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La dissociazione di Barbara Spinelli dagli eredi formali della lista italiana "L'Altra Europa con Tsipras" ha provocato un ampio dibattito nelle mailing list della sinistra extrapartitica. Qualcosa ne è trapelato nella stampa. Su eddyburg abbiamo ripreso alcuni testi che ci sembravano più significativi. Tra questi segnaliamo, e pubblichiamo, questa nota di Guido Viale il quale - come il lettore comprenderà subito - replica molto argomentatamente a chi ha criticato l'iniziativa di Spinelli.

Non credo che possa destare stupore la dissociazione di Barbara Spinelli da L’Altra Europa. Aveva postato, insieme ad altri, tra cui il sottoscritto, una lettera aperta di critica alla gestione dell’organizzazione. Non ha avuto alcuna risposta. Che cosa ci si poteva aspettare di diverso? Vorrei comunque tranquillizzare coloro che se ne dispiacciono: non cambia niente. La delegazione degli europarlamentari dell’Altra Europa, come corpo unitario, non è mai esistita. Ciascuno di loro continuerà a fare, bene o male, quello che ha fatto finora, cose coerenti con l’impostazione che ha dato finora al proprio lavoro. E continueranno anche a firmare insieme comunicati importanti come quello sulle violenze poliziesche di Pozzallo; anche, si spera, con altri parlamentari del GUE o di altre liste, magari accodandosi, come in questo caso, al lavoro fatto da lei sola.
Nemmeno si interromperanno i loro rapporti con gli organismi “centrali” de L’Altra Europa, perché anche questi rapporti, a mia conoscenza, non ci sono mai stati. Eleonora ha partecipato con maggiore frequenza alle audio-riunioni del CON e del COT e gira come una trottola (il che va a suo merito) per partecipare a iniziative dell’Altra Europa. Ma lo veniamo in gran parte a sapere a posteriori. Del lavoro e dei programmi dei tre parlamentari gli “organi centrali” dell’Altra Europa non si sono mai occupati (o, se lo hanno fatto con alcuni, è stato “a latere” delle riunioni ufficiali, senza renderne conto). Meno che mai, scusate se insisto, si sono occupati di come venissero spesi i fondi a disposizione del gruppo parlamentare (o anche questo è stato fatto, probabilmente, “a latere”).

C’è però da chiedersi se è Barbara Spinelli a non volersi più considerare parte de L’Altra Europa o è L’Altra Europa – o i suoi “organi centrali” – a non considerarla più, e da tempo, parte del proprio “progetto”. Vi sembra un modo normale di tenere i rapporti tra colleghi di uno stesso gruppo parlamentare definire in una riunione pubblica “un carnevale” le scelte di Barbara Spinelli, come ha fatto Curzio Maltese, e senza che il COT abbia sentito il bisogno di eccepire alcunché (e ricevendone in premio l’assunzione negli organi direttivi di Sel)? Ma non si tratta purtroppo di una novità,

Barbara Spinelli, senza alcuna difesa da parte dei suoi colleghi o del COT, è stata fatta oggetto per mesi di una campagna che ne denunciava l’assenteismo, quando le uniche votazioni che ha mancato - in un anno, ormai, di sedute parlamentari - sono dovute all’assenza di un giorno, in cui le era stato fissato un incontro con Tsipras. Incontro a cui avevano peraltro partecipato anche gli altri due parlamentari, senza mai essere sfiorati da alcuna accusa di assenteismo (e senza sentire il bisogno di chiedersi perché). E certamente non è estraneo a questa campagna sul suo presunto assenteismo il fatto che, subito dopo il 25 maggio, una foto di Roberto Musacchio, sedutosi non autorizzato al seggio di Barbara Spinelli, abbia campeggiato per giorni, senza esserne rimosso, sul profilo FB de L’Altra Europa, mentre su un’altra pagina FB de L’Altra Europa qualcuno la dipingeva addirittura sgozzata.
Tralascio qui tutti gli improperi di cui è stata fatta oggetto su altre pagine di FB, alcune delle quali appartenenti a noti esponenti della nostra organizzazione che oggi si travestono da mammolette. Ma la denigrazione di Barbara era cominciata ben prima del 25 maggio, subito dopo la sortita di Paola Bacchiddu in bichini che ha offerto il destro ad attacchi, molti dei quali provenienti dalle nostre file, per dipingerla come bacchettona e autoritaria. O ci siamo dimenticati che l’impareggiabile Nicolò Ollino, che oggi lamenta il fatto di venir esposto “al pubblico ludibrio” dalle scelte di Barbara, aveva inaugurato la nostra campagna elettorale chiedendo, su FB, perché mai la nostra comunicazione fosse stata affidata “a una vecchia di 160 anni”? C’è un perché di tutto ciò (e altro ancora)? Sì, soprattutto se si passa dal personale, che personale non è, al politico (che meglio sarebbe chiamare partitico).

Barbara Spinelli è stata, fin dall’inizio di questa vicenda, per il suo nome, per il suo lavoro di giornalista, per i suoi interessi, testimone e garante non solo dell’orizzonte europeo del progetto, che è la prima delle grandi novità che fanno la differenza dell’Altra Europa rispetto a tutte le altre formazioni politiche; ma anche del suo carattere unitario ma apartitico, che è ciò che ha permesso a quel progetto di arrivare là dove tutte le precedenti “iniziative unitarie” non erano più da tempo riuscite ad arrivare. La lista Arcobaleno, quella Ingroia o la Federazione della sinistra avevano già abbondantemente dimostrato come anche gli elettori di sinistra avessero ormai voltato le spalle a qualsiasi lista con una caratterizzazione partitica.

Ma il vero grande fallimento della sinistra italiana si chiama in realtà Beppe Grillo. Quando ci si chiede perché in Italia non si sia riusciti a realizzare una Syriza o un Podemos, ma neanche una Linke o un Front de Gauche, che pure non sono altrettanto entusiasmanti, non si tiene conto del fatto che negli anni in cui quelle iniziative si andavano formando o consolidando, la sinistra italiana ha lasciato campo libero alla costruzione del movimento Cinque stelle, che ha raccolto e convogliato verso un’organizzazione padronale e monocratica non solo un grande malcontento diffuso, ma anche gran parte dei temi che i movimenti più vari erano andati elaborando nel corso di anni di lotta. Così il movimento Cinque stelle ha potuto avere il suo primo exploit, non a caso, proprio contestualmente allo scippo di “Cambiare si può” da parte delle segreterie dei partiti che avevano finto di appoggiare quel progetto. Questo solo fatto avrebbe dovuto e potuto convincere chiunque della necessità di un nuovo inizio.
E un nuovo inizio infatti c’era stato: mai, da anni, tanti intellettuali, artisti e studiosi si erano raccolti intorno a un progetto politico come era successo con L’Altra Europa. Mai tanti movimenti diffusi in tutto il paese avevano guardato con interesse, a volte, certo, misto a diffidenza, nei confronti di uno schieramento che affrontava una competizione elettorale. Ma di quella temperie non è rimasto niente. Perché? La colpa, ci sentiamo dire, e proprio da parte di chi è responsabile di quello scialo, è di Barbara Spinelli; delle sue scelte; della sua irresponsabilità, del suo disprezzo per la quotidianità.

Il fatto che Barbara si fosse “rimangiato” l’impegno a non accettare un eventuale seggio nell’Europarlamento, così come era stata indotta a “rimangiarsi” la decisione di non candidarsi, come tutti gli altri garanti (ma allora senza alcuna protesta) avrebbe potuto e dovuto essere accolto come un altro grande passo avanti lungo la strada intrapresa. Nessuno infatti osava negarlo; tanto che persino il segretario e il coordinatore dei due principali partiti che avevano sostenuto la lista erano stati concordi nel riconoscerlo. E l’autentica rappresentante, nel nome e nei fatti, della lista l’Altra Europa avrebbe potuto entrare nell’aula del Parlamento Europeo intitolata a suo padre come prova vivente di quel nuovo inizio. Invece ci è dovuta entrare accompagnata sì, dall’entusiasmo di tanti di noi, ma anche inseguita dagli insulti e dai lazzi di molti di coloro che avrebbero dovuta sostenerla (non poi così tanti; ma sufficienti a fare caciara, anche con il rincalzo di tanti nemici giurati della lista). Che cosa era mai successo? Era successo che Barbara aveva “portato via” il posto non a un altro candidato de L’Altra Europa (cosa che nelle liste elettorali è ordinaria amministrazione); ma all’”Europarlamentare di SEL”, rompendo quell’equilibrio così diligentemente illustrato dai cultori dell’alta politica (uno a Rifondazione, uno alla “società civile” e uno a Sel) che avrebbe dovuto riportare la lista a quella condizione di mera aggregazione di organizzazioni diverse a cui si era cercato in tutti i modi di sottrarla; peraltro non sempre riuscendoci, come evidenziato in molte situazioni da una conduzione separata della campagna elettorale.

Quella guerra contro Barbara, scatenata dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione, è stata in realtà una guerra contro il progetto dell’Altra Europa; che da allora è rimasta paralizzata, nell’attesa di arrivare a un qualche compromesso con le sue presunte “componenti”. Che da allora, poco per volta, sono diventate tre: Rifondazione, Sel, ma anche l’Altra Europa: al tempo stesso (presunto) contenitore sia delle altre due componenti che di se stessa… Oggi si rinfaccia a chi non ha un partito il lavoro che i membri dei partiti hanno fatto per raccogliere le firme e fare campagna elettorale (i volantini, i manifesti, i comizi, i viaggi, i soldi, il tempo…). Ma non hanno fatto le stesse cose anche quelle e quelli senza partito? E non eravamo, o non avremmo dovuto essere, tutti della stessa partita? Invece oggi si invoca invece quell’impegno come se dovesse legittimare la compartecipazione alla gestione de L’Altra Europa non di chi vi milita, il che sarebbe normale, ma degli apparati dei relativi partiti. E perché mai? Perché questa è la strada che è stata imboccata da L’Altra Europa.

In realtà, una scelta o una decisione ufficiale non c’è mai stata; c’è stata una pratica che si è andata trascinando per mesi e mesi nell’inconcludenza: niente gruppi di lavoro (quindi niente elaborazione); niente apertura dell’associazione (perché Sel non voleva; ma chi l’ha deciso?); niente appoggio alle liste regionali Altra Emilia Romagna e Altra Calabria (il silenzio, in una situazione del genere, si chiama boicottaggio, che significa non “vendere” e non “comperare” un prodotto. Ma Sel si presentava con il PD, e non bisognava “dividersi”); niente rapporto con i movimenti (tutti) e, in particolare con No-triv e No-expo per non disturbare governanti e amministratori di Sel; niente autofinanziamento e quindi niente comunicazione per mesi e mesi (10); niente regole di funzionamento fino a che non sono state messe a punto quelle che, scimmiottando un congresso, hanno garantito al gruppo permanente al comando la propria perpetuazione; niente, ovviamente, dibattito su quelle regole, da prendere o lasciare. Ma abbiamo appoggiato la Grecia, Syriza e il governo Tsipras! Ci mancherebbe solo che non si fosse fatto… Ma una scelta del genere non basta a tenere in piedi un’organizzazione che si pretende politica. (di associazioni Italia-qualcosa ne abbiamo tante; tutte o quasi meritorie, anche se certo meno importanti). Ma quanto maggiore è stato il riferimento, sacrosanto, alla Grecia, di altrettanto si è affievolita la capacità di misurarsi con i maggiori processi sociali in corso nel nostro paese. Il punto di approdo di questa parabola è stato l’appoggio alla lista Pastorino. Certo è una lista che potrebbe anche avere un certo successo: non per proprio merito, ma per l’incancrenimento del PD. Dubito però, per come si è costituita, che possa pescare gran che tra tutti coloro che non votano più perché sono disgustati dalla politica, e non solo dal PD così com’è ora.

Ma è il modo in cui il gruppo al comando dell’Altra Europa è arrivato a questa decisione che è scandaloso: passando come un bulldozer sopra il lavoro di mesi e mesi delle compagne e dei compagni dell’Altra Liguria, senza nemmeno interpellarle. Passando cioè sopra un lavoro, quello sì, unitario, di base, costruito a partire dai temi centrali per la Liguria, come la lotta contro le privatizzazioni, contro il nesso Grandi Opere-dissesto idrogeologico e finanziario, contro il razzismo e per il sostegno ai migranti, per un diverso modo di vivere, e convivere, nella quotidianità. Quel punto di approdo è la negazione del valore del lavoro politico di base tra e con in movimenti in nome di un accordo tra vertici stipulato a prescindere dal programma e dalle persone chiamate a rappresentarlo. Tutto ciò, se permettete, non ha niente a che fare con l’essere pro o contro i partiti in astratto; ha molto di più a che fare con l’idea che abbiamo, e che vogliamo diffondere, della politica come presa di parola e autogoverno e non come rappresentanza autoreferenziale. Che cosa resterà di tutto questo dopo le elezioni? Certamente resterà la possibilità di continuare il lavoro iniziato mesi fa, grazie al fatto che quel processo unitario promosso dal basso sarà stato in qualche modo “tenuto insieme” dai molti o pochi che non si sono lasciati illudere dall’ennesima riproposizione di una lista calata dall’alto. Il lavoro dell’Altra Liguria.

Ma quel punto di approdo era nella logica delle cose. Dal documento Siamo a un bivio, che è stata la bandiera del finto congresso di aprile dell’Altra Europa, si era esplicitamente voluto escludere una clausola – ed è stato il motivo per cui ho rifiutato di sottoscriverlo - che prevedeva di darsi “una struttura provvisoria, democraticamente eletta, che abbia il suo fulcro nei comitati e nelle associazioni dell’Altra Europa che si sono andati costituendo o si costituiranno nei territori”. La si è esclusa con l’esplicita affermazione che quei comitati “non contano nulla”, e che occorreva guardare al di là: alle decine di migliaia di firmatari dell’appello iniziale (quelli che così facendo abbiamo in gran parte perso) e al milione e passa di nostri elettori (idem): apparentemente un rapporto demiurgico tra il “centro” e una platea tutta da costituire; in realtà, la predisposizione di una sommatoria di “componenti” da non mettere in discussione.

E’ ovvio che queste ed altre decisioni fanno di me, come di molti altri e altre che hanno vissuto con passione la vicenda dell’Altra Europa (e in primis, credo, di Barbara Spinelli) degli e delle “esuli”, che si riconoscono sì nell’appello e nel progetto iniziali, ma non possono più accettare questo modo di procedere. Non ho difficoltà a riconoscere la buona fede di tante altre compagne e compagni che attribuiscono anche loro tutti questi difetti, o altri ancora, o qualcuno in meno, a ciò che L’Altra Europa è diventata nel frattempo. Ma che contano di poter ancora raddrizzarne la rotta (mentre ce ne sono molti altri, al suo interno, che considerano quell’esperienza conclusa, e che stanno pensando solo a come venirne fuori “onorevolmente”, con una aggregazione di partiti e correnti su cui, per non guastare la manovra, è opportuno, per ora, dire il meno possibile). Se quei tentativi di “cambiare rotta” avranno successo – ne dubito – sicuramente ci rincontreremo da qualche parte. Con alcune e alcuni forse anche prima di quanto ciascuno di noi riesca a pensare. Perché i tempi corrono.
Nella lettera con cui l'europarlamentare comunica il suo distacco dalla lista italiana "L'altra Europa con Tsipras" , e nel dibattito che ne è nato si fa riferimento a una lettera nella quale, a metà aprile scorso sono state comunicate le ragioni del dissenso. Crediamo sia utile pubblicarla oggi per i frequentatori di

eddyburg. In calce le prime firme

Abbiamo condiviso e continuiamo a condividere l’appello iniziale L’Europa a un bivio, che alcuni di noi hanno contribuito a redigere e che altri hanno sostenuto con la propria candidatura e con la propria militanza, ma – nonostante molte mediazioni – non possiamo condividere il percorso che l’attuale gruppo dirigente dell’Altra Europa sta perseguendo.

Durante l’ultima assemblea nazionale di Bologna, il 18 e 19 gennaio, non è stato definito alcun programma, dato che quell’assemblea era stata messa nell’impossibilità di esprimere un voto.

Non votare e non contarsi significa sempre eludere la sostanza: cioè i temi politici fondamentali su cui non c’è eventualmente accordo.

Era stato però designato un “Comitato operativo transitorio” formato dalle stesse persone che avevano dato corpo in precedenza ai molti e spesso stravaganti acronimi (Con, Cot) che indicavano organismi non eletti, incaricati di condurre all’assemblea successiva. Di assemblea in assemblea, con sempre meno militanti e sempre più invisibili al mondo, siamo giunti a compiere quel presunto “percorso unitario” – mai votato e mai deciso, reso possibile dall’immobilismo e dalla subalternità ai piccoli ceti partitici della sinistra – che ha portato a delegittimare il lavoro di aggregazione fatto con continuità e abnegazione dai comitati regionali nati in vista delle elezioni.

Fino a giungere al caso esemplare dell’Altra Liguria, di cui la dirigenza di Altra Europa ha ignorato o misconosciuto le scelte – analogamente a quanto accaduto per L’altra Sardegna, L’altra Calabria e L’altra Emilia Romagna - insieme a quelle delle tante forze con cui questa struttura locale era riuscita a costruire un primo embrione di coalizione sociale. Un disconoscimento volto ad appoggiare la candidatura Pastorino che, per le passate prese di posizione, contrasta con gran parte dei principi ispiratori e dei punti programmatici della nostra comunità. In particolare, contrasta con uno dei cardini dell’appello istitutivo de L’Altra Europa: quello di non candidare personaggi che ricoprissero o avessero ricoperto cariche elettive o ruoli dirigenti in altri partiti nella passata e nella presente legislazione, onde salvaguardare il carattere sostanzialmente apartitico della lista.

Il superamento delle piccole identità partitiche era la caratteristica che aveva maggiormente distinto il nostro progetto, permettendoci di raggiungere il risicato quattro per cento che ci aveva fatto esistere come forza politica: un principio che per l’Altra Europa dovrebbe avere valore statutario.

Le cose sono andate diversamente. La dirigenza che gestisce oggi quel che resta dell’Altra Europa ha voluto perseguire ciò che già aveva enunciato nel documento Siamo a un bivio: l’unità, in vista di una fantomatica e sempre di nuovo rinviata unificazione, tra i piccoli partiti della cosiddetta sinistra radicale, e dell’ancor più fantomatica unificazione con una frangia della sinistra Pd di cui non si conoscono le reali prospettive.

Il nucleo di una ventina di persone che, pur non essendo mai state elette, si sono insediate al comando dell’Altra Europa, si è di fatto ritagliato, all’interno dei circa quarantamila sottoscrittori dell’appello iniziale, un proprio “corpo sociale” costituito da poco più di settemila adesioni (dopo averne preannunciate decine di migliaia e aver detto che il vero referente erano il milione e centomila elettori), ormai formato in gran parte da militanti di partiti (soprattutto Rifondazione comunista) che tutt’ora hanno forti legami con le proprie case di appartenenza.

Il cosiddetto Comitato di Transizione ha trasformato la prossima assemblea nazionale del 18-19 aprile in un congresso per delegati – un ossimoro, e in buona parte un tradimento delle intese inziali – che eleggerà un organismo su lista unica bloccata, un comitato centrale inamovibile, solo formalmente legittimato “democraticamente”. Si sono tenute assemblee territoriali con la pretesa di voto su mozioni (una della quali, per altro, ritirata dagli stessi estensori) e con “controllori” centrali a verificare il rispetto dei criteri imposti. In questo modo, migliaia di militanti sono stati esclusi dal corpo sociale dell’Altra Europa. Dei sei promotori iniziali (poi garanti) del progetto, ne è rimasto solo uno. Tutti gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi, gli esponenti di rilievo dei tanti movimenti che si erano raccolti intorno al progetto – un gran numero di persone, tra cui decine dei nostri candidati e candidate – ci hanno lasciato strada facendo.

Il risultato è che la linea politica dell’Altra Europa si piega ormai di volta in volta alle esigenze tattiche imposte dalla sua subalternità agli interessi dei partiti con cui vorrebbe unificarsi: basti pensare al voltafaccia sulla nostra costituzione in associazione, che Sel non gradiva e che per questo non si è più fatta, o al voltafaccia sulla partecipazione alle elezioni regionali, prima scartata perché “le Regioni non contano nulla”, poi sostenuta per offrire uno spazio a Sel, dove questo partito non riesce ad accordarsi con il Pd; o, ancora, al voltafaccia nei confronti del tema “coalizione sociale”, prima marginalizzato e addirittura irriso, e poi, dopo le prese di posizione di Landini e Rodotà, riannesso in modo posticcio al percorso della “Casa comune della sinistra e dei democratici”. Per non dire dei contorsionismi necessari a stare con i movimenti No Tav, No Triv, No Expo e al tempo stesso mantenersene fuori, così da non costituire una minaccia per chi, pur abbracciando astrattamente una posizione, ne pratica un’altra, spesso diametralmente opposta, quando siede in giunte comunali e regionali. Lo stesso vale per la vicenda di Tempa Rossa e per i movimenti che lottano contro le Grandi Opere, l’erosione del suolo in Liguria, il No Muos in Sicilia, le Grandi Navi e il No Mose in Veneto.

Tutto questo ha disgregato ciò che era unito: molti di coloro che hanno sostenuto la nascita dell’Altra Europa si sentono ormai come esuli in patria, alcuni si sono allontanati, altri hanno ritrovato entusiasmo riavviando un processo partecipativo. Tutti però sono convinti che il percorso seguito attualmente non abbia futuro, essendo una stanca e ancor più contorta riedizione di progetti di aggregazione tra forze politiche prive di una propria ragion d’essere, per quanto ben decise a salvaguardare la propria sopravvivenza, la propria identità e, il più delle volte, i propri apparati (o zavorra, come li definisce Stefano Rodotà).

Stanno tuttavia prendendo forma e moltiplicandosi molti punti da cui partire per far rivivere quello spirito unitario – fondato su partecipazione orizzontale e attenzione ai processi sociali, anziché sugli schieramenti partitici – che aveva animato l’adesione al nostro progetto iniziale. Li ritroviamo nelle reti fra movimenti, nella trasversalità delle mobilitazioni per i migranti, nella perseveranza di tanti militanti e comitati, nella fierezza con cui L’Altro Veneto e molte “Altre” Regioni hanno deciso di affrontare le elezioni regionali con slogan come “basta cemento, basta tangenti”, chiedendo che la politica ritrovi un rapporto con l’etica del bene comune e sappia mettere al primo posto la solidarietà, l’accoglienza, le persone. La politica vera dell’Altra Europa, per noi, si fa lì.

15aprile 2015. Primi firmatari: Antonella Leto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Barbara Spinelli, Guido Viale

Sulla posizione di Barbara Spinelli vedi anche qui.
«Il motivo per cui ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile».

La Repubblica, 13 maggio 2015 con postilla

Barbara Spinelli, la sua decisione di lasciare la lista in cui era stata eletta all’europarlamento, “L’Altra Europa con Tsipras”, ha scatenato le polemiche. Il coordinatore di Sel, Fratoianni, la accusa di essere incoerente, rimproverandole di aver voluto tenere il seggio proprio per garantire la tenuta di quel progetto di cui oggi dichiara il fallimento. E sui social network c’è addirittura chi la accusa di tradimento. Come risponde?
«Io non trovo che ci siano né incoerenza né tradimento. Il motivo per cui, da tempo ormai, ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che secondo me è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile. E soprattutto non dominato dai vecchi partiti della sinistra radicale. In questo anno e mezzo, piano piano ho avuto invece l’impressione di un predominio dei piccoli partiti che avevano promesso di sciogliersi ma non si sciolgono mai».

Cosa è successo? Siete in tre, a Strasburgo: non andavate più d’accordo?
«Gli altri deputati de “L’Altra Europa” sono al tempo stesso in un partito: Curzio Maltese, sia pure come indipendente, è entrato nel comitato direttivo di Sel, Eleonora Forenza è nella segreteria di Rifondazione. Io ero espressione solo della Lista, ma nel frattempo “L’Altra Europa” è stata monopolizzata da Sel e Rifondazione. Nell’assemblea del 18 aprile è stata resa nota una lettera aperta di buona parte dei militanti, firmata anche da me, che si sono dissociati e sono praticamente usciti da “L’Altra Europa”. Tra questi: Luciano Gallino e Guido Viale».
Provo a mettermi nella testa di un elettore di sinistra, che forse si starà chiedendo: ma come, in Grecia ha vinto Tsipras, in Spagna il consenso di Podemos cresce, e in Italia la sinistra frana?
«Non si può dire che sia solo colpa della nostra lista se in Italia non c’è Tsipras né Podemos. Sicuramente c’è un difetto: “L’Altra Europa” si è rivelata un’aggregazione di mini-partiti, non è riuscita a rappresentare strati più ampi della società. Però in Italia c’è anche il Movimento 5 Stelle, che prende una gran parte dell’elettorato antigovernativo di sinistra».
Lei considera di sinistra il Movimento 5 Stelle?
«Nel Movimento 5 Stelle ci sono molte componenti. Una è senz’altro quella che fa importanti battaglie sociali che sono tradizionali della sinistra. La battaglia che stanno facendo i Cinquestelle sul reddito di cittadinanza è una battaglia che secondo me avrebbe dovuto fare “L’Altra Europa”. Ma non l’ha fatta. Quando al Parlamento europeo il M5S ha fatto un’iniziativa sul reddito minimo, ho aderito».
Lei crede che ormai la sinistra fuori dal Pd sia condannata alla frammentazione?
«Non necessariamente. Io sono favorevole all’idea di Landini di una “coalizione sociale”. È un progetto ancora timido, che deve strutturarsi, ma proprio la sua nascita segnala che l’esperienza della lista Tsipras è ormai superata. Sicuramente bisogna pensare a qualcosa che non sia un partito classico. Prima che Syriza diventasse un partito sono passati anni. Podemos non è un partito. Il M5S non è un partito. Il peso degli apparati deve ridursi al minimo, e lasciare spazio ai movimenti, alla società».
Ha letto i commenti su Facebook? Molti le chiedono: ma se hai lasciato la lista, perché non ti dimetti da europarlamentare?
«Perché in Europa continuo a battermi per le idee che ho difeso in campagna elettorale, per il programma che ho in parte scritto. Sono stata eletta dagli elettori, non dagli apparati ».
Sotto quale bandiera? Ha detto che non intende fondare un altro partitino.
«L’Italia ha una nobile tradizione di indipendenti, soprattutto in Europa. Molti eurodeputati, tra cui mio padre, sono stati indipendenti di sinistra. O lo sono, come Sergio Cofferati. Lo sarò anch’io».

postilla

Quando ho letto la lettera di presa di distanza dalla lista ho scritto a Barbara Spinelli: «sono molto addolorato ma ti comprendo». Sono convinto che in un nuovo soggetto politico all'altezza dei problemi di oggi, che voglia promuovere una mobilitazione di massa, deve rivolgersi alle persone e non alle organizzazioni. Sono altrettanto convinto che la tecnica della lottizzazione delle posizioni di responsabilità sulla base delle appartenenze di gruppo non sia accettabile da parte di quanti hanno espresso la loro diffidenza verso la vecchia politica con l'astensionismo. Sono altrettanto convinto che oggi il pericolo maggiore sia rappresentato da Matteo Renzi, e che combattere dall'interno della sua macchina di guerra sia del tutto perdente. Infine, sono convinto che la priorità della lotta al renzismo non consenta alleanze con chi di Renzi è alleato. Per quanto riguarda la permanenza di Spinelli nel parlamento europeo ho votato con entusiasmo per lei non perchè la consideravo un buon capopartito, ma un ottimo parlamentare europeo e un magnifico rappresentante, in quella sede, di una nuova sinistra. Come ha dimostrato di saper essere. (e.s.)

Dieci consigli utili per chi vuole contribuire a «costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche».

Esse, comunità di passioni, 7 maggio 2015

Congratulazioni a Pippo Civati che è uscito dal Pd. Il segno che con un po’ di coraggio e coerenza ce la si può fare. Lo sappiamo: il Pd è non solo l’erede del Pci. È stato anche progetto di un grande partito che stesse dalla parte dei più deboli. Per questo è così difficile, per tante persone in ottima fede, accettare l’idea che quel progetto non è andato oltre le intenzioni dichiarate. Non ci è andato prima di Renzi, ancor meno dopo. Ma questa è ormai storia. Ora, se possiamo, suggeriamo (non richiesti) una decina di cose da fare e da non fare, perché adesso bisogna partire sul serio.

1. Per carità vi preghiamo: non incollate i cocci di tante piccole storie sconfitte. L'unità è una parola bellissima, ma non può essere pensata come la somma di ministrutture finite. Deve essere, piuttosto, l’unità tra persone in carne e ossa, tra pezzi di società. Vi ricordate i contadini e gli operai di un tempo, che erano la parte bassa della piramide sociale? Ecco, sono diventati gli invisibili di oggi: precari, disoccupati, partite iva, insegnanti, “neet", ricercatori, ex ceto medio impoverito e tante altre cose. È lì la maggioranza. Diamole voce, diamole senso.

2. A proposito: le piccole storie sconfitte sono quelle incarnate da gruppi dirigenti che portano sulle spalle cumuli di fallimenti. Un passo indietro di tutti loro significa farne, insieme, dieci avanti. E significa mettere alla prova una nuova generazione di persone non livorosa e non ortodossa, perché (tra l’altro) non arrugginita da decenni di scontri intestini.

3. Il cambio di passo che serve non è solo nelle facce, ma è in primo luogo nelle teste, cioè nel modo di essere e quindi di presentarsi, con trasparenza e verità. Non è scritto da nessuna parte che l’alternativa alle liturgie delle vecchie forme della politica (quelle che non parlano più a nessuno semplicemente perché parlano una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza della gente comune) sia il partito del monarca assoluto. Si può essere innovativi senza rottamare la democrazia.

4. Barra dritta, a ogni modo, sull’innovazione e sul cambiamento a favore dei deboli, non contro di loro. Quella di Renzi è un’innovazione contro i deboli e a favore dell’élite. Noi non vinciamo se contrapponiamo a essa la conservazione, la caricatura di Cipputi in tuta blu, le vecchie parole d’ordine. Guardiamo avanti, non indietro.

5. Che poi, la sinistra si fa, non si dice. E sinistra – parola usurata e deturpata da troppo tempo, compresi tanti anni di politiche di destra fatte a nome della sinistra – vuol dire occuparsi dei problemi delle persone, della parte bassa e mediobassa della piramide sociale. Che non ha più nemmeno la forma di una piramide, ma di un’enorme base di non élite con sopra una piccola punta di élite. La dialettica tra sinistra e destra è diventata un'inutile e spesso ingannevole dialettica "geografica": quello che conta invece è la contrapposizione reale tra la grande maggioranza che non ha e la piccola maggioranza che ha. E comanda.

6. Per questi motivi fare vuol dire, vi preghiamo, non solo convegni ma lavoro vero nel sociale: il mutuo soccorso, la disobbedienza civile, le proposte di legge di iniziativa popolare, i referendum, le strade, i quartieri, i luoghi del lavoro e del non lavoro, insomma le pratiche. Questo forse è anche il senso della “coalizione sociale” di cui tanto si parla e di sicuro lo è delle varie coalizioni sociali che, con altri nomi, in tutta Italia e in tutta Europa, spesso in silenzio, sono pronte a muoversi.

7. Insieme a questo, serve un programma vero. Un programma di governo per il Paese e per l’Europa, non un elenco di slogan. Per scriverlo bisogna cacciare i fantasmi del minoritarismo che ammorbano la cultura politica di gran parte della sinistra esistita fin qui. Si esiste e si propone un’alternativa al governo delle élite perché si ritiene di poter essere la soluzione ai problemi, non la grancassa della frustrazione collettiva.

8. Basta discutere dalla mattina alla sera di alleanze e di elezioni. Ci siamo divisi per anni e continuiamo a dividerci tra quelli che vogliono allearsi e quelli che non vogliono allearsi, litigando per pessime questioni di liste e di candidature. Ecco, ripartiamo da capo. Prima costruiamo una nostra identità, costruiamo il chi siamo e il cosa vogliamo. Saranno altri, semmai, a bussare alla nostra porta. Alla porta della maggioranza.

9. La buona politica è quella che moltiplica, per contagio, il protagonismo e l’attivismo. Non quella che impone la passività e l’obbedienza ai propri militanti e simpatizzanti. Più potere reale decentrato e maggiore efficacia nella comunicazione, anche attraverso leadership (che servono) non burocratiche ma dinamiche, capaci di suscitare passioni ed entusiasmi ragionevoli e critici.

10. Rivoluzione copernicana, infine, anche nello stile, che è parte ed espressione dell’essere. Si può essere radicali senza essere violenti, si può essere popolari senza essere volgari, si può essere convinti e convincenti senza perdere la gentilezza. In un mondo di pescecani, proviamo a dire – anche nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche – come vorremmo fosse la società nella quale ci piacerebbe abitare. Del resto, si sa, ciascuno deve essere la rivoluzione che vuole vedere nel mondo.

Questo il nostro piccolo contributo, per ora. Speriamo che altri ne arrivino, per costruire le fondamenta di idee e pratiche che diano voce e volto all’universo degli invisibili, ai milioni di persone che sono fuori dalle élite economiche. Noi proviamo a cominciare da qui e sappiamo di non essere soli. Qualcosa si è già mosso, negli scorsi mesi, in queste direzioni. E anche da incontri che qualche base hanno gettato, come quello chiamato Human Factor, nel novembre scorso; ma non solo, naturalmente: tanti altri fermenti sono nati dal basso, nelle associazioni diffuse, nella realtà fisica e in quella digitale, lontano dai riflettori mediatici, in quella galassia di persone che non si vede ma c’è e si impegna. Se da tutte queste persone, idee e pratiche ora nasce o no qualcosa di buono e di utile, dipende da tutti voi, da tutti noi.

Esse è raggiungibile qui

Altra Europa. Assemblea a Roma, obiettivo la casa comune ma oggi la priorità è 'mobilitazione totale'. La grande scommessa le elezioni regionali: Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Umbria.

Il manifesto, 19 aprile 2015

Prima gior­nata di lavoro, e prima effet­tiva assem­blea deci­sio­nale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsi­pras nella Sala Roma Eventi (in via Ali­bert 5), soprat­tutto primo evento nazio­nale dalla nascita della ’Coa­li­zione sociale’ lan­ciata da Mau­ri­zio Lan­dini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i rela­tori della mat­ti­nata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, brac­cio destro di Lan­dini e qui a nome della neo­nata Coa­li­zione. Ma nel menù del dibat­tito c’è molto: dai 100 anni di Pie­tro Ingrao rac­con­tati da Maria Luisa Boc­cia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo tor­tu­rato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, gra­zie al cui ricorso la Corte euro­pea ha con­dan­nato l’Italia fino alle ele­zioni spa­gnole e, nean­che a dirlo, alla situa­zione greca.

350 i pre­senti, sta­volta nel ruolo di dele­gati da 72 assem­blee in giro per i nodi ter­ri­to­riali di tutta Ita­lia. Non per «par­ti­tiz­zarsi», spie­gano gli orga­niz­za­tori, ma per avere un assem­blea che possa legit­ti­ma­mente deci­dere e lan­ciare una pro­po­sta «per un pro­cesso costi­tuente unico alter­na­tivo alle poli­ti­che di auste­rità». Tema deli­cato, come sem­pre, al cen­tro della rela­zione del socio­logo Marco Revelli che ha illu­strato il cam­bio di fase, e di mar­cia, della (ex) lista elet­to­rale dalle euro­pee di un anno fa.

«Siamo qui per com­piere un passo diverso da quello di allora. Per molti aspetti più dif­fi­cile. E comun­que più impe­gna­tivo», ha spie­gato, «allora si trat­tava di met­tere in com­pe­ti­zione una lista elet­to­rale, sulla base di un appello volto a evi­tare il para­dosso, mor­tale, che in Europa non fosse pre­sente nes­sun vero rap­pre­sen­tante della sini­stra ita­liana. Oggi, qui, com­piamo un atto molto più dif­fi­cile, e impe­gna­tivo». Non è ancora la costru­zione della “casa comune” «che rimane il nostro obiet­tivo di medio ter­mine rispetto a cui ci siamo fino ad oggi “messi al ser­vi­zio” e al cui pro­cesso di costru­zione con­di­viso da una rete di sog­getti molto più ampia ci met­te­remo a mag­gior ragione al ser­vi­zio da oggi in poi».
Per ora però l’obiettivo è «met­tere in campo una forza» e cioè «una mobi­li­ta­zione totale di ener­gie sociali e intel­let­tuali. Met­tere in discus­sione quel dogma pre­sup­pone un’accumulazione di forza incom­pa­ra­bile con quella con cui si sono finora misu­rate le nostre sini­stre di oppo­si­zione. Non più una testi­mo­nianza, l’affermazione di un’identità par­ziale e oppo­si­tiva, ma la costru­zione di un rap­porto di forza capace di pro­durre uno spo­sta­mento al livello del governo delle nostre società».
Cru­ciale, e non potrebbe essere diverso, il test delle regio­nali e fra gli altri l’esperimento ligure, dove lo smot­ta­mento del Pd ha pro­dotto una lista di sini­stra ampia sotto un’unica inse­gna. Pre­senti le forze della sini­stra orga­niz­zata e le tante asso­cia­zioni che via via si sono avvi­ci­nate all’Altra europa. Oggi ancora inter­venti fino alle 12, poi voto dell’ordine del giorno finale e degli organismi
«Pierre Bourdieu. Tradotta "La miseria del mondo", l’opera del sociologo francese sugli smottamenti che hanno investito la società negli ultimi decenni. E che vede nella precarietà il principio regolatore del dominio esercitato dal capitalismo».

Il manifesto, 16 aprile 2015

«Dove hanno fatto il deserto, quello chia­mano pace». Con que­ste parole si con­clu­deva il discorso di Cal­gaco, re dei Cale­doni, nel De Agri­cola di Tacito, dove il grande sto­rico romano, rac­con­tando la vita del suo­cero Giu­lio Agri­cola gover­na­tore della Bri­tan­nia, espri­meva una delle più feroci cri­ti­che di sem­pre a quell’imperialismo e quella cor­ru­zione dei romani che li aveva con­dotti ad assog­get­tare il mondo, chia­mando ordine e civiltà ciò che era domi­nio e sot­to­mis­sione. Nel mondo moderno e con­tem­po­ra­neo qual è il nostro «deserto chia­mato pace»? Attra­verso un’inchiesta corale (sia per la plu­ra­lità dei sog­getti presi in con­si­de­ra­zione che per il grande numero di stu­diosi coin­volti) sulla scia ma anche al di là dei grandi roman­zieri e intel­let­tuali impe­gnati del XIX secolo, una rispo­sta pos­si­bile l’ha offerta Pierre Bour­dieu con il suo ormai clas­sico La mise­ria del mondo; frutto di tre anni di lavoro, pub­bli­cato per la prima volta in Fran­cia nel 1993 e da allora al cen­tro di vivaci discus­sioni e per­sino ispi­ra­zione per innu­me­re­voli spet­ta­coli tea­trali, esce oggi in Ita­lia per i tipi di Mime­sis, in una bella edi­zione tra­dotta e curata da Anto­nello Petrillo e Ciro Tarantino.

La mise­ria al cen­tro del libro di Pierre Bour­dieu non è la povertà asso­luta (una con­di­zione mate­riale docu­men­ta­bile e cer­ti­fi­ca­bile), bensì la «mise­ria di posi­zione», cioè la mise­ria che nasce e si ripro­duce in uno spa­zio fisico e sociale degra­dato, pre­ca­rio, insta­bile, cui si appar­tiene e in cui si è coin­volti senza pos­si­bi­lità reale di uscirne: insomma, la mise­ria con­tem­po­ra­nea è innan­zi­tutto un sistema di rela­zioni sociali che influenza nega­ti­va­mente il modo in cui le per­sone pen­sano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a dispo­si­zione. In que­sto senso, l’apparentemente impro­ba­bile paral­le­li­smo tra Tacito e il socio­logo fran­cese va al di là della sug­ge­stione reto­rica: la mise­ria che emerge dalle ana­lisi di Bour­dieu e col­la­bo­ra­tori è frutto di una deser­ti­fi­ca­zione sociale, vale a dire dell’impoverimento mate­riale e della con­tem­po­ra­nea pau­pe­riz­za­zione sociale.

Un uni­verso fantasmatico

Il declino di un vec­chio mondo (quello della società del benes­sere) e il sor­gere di un nuovo uni­verso, più spie­tato, meno civico e soli­dale. All’interno di que­sto ordine che pos­siamo chia­mare neo-liberista lo Stato si è riti­rato e ha perso (per scelta poli­tica) auto­re­vo­lezza e capa­cità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono fran­tu­mate le isti­tu­zioni sociali inter­me­die che assi­cu­ra­vano soste­gno agli indi­vi­dui (la fami­glia) ma anche media­zione dei con­flitti (le asso­cia­zioni), sin­tesi e orga­niz­za­zione delle diver­sità cul­tu­rali e delle aspi­ra­zioni indi­vi­duali (i par­titi, i sin­da­cati). Bour­dieu e la sua equipe ana­liz­zano le mani­fe­sta­zioni di que­sta mise­ria con­tem­po­ra­nea (che è anche dif­fu­sione della vio­lenza e dell’intolleranza) met­ten­dola in col­le­ga­mento con le sue radici sociali e poli­ti­che occulte (per­ché rimosse dal dibat­tito pub­blico e poli­tico) inter­vi­stando una vasta e varie­gata pla­tea di sog­getti: dall’anziano che vive nella ban­lieue al lavo­ra­tore immi­grato; dalla gio­vane disoc­cu­pata all’assistente sociale e al pic­colo com­mer­ciante. Tutte que­ste figure, i cui vis­suti e per­corsi sono rico­struiti attra­verso un approc­cio che uni­sce sem­pre all’avvincente nar­ra­zione d’inchiesta una ser­rata rifles­sione teo­rica in grado di resti­tuire i col­le­ga­menti tra le bio­gra­fie indi­vi­duali e le più vaste dina­mi­che sociali e eco­no­mi­che, sono acco­mu­nate dalla con­di­vi­sione di un comune oriz­zonte e spa­zio sociale: quello dei ceti popo­lari, depo­ten­ziati nella pro­pria dignità, nel pro­prio rispetto di sé e nella pro­pria auto­no­mia. Que­sto immi­se­ri­mento nasce dalla pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, dalla con­tra­zione del wel­fare state, dall’esclusione sociale, dai mec­ca­ni­smi clas­si­sti della scuola e dall’abbandono delle peri­fe­rie da parte delle isti­tu­zioni pubbliche.

In que­sto calei­do­sco­pio sociale «dal basso», nel quale bio­gra­fia indi­vi­duale e tra­sfor­ma­zioni col­let­tive si intrec­ciano costan­te­mente, ritro­viamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure pro­fes­sio­nali che rap­pre­sen­tano ciò che resta della rete di pro­te­zione sociale sta­tuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il pic­colo com­mer­ciante che non ce la fa più a reg­gere la con­cor­renza della grande distri­bu­zione e che vive, ormai anziano, le sue dif­fi­coltà rea­gendo in modo rab­bioso, facendo appello ad un nuovo nazio­na­li­smo che lo possa pro­teg­gere dalle con­se­guenze della glo­ba­liz­za­zione. Un’ampia gal­le­ria di gio­vani, dall’operaio pre­ca­rio che guarda come inu­tile resi­duo del pas­sato il sin­da­cato pur vivendo una situa­zione di forte pre­ca­rietà lavo­ra­tiva, al gio­vane stu­dente mar­gi­na­liz­zato e taci­turno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruo­larsi come volon­ta­rio nelle mili­zie croate. E i con­ti­nui con­flitti, ormai dif­fusi ovun­que nel tes­suto della vita quo­ti­diana delle ban­lieue, tra fran­cesi di nascita e fran­cesi natu­ra­liz­zati (cioè migranti), pra­ti­ca­mente per ogni cosa: dagli odori pro­ve­nienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai gio­chi nei cor­tili. Indi­ca­tore di una lotta per il con­trollo del ter­ri­to­rio (ormai in fasce di declas­sa­mento) tra gruppi che con­di­vi­dono poco, ma anche risul­tato del deciso inde­bo­li­mento dell’autorità nelle fami­glie natu­ra­liz­zate, che con­duce i gio­vani ad assu­mere com­por­ta­menti sem­pre più fuori controllo.

La pra­te­ria della politica

Su que­sto varie­gato fronte di guerra – nel quale sin­da­cati e par­titi di sini­stra sono oramai assenti anche come ter­reno di incon­tro e di media­zione tra vari tipi di ceti popo­lari – ritro­viamo anche gli assi­stenti sociali e i giu­dici mino­rili, che non vivono sem­pli­ce­mente le pur tante dif­fi­coltà con­na­tu­rate al loro lavoro ma la sem­pre più ampia sen­sa­zione di essere sva­lu­tati social­mente e pro­fes­sio­nal­mente, pro­prio da quello Stato per cui lavo­rano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La mise­ria del mondo di Bour­dieu fa emer­gere così tre aspetti molto inte­res­santi: la dif­fe­ren­zia­zione e fram­men­ta­zione soprat­tutto per linee etni­che e gene­ra­zio­nali dei ceti popo­lari con­tem­po­ra­nei; l’abbandono siste­ma­tico dei più deboli da parte della poli­tica e delle classi diri­genti, che apre la strada ad una visione sem­pre più dar­wi­niana della vita sociale; l’apertura di una pra­te­ria poli­tica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampia­mente sot­to­va­lu­tata) sia per il nazio­na­li­smo popu­li­sta che per la radi­ca­liz­za­zione isla­mi­sta, in con­se­guenza del dis­sol­vi­mento della sini­stra e del suo radi­ca­mento popolare.

La mise­ria è stato uno dei temi domi­nanti nella vita delle masse popo­lari nel corso della sto­ria fino ad emer­gere come un attri­buto fon­da­men­tale di quella que­stione sociale (e non più sem­pli­ce­mente reli­giosa) che, a par­tire dall’ascesa della società indu­striale, ha domi­nato la scena poli­tica e il dibat­tito pub­blico della moder­nità. La mise­ria è una cate­go­ria e uno stato diverso dalla «sem­plice» povertà: la mise­ria è penu­ria di risorse ma anche meschi­nità morale, con­di­zione mate­riale depri­vata ma anche sof­fe­renza e bas­sezza spi­ri­tuale, in ter­mini socio­lo­gici quella fine della coe­sione sociale retta da valori non solo con­di­visi ma anche capaci di dare una meta e un oriz­zonte di miglio­ra­mento alla vita indi­vi­duale e col­let­tiva. Così, la mise­ria non è mai il con­tra­rio dell’opulenza ma della «vita buona» e della pos­si­bi­lità di rea­liz­zarla in qual­che luogo. Come tale la pos­siamo ritro­vare tanto nei ghetti e nelle fave­las quanto nei grat­ta­celi scin­til­lanti di Man­hat­tan, ogni­qual­volta la depri­va­zione mate­riale si accom­pa­gna ad un eterno pre­sente senza spe­ranze di riscatto morale, civile e materiale.

L’utopia del socia­li­smo – e poi la stessa ideo­lo­gia dello Stato sociale, com­preso quello di marca libe­ral­de­mo­cra­tica – è con­si­stita nel rite­nere che la società indu­striale fosse la dimen­sione all’interno della quale offrire una solu­zione a que­sto pro­blema, una volta eli­mi­nato o messo sotto con­trollo il capi­ta­li­smo; e, per que­sta via, in que­sto mondo, riscat­tare dalla mise­ria l’umanità intera, tanto il pro­le­ta­riato quanto gli stessi bor­ghesi. La mise­ria con­tem­po­ra­nea è nega­zione di que­sta uto­pia ed estra­nea­zione della sini­stra dai ceti popo­lari; ed è stata occul­tata, anche durante e nono­stante la grande crisi del 2007. Rileg­gere l’attualissima ricerca di Pierre Bour­dieu ce ne fa capire il per­ché: non si tratta solo di mera con­ve­nienza politica.

Eclisse della sinistra

Ci tro­viamo di fronte alla scom­parsa dal dibat­tito pub­blico della società stessa e dei ceti popo­lari ora che, dopo la fine del for­di­smo e della società del benes­sere, si fanno più dif­fe­ren­ziati, estesi e pre­cari: fine della società per­ché la mise­ria quando è rac­con­tata e messa a tema lo è sem­pre come que­stione indi­vi­duale, disturbo psi­co­so­ma­tico, male esi­sten­ziale senza radici sociali, che invece per­si­stono e sono resi­sten­tis­sime, radi­cate nei mec­ca­ni­smi di fun­zio­na­mento eco­no­mico e nei poteri sociali. Abban­dono dei ceti popo­lari per­ché que­sti non sono più coin­volti in un pro­getto di riscatto e pro­gresso sociale ma lasciati in balia dei mec­ca­ni­smi più sel­vaggi del mer­cato e di una nar­ra­zione media­tica e poli­tica che ne esalta le rea­zioni di pan­cia, fun­zio­nali al man­te­ni­mento di quell’ordine sociale che li priva, con­tem­po­ra­nea­mente, della pro­spet­tiva della «vita buona» (popu­li­smo e radi­ca­li­smo a sfondo reli­gioso). Si pensi a que­sto pro­po­sito al rac­conto pie­ti­stico che in Ita­lia si fa a volte dei disoc­cu­pati o dei pen­sio­nati rovi­nati da video­po­ker o video­lot­tery: in tutti que­sti casi si cede alla com­mi­se­ra­zione, si parla di psi­co­pa­to­lo­gia ma si occulta il fatto che quelle mise­rie sono fun­zio­nali a pre­cisi inte­ressi eco­no­mici (anche di stampo mafioso), pos­si­bili e pro­mossi dalle leggi dello Stato. La mise­ria del mondo di Bour­dieu mostra la pos­si­bi­lità di ren­dere rever­si­bile (per­ché pro­dotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scam­biato per un destino senza scampo: la mise­ria dei tempi pre­senti in tutte le sue com­plesse ed arti­co­late forme.

Riferimenti
Vedi anche, sul medesimo argomento, l'articolo di Benedetto Vecchi.
Nell'icona, e qui sotto, un murale di Ernest Pignon dipinto in una prigione di Lione

«Il conflitto. Riunione informale ieri a Roma con associazioni, centri sociali, partite Iva e precari della Coalizione 27 febbraio. Nella Cgil lo scontro sul futuro del sindacato è duro. La segretaria Camusso definisce la coalizione "una scorciatoia": "Non andrà da nessuna parte. Restiamo della nostra idea"».

Il manifesto, 12 aprile 2015

La pros­sima set­ti­mana il mani­fe­sto della coa­li­zione sociale sarà dif­fuso in vista di un’assemblea di due giorni pro­gram­mata a metà mag­gio. Nelle inten­zioni del segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini dovrebbe chia­rire che la «coa­li­zione sociale» non è un par­tito ma «un pro­cesso aperto e in dive­nire». Nella bozza distri­buita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quar­tiere Cen­to­celle di Roma, poi dif­fusa dall’Ansa, si legge che la coa­li­zione vuole «dimo­strare che si può fare poli­tica attra­verso un agire con­di­viso, al di fuori e non in com­pe­ti­zione rispetto a par­titi, orga­niz­za­zioni poli­ti­che o car­telli elettorali».

La coa­li­zione sociale sarebbe dun­que il risul­tato di un «agire con­di­viso», «fuori e non in com­pe­ti­zione» con i par­titi. Pro­ba­bil­mente la pre­ci­sa­zione serve a raf­fred­dare le rea­zioni della «sini­stra Pd» o dei Cin­que Stelle, che vedono con insof­fe­renza l’esperimento di Lan­dini. Si punta a fare coa­li­zione con tutti i lavo­ra­tori, pre­cari e «nuovi poveri» con la par­tita Iva, sul «ter­ri­to­rio» e «nei luo­ghi di lavoro», non tra gli schieramenti.

All’incontro hanno par­te­ci­pato asso­cia­zioni come Act, movi­menti come il Forum dell’acqua e cen­tri sociali dell’Emilia Roma­gna. È inter­ve­nuto anche Ste­fano Rodotà che ha riba­dito il giu­di­zio con­tro la «zavorra» dei par­titi. Una posi­zione, ha ammesso, che ha inner­vo­sito molti nei par­titi. A suo avviso la «coa­li­zione sociale» ha «una carica pole­mica posi­tiva»: regi­stra la crisi della rap­pre­sen­tanza della poli­tica e intende resti­tuire rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica al lavoro. Per Rodotà que­sta è la base di un’altra cul­tura e agenda poli­tica da sot­to­porre anche a chi, nei par­titi, è sen­si­bile ai beni comuni o alla pro­po­sta di legge d’iniziativa popo­lare per eli­mi­nare il pareg­gio di bilan­cio in Costituzione.

L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pome­rig­gio le agen­zie hanno ripor­tato le dichia­ra­zioni di Lan­dini e dei par­te­ci­panti. Dopo le 13,30 sugli smart­phone sono apparse le dure parole della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso. La coa­li­zione sociale è una «scor­cia­toia – ha detto — non mi pare che vada da nes­suna parte». Per la segre­ta­ria la strada è diversa: pri­mato del sin­da­cato e auto­no­mia dai sog­getti sociali e poli­tici. Obiet­tivo: ritro­vare «l’unità tra i lavo­ra­tori e le orga­niz­za­zioni sin­da­cali».

Per Lan­dini, invece, il sin­da­cato da solo non basta nel momento in cui Renzi è deter­mi­nato a can­cel­lare tutti i corpi inter­medi, age­vo­lando così il pro­cesso di rivo­lu­zione dall’alto in corso nell’Europa dell’austerità. Il suo è un defi­cit di rap­pre­sen­tanza, e di potere sociale, che va recu­pe­rato facendo coa­li­zione con i mondi del lavoro non dipen­dente e pre­ca­rio, oltre che nella società. Dif­fe­renze che tor­ne­ranno a farsi sen­tire in vista della con­fe­renza di orga­niz­za­zione della Cgil.

Su que­sto scon­tro tra Lan­dini e Camusso si sta gio­cando il futuro del sin­da­cato. La sua pro­po­sta di coa­li­zione sociale vuole costruirne uno diverso, met­tendo in comune «saperi e espe­rienze» con la società, anche attra­verso il «mutua­li­smo», altra parola chiave. Ai sog­getti che la com­pon­gono sono state pro­po­ste «cam­pa­gne per obiet­tivi comuni» con­tro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pen­sione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinun­ciare a ciò che sono, ma di par­te­ci­pare a quelle su cui sono d’accordo.

Gli avvo­cati di Mga, i far­ma­ci­sti di Fnpi, gli atti­vi­sti dello scio­pero sociale che fanno parte della «Coa­li­zione 27 feb­braio» hanno soste­nuto le ragioni di una cam­pa­gna con­tro il «busi­ness» della Garan­zia gio­vani, fisco e pre­vi­denza equi per i pre­cari e le par­tite Iva, il red­dito di base. Su que­sto mani­fe­ste­ranno il 24 aprile alla sede cen­trale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coa­li­zioni in for­ma­zione – sosten­gono – Biso­gna deter­mi­nare le com­bi­na­zioni che aumen­tano la forza di tutti ed evi­tare di defi­nire subito il peri­me­tro di una sola».

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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa par­liamo quando par­liamo di coa­li­zione sociale?

Leggi anche, di Guido Viale: L'immaginario spazio a sinistra del PD
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».

il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla

Quando par­liamo di sociale, ci rife­riamo alle rela­zioni tra le per­sone — e, da qual­che tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel lin­guag­gio poli­tico, sociale si rife­ri­sce alle modi­fi­ca­zioni di quei rap­porti con l’azione col­let­tiva: ini­zia­tive con­di­vise da una plu­ra­lità di attori che indi­chiamo con il ter­mine gene­rico di movi­menti.

Con il ter­mine poli­tico ci rife­riamo invece in modo espli­cito ai rap­porti di potere, cioè alla gerar­chia che con­trad­di­stin­gue l’assetto sociale: sia che l’azione poli­tica sia diretta alla sua con­ser­va­zione, sia che sia diretta alla sua modificazione.

Quella tra sociale e poli­tico è una distin­zione che nel corso del tempo ha subito molte modi­fi­ca­zioni in rela­zione al con­te­sto e oggi tende a sfu­mare: è venuta meno “l’autonomia del poli­tico”, nel senso che la poli­tica non viene più per­ce­pita come una sfera disin­car­nata, dotata di una sua logica interna, dove si con­fron­tano visioni del mondo, obiet­tivi, stra­te­gie e tat­ti­che dif­fe­renti; viene invece con­si­de­rata sem­pre più un aggre­gato sociale, dotato di una pro­pria dina­mica — a cui ci si rife­ri­sce spesso con il ter­mine “casta” — da ana­liz­zare e spie­gare in ter­mini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i con­nessi pri­vi­legi — di mediare il rap­porto tra i cen­tri del potere finan­zia­rio mon­diale che domi­nano sull’economia glo­bale e chi ne subi­sce il comando. Vice­versa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movi­menti per tra­sfor­mare la realtà, viene da tempo rico­no­sciuta una dimen­sione intrin­se­ca­mente poli­tica, per­ché non si ritiene più pos­si­bile modi­fi­care quei rap­porti, anche nei suoi aspetti più par­ziali, senza met­tere in discus­sione il potere, la strut­tura gerar­chica da cui dipendono.

Ma è comun­que un salto logico iden­ti­fi­care sociale con sin­da­cale e poli­tico con par­ti­tico (Marco Revelli, il mani­fe­sto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà pos­sono solo inter­cor­rere rap­porti ana­lo­ghi a quelli con­fi­gu­ra­tisi nel corso del Nove­cento: il modello social­de­mo­cra­tico, quello labu­ri­sta e quello “fran­cese”. Se que­sti “tipi ideali” sono accet­ta­bili in rife­ri­mento al secolo scorso, ora il sociale non è più ricon­du­ci­bile al solo sin­da­cale; né il poli­tico al solo par­ti­tico. Que­sta era peral­tro la ragione che aveva indotto Revelli a teo­riz­zare l’impasse del suo “Finale di par­tito”. Per que­sto il dibat­tito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sem­pre allon­ta­nati, non può essere usato, come sug­ge­ri­scono Favilli e Revelli, per defi­nire le opzioni che abbiamo di fronte, né per rac­co­man­dare — troppo facile dirlo senza pra­ti­carlo — di “cer­care ancora”.

La situa­zione odierna non è più quella in cui si era andato costi­tuendo il movi­mento ope­raio dell’Occidente; né quella in cui aveva impo­sto alla con­tro­parte capi­ta­li­stica e sta­tuale le inno­va­zioni dello Stato sociale: con­trat­ta­zione col­let­tiva con valenza nor­ma­tiva e gestione sta­tuale dei ser­vizi sociali: sanità, istru­zione, pen­sioni e, in parte, abitazione.

La prima era carat­te­riz­zata da una con­ti­guità fisica delle abi­ta­zioni dei lavo­ra­tori tra di loro e con il luogo di lavoro, sic­ché la vita sociale che si svol­geva nelle une faceva da retro­terra anche alle lotte nelle fab­bri­che. Di qui la reci­proca inte­gra­zione tra lotte riven­di­ca­tive e sforzi per costruire, con il mutua­li­smo e il movi­mento coo­pe­ra­tivo, una alter­na­tiva sociale auto­noma e auto­ge­stita alla mise­ria indotta dall’industrializzazione.

La seconda, che ha avuto il suo apo­geo quando ormai le prin­ci­pali misure di auto­tu­tela pro­mosse con il mutua­li­smo erano state sus­sunte dallo Stato e gestite da entità pub­bli­che in forme uni­ver­sa­li­sti­che, aveva comun­que tro­vato la sua base sociale nell’omogeneità della con­di­zione lavo­ra­tiva di una mano­do­pera ammas­sata nei grandi impianti della pro­du­zione fordista.

Entrambi que­sti retro­terra sono venuti meno, anche se nes­suno dei due è scom­parso del tutto. La con­di­zione con cui deve misu­rarsi il “sociale” oggi è una ele­va­tis­sima disper­sione e dif­fe­ren­zia­zione dei poveri e delle classi lavo­ra­trici sia sul ter­ri­to­rio che nei luo­ghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psi­chico ed esi­sten­ziale, a con­tras­se­gnare i rap­porti sociali del giorno d’oggi; ancora più impor­tante è il pre­do­mi­nio cul­tu­rale del pen­siero unico; della com­pe­ti­zione uni­ver­sale di tutti con­tro tutti e della “meri­to­cra­zia”, intesa come legit­ti­ma­zione del diritto del più forte a lasciare indie­tro e schiac­ciare il più debole.

Certo que­sta ideo­lo­gia e la sua ege­mo­nia hanno una base mate­riale nella disper­sione impo­sta dallo svi­luppo capi­ta­li­stico e dalla sua glo­ba­liz­za­zione. Ma pro­prio per que­sto l’impegno della poli­tica nel con­te­sto odierno deve essere un lavoro di rico­stru­zione di rela­zioni sociali soli­dali e pari­ta­rie, met­tendo al primo posto i diritti e la dignità delle per­sone: una pra­tica che riguarda soprat­tutto la costru­zione di movi­menti, le rela­zioni sociali den­tro i movi­menti e i rap­porti tra movi­menti di orien­ta­mento o ispi­ra­zione diversi.

Per far sì che quei movi­menti, intesi nel senso più ampio, si diano una rap­pre­sen­ta­zione, e una rap­pre­sen­tanza, più ampia pos­si­bile della pro­pria col­lo­ca­zione sociale e poli­tica, e con ciò stesso dei pro­pri obiet­tivi e delle pro­prie fina­lità — è que­sto il senso della coa­li­zione sociale — e non per­ché si rico­no­scano in una rap­pre­sen­tanza poli­tica pre­co­sti­tuita.

Vano è limi­tarsi a guar­dare a un pre­sunto “spa­zio a sini­stra” del Pd che — affi­dan­dosi a una “topo­lo­gia poli­tica” che non ha riscon­tro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evo­lu­zione dei par­titi social­de­mo­cra­tici euro­pei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sin­to­ma­tico. Quello spa­zio è in gran parte imma­gi­na­rio, o non “a dispo­si­zione” del primo arri­vato per costruire qual­cosa di solido; e meno che mai a dispo­si­zione di orga­niz­za­zioni già in fila da anni, senza risul­tati, per riempirlo.

Quel “cer­care ancora” deve essere un nuovo modo di fare poli­tica; ma anche una nuova topo­lo­gia poli­tica, fon­data su distin­zioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ric­chi, più che destra e sini­stra. Le classi non esi­stono più? Sì, esi­stono, ma biso­gna farle emer­gere alle luce del sole per­cor­rendo strade nuove e non la ripro­du­zione dell’ennesima riag­gre­ga­zione dei resti della “sini­stra radicale”.

P.S. A bene­fi­cio di Luciana Castel­lina e di chi ha letto il suo arti­colo (il mani­fe­sto, 7 aprile), pre­ciso che non ho mai scritto che «i par­titi sareb­bero tutti ceto poli­tico» (lo sono in gran parte i loro diri­genti più o meno per­ma­nenti e molti loro rap­pre­sen­tanti nei corpi elet­tivi e nelle società par­te­ci­pate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le orga­niz­za­zioni che ope­rano nella società civile sareb­bero tutte illi­bate» (ho scritto che hanno anche loro le loro pic­cole buro­cra­zie). Sono inol­tre radi­cal­mente cri­tico nei con­fronti «dell’idea negriana della mol­ti­tu­dine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esem­pio: “Virtù che cam­biano il mondo”, 2013). Sono peral­tro con­vinto soste­ni­tore della neces­sità e dell’urgenza dell’azione poli­tica, come dimo­stra la mia par­te­ci­pa­zione alla fon­da­zione di Alba, di Cam­biare si può (ma non di Rivo­lu­zione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva buro­cra­tica e autoritaria).

postilla

C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.

L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».

Il manifesto, 4 aprile 2015

«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».

E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.

Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme. Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi - o che cosa - quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo.
Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle. È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare.
Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio - così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione - tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito - il Labour, appunto - è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure - e le ipotesi possono moltiplicarsi - non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema - irrisolto - di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.

Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!

La Repubblica, 3 aprile 2015

Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».

Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».

La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».

Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».

Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».

Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».

Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».

Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».

Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»

Nel dibattito sulla sinistra ieri, oggi e domani un interessante intervento da un punto di vista di destra. Peccato che guardi solo nella sinistra di governo, e consideri (anche lui) il Pd un partito della sinistra socialdemocratica.

La Repubblica, 3 aprile 2015

NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.

Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.

Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.

Questa è l’unica sinistra che rimane, ma non versa affatto in buona salute. L’offensiva neoliberista l’ha svuotata, al punto che appare ridotta a un’esistenza residuale. Certo, è ancor sempre in Europa una forza elettorale tutt’altro che trascurabile. Ma, come sta dimostrando la Francia, non morde, si limita a resistere in una condizione di crescente affanno. A indebolire la socialdemocrazia sono fattori come il cedimento dei modi di produzione basati sulle grandi fabbriche e sulla concentrazione in queste ultime delle masse dei lavoratori metalmeccanici e siderurgici, l’avvento delle tecniche produttive legate all’automazione e all’informatica, l’indebolimento dei sindacati; il che ha privato i partiti socialdemocratici di quelli che erano i suoi tradizionali ancoraggi. Aggiungasi che questi partiti operavano in Stati in cui le decisioni politiche ed economiche erano nelle mani di Parlamenti e governi nazionali che poggiavano su sistemi di “economia nazionale”. La globalizzazione economica ha spostato tali leve a favore delle oligarchie sovranazionali, capaci di dettare legge in campo economico, orientare politica ed economia, di influenzare l’opinione pubblica e il corpo elettorale. Qui sta la radice dello svuotamento della sinistra socialdemocratica, costretta a una difensiva difficile e inconcludente.

Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.

Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.

Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.

Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.

Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.

«». Il manifesto

Il pro­getto di coa­li­zione sociale pro­mosso dalla Fiom e con­so­li­dato dall’imponente mani­fe­sta­zione del 28 marzo offre a tutte le per­sone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.

La pro­po­sta cir­co­lava da tempo: era già stata avan­zata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giu­gno e rac­colta in diversi docu­menti di que­sta orga­niz­za­zione, rima­sti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboc­cato invece la strada di un accordo tra par­titi e cor­renti della sini­stra esterna e interna al Pd.

Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coa­li­zione sociale sarà per sua natura una realtà poli­cen­trica, la cui trama può comin­ciare a esser tes­suta dai punti più diversi del ter­ri­to­rio e della strut­tura sociale, senza che tra le diverse ini­zia­tive si ven­gano a creare per forza com­pe­ti­zioni o sovrapposizioni.

L’obiettivo comune è quello di aggre­gare for­ma­zioni, comi­tati, asso­cia­zioni, movi­menti, sin­da­cati – ma anche sin­goli non orga­niz­zati - non solo dif­fe­renti tra loro per sto­ria, com­po­si­zione sociale, obiet­tivi e pra­ti­che, ma tra i quali sus­si­stono spesso, latenti o espli­citi, fat­tori di incom­pa­ti­bi­lità o di con­flitto. Ma il lavoro di ricom­po­si­zione di que­ste dif­fe­renze - che una volta affron­tate si rive­lano un fat­tore di ric­chezza sia per tutti che per il pro­getto comune - è pro­prio ciò che rende anche poli­tica la coa­li­zione sociale. Una for­ma­zione com­po­sta da movi­menti e ini­zia­tive che per natura o per la loro sto­ria hanno obiet­tivi mono­te­ma­tici, o ope­rano in campi limi­tati, o sono con­fi­nati in ambiti locali.

Per­ché la poli­tica «buona» - quella orien­tata alla pro­mo­zione, al raf­for­za­mento e al col­le­ga­mento di lotte e ini­zia­tive con­tro le strut­ture con­so­li­date del potere o le misure che col­pi­scono la mag­gio­ranza della popo­la­zione - non è altro che que­sto: unire ciò che il capi­ta­li­smo (e in par­ti­co­lare, la sua con­fi­gu­ra­zione glo­ba­liz­zata e finan­zia­riz­zata di oggi) divide.

Per que­sto una coa­li­zione sociale ben pra­ti­cata è anche sem­pre «politica».

Ma non è vero il con­tra­rio: una aggre­ga­zione di orga­niz­za­zioni poli­ti­che oggi tende a rive­larsi fat­tore di divi­sione tra le com­po­nenti sociali che dovreb­bero esserne il rife­ri­mento. Per­ché qui entrano in gioco diverse riva­lità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo lin­guaggi) dif­fe­renti e cia­scuna aspira ad affer­mare la pro­pria ege­mo­nia sulle altre; nel caso peg­giore, e più fre­quente, tra esi­genze rivali di soprav­vi­venza delle strut­ture o di ripro­du­zione della por­zione di ceto poli­tico pre­sente in cia­scuna orga­niz­za­zione. Un rischio da cui non sono esenti nem­meno le grandi asso­cia­zioni, che hanno anch’esse una pro­pria pic­cola buro­cra­zia interna; ma in misura infi­ni­ta­mente minore, per­ché la loro mis­sione e le loro radici nella società le inchio­dano in qual­che modo a com­por­ta­menti meno ondivaghi.

E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un arti­colo sul mani­fe­sto del 28 marzo scorso – che gio­cano sulla rever­si­bi­lità tra i due con­cetti: se una coa­li­zione sociale è neces­sa­ria­mente poli­tica, una coa­li­zione poli­tica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimo­strato. Per que­sto una coa­li­zione sociale, a dif­fe­renza di un accordo tra par­titi, non può che essere «né di destra né di sini­stra», nono­stante che gran parte dei valori che fa pro­pri siano quelli della sini­stra tra­di­zio­nale (ma anche su que­sto il fem­mi­ni­smo ha cer­ta­mente molto da dire; e da ridire).

Ovvia­mente met­ter d’accordo orga­niz­za­zioni sociali dif­fe­renti e tra loro in gran parte estra­nee è più com­pli­cato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che strin­gere un patto tra i ver­tici di par­titi o di cor­renti diverse. Ma può aiu­tare, in que­sto com­pito, ciò che già era stato pro­spet­tato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le ele­zioni euro­pee: la for­ma­zione di gruppi di lavoro in cui le diverse com­po­nenti della coa­li­zione pos­sono con­fron­tare le loro posi­zioni su alcuni temi spe­ci­fici; ma anche le loro pra­ti­che, che sono spesso, assai più delle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che, ciò che divide.

E’ in sedi come que­ste che si pos­sono indi­vi­duare i punti di con­ver­genza e pro­muo­vere ini­zia­tive comuni: non neces­sa­ria­mente tra tutte le com­po­nenti della coa­li­zione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si tro­vano d’accordo. Poi si può met­tere a con­fronto le posi­zioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato tro­vato e veri­fi­care, con uno scavo sulle ragioni delle diver­genze, ma anche attra­verso il con­fronto con le tante posi­zioni diverse che vi par­te­ci­pano, se è pos­si­bile arri­vare a una mediazione.

Ed è nel corso di que­sto lavoro che, tra alcune - non neces­sa­ria­mente tutte - com­po­nenti della coa­li­zione può emer­gere e con­so­li­darsi la pro­po­sta di una lista elet­to­rale, senza che una scelta del genere impe­gni tutti.

Per que­sto il pro­blema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coa­li­zione sociale; poi, magari, anche la lista elet­to­rale – non si pone. Le due cose pos­sono mar­ciare sepa­ra­ta­mente in un unico pro­getto; a con­di­zione che si ten­gano a bada, esclu­den­dole dalla coa­li­zione, le aspi­ra­zioni ege­mo­ni­che dei partiti.

Pre­sto il pro­getto della coa­li­zione sociale, pro­mosso a livello nazio­nale, si ripro­porrà a livello locale: qui le com­bi­na­zioni, come i punti di par­tenza e le prime espe­rienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che cia­scuno cominci a lavo­rare nei modi e con gli inter­lo­cu­tori che gli sono più con­soni. Si trat­terà di aggre­ga­zioni che, come indica il nome - Unions! - della mobi­li­ta­zione del 28, si richia­mano allo spi­rito mutua­li­stico e soli­dale degli albori del movi­mento ope­raio. Ma che ripro­dur­ranno anche, per il loro legame con ter­ri­tori e comu­nità, quel com­mu­nity unio­nism che ha inne­scato la ripresa del movi­mento sin­da­cale negli Stati Uniti, soprat­tutto tra i lavo­ra­tori immi­grati e meno qua­li­fi­cati; e che non si ferma - anche se ovvia­mente non la tra­scura - alla con­trat­ta­zione sala­riale e delle con­di­zioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la con­di­zione sociale, e anche esi­sten­ziale, dei suoi adepti.

Per que­sto la coa­li­zione sociale è anche un ritorno alle ori­gini: rin­no­vato per misu­rarsi con la com­ples­sità degli assetti sociali odierni. Alle ori­gini, le isti­tu­zioni del movi­mento ope­raio ave­vano una base sociale anche nel ter­ri­to­rio: la fab­brica non distava dalle abi­ta­zioni degli addetti e i quar­tieri ope­rai erano con­ti­gui alle unità produttive.

Le prime lotte ope­raie trae­vano gran parte della loro forza dal loro retro­terra. La disgre­ga­zione di quel tes­suto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiet­tivo la sepa­ra­zione tra lavoro e resi­denza - e disper­sione di que­sta in un pul­vi­scolo abi­tato da lavo­ra­tori di fab­bri­che e uffici tra loro lon­tani – ha cam­biato i con­no­tati della con­di­zione ope­raia: ben prima che la fram­men­ta­zione dell’impresa for­di­sta in una mol­te­pli­cità di unità pro­dut­tive sepa­rate, sot­to­po­ste a dif­fe­renti regimi con­trat­tuali in paesi e con­ti­nenti diversi comin­ciasse ad aggre­dire l’unità della classe ope­raia anche sui luo­ghi di lavoro.

Il sin­da­ca­li­smo «ope­rai­sta» che ha avuto la sua epo­pea in Ita­lia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello per­mane, pur in un con­te­sto com­ple­ta­mente cam­biato – non è che il resi­duo di que­sto «inter­mezzo» sto­rico: tra la disgre­ga­zione dell’unità di classe sul ter­ri­to­rio del tardo otto­cento e del primo nove­cento e quella sui luo­ghi di lavoro della fine del nove­cento e dell’inizio di que­sto secolo. Oggi, in un con­te­sto glo­ba­liz­zato, la dimen­sione ter­ri­to­riale delle alleanze (dove il lavoro di cura, dome­stico e no, l’altra eco­no­mia e la con­ver­sione eco­lo­gica pos­sono tro­vare il loro spa­zio più pro­prio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che pos­sono ricrearsi pro­cessi sta­bili di con­fronto e di unità tra diversi

Intervistato da Anais Ginoi il sociologo interviene nella discussione aperta ieri da Nadia Urbinati. In Francia considerano di sinistra il partito di Hollande; nessuno al mondo potrebbe considerare tale il partito di Renza. La Repubblica, 1. aprile 2015

«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.

«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».

Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».

Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».

La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».

Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».

Quindi ci troviamo in un’impasse?

«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».

Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».

In Francia considerano che
Quando Renzi pretende (proprio lui!) di essere l'unico a poter rivendicare l'uso di quella parola esprime il più arcaico dei modelli della vecchia sinistra. Che la nuova sinistra trovi la bussola per non ricadere nell'errore.

La Repubblica, 31 marzo 2015

La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.

Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.

«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?

La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.

Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.

La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.

Un'analisi riferita alla situazione francese, ma perfettamente calzante per l'Italia e l'Europa. In estrema sintesi, la risposta al titolo è questa: il popolo tradisce la "sinistra" perché la sinistra non c'è.

La Repubblica, 30 marzo 2015

PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.

Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.

Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.

Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.

La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.

Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?

Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.

L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.

Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.

Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.

Traduzione di Fabio Galimberti

«Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustizia sociale. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?».

Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla

Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.

Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.

Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.

In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.

Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.

Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.

Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.

Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?

Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.

Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.

L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)

presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.

Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.

Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.

Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.

Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.

L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.

Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.

Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?

postilla

Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?

«La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Che cosa signi­fica “coa­li­zione sociale”? Il sus­se­guirsi delle pre­ci­sa­zioni e dei distin­guo indica che la rispo­sta non è sem­plice né uni­voca. Di certo il nome non è con­se­guenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indi­che­reb­bero piut­to­sto una società poco incline alle coa­li­zioni, tutt’ora per­vasa da pul­sioni cor­po­ra­tive sal­da­mente radi­cate nella sua sto­ria, attra­ver­sata da con­flitti che fati­cano a par­larsi e rico­no­scersi a vicenda. Se non si tratta di una for­mula gene­rica da spen­dersi nelle dispute interne ai con­te­sti poli­tici cano­niz­zati per ride­fi­nirne gli equi­li­bri, tut­ta­via, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tar­diva, delle tra­sfor­ma­zioni che hanno inve­stito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rap­porti sociali, delle pro­spet­tive di vita indi­vi­duali e collettive.

Il pro­blema che l’idea stessa di “coa­li­zione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una sog­get­ti­vità poli­tica all’altezza dei tempi. La quale pre­cede, e spesso con­trad­dice, il tema, ampia­mente scre­di­tato dalle poco bril­lanti avven­ture elet­to­rali, par­la­men­tari e con­ve­gni­sti­che dell’agognato “nuovo sog­getto poli­tico”. Una “sog­get­ti­vità poli­tica” è, in primo luogo, un modo di guar­dare alle cose e di rela­zio­narsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.

Per­sino Susanna Camusso la riven­dica al suo sin­da­cato, ma si tratta, appunto, di una “sog­get­ti­vità poli­tica” pri­gio­niera dell’ottica sin­da­cale, che guarda anche a que­stioni gene­rali, ma dal punto di vista di spe­ci­fi­che con­di­zioni di esi­stenza, par­ziali, sem­pli­fi­cate e cir­co­scritte, per giunta, ai loro aspetti “sin­da­ca­liz­za­bili”. Per scen­dere nel con­creto tra­mite un esem­pio, una sif­fatta “sog­get­ti­vità” dif­fi­cil­mente potrà venire a capo di una con­trad­di­zione, tipica del nostro tempo, come quella tra indu­stria­liz­za­zione e que­stione ambientale.

Il fatto che mette in gioco l’idea della “coa­li­zione sociale”, a pre­scin­dere dalle forme che potrà assu­mere e dalle sue pos­si­bi­lità di suc­cesso, è l’indiscutibile inde­bo­li­mento della pro­spet­tiva sin­da­cale. Insi­diata su due fronti prin­ci­pali. Il più evi­dente è quello del lavoro inter­mit­tente e pre­ca­rio, del lavoro auto­nomo impo­ve­rito, e del “non lavoro” pro­dut­tivo ma a red­dito zero che non solo lo sta­tuto degli anni’70, ma l’intera cul­tura sin­da­cale e la sua orga­niz­za­zione per cate­go­rie non abbrac­cia, non con­tem­pla e nem­meno capi­sce. Avendo lun­ga­mente col­ti­vato l’idea, inge­nua a voler essere cle­menti, che si trat­tasse di una “ano­ma­lia” prov­vi­so­ria desti­nata ad essere rias­sor­bita nel lavoro a tempo inde­ter­mi­nato. Un atteg­gia­mento, que­sto, che ha age­vo­lato quanti gio­ca­vano il pre­ca­riato, senza peral­tro tute­larlo in alcun modo, con­tro l’”egoismo” degli occu­pati. Con un discreto suc­cesso di pubblico.

Il secondo fronte, quello meno evi­dente, è la muta­zione che ha inve­stito la stessa figura del lavo­ra­tore sta­bil­mente occu­pato (ma sem­pre più ricat­ta­bile e minac­ciato). Que­sta figura è dive­nuta più com­plessa e sfac­cet­tata di un tempo, non più inte­ra­mente cen­trata sull’identità con­fe­rita dal lavoro, ma arric­chita da domande cul­tu­rali, da desi­deri di libertà, da inte­ressi mol­te­plici e aspi­ra­zioni di cre­scita indi­vi­duale che mal si con­ci­liano con i “sacri­fici” sem­pre più pesanti, scam­biati con il man­te­ni­mento del posto di lavoro. La stessa espres­sione “mer­cato del lavoro” suona oggi, nella sua pre­sunta auto­no­mia “tec­nica”, come una ingan­ne­vole astrazione.
Le per­cen­tuali ver­ti­gi­nose della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile discen­dono, anche se solo par­zial­mente, da que­sto genere di resi­stenze esi­sten­ziali, effet­tive o anche solo temute dalle imprese, deci­sa­mente restie ad assu­mere pos­si­bili pian­ta­grane. Sono soprat­tutto que­sti ele­menti ad avere gra­ve­mente ridotto la forza con­trat­tuale del sin­da­cato e, soprat­tutto, la sua capa­cità di par­lare all’insieme della società. Senza con­tare l’insufficienza della dimen­sione nazio­nale per qual­siasi ipo­tesi di cam­bia­mento o anche di pura e sem­plice difesa dei diritti acqui­siti. La pro­spet­tiva sin­da­cale, arroc­cata nella sua tra­di­zione, è altret­tanto impo­tente quanto quella nazio­nale abbar­bi­cata alle sue anti­che prerogative.

È in que­sto con­te­sto di radi­cale muta­mento e com­mi­stione delle con­di­zioni lavo­ra­tive ed esi­sten­ziali che hanno comin­ciato a svi­lup­parsi, per appros­si­ma­zione, con­cetti come quello di “sin­da­ca­li­smo sociale” e stru­menti di lotta, ancora piut­to­sto indi­stinti, come lo “scio­pero sociale”. Alla ricerca di una sog­get­ti­vità poli­tica che fac­cia dello “stare in società”, meglio del “pro­durre società” il tea­tro di un agire effi­cace, che can­celli il con­fine, scom­parso nei fatti, ma per­si­stente nella dot­trina, tra dimen­sione sin­da­cale e dimen­sione poli­tica. Que­sta divi­sione dei com­piti tra par­tito e sin­da­cato risale a una impo­sta­zione antro­po­lo­gica fon­data sulla distin­zione tra l’immediatezza dei biso­gni e la lun­gi­mi­ranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tra­di­zione socia­li­sta) o sulla capa­cità “pro­fes­sio­nale” di tenere in equi­li­brio inte­ressi con­tra­stanti pro­teg­gendo ade­gua­ta­mente l’ordine pro­prie­ta­rio (per quanto riguarda il par­la­men­ta­ri­smo libe­rale). Su un’idea di sog­get­ti­vità, dun­que, quella pro­le­ta­ria e quella bor­ghese, che dove­vano essere “com­ple­tate” da una guida “spe­cia­liz­zata”, dagli stra­te­ghi della classe di appartenenza.

Di quel mondo, e del rap­porto tra eco­no­mia e poli­tica che lo carat­te­riz­zava, non v’è più trac­cia. Resta, invece, flut­tuando nel vuoto di una sto­ria con­clusa, la difesa, tipica di una antica tra­di­zione cor­po­ra­tiva, delle rispet­tive sfere di “com­pe­tenza”, dei “segreti pro­fes­sio­nali” tra­man­dati dai mae­stri agli appren­di­sti anche quelli appa­ren­te­mente più ribelli. Par­titi che si auto­ri­pro­du­cono in vitro con pochi elet­tori e ancor meno iscritti, com­prese le fol­klo­ri­sti­che oppo­si­zioni interne; sin­da­cati ben attenti a rima­nere “parte sociale” senza immi­schiarsi in ciò che non li riguarda, ma che riguarda, eccome, la vita di coloro che pre­ten­dono di rap­pre­sen­tare, non­ché di molti altri la cui esi­stenza, con­su­man­dosi fuori dalla sfera di azione sin­da­cale, non è che un “dramma” impre­vi­sto e ingom­brante. Se “coa­li­zione sociale” signi­fica che la poli­tica non abita più né dalla prima, né dalla seconda parte è una pro­spet­tiva ben­ve­nuta. Se prende atto della crisi della rap­pre­sen­tanza, senza la pia illu­sione di poterla ripri­sti­nare, può essere un’occasione.

Su que­sta pro­spet­tiva incom­bono, tut­ta­via, due pro­ba­bili derive. La prima è quella di una som­ma­to­ria di asso­cia­zioni e sog­getti col­let­tivi gelosi delle rispet­tive iden­tità, ma acco­mu­nati dalla denun­cia di una poli­tica dive­nuta “aso­ciale” e ostile ai seg­menti più deboli della società. Qual­cosa di non molto dis­si­mile dal mito della “società civile” in cui defluì il movi­mento alter­mon­dia­li­sta dei primi anni 2000 con l’esperienza, pre­sto tra­sfor­ma­tasi in “alter­par­la­men­tare”, dei social forum. Ma senza lo slan­cio, l’azzardo e l’entusiasmo che carat­te­riz­za­rono que­gli anni. Una “coa­li­zione”, insomma, nella quale obiet­tivi apprez­za­bili e set­tori spe­ci­fici di inter­vento sociale e poli­tico si affian­chino senza però sta­bi­lire nessi cogenti. Nella quale inte­ressi comuni e reci­pro­che indif­fe­renze con­vi­vano in una con­di­zione fra­gile e sostan­zial­mente insta­bile tenuta insieme da occa­sio­nali mobilitazioni.

La seconda deriva pos­si­bile, di segno con­tra­rio, è una pre­tesa di sin­tesi, l’aspirazione a isti­tuire una rap­pre­sen­tanza dei movi­menti intesi come sem­plici por­ta­tori di “istanze” che altri dovranno poi tra­sfor­mare in pro­gramma poli­tico. In poche parole, una restau­ra­zione, in altri ter­mini, della divi­sione di com­piti e dei rap­porti gerar­chici tra la dimen­sione poli­tica e quella sindacale.

Come sfug­gire a que­ste alter­na­tive fal­li­men­tari resta un pro­blema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comun­que si voglia chia­mare la dire­zione in cui muo­vere, “coa­li­zione sociale”, “nuovo sog­getto poli­tico” o “sin­da­ca­li­smo sociale”, non basterà affian­carsi come una sorta di “terzo set­tore” alla sfera della poli­tica e a quella del sin­da­cato lascian­done intatti poteri e dispo­si­tivi di per­pe­tua­zione. Quando si tratta di rein­ven­tare la poli­tica biso­gnerà pure entrare in rotta di col­li­sione con le forze che si sono inse­diate al suo posto.

La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movi­menti lo è. Ma se non riu­sci­ranno, in un modo o nell’altro, a entrare in rela­zione con la dimen­sione poli­tica (forza, effi­ca­cia, durata, orga­niz­za­zione) non è fuori luogo pro­fe­tiz­zare, anche in que­sto caso, una solu­zione a destra: quella neocorporativa.

«Nelle formazioni politiche a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette in discussione per costruire qualcosa di nuovo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, e nemmeno Die Linke o Front de Gauche».

Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015

Da quando la sinistra alternativa in Italia è in difficoltà ha cominciato a identificarsi in modelli esterni. Dopo la disfatta del 2008 con la Sinistra Arcobaleno, a seconda delle stagioni, abbiamo assistito a diversi “innamoramenti”: Die Linke poi Front de Gauche, adesso è il momento di Syriza e Podemos. La cosa che mi colpisce, in tutto ciò, è la rimozione delle abissali differenze che esistono tra le realtà che hanno prodotto queste esperienze e la nostra. In particolare, quando si dice facciamo come Syriza e Podemos, si paragona la nostra realtà con quella della Grecia e della Spagna, senza considerare che la nostra situazione è profondamente diversa.

In primo luogo la devastazione che la crisi economica ha prodotto in Grecia, ma anche in Spagna, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quanto ha prodotto in Italia. In secondo luogo, soprattutto in Grecia, ma anche in Spagna, le formazioni socialiste sono crollate (Pasok) o in fortissima crisi (Psoe). In Italia possiamo pensare quello che vogliamo di Renzi, ma il consenso elettorale del Pd è il più alto da quando è stato sciolto il Pci. In terzo luogo in Italia, da diversi anni, esiste una formazione politica (che non esiste né in Spagna, né in Grecia), il M5S, che sarà pure in crisi, ma che ancora oggi raccoglie il 20 per cento del consenso elettorale.
Sono solo battute messe lì, ma penso che non ci sarà nessuna Syriza e nessun Podemos in Italia se non si aprirà una crisi di consenso nel PD e nel M5S. Per esempio, nelle recenti elezioni regionali in Emilia Romagna ha votato solo il 37% degli aventi diritto. 700.000 elettori del Pd (su 3.400.000 aventi diritto al voto), non sono andati a votare. Una enormità, in una regione dove votare è sempre stato considerato un dovere, prima che un diritto. 700.000 elettori che non hanno votato nessuno.
Eppure non mancavano le opzioni a sinistra del Pd: Sel dentro la coalizione, L’Altra Emilia Romagna fuori. Ma nemmeno uno di questi 700.000 elettori, delusi dal Pd, ha scelto una di queste due opzioni. Mi sembra una cosa rilevantissima che da sola dimostra quanto non siano attrattive le offerte politiche in campo oggi a sinistra del Pd. Eppure nessuno ne ha discusso o ne discute in modo approfondito.

Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.

Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'

incontro internazionale sul tema “Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo socialismo” promosso da Futura Umanità, Rosa Luxemburg (Germania), Nicos Poulantzas (Grecia) e GUE/NGL. Qui si può scaricare il testo in formato .pdf e leggerlo con calma, anche in tram

Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo



1.

Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.

Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.

Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.

Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.

Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.

2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].

Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].

3.Spinelli coglieva nel segno. Esattamente in questa saldatura, ossia nel nesso organico e inscindibile tra democrazia (come valore storicamente universale) e socialismo (come civiltà più elevata lungo il contrastato cammino di liberazione umana) si situa la visione europeista connessa a un «nuovo socialismo» per la quale ha lottato il segretario del Pci. Come egli stesso osserva, nel Pci e in diversi partiti comunisti d’Europa, pur con notevoli diversità di orientamento, «si è venuta affermando la convinzione che la lotta per il socialismo e la sua costruzione debbano attuarsi nella piena espansione della democrazia e di tutte le libertà». Ed «è questa - precisa - la scelta dell’eurocomunismo»[4].
Vale a dire di un’impostazione che, senza cancellare il valore della rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, intendeva aprire un altro percorso e un’altra prospettiva al socialismo in Occidente. Riprendendo e rinnovando le elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, che nell’impianto della Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro hanno trovato originali e significativi riferimenti, in effetti Berlinguer apriva un orizzonte nuovo nei punti alti del capitalismo in crisi. Come mai prima di allora era avvenuto, il segretario del Pci andava delineando un processo rivoluzionario di trasformazione della società del tutto inedito, da realizzarsi nello sviluppo pieno della democrazia e della legalità costituzionale.

Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.

Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.

Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].

4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.

Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.

Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].

Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].

Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.

Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].

6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.

Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].

Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].

In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.

«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.

7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].

«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.

La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].

Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.

8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.

Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.

Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].

Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.


9.Essenziale, in questo processo che comporta una vasta convergenza di forze democratiche e progressiste, è elevare il movimento operaio in Europa al ruolo di classe dirigente. Giacché solo la messa in mora dei vecchi e screditati gruppi di comando e l’avanzata di forze nuove potranno arrestare, nella visione di Berlinguer, il declino dell’Europa occidentale restituendole una funzione di primo piano nel progresso della civiltà e nel far avanzare uno nuovo sviluppo del socialismo.

Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].

Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].

Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.

10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.

La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].

Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.

Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.

All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].

Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.

Note

[1] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015
[2] L’intervista di Enrico Berlinguer è stata ripubblicata dal Fatto Quotidiano il 19 maggio 2014
[3] Intervista di Altiero Spinelli a Romano Ledda, L’Unità, 11giugno 1984
[4] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 37.
[5] E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984 a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti university press, Roma 2014, p. 58
[6] Ivi, pp.131, 130
[7] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC e alla CCC in preparazione del XIV congresso del Pci, in La questione comunista, Editori Riuniti, Roma !975, p. 827
[8] Ivi, p.844
[9] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2014, pp. 26, 27
[10] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 71
[11] Il Foglio, 16 dicembre 2013
[12] Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014
13] E. B., Un’altra idea del mondo, cit., p. 160
[14] Ivi, p. 201
[15] Ivi, pp.175, 179
[16] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC…, cit.pp.827-28, 843
[17] E. Berlinguer, Discorsi al Parlamento europeo, Editori Riuniti, Roma 2015, pp. 21-22
[18] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso…, cit., p. 36
[19] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 22,23
[20] Alexander Höbel, Berlinguer e la politica internazionale, in Critica marxista, n. 3-4 2014. Vedi anche: Raffaele D’Agata, Jalta e oltre. Sicurezza collettiva, stabilità geopolitica e prospettiva socialista, Ciclostilato; Fiamma Lussana, Il confronto con le socialdemocrazie e la ricerca di un nuovo socialismo nell’ultimo Berlinguer in Francesco Barbagallo e Albertina Vittoria, Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale, Carocci, Roma 2007
[21] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, cit., p. 27
[22] Ivi, p.32
[23] Ivi, p.38
[24] Ibidem, p. 36
[25] Cit., p. 36
[26] Benedetto Vecchi, il manifesto, 11 novembre 2014
[27] E, Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p.306
[28] Critica Marxista, 1984

«

Prima Lan­dini e poi Ber­sani hanno agi­tato le acque della pax ren­ziana vio­lan­dola pro­prio men­tre la pro­pa­ganda gon­fiava i primi segnali tec­nici di ripresa e li attri­buiva al polso ener­gico del con­dot­tiero di Rignano. Non si tratta di pure sca­ra­mucce. Esi­ste un nodo di fondo che si ripro­pone quasi ogget­ti­va­mente: la man­canza di ogni rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica di un mondo di ban­diere rosse che negli anni set­tanta con­qui­stò il con­senso di quasi il 50 per cento del paese.

Se que­sta carenza di una sini­stra poli­tica e sociale è un pro­blema, anche di sistema, che si intende supe­rare, occorre com­pren­dere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e pene­trare, se ci sono, nelle sue zone di debo­lezza. Con Renzi, il Pd porta alle con­se­guenze estreme delle ten­denze interne verso approdi post-ideologici ope­ranti già al tempo del Lin­gotto. Però quest’anima inter­clas­si­sta e mode­rata, con il suo dise­gno di sfon­dare al cen­tro con la pro­messa di una rivo­lu­zione libe­rale, che con Vel­troni e Rutelli si arenò, ora trova espres­sioni ine­dite che sem­brano rivi­ta­liz­zarla. Per­ché Renzi rie­sce dove Rutelli ha già fallito?

Alla spinta cen­tri­sta e moder­niz­za­trice, con­dita con la salsa di un libe­ri­smo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica por­zione di anti­po­li­tica. Met­tendo insieme il nucleo del pro­gramma della Con­fin­du­stria (ridu­zione dello spa­zio pub­blico e sem­pli­fi­ca­zione delle regole del lavoro) e lo stile anti­po­li­tico, Renzi inter­cetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discon­ti­nuità radi­cale, il vec­chio ceto poli­tico di estra­zione comu­ni­sta. Muta anche, con l’assalto al sin­da­cato, la com­po­si­zione sociale del par­tito, al punto da pene­trare in aree e inte­ressi sociali delle microim­prese attratte dalla distru­zione delle cosid­dette rigi­dità del mer­cato del lavoro (e dalla enfasi ren­ziana con­tro i con­trolli buro­cra­tici ecces­sivi, che riscon­trano irre­go­la­rità nel 65 per cento delle aziende visi­tate) e che dif­fi­cil­mente avreb­bero guar­dato a sinistra.

Dalla prima anima, quella in senso lato con­fin­du­striale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un con­for­mi­smo asso­luto (c’è una sorta di gior­nale unico nazio­nale che da Repub­blica passa per il Cor­riere, La Stampa, Il Mes­sag­gero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto poli­tico, egli assorbe un desi­de­rio di vit­to­ria (com­pren­si­bile dopo che il Pd si era acca­sciato a terra pro­prio al momento del trionfo) e una invo­ca­zione di nuovo e di rot­tura verso schemi tra­di­zio­nali.

La forza di Renzi (anco­rag­gio ad inte­ressi d’impresa e coper­tura della scena pub­blica con una asfis­siante comu­ni­ca­zione post-politica) è anche la sua debo­lezza. Senza un par­tito strut­tu­rato, privo di un sistema di potere con­so­li­dato che si estenda oltre i meri traf­fici clien­te­lari del giglio magico, senza un vero gruppo diri­gente e una valida classe di governo, privo di un col­le­ga­mento con ampi sog­getti sociali, il grado di auto­no­mia di cui Renzi gode rispetto alle potenze eco­no­mi­che e finan­zia­rie è quasi insus­si­stente.

Sfrutta al mas­simo le loro risorse, le esi­bi­sce in un pub­blico sfarzo alla Leo­polda e ammi­ni­stra spesso con arro­ganza le loro muni­zioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista per­ché il soste­gno dei poteri forti è sem­pre con­di­zio­nato al rapido incasso in moneta sonante. La coa­li­zione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di tran­si­zione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfu­ma­ture, che sor­regge adesso Renzi.

La novità è soprat­tutto il grado di anti­po­li­tica che il fio­ren­tino aggiunge alla com­me­dia e lo sman­tel­la­mento di un par­tito (mai con­so­li­dato) tra­mu­tato in una sua appen­dice per­so­nale. Il domi­nio ren­ziano sem­bre­rebbe incon­tra­sta­bile, con lo spread che si calma, con il tra­sfor­mi­smo del venti per cento dei depu­tati pronti al grande salto nel carro del rot­ta­ma­tore, con l’opportunismo di tanti par­la­men­tari del Pd che hanno fiu­tato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.

Eppure, la man­canza di una sini­stra rico­no­sci­bile sol­leva una latente crisi di legit­ti­ma­zione. L’impressione che la poli­tica odierna suscita è quella che rica­vava Toc­que­ville osser­vando la vita par­la­men­tare del suo tempo. In essa «gli affari ven­gono trat­tati fra i mem­bri di un’unica classe, secondo i suoi inte­ressi e i suoi modi di vedere, non è pos­si­bile tro­vare un campo di bat­ta­glia su cui i grandi par­titi pos­sano farsi la guerra». Con il pre­si­dente del con­si­glio «gasa­tis­simo da Mar­chionne» e gran vene­ra­tore della sacra libertà di licen­zia­mento, nel par­la­mento opera un solo inte­resse pre­va­lente, quello dell’impresa.

Per que­sto è dif­fi­cile al momento pen­sare ad una rina­scita della destra su basi diverse dal popu­li­smo di Sal­vini. Una destra libe­rale non ha alcuna pos­si­bi­lità (e neces­sità) di orga­niz­zarsi col­ti­vando ambi­zioni di alter­na­tiva: il suo spa­zio è già ben pre­si­diato da Renzi. E una sini­stra avrebbe le forze per ripren­dere una fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva? Nel «paese legale», con­ti­nuava Toc­que­ville descri­vendo l’omologazione dei ceti poli­tici fran­cesi, esi­ste una «sin­go­lare omo­ge­neità di posi­zioni, di inte­ressi e, per con­se­guenza di vedute, che toglie ai dibat­titi par­la­men­tari ogni ori­gi­na­lità e ogni realtà, e quindi ogni vera pas­sione». La stessa sen­sa­zione di tra­monto dell’autonomia della poli­tica la si ricava osser­vando le dispute poli­ti­che odierne.

Auto­nomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sin­da­cato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine effi­cace rispetto alle sol­le­ci­ta­zioni della finanza, dell’impresa, dei media. E que­sto ritorno ad un par­la­men­ta­ri­smo mono­classe suscita anche una sen­sa­zione di impo­tenza, di estra­neità in con­si­stenti fasce di opi­nioni. Nel domi­nio di grandi potenze eco­no­mi­che, diceva Toc­que­ville, «i vari colori dei par­titi si ridu­cono a pic­cole sfu­ma­ture e la lotta a una disputa ver­bale». Non è un caso che, in un clima di simi­li­tu­dine nelle basi sociali rico­no­sciute, avvenga il pro­cesso di uni­fi­ca­zione tra Pd e Scelta civica o che sfu­mino del tutto i con­fini distin­tivi con il nuovo cen­tro destra.

Quale per­ce­pi­bile dif­fe­renza iden­ti­ta­ria, e di alte­rità nei rife­ri­menti sto­rici e sociali, si può mai notare tra Gue­rini e Alfano, tra Boschi e Car­fa­gna, tra Picierno e Gel­mini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Ver­dini, tra Faraone e Fitto? Ancora Toc­que­ville: in una poli­tica ad una sola dimen­sione, quella della classe pro­prie­ta­ria, i poli­tici ricor­rono «a tutta la loro per­spi­ca­cia per sco­prire argo­menti di grave dis­senso, senza tro­varne». Con le sue poli­ti­che in tema di lavoro, Renzi si raf­forza per­ché lascia senza scopo una destra di governo. Però, pro­prio con que­sto sci­vo­la­mento, man­tiene sguar­nito un ampio fronte sociale, i cui inte­ressi non coin­ci­dono con il raf­for­za­mento del potere uni­la­te­rale dell’impresa.

Con le sue scor­ri­bande isti­tu­zio­nali, Renzi apre una vistosa vora­gine anche nel campo poli­tico (mal­trat­ta­mento dei prin­cipi dell’antico costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra, demo­li­zione dell’idea di un par­tito non per­so­nale). Col­pita sul piano degli inte­ressi sociali di rife­ri­mento e sfre­giata sull’idea di demo­cra­zia e sul senso della poli­tica, è impen­sa­bile che la sini­stra non provi a rea­gire alle umi­lia­zioni di chi si vanta di averla asfaltata.

Non per un senso dell’onore, che già Bodin esclu­deva quale prin­ci­pio della poli­tica, ammet­tendo la liceità del com­pro­messo e della trat­ta­tiva al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfi­dato di punto. Ma, alla com­pren­si­bile riti­rata, che ha accom­pa­gnato il celere trionfo ren­ziano, non è cor­ri­spo­sta alcuna azione inci­siva per il recu­pero di forza e capa­cità di com­bat­ti­mento. È man­cata quella che Lenin avrebbe chia­mato una «riti­rata con giu­di­zio». La con­trof­fen­siva, dopo la tem­po­ra­nea riti­rata, non è stata nep­pure accen­nata. E invece andrebbe disegnata.

Con una coa­li­zione sociale di pro­te­sta e ostile alla pro­po­sta poli­tica? La spe­ci­fi­cità ita­liana è che men­tre altrove esi­stono due sini­stre, qui non se ne intra­vede nep­pure una. La mino­ranza del Pd deve avere la con­sa­pe­vo­lezza che il suc­cesso di Renzi, e cioè la sua lea­der­ship alle pros­sime ele­zioni, sarebbe il trionfo di una variante di par­tito per­so­nale a voca­zione popu­li­sta entro cui una com­po­nente di sini­stra risul­te­rebbe schiac­ciata e inutile.

Per­ciò deve imma­gi­nare che qual­cosa può nascere oltre Renzi e non biso­gna dare più come senza alter­na­tive il qua­dro attuale di governo. Se le due sini­stre visi­bili solo in potenza, quella sociale e quella poli­tica, non met­tono in atto un pro­cesso di alter­na­tiva a Renzi, devono ras­se­gnarsi alla rapida deca­denza della qua­lità democratica.

«A Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro».

Il manifesto, 15 febbraio 2015

Non so se sono i greci che deb­bono rin­gra­ziarci per que­sta mani­fe­sta­zione grande, bella, uni­ta­ria che abbiamo pro­mosso in tutta fretta per­ché a Bru­xel­les capis­sero bene che quanto lì si decide in que­sti giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli euro­pei che vogliono un’Unione in grado di garan­tire più ugua­glianza più demo­cra­zia più pace.

Un’Europa che almeno la smetta di rite­nersi faro della civiltà quando è inca­pace di acco­gliere chi fugge da terre deva­state dalla pesante ere­dità colo­niale e dalle nostre più recenti, dis­sen­nate spe­di­zioni mili­tari. Pro­prio per que­sto sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover rin­gra­ziare noi, ma noi che rin­gra­ziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che rin­gra­ziamo Ale­xis e Yan­nis - (li chia­miamo ormai per nome per­ché non sono più solo com­pa­gni ma sono diven­tati amici).

Siamo noi che li rin­gra­ziamo per­ché lì a Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piut­to­sto bene. La prova, lo sap­piamo, è duris­sima, ma già dopo que­sti pochi/ primi giorni sem­brano pro­ce­dere con fer­mezza, con la sicu­rezza di rodati sta­ti­sti). Ne siamo orgo­gliosi e sod­di­sfatti. (Avete visto le loro imma­gini in tv, sono loro a domi­nare la scena, e tutti si affret­tano ad avvi­ci­narsi a loro per strin­ger­gli la mano).

Per­ché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capi­tolo della sto­ria dell’Unione euro­pea: per­ché hanno avuto la deter­mi­na­zione - che fino ad oggi era man­cata a tutti - di dire che così non va, che occorre cam­biare pro­prio se si vuole sal­vare il pro­getto d’Europa. Non sono andati a Buxel­les a scu­sarsi per il loro debito e a men­di­care aiuto, ma per dire alla troika che deve chie­dere scusa.

Scusa per i danni che ha pro­dotto con le sue poli­ti­che. Scusa per essersi irre­spon­sa­bil­mente fidata, di un governo cor­rotto e inca­pace. La cata­strofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medi­cine di Bru­xel­les anzi­ché alle­viare i mali e avviare un nuovo corso hanno peg­gio­rato la situa­zione della Gre­cia. Qual­siasi mena­ger che avesse pro­dotto in quat­tro anni un crollo del Pil pari al 25% e rite­nesse que­sto il metodo migliore per accu­mu­lare le risorse per ripa­gare un debito, ver­rebbe licen­ziato. Con tanto par­lare di effi­cienza, il cri­te­rio potrebbe esser appli­cato anche ai fun­zio­nari di Bru­xel­les! Se hanno rovi­nato così la Gre­cia vanno messi in con­di­zione di non nuo­cere più. È neces­sa­rio far­glielo capire.

Noi siamo qui per far sen­tire anche la nostra voce. Buon lavoro Ale­xis, buon lavoro Yannis.

«Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico».

Il manifesto, 14 febbraio 2015

Oggi, a Roma, scen­diamo in piazza per la vita, la dignità e la demo­cra­zia del popolo greco. È un ritorno - impor­tante da non sot­to­va­lu­tare - della buona, antica soli­da­rietà inter­na­zio­nale, dopo anni e anni di chiu­sura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Per­ché mani­fe­stando per «sal­vare la Gre­cia», noi mani­fe­stiamo anche e soprat­tutto per sal­vare noi stessi: per sal­vare l’Italia. Per sal­vare l’Europa.

Se l’azione di Tsi­pras e Varou­fa­kis riu­scirà ad aprire una brec­cia nel muro di Ber­lino dell’austerità, ci sarà una spe­ranza anche per noi, che anna­spiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spa­gnoli, i por­to­ghesi, gli irlan­desi, mas­sa­crati social­mente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimo­strare che la volontà popo­lare non può essere can­cel­lata con un tratto di penna dai ban­chieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bun­de­sbank o della Can­cel­le­ria della Bun­de­sre­pu­blik, sarà un passo impor­tante nel pas­sag­gio dall’Europa della moneta e una vera Europa poli­tica. La sola che può sopravvivere.

Lo sanno benis­simo a Bru­xel­les, a Fran­co­forte, a Ber­lino, che se i greci ce la fanno - se rie­scono a dimo­strare che «si può» - potrà inne­scarsi una rea­zione a catena, nel fronte medi­ter­ra­neo dell’Europa, ma non solo, in grado di scar­di­nare i dogmi mor­tali che ci stanno sof­fo­cando. Per que­sto resi­stono con­tro ogni buon senso, negando l’evidenza, trin­ce­ran­dosi die­tro il ritor­nello delle «regole che vanno rispet­tate» anche se quelle regole si sono rive­late con tutta evi­denza deva­stanti. E per que­sto, dalla nostra parte, ci si mobi­lita nelle prin­ci­pali piazze del con­ti­nente: per dimo­strare che quella rea­zione a catena è già ini­ziata. Che il cam­bia­mento è già in corso.

Sfi­le­remo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo ecci­dio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tra­ge­dia del mare» ma una «tra­ge­dia degli uomini». Una tra­ge­dia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove cen­ti­naia di morti testi­mo­niano dell’egoismo, cri­mi­nale, di un’Europa che chiude occhi orec­chie e brac­cia di fronte alla parte più sof­fe­rente dell’umanità. E lesina gli spic­cioli, con spi­rito da usu­raio, tagliando per­sino sui soc­corsi, per­ché que­sto è il senso del pas­sag­gio da Mare nostrum a Tri­ton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in que­sti anni di «com­mis­sa­ria­mento» la Gre­cia al coma sociale, e quello con cui le classi diri­genti euro­pee, impas­si­bili, hanno tra­sfor­mato il canale di Sici­lia in un cimi­tero liquido. La stessa logica, imper­so­nale, delle cifre e dei pro­to­colli «a distanza», con deci­sioni prese in luo­ghi aset­tici, dove non si sente la puzza della mise­ria e l’odore della morte per anne­ga­mento. Senza nep­pure guar­dare in fac­cia le pro­prie vit­time: la «bana­lità del male», appunto, come direbbe Han­nah Arendt.

Ora il nostro capo del governo, con cini­smo degno della sua bio­gra­fia, getta il pro­blema al di là del Medi­ter­ra­neo, dicendo che la que­stione sta in Libia, non qui o a Bru­xel­les. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo con­tri­buito a creare? – non noi il pro­blema, come se non aves­simo nes­suna respon­sa­bi­lità e nulla da modi­fi­care, rin­viando tutto a una crisi nord-africana con tutta evi­denza ingo­ver­na­bile. È lo stesso atteg­gia­mento tenuto nei con­fronti della Gre­cia, quando ebbe a defi­nire non solo «legit­tima» ma anche «oppor­tuna» la deci­sione della Bce di togliere ossi­geno alle ban­che gre­che, pro­prio quando la minac­cia mag­giore era la fuga dei capi­tali dei grandi miliar­dari ed eva­sori greci, appena due giorni dopo aver abbrac­ciato – gesto degno del dodi­ce­simo apo­stolo – Ale­xis Tsi­pras a Palazzo Chigi…

Anche per dimo­strare che quest’uomo non ci rap­pre­senta, scen­diamo oggi in piazza a Roma. Non è una mani­fe­sta­zione come tante altre. È il segno che una nuova poli­tica può nascere. In un nuovo «spa­zio della poli­tica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qual­che modo oltre i confini.

Non dimen­ti­cherò mai il 25 gen­naio, in piazza Omo­nia ad Atene, quando Tsi­pras finì il pro­prio discorso di chiu­sura della cam­pa­gna elet­to­rale e salì sul palco Pablo Igle­sias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluen­te­mente) infine in spa­gnolo per dire «Syriza, Pode­mos, ven­ce­re­mos», e la piazza, tutta, attaccò a can­tare Bella ciao. In ita­liano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chia­rezza, che era­vamo ormai in un «oltre».

In un altro spa­zio in cui le vec­chie sca­tole degli stati nazio­nali si rom­pe­vano – senza che i popoli per­des­sero le pro­prie carat­te­ri­sti­che, anzi! — per lasciar con­fluire le nuove sfide in un’altra dimen­sione, vor­rei dire in un altro «para­digma», della poli­tica, che si muove ormai in uno spa­zio com­piu­ta­mente con­ti­nen­tale. E che si apriva per noi una grande occa­sione. Unita a una grande respon­sa­bi­lità: di alli­neare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse medi­ter­ra­neo, con­tri­buendo anche nel nostro Paese alla costru­zione di una grande «casa comune» per que­sta nuova sog­get­ti­vità ribelle.

Roma, testi­mone il Colos­seo, è una prima occa­sione per mostrare che anche qui si apre un pro­cesso in cui «coa­li­zione sociale» e «coa­li­zione poli­tica» pos­sono - anzi devono - mar­ciare insieme, stret­ta­mente intrec­ciate, per­ché l’una è con­di­zione dell’altra.

E se sapranno farlo, pur nella con­sa­pe­vo­lezza delle grandi dif­fi­coltà - non tanto cul­tu­rali quanto «tec­ni­che», pra­ti­che, com­por­ta­men­tali e les­si­cali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abi­tante di quel nuovo «spa­zio», in grado di offrire rap­pre­sen­tanza all’oceano di spae­sati e di home­less della poli­tica in Ita­lia come in Europa.

Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spa­gna e come ripe­te­remo a Roma — è, dav­vero, ora!

Riprendiamo da

Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri

«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.

Qual è il suo ritratto del premier?

«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».

Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.

«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».

La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?

«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».

Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».

«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».

Che cos’è oggi il diritto al dissenso?

«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».

Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?

«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».

In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?

«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».

La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?

«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».

Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.

«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».

Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?

«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».

La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?

«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».

In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.

«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».

Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?

«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».

Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.

«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».

Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?

«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».

Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.

«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».

Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?

«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».

Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.

«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».

«La vit­to­ria di Tsi­pras gene­ra entusiasmo. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

Il manifesto, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

Ad unirla, per il momento, è il suc­cesso poli­tico di Ale­xis Tsi­pras e di Syriza in Gre­cia. Riu­nita ieri al tem­pio di Adriano a Roma, la sini­stra ita­liana isti­tu­zio­nale, in bilico o a cavallo tra Sel e alcune com­po­nenti della «sini­stra Pd», si è espressa con le maiu­scole com­men­tando l’intervista che il primo mini­stro greco ha rila­sciato in un libro di Teo­doro Andrea­dis (Bor­deaux edizioni).

Per Ven­dola (Sel) è «Syriza è l’inizio di un nuovo pro­cesso poli­tico con­ti­nen­tale che può sal­vare la civiltà euro­pea dai disa­stri eco­no­mici e sociali pro­dotti dalle poli­ti­che di auste­rity». Per Sme­ri­glio (Sel) «Tsi­pras dimo­stra che si può vin­cere fuori dalle com­pa­ti­bi­lità poli­ti­che». Sme­ri­glio ha anche riven­di­cato la scelta di avere schie­rato il con­gresso di Sel dalla parte di Tsi­pras, e non dei socia­li­sti for­mato «lar­ghe intese» di Schultz e di «avere fatto la lista Tsi­pras alle Euro­pee».

Nes­sun rife­ri­mento al caso «Spinelli-Furfaro» che ha oppo­sto i quar­tier gene­rali dell’Altra Europa e Sel che, dopo vari scos­soni, con­ti­nuano un per­corso che ricorda l’antico motto delle «con­ver­genze paral­lele». Di Tsi­pras si apprezza il «prag­ma­ti­smo» e il «rea­li­smo». E poi «una radi­ca­lità che non si con­fonde con il mas­si­ma­li­smo». L’entusiasmo gene­rato della sua vit­to­ria può por­tare ad un «pro­cesso nuovo». Per que­sto «non pos­siamo stare sull’uscio del Pd per vedere se escono Civati o Fas­sina– ha detto Ven­dola –La novità è la ripresa del con­flitto sociale archi­viato da tempo in Ita­lia».
Un con­flitto iden­ti­fi­cato con la Cgil che si è oppo­sta al Jobs Act. Per Ven­dola biso­gna rac­cor­dare il «sociale» e il «poli­tico» in vista di una o più «coa­li­zioni». Di «uscire dal Pd» Civati e Fas­sina (Pd) in effetti non ci pen­sano pro­prio. Al netto di bat­tute di buon gusto che hanno fatto sor­ri­dere una pla­tea di almeno 500 per­sone, il primo ha riba­dito le sue cri­ti­che a Renzi («Per lui non ci sono alter­na­tive al pen­siero unico, ma qui non c’è nes­sun pen­siero, è rima­sto solo l’unico») e al «tratto equi­voco» del rap­porto tra il Pd e i socia­li­sti euro­pei. Civati ha alluso al ful­mi­nante giu­di­zio di Tsi­pras sul Pd «libe­ri­sta in Ita­lia e social­de­mo­cra­tico in Europa, a dimo­stra­zione di una per­so­na­lità scissa». Una defi­ni­zione che descrive chi si col­loca a sini­stra di que­sto par­tito e vota la riforma del lavoro del «Jobs Act».

In que­sto con­te­sto malin­co­nico e autoi­ro­nico in cui è dif­fi­cile riu­nire per­so­na­lità scisse, Fas­sina si è impe­gnato a ren­dere «il governo ita­liano proat­tivo rispetto alla piat­ta­forma di Syriza. Le sue pro­po­ste non sono utili solo alla Gre­cia. Il pro­blema del debito non riguarda solo la Gre­cia». E ha pro­po­sto una «piat­ta­forma di con­sul­ta­zione siste­ma­tica». Pro­po­ste in cui non sono mai stati citati i movi­menti (Ita­lia sulla casa, con­tro lo Sblocca Ita­lia o dello scio­pero sociale). Gli stessi (o ana­lo­ghi) che rap­pre­sen­tano invece la base di Syriza in Gre­cia. La pro­spet­tiva sem­bra essere un’altra. L’ex vice­mi­ni­stro dell’Economia del governo Letta ha sug­ge­rito di con­si­de­rare la «cri­tica radi­cale ma non estrema al capi­ta­li­smo» di Papa Francesco.

Ad aprire, e chiu­dere, l’incontro mode­rato dalla gior­na­li­sta Lucia Goracci è stata Luciana Castel­lina che ha messo da parte le media­zioni pun­tando dritto all’entusiasmo «che la vit­to­ria di Tsi­pras ha gene­rato. Dimo­stra che la poli­tica può unire e dare gioia. In Ita­lia c’è un’emergenza demo­cra­tica dovuta alla fine dei par­titi di massa come spazi deli­be­ra­tivi. La demo­cra­zia non rina­sce senza rico­struire tali spazi, met­tendo insieme sociale e politico».

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