima era caratterizzata da una contiguità fisica delle abitazioni dei lavoratori tra di loro e con il luogo di lavoro, sicché la vita sociale che si svolgeva nelle une faceva da retroterra anche alle lotte nelle fabbriche. Di qui la reciproca integrazione tra lotte rivendicative e sforzi per costruire, con il mutualismo e il movimento cooperativo, una alternativa sociale autonoma e autogestita alla miseria indotta dall’industrializzazione.
La seconda, che ha avuto il suo apogeo quando ormai le principali misure di autotutela promosse con il mutualismo erano state sussunte dallo Stato e gestite da entità pubbliche in forme universalistiche, aveva comunque trovato la sua base sociale nell’omogeneità della condizione lavorativa di una manodopera ammassata nei grandi impianti della produzione fordista.
Entrambi questi retroterra sono venuti meno, anche se nessuno dei due è scomparso del tutto. La condizione con cui deve misurarsi il “sociale” oggi è una elevatissima dispersione e differenziazione dei poveri e delle classi lavoratrici sia sul territorio che nei luoghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psichico ed esistenziale, a contrassegnare i rapporti sociali del giorno d’oggi; ancora più importante è il predominio culturale del pensiero unico; della competizione universale di tutti contro tutti e della “meritocrazia”, intesa come legittimazione del diritto del più forte a lasciare indietro e schiacciare il più debole.
Certo questa ideologia e la sua egemonia hanno una base materiale nella dispersione imposta dallo sviluppo capitalistico e dalla sua globalizzazione. Ma proprio per questo l’impegno della politica nel contesto odierno deve essere un lavoro di ricostruzione di relazioni sociali solidali e paritarie, mettendo al primo posto i diritti e la dignità delle persone: una pratica che riguarda soprattutto la costruzione di movimenti, le relazioni sociali dentro i movimenti e i rapporti tra movimenti di orientamento o ispirazione diversi.
Per far sì che quei movimenti, intesi nel senso più ampio, si diano una rappresentazione, e una rappresentanza, più ampia possibile della propria collocazione sociale e politica, e con ciò stesso dei propri obiettivi e delle proprie finalità — è questo il senso della coalizione sociale — e non perché si riconoscano in una rappresentanza politica precostituita.
Vano è limitarsi a guardare a un presunto “spazio a sinistra” del Pd che — affidandosi a una “topologia politica” che non ha riscontro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evoluzione dei partiti socialdemocratici europei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sintomatico. Quello spazio è in gran parte immaginario, o non “a disposizione” del primo arrivato per costruire qualcosa di solido; e meno che mai a disposizione di organizzazioni già in fila da anni, senza risultati, per riempirlo.
Quel “cercare ancora” deve essere un nuovo modo di fare politica; ma anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra. Le classi non esistono più? Sì, esistono, ma bisogna farle emergere alle luce del sole percorrendo strade nuove e non la riproduzione dell’ennesima riaggregazione dei resti della “sinistra radicale”.
P.S. A beneficio di Luciana Castellina e di chi ha letto il suo articolo (il manifesto, 7 aprile), preciso che non ho mai scritto che «i partiti sarebbero tutti ceto politico» (lo sono in gran parte i loro dirigenti più o meno permanenti e molti loro rappresentanti nei corpi elettivi e nelle società partecipate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le organizzazioni che operano nella società civile sarebbero tutte illibate» (ho scritto che hanno anche loro le loro piccole burocrazie). Sono inoltre radicalmente critico nei confronti «dell’idea negriana della moltitudine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esempio: “Virtù che cambiano il mondo”, 2013). Sono peraltro convinto sostenitore della necessità e dell’urgenza dell’azione politica, come dimostra la mia partecipazione alla fondazione di Alba, di Cambiare si può (ma non di Rivoluzione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva burocratica e autoritaria).
postilla
C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.
Il manifesto, 4 aprile 2015
«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».
E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.
Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!
La Repubblica, 3 aprile 2015
Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».
Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».
La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».
Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».
Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».
Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».
Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».
Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».
Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»
La Repubblica, 3 aprile 2015
NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.
Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.
Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.
Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.
Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.
Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.
Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.
Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.
«». Il manifesto
Il progetto di coalizione sociale promosso dalla Fiom e consolidato dall’imponente manifestazione del 28 marzo offre a tutte le persone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.
La proposta circolava da tempo: era già stata avanzata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giugno e raccolta in diversi documenti di questa organizzazione, rimasti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboccato invece la strada di un accordo tra partiti e correnti della sinistra esterna e interna al Pd.
Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coalizione sociale sarà per sua natura una realtà policentrica, la cui trama può cominciare a esser tessuta dai punti più diversi del territorio e della struttura sociale, senza che tra le diverse iniziative si vengano a creare per forza competizioni o sovrapposizioni.
L’obiettivo comune è quello di aggregare formazioni, comitati, associazioni, movimenti, sindacati – ma anche singoli non organizzati - non solo differenti tra loro per storia, composizione sociale, obiettivi e pratiche, ma tra i quali sussistono spesso, latenti o espliciti, fattori di incompatibilità o di conflitto. Ma il lavoro di ricomposizione di queste differenze - che una volta affrontate si rivelano un fattore di ricchezza sia per tutti che per il progetto comune - è proprio ciò che rende anche politica la coalizione sociale. Una formazione composta da movimenti e iniziative che per natura o per la loro storia hanno obiettivi monotematici, o operano in campi limitati, o sono confinati in ambiti locali.
Perché la politica «buona» - quella orientata alla promozione, al rafforzamento e al collegamento di lotte e iniziative contro le strutture consolidate del potere o le misure che colpiscono la maggioranza della popolazione - non è altro che questo: unire ciò che il capitalismo (e in particolare, la sua configurazione globalizzata e finanziarizzata di oggi) divide.
Per questo una coalizione sociale ben praticata è anche sempre «politica».
Ma non è vero il contrario: una aggregazione di organizzazioni politiche oggi tende a rivelarsi fattore di divisione tra le componenti sociali che dovrebbero esserne il riferimento. Perché qui entrano in gioco diverse rivalità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo linguaggi) differenti e ciascuna aspira ad affermare la propria egemonia sulle altre; nel caso peggiore, e più frequente, tra esigenze rivali di sopravvivenza delle strutture o di riproduzione della porzione di ceto politico presente in ciascuna organizzazione. Un rischio da cui non sono esenti nemmeno le grandi associazioni, che hanno anch’esse una propria piccola burocrazia interna; ma in misura infinitamente minore, perché la loro missione e le loro radici nella società le inchiodano in qualche modo a comportamenti meno ondivaghi.
E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un articolo sul manifesto del 28 marzo scorso – che giocano sulla reversibilità tra i due concetti: se una coalizione sociale è necessariamente politica, una coalizione politica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimostrato. Per questo una coalizione sociale, a differenza di un accordo tra partiti, non può che essere «né di destra né di sinistra», nonostante che gran parte dei valori che fa propri siano quelli della sinistra tradizionale (ma anche su questo il femminismo ha certamente molto da dire; e da ridire).
Ovviamente metter d’accordo organizzazioni sociali differenti e tra loro in gran parte estranee è più complicato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che stringere un patto tra i vertici di partiti o di correnti diverse. Ma può aiutare, in questo compito, ciò che già era stato prospettato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le elezioni europee: la formazione di gruppi di lavoro in cui le diverse componenti della coalizione possono confrontare le loro posizioni su alcuni temi specifici; ma anche le loro pratiche, che sono spesso, assai più delle dichiarazioni programmatiche, ciò che divide.
E’ in sedi come queste che si possono individuare i punti di convergenza e promuovere iniziative comuni: non necessariamente tra tutte le componenti della coalizione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si trovano d’accordo. Poi si può mettere a confronto le posizioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato trovato e verificare, con uno scavo sulle ragioni delle divergenze, ma anche attraverso il confronto con le tante posizioni diverse che vi partecipano, se è possibile arrivare a una mediazione.
Ed è nel corso di questo lavoro che, tra alcune - non necessariamente tutte - componenti della coalizione può emergere e consolidarsi la proposta di una lista elettorale, senza che una scelta del genere impegni tutti.
Per questo il problema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coalizione sociale; poi, magari, anche la lista elettorale – non si pone. Le due cose possono marciare separatamente in un unico progetto; a condizione che si tengano a bada, escludendole dalla coalizione, le aspirazioni egemoniche dei partiti.
Presto il progetto della coalizione sociale, promosso a livello nazionale, si riproporrà a livello locale: qui le combinazioni, come i punti di partenza e le prime esperienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che ciascuno cominci a lavorare nei modi e con gli interlocutori che gli sono più consoni. Si tratterà di aggregazioni che, come indica il nome - Unions! - della mobilitazione del 28, si richiamano allo spirito mutualistico e solidale degli albori del movimento operaio. Ma che riprodurranno anche, per il loro legame con territori e comunità, quel community unionism che ha innescato la ripresa del movimento sindacale negli Stati Uniti, soprattutto tra i lavoratori immigrati e meno qualificati; e che non si ferma - anche se ovviamente non la trascura - alla contrattazione salariale e delle condizioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la condizione sociale, e anche esistenziale, dei suoi adepti.
Per questo la coalizione sociale è anche un ritorno alle origini: rinnovato per misurarsi con la complessità degli assetti sociali odierni. Alle origini, le istituzioni del movimento operaio avevano una base sociale anche nel territorio: la fabbrica non distava dalle abitazioni degli addetti e i quartieri operai erano contigui alle unità produttive.
Le prime lotte operaie traevano gran parte della loro forza dal loro retroterra. La disgregazione di quel tessuto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiettivo la separazione tra lavoro e residenza - e dispersione di questa in un pulviscolo abitato da lavoratori di fabbriche e uffici tra loro lontani – ha cambiato i connotati della condizione operaia: ben prima che la frammentazione dell’impresa fordista in una molteplicità di unità produttive separate, sottoposte a differenti regimi contrattuali in paesi e continenti diversi cominciasse ad aggredire l’unità della classe operaia anche sui luoghi di lavoro.
Il sindacalismo «operaista» che ha avuto la sua epopea in Italia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello permane, pur in un contesto completamente cambiato – non è che il residuo di questo «intermezzo» storico: tra la disgregazione dell’unità di classe sul territorio del tardo ottocento e del primo novecento e quella sui luoghi di lavoro della fine del novecento e dell’inizio di questo secolo. Oggi, in un contesto globalizzato, la dimensione territoriale delle alleanze (dove il lavoro di cura, domestico e no, l’altra economia e la conversione ecologica possono trovare il loro spazio più proprio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che possono ricrearsi processi stabili di confronto e di unità tra diversi
«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».
Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».
La Repubblica, 31 marzo 2015
La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.
Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.
La Repubblica, 30 marzo 2015
PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.
Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.
Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.
Traduzione di Fabio Galimberti
Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla
Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.
Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.
Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.
In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.
Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.
Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.
Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.
Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?
Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.
Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.
L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)
presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.
Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.
Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.
Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.
Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.
L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.
Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.
Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?
postilla
Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?
Il manifesto, 26 marzo 2015
Che cosa significa “coalizione sociale”? Il susseguirsi delle precisazioni e dei distinguo indica che la risposta non è semplice né univoca. Di certo il nome non è conseguenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indicherebbero piuttosto una società poco incline alle coalizioni, tutt’ora pervasa da pulsioni corporative saldamente radicate nella sua storia, attraversata da conflitti che faticano a parlarsi e riconoscersi a vicenda. Se non si tratta di una formula generica da spendersi nelle dispute interne ai contesti politici canonizzati per ridefinirne gli equilibri, tuttavia, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tardiva, delle trasformazioni che hanno investito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rapporti sociali, delle prospettive di vita individuali e collettive.
Il problema che l’idea stessa di “coalizione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una soggettività politica all’altezza dei tempi. La quale precede, e spesso contraddice, il tema, ampiamente screditato dalle poco brillanti avventure elettorali, parlamentari e convegnistiche dell’agognato “nuovo soggetto politico”. Una “soggettività politica” è, in primo luogo, un modo di guardare alle cose e di relazionarsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.
Il fatto che mette in gioco l’idea della “coalizione sociale”, a prescindere dalle forme che potrà assumere e dalle sue possibilità di successo, è l’indiscutibile indebolimento della prospettiva sindacale. Insidiata su due fronti principali. Il più evidente è quello del lavoro intermittente e precario, del lavoro autonomo impoverito, e del “non lavoro” produttivo ma a reddito zero che non solo lo statuto degli anni’70, ma l’intera cultura sindacale e la sua organizzazione per categorie non abbraccia, non contempla e nemmeno capisce. Avendo lungamente coltivato l’idea, ingenua a voler essere clementi, che si trattasse di una “anomalia” provvisoria destinata ad essere riassorbita nel lavoro a tempo indeterminato. Un atteggiamento, questo, che ha agevolato quanti giocavano il precariato, senza peraltro tutelarlo in alcun modo, contro l’”egoismo” degli occupati. Con un discreto successo di pubblico.
È in questo contesto di radicale mutamento e commistione delle condizioni lavorative ed esistenziali che hanno cominciato a svilupparsi, per approssimazione, concetti come quello di “sindacalismo sociale” e strumenti di lotta, ancora piuttosto indistinti, come lo “sciopero sociale”. Alla ricerca di una soggettività politica che faccia dello “stare in società”, meglio del “produrre società” il teatro di un agire efficace, che cancelli il confine, scomparso nei fatti, ma persistente nella dottrina, tra dimensione sindacale e dimensione politica. Questa divisione dei compiti tra partito e sindacato risale a una impostazione antropologica fondata sulla distinzione tra l’immediatezza dei bisogni e la lungimiranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tradizione socialista) o sulla capacità “professionale” di tenere in equilibrio interessi contrastanti proteggendo adeguatamente l’ordine proprietario (per quanto riguarda il parlamentarismo liberale). Su un’idea di soggettività, dunque, quella proletaria e quella borghese, che dovevano essere “completate” da una guida “specializzata”, dagli strateghi della classe di appartenenza.
Su questa prospettiva incombono, tuttavia, due probabili derive. La prima è quella di una sommatoria di associazioni e soggetti collettivi gelosi delle rispettive identità, ma accomunati dalla denuncia di una politica divenuta “asociale” e ostile ai segmenti più deboli della società. Qualcosa di non molto dissimile dal mito della “società civile” in cui defluì il movimento altermondialista dei primi anni 2000 con l’esperienza, presto trasformatasi in “alterparlamentare”, dei social forum. Ma senza lo slancio, l’azzardo e l’entusiasmo che caratterizzarono quegli anni. Una “coalizione”, insomma, nella quale obiettivi apprezzabili e settori specifici di intervento sociale e politico si affianchino senza però stabilire nessi cogenti. Nella quale interessi comuni e reciproche indifferenze convivano in una condizione fragile e sostanzialmente instabile tenuta insieme da occasionali mobilitazioni.
La seconda deriva possibile, di segno contrario, è una pretesa di sintesi, l’aspirazione a istituire una rappresentanza dei movimenti intesi come semplici portatori di “istanze” che altri dovranno poi trasformare in programma politico. In poche parole, una restaurazione, in altri termini, della divisione di compiti e dei rapporti gerarchici tra la dimensione politica e quella sindacale.
Come sfuggire a queste alternative fallimentari resta un problema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comunque si voglia chiamare la direzione in cui muovere, “coalizione sociale”, “nuovo soggetto politico” o “sindacalismo sociale”, non basterà affiancarsi come una sorta di “terzo settore” alla sfera della politica e a quella del sindacato lasciandone intatti poteri e dispositivi di perpetuazione. Quando si tratta di reinventare la politica bisognerà pure entrare in rotta di collisione con le forze che si sono insediate al suo posto.
La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movimenti lo è. Ma se non riusciranno, in un modo o nell’altro, a entrare in relazione con la dimensione politica (forza, efficacia, durata, organizzazione) non è fuori luogo profetizzare, anche in questo caso, una soluzione a destra: quella neocorporativa.
Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015
Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.
Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'
Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo
1.
Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.
Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.
Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.
Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.
Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.
2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].
Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].
Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.
Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.
Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].
4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.
Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.
Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].
Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].
Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.
Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].
6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.
Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].
Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].
In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.
«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.
7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].
«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.
La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].
Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.
8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.
Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.
Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].
Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.
Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].
Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].
Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.
10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.
La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].
Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.
Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.
All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].
Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.
Note
«
Se questa carenza di una sinistra politica e sociale è un problema, anche di sistema, che si intende superare, occorre comprendere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e penetrare, se ci sono, nelle sue zone di debolezza. Con Renzi, il Pd porta alle conseguenze estreme delle tendenze interne verso approdi post-ideologici operanti già al tempo del Lingotto. Però quest’anima interclassista e moderata, con il suo disegno di sfondare al centro con la promessa di una rivoluzione liberale, che con Veltroni e Rutelli si arenò, ora trova espressioni inedite che sembrano rivitalizzarla. Perché Renzi riesce dove Rutelli ha già fallito?
Alla spinta centrista e modernizzatrice, condita con la salsa di un liberismo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica porzione di antipolitica. Mettendo insieme il nucleo del programma della Confindustria (riduzione dello spazio pubblico e semplificazione delle regole del lavoro) e lo stile antipolitico, Renzi intercetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discontinuità radicale, il vecchio ceto politico di estrazione comunista. Muta anche, con l’assalto al sindacato, la composizione sociale del partito, al punto da penetrare in aree e interessi sociali delle microimprese attratte dalla distruzione delle cosiddette rigidità del mercato del lavoro (e dalla enfasi renziana contro i controlli burocratici eccessivi, che riscontrano irregolarità nel 65 per cento delle aziende visitate) e che difficilmente avrebbero guardato a sinistra.
Dalla prima anima, quella in senso lato confindustriale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un conformismo assoluto (c’è una sorta di giornale unico nazionale che da Repubblica passa per il Corriere, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto politico, egli assorbe un desiderio di vittoria (comprensibile dopo che il Pd si era accasciato a terra proprio al momento del trionfo) e una invocazione di nuovo e di rottura verso schemi tradizionali.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La novità è soprattutto il grado di antipolitica che il fiorentino aggiunge alla commedia e lo smantellamento di un partito (mai consolidato) tramutato in una sua appendice personale. Il dominio renziano sembrerebbe incontrastabile, con lo spread che si calma, con il trasformismo del venti per cento dei deputati pronti al grande salto nel carro del rottamatore, con l’opportunismo di tanti parlamentari del Pd che hanno fiutato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.
Eppure, la mancanza di una sinistra riconoscibile solleva una latente crisi di legittimazione. L’impressione che la politica odierna suscita è quella che ricavava Tocqueville osservando la vita parlamentare del suo tempo. In essa «gli affari vengono trattati fra i membri di un’unica classe, secondo i suoi interessi e i suoi modi di vedere, non è possibile trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi la guerra». Con il presidente del consiglio «gasatissimo da Marchionne» e gran veneratore della sacra libertà di licenziamento, nel parlamento opera un solo interesse prevalente, quello dell’impresa.
Per questo è difficile al momento pensare ad una rinascita della destra su basi diverse dal populismo di Salvini. Una destra liberale non ha alcuna possibilità (e necessità) di organizzarsi coltivando ambizioni di alternativa: il suo spazio è già ben presidiato da Renzi. E una sinistra avrebbe le forze per riprendere una funzione rappresentativa? Nel «paese legale», continuava Tocqueville descrivendo l’omologazione dei ceti politici francesi, esiste una «singolare omogeneità di posizioni, di interessi e, per conseguenza di vedute, che toglie ai dibattiti parlamentari ogni originalità e ogni realtà, e quindi ogni vera passione». La stessa sensazione di tramonto dell’autonomia della politica la si ricava osservando le dispute politiche odierne.
Autonomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sindacato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine efficace rispetto alle sollecitazioni della finanza, dell’impresa, dei media. E questo ritorno ad un parlamentarismo monoclasse suscita anche una sensazione di impotenza, di estraneità in consistenti fasce di opinioni. Nel dominio di grandi potenze economiche, diceva Tocqueville, «i vari colori dei partiti si riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale». Non è un caso che, in un clima di similitudine nelle basi sociali riconosciute, avvenga il processo di unificazione tra Pd e Scelta civica o che sfumino del tutto i confini distintivi con il nuovo centro destra.
Quale percepibile differenza identitaria, e di alterità nei riferimenti storici e sociali, si può mai notare tra Guerini e Alfano, tra Boschi e Carfagna, tra Picierno e Gelmini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Verdini, tra Faraone e Fitto? Ancora Tocqueville: in una politica ad una sola dimensione, quella della classe proprietaria, i politici ricorrono «a tutta la loro perspicacia per scoprire argomenti di grave dissenso, senza trovarne». Con le sue politiche in tema di lavoro, Renzi si rafforza perché lascia senza scopo una destra di governo. Però, proprio con questo scivolamento, mantiene sguarnito un ampio fronte sociale, i cui interessi non coincidono con il rafforzamento del potere unilaterale dell’impresa.
Con le sue scorribande istituzionali, Renzi apre una vistosa voragine anche nel campo politico (maltrattamento dei principi dell’antico costituzionalismo democratico della sinistra, demolizione dell’idea di un partito non personale). Colpita sul piano degli interessi sociali di riferimento e sfregiata sull’idea di democrazia e sul senso della politica, è impensabile che la sinistra non provi a reagire alle umiliazioni di chi si vanta di averla asfaltata.
Non per un senso dell’onore, che già Bodin escludeva quale principio della politica, ammettendo la liceità del compromesso e della trattativa al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfidato di punto. Ma, alla comprensibile ritirata, che ha accompagnato il celere trionfo renziano, non è corrisposta alcuna azione incisiva per il recupero di forza e capacità di combattimento. È mancata quella che Lenin avrebbe chiamato una «ritirata con giudizio». La controffensiva, dopo la temporanea ritirata, non è stata neppure accennata. E invece andrebbe disegnata.
Con una coalizione sociale di protesta e ostile alla proposta politica? La specificità italiana è che mentre altrove esistono due sinistre, qui non se ne intravede neppure una. La minoranza del Pd deve avere la consapevolezza che il successo di Renzi, e cioè la sua leadership alle prossime elezioni, sarebbe il trionfo di una variante di partito personale a vocazione populista entro cui una componente di sinistra risulterebbe schiacciata e inutile.
Perciò deve immaginare che qualcosa può nascere oltre Renzi e non bisogna dare più come senza alternative il quadro attuale di governo. Se le due sinistre visibili solo in potenza, quella sociale e quella politica, non mettono in atto un processo di alternativa a Renzi, devono rassegnarsi alla rapida decadenza della qualità democratica.
Il manifesto, 15 febbraio 2015
Non so se sono i greci che debbono ringraziarci per questa manifestazione grande, bella, unitaria che abbiamo promosso in tutta fretta perché a Bruxelles capissero bene che quanto lì si decide in questi giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli europei che vogliono un’Unione in grado di garantire più uguaglianza più democrazia più pace.
Un’Europa che almeno la smetta di ritenersi faro della civiltà quando è incapace di accogliere chi fugge da terre devastate dalla pesante eredità coloniale e dalle nostre più recenti, dissennate spedizioni militari. Proprio per questo sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover ringraziare noi, ma noi che ringraziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che ringraziamo Alexis e Yannis - (li chiamiamo ormai per nome perché non sono più solo compagni ma sono diventati amici).
Siamo noi che li ringraziamo perché lì a Bruxelles stanno combattendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare Golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. Sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piuttosto bene. La prova, lo sappiamo, è durissima, ma già dopo questi pochi/ primi giorni sembrano procedere con fermezza, con la sicurezza di rodati statisti). Ne siamo orgogliosi e soddisfatti. (Avete visto le loro immagini in tv, sono loro a dominare la scena, e tutti si affrettano ad avvicinarsi a loro per stringergli la mano).
Perché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capitolo della storia dell’Unione europea: perché hanno avuto la determinazione - che fino ad oggi era mancata a tutti - di dire che così non va, che occorre cambiare proprio se si vuole salvare il progetto d’Europa. Non sono andati a Buxelles a scusarsi per il loro debito e a mendicare aiuto, ma per dire alla troika che deve chiedere scusa.
Scusa per i danni che ha prodotto con le sue politiche. Scusa per essersi irresponsabilmente fidata, di un governo corrotto e incapace. La catastrofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medicine di Bruxelles anziché alleviare i mali e avviare un nuovo corso hanno peggiorato la situazione della Grecia. Qualsiasi menager che avesse prodotto in quattro anni un crollo del Pil pari al 25% e ritenesse questo il metodo migliore per accumulare le risorse per ripagare un debito, verrebbe licenziato. Con tanto parlare di efficienza, il criterio potrebbe esser applicato anche ai funzionari di Bruxelles! Se hanno rovinato così la Grecia vanno messi in condizione di non nuocere più. È necessario farglielo capire.
Noi siamo qui per far sentire anche la nostra voce. Buon lavoro Alexis, buon lavoro Yannis.
Il manifesto, 14 febbraio 2015
Oggi, a Roma, scendiamo in piazza per la vita, la dignità e la democrazia del popolo greco. È un ritorno - importante da non sottovalutare - della buona, antica solidarietà internazionale, dopo anni e anni di chiusura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Perché manifestando per «salvare la Grecia», noi manifestiamo anche e soprattutto per salvare noi stessi: per salvare l’Italia. Per salvare l’Europa.
Se l’azione di Tsipras e Varoufakis riuscirà ad aprire una breccia nel muro di Berlino dell’austerità, ci sarà una speranza anche per noi, che annaspiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi, massacrati socialmente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimostrare che la volontà popolare non può essere cancellata con un tratto di penna dai banchieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bundesbank o della Cancelleria della Bundesrepublik, sarà un passo importante nel passaggio dall’Europa della moneta e una vera Europa politica. La sola che può sopravvivere.
Lo sanno benissimo a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino, che se i greci ce la fanno - se riescono a dimostrare che «si può» - potrà innescarsi una reazione a catena, nel fronte mediterraneo dell’Europa, ma non solo, in grado di scardinare i dogmi mortali che ci stanno soffocando. Per questo resistono contro ogni buon senso, negando l’evidenza, trincerandosi dietro il ritornello delle «regole che vanno rispettate» anche se quelle regole si sono rivelate con tutta evidenza devastanti. E per questo, dalla nostra parte, ci si mobilita nelle principali piazze del continente: per dimostrare che quella reazione a catena è già iniziata. Che il cambiamento è già in corso.
Sfileremo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo eccidio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tragedia del mare» ma una «tragedia degli uomini». Una tragedia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove centinaia di morti testimoniano dell’egoismo, criminale, di un’Europa che chiude occhi orecchie e braccia di fronte alla parte più sofferente dell’umanità. E lesina gli spiccioli, con spirito da usuraio, tagliando persino sui soccorsi, perché questo è il senso del passaggio da Mare nostrum a Triton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in questi anni di «commissariamento» la Grecia al coma sociale, e quello con cui le classi dirigenti europee, impassibili, hanno trasformato il canale di Sicilia in un cimitero liquido. La stessa logica, impersonale, delle cifre e dei protocolli «a distanza», con decisioni prese in luoghi asettici, dove non si sente la puzza della miseria e l’odore della morte per annegamento. Senza neppure guardare in faccia le proprie vittime: la «banalità del male», appunto, come direbbe Hannah Arendt.
Ora il nostro capo del governo, con cinismo degno della sua biografia, getta il problema al di là del Mediterraneo, dicendo che la questione sta in Libia, non qui o a Bruxelles. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo contribuito a creare? – non noi il problema, come se non avessimo nessuna responsabilità e nulla da modificare, rinviando tutto a una crisi nord-africana con tutta evidenza ingovernabile. È lo stesso atteggiamento tenuto nei confronti della Grecia, quando ebbe a definire non solo «legittima» ma anche «opportuna» la decisione della Bce di togliere ossigeno alle banche greche, proprio quando la minaccia maggiore era la fuga dei capitali dei grandi miliardari ed evasori greci, appena due giorni dopo aver abbracciato – gesto degno del dodicesimo apostolo – Alexis Tsipras a Palazzo Chigi…
Anche per dimostrare che quest’uomo non ci rappresenta, scendiamo oggi in piazza a Roma. Non è una manifestazione come tante altre. È il segno che una nuova politica può nascere. In un nuovo «spazio della politica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qualche modo oltre i confini.
Non dimenticherò mai il 25 gennaio, in piazza Omonia ad Atene, quando Tsipras finì il proprio discorso di chiusura della campagna elettorale e salì sul palco Pablo Iglesias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluentemente) infine in spagnolo per dire «Syriza, Podemos, venceremos», e la piazza, tutta, attaccò a cantare Bella ciao. In italiano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chiarezza, che eravamo ormai in un «oltre».
In un altro spazio in cui le vecchie scatole degli stati nazionali si rompevano – senza che i popoli perdessero le proprie caratteristiche, anzi! — per lasciar confluire le nuove sfide in un’altra dimensione, vorrei dire in un altro «paradigma», della politica, che si muove ormai in uno spazio compiutamente continentale. E che si apriva per noi una grande occasione. Unita a una grande responsabilità: di allineare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse mediterraneo, contribuendo anche nel nostro Paese alla costruzione di una grande «casa comune» per questa nuova soggettività ribelle.
Roma, testimone il Colosseo, è una prima occasione per mostrare che anche qui si apre un processo in cui «coalizione sociale» e «coalizione politica» possono - anzi devono - marciare insieme, strettamente intrecciate, perché l’una è condizione dell’altra.
E se sapranno farlo, pur nella consapevolezza delle grandi difficoltà - non tanto culturali quanto «tecniche», pratiche, comportamentali e lessicali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abitante di quel nuovo «spazio», in grado di offrire rappresentanza all’oceano di spaesati e di homeless della politica in Italia come in Europa.
Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spagna e come ripeteremo a Roma — è, davvero, ora!
Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri
«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.
Qual è il suo ritratto del premier?
«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».
Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.
«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».
La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?
«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».
Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».
«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».
Che cos’è oggi il diritto al dissenso?
«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».
Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?
«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».
In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?
«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».
La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?
«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».
Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.
«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».
Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?
«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».
La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?
«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».
In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.
«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».
Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?
«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».
Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.
«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».
Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?
«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».
Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.
«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».
Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?
«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».
Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.
«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».
Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
Ad unirla, per il momento, è il successo politico di Alexis Tsipras e di Syriza in Grecia. Riunita ieri al tempio di Adriano a Roma, la sinistra italiana istituzionale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune componenti della «sinistra Pd», si è espressa con le maiuscole commentando l’intervista che il primo ministro greco ha rilasciato in un libro di Teodoro Andreadis (Bordeaux edizioni).
Per Vendola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo processo politico continentale che può salvare la civiltà europea dai disastri economici e sociali prodotti dalle politiche di austerity». Per Smeriglio (Sel) «Tsipras dimostra che si può vincere fuori dalle compatibilità politiche». Smeriglio ha anche rivendicato la scelta di avere schierato il congresso di Sel dalla parte di Tsipras, e non dei socialisti formato «larghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsipras alle Europee».
In questo contesto malinconico e autoironico in cui è difficile riunire personalità scisse, Fassina si è impegnato a rendere «il governo italiano proattivo rispetto alla piattaforma di Syriza. Le sue proposte non sono utili solo alla Grecia. Il problema del debito non riguarda solo la Grecia». E ha proposto una «piattaforma di consultazione sistematica». Proposte in cui non sono mai stati citati i movimenti (Italia sulla casa, contro lo Sblocca Italia o dello sciopero sociale). Gli stessi (o analoghi) che rappresentano invece la base di Syriza in Grecia. La prospettiva sembra essere un’altra. L’ex viceministro dell’Economia del governo Letta ha suggerito di considerare la «critica radicale ma non estrema al capitalismo» di Papa Francesco.
Ad aprire, e chiudere, l’incontro moderato dalla giornalista Lucia Goracci è stata Luciana Castellina che ha messo da parte le mediazioni puntando dritto all’entusiasmo «che la vittoria di Tsipras ha generato. Dimostra che la politica può unire e dare gioia. In Italia c’è un’emergenza democratica dovuta alla fine dei partiti di massa come spazi deliberativi. La democrazia non rinasce senza ricostruire tali spazi, mettendo insieme sociale e politico».