Perché nel resto del mondo la rappresentanza femminile in politica è ben più nutrita di quanto non sia in questo mio paese infine così europeo? Perché non possiamo non dico pensare a un presidente della Repubblica donna, o a un presidente del Consiglio donna, ma anche a un capo di Confindustria, a un ministro delle Infrastrutture, dell'Interno, della Giustizia donna? Un direttore di grosso quotidiano? Di tg?
Questa l'avete già sentita. In forma di notizietta a una colonna, piccola piccola, eterna lamentazione di questa o quella donna in una pagina di politica interna occupata dai seri discorsi degli uomini. Pagine e pagine sulle quote rosa, per dire una cosa recente, un'impennata delle donne politiche sui giornali. Ma capita spesso che l'intervista alla donna politica occupi un boxino «da curiosità», «il caso», «spunti», i titolini sono da Settimana Enigmistica nel mare magnum del pensiero del leader, maschio. Si parte dalla politica perché sembra l'ambito più alto, più rappresentativo. Ma ci si accorge presto che lì si riproduce il pensiero unico corrente e imperante. Guerra di tailleur. Chi è la più bella del Parlamento. Come veste male quella lì.
Guarda come si è cotonata. Fino a elogi e insulti ad personam, purché donna. Fino alle offese palesi, da camionista, alla donna che non incarna l'ideale prestigiacomiano della bella politica. A Rosy Bindi, stanchi di dire che è brutta e grassa, usurati dalle battute sulla prestanza fisica, si è arrivati a dire che è lesbica, con il doppio carpiato di aggiungere alla cafoneria sessista anche un sessismo cafone. La politica, lasciamo perdere. Con un (ex, sia ringraziato il Signore) presidente del Consiglio che andava dicendo (all'estero! in pubblico!) agli imprenditori europei di investire in Italia «dove abbiamo bellissime segretarie». Facendo proprio la faccia che indovinate.
Quando i provvedimenti sulle quote rosa prendono il solenne colpo (dagli uomini), l'allora ministro per le Pari opportunità piange. Ovvio, è donna, piange. Cosa che i giornali non smettono di sottolineare.
E allora? Niente elogio delle donne, qui, per carità. Il discorso «di genere» è una porta pericolosa, che conduce direttamente al tutto-va-bene-purche-donna. Trovo che Condoleezza Rice, Oriana Fallaci e Letizia Moratti siano figure inquietanti; che la Pivetti era meglio non festeggiarla come più giovane presidente della Camera.
Un discorso «di genere» presenta notevoli trappole. Come dire che tra la Thatcher e i minatori inglesi si sarebbe scelta la Thatcher, in quanto donna. Mah!
Niente genere, insomma. Penso anche che non mi basta aver avuto una Montessori effigiata sulle mille lire, né mi interessa più di tanto che una Tamaro, una Melissa P. o una Mazzantini vendano milioni di copie dei loro libri. Non mi sento indennizzata, per dire, quando per contro non posso girare gli occhi senza ritrovarmi in qualche modo sbeffeggiata. Con buona pace di tutte le belle notizie propagandate con gran foga: crescita dell'imprenditoria femminile, pari opportunità, manager donne che emergono rampanti. Ma le cifre generali dicono un'altra cosa. Le eccezioni si sprecano, e l'emergenza è ormai così endemica che non se ne parla più: l'abbandono del lavoro, il ricatto, il mobbing alle donne causa maternità. E sono più che mai acuti i vecchi problemi: asili nido insufficienti, consultori in via di smantellamento, servizi scadenti, o nulli, essendo servizi che riguardano soprattutto le donne. A questo si aggiungono problemi nuovi nuovi come la precarizzazione del lavoro, che coinvolge tutti ma per le donne è peggio che mai.
Le problematiche del mondo del lavoro, già complicate in una situazione di bassa crescita (di crescita zero, finché governava il presidente delle belle segretarie di cui sopra), si fanno addirittura drammatiche per le donne, costose per i ceti medio-alti e insostenibili per i ceti medio-bassi.
Se si aggiungono aspetti variamente correlati al problema, come la situazione delle straniere, la violenza contro le donne che si è fatta, se possibile, più brutale e diffusa, o la mercificazione del corpo, si vedrà che nessun progresso reale è intervenuto nella situazione delle italiane negli ultimi vent' anni.
Se si aggiungono ancora (benzina sul fuoco) gli attacchi ai diritti acquisiti, aborto, inseminazione -quasi quasi pure le ecografie - e i balletti necrofili, integralisti, neo-con sulla pelle delle donne, si vedrà che abbiamo fatto un vero, innegabile, strabiliante passo indietro.
Un grande passo indietro delle donne con la grande complicità delle donne stesse. È così, non nascondiamocelo. Non di tutte, certo, ma di molte. E se fossimo un esercito, avremmo tra le nostre fila un po' troppi collaborazionisti.
Certi giorni mi sento accerchiata. Certi giorni le cose vengono avanti tutte assieme e allora è più facile verificare che quel sentimento di assedio non è una paturnia solo mia. Certi giorni le agenzie di stampa sputano fuori dati e statistiche, o le dichiarazioni di un politico particolarmente becero, o l'ultima di Ruini, o le intercettazioni d'un principe porcaccione, o l'ennesimo massacro in famiglia, e allora mi accorgo che tutto, in qualche modo, torna. Si ricombina. Ecco un segnale, mi dico. Ed ecco un altro segnale. E poi: ehi, ancora un altro segnale. Finché emerge la certezza che tutto si tiene. Un Ruini, a sorpresa, si incrocia perfettamente con la pubblicità osé, e allo stesso tempo si incastra come il pezzo di un puzzle sul guizzo maschilista, sulla battuta volgare. Tutto si tiene; è lo stesso disegno, tanti fiumi che vanno allo stesso mare: quello dell'ostentato disprezzo per la donna.
Va bene, a volte mi impunto su cose che sembrano assolutamente secondarie e che magari colpiscono solo me: una pubblicità particolarmente lasciva, un claim discriminatorio, il commento d'un vicino al ristorante quando appare la Turco al tg e lui, tutto unto e porroso col gambero mezzo succhiato ancora in pugno come un personaggio della Ghermandi, dice sarcastico: «Guardate quant'è bella! Una donna splendida...».
La stampa periodica costringe a un eterno interminabile slalom per evitare, ad averne l'accortezza, gli eccessi fascistelli d'un Pietrangdo Buttafuoco che non manca mai di apostrofare la Prestigiacomo con i bavosi e per nulla galanti «bedda» o «beddissima», da vero «galantuomo» del Sud (che palle!); oppure ecco le curve della nobil fanciulla signorina Ilaria Visconti di Modrone, gambe all'aria in un bel salotto, fotografata con tacchi a stiletto di dodici centimetri e autoreggenti nere a commento di una banalissima (anzi, alquanto loffia) intervista, che rappresenta la scusa per pubblicare qualche foto pornosoft.
Sfogliate, sfogliate, qualcosa resterà.
[…]
Nel mio libro ' The arts of life', non ancora pubblicato, parlo tra le altre cose di coloro che aiutavano gli ebrei in Polonia durante l'occupazione nazista. La punizione per questo tipo di reato era la pena di morte. Perché lo facevano? I sociologi non sono riusciti a trovare un correlazione tra idee politiche, forza delle fede e comportamento concreto. Io avanzo l'ipotesi che chi aiutava gli ebrei lo faceva perché sentiva che la vergogna fosse più forte della paura della morte. E questo, a pensarci bene, è un messaggio di speranza. Il nostro carattere conta nella storia... Zygmunt Bauman ha 82 anni, è nato a Poznan in Polonia, è sociologo britannico, professore emerito all'Università di Leeds e uno degli intellettuali più influenti di questo inizio di secolo. Ha coniato il termine ' Modernità liquida', ed è il titolo di un suo celebre libro. In ' Amore liquido', ha spiegato che i nostri sentimenti sono privi di punti di ancoraggio. E dopo aver dato alla stampa ' Vita liquida' e ' Società sotto assedio', ora l'editore Laterza sta per mandare in libreria ' Paura liquida', un altro suo importantissimo saggio. Ma prima di diventare l'acuto analista della condizione postmoderna, Bauman si è misurato con il cuore stesso della modernità: ha indagato su come l'illusione del progresso e del regno della ragione abbia reso possibile la Shoah e il crollo della civiltà (' Modernità e Olocausto', il libro che per la sua importanza sta accanto a ' La banalità del male' di Hannah Arendt). In questa intervista a ' L'espresso' parla della paura e del nostro bisogno della sicurezza.
Professor Bauman, ha detto che la vergogna è più forte della paura della morte. Ci vuole una situazione così estrema, come quella che ha descritto, per capirlo?
"No. E le faccio un altro esempio: pensi a persone come Vaclav Havel in Cecoslovacchia o Jacek Kuron in Polonia. Non hanno avuto carri armati a disposizione, né folle osannanti alla tv. Con la sola forza della volontà, con perseveranza e coraggio, con l'idea che si potessero pensare e mettere in atto cose 'impensabili' hanno saputo cambiare il vissuto delle persone e il presente dei loro paesi, e lasciare così nel mondo un segno concreto della loro esistenza".
Ma perché abbiamo bisogno di sicurezza? Per quale ragione temiamo il rischio? La paura una volta era materiale, il diavolo aveva un corpo, la natura era sconosciuta, mentre oggi è astratta?
"Il desiderio di 'sentirsi al sicuro' è comune a tutti gli umani, e forse non solo a loro: una volta lo chiamavano l''istinto di sopravvivenza'. Però per gli umani la sopravvivenza ha una senso molto più ampio che non per gli altri animali, comprende anche la salvaguardia del proprio status sociale e della dignità a fronte ai pericoli di fallimento e dell'umiliazione. Oggi, i pericoli per la sopravvivenza fisica e che derivano dai capricci della natura non sono così gravi come lo erano nel passato, i lupi sono spariti dai boschi, sono state inventate medicine che curano le malattie una volta ingauribili, ci sono gli antidolorifici... È cresciuta invece la preoccupazione di perdere l'identità sociale, di subire umiliazioni e di vedere calpestata la propria dignità. Oggi, il modo con cui guadagniamo i mezzi per vivere, i valori della professionalità, la valutazione che la societa dà alle virtù e ai successi, i legami intimi e i diritti acquisiti, tutto questo è fragile, provvisorio e soggetto alla revoca. E nessuno sa quando e da dove arriverà il colpo fatale. Mentre i nostri antenati sapevano bene che occorreva avere paura di lupi affamati o dei banditi sui cigli delle strade. Non è quindi l'astrazione a rendere i pericoli in apparenza più gravi, ma la difficoltà di collocarli, e quindi di evitarli e di controbatterli".
Per essere concreti, perché abbiamo paura degli immigrati, degli zingari?
"Perché le minacce più spaventose sono oggi nascoste in una specie di terra di nessuno, globale. Sono terribili, perché impercettibili e quindi fuori dai nostri, miseri mezzi di difesa (per esempio, capitali erranti o concorrenti avidi in grado di privarci del nostro posto di lavoro e dei nostri introiti, i terroristi, la criminalità organizzata, le epidemie). Gli immigrati sono l'incarnazione delle paure non pronunciate. Sono l'unica avanguardia visibile con l'occhio nudo, e che possiamo toccare con mano. Sono, come diceva Bertolt Brecht, i messaggeri della cattiva notizia: annunciano quanto sia fragile la nostra esistenza. E siccome sono qui, accanto a noi, possiamo finalmente intraprendere qualcosa di 'concreto' per arginare il pericolo. Chiudendoli nei campi profughi o deportandoli, 'bruciamo le forze ostili in effigie'. Scarichiamo così la tensione, ma non risolviamo niente".
Un'altra paura, il terrorismo. Perché se ne parla tanto, anche se le vittime non sono numerosissime?
"È proprio su questo che poggia la strategia dei terroristi: sono sicuri che le loro gesta creeranno molto più effetto psicologico e morale, parlandone, che non risultati e danni concreti, provocati delle loro armi primitive e artigianali. I terroristi possono contare sulla collaborazione dei media, che riportano su scala globale le loro azioni locali; su potenti armate che in rappresaglia per queste azioni semineranno distruzione e odio, procurando ai terroristi schiere di nuove reclute; sui governi che vedono nelle azioni terroristiche (quelle riuscite e quelle fallite, o pianificate o solo pensate, o in sospetto di essere pensate), una chance per dimostrare di essere vigili ed efficaci e di ottenere l'applauso degli elettori".
In ' Paura liquida', lei dice che i media mettono in continuazione in guardia dai presunti o veri pericoli in arrivo. Finita l'emergenza, passano a parlare di altri, futuri pericoli. E scrivendo di Katrina e del caos a New Orleans dopo l'uragano, riflette su come la civiltà sia fragile e crolli di fronte alle catastrofi. Pensiamo che la messa in guardia può salvarci dall'apocalisse?
"Sarebbe bello poter pensare che la nostra civiltà proceda verso il regno di ragione e delle moralità, seppure con qualche incidente di percorso. Ma non è così, purtroppo. Alcuni osservatori coltissimi sostengono che le impertinenti ambizioni della modernità sono cominciate con lo choc causato dal terremoto a Lisbona (nel 1755, ne ha dedicato pagine memorabili Voltaire, ndr): una natura cieca, priva di ogni razionalità, indifferente alle distinzioni tra virtù e peccato tra merito e colpa, colpisce a casaccio. Occorre quindi arginare la forza degli elementi, costringere la natura ad adoperare le categorie del bene e del male. E con l'ausilio della ragione e della tecnica l'umanità darà un ordine morale a un caos amorale".
Ha appena fatto la sintesi del pensiero illuminista. Il risultato?
"I risultati sono diversi dalle intenzioni. Non siamo riusciti a convincere la natura a ubbidire all'immaginazione umana di pregi e difetti. Però le conseguenze delle nostre azioni, ineccepibili dal punto di vista tecnico, ci colpiscono con una crudeltà irrazionale, crudeltà che finora attribuivamo proprio e solo alla natura".
E dove il problema?
"Il problema sta nel fatto che, nonostante l'evidenza, non si sono mai spente le promesse di poter trasferire sulla tecnica e sui suoi prodotti il compito di risolvere le questioni umane e le ambizioni di trasformare il mondo (e i suoi abitanti), secondo gli imperativi della ragione tecnico-scientifica".
Da dove viene questa resistenza ad arrendersi all'evidenza?
"Lo ha chiarito, in parte Ulrich Beck (sociologo tedesco, ndr) parlando dei pericoli di oggi e del passato. A differenza di quelli antichi, i pericoli di oggi non sono percepibili con l'occhio nudo. Non sono visti finché non li portano alla nostra conoscenza gli esperti, che sono attrezzati per farlo. La nostra futura esistenza dipende quindi in gran parte dalla nostra attenzione nei loro confronti. La fiducia negli specialisti della tecnica e della scienza si amalgama così con l'istinto di sopravvivenza".
Un altro fattore di insicurezza. C'è sempre meno Stato. Diminuisce perfino il numero dei portalettere e dei ferrovieri. È l'estinzione dello Stato come lo voleva Lenin, ma in versione neo-liberale e non in quella sovietica?
"Una bella annotazione. Lo Stato, si priva di una sempre più grande dose della sua potenza autarchica, e quindi diventa incapace di assumersi l'insieme delle sue funzioni. Lo Stato, per dovere, ma con l'entusiasmo degno di una causa migliore, delega i propri compiti, anzi li dà 'in affitto' alle forze di mercato, che sono anonime, prive di un volto. Di conseguenza i compiti che sono vitali per il funzionamenti e il futuro della società sfuggono alla supervisione della politica e quindi a ogni controllo democratico. Il risultato: si affievolisce il senso di comunità e si frantuma la solidarietà sociale. Se non fosse per la paura degli immigrati e dei terroristi, l'idea stessa dello Stato come un bene comune e una comunità di cittadini sarebbe fallita".
Ogni giorno vediamo cose terribili, che accadono fuori, e in contemporanea nel nostro salotto sullo schermo tv (Iraq, Cecenia, Palestina, Israele). Ci tolgono ogni sensazione di sicurezza. Per timore che così sarà anche il nostro futuro? O c'è una speranza di liberazione dalla paura, come ai tempi di un'altra guerra aveva promesso Roosevelt?
"Non ho gli strumenti per dire che cosa sarà il futuro quando diventerà realtà quotidiana. Ma so che lo sforzo di resuscitare quelle potenzialità del passato che sono state annientate e abbandonate con troppa leggerezza e troppo presto, determineranno la forma con cui sarà disegnato l'avvenire; e tra queste potenzialità: la speranza di liberarci dalla paura. Ma la cura per il futuro sta anche nella speranza, ancora più generale e più importante, di un mondo libero dalle umiliazioni e più ospitale per la dignità umana".
La redazione di Carta ha deciso- forse per la prima volta - di assumere un atteggiamento comune, frutto della discussione tra di noi, sulla crisi di governo, i suoi esiti e le sue cause. Ci pare che quel che è accaduto dopo il voto sulla politica estera abbia un significato che va al di là degli aggiustamenti politici e parlamentari o nella composizione del governo. Accade cioè che la frattura tra sistema politico della rappresentanza (e dei partiti) e società reale si è ulteriormente allargata. Ovvero, quel che, nell'anno precedente e in quello successivo alle elezioni politiche, era stato messo tra parentesi dal desiderio del grande elettorato di centrosinistra di porre fine all'avventura berlusconiana, è oggi diventato molto più evidente.
Il fatto non è solo che le attese suscitate dalle primarie o dal programma dell'Unione, o dalla stessa partecipazione al governo della "sinistra radicale", sono state deluse. Si tratta, più in profondo, della sconnessione tra i movimenti sociali e cittadini che disegnano, con le loro lotte e le loro sperimentazioni, un altro genere di democrazia e di economia, e la cieca ostinazione con cui i politici dell'Unione rivendicano - nella quasi totalità - il loro potere di decidere nonché il dominio della "crescita" economica. I dodici punti che Prodi ha imposto ai partiti alleati come condizione per proseguire ne sono un riassunto molto efficace: accentramento della decisione addirittura in un uomo solo; "grandi opere" (la Tav, i rigassificatori, le "liberalizzazioni") come priorità assolute; rispetto cieco delle "alleanze internazionali" (la base di Vicenza, l'Afghanistan). Qualcuno di noi dice: è come se il governo, che aveva già azzerato la mediazione con le reti sociali, avesse eliminato il dialogo anche al proprio interno, costituendosi di fatto in consiglio d'amministrazione, in un organismo plasmato sul solo scopo di "fare ciò che va fatto".
Tutto questo non è frutto di "tradimento": è piuttosto l'effetto di quel che libri come quello di Paul Ginsborg (La democrazia che non c'è) o di Danilo Zolo (Da cittadini a sudditi: si veda l'intervista in pagina 21), solo per citare gli ultimi due sul tema, analizzano in modo difficilmente contestabile: è la crisi della democrazia rappresentativa a scala nazionale, i cui poteri si stanno dileguando a causa del predominio dei poteri del liberismo globale. Ciò che poi comporta applicazioni "locali". Perché la Tav in Val di Susa, i rigassificatori e le "liberalizzazioni" sono così importanti da comparire tra le dodici priorità del paese, mentre scompaiono il lavoro e i diritti civili? La risposta è che "grandi opere", energia (fossile) e privatizzazione dei servizi pubblici sono i "mercati" nei quali il grande capitale (italiano e non solo) sa di avere le maggiori opportunità di remunerazione. E questo, agli occhi dei governanti del centrosinistra, equivale a favorire la "crescita", a fermare il "declino" del paese. In sostanza, i politici sono gli agenti, i terminali - nelle istituzioni - di quei poteri economici.
Perciò la competizione politica, le "alternative" che i diversi schieramenti dovrebbero proporre, non sono in verità tali: ai cittadini, agli elettori, viene proposto solo il ruolo di "fan" di proposte politiche diventate - dice Zolo - campagne pubblicitarie.
Questo non significa che un governo Berlusconi o un governo Prodi siano la stessa cosa. Nel secondo caso, vi sono per i movimenti della società - come abbiamo potuto talvolta vedere in questi mesi, su vari temi - maggiori possibilità di influire, di ottenere compromessi. Con la destra al governo, lo abbiamo sperimentato tra il 2001 e il 2006, tutto sarebbe peggiore. La "sinistra radicale", ma anche altri settori o personalità dell'Unione, sono meno impermeabili, come la ribellione dei parlamentari veneti contro la base di Vicenza mostra. Ma quel che la crisi di governo dovrebbe suggerire, secondo noi, è che sempre più l'onere del cambiamento pesa sui movimenti sociali, sulla loro capacità di allargare consapevolezza e modi di azione ad intere comunità, come è accaduto in Val di Susa e a Vicenza e come con il tempo sta accadendo in molti altri luoghi. Dovrebbe quindi suggerire che al governo bisogna guardare con disincanto, non aspettandosi risposte definitive, né prendendolo come causa di tutti i mali.
Il punto di vista che cerchiamo di adottare, nel guardare alle vicende della politica, è quello dei valsusini e dei vicentini. I quali sono ovviamente furiosi con i loro "rappresentanti": in Val di Susa i tre partiti della "sinistra radicale" hanno ottenuto oltre il 40 per cento dei voti, alle politiche, perché promettevano un'opposizione ferma alla Tav: non li hanno avuti perché i cittadini fossero di colpo diventati "comunisti" o "verdi". Ma quelle comunità, così come non stanno difendendo il loro "cortile" bensì il grande cortile in cui tutti noi viviamo, raccontano a tutto il paese un altro possibile modo di vivere, ossia la possibilità di un'altra economia, di un'altra democrazia e di un'altra idea della pace. E il loro messaggio è arrivato già tanto lontano, da rendere l'azione del "consiglio d'amministrazione" molto difficile. Anche perché gran parte dei politici dell'Unione non vede, e se vede non capisce, quel che sta accadendo nella società. Perciò pensano che basti vincolare la "sinistra radicale" all'obbedienza ai comandi della "crescita" per poter procedere con basi, Tav, rigassificatori, ecc.
Si sbagliano, come i prossimi mesi dimostreranno.
Carta, n. 7, 24 febbraio 2007
La Res Publica di Vicenza
di Pierluigi Sullo
Questa non è una «lettera», per una volta, ma un suggerimento su come guardare al nostro paese dopo la manifestazione di Vicenza. Nel suo modo grezzo, Antonio Di Pietro riassume la sostanza del problema. Il ministro si è chiesto sulla Stampa: «Andare in pullman fino a Vicenza per contestare la Torino-Lione, cosa significa? Cosa c'entra l'allargamento della base Usa con la realizzazione di questa infrastruttura? Vorrei capire». Poi, siccome ognuno legge le cose per quel che è, si risponde: i valsusini sono agli ordini di «gente che cerca solo di costruirsi una carriera politica». La sostanza del problema è che i politici - con rarissime eccezioni - non capiscono cosa c'entrino i valsusini con i vicentini (e se fosse stato attento l'ex magistrato avrebbe visto nel corteo di Vicenza i veneziani contro il Mose, i calabresi e i siciliani contro il Ponte, ecc.). Di Pietro, come Prodi e Rutelli e Amato, come i media, non vedono, e se vedono non capiscono, quel che sta accadendo nel paese che starebbero governando o raccontando. Sono degli Ufo che invadono le nostre case con deliri televisivi in cui parlano di un mondo che esiste solo nelle loro credenze para-religiose, quelle per cui la «crescita» è un totem, le «alleanze internazionali» un tabù e la «politica» una zona rossa.
Questa gente è disposta a tutto per confermare se stessa. Può capitare che un ministro degli interni (Amato) e un vicepresidente del consiglio (Rutelli) si augurino - nella forma ipocrita del temerli – incidenti gravi a una manifestazione popolare. E che un ministro dell'economia, Padoa-Schioppa, dichiari tranquillo, poche ore dopo la fine di quella manifestazione, che la Tav si farà, subito dopo per altro che Prodi ha annunciato che il governo non si lascia influenzare dal suo elettorato (da chi, allora?). Lo stesso conflitto di Vicenza viene correntemente spiegato come una competizione tra «sinistra radicale» e «riformisti», in cui i cittadini sono ostaggi, battaglioni da spostare a comando.
Da almeno un anno prima delle elezioni politiche in molti - noi compresi - si sono dati da fare per deporre sui tavoli della politica quel che la società civile aveva capito, sperimentato ed elaborato su un mondo tanto cambiato da rendere lo «sviluppo» una sciagura (per il territorio, la nostra salute, il clima...) e la «democrazia» una finzione (grazie alla globalizzazione e ai suoi poteri sovranazionali). Il programma dell'Unione contiene perfino qualche traccia di questo tentativo. Ma già da subito il governo ha - con rarissime eccezioni - mostrato di non aver capito, o di rifiutare, i punti di vista della società civile. Per restare all'esempio della Tav, Di Pietro ha subito dichiarato che la Legge Obiettivo è «efficiente» e dunque va tenuta in vigore. Se avesse voluto capire, gli sarebbe bastato guardare alla manifestazione che si fece a Roma il 14 ottobre del 2006 - sostenuta nella sua modestia quasi solo da Carta - quando diecimila persone venute da tutto il paese dissero: non accettiamo più di essere violentati in nome dell'efficienza (falsa) nella costruzione di grandi opere (inutili, costose e vandaliche). Quella manifestazione fu l'annuncio di quel che sta accadendo ora con Vicenza, ma fu ignorata dai media e dai politici.
L’abisso che si è scavato tra «rappresentanti» e cittadini, tra governo e comunità locali, tra democrazia delegata e democrazia cittadina, è sempre più irrimediabile. Pure esistono, nel governo e nel parlamento, interlocutori, spiragli, possibilità di aprire conflitti. Ed esistono ovviamente la necessità e la possibilità di resistere, a Vicenza, in Val di Susa e in cento altri luoghi, essendo ormai chiaro che le intimidazioni, le violenze travestite da «ordine pubblico», il coro bugiardo dei media, i tentativi di divisione possono essere dispersi quando ad opporsi non sono «avanguardie», gruppi che a loro volta pretendono di agire in nome di altri, ma le comunità, i cittadini, le famiglie, le persone che amano i loro luoghi, ne hanno l'orgoglio e allo stesso tempo sono consapevoli di vivere in un mondo aperto, nel quale quel che succede qui viene da lontano e può produrre effetti a lunga distanza.
Forse bisogna concludere che tra la politica «di sopra» e quella «di sotto» non vi è solo un difetto di comunicazione, ma una differenza sostanziale. E che i prossimi anni saranno quelli della nascita di un nuovo genere di politica: comunità auto-governate si legheranno tra loro, scambieranno esperienze e solidarietà in Italia e non solo, getteranno le fondamenta di una Res Publica dei beni comuni a un tempo municipale e planetaria, guarderanno alla politica «nazionale» con un disincanto crescente, la useranno se sarà utile farlo, vi si opporranno quando sarà nociva, la ignoreranno per tutto il resto. Il germe di questa nuova democrazia ha camminato nelle strade di Vicenza, ha riconquistato Venaus nel dicembre del 2005, sta facendo le sue prove in molti altri luoghi.
Perciò, pur non essendo vicentini, ci siamo sentiti a casa, sabato 17 febbraio.
Aspettando la rivoluzione, di Antonio Ghirelli è un libro di straordinaria utilità (dico utilità) in questa brutta e lutulenta stagione nella quale gli ideali si riducono a interessi o si esasperano nella disperazione autolesionista. Antonio Ghirelli, che è duttile e tenace compagno, un socialista di qualità in poco meno di duecentocinquanta pagine ci racconta - senza distacco «scientifico», ma con partecipazione umana - cento anni di storia della sinistra italiana.
A cominciare dagli anarchici, da quello straordinario e tragico personaggio che fu Carlo Cafiero, dalla banda del Matese, e poi ancora ad Andrea Costa, a Filippo Turati (forse il più intelligente protagonista del socialismo italiano), fino a Pietro Nenni e ai sui incontri con Benito Mussolini.
Il leit motiv è l'attesa della rivoluzione, sempre aspettata e sempre rinviata. Il che potrebbe costituire la vera sostanza della rivoluzione («il movimento è tutto» aveva detto qualcuno), ma nel libro c'è l'amarezza dell'attesa sempre prolungata e anche il rovello del perché. Perché la rivoluzione, più precisamente la trasformazione della società, la conquista dell'eguaglianza e della libertà non è stata possibile. Perché i capitalisti continuano a comandare, perché il capitalismo impone i suoi meccanismi anche in Cina, dove ci sarebbe un potere comunista e dove una rivoluzione indubbiamente c'è stata?
Franco Rodano scriveva che il capitalismo era il nuovo Proteo, capace di cambiare continuamente di forma tanto da essere inafferrabile. Rodano, con intelligenza, era un po' fatalista e ci diceva che se continuiamo ancora ad aspettare la rivoluzione non è tanto colpa nostra, quanto piuttosto merito del Proteo-Capitalismo. Antonio Ghirelli, forse meno fatalista e più fiducioso, sta attento agli errori e ai limiti di tutti quelli, che, come noi, aspettavamo e aspettano ancora la rivoluzione.
Piero Craveri nella sua recensione, sul Sole 24 Ore di domenica 11 febbraio, individua la causa della vana attesa «nell'irriducibile contrasto interno alla sinistra tra la sua componente riformista e quella più radicale». Certo, nella narrazione di Ghirelli, che è piena di riferimenti storici approfonditi, questo contrasto è messo in evidenza molto bene, ma resta - a mio parere - un interrogativo. Perché in Italia ci sono state più riforme nella situazione descritta da Craveri, che non nei tempi di trionfante riformismo?
Certo, aspettavamo la rivoluzione, ma nel frattempo quante riforme ha prodotto la pressione del Pci, che poi, quasi sempre, votava no? Giorgio Amendola, per il quale io ero un ragazzo di bottega, cercò (con successo) di spiegarmelo. Il Pci votò contro la Cassa del Mezzogiorno, ma senza le lotte del Pci la Cassa del Mezzogiorno non ci sarebbe stata. E così l'Iri e addirittura il ministero per la programmazione con Antonio Giolitti, e i patti agrari e l'equo canone e il Piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio e poi ancora lo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni, che, certo, fu gambizzato dai «rivoluzionari».
Tutto questo per dire che, certo, il contrasto tra riformisti e rivoluzionari non è buono, ma ancora peggio stanno le cose quando si scende al riformismo debole, oppure - anche con qualche buona intenzione - (penso al ministro Bersani) al riformismo liberale, quello che dice di volere liberare il mercato dai vincoli corporativi.
Il punto è che oggi non c'è più contrasto tra riformisti e rivoluzionari, c'è la morta gora e c'è (Antonio Ghirelli consentirà) un tale impoverimento e corporativizzazione della politica che i contrasti del passato tra riformisti e rivoluzionari ci sembrano un motore da Ferrari.
Il libro di Ghirelli è - lo ripeto - ottimo e di grande utilità per chi lo legga, ma non condivido affatto l'ultima frase: «La ragione profonda della crisi sta, tuttavia, nell'incertezza in cui si dibatte la sinistra tra il richiamo alla vecchia cultura del movimento, compresi naturalmente i rancori e i risentimenti del passato, e l'esigenza di misurarsi con la nuova società e il suo incontenibile dinamismo».
Dove Ghirelli vede questo dinamismo non lo so, ma lui che è un vecchio e serio compagno, proprio nei giorni scorsi sul Riformista ha scritto un articolo dal titolo «Saremo il primo paese senza socialisti?». Appunto. È l'incontenibile dinamismo.
I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provinc
L’internazionalizzazione dei mercati ci sta accanto come uno spettro cui non sappiamo ancora dare un nome perché il suo volto è ambiguo e le menti non sono esercitate a pensare in grande: la globalizzazione promette ai poveri l’uscita dalla miseria, e ai ricchi promette ottimi affari di alcuni industriali ma un impoverimento generale delle società. Le cose si fanno più chiare quando si guarda al nostro pianeta malato, alla possibile bancarotta dell’abitare umano sulla terra: 2 gradi di riscaldamento in più sono rovinosi, il livello del mare che si alza pure. Se continua lo scioglimento dei ghiacciai antartici e della Groenlandia scompaiono Londra, New York, Miami, Olanda, Bangladesh, Venezia. Qui veramente siamo di fronte a un tutto che rende vana ogni illusione di poter vivere da soli, difendendo il proprio particolare. Qui i più svariati eventi nazionali e mondiali s’intrecciano come mai in passato, e obsoleta è ogni distinzione tra vicino e lontano.
La Conferenza che si è conclusa a Bali è un piccolo passo avanti, anche se parziale. Prevale la resistenza di dirigenti intrisi d’inerzia, contrari a obiettivi cifrati di riduzione del gas serra, ed è straordinario come gli Stati Uniti, icona del moderno, appaiano la più inerte, retrograda delle potenze. A Bali hanno però suscitato ira, e alle spalle di Bush c’è un’America che vuole agire sul clima (500 sindaci e la metà degli Stati): l’amministrazione può sprezzarla, non ignorarla.
L’Europa non ha strappato obiettivi cifrati ma è percepita come avanguardia e può sperare che la conferenza di Copenaghen nel 2009 riconosca i fallimenti di Kyoto e fissi più severi traguardi. Ha anche ottenuto che i Paesi poveri e in sviluppo partecipino allo sforzo, ma che i ricchi contribuiscano di più e aiutino, avendo ridotto il pianeta a quello che è.
Una cosa comunque è chiara: c’è un legame tra l’evento di Bali e quel che viviamo ogni giorno; non sono sconnessi i negoziati sul clima, la collera dei camionisti per l’aumento del gasolio, gli aumenti di pasta, latte, grano, carne. Siamo assuefatti all’energia a buon prezzo che emette anidride carbonica, e toccherà disintossicarsi. Abbiamo alle spalle un trentennio di cibo poco caro (1974-2005), e anch’esso appartiene al passato, come ha scritto l’Economist. «La festa è finita!», afferma l’accademico Richard Heinberg in un libro omonimo (ed. Fazi, 2004). Secondo alcuni il punto critico, di non ritorno, è imminente e forse già passato. È tempo di cessare le dispute e di agire. È tempo di cambiare parole cui eravamo avvezzi, dottrine che sembravano sicure, abitudini.
Una delle prime conseguenze è il ritorno della politica, dopo anni di perentoria certezza liberista. I governi sono diventati comitati d’affari di lobby industriali, sulla scia di quest’ideologica certezza: ma sono industrie che dovranno trasformarsi, e sono sindacati che non hanno minimamente pensato il clima mutato. Anche la festa liberista è finita, perché le virtù d’un mercato senza regole né interferenze si son rivelate illusorie. Lasciato a se stesso, esso ha generato catastrofi. «Siamo davanti al più grande fallimento del mercato che il mondo abbia mai visto», ha detto in una conferenza a Manchester del 29 novembre l’economista Nicholas Stern, che nel 2006 aveva presentato a Blair un rapporto sul clima. E si è spiegato così: «Coloro che danneggiano gli altri emettendo gas serra generalmente non pagano». Nessuna mano invisibile ha permesso che le condotte irresponsabili, sommandosi, producessero vantaggi. Per questo c’è di nuovo bisogno di Stato, di forza della politica. Solo la politica può frenare il precipizio, perché frenarlo vuol dire pagare prezzi ben salati, tassare la gente in nome del pianeta, spendere meno, consumare diversamente, tener conto del mondo e non solo di se stessi. D’un tratto, alla luce del naufragio terrestre, la politica liberista sembra vecchissima, pre-moderna. È prigioniera di lobby che hanno tuttora un potere soverchiante ma destinato all’anacronismo: lobby petrolifere e di vario tipo. È significativo che Obama, candidato democratico alla presidenza Usa, riscuota sempre più successo con un discorso tutto incentrato sull’autonomia del politico da lobby e sondaggi.
Smarriti davanti a quel che accade, ci mancano le parole e quelle che usiamo sono false e diseducative. Dovranno sparire parole come manovra, perché dire manovra anziché risanamento rimanda a loschi affari di corridoio, che screditano il governante. Sparirà la certezza di poter ridurre le tasse facilmente. Sparirà anche la retorica sulla libertà (del popolo, dell’individuo) contrapposta allo Stato: i margini di libertà si restringono, non è vero che possiamo produrre, consumare come vogliamo. Sparirà, si spera, lo sguardo solo nazionale sulla politica: la fine del cibo a buon mercato è mondiale. I produttori ci guadagneranno, e non bisogna dimenticare che tre quarti dei poveri sulla terra abitano zone rurali; che il nefasto divario cinese tra campagne e città sarà mitigato. I prezzi alti sono per i poveri una dannazione quando consumano, una manna se producono. Anche la fine del petrolio a buon mercato aiuta a cercare fonti alternative. In fondo lo Stato dovrà organizzare un impoverimento costruttivo, mirato. Solo lo Stato può accingersi a sì ciclopica impresa.
Il ritorno della politica è colmo di pericoli autoritari e pur essendo ineluttabile non avverrà senza traumi. Perché sarà difficilissimo per tutti: per gli stati, i sindacati, gli industriali e per ogni cittadino, soprattutto nei Paesi ricchi. È un processo che comporta importanti metamorfosi del modo di pensare la politica.
La prima metamorfosi riguarda il rapporto tra politica, mezzi di comunicazione e scienza: rapporto torbido, distorto. La politica sa che esiste ormai una verità scientifica sul destino terrestre, ma per inerzia continua a disputare come se il clima fosse una discriminante fra destra e sinistra: è una cecità condivisa dalla stampa. Nelle riviste scientifiche esiste oggi un consenso pressoché totale sul clima. Non nei giornali generici, dove contano più le lobby e i politici reticenti che gli scienziati. I politici temono di apparire impotenti, impopolari: per questo si concentrano su fatti contingenti (i camionisti, in Italia) pur di non spiegare come il rincaro degli alimentari sia ormai strutturale e duraturo. Perché non dire il vero? Il cibo costa ovunque di più, per precisi motivi. I raccolti in alcune regioni del mondo sono più vulnerabili al clima (Australia, Africa, Brasile, Kazakistan). C’è poi negli Stati Uniti la spregiudicata corsa all’etanolo, unita al solipsistico sogno d’indipendenza energetica. L’etanolo ha ingigantito i prezzi del mais con cui è prodotto, e spinge al rialzo tutti i cereali. La corsa è spregiudicata perché l’America è intervenuta con sovvenzioni pubbliche per coltivare più mais (7 miliardi di dollari l’anno), e questo ha decurtato le scorte cerealicole mondiali, scoraggiato il più pulito etanolo brasiliano (estratto da zucchero), esteso la deforestazione.
Nel rapporto con la scienza i politici si comportano come il cardinale Bellarmino con Galileo: non vogliono vedere il reale, invitano gli scienziati a parlare ex suppositione, «per ipotesi», purché sia salva la Sacra Scrittura. Per il politico sono sacri i sondaggi, ma il rifiuto di guardare nel cannocchiale di Galileo è lo stesso. Non stupisce la doppia dipendenza di Bush dalle lobby e dai fondamentalisti cristiani.
La seconda metamorfosi, legata alla prima, riguarda i costi di riparazione del pianeta. Anche qui, il politico dovrebbe sapere che essi infinitamente minori rispetto ai benefici futuri. Secondo Stern, urge tagliare l’1 per cento del prodotto lordo nel mondo, ogni anno, per decenni, se si vuol evitare che i costi dell’inazione si quintuplichino. Ma quell’1 per cento resta pur sempre gravoso: 600 miliardi di dollari. Significa più tasse, e posti di lavoro perduti. Le misure dovranno esser «radicali, urgenti e costosissime», scrive John Lanchester sul London Review of Books del 22 marzo scorso. Tutte le invettive contro tasse e stato converrà rimeditarle, davanti all’enormità dei prezzi da pagare per riparare il clima.
La terza metamorfosi riguarda ciascuno di noi: produttori o consumatori. Anche il nostro rapporto con la scienza è religioso: ci crediamo ma senza conoscere, dunque crediamo male. Immaginiamo di poter fare a meno della politica, dello Stato, convinti magari che i forti vinceranno. Non è così. I forti di oggi domani s’indeboliranno. Alcune nostre abitudini diverranno talmente costose, a causa del carbonio emesso, che un giorno saranno proibitive. Avremo case meno scaldate, pagheremo alte imposte, saremo un po’ più poveri. Prima o poi smetteremo la costruzione frenetica di aeroporti, visto che gli aerei emettono quantità gigantesche di anidride carbonica. Verrà il giorno in cui si rinuncerà ai Suv, queste auto assassine del clima. La situazione non cambia se dalla benzina si passa all’etanolo e si garantisce un’«energia più efficiente»: secondo la Banca Mondiale, il mais che serve per un Suv può nutrire una persona per un anno.
I prezzi alimentari sono la cosa che capiamo di meno, perché è colpito il nostro quotidiano, e per questo è essenziale che la pedagogia occupi il centro della politica e estrometta il voler compiacere sempre. Se i prezzi aumentano è perché il mondo, meno iniquo, ha cominciato a divenire più ricco. Un’ingente parte dell’umanità - Cina, India - mangia carne oltre a cereali. Lamentarsene è insensato oltre che scandaloso moralmente. C’è bisogno di molto più grano per alimentare gli animali che per fabbricare pane: ci vogliono tre chili di cereali per un chilo di carne di maiale, 8 per un chilo di carne di bue. Questo è tutto.
La tentazione è grande di parlare di apocalisse. Ma nell’apocalisse sono due le vie. Una è quella del tutto è permesso: festeggiamo, visto che non avremo discendenti. L’altra prepara il futuro, trattiene il disastro con l’azione. Nel secondo capitolo della Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi, si parla del katèchon che trattiene la venuta del Male con mezzi terreni, in attesa di interventi divini. Il katèchon per gli stoici è qualcosa di più semplice: è fare il proprio dovere, rispettando l’altro e la natura anche se la terra viaggia verso la conflagrazione.
Nel terzo anno in cui si celebra la "giornata del ricordo" delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano – nella data del Trattato di Pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, sessant’anni fa - è forse possibile comprendere ciò che l’iniziativa ha stimolato e ciò che ha lasciato ancora in ombra. Indubbiamente ha contribuito al superamento di una prolungata rimozione, ha permesso il riemergere della memoria dolente e ferita di una lacerazione significativa: eppure qualcosa sembra ancora sfuggire, la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente.
Certo, è cresciuta la consapevolezza che il dramma del secondo dopoguerra è parte di una storia più lunga, e su questo si sofferma ora in modo puntuale un saggio di Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale (Il Mulino, pagg. 392, euro 27). Da tempo gli studi della Cattaruzza hanno richiamato l’attenzione su questo nodo, e hanno contribuito al tempo stesso a inscrivere il tragico epilogo della vicenda istriana in una vicenda più ampia, anch’essa largamente rimossa. Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo era il titolo di un volume da lei curato qualche anno fa assieme a Marco Dogo e Raoul Pupo che collocava l’esodo giuliano all’interno dell’Europa del 1945: con particolare riferimento alle feroci espulsioni di milioni di tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, e alle ancor più feroci espulsioni reciproche di polacchi ed ucraini da aree che li avevano visti convivere per secoli.
L’Italia e il confine orientale è interamente dedicato alle vicende specifiche e di lungo periodo di quest’area: l’acutizzarsi delle tensioni fra nazionalità già all’interno dell’impero asburgico; la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale e l’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e poi la politica del regime; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941 e poi l’operare – dopo l’8 settembre del 1943 - della "Zona di operazioni Litorale Adriatico", alle dirette dipendenze della Germania. In questo quadro incandescente – in cui gli odii fra nazionalità erano già portati all’estremo - si inserì la politica di Tito, volta esplicitamente ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia. Di qui i traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.
Una storia di lungo periodo, dunque, tratteggiata efficacemente molti anni fa in uno dei tanti, densi romanzi dello scrittore istriano Fulvio Tomizza, La miglior vita. Su questa stessa storia rifletteva già nel 1947 Ernesto Sestan, il grande storico di origine istriana, che dedicava «alle ceneri dei miei vecchi, là nel cimitero di Albona» un libro di straordinaria e dolente finezza intellettuale, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale. Il dolore non faceva velo alla lucidità critica dello storico, capace di tratteggiare magistralmente l’inasprirsi dei nazionalismi ottocenteschi, e poi le responsabilità del fascismo. «Un fascista giuliano che sarà poi ministro di Mussolini», annotava Sestan, «ha riassunto così "il programma di snazionalizzazione: "Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (…). Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie"». I più, nella popolazione italiana, "applaudirono o assentirono tacendo".
In questo quadro irrompe la guerra, e nel 1941 vi è l’occupazione della Jugoslavia da parte della Germania, dell’Italia e dell’Ungheria: quell’aggressione congiunta, osserva Marina Cattaruzza, «implicava per il popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione», provocava «un senso di giustificata angoscia» per la possibilità stessa di sopravvivere come entità collettiva.
Abbiamo da tempo documentati studi sulla crescente ferocia dell’occupazione fascista della Slovenia, così come sul trauma dell’8 settembre e poi sul controllo nazista del territorio. Per una breve fase in Istria, in quel settembre, sono i partigiani jugoslavi a tenere il campo, e si ha allora la prima esplosione di violenze anti-italiane. Si svolge in quei giorni anche il dramma di Norma Cossetto, uccisa barbaramente a ventitré anni: un libro di Frediano Sessi, Foibe rosse (Marsilio, pagg. 149, euro 12) lo ricostruisce con sensibilità e partecipazione. Ai molti studi sulla tormentata e complessa fase che porta al dopoguerra si aggiunge ora uno sguardo non riducibile a schemi e a odii, una "anomalia" di grande umanità: Borovnica ‘45, al confine orientale d’Italia. Memorie di un ufficiale italiano, di Gianni Barral (a cura di Renzo Timay e con penetranti Note di inquadramento storico di Raoul Pupo). Il testo è pubblicato dalle Edizioni Paoline (pagg. 303, euro 16), ma era già comparso nella rivista Zaliv (Il golfo), fondata e animata dallo scrittore sloveno di Trieste Boris Pahor.
È davvero una testimonianza particolare. Agli inizi del 1943 Barral è un giovane studente di origine provenzale, ufficiale degli alpini, inviato a presidiare la Valle dell’Isonzo: scopre qui il mondo sloveno, nella cui cultura e nella cui lingua si immerge con passione. Conosce, anche, la ragazza che poi sposerà. Il suo sguardo ci avvicina a un caleidoscopio di culture e di vicende, ci fa scoprire inaspettati momenti di solidarietà umana e di pietas anche all’interno delle diverse fasi di una guerra feroce, e di un feroce dopoguerra: nel maggio del 1945, dopo un complesso percorso, Barral è deportato appunto nel campo di concentramento di Borovnica, un inferno. Per la sua conoscenza dello sloveno è utilizzato nell’amministrazione del campo, e ce ne riferisce. Il maggio del 1945 è anche il mese che segna il culmine delle violenze anti-italiane a Trieste, Gorizia e nelle zone controllate allora dai partigiani jugoslavi, con migliaia di persone gettate nelle foibe o uccise nelle prigioni e nel corso di disumani trasferimenti (muoiono in questo modo anche sloveni e croati ostili al nuovo regime).
Inizia allora la fase che porta alla Conferenza di Parigi, cui Alcide De Gasperi si presenta con amara e lucida consapevolezza: «Prendendo la parola a questo congresso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me» (è il tema de L’Italia e il trattato di pace del 1947 di Sara Lorenzini, pubblicato ora da Il Mulino, pagg. 218, euro 12). Prende avvio in quei mesi il grande esodo: «I fuggiaschi di Pola e dell’Istria», scriveva Giani Stuparich, «sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie». Si alternano allora speranza e disperazione, alimentate sino al "Memorandum di intesa" del 1954 dalle discussioni fra le potenze sulla definizione dei confini: e l’esodo non conosce più freni quando quei confini appaiono ormai tracciati.
È la vicenda che ci è stata raccontata con grande intensità da Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, o dall’Enzo Bettiza di Esilio, e da una miriade di altre voci. A lungo inascoltate, o quasi, ci hanno riproposto straniamenti e sofferenze, non solo materiali. Hanno disegnato l’immagine di un’Italia che «all’inizio è stata una matrigna», per citare una delle testimonianze proposte da Enrico Miletto in Istria allo specchio (Franco Angeli, pagg. 288, euro 16). Utilizzando con intelligenza e attenzione un’ampia mole di fonti orali Miletto ricostruisce le molteplici vie che disperdono istriani e dalmati nell’umiliante esperienza dei campi profughi e altrove, in un’Italia che mostra spesso estraneità, incapacità di accogliere. Continuando un lavoro precedente (Con il mare negli occhi, pubblicato sempre da Angeli) Miletto pone quella Italia, in realtà, di fronte a uno specchio impietoso.
Una storia lunga, dunque, un intrecciarsi di dolori e lacerazioni che possiamo comprendere appieno solo ponendo a confronto punti di vista differenti, facendo dialogare le diverse e opposte memorie che in questa storia si sono sedimentate, al di qua e al di là di confini che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Questo in larga misura ancora ci manca, e a colmare questa lacuna occorre lavorare. Possono acquistare ulteriore, positivo significato in questo quadro quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia che sono ancora allo studio, e di cui si è parlato anche di recente. All’interno della costruzione di un’Europa più ampia atti pubblici di questo tipo sono stati compiuti da tempo in paesi segnati da lacerazioni del passato ancor più profonde. E naturalmente atti simbolici diventano realmente fecondi se li accompagnano processi culturali capaci di coinvolgere in profondità la società, la scuola, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo ancora lontani da questo. Siamo lontani da un confronto diffuso di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime, e che permetta a ogni comunità nazionale di riconoscere anche le proprie responsabilità. Alcuni anni fa una commissione storico-culturale italo-slovena ha segnato comunque un avvio importante, mentre nei rapporti con la Croazia le rigidità e le difficoltà sembrano maggiori anche su questo terreno. È solo piccola parte, naturalmente, del più ampio confronto culturale che riguarda un’Europa segnata sotterraneamente più di quanto si creda da traumi lontani: lo hanno segnalato l’estate scorsa le accese polemiche suscitate in Germania, in Polonia e altrove da una mostra berlinese sulle espulsioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale del 1945. Misurarsi con ferite talora nascoste, rimuovere sordità, far dialogare memorie ancora tenacemente divise appare oggi aspetto non secondario e non superfluo di un impegno culturale.
Sulle foibe, altre letture consigliate anche al Quirinale: Corrado Staiano, Claudia Cernigoi e Galliano Fogar.
Poltiglia di massa, indifferente al futuro e ripiegata su se stessa. Mucillagine inerte e inconcludente. Coriandoli individualisti che galleggiano solo per appagato imborghesimento. Aspirazioni senza scopo e senza mordente che separano e non uniscono. E su tutto, istituzioni incapaci di riattivare processi di coesione sociale. Sono citazioni testuali dal Rapporto Censis 2007, che stavolta non risparmia né i sostantivi né gli aggettivi per descrivere lo stato di vulneralbilità della società italiana. E non risparmia neppure l'autocritica. De Rita ci aveva provato, negli anni passati, a battere sul tasto dell'ottimismo: mentre altri piangevano sul declino, lui puntava sul «silenzioso boom». Che c'è stato e continua, grazie anche alle astute strategie di consumo post-Euro degli italiani e malgrado sia sabotato dai salari scandalosamente bassi e dal debito pubblico. Però, e questo è il punto, il silenzioso boom non fa sviluppo, non fa legame, non fa progetto, non fa speranza. A differenza che sotto il boom fragoroso degli anni Cinquanta, la società italiana non vola e non decolla: «antropologia senza storia», è intrappolata nell'inerzia di un presente depresso e senza futuro che progressivamente uccide la sua - per il Censis proverbiale - vitalità.
L'economia non è tutto, e questo ogni buon sociologo lo sa. Ma stavolta anche il sociologo vacilla: «Il benessere piccoloborghese degli ultimi decenni ha creato un monstrum alchemicum che ci rende impotenti, come di fronte a una generale entropia». La sensazione diffusa di una deriva verso il peggio in tutti i campi della vita individuale e collettiva, dalla politica allo smaltimento dei rifiuti, non si spiega solo con gli indicatori sociali. Il sociologo fa ricorso alla psicologia: le pulsioni frammentate che vincono sulle passioni unificanti, il «masochismo ansiogeno» che trapela dall'ansia di comparire in tv. Ma anche questo non spiega tutto. La crisi, De Rita deve dirlo a chiare lettere citando Melanie Klein, è di ordine simbolico: sta nella regressione individualistica di tutti i valori di riferimento - laici e religiosi, dalla libertà al lavoro all'etica pubblica - un tempo interpretati collettivamente. E si sa, citiamo invece Julia Kristeva, che quando crolla l'ordine simbolico sale il sole nero della malinconia.
Come sconfiggere questa malinconia? Non, dice il Censis, con i giudizi morali, o moralistici. Non con l'invocazione dell'uomo forte. Non con i riti fondamentalisti che resuscitano i simulacri di identità sepolte. Ma nemmeno resuscitando il simulacro di una politica sfinita. Qui il Rapporto si fa spietato: «l'offerta culturale e politica che oggi tiene banco è un'offerta taroccata dalla logica vuota degli schieramenti». Se c'è un antidoto alla malinconia, sta nelle «minoranze attive» che crescono, al riparo del sole nero, nel sottosuolo: lì c'è ancora vita e senso. Lì, può ancora esserci politica. Diventare minoranza, come diceva un filosofo, è l'unico progetto, se la maggioranza è diventata poltiglia.
E' l'antipolitica che parla per bocca di un sociologo impolitico? O è solo uno sguardo non professionalmente politico che può cogliere come la politica professionale muore, e dove c'è ancora politica sorgiva? Stona, di fronte a una diagnosi tanto allarmante sullo spirito del tempo, il silenzio o la pochezza dei commenti dei politici deputati. Quelli che oggi si riuniscono alla Fiera di Roma, tentando di ridare senso alla parola «sinistra», speriamo meditino questa diagnosi. Qualcosa s'è rotto nel profondo della società italiana. L'entropia non domanda aggiunte ma tagli. Il sole dell'avvenire non basta a sconfiggere il sole nero. I simboli contrattati a tavolino non stuccano le crepe dell'ordine simbolico. Il passaggio è stretto, ma è solo nei passaggi stretti che qualcosa può venire al mondo.
Lo sappiamo. "Ne uccide più la lingua che la spada", "le parole sono pietre", "i cattivi maestri"... Ma il passaggio dalla saggezza popolare, dall´indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è complicato, e può risultare distorcente.
Hanno ragione gli storici con il loro Manifesto di critica alla proposta del ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un problema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia della galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una tensione morale.
Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero certamente, dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all’articolo 21 della nostra Costituzione, all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma siamo di fronte anche a interrogativi che riguardano il ruolo della politica, la distribuzione di poteri e responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche sociali, l’uso corretto dello strumento giuridico. E tutto questo deve essere anche valutato tenendo conto che nel mondo tira una brutta aria di censura, che si coglie subito considerando le molte manifestazioni di fastidio verso Internet, che si ritiene veicolo di contenuti inaccettabili. Se Popper aveva chiamato la televisione "cattiva maestra", molti sono inclini a ritenere che la Rete come maestra sia pessima. Sottolineo questo punto perché l’introduzione di un reato (o di una aggravante) di negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre opinioni ritenute socialmente non accettabili.
Le critiche degli storici non sono soltanto sacrosante nel segnalare i rischi per tutti di una "verità di Stato", che può tirarsi dietro un’etica di Stato e altro ancora. Sono rafforzate da molti altri elementi, a cominciare da quelli tratti dall’esperienza dei paesi che già hanno introdotto il reato di negazionismo e che, malgrado ciò, continuano a conoscere manifestazioni gravi di antisemitismo e presenze politiche di gruppi variamente espressivi di spiriti nazisti. L’Austria ha condannato David Irving, ma non era riuscita a evitare Haider.
Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi.
Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno radici culturali e sociali profonde, che non possono essere recise con un gesto formale. L’approvazione di una norma, anzi, può trasformarsi in un alibi o in un diversivo.
Vi è un problema grave, gravissimo come il negazionismo? Ma io ho le carte in regola e la coscienza pulita: ho usato lo strumento giuridico più potente, la definizione di quel comportamento come reato. E quindi avverto meno, faccio diventare secondaria quella che, invece, è la vera strategia di contrasto: l’informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. Voto in Parlamento una legge e mi salvo l’anima. E poi, se qualche gruppetto intriso proprio di quelle convinzioni mi serve per vincere le elezioni, non esito a farlo entrare nella mia coalizione. La vera lotta al negazionismo passa attraverso la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze e alla tentazione di non condannare alcune manifestazioni perché "minori", attraverso l’intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d’ogni suo argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.
Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia del fascismo a impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie a una azione politica e culturale che ha avuto nell’antifascismo un riferimento forte, che ne ha fatto un valore simbolico e un criterio di valutazione dei comportamenti, isolando soggetti politici ed impedendo anche che i contatti, più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero legittimazione pubblica. So bene di dire cose che non sono in sintonia con lo spirito dei tempi. Ma le cose sono andate proprio così. E forse anche gli eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi tenacemente li volle fuori dall’arco costituzionale e, così facendo, impedì loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad approdare in qualche modo ai lidi della democrazia.
La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e moralmente condannabili. L’alt agli estremismi non passa attraverso leggi speciali. Lo ha visto bene il rabbino Elio Toaff, con la memoria di chi ha conosciuto i guasti prodotti da questo uso delle norme.
Il Governo e il Parlamento non possono ritenere che il problema si risolva dislocandolo in un’altra area istituzionale, facendolo divenire un affare dei giudici. Vi è una sapiente, e non nuova, schizofrenia istituzionale in tutto questo. Si scaricano sui giudici conflitti sociali e culturali, e poi ci si lamenta che i giudici hanno troppo potere, che "fanno politica". E che altro dovrebbero fare, quando la politica non fa la sua parte?
Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del negazionismo, né paura della libertà. L’impegno nella ricerca, l’interminata fatica della critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai suoi concittadini americani: «I mali della democrazia si curano con più democrazia».
Sociologi, statistici e governanti sono tutti d’accordo: il Prodotto interno lordo non è più in grado di rappresentare il benessere delle nazioni. Il problema è con che cosa sostituirlo. Molti ci riflettono da tempo; adesso un convegno organizzato dalla Ue a Bruxelles sembra preparare una svolta anche istituzionale
Il tema della felicità non è nuovo nella storia del pensiero economico. Economisti classici come Stuart Mill hanno spiegato come la felicità non consista nell’abbondanza delle cose, ma nella loro qualità. In Italia Antonio Genovesi e Pietro Verri definirono alla fine del Settecento l’economia politica come «la scienza della pubblica felicità».
Di recente il tema è stato riproposto partendo da un dibattito promosso da Richard Easterlin sul «paradosso della felicità», e cioè sulla scarsa correlazione tra reddito e felicità, sia nello spazio (all’interno di ogni Paese o tra Paesi) sia nel tempo. Contributi particolarmente seri sono stati offerti da sociologi ed economisti come Daniel Kahneman e Richard Layard, e in Italia da Stefano Zamagni, Luigino Bruni e da altri economisti della Università della Bicocca di Milano.
A che cosa si deve questa riapparizione in una disciplina tuttora dominata dall’economicismo ultra? Questo paradosso è spiegato in più modi. Con l’aumento delle aspirazioni, che annulla l’aumento del piacere (dell’utilità, avrebbe detto Bentham). Con l’effetto dell’invidia e della rivalità, che fa dipendere la felicità propria da quella degli altri, in un continuo inseguimento.
Mentre questi fattori impediscono che all’aumento del reddito si accompagni un proporzionale aumento della felicità, non si dà spazio sufficiente al "consumo" di beni relazionali e cioè a quelli che ci arricchiscono gratuitamente. Come nello scambio delle idee: se ci scambiamo un dollaro, ciascuno resta con un dollaro; se ci scambiamo un’idea, ciascuno resta con due idee.
Dobbiamo però chiederci anzitutto perché quel tema è per tanto tempo impallidito. Ai suoi primordi la scienza economica si occupava di società che col nostro metro giudicheremmo povere e ristagnanti, nelle quali i problemi della allocazione e della distribuzione ottimale delle risorse prevalevano su quelli dello sviluppo. Con la rivoluzione industriale l’economia dell’Occidente è stata investita da un’onda di crescita, tranne alcune pause critiche, praticamente continua. Nelle società coinvolte dalla crescita quantitativa dei beni prodotti sul mercato, dopo secoli, anzi millenni di ristagno era comprensibile che il concetto di benessere fosse associato con la quantità di beni disponibili.
Dopo due secoli di crescita quantitativa, però, è emersa una specie di nausea della crescita. Dappertutto, i sondaggi sul grado di felicità delle persone rivelano che la felicità non cresce più con l’aumento della produzione. A partire grosso modo dagli anni Settanta del secolo scorso le due curve, quella della quantità di beni disponibili, misurata dal Pil (Prodotto interno lordo) e quella della felicità, misurata da indagini condotte sull’umore dei singoli individui, si sono separate. La prima ha continuato a crescere, la seconda è diventata piatta. La ragione sta nella differenziazione dei bisogni, dei costi e dei gusti tipica di una società complessa, la quale non può essere riflessa in un indice rozzamente quantitativo che ci dice soltanto quanti beni sono stati prodotti e consumati nel mercato.
Detto nei termini più semplici possibile, l’ormai famigerato Pil comporta tre ordini di gravi difetti. Primo: somma solo i beni prodotti nel mercato, quindi esclude quelli forniti nelle relazioni gratuite tra le persone, nelle famiglie o nelle comunità, mentre conteggia come beni i mali che sono prodotti e consumati nel mercato (droga, guadagni criminali, sfruttamento della prostituzione, consumo irreversibile dell’ambiente, inquinamento, effetto serra eccetera). Secondo: non dà alcuna importanza al modo, più o meno equo, col quale i beni sono distribuiti. Nel Pil vige la legge di Trilussa: due polli a me, nessuno a te, dunque un pollo a testa. Terzo: non dà valore ai beni forniti dalla natura, che considera dissennatamente gratuiti e dei quali fa scempio, distruggendo in pochi mesi risorse accumulate per tre miliardi di anni e trattando (peccato singolare per un economista) il capitale naturale come se fosse un reddito.
C’è un quarto "difetto" cui abbiamo accennato, che però non dipende da come è costruito il Pil, ma da come si sta trasformando l’economia capitalistica. Il mercato è sempre più trascinato dalla pressione competitiva che investe non solo la produzione ma, attraverso la pubblicità, anche i consumi, verso i cosiddetti consumi "posizionali" o competitivi: quelli che non esprimono bisogni originali ma bisogni che dipendono da quelli altrui. Si tratta di bisogni per loro natura insaziabili, che generano infelicità. Un esempio? Lo prendiamo da una divertente vignetta del famoso disegnatore Steinberg pubblicata tanto tempo fa dal New Yorker. Era composta di scene successive, Nella prima lui, uscendo di casa in bicicletta, vede il suo vicino uscire dal garage su una utilitaria. Nella seconda lui esce con una utilitaria, ma il vicino con un’auto poderosa. Nella terza lui esce trionfante, affrontando un traffico congestionato, con una ingombrante e costosa auto; ma il vicino scorre via sereno attraverso il traffico su una bicicletta, Qui l’impulso mimetico è diretto e circolarmente frustrante. Se ci si mette la pubblicità, è moltiplicato per mille.
Insomma, man mano che «la crescita cresce», crescono i suoi sprechi e le sue magagne che si riflettono in un Pil bugiardo come misura della felicità. Queste magagne e questi sprechi emergono e sono percepiti sempre più diffusamente, grazie anche al contributo di economisti non ossessionati dalla crescita e non contaminati da tendenze apologetiche verso il potere.
Dobbiamo quindi abbandonare il Pil? Come dice un libro recente, «depilarci»? (Depiliamoci, di Maurizio Pallante, Editori Riuniti). Alcuni autorevoli economisti, come Amartya Sen, col suo Indice dello sviluppo umano adottato dalle Nazioni Unite e come Herman Daly con il suo Indice dell’economia sostenibile, si sono provati a "depilarlo", depurandolo dalle sue più evidenti insensatezze. Sforzi meritori che tuttavia incontrano la difficoltà insita nel sostituire, quando i conti del Pil risultano manifestamente infondati, i prezzi del mercato con dei prezzi "imputati". L’inconveniente è evidente: i prezzi di mercato sono, con tutte le loro storture, realtà oggettive. Gli altri sono giudizi soggettivi, quindi opinabili.
E allora? C’è chi propone di sostituire il Prodotto interno lordo con la Felicità interna lorda: il Pil con la Fil. Per esempio il re del Bhutan, un piccolo Paese asiatico dove mancano l’acqua potabile e i diritti civili. In quel caso, la felicità coincide con quel che ne pensa il re.
C’è poi chi tenta di misurare oggettivamente la felicità con metodi artigianali (per esempio, infilare la mano del "paziente" nell’acqua calda: pare che i più felici resistano di più) oppure con calcoli neurologici e psicologici sofisticati che danno luogo a certe graduatorie, esibite senza vergogna. Secondo Andrei Oswald, per esempio, la frequenza dei rapporti sessuali o un matrimonio solido sono "quotati" 100mila dollari all’anno, mentre un lutto di famiglia "vale" una perdita di 245mila dollari. C’è una quotazione per un sorriso, e un’altra per una preghiera. Così, i prezzi del mercato sono sostituiti dai prezzi Oswald. Meglio i primi! La lettura di questi testi può essere, in termini di felicità, deprimente. Si rischia di simpatizzare con Wilfredo Pareto che respingeva decisamente ogni confronto tra diverse felicità (lui diceva utilità).
Pure, il problema resta. Come si fa a valutare, diciamo meno enfaticamente, il benessere di una società senza incorrere nell’arbitrarietà degli esperti o del re del Bhutan? Secondo me, in due modi. Primo, rinunciando a una misura unica. Non si può ridurre il benessere a un numero. Esso è costituito da una serie di fattori irriducibili meccanicamente l’uno all’altro. Bisogna tenere separati questi fattori - ambiente, sicurezza, salute eccetera, - misurandoli con altrettanti indici specifici, come fanno le Nazioni Unite con il loro Isu. Secondo, affidando la scelta ottimale tra le loro possibili combinazioni, non agli statistici, ma al giudizio politico democratico.
Non esiste infatti un optimum di felicità eguale per tutti i Paesi, da scoprire. Può invece esistere una combinazione di fattori di benessere diversa per ciascun Paese, da scegliere. In tal caso, la misura del benessere-felicità, diventa, non una constatazione "positiva", ma una scelta "normativa". Non un dato, ma un obiettivo. Ogni Paese dovrebbe scegliere democraticamente il suo quadrante di felicità, valido per un certo periodo, costituito da una combinazione di traguardi che darebbero senso a una discussione politica che lo sta perdendo. Il giudizio se stia meglio l’Italia o l’Inghilterra non sarebbe possibile come lo è tra squadre in un campionato, secondo un Pil insignificante. Sarebbe esso stesso un giudizio discutibile. Niente però potrebbe impedire a entità sovranazionali, come l’Unione europea, di mettersi d’accordo su un quadrante comune. Anzi, questo sarebbe il miglior modo di perseguirla.
All'inizio il processo aperto contro di me dal procuratore capo di Sisli non mi aveva preoccupato. Non era il primo. Sono sotto processo a Urfa, dal 2002 per aver detto di non essere turco, ma armeno di Turchia. Mi hanno accusato di aver offeso l'identità turca. Quando sono andato a testimoniare a Sisli l'ho fatto senza troppa preoccupazione. Perché ero sicuro che ciò che avevo scritto non poteva essere male interpretato. Il procuratore, ho pensato, non crederà che io abbia voluto offendere l'identità turca. Sono stato rinviato a giudizio. Non ho perso la speranza. A chi mi accusava di aver insultato il popolo turco, ho detto che non avrebbe potuto gioire: non mi avrebbero condannato. Se fossi stato condannato avrei lasciato il paese. Gli esperti chiamati a giudicare i miei scritti hanno detto che non c'erano in essi elementi di offesa. Ero tranquillo: il torto sarebbe stato riparato, tutto sarebbe finito in una bolla di sapone. Ma così non è stato. Mi hanno condannato a sei mesi di carcere. La speranza che mi aveva accompagnato e sostenuto durante tutto il processo è crollata. Ma mi ha anche dato nuova forza. Prima della sentenza, al termine di ogni udienza venivano date in pasto all'opinione pubblica notizie false su di me. Dicevano che avevo dichiarato che il sangue dei turchi è avvelenato, mi dipingevano come nemico dei turchi. Queste cattiverie hanno cominciato a fare breccia nel cuore di tanti miei connazionali. Alle udienze adesso venivo aggredito dai nazionalisti, si inscenavano violente manifestazioni nei miei confronti. Ho cominciato a ricevere telefonate e mail di minaccia, a centinaia. Ma io continuavo a dire, pazienza, la decisione finale renderà giustizia di tutto ciò e saranno loro a vergognarsi. L'unica mia arma era la mia onestà. Ma mi hanno condannato. Il giudice aveva deciso in nome del popolo turco che avevo offeso l'identità turca. Posso tollerare tutto, ma non questo. Mi trovavo a un bivio: lasciare il paese oppure restare. Alla stampa ho detto che mi sarei consultato con i miei avvocati, che avrei fatto ricorso in appello e anche alla Corte europea per i diritti umani. Ho detto anche che se la condanna fosse stata confermata avrei lasciato il paese perché una persona condannata per aver discriminato suoi connazionali non ha diritto di continuare a vivere con loro.
E' chiaro che le forze profonde che operano in questo paese vogliono darmi una lezione. Così per aver detto alla stampa queste cose è stato aperto contro di me un nuovo procedimento penale. Mi hanno accusato di aver cercato di influenzare la corte d'appello. Mi vogliono isolare, far diventare un facile obiettivo. Mi processano perché, imputato, cerco di difendermi. Devo confessare che ho perso la mia fiducia nello stato turco e nella giustizia di questo paese. La magistratura non è indipendente, non difende i diritti del cittadino ma quelli dello stato. La condanna che mi è stata comminata non è stata pronunciata in nome del popolo turco, ma in nome dello stato turco. Abbiamo fatto ricorso. Il capo procuratore del processo di appello ha detto che non c'erano gli estremi per confermare la condanna. Ma il consiglio superiore ha deciso in maniera diversa. E anche in appello mi hanno condannato.
E' chiaro che mi vogliono isolare, indebolire, lasciare privo di difese. Hanno ottenuto quello che volevano. Oggi sono in tanti a pensare che Hrant Dink sia uno che insulta i turchi. Ogni giorno mi arrivano sull'email e per posta centinaia di lettere di odio e minacce. Quanto sono reali queste minacce? Non si può sapere. La vera e insopportabile minaccia, però, è la tortura psicologica cui mi sottopongo. Mi tormenta pensare che cosa la gente pensa di me. Ora sono molto conosciuto: «Guarda, non è l'armeno nemico dei turchi?» Sono come un colombo che si guarda sempre intorno, incuriosito e impaurito.
Che cosa diceva il ministro degli esteri Gul? E il ministro Cicek? «Suvvia, non esagerate con questo articolo 301. Quanta gente è finita in prigione?» Ma pagare è solo entrare in carcere? Signori ministri, sapete che cosa vuol dire imprigionare il corpo e la mente di un uomo nella paura di un colombo? In questo momento, così difficile anche per la mia famiglia, mi sento sospeso tra la morte e la vita. Ci sono giorni in cui penso di lasciare il mio paese, specie quando le minacce sono rivolte ai miei cari. Mi dicono che mi seguiranno se deciderò di andare, resteranno se deciderò di restare. Posso resistere, ma non posso mettere i miei cari a rischio. Ma se andiamo, dove andremo? In Armenia? Io che non tollero le ingiustizie, sarei forse più sicuro lì? L'Europa non fa per me. Tre giorni in occidente e il quarto voglio tornare a casa. Lasciare un inferno che brucia per un paradiso già confezionato? Dobbiamo cercare di trasformare l'inferno in paradiso. Spero che non saremo mai costretti ad andarcene. Farò ricorso alla Corte di Strasburgo. Quanto durerà questo processo non lo so. Ma mi conforta un po' il fatto che fino al termine del processo potrò continuare a vivere in Turchia. Il 2007 sarà un anno molto difficile. Vecchi processi continueranno, nuovi processi si apriranno. Chissà quali ingiustizie mi troverò davanti. Ma nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Perché qui non si fa male ai colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti, come me, ma come me liberi.
Nel «nuovo che avanza» e cui bisognerebbe abituarsi viene messa la precarietà del lavoro. I media portano abbondante acqua a questo mulino. Ah ah, soltanto gli inetti pretendono la sicurezza dell'impiego o, peggio, del posto: inetti, pigri e spesso fannulloni. Il rischio invece è il sale della vita come ben sa l'imprenditore. La Montezemolo francese, boss del Medef, ha avuto la seguente uscita: «La vita, la salute, l'amore sono a rischio, il lavoro non dovrebbe esserlo?».
La signora Parisot ha molti titoli nel suo portafoglio, per cui rischiarne una parte le è agevole. Ma come accusare coloro che non sono proprietari di nulla, salvo talvolta i tre locali in cui abitano, di avere timore dell'avventura, cioè di restare disoccupati? Non si è mai sentito questo ragionamento da un «atipico», soltanto (e di rado) da chi ha un posto fisso.
E quel posto fisso se lo tiene con cura, o una professionalità così forte - architetto, medico, George Clooney -, da poterla spendere sul mercato con tranquillità e ad alto compenso. Il precario normale - e sono da quattro e mezzo a cinque milioni emezzo - conosce lunghi periodi di inattività, che può reggere soltanto con il paracadute dei genitori, generazione a posto fisso. Non può amare il rischio chi ha bisogno di un lavoro e non può trovarlo, o non decentemente compensato, neanche se ha un titolo di elevata qualità; sono ormai una folla i precari nella ricerca, nell'università, negli ospedali, privati e pubblici. E non amano affatto il rischio le banche e i proprietari di immobili cui ci si deve rivolgere per avere un mutuo o un alloggio, e non ti concedono né l'uno né l'altro se non mostri una solida busta paga o solide proprietà.
Nessuno ha coraggio di negarlo. L'astuzia sta nel non parlarne. O nel cambiare le carte in tavola, come quando si dice: «Ma come, vuoi avere lo stesso posto tutta la vita? Che noia. Non ti piacerebbe cambiare, giocare sulla flessibilità?». Sicuro che piacerebbe, lo scriveva anche Fourier (se uno ha voglia di leggerlo troverà nella Nuova società industriale divertenti osservazioni sull'umana inclinazione a produrre di più e con più gusto sfarfallando serenamente da un'attività all'altra). Solo che per cambiare con allegria devi essere sicuro di trovare un altro posto. E questo avviene soltanto in periodi di pieno impiego. Fa impressione dirlo, ma un'elevata mobilità sociale, il passaggio da un lavoro all'altro, c'è stata negli Stati uniti e nell'Unione sovietica, dove sino agli anni '80 trovavi ai cancelli delle fabbriche o negli atrii delle aziende elenchi di richiesta di manodopera. E' precarietà quando si subisce, flessibilità quando si sceglie.
Ma il lavoratore dipendente, e la maggior parte dei piccoli autonomi, può scegliere? I salariati devono in genere «prendere o lasciare». E infatti si sono battuti oltre cento anni per strappare qualche forma di contratto che non li lasciasse esposti a salari invivibili o a zero salari da una settimana all'altra. Possiamo fare un poco, pochissimo, di storia? E' solo dopo la Rivoluzione Francese che si sancisce - udite udite - il «diritto a lavorare», non il «diritto ad avere un lavoro», cioè il diritto di accesso a un reddito in cambio di prestazione d'opera. La prima legislazione sul lavoro dichiara che «ogni uomo è libero di lavorare dove desidera, e ogni datore di lavoro di assumere chi desidera, concludendo un contratto il cui contenuto è liberamente determinato dai due interessati» (1791). Si intende allora che nessuno appartiene più a nessuno, feudi e corporazioni sono aboliti, ed è un passo avanti. Ma si dà per ovvio che c'è una simmetria fra le parti, padrone e lavoratore che si presenta alla sua porta in cerca di impiego - tesi che è alla base del liberismo e viene spacciata anche oggi. Subito dopo la legge di cui sopra, sono dichiarati reato l'organizzarsi dei lavoratori e lo sciopero. Hanno da essere uno a uno, l'uno con il suo capitale e l'altro con le sue sole braccia o la sua mente, come se fossero uguali le loro possibilità di scelta. Questo sistema è durato fino ai primi del Novecento. Ancora nel 1906, giusto un secolo e un anno fa, il regolamento delle fabbriche Renault prescriveva: «Gli operai potranno lasciare la Casa con un'ora di preavviso al caporeparto. Reciprocamente la Casa si riserva il diritto di licenziare senza indennità gli operai facendoli avvertire dal caporeparto un'ora prima».
Sono l'organizzazione solidale della manodopera salariata e lo sciopero, pericoloso per essa ma anche per il padrone, che permettono agli operai di stabilire un rapporto di forza che li protegge dal licenziamento - se uno di loro è mandato via, i suoi compagni di lavoro staccheranno, e una volta su due sarà riassunto. Per questo si parla di «lotte» del lavoro, lotte sono state. Ma «staccare» è un rischio e tale resta. In Italia la Costituzione legalizza lo sciopero ma soltanto la legge Giugni toglierà al padrone il diritto di licenziare «senza giusta causa», e sarà votata solo negli anni Sessanta del Novecento - è il famoso articolo 18. Che il padronato tenta di metter in causa, alzando il numero dei dipendenti delle aziende in cui può non venire applicato. Dalla fine degli anni Settanta comincerà a giocare sulla tenuta dei lavoratori e dei sindacati, la paura di perdere il posto di lavoro per scomparsa dell'azienda - considerata giusta causa se mai ce n'è una. Infatti le «ristrutturazioni» che accompagnano i cambi di proprietà, le fusioni, la maggior parte della «esternalizzazioni» comportano una riduzione del personale.
I teorici del libero mercato sostengono che le imprese reggono gareggiando nel produrre a prezzi bassi, e così rendendo felice il consumatore. Per un certo tempo avevano predicato che con le nuove tecnologie il costo del lavoro era sempre meno importante nel bilancio. Da un paio di decenni hanno precisato che grazie alle tecnologie il lavoro dell'operaio è diventato assai più rapido, e quindi è d'obbligo ridurre il personale, il cui costo è tornato ad essere importante, anzi importantissimo, perché è la voce di bilancio più comprimibile (oltre al profitto). Il ragionamento si può rovesciare: la tecnologia permetterebbe di ridurre per ciascuno il tempo di lavoro a parità di salario, perché la produttività è diventata assai più grande. Se prima delle tecnologie di questi ultimi decenni la differenza di produttività era da uno a uno e mezzo o due, con essa è diventata da uno a uno a dieci o cento. Il salario sarebbe dovuto crescere in proporzione, o ridursi in proporzione il tempo di lavoro a salario uguale. L'esatto opposto di quel che avviene. La produttività sale e ilmonte salari scende.
A questo scopo servono precipuamente gli «atipici» che riportano il diritto del lavoro a oltre un secolo fa. Alla faccia della modernizzazione. I diritti del lavoro sono stati sempre in qualche misura elusi o circuiti. Li eludono la miseria e la disoccupazione, che costringono al lavoro nero, i lavori domestici o «alla persona», che si tende a retribuire poco e a non pagarne i contributi sociali, li elude legalmente il precariato. Il padronato italico ha sempre cercato di sfuggire al contratto, prima di tutto con il lavoro nero, che specie nel mezzogiorno accompagna la piccola e media azienda: lo sanno gli ispettori dell'Inps, al cui arrivo con la guardia di finanza gran parte della manodopera corre a nascondersi. Specie con la manodopera immigrata, e non solo nel sud ma nell'operoso nord, dove intere villette nascondono opifici e il caporalato, che pareva un residuo del XIX secolo ed è tornato a prosperare. Funziona all'interno stesso della manodopera immigrata, specie asiatica, dove uno funge da padrone, o lo diventa, e sottopone gli altri a salari e orari senza regole. Lo schiavismo che Hannah Arendt denunciava negli Stati uniti (il massimo della libertà politica con il massimo della schiavitù sociale) è ripreso in occidente su larga scala.
La legge non ha inventato il precariato, gli ha messo regole legittimandolo. Questo è il problema. Ha accettato che la forza di lavoro venisse considerata come la più obsoleta o banale delle macchine. Questa è una trasformazione di mentalità che rappresenta un colossale passo indietro nei rapporti sociali. Non ha alcuna giustificazione funzionale, è soltanto risparmio sulla forza di lavoro. Che attua anche lo stato usando dei precari negli ospedali e nelle università, mentre a fil di logica dei diritti umani, se fossero una cosa seria, il precario dovrebbe essere pagato almeno il doppio di chi ha un contratto a tempo indeterminato. L'utilizzo del capitale cognitivo si somma a quello sul tempo di lavoro, cercando di «mettere fuori calcolo» l'uno e l'altro, e tende a diventare la forma principale delle nuove assunzioni. Quanto all'articolo del Protocollo sul welfare, secondo il quale per essere assunti occorrono 36 mesi di precariato è una vera presa in giro. Non diversa da quella che nel contratto di primo impiego, il famoso Cpe, il governo di destra voleva imporre in Francia e la mobilitazione degli studenti ha mandato in tilt.
Questo è il processo reale che passa come «fine della classe operaia» o «declino operaio». Quel che è declinata in occidente è la grande fabbrica, forma «sociologica » della produzione che viene decentrata e frantumata grazie alle tecnologie dell'automazione e poi dell'informatica. Ma fuori della fabbrica il salariato si è moltiplicato, industria culturale, dell'informazione e dello spettacolo inclusa. E ha stravinto l'idea che l'accumulazione del capitale, e per di più privato, è inevitabile, è condizione dell'economia, ne è «legge oggettiva». Stravince anche perché il sindacato arretra o si pone sulla semplice difensiva (della quale il sovversivismo, che pretende di opporsi alla timidezza del sindacato, è una variante).
Ma è obbligatorio difendere una trincea indebolita o arrendersi? Non mi pare. Il sindacato svedese non si è opposto all'innovazione tecnologica, ma l'ha contrattata sul serio. Il mutamento che si è verificato con la globalizzazione non è dovuto alla tecnologia, che potrebbe liberare tutti, ma ai rapporti di forza fra le parti sociali su scala mondiale. Mentre il capitale viaggia, come si usa dire, in tempo reale, la forza di lavoro materiale o intellettuale, corpi e vite, resta necessariamente ferma e niente affatto necessariamente scollegata fra un paese e l'altro: per cui la stessa mansione è pagata fino a dieci, cento volte di meno da un paese, specie asiatico, rispetto all' Europa occidentale. E' questo che rende il prodotto cinese così a buon mercato rispetto a quello europeo, ma è indecoroso che financo i sindacati europei chiedano misure protezioniste invece che tentar di collegare i lavoratori.
Già lo spazio europeo sarebbe una regione contrattuale forte. Come non è decente che in nome della competitività i governi permettano la delocalizzazione delle imprese verso i mercati del lavoro a basso costo. Una delle ipocrisie più flagranti della Costituzione europea è che essa garantiva la libertà delle imprese di andarsene, mentre il diritto della persona di accedere concretamente a un reddito decente era del tutto ignorato.
Il padronato, più o meno spersonalizzato nelle grandi multinazionali in concorrenza, non è tenuto a proteggere i lavoratori, protegge azionisti e il suo top management. E' il sindacato che è tenuto a proteggere i lavoratori, vi si affiliano per questo. Ma stenta a pensarsi fuori dello stato nazionale in cui è nato ma i cui confini sono stati sfondati dal movimento mondiale dei capitali, al quale i governi, di destra o di centrosinistra che siano, si adeguano. A questo si aggiunge la pochezza dell'imprenditore italiano il cui motto sembra «prendi i soldi e scappa» - investimenti a lungo tempo, necessari per la ricerca e l'innovazione di prodotto, non ne fa. Né lo induce a farlo la filosofia della Ue, che invita il nostro governo a non occuparsi di economia e spendere sempre meno in quel salario indiretto che sono la previdenza e la sicurezza sociale, trittico che le lotte del lavoro si erano conquistate.
Il congegno del precariato ne fa parte, per il governo di centrosinistra è una bella responsabilità.
A chi spetta il compito di arrestare il mutamento climatico? Qualche tempo fa sembrava che fosse una sfida nella quale tutti devono fare la loro parte, tutti in quanto individui. In questo modo la lotta contro il mutamento climatico si trasformò nel modello – molto irriso – di uno stile di vita "verde" (la bicicletta al posto dell´auto, andare in giro a casa propria anziché volare in vacanza). Ma attenzione: il mutamento climatico è evidentemente un problema troppo grande per essere risolto dai singoli individui riuniti – in base al motto "bus anziché auto" –. Esso chiama in causa i governi. Ma anche questi ultimi, se agiscono in modo "individualizzato", sono alquanto inermi.
Ormai tutti sanno che l´anidride carbonica non conosce confini e che qualsiasi tentativo che non venga intrapreso a livello transnazionale, ossia contemporaneamente sul piano locale e su quello globale, è destinato a fallire. Poiché potrebbe passare ancora un po´ di tempo prima che l´umanità riesca a mettere d´accordo l´umanità a questo fine, è necessaria una soluzione temporanea di medio periodo. Anche gli euroscettici più incalliti devono riconoscere che l´Ue rappresenta il soggetto ideale di una politica di contrasto al mutamento climatico e che ora il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha colto questa opportunità prescrivendo ai Paesi europei una "rivoluzione postindustriale" – anche nell´intento di rilanciare l´utilità dell´Europa per gli interessi vitali dei suoi cittadini. Solo con il bilancio europeo di molti miliardi di euro si possono effettivamente avviare innovazioni tecnologiche, dalle energie alternative alle tecnologie per il risparmio energetico. Si può dar vita a una nuova alleanza tra gli Stati e l´economia. E, infine, l´Ue con i suoi strumenti giuridici può anche perseguire efficacemente coloro che peggiorano la situazione. A questo punto al lettore verrà un´idea eretica: i governi non sono affatto capaci di fare questo, perché da tempo non controllano più le decisioni economiche.
Naturalmente, si può confidare nella "virtù magica del mercato". Anche nel caso del più grande successo immaginabile tutto ciò avverrebbe assai lentamente. Il tempo, però, è dannatamente ridotto. A fissare la "deadline" – per usare la cruda espressione inglese – non sono i governi, ma la natura.
Giusto, non è possibile ritornare all´economia di piano, nemmeno nell´Ue. Ma non meno forte è la consapevolezza che se mai la "sovranità del mercato" ha rappresentato una minaccia mortale, ciò avviene ora – di fronte all´incombente collasso climatico e ai costi inimmaginabili che esso comporterebbe. Pertanto, i governi che si sottraessero al principio della nuova politica energetica e climatica per l´Europa evidenzierebbero una volta di più l´inadeguatezza dei singoli Stati nazionali a fronteggiare i pericoli globali e quindi anche nazionali.
Questa domanda sul ruolo dello Stato e del mercato nella civiltà globale del rischio comincia a scuotere anche l´autocomprensione americana dopo l´11 settembre 2001 e dopo le conseguenze dell´uragano Katrina del 2005, ma anche in seguito al dibattito riaccesosi sul mutamento climatico. Ciascuno di questi casi dà o ha dato luogo a una discussione in cui ci si chiede se queste esperienze e prospettive traumatiche siano da ritenersi una confutazione della concezione neoliberista dello Stato minimale. Si cristallizza un nuovo contrasto sinistra-destra: da una parte si sottolinea che è compito del governo federale americano ridurre al minimo le minacce e i rischi ai quali gli individui sono esposti; dall´altra, questa definizione dello Stato viene liquidata come sbagliata e fuorviante.
Ma, parallelamente al dibattito sulla politica climatica in Europa, anche negli Stati Uniti la politica verde viene scoperta come una nuova politica geostrategica: "Una delle ragioni per le quali il presidente Bush ha fallito nel tentativo di diventare la guida dell´Occidente", scrive Thomas L. Friedman, uno dei principali commentatori politici americani "sta nella sua incapacità di pensare e agire in verde, mentre ciò è diventato estremamente importante per tutti gli alleati dell´America. Dubito che negli ultimi due anni del suo mandato egli ridefinirà la politica americana. Ma l´importanza dei problemi legati al mutamento climatico e al risparmio energetico è cresciuta in modo tanto impressionante che è impossibile immaginare che il suo successore – chiunque egli sia – non li affronti e non li ponga al centro della propria politica. Se così fosse, sarebbe impossibile immaginare che il vivere, il pensare e l´agire in verde – anziché il combattere contro il rosso – non diventi il nuovo mastice dell´alleanza atlantica".
Una risoluta politica ambientale della Ue potrebbe effettivamente introdurre un cambiamento nell´autocomprensione dell´Occidente. Con il crollo del muro di Berlino sono sorti Stati senza nemici alla ricerca di nuovi spauracchi. Qualcuno teme o spera che lo spauracchio del "terrorismo" sostituisca lo spauracchio del "comunismo", per tenere unito l´Occidente. Ma questa illusione è svanita al più tardi con il fallimento della guerra in Iraq. Nello stesso tempo si profila un´alternativa storica: il mastice senza spauracchio che in futuro terrà assieme l´Occidente potrebbe essere costituito dalle sfide della crisi ecologica, che fondano la comunanza del pericolo. Infatti, non c´è minaccia più grande allo stile e alla qualità della vita occidentale che la combinazione tra il mutamento climatico, la distruzione dell´ambiente, l´approvvigionamento energetico e le guerre che ne possono derivare. Secondo la concisa formulazione del ministro degli Esteri tedesco Walter Steinmeier: «La sicurezza energetica determinerà in modo decisivo l´agenda della sicurezza del ventunesimo secolo». Qui si delinea il modello ultramoderno di una politica interna mondiale, che potrebbe sovrapporsi al modello ormai obsoleto della politica estera nazionale: postnazionale, multilaterale, acronimico, economico, superpacifico sotto tutti gli aspetti, esso predica le interdipendenze in ogni direzione, spinge a cercare amici ovunque, a non immaginare nemici in nessun luogo, solo spauracchi che è meglio cancellare. In questo mondo retorico gli "interessi nazionali" rimangono discretamente nascosti sotto un velo pesante, nel quale sono intessute le parole-chiave "mutamento climatico", "diritti umani" e "interventi per la pace". Kant non avrà avuto in mente proprio questo con il suo titolo dall´ironico doppio senso: "Per la pace perpetua?".
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.
Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.
Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell'insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».
Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell'arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E' interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l'autonomia? Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.
Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).
In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l'intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell'attuale politica degli Usa. C'è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?
In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d'una gerarchia cattolica invadente. E' stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l'essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni '70, finendo con l'essere l'unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.
Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d'esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).
Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L'una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l'uno e l'altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l'oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l'interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.
La seconda posizione, all'inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un'eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.
Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l'intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L'avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.
Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.
Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell'autonomia.
Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si pos
«LO Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società - non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice - non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l’odierno Stato secolare basato sulla libertà -, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?
Come usare la parola riformista e quando: è tra i compiti più importanti che abbiamo di fronte, se si vuol riportar ordine nel linguaggio e salvare l'idea stessa di un miglioramento delle nostre democrazie. La parola in questione è adoperata in economia e nelle questioni etiche, in politica internazionale e nelle scelte di pace e guerra. Il suo uso è divenuto a tal punto smodato, dilagante, che un dubbio è lecito: forse il riformismo attraversa una crisi grave, che i sedicenti riformisti occultano con le loro grida. Forse è divenuto l'alibi di chi non sa più pensare in profondità le trasformazioni. Forse nasconde tentazioni utopistiche che ieri contrassegnavano i rivoluzionari. Ci sono parole che sono come governate dalle Erinni, divinità della vendetta: riappaiono e dilagano quando il loro significato si snatura, o s'ingarbuglia sino a svanire. Hanno un'esistenza simile a quella delle persone, fluttuante e fragile: non a caso i greci antichi personalizzavano concetti e cupe passioni, aggiungendo nuovi dèi agli abitanti dell'Olimpo. Un destino analogo è capitato a parole come identità, liberazione, diritti umani, memoria. Sono vocaboli che andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. In attesa della loro resurrezione si potrebbe ricorrere a termini supplenti. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate dall’uso.
L’Italia non è l'unica a esser affetta da questa sindrome, e l'economia non è l'unico terreno che vede ingarbugliarsi il concetto di riforma. Falsi riformisti son presenti ovunque, con personalità forti.
Son presenti in Germania, dove il riformismo s'accumula spesso senza costrutto e produce una malattia chiamata Reformitis. Hanno dominato per anni la politica americana, influenzando la sua politica estera e l'offensiva contro lo Stato sociale annunciata dalla Rivoluzione repubblicana. In Italia si son moltiplicati da quando Prodi ha formato la sua coalizione e vinto le elezioni. Chi è riformista si sente sperduto e inerme, di fronte alle difficoltà del centro-sinistra. Ha l'impressione di non esser ascoltato e ama descrivere se stesso come solitario errante, sempre sull'orlo di divenire un perdente, anche quando una vasta maggioranza di giornali lo sostiene. Ogni mossa governativa viene esaminata alla luce di questa battaglia fraseologica (il riformista dice raramente le riforme concretamente fattibili) e perderla è un sottile motivo di gloria se non di piacere. Perché chi perde è vittima, e chi è vittima non ha responsabilità: è come se avesse una fedina penale assolutamente pulita, e gli fossero dovuti un risarcimento o una caparra o un monumento.
Il riformista italiano non ha quasi nessuna caratteristica che lo apparenti al riformatore autentico. Non possiede la pazienza di quest'ultimo, né la sua umiltà. Ha fretta di giungere allo scopo che si prefigge, come Orfeo che nella poesia di Rilke vorrebbe salvare Euridice ma guarda innanzi a sé colmo d'impazienza, e «divora la strada col suo passo a grandi morsi, senza masticarla». Masticare la strada è fare sul serio riforme, pagarne il prezzo, divenire vulnerabile, mettersi in gioco e non tenersi in riserva per fantasticate missioni di salvataggio. Il falso riformista non si sporca le mani e se possibile resta fuori dal gioco; consiglia riforme impopolari ma teme in realtà l'impopolarità come la peste. Il più delle volte sceglie lo scranno del commentatore: i giornali sono ghiotti di esporlo in vetrina perché in tal modo diventano essi stessi attori della politica. Ma ci sono anche le volte in cui il riformista opera dal di dentro, condividendo col riformista esterno il fato di vittima. Luigi La Spina lo ha descritto bene su questo giornale, dopo Caserta: «I riformisti di Margherita e Ds non possono far finta di aver perso quando non hanno mai combattuto, se non tra di loro». E la guerra non è stata tra estremisti e moderati ma tra Ds e Margherita attorno a chi, liberalizzando per primo, possa definirsi più riformista dell'altro.
I riformisti frettolosi godono di alcuni vantaggi considerevoli. Come commentatori godono dell'impunità, perché non son costretti a fare e nemmeno a rispondere di quel che scrivono. Non devono dare dimostrazioni pratiche della propria presunta superiorità, perché molti di loro sono in riserva e non giocano ancora. Non pagano prezzi, perché la loro influenza non è costruita sulle servitù dell'azione. Essendo sempre potenzialmente perdenti possono denunciare gli impedimenti che nascono da continui complotti radical-conservatori, di Rifondazione o Diliberto. Se solo potessero governare loro, tutto sarebbe più facile: di questo son sicuri. Ma non possono (forse non vogliono) provarlo, e proprio quest'impossibilità li rende invulnerabili. Possono contraddirsi senza timori, possono difendere il bipolarismo e al tempo stesso auspicare governi centristi di volenterosi, che escludano i radicalismi. Usano l'estrema sinistra come alibi della propria inconsistenza. In Italia sono oggi assai numerosi e spesso si comportano come se la sconfitta di Berlusconi fosse una sciagura. Nei dettagli delle riforme non entrano, perché la loro vera natura è rivoluzionaria. Solo i rivoluzionari danno priorità allo scopo finale, rispetto alla strada che deve esser pazientemente battuta. I falsi riformisti hanno qualcosa di giacobino, di utopistico, decretano presto la morte di una leadership, e in questo somigliano non poco ai falchi della rivoluzione liberista americana e della guerra in Iraq.
In un articolo su Foreign Policy, l'economista-psicologo Daniel Kahneman (premio Nobel 2002) e il politologo Jonathan Renshon si domandano come mai, nella storia politica e umana, i falchi finiscano quasi sempre col prevalere sulle colombe. Hanno la meglio perché posseggono pregiudizi più forti, opinioni inflessibili, e soprattutto illusioni più semplificatrici. Si nutrono di preconcetti non dimostrati e tanto più persuasivi. Primo, il preconcetto a proposito dell'avversario, giudicato fondamentalmente ostile. Secondo, il preconcetto che nasce da un ottimismo sconfinato, cui Kahneman e Renshon danno il nome di «illusione di controllo»: i falchi son convinti di essere più bravi, più brillanti, più attraenti della media. A volte lo sono, come avvenne nella guerra contro Hitler. Ma spesso il loro primato è un vizio: il vizio di chi sopravvaluta i propri successi, esagera il controllo che può avere sugli eventi, nasconde le debolezze dell'avversario o rivale. Il falco è convinto di vincere la guerra in Iraq allo stesso modo in cui il falso riformista in Italia è convinto che - se solo comandasse lui - le riforme si realizzerebbero tutte e subito.
Per capire la natura del vero riformista conviene risalire il tempo, e ricostruire il dibattito che divise la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell'800 e il '900. Eduard Bernstein ruppe con Karl Kautsky e Rosa Luxemburg su questi temi, preferendo la via riformista e revisionista. Disse che per lui il fine era meno importate del movimento che portava al fine: «Il movimento è tutto, il traguardo finale mi interessa di meno». Tra riforme e rivoluzione scelse le riforme, e ne precisò la natura. Nello sviluppo legislativo lento, elastico, egli vedeva operare l'intelletto, mentre nella rivoluzione vedeva il sentimento. La riforma era un metodo graduale di trasformazione, mentre il metodo rivoluzionario era rapido, sbrigativo, condensato. È quel che indignò la Luxemburg, che accusò Bernstein di scartare l'«atto politico creatore» della violenza rivoluzionaria e di privilegiare il miglioramento delle condizioni vigenti, il mero «vegetare della società». Se si guarda agli argomenti dei nostri riformisti, l'impressione è che essi siano più vicini alla Luxemburg che a Bernstein. L'unica cosa che non possiedono, dei rivoluzionari, è lo slancio o l'abnegazione. Il falso riformista è un rivoluzionario cool, che nel frattempo ha gustato il trasformismo o la celebrità.
Chi riforma davvero non divora il cammino a grandi morsi, ma lo percorre piano e lo mastica. Sa che la via più dritta che conduce allo scopo è spesso quella più serpentina. Sa che l'umanità è un legno storto, che si riforma con lentezza, negoziando patti sempre nuovi. In fondo son più riformatrici le sinistre radicali, oggi, che i riformisti. Rifondazione e i suoi ministri si dibattono, promettono di ostacolare, ma fanno anche grandi sforzi per correggersi e correggere le storture italiane. Hanno accettato l'intervento militare in Libano, hanno consentito a sacrifici non indifferenti in economia. Il cammino che compiono con Prodi è unico in Europa.
Torniamo a Orfeo. Nella poesia i suoi sensi appaiono come divisi in due: mentre l'occhio corre in avanti come un cane, tornando indietro sui suoi passi e poi rimettendosi a correre lontano per attenderlo alla prossima svolta, «l'udito restava, come un odore, indietro». Riconnettere lo sguardo all'udito - la visione del traguardo all'esperienza del cammino - è uno dei primi passi, se si vuol restituire al riformismo il significato sciupato.
Vedi anche, su eddyburg, Ida Dominijanni
Con la caduta dell'Unione Sovietica e la fine dell'equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l'obiettivo di seminare il panico nelle grandi città
Esattamente venticinque anni fa, mentre scrivevo Pure War (Semiotexte-Mit Press, ristampato in questi giorni), la dissuasione si poneva ancora sul piano strettamente militare. Gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l'equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della «guerra pura» ha cancellato non soltanto l'Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l'idea stessa della «grande guerra classica», la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi.
Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più. La copertura antimissilistica globale degli americani - quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush sta proponendo a tutti nel mondo - mi pare esemplifichi bene il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime. Incredibile e degna di nota, a mio avviso, anche la risposta di Vladimir Putin alle proposte americane, una risposta su cui non si è discusso a dovere. Che cosa ha detto, in sostanza, Putin? Ha proposto di installare i radar di questo scudo globale... in Russia e Azerbaigian. Non poteva essere più chiaro. Così, dopo la «grande guerra classica» e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica.
Asimmetrie politiche
Ho utilizzato l'espressione «guerra asimmetrica» per la prima volta a Berlino trenta, forse trentacinque anni fa - mi trovavo là con Jean Baudrillard - ipotizzando al tempo stesso che ci stavamo dirigendo verso un'epoca transpolitica. Eccoci dunque, alla fine siamo arrivati al transpolitico. Sostenere che una guerra è asimmetrica e transpolitica al tempo stesso significa affermare che esiste una condizione di totale disequilibrio fra gli eserciti nazionali, quello internazionale, l'esercito della guerra mondiale e i gruppuscoli di tutti gli ordini e gradi che praticano la guerra asimmetrica (dalle semplici gang di quartiere, ai paramilitari). Esiste un parallelismo fra la decomposizione degli Stati avvenuta in Africa e quello che sta succedendo ora nell'America del Sud - in Colombia tanto per fare un esempio - dove nessun esercito nazionale può nulla contro la proliferazione di gang, mafie locali, paramilitari e guerriglieri alla Sendero Luminoso. Questo, a mio parere, è il punto: non possiamo più parlare o ragionare di una guerra pura, semplicemente perché la nozione di guerra ha cambiato natura. Non esistono più «guerre pure», ma una guerra totale e «impura» nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata. Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili. Vengono da questo salto di paradigma nella natura della dissuasione fenomeni inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il Patriot Act o le prigioni di Guantanamo.
Un fatto da non sottovalutare è il disequilibrio imposto dall'emergere di un nuovo terrorismo. Nell'era della «guerra impura» ci si sforzava di resistere riportando il sistema al suo punto di equilibrio. Ma tutto questo è diventato impossibile, con la continua proliferazione di «nemici asimmetrici». Siamo di fronte a una enorme minaccia che incombe sulla democrazia di ogni paese, non soltanto sulla testa dei regimi dell'est, del sud, del nord, di dove vi pare, ma anche sui paesi ritenuti «democratici», tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti. Esiste una dissuasione civile - il Patriot Act ne rappresenta il segno più tangibile, ma ce ne sono molti altri, pensiamo a certe leggi contro gli immigrati che rischiano di passare in Europa - che rende la situazione molto più incerta.
Una strategia contro le città
Gli esperti sostengono che si debba «ristabilire l'ordine», ma ristabilire l'ordine nella società civile è come aprire una finestra sul caos, è una minaccia assoluta, una sfida lanciata vis-à-vis nei confronti di qualsiasi democrazia. Su questo punto ci si accorge di avere a che fare con i sintomi di un vero e proprio delirio. La strategia militare sembra essersi dislocata nel cuore stesso delle città. Si potrebbe parlare di un proseguimento della strategia anti-città iniziata durante la seconda guerra mondiale, con i bombardamenti di Guernica, di Oradour, Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La strategia anti-città è stata una delle innovazioni introdotte durante la seconda guerra mondiale, guerra che ha però introdotto anche un equilibrio del terrore: ricordiamoci che le testate nucleari, a est come a occidente, erano puntate direttamente sul cuore delle città. Oggigiorno, assistiamo però a un dislocamento di questa strategia. Siamo passati dall'equilibrio del terrore all'iperterrorismo. È un dato interessante, perché l'iperterrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città. Chiediamocene la ragione. Credo si debba rimarcare che è proprio nelle moderne cittè che si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo.
Potremmo affermare che la guerra asimmetrica - che oramai è un sinonimo del disequilibrio terrorista - cancella il teatro delle operazioni esterne a tutto vantaggio della concentrazione metropolitana. Il luogo della guerra diventa, appunto, la città. L'affollamento urbano trascina guerra e terrorismo nel solco di una geostrategia territoriale, portandolo direttamente sulla linea del fronte. Se vogliamo una perfetta illustrazione del fallimento del modello di esercito classico possiamo ricordare, oltre al caso dell'Iraq, anche quello della più recente guerra libanese. Il fallimento dell'esercito israeliano in Libano è straordinario. Lo Tsahal è fra gli eserciti più grandi, equipaggiati, motivati al mondo, e uno di quelli che gode di maggiori appoggi e sostegni, anche mediatici. Eppure, nonostante tutto questo, l'esercito israeliano si è «impantanato», possiamo proprio dirlo, nella guerra asimmetrica contro Hezbollah. Qualcuno può pure sostenere che si tratta di una guerra «fallita», parola che trovo sintomatica. In passato, sapevamo di guerre perse e guerre vinte, oggi apprendiamo che esistono anche le guerre riuscite e quelle fallite. Vorrei però conoscere la differenza tra un fallimento e una disfatta. A mio parere, questa guerra manifesta la debolezza e il principio di incertezza su cui poggia un esercito normale con i suoi carri armati, i suoi missili, i suoi megabombardieri quando si trova dinanzi a una forza, per così dire, artigianale. Mi ricordo di una vignetta, apparsa su un giornale francese, che avrei forse dovuto ritagliare e conservare. Si vedevano i carri dello Tsahal fermi in un città piena di rovine e un cartello sul quale era disegnata la pianta della stessa città con una freccia che indicava: «Vi trovate qui». Il comandante del carro era sceso a terra, sbalordito cercava di capire dove si trovasse.
L'immagine illustrava più di mille commenti la condizione di follia in cui versava un esercito potente che, in altri tempi, era stato capace di vincere la «Guerra dei sei giorni». Ma la «Guerra dei sei giorni» era ancora una guerra di tipo classico. Nel '67, eravamo ancora in piena epoca di logica e calcoli geopolitici. La geopolitica si giocava sui campi di battaglia, a Verdun, attorno a Stalingrado, sulle spiagge della Normandia. Oggi quei campi sono dislocati, e il conseguente declino della geopolitica va a tutto vantaggio di quello che proporrei di chiamare metropolitica, in quanto concerne la città intesa come metropoli.
Minacce sfocate
Dopo la crisi della geopolitica e il conseguente affermarsi della metropolitica terrorista, è venuto anche il momento della geostrategia. Va letta in questo contesto la risposta di Putin a Bush - «installate i vostri missili e i vostri radar da me -, una risposta che mette a nudo l'incertezza dell'avversario. C'è qualcosa di umoristico nella sua proposta, ma dietro lo humour venato di assurdo, si nasconde qualcosa di vero. Ci si chiede contro chi ci stiamo difendendo. Installare i missili sulle frontiere come propone di fare Bush, significa minacciare una regione anche se ci si sta rivolgendo a un'altra. Anche se c'è l'Iran di mezzo, anche se c'è la Corea, anche se non ci sono paesi che rappresentano minacce, bisogna capire che non sono più gli Stati a essere in guerra. La vera minaccia è deterritorializzata o piuttosto defocalizzata.
Da qui il fallimento dell'esercito israeliano nei confronti di Hezbollah, un fallimento che rivela l'errore manifesto delle forze militari nei confronti dell'ostilità di un nuovo nemico. Abbiamo assistito a una grande rivoluzione che ha investito e travolto il concetto di «guerra classica» clausewitziana, un concetto che aveva come sua logica appendice quello di «guerra pura», una guerra statica fondata sulla minaccia della fine del mondo e sulla catastrofe nucleare. Oggi tutto questo è finito e, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo preda di ciò che i fisici chiamano principio di indeterminazione: i nostri piedi poggiano su terreni incerti, scossi dalla globalizzazione economica e dalla guerra globale eppure «locale». Questo apparente paradosso è determinato dal fatto che l'estensione del campo e del fronte non contano più in rapporto all'immediatezza della minaccia.
Quando si arriva a collocare un ordigno nucleare direttamente nella metropolitana di New York, di Parigi o Londra, allora dobbiamo comprendere che non siamo più nella logica totale, ma in quella locale. L'obiettivo è una città, preferibilmente una grande città, per ottenere il massimo disastro. La «guerra impura» nasce dal globalismo inteso come cambiamento di scala.
Il globalismo riduce tutto al più piccolo fra i comuni denominatori possibili: è così che anche un singolo individuo può significare una guerra totale - e quando dico uno, possono ovviamente essere due, tre, dieci. Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario! Le grandi divisioni, le macchine, la portaerei «Eisenhower» restano lì in attesa di una disfatta che non è determinata dal conflitto di un campo contro l'altro, ma dalla dissoluzione del campo stesso che alimentava la guerra «politica». La guerra politica aveva di mira un territorio o uno Stato delimitato che da par suo rispondeva arroccandosi attorno alle proprie frontiere.
In questo momento assistiamo a una confusione babelica tra la guerra civile terrorista - che uccide civili, non tanto i militari, anche se ha di mira il Pentagono - e la guerra internazionale. Ma si tratta di nozioni ancora sfocate. Al punto che, parlando con Baudrillard dopo l'attentato del 9/11, dicevo: ecco l'inizio della guerra civile internazionale. Fino a quel momento, c'erano state guerre civili nazionali, ma quella era la prima vera guerra civile mondiale. È ancora possibile premere un bottone e far partire dei missili - la Corea può farlo, l'Iran può farlo, possono farlo altri - ma in realtà con la grande dislocazione della strategia, con la fusione fra guerra civile iperterrorista e guerra internazionale, non è più possibile fare troppe distinzioni. Alcune cose restano, ma il quadro è saltato. Non c'è più alcun equilibrio da ristabilire, solo caos da creare. Con la crisi degli Stati-nazione, messi in discussione dallo sviluppo dell'Europa, dal Nafta, dalle multinazionali, la guerra legata alla mera territorialità non è più possibile. Ci troviamo di fronte a una questione di primaria importanza, una questione politica e che travalica la politica al tempo stesso. Ne va della nostra esistenza, proprio mentre un enorme punto di domanda leva la sua ombra sulla Storia.
( traduzione di Marco Dotti)
postilla
Fra i vari elementi di singolarità del percorso logico che Virilio propone nel suo articolo, c’è anche la – quasi sicuramente involontaria – rievocazione del felice connubio storico fra antiurbanesimo e politica di guerra permanente, che coincide col trionfo di quanto oggi chiamiamo sprawl urbano.
È infatti nell’epoca (ormai tramontata, ma solo per aprirne una assai più ambigua) di un certo conflitto permanente, dai totalitarismi europei degli anni ’30 all’equilibrio del terrore che ha imperversato sino agli anni ’80, che si afferma esattamente l’idea del decentramento, spinta secondo molti studiosi proprio dalle ragioni della sicurezza nazionale e produttiva. Anche i più noti processi del cosiddetto white flight dalle metropoli americane, in fuga dalla violenza razziale, rientrano nel medesimo grande ciclo iniziato ad esempio coi primi studi italiani o britannici sulla “urbanistica antiaerea”, e poi come ci raccontano anche le carte ufficiali della Commissione Barlow, o le riflessioni postume di C. B. Purdom proseguito in Europa nel passaggio dalle città giardino alla politica delle New Towns o di altri "decentramenti" nazionali.
E senza farla troppo lunga, dalle riflessioni di Virilio può emergere anche un dato: prendere a bersaglio la città significa, a parole ma non solo, concentrare la mira sulla polis. Che altro c’è, nella retorica demente della “guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi” quando non in una fase marginale, ma nella sua mainstream , ad essere sottoposto ad attacco costante è il simbolo della convivenza, mentre apparentemente contro ogni senso ecologico e in fondo anche economico, l’immaginario dei consumi continua ad avere come sfondo privilegiato un insostenibile ubiquo suburbio? (f.b.)
Tutti e due i partiti in corsa, Partito democratico e Pdl, evocano un qualche patto tra produttori, o come prefigurazione di un governo di larghe e molli intese se le cose vanno male per tutti e due, o come esortazione cattolica alla solidarietà, anziché al conflitto, tra le parti sociali. Sia «patto» sia «produttori» sono parole politicamente consolatorie, perché apparentemente neutrali.
Nessuno ricorda che la questione del «patto tra produttori» era stata posta una trentina di anni fa da Claudio Napoleoni - persona rara, perché persona colta oltre che ottimo economista. La questione era stata molto discussa, nelle sue premesse e nei suoi possibili esiti politici, tuttavia può essere riassunta e riesposta nel modo seguente. Nel nostro mondo ci sono non due, ma tre classi. Le classi costitutive e essenziali del capitalismo - dopo la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale - sono i capitalisti e i lavoratori.
C'è però una terza classe, un residuo feudale, costituita dai rentier: dai percettori di rendite di qualsiasi natura, ma comunque rendite la cui natura è soltanto il terribile diritto di proprietà.
Nessuno, tra quanti allora parteciparono alla discussione suscitata dal proposta di Claudio Napoleoni, arrivò a chiedere l'abolizione di quel diritto; ma tutti erano d'accordo che la rendita costituisce un prelievo netto, una sorta di tassa, sul prodotto sociale: tassa o prelievo cui non corrisponde nessun contributo al prodotto sociale, da parte dei rentier; e che per questa stessa ragione del prodotto sociale frena la crescita - scaricandone sui lavoratori la responsabilità e il costo.
Tra capitalisti e lavoratori sarebbe dunque ragionevole una alleanza contro l'indebito prelievo di una parte cospicua del prodotto sociale, da parte dei percettori di rendita, siano questi proprietari di risorse naturali o di risorse finanziarie: fermo però restando il conflitto distributivo tra lavoratori e capitalisti.
È infatti nell'interesse economico e politico, sia dei lavoratori sia dei capitalisti, che il prodotto sociale non sia taglieggiato - senza nessuna fatica - dai rentier. Si potrebbe cominciare con lo strumento fiscale, secondo il dettato dell'articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».
Il Conte Paolo Marzotto, in una intervista al Corriere della Sera di un paio di giorni fa, ha diciarato: «Fosse per me, aumenterei la tassazione delle rendite finanziarie. L'attuale 12,5% è cosa da paradiso fiscale. Si dovrebbe arrivare al 19/20%. Insomma, noi ricchi dobbiamo pagare di più. La democrazia non si regge sui privilegi».
Il discorso pronunciato a Parigi il 5 febbraio 1986 dal capitano Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, per la «Prima conferenza internazionale sull'albero e la foresta».
La mia patria, il mio Burkina Faso, senza dubbio ha il diritto di definirsi un concentrato di calamità naturali. Otto milioni di burkinabè hanno interiorizzato questa realtà in 23 terribili anni. Hanno visto morire le madri, i padri, i figli e le figlie, decimati da fame, carestia, malattie e ignoranza. Hanno guardato prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto il loro ambiente deteriorarsi, gli alberi morire e il deserto invaderli a passi da gigante, sette chilometri all'anno.
Solo questa realtà permette di comprendere la genesi della legittima rivolta che, maturata per lunghi anni, è finalmente esplosa in forma organizzata nella notte del 4 agosto 1983, sotto forma di rivoluzione democratica e popolare del Burkina Faso. Qui non sono altro che l'umile portavoce di un popolo che rifiuta di guardarsi morire per aver assistito passivamente alla morte del proprio ambiente naturale. Dal 4 agosto 1983, l'acqua, gli alberi e la vita dell'ambiente sono ritenuti fondamentali e sacri in tutte le azioni del Consiglio nazionale della rivoluzione che guida il Burkina Faso.
Da circa tre anni il popolo del mio paese combatte la sua guerra contro la desertificazione. Da circa tre anni in Burkina Faso ogni avvenimento felice viene celebrato piantando alberi. Nell'anno scolastico 1986 tutti gli studenti della nostra capitale, Ouagadougou, hanno costruito con le proprie mani più di 3.500 stufe migliorate (a basso consumo) per le proprie madri, che si vanno ad aggiungere alle circa 80.000 costruite dalle stesse donne negli ultimi due anni. Questo è il loro contributo allo sforzo nazionale di ridurre il consumo di legna da ardere e proteggere gli alberi e la vita. Il diritto di acquistare o prendere in affitto uno delle centinaia di alloggi pubblici costruiti dopo il 4 agosto 1983 è strettamente condizionato dall'impegno dei beneficiari di piantare un numero minimo di alberi e curarli come la pupilla dei propri occhi.
Dopo aver realizzato più di 150 perforazioni di pozzi che garantiscono l'approvvigionamento di acqua potabile alla ventina di settori della nostra capitale fin qui privati di questo bisogno essenziale; dopo aver portato in due anni il tasso di alfabetizzazione dal 12 per cento al 22 per cento, il popolo burkinabè continua la sua lotta per un Burkina verde. In 15 mesi sono stati piantati 10 milioni di alberi nel quadro del Programma popolare di sviluppo. Nei villaggi situati lungo le valli dei fiumi ogni famiglia deve piantare e curare 100 alberi l'anno.
Il taglio e la vendita della legna da ardere sono stati completamente riorganizzati e regolamentati con severità. Tra queste regole c'è l'obbligo di avere un patentino per fare il commerciante di legname, di rispettare le zone designate per il taglio del legno, fino all'obbligo di assicurare il rimboschimento delle aree disboscate. Ogni città e villaggio del Burkina hanno oggi un bosco avendo ripristinato così una tradizione antica. Tutti i criminali atti di piromania che distruggono le foreste sono giudicati e sanzionati dai tribunali popolari di conciliazione di ogni villaggio. Una delle punizioni previste da tali tribunali è l'obbligo di piantare e curare un certo numero di alberi. Dal 15 gennaio è in corso un'ampia operazione chiamata «Promozione popolare dei vivai», per creare 7.000 vivai di villaggio. Riassumiamo queste tre azioni sotto il vessillo delle «tre lotte».
Vorrei farvi partecipi della nascita e dello sviluppo di un amore profondo e sincero tra i burkinabé e gli alberi nella mia patria.Ci sembra in tal modo di applicare i nostri concetti teorici agli specifici modi e mezzi della realtà saheliana, nella ricerca di soluzioni ai pericoli presenti e futuri che aggrediscono gli alberi in tutto il mondo.
Vogliamo affermare che la lotta contro l'avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Sono venuto qui per denunciare quegli uomini che con il loro egoismo sono la causa della sfortuna del prossimo. Il colonialismo ha saccheggiato le nostre foreste senza nemmeno lontanamente pensare a lasciarle o a ripristinarle per il nostro domani. Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all'aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Chi ha i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non ha interesse a farlo, e chi ha quest'interesse manca dei necessari mezzi tecnologici.
La creazione in Burkina di un Ministero dell'acqua è segno della nostra volontà di porre chiaramente sul tavolo i problemi, per trovarne soluzioni. Dobbiamo lottare per trovare i mezzi finanziari necessari ad utilizzare le risorse idriche esistenti, per costruire pozzi, serbatoi e dighe. Noi denunciamo gli accordi unilaterali e le condizioni draconiane posti dalle banche e da altre istituzioni finanziarie che ci impediscono di realizzare molti nostri progetti. Sono condizioni proibitive che provocano un indebitamento traumatico dei nostri paesi privandoci della necessaria libertà di azione.
Il Burkina ha proposto e continua a proporre che almeno l'1% delle somme colossali destinate alla ricerca di forme di vita su altri pianeti sia destinato a finanziare la lotta per salvare gli alberi e la vita. Non abbandoniamo la speranza che il dialogo con i «marziani» possa farci riconquistare l'Eden; ma riteniamo nel frattempo, come abitanti della terra, di avere il diritto di rifiutare un'alternativa limitata alla sola scelta fra inferno e purgatorio.
Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Una quantità di forum ed istituzioni non rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c'è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Crediamo nel potere della rivoluzione per bloccare la morte del Burkina Faso e per aprirgli un nuovo luminoso futuro.
«E’ evidente che sul riformismo non la pensiamo tutti allo stesso modo. Un certo ’blairismo’ a me sembra davvero troppo datato. E mi permetto di chiedere a vecchi amici di mettere accanto alla parola ’riformismo’ il nome e il cognome delle cose, le grandi cose italiane di oggi che non sono solo le pensioni e il costo del lavoro. E non sono solo l’economia ma anche ciò che la condiziona sempre più, come la debole base culturale e etico-politica del paese, l’incapacità della plutocrazia dominante di pensare al di là della sua ’roba’, la mancanza di una grande forza nazionale». Tocca affidarsi all’intervento (sul Riformista di martedì) di Alfredo Reichlin, uno che nel Pci di diatribe sul riformismo ne ha vissute quanto basta e di più, per trovare un po’ di sensatezza sul termine che agita le acque del centrosinistra come un totem impazzito, che ciascuno agita e rivendica a modo suo, assolutizzandolo e guardandosi bene dal corredarlo di nomi, cognomi e aggettivi. "O riforme o morte", ha perfino titolato in questi giorni un grande giornale riferendosi a uno dei tanti ultimatum fra i leader della maggioranza; ma quali riforme, e quale riformismo?
Non che sia colpa solo della confusione e dell’approssimazione endemica del centrosinistra italiano. Un tempo era facile a dirsi, pur se sempre molto difficile a farsi: riformista era una prospettiva di trasformazione, o quantomeno di miglioramento, graduale del capitalismo e della liberaldemocrazia, contrapposta alla prospettiva rivoluzionaria. Una linea di conflitto, teorico e pratico, che ha fatto, più che segnato, la storia della sinistra e delle sue aspre divisioni nel Novecento. Poi vennero le rivoluzioni conservatrici di Thathcher e Reagan, e il senso delle parole si stravolse: riformisti diventarono loro e le loro politiche di smantellamento del welfare, conservatori tutti quelli che a sinistra vi si opponevano. Poi vennero ancora Tony Blair e Clinton (e prima, in Italia, c’era stato Craxi), e le loro «terze vie» che per smarcarsi dalle rivoluzioni conservatrici si smarcavano altrettanto dalla tradizione riformista socialdemocratica. E non basta, perché con i neo-teo-cons degli Usa d’inizio secolo da una parte, e il riformismo libertario di Zapatero in Europa dall’altra il quadro si è mosso e complicato ulteriormente. Nell’immobilismo però, e questo è il punto, della sinistra moderata (e per molti versi anche di quella radicale) italiana, la quale è riuscita a passare attraverso innumerevoli svolte rivendicando un profilo riformista ma senza mai definirlo. A partire dalla svolta occhettiana dell’89, quando con il definitivo approdo riformista venne annunciato anche il superamento della tradizione socialdemocratica: bisognava andare oltre. Dove, lo si vede adesso: nella terra di nessuno che è diventato il riformismo di oggi. Nel quale, neanche a dirlo, restano gli echi del blairismo «troppo datato» di cui sopra, ma non si sente risonanza alcuna dello zapaterismo. Che pure non è certo meno liberale, se davvero fosse il liberalismo il punto: ma si sa che dall’89 in poi, in casa (p)ds, fra liberalismo e liberismo la confusione non è mai mancata, e il secondo ha sempre prevalso sul primo. Sicché anche in quel di Caserta, in agenda c’è spazio per le liberalizzazioni ma non per i Pacs. Per riformare le pensioni ma non la legge Biagi né la struttura dei salari. E via dicendo: del riformismo c’è il totem e ci sono i tabu.
Nel frattempo, mentre Piero Fassino attacca le versioni giornalistiche «caricaturali» dello scontro fra riformisti e radicali, caricaturale è diventato il termine riformista e il palio che s’è aperto sul riformismo doc. Digeriti gli amarcord sul «blairismo alle vongole» dei dalemiani resuscitati (o reinventati) a commento del caso Nicola Rossi, ne vedremo delle belle il 18 prossimo venturo, «giornata riformista» indetta dai Dl all’insegna del convincente slogan «un po’ di coraggio e fiducia e torna il futuro». Un riformista indubitabile come Eugenio Scalfari, preso da comprensibile scoramento, ha avuto buon gioco a giocare sui piccoli slittamenti semantici fra riformismo e trasformismo. Di Nicola Rossi rimarranno vive le perorazioni su competitività e meritocrazia, ma è già stata sepolta la denuncia spietata dello stato in cui versano la politica e il principale partito della sinistra. Intanto, provate voi a spiegare a un qualsiasi studente che «riformismo» è anche quello che si è esercitato sull’università italiana, fra Berlinguer e Moratti.
Dunque il Financial Times alla pattuglia di deputati laburisti che si sono riuniti fuori da Westminster a cantare "Bandiera rossa" per dire: vogliamo un partito più di sinistra, manda a dire che è inutile che si affannino perché «i partiti stanno diventando tutti eguali». Da noi vi è chi afferma – la sostanza è la stessa – che i buoni politici non possono che essere riformisti senza aggettivi, i soli in grado di porsi e risolvere – sono espressioni di Massimo Cacciari - "problemi concreti" con "progetti concreti", tal che parlare di destra, sinistra e anche centro non ha più senso alcuno
Questo è il credo dei novatori della politica, decisi a seppellire le vecchie ideologie e le relative contrapposizioni. Mi sembra che, se davvero destra, sinistra e centro non hanno più senso, allora quel che ne consegue è un amalgama politico e che le diversità dei programmi e delle soluzioni concretamente proposte e attuate si riducono a differenze di natura tecnica, da sciogliere alla luce di una razionalità non di parte ma rispondente ad un interesse valevole per tutte le componenti sociali.
I fautori dell´amalgama si presentano come novatori. Credono di esserlo, ma non lo sono. Nella storia moderna essi hanno fatto ripetutamente la loro comparsa come teorici della pacificazione e della concretezza. Il regime orleanista – di cui fu grande esponente Guizot, il quale argomentò che la politica utile era quella capace di riconoscersi nel "giusto mezzo", l´unico in grado di produrre risultati fattivi – costituì un esempio di questo approccio; su una linea analoga si pose in Italia Depretis, il quale invitò il partito liberale ad abbandonare la divisione tra Destra e Sinistra, lasciando al di fuori le dannose estreme di opposto segno; sull´appello a convergere, ridotte le opposizioni al nulla, su una politica capace di risolvere i problemi concreti con soluzioni concrete al riparo di obsoleti scontri di parte, si basò anche la politica sociale ed economica dei regimi totalitari. Ora non siamo più nel XIX e nel XX secolo, ma il Leitmotiv ritorna nelle vesti della politica "democratica" che proclama defunte le distinzioni tra destra e sinistra e che, riducendo tutto a centro, annulla lo stesso centro.
Il paradosso di questa posizione è che essa viene fatta oggi valere proprio mentre, come ricorda opportunamente Giddens, «le società industrializzate hanno raggiunto un livello di diseguaglianza, un gap tra ricchi e poveri, troppo grande». Insomma, mentre tutti i partiti, secondo il Financial Times, starebbero per diventare eguali, gli uomini diventano sempre più diseguali. Ma, se le cose stanno così – e così stanno – (il governatore della Banca d´Italia ci ha recentemente comunicato che nel nostro paese il 10 per cento possiede il 45 per cento del reddito, ed è da vedersi ulteriormente quali siano le proporzioni all´interno di questo 45 per cento), possiamo concludere che vengano meno le ragioni della sinistra e di una lotta politicamente organizzata per contrastare una simile tendenza al fine di raggiungere una più equa distribuzione della ricchezza? possiamo ignorare che vi è un sistema di potere che ha operato e opera per conseguire e mantenere quel gap di ricchezza che spacca in relazione ai livelli di benessere e malessere il corpo sociale a tutela di interessi che non sono certo quelli di coloro ne sono le vittime? possiamo non vedere che il mercato così come funzionante non agisce in maniera neutra, ma è dominato da potentati finanziari e industriali il cui obiettivo è di convogliare le risorse a loro prevalente beneficio con la conseguenza di dividere le persone tra chi dorme sonni più che tranquilli e chi invece sonni agitati perché non sa come campare? Le soluzioni dei problemi che vanno bene per gli uni non vanno affatto bene per gli altri.
I potentati economici non si limitano a operare per mantenere e accrescere i loro soldi. Sanno che per poterlo fare devono essere in grado di ottenere il maggior consenso possibile a partire dal processo elettorale. Sono essi che posseggono e controllano la maggior parte dei mass media, in primo luogo la televisione, che li utilizzano per sostenere che non vi è contrasto di interessi, che si dà un unico interesse, che il solo modo per le masse dei lavoratori dipendenti di migliorare la loro condizione non è di contrastare i meccanismi causa di abissali diseguaglianze, ma di produrre di più, di non continuare a far valere vecchi diritti sociali e a chiedere un posto stabile, di accettare ogni richiesta in tema di flessibilità e di precarietà, in quanto rispondente agli interessi oggettivi delle imprese e quindi comuni ai datori di lavoro e ai lavoratori. Lo spettro delle vacche magre viene sempre agitato agli occhi dei lavoratori per indurli a non "pretendere" irresponsabilmente oggi quel miglioramento che viene affidato al domani.
Orbene, chi non accetta un simile stato di cose è di sinistra e chi lo promuove non lo è. Si guardi inoltre ai «temi eticamente sensibili», ai modi di intendere la laicità, ai modi di affrontare le questioni poste dall´immigrazione e dall´integrazione, e si vedrà se anche qui i partiti sono ormai tutti la stessa cosa. Lo si vada dire agli spagnoli che andranno al voto domenica prossima che il partito di Zapatero e quello del suo antagonista non hanno se non un´immagine confondibile nello specchio.
Ma, detto questo, la sinistra ha un problema, e un grosso problema. Le sue ragioni persistono, e forti, poiché, in un mondo segnato da abissi di diseguaglianza nella disponibilità delle risorse che danno agli individui una vita dignitosa, non vengono meno. Ma la sua capacità di azione è debole. Essa è in una condizione di frustrazione di fronte all´iniziativa dei suoi avversari, le sue risposte in termini di efficacia politica e sociale sono maldefinite, incerte, rispecchiano un complesso di inferiorità. Se non saprà reagire, tornare ad essere protagonista della scena politica e sociale, ciò non significherà che la distinzione tra sinistra e destra non abbia più motivo di essere: significherà piuttosto che la sinistra avrà perso la partita e che la non sinistra avrà vinto. Se poi per sempre o meno, si vedrà.
Paul Ginsborg
È davvero migliore del Palazzo?
Una geniale vignetta di Altan di qualche settimana fa (la Repubblica, 4 settembre) raffigura un signore di mezz’età, in giacca e cravatta, chiaramente appartenente ai ceti medi italiani, che annuncia solenne alla moglie: «Dobbiamo aprirci alla società civile». E lei, forse maestra o impiegata, certamente casalinga, gli chiede, tra il perplesso e il titubante: «Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?».
Effettivamente, non è facile capire dov’è la società civile e neanche cos’è. Le definizioni abbondano e con esse le dispute accademiche. Suggerisco una prima distinzione operativa, molto anglosassone, fra società e società civile. La società è un contenitore vasto in cui si può trovare di tutto, dal cittadino onesto alla criminalità organizzata. La società civile, invece, è uno spazio più ristretto che si distingue sia per la sua forma organizzativa sia per il suo sistema valoriale.
Società civile vuol dire in primo luogo una vasta rete di associazioni, circoli, club - alcuni molto grandi e di forte impatto internazionale come Amnesty International, altri più modesti e meno stabili che operano soprattutto a livello locale, ad esempio un circolo di giovani auto-organizzati contro la mafia o un laboratorio per la democrazia. Ma società civile vuol dire anche determinati valori e ambizioni, che sono variati attraverso le epoche della storia contemporanea ma hanno un ceppo comune nell’Illuminismo.
Oggi in Europa si possono attribuire alla società civile ambizioni specifiche: promuovere la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indicare mezzi pacifici anziché violenti, agire per la parità di genere e l’equità sociale, costruire solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggiare la tolleranza e il dibattito anziché il conformismo e l’obbedienza. La società civile è lontana dall’essere una sfera perfetta, di rapporti idilliaci e armoniosi. Riflette fortemente la società di cui fa parte, il modo in cui le persone sono già state formate dalle loro esperienze familiari. Nondimeno costituisce una risorsa preziosissima per la democrazia e rispecchia l’impegno, profuso di solito a titolo gratuito, di una minoranza di cittadini per migliorare sia la società che le istituzioni.
Casa prediletta della società civile europea sono i paesi nordici – Olanda e Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sono loro che hanno il numero più alto di cittadini iscritti ad almeno una associazione di qualsiasi tipo – Svezia 53,4 per cento, Regno Unito 41,8 per cento, Italia 24,3 per cento. Ma sono anche i paesi con la più alta percentuale di cittadini iscritti alle associazioni che si riconoscono nel sistema valoriale della società civile appena descritta.
L’esperienza storica italiana della società civile durante i decenni della Repubblica è piuttosto eterogenea . Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L’Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni che produce questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segnali di placarsi.
In secondo luogo, la società civile italiana è come un fiume carsico. Non si distingue per il suo alto numero di associazioni ma per la sua capacità di irrompere improvvisamente sulla scena nazionale con grandissima forza e altissimi numeri. L’enorme raduno della Cgil del marzo 2002 al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, ne è un esempio eclatante.
Per contrasto, l’organizzazione territoriale della società civile italiana è più squilibrata rispetto agli altri paesi europei, con una grande concentrazione dell’associazionismo civico nel centro e nord del paese. Fu in queste regioni, nella seconda metà dell’Ottocento, che nacque la rete delle associazioni di mutuo soccorso, una rete che fece molta fatica a estendersi al Mezzogiorno. Ci sono stati momenti nella storia del Sud in cui questo quadro si è modificato, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento, ma oggi la situazione è di nuovo molto incerta, con la forte ripresa dell’immigrazione delle forze giovanili dal Sud.
L’Italia dunque è un paese cui le pre-condizioni per la società civile sono ben radicate, dove esiste una tradizione, come in Francia, di movimenti di cittadini che irrompono periodicamente con grande forza sulla scena politica, ma dove l’associazionismo è squilibrato in termini geografici. A queste caratteristiche di fondo, bisogna aggiungerne altre, purtroppo tutte negative. Manca in Italia una vera tradizione di autonomia della società civile. Quest’assenza, legata alla debolezza della tradizione liberale, ha permesso ai partiti di occupare i posti di comando delle istituzioni e della società, mossi non dal desiderio di democratizzare stato e società, come vorrebbe la società civile, ma con l’intento di imporre un modello ferreo di auto-perpetuazione, di origine democristiana.
Un ultimo e decisivo punto. Ho sempre avuto l’impressione che in Italia, a differenza dei paesi nordici europei, le famiglie contassero troppo e la sfera pubblica troppo poco. In questo campo l’insegnamento del Vaticano non è mai stato di grande aiuto. Era Pio XII che nel settembre del 1951 disse: «La famiglia non è per la società; è la società che è per la famiglia». Il messaggio che filtra dopo ventiquattro anni ininterrotti di televisione commerciale berlusconiana è piuttosto simile: «mettete al primo posto la vostra famiglia, i vostri interessi, i vostri consumi». Non deve sorprendere se la signora della vignetta di Altan pensa che la società civile sia un servizio a domicilio.
Chi ha in mente Repubblica quando parla di società civile?
Ieri la Repubblica nel suo nuovo R2 Diario ha pubblicato un interessante articolo di Paul Ginsborg dal titolo «Società civile. E' davvero migliore del Palazzo?» e, a seguito, due utili scritti di Filippo Ceccarelli e Carlo Galli, sempre sul valore o disvalore della «società civile». Il tutto molto interessante e stimolante. A noi del manifesto viene subito voglia di intervenire e, questa volta, con uno stralcio dell'articolo di Lucio Colletti (prima maniera) pubblicato sul primo numero della (eretica e condannata) rivista del manifesto: giugno 1969. Da allora sono passati quasi quarant'anni, ma non abbiamo cambiato parere: il Palazzo è ancora il figlio legittimo della società, che arbitrariamente si autodefinisce civile. Il passato è presente? Forse.
v.p.
Lucio Colletti *
Dizionario Politico. La società civile
Qualcosa di nuovo s'aggira nella sinistra italiana; non è lo «spettro» del comunismo: questa volta si tratta solo della riscoperta di una vecchia parola. La parola è «società civile». Nel calore della scoperta, sembra che si voglia costruirci sopra «un nuovo patto costituzionale».
La società civile. E' la società cui si accede con l'iscrizione all'anagrafe. Dal '700 in poi, ci siamo dentro tutti, quali che siano i mestieri o le professioni. Mandeville la descrive così: «milioni di esseri si sforzano d'appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni sono intenti a consumare l'ingegnoso lavoro di quelli. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciano in affari di gran guadagno, altri sono condannati alla falce e alla vanga e a quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si affaticano ogni giorno e logorano forza e braccia, per mangiare». La società civile, insomma, è la società della concorrenza e dei «poveri industriosi».
In superficie, una miriade di attività, un brulicame di interessi in competizione tra loro; al di sotto di questa superficie, un'interna e più severa struttura. L'anatomia della società civile - diceva Marx - è da cercare nell'economia politica. E l'economia politica, almeno a partire da Smith, ha identificato quest'anatomia in una struttura di classe. «In una società civile, i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori». Il lavoratore produttivo, che «sostiene sulle proprie spalle l'intero edificio della società umana», è - dice Smith - «schiacciato dal peso e tolto dalla vista altrui nelle più profonde fondamenta dell'edificio». «In una società di centomila famiglie, ve ne saranno forse cento che non lavorano affatto e che, tuttavia, o con la violenza o con la più regolare oppressione della legge, assorbono una quantità di lavoro sociale superiore a quella di diecimila famiglie. Anche la divisione di quel che rimane, dopo questa enorme defalcazione, non avviene affatto in proporzione al lavoro di ciascun individuo; al contrario, a quelli che lavorano di più tocca di meno».
Qui è già prefigurato l'essenziale. Il lavoro produttivo produce il salario e, oltre al salario, un «di più», da cui derivano profitto e rendita, entra a costituire i redditi delle classi fondamentali della società. La «società civile», in una parola, è la società borghese di classe. Perché allora si chiama così? In primo luogo, perché, a differenza di quella medievale, la società borghese è essenzialmente cittadina, urbana (civile da civis). In secondo luogo, perché il borghese è fatto così, che egli non riesce a immaginare che ci possa essere cultura, scienza e civiltà, se da una parte non c'è il profitto e dall'altra il lavoro salariato. Non che egli non veda le differenze di classe, l'ineguaglianza sociale. I grandi borghesi le vedono. Il punto è che le considerano il prezzo inevitabile da pagare alla civiltà. «L'abilità - dice Kant - non può essere bene sviluppata nella specie umana per mezzo dell'ineguaglianza tra gli uomini; perché il più gran numero di essi cura le necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno d'un'arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessari della cultura, la scienza e l'arte, tenendo i primi in uno stato d'oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della cultura della classe superiore. Il fine della natura stessa è raggiunto in questa maniera. La natura può raggiungere il suo scopo finale solo in quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che si chiama società civile». Per il borghese, insomma, la civiltà è impensabile senza oppressione e sfruttamento, proprio come per La Malfa è impensabile democrazia senza la FIAT e la Commerciale.
Vengo ora a Galloni e al suo articolo su Rinascita.
Dal '700 in poi, un grande sforzo d'analisi per risalire dalla superficie della «società civile» alla sua interna struttura: le classi. Oggi, un lavoro da Sisifo per ricoprire gli scavi di quell'analisi con quattro genericità liberali. Prima, uno sforzo di meningi per capire che la società civile è la società borghese; ora un articolo su Rinascita per presentare la società borghese come la società civile. La «società civile» vuole! La «società civile» comanda! Chi ha in mente Galloni così dicendo: Gianni Agnelli o l'emigrato calabrese?
* articolo tratto dal primo numero della rivista manifesto nel giugno 1969
Sul numero di Foreign Affairs che inaugura l'anno una ricercatrice francese, Dominique Moisi, analizza lo stato dei rapporti fra area occidentale, area islamica e area «emergente» asiatica sostituendo al celebre paradigma del clash of civilizations di Samuel Huntington quello del clash of emotions. Le tre grandi aree di cui sopra, sostiene Moisi, si configurano oggi, più che come tre culture compatte e l'una contro l'altra armate o pronte ad armarsi, come tre grandi aree emozionali: l'Occidente come area della paura, il mondo arabo e musulmano come area dell'umiliazione, l'asia cinese e indiana come area della speranza. Moisi mette in guardia dal prendere la sua ipotesi troppo alla lettera, com'è già stato sciaguratamente fatto con le tesi di Huntington: i tre mood emotivi non sono compatti e comportano significative eccezioni e qualche mix in aree eccentriche ma cruciali (ad esempio in Russia e in America latina). Ma vale la pena seguire il suo ragionamento..
Gli Stati uniti e l'Europa,, sostiene Moisi, sono divisi, più che uniti, da una comune cultura della paura. Mentre negli Stati uniti del dopo-11 settembre essa ha preso le note sembianze dell'ossessione securitaria all'interno e della preempive war all'esterno, in Europa si manifesta più sottilmente come paura dell'altro, paura del futuro, paura di perdere un'antica identità: l'incubo di essere «invasi» dall'emigrazione, la fantasia che l'Europa si trasformi in «Eurabia», la scoperta che le città europee sono non solo obiettivi ma anche basi del terrorismo internazionale, si mescolano negli europei a paure più endogene che riguardano la crisi dello stato sociale, la stasi economica e la possibilità di trasformarsi nel museo del mondo. E se per gli Stati uniti l'ossessione securitaria e guerra in Iraq si sono risolti in una disfatta d'immagine e di credibilità, in Europa queste micro e macro paure diffuse rischiano di riportare in auge antichi spiriti nazionalisti, come già s'è visto nella bocciatura della costituzione Ue.
La cultura dell'umiliazione che abita il mondo islamico ha dal canto suo radici lontane: già alimentata da una lunga decadenza culminata nella fine dell'impero ottomano, e poi inasprita dalla creazione dello stato d'Israele, oggi per un verso è incardinata al conflitto mediorientale, per l'altro è esacerbata dagli effetti penalizzanti della globalizzazione sull'intera area dei paesi arabi. Fatto sta che questo stratificato sentimento d'umiliazione assume sempre più i caratteri del conflitto religioso-identitario, fra islam e ebraismo, e fra islam e occidente, e rischia di assegnare all'estremismo sciita la bandiera della resistenza. Nessuna riconversione di questo sentimento è possibile, sottolinea Moisi, senza soluzione del problema palestinese.
Un quadro fosco, in cui l'unico vento di speranza sembra soffiare dall'estremo oriente, da dove vengono due messaggi chiari. Il primo dice che «la Cina è tornata» e sta ritrovando, dopo due secoli di relativo declino, uno statuto internazionale possente. Il secondo dice che l'India è la più grande e più popolosa democrazia del mondo, e che con le sue elite capaci di strategie di cooperazione con gli Stati uniti e con l'Europa ha ragione di guardare al futuro con ottimismo ancor maggiore della Cina.
Che fare in Occidente, e dell'Occidente, in questa situazione? A giudizio di Moisi, negare che il sentimento di umiliazione arabo-islamico sia per gli occidentali un problema e una minaccia è sbagliato tanto quanto affrontarlo con la guerra e la degenerazione della democrazia come fanno gli Usa. Né la soluzione può consistere solo nel sostenere l'Islam moderato contro quello fondamentalista: si tratterebbe piuttosto di instillare nelle società musulmane un sentimento di speranza e di fiducia nella crescita capace di contrastare rabbia e disperazione. Con la consapevolezza che senza soluzione dei problemi del mondo islamico, non può esserci dissoluzione della sindrome fobica in Occidente. E con la speranza che il clash of emotions si riveli per sua natura più mobile e volubile del clash of civilization.
Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni “eticamente sensibili” di cui si diceva all’inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell’aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l’eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un’altra differenza a seconda che si adotti l’etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l’uno rispetto all’altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell’assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell’aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice “feticidio”), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell’autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l’interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell’aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l’uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, “con le particolari caratteristiche sue proprie”, tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l’altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch’essa “soggetto debole”. Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, “che è già persona”, rispetto al diritto alla vita del concepito, “che persona non è ancora”. Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) “diritto potestativo” della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo “problema grave”, un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti “esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze”, cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.
C’è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli “immaturi”, i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull’esistenza futura, sempre che ci sia. C’è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient’altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall’altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.
C’è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l’assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a “persuadere” tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.