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“Un antropologo su Marte” è il titolo di un celebre libro di Oliver Sacks, neurologo statunitense, il cui tema è la difficoltà di comprensione delle emozioni tra un medico e una paziente autistica. Quest’immagine è quella che ha accompagnato le mie giornate preparatorie alla lezione che ho tenuto al Politecnico di Milano, agli studenti del primo anno, i futuri progettisti. Condizionata, infatti, probabilmente, dalle letture e dalle chiacchiere ai convegni che accompagnano la diatriba tra sociologi e architetti, tra le scienze sociali e le scienze dure, tra episteme e techne, l’interrogativo circa l’utilità del mio intervento attanagliava la mia mente e mi spronava alla ricerca di idee, immagini, parole che evocassero il dialogo auspicato tra sociologia e architettura, riuscendo anche a mettere in rilevo la complessità della dimensione urbana. Un impegno ambizioso, che come neofita entusiasta cercavo di affrontare con un velo di onnipotenza.

“Città sostenibili: ossimoro, utopia e realtà” è stato il titolo che ho scelto per il mio intervento e gli allievi del corso, nonostante fosse venerdì pomeriggio e, soprattutto, fossi una studiosa di scienze sociali, curiosi, hanno cercato, sin dall’inizio, di ascoltarmi. Si è subito parlato di “urban sprawl”: questione fondamentale e da affrontare per uno sviluppo sostenibile urbano e la salvaguardia della natura e termine cruciale per urbanisti, architetti, sociologi del territorio, ma non solo. Non è un caso che il prossimo congresso nazionale dei sociologi urbani, che si terrà a settembre, abbia a tema il consumo di suolo; la cui lotta non è solo un imperativo categorico per gli addetti ai lavori, ma un impegno civile per tutti i cittadini.

Ed è stato proprio il ruolo attivo della cittadinanza, la partecipazione dal basso, soprattutto nella progettazione di città sostenibili, uno dei leitmotiv che ha accompagnato le ore insieme, soprattutto grazie alle sollecitazioni del prof. Bottini che è riuscito ad intersecare le mie parole con cammei urbanistici e architettonici, completando le visioni comuni e regalando spunti per ulteriori approfondimenti. I quartieri di Vauban a Friburgo, BedZed nel Sutton a sud di Londra, esempi virtuosi di sostenibilità urbana, sono sorti su aree industriali dismesse i “brownfields”, terreni riqualificati e riprogettati proprio grazie all’iniziativa pubblica. Ma una città sostenibile non è fatta solo di edifici e di strutture.

Nella sostenibilità urbana rientrano le scelte legate alla mobilità, agli acquisti, all’alimentazione, le scelte energetiche; insomma, più in generale, come si è cercato di sottolineare, all’intera vita della comunità urbana e alle relazioni che vi si instaurano all’interno. Ecco perché nella sostenibilità urbana si è cercato di affrontare questioni come il cibo a km zero (la dieta delle cento miglia, ovvero, come ci hanno insegnato due giornalisti che per un anno si sono alimentati solo con i prodotti coltivati vicino la loro casa di Vancouver, Columbia Britannica Canadese), l’attenzione per la filiera alimentare con la conseguente scelta di aderire al gruppo di acquisto solidale e/o ad altre forme di consumo critico, il co-housing e il social housing in chiave sostenibile dove spazi e tempi di vita vengono condivisi, creando nuove forme di mutualità e di sostegno reciproco.

Per quanto riguarda la mobilità, l’esperienza raccontata è quella di New York, sfida verde sulla quale il sindaco Bloomberg ha scelto di investire: il car sharing che, se incentivato dalle amministrazioni, come nel caso statunitense, rappresenta una reale alternativa per gli abitanti e quindi una trasformazione culturale nello stile di vita. La trasformazione culturale degli atteggiamenti che conducono all’insostenibilità delle nostre città è stato uno degli interrogativi posti agli studenti che, concordi, hanno dichiarato come l’educazione dei cittadini da parte delle amministrazioni locali debba necessariamente passare attraverso premi, incentivi, risvolti concreti e tangibili, che mostrino, sin dall’inizio, la ricaduta positiva di una scelta. Discutendo di città sostenibili si è parlato anche di “transition town”, città che transitano alla sostenibilità e che stanno transitando anche in Italia.

L’esperienza che ha terminato la transizione e che è entrata a pieno titolo nella rete mondiale è quella di Monteveglio, un piccolo paese di cinquemila anime in provincia di Bologna. Difficile dimostrare la transizione di un paesino così piccolo: gruppo guida verso la sostenibilità, incontri di approfondimento, alimentazione sostenibile con la creazione di un mercato locale e la valorizzazione di tutti i campi, gli orti, i terrazzi coltivati per l’autosufficienza alimentare. Si è parlato anche di contesti internazionali, di Totnes e Brixton, transiton town che hanno messo in atto l’utilizzo della moneta locale per salvaguardare l’economia del territorio e promuovere la spesa nelle botteghe della città, del distretto.

L’utilizzo della moneta locale, ovvero che una moneta sia accettata solo in un determinato territorio, privilegiando per i propri acquisti i commercianti della zona e questi, a loro volta, tenderanno a rifornirsi dai produttori locali che accetteranno la moneta locale, ha sollecitato i futuri progettisti che si sono interrogati sui risvolti di tale meccanismo e delle ricadute economiche in un mondo sempre più globalizzato. Tutte le questioni presentate mostrano il grande fermento attorno ai temi della sostenibilità urbana e parlarne per tante ore insieme ha permesso di presentare una gamma significativa di possibilità che talvolta corrono il rischio di ridursi ad attività di “greenwashing”, sostenibilità di facciata, senza sostanziarsi in un reale e concreto cambiamento di paradigma.

E’ evidente, a questo punto, come il collegamento dei saperi e quindi l’approccio transdisciplinare a cavallo tra sociologia, architettura, politica, filosofia, sia necessario per comprendere la complessità del nostro tempo e, soprattutto, per leggere lo spazio urbano attraverso una visione sistemica e integrata dei bisogni dei cittadini.

Marcella Messina Dottoranda in Antropologia ed Epistemologia della Complessità

Università di Bergamo

La città è bella perché varia, ci succedono un sacco di cose, si gira, si conosce gente, magari qualche volta ci si incazza pure, ma al Ritz non si è mai soli, e neppure nelle vie attorno. La faccenda della danza del marciapiede, degli occhi sulla strada, del tizio dell’edicola che conosce tutti quelli che passano, ormai è quasi un luogo comune. Non solo del buon senso (la cosa che conta di più), ma anche di certe dissertazioni in punta di aggettivo acuminato, a colpi di citazioni, coerenti o posticce che siano. Insomma parrebbe davvero che, dopo averla derisa, poi santificata e mummificata in biblioteca, tradotta, discussa, ri-dimenticata … alla fine la buona Jane Jacobs l’abbiano anche ascoltata: la città vive quante più cose riesce a fare, e queste cose aumentano quando progettazione e gestione degli spazi e delle relazioni ne favoriscono la convivenza e compresenza, nello spazio come nel tempo.

Cos’altro c’è, in tutta la prosopopea sul mixed-use, certi interventi di densificazione, la riqualificazione a base commerciale con forte componente residenziale, se non l’ombra della per nulla mite vecchina? Basta leggere un documento a caso di linee guida per la mobilità dolce, la sicurezza, il rilancio socioeconomico delle inner-cities, per ritrovare le vecchie osservazioni che da La città è per la gente, attraverso La vita e la morte delle grandi città, hanno poi fatto diverse volte il giro del mondo.

Allora riposi in pace? Macché: qualcuno ha evidentemente dimenticato di distribuire i suoi libri a Milano, o quantomeno di leggerne ad alta voce una o due righe ai suoi amministratori e ai loro consiglieri, ehm, scientifici.

Perché qui sono convinti, un po’ parafrasando John Wayne, che l’unica città buona è una città morta. Altro che danza del marciapiede, quella striscia di asfalto è prodotta e mantenuta dal comune per andare a lavorare, al massimo per far pisciare il pitbull o parcheggiare il SUV in seconda fila.

E da questa sera la paresi urbana si inaugura in via Padova, salita alle cronache qualche settimana fa per una rissa finita tragicamente. La risposta dei geni creativi non si è fatta attendere: se si sta chiusi in casa magari ci si può accoltellare, ma discretamente e in famiglia. Detto, fatto. Da giovedì 25 marzo 2010 negozi chiusi al tramonto, e mica tanto dopo anche tutto il resto. Un bell’ambientino da film del dopobomba, che forse piace a certi tossici della trash TV ma dovrebbe far insorgere almeno idealmente tutti gli altri. Specie chi la Jane Jacobs l’ha letta, riletta, spiegata, commentata, la mette in bibliografia e nelle note.

Invece, per ora, silenzio. Forse che c’è anche un’ordinanza del sindaco per chiudere le saracinesche dei cervelli? Che si riaprono solo a una certa ora per le consulenze al Comune?

Il racconto di Stefano Boeri servirà a riflettere non solo sugli incidenti di percorso degli architetti celebri ma sulla debolezza del progetto nella nostra disgraziata temperie politico-culturale.

Devo dire in premessa che la Sardegna non l'ha presa bene. Questo spreco di risorse, che stupisce lo stesso Boeri, è una cosa seria. La Sardegna è allo stremo, i lavoratori delle fabbriche superstiti sono tutti sui tetti per segnalare la tragedia di troppi candidati alla disoccupazione per sempre. Per avere qualche milione di euro per le ordinarie manutenzioni di strade o di fogne i sardi devono combattere e non ce la fanno quasi mai ad ottenere ciò che serve. Che volete che contino un milione e mezzo di abitanti sparsi su un territorio vastissimo? La Sicilia chiede sei /sette miliardi di euro per un ponte inutile e dannoso? Pronti!

Dicevo del progetto. I primi architetti mandati dal re in Sardegna, nel primo Ottocento ( quando nell'isola non ce n'era neppure uno) avevano il compito primario di garantire la correttezza del procedimento amministrativo: attenzione ai conti, essenziali per un'opera pubblica, che dovevano tornare al centesimo. A seguire la bellezza del teatro o la comodità del palazzo civico. Se costavano il giusto erano più apprezzati, certamente più belli.

Ora pare - e Boeri non ha colpe dirette - che il progetto non sia più presidio di trasparenza amministrativa - come dovrebbe essere sempre. Sembra di capire che nel cantiere G8 i collaboratori entusiasti dell'architetto siano stati impegnati a registrare le soluzioni tecniche decise dalla cricca, la quale- ricordiamolo- aveva l'obiettivo primo di fare lievitare i costi. Quel progetto è stato travolto lì, ma chissà quante volte accade. Non c'è da stupirsi (e magari lo si poteva sospettare in quel di Maddalena). Si è indebolita nel tempo l'idea che il progetto debba avere un compito virtuoso, tenere le distanze dall'impresa altrimenti egemone. Lo sanno bene gli urbanisti quanto il piano sia stato fiaccato dall'idea che le soluzioni si debbano contrattare con i palazzinari. Architetti e urbanisti uniti nella lotta? Potrebbero farcela, se studieranno con cura le mosse degli “operatori” negli scenari del crimine: io mi sono appassionato alla lettura delle intercettazioni, alcune sono avvincenti (la cronaca è letteratura compressa- diceva Oscar Wilde) e spiegano tante cose utili a capire come gira il mondo.

Capita spesso di sfogliare qualche libro o articolo del genere “come eravamo” e dintorni, trovando più o meno imperdibili istantanee di vita quotidiana. Ivi compresi ritratti di personaggi ancor oggi sulla breccia. E spesso sorprende notare come anche alle più truci manifestazioni fasciste si possano intravedere, sparsi qui e là fra ray-ban specchiati e paleo-bomber di pelle, anche look vagamente hippy che dialogano a fiero cipiglio coi capibanda, magari direttamente con Almirante in persona. Sicuramente si stanno scambiando importanti informazioni su come rompere le ossa agli odiati “mao”, per difendere l’oltraggiata trinità suolo-famiglia-capitale, ma qualcosa automaticamente stride, guardando quei particolari. Osservazione che poi, come sappiamo, in qualche modo ha fatto più tardi la fortuna degli stilisti.

La medesima sensazione, speculare, si prova guardando certe manifestazioni di sinistra, dove agli slogan formalmente liberatori si accompagna la sfilata piuttosto lugubre di abitini tre pezzi grigiastri, andreottiani occhiali di tartaruga da mezzo chilo, capelli taglio caserma e/o oppressi dal cerchietto, scarpine da Fantozzi lucide, e probabilmente assai scomode. Una vaga perplessità prospettica che si rafforza scorrendo le didascalie di quelle foto, solo per scoprire che le date quasi sempre coincidono con la recentemente e (consumisticamente) celebrata Woodstock Generation. Qualcosa non torna.

Oppure, meglio, per indulgere al citazionismo: le stesse cose ritornano. Come avviene nell’intervento di Sandro Roggio (vedi link in fondo a questo intervento) sulla cultura poco ambientalista della sinistra, quando ricorda ai presidenti delle regioni Toscana e Umbria, trascinati nel gorgo del piano casa dall’iniziativa metrocubocentrica di Berlusconi, che “ l'idea dell'edilizia volano della ripresa economica è di destra”. Siamo sicuri?

Cioè, siamo sicuri che proprio sull’ambientalismo, sulla tutela del paesaggio, del territorio, della natura e dei beni culturali si possa davvero far passare la discriminante fra (taglio molto con l’accetta) progresso e reazione, liberazione e repressione, eguaglianza e privilegio?

Fuori da qualche sala di benintenzionato convegno, se ci si riflette un attimo non esiste assolutamente nulla, di implicitamente democratico e popolare, nella prospettiva che un giorno il sol dell’avvenire possa sorgere o tramontare su duplici filari di cipressi tutelati in modo progressista da una corrispondente politica. Certo, si tratta di una cosa altamente auspicabile, ma lo è in fondo per tutti: al massimo possono cambiare le priorità.

Per capirsi meglio, basta dare un’occhiata ad esempio oltre Manica, dove si sta ancora sviluppando il conflitto strisciante fra due idee del tutto coerenti (e per noi trogloditi politici superficialmente equivalenti) di tutela del territorio e delle risorse naturali: quella del Labour e quella dei “new” Tories della generazione di David Cameron. Senza spostarsi in ambiti di elevata complessità e dimensione effettivamente globale, con importanti risvolti solo scientifico-tecnici, per non parlare di quelli di equilibrio politico, basti l’esempio parallelo delle politiche per la casa: eco-città sostenibili a pianificazione centrale, o finanziamenti per i privati là dove le condizioni di mercato sono più favorevoli? ampio coinvolgimento sociale, locale, trasversale alle pubbliche amministrazioni, o decisionismo tecnocratico emergenziale dettato dall’urgenza ambientale-sociale? Su questi aspetti, non pare affatto di vedere contrasti netti fra le posizioni dei due partiti, che anzi nei casi concreti di realizzazioni locali vedono notevoli convergenze, salvo alcuni attriti di carattere contingente per bassissimi interessi di collegio elettorale (nella cartella di Mall Città/Spazi della dispersione sono disponibili decine di articoli che ruotano attorno alle varie facce del problema). Labour e Tories divergono decisamente, invece, quando si arriva al tema centrale della redistribuzione delle risorse economiche: modello new town (quelle vere, britanniche degli anni ’50-’60) aggiornato, per la sinistra, spinta a una “nazione di proprietari” per i nipotini cresciuti ma affatto pentiti di Margaret Thatcher.

In altre parole, non è la prospettiva di lettura del valore relativo di ambiente e territorio, a distinguere l’approccio di destra e di sinistra, ma quella di uso e accessibilità sociale di quel valore. Esattamente come non erano i capelli più o meno lunghi nelle vecchie foto di Ignazio La Russa o di Oreste Scalzone in piazza a distinguere quanto faceva loro battere più o meno il cuore.

E se si accetta questa premessa, forse si può iniziare a ragionare più serenamente e laicamente su tutela, sviluppo, giustizia ambientale, salvaguardia del territorio e del paesaggio, efficienza economica, e compagnia bella.

Esistono scelte coerenti e scelte che non lo sono affatto. Scelte “sostenibili” e altre che usano questo facile slogan per poi negarlo immediatamente nei fatti. Non c’è niente intrinsecamente di destra o di sinistra negli sconti del 30% a chi acquista una bicicletta, ma forse, quasi sicuramente, è di destra lasciare che poi a decidere tutto sia solo il mercato, nel senso dei costruttori, e di sinistra trasformare questa scelta in una politica pubblica che comprende pressioni per certi modelli più adatti a promuovere mobilità dolce, piste ciclabili, eliminazione di barriere ecc. ecc. Forse, per riprendere la critica di Sandro Roggio riportata in apertura, “ l'idea dell'edilizia volano della ripresa economica è di destra” è qualcosa da riformulare, almeno per precisare quando e come questi benedetti mattoni ci facciano salire le scale del cielo, o scendere negli inferi della disperazione.

Altrimenti, si rischia davvero ad ogni passo la caricatura. O quanto meno, quel genere di parlarsi addosso fra amici che si capiscono sempre al volo, e annuiscono sorridendo. Senza accorgersi che il loro gruppo si assottiglia sempre di più.

Nota: qui il citato intervento di Sandro Roggio da l'Unità (f.b.)

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

Per 9 anni hanno accettato. solo ora si accorgono che non va bene ? cosa è cambiato?

Gli interventi straordinari ed emergenziali sono una vecchia “malattia” del nostro paese, generalmente hanno provocato guai, ma l’incapacità di programmare per tempo opere secondo la loro effettiva necessità, di ben progettarle nonché di appaltarle secondo regole rigorose sembrano essere una costante, indipendentemente dai governi e dalle circostanze.

Le ultime vicende che hanno coinvolto la Protezione Civile rientrano pienamente nel filone sopra individuato e sorprende che tanti immemori esponenti politici e commentatori scoprano solo ora i guasti insiti nell’operare con procedure emergenziali per i c.d. grandi eventi fuori dall’emergenza. I meno giovani ricorderanno i fasti delle Colombiane o dei Mondiali di calcio : la catastrofe di questi due eventi segnò un’epoca nel nostro paese . Incompiute, soldi buttati, affari poco chiari , tangenti e così via.

Il successivo grande evento costituito dal Giubileo del 2000, dentro e fuori Roma, previde ancora una volta che gli interventi venissero realizzati da strutture commissariali ma la loro realizzazione venne ancorata alla recente legge sugli appalti, la Merloni, che il Parlamento aveva varato 2 anni prima sotto l’effetto di tangentopoli.

In tutti i casi, come nelle altre circostanze simili, vedi i giochi del Mediterraneo o il G7 di Napoli, si rendevano necessari leggi e decreti , gli eventi richiedevano il passaggio parlamentare che spesso aggiungeva al provvedimento in esame i così detti “ vagoncini “ , cioè altri interventi per accontentare questo o quello.

Troppe regole, troppi lacci e lacciuoli, troppi controlli per fare comunque cose su cui tutti , in fondo erano d’accordo. A parte qualche irriducibile Verde, ma si sa , i Verdi sono contro il progresso !

Quando nel 2001 il secondo governo Berlusconi si affaccia sulla scena affronta di petto la questione grandi opere e la questione grandi eventi. Per le prime vara la legge “obiettivo” con la sua ben congegnata sequenza di possibilità di superare vincoli burocratici, ridurre tempi, bypassare la Valutazione di Impatto Ambientale , per i secondi interviene in fase di conversione sul decreto legge sulla protezione civile, emanato nel settembre del 2001 per eliminare l’agenzia voluta dal governo Prodi e ricondurre il dipartimento sotto la Presidenza del Consiglio.

Infatti al Senato il Governo presentò un emendamento che, con il comma 5 dell’art. 5 bis, stabiliva che la protezione civile si sarebbe dovuta occupare di grandi eventi, attraverso le procedure straordinarie ad essa attribuite per le emergenze.

Nessuno obiettò nulla, tutto il dibattito parlamentare si concentrò sullo smantellamento della Agenzia e sul fatto che si riportava la PC alla Presidenza del Consiglio e anche sul “leso federalismo” che il provvedimento provocava. Anzi vi fu un autorevole senatore del PDS che salutò favorevolmente la norma dicendo che essa determinava una razionalizzazione generale.

Era proprio vero, ma non nel senso che aveva ispirato la dichiarazione di quel senatore : non era più necessaria nessuna legge per fare grandi eventi, bastava definire appunto come tale un accadimento tramite una ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri ed ecco che tutto era fattibile con procedure accelerate e straordinarie. La protezione civile, organo tecnico dello Stato, era ed è chiamata ad eseguire quello che il Presidente del Consiglio stabilisce sia un grande evento.

Negli anni, circa 9, si sono susseguiti governi di centrodestra e centrosinistra e tutti, chi più chi meno hanno fatto ricorso a quel tipo di ordinanze, con i soli e soliti Verdi a dire che la cosa non andava bene, ma, come si diceva sopra, loro sono sempre contro il progresso ! Nel tempo il concetto di “evento “ si è dilatato , così come quello di calamità o di pericolo per l’incolumità pubblica : ed ecco che a livello locale tutti hanno cominciato a premere perché questa o quella opera rientrasse nel novero di quelle che si potevano fare con le procedure straordinarie , anche se i finanziamenti derivavano da altre fonti. Come non ricordare che il passante di Mestre ha goduto delle procedure emergenziali, così come è successo per la tribuna dell’autodromo di Imola o per l’esposizione delle reliquie di un qualche Santo o ancora per i giochi del Mediterraneo o per i mondiali di nuoto di Roma, così come è avvenuto per il G8 alla Maddalena.

Non mi risulta che tali decisioni siano state contrastate dai tanti che ora si sono improvvisamente svegliati. Il comma 5 dell'art.5 bis, è stato utilizzato per 9 anni per fare di tutto, senza che nessuno ne chiedesse la soppressione.

É tanto vero che tutti (fatti salvi i soliti Verdi, contro il progresso) erano d'accordo con il 5 bis, comma 5, che durante il governo Prodi nè il ministro ai lavori pubblici Di Pietro, nè il ministro allo sviluppo economico Bersani , nè il ministro ai trasporti Bianchi nè il ministro all’ambiente Pecoraro Scanio mai si sognarono di metterlo in discussione e di proporne l'eliminazione. Se si ha la pazienza di controllare sulle agenzie di stampa si potranno trovare di volta in volta molti insospettabili personaggi, oggi in prima linea nel condannare le procedure emergenziali, plaudenti alle decisioni di utilizzare il comma 5 del 5bis per un’opera che stava loro a cuore.

Il comportamento del PD e dell'IdV è del resto comprensibile: entrambi i partiti erano (e sono) favorevoli nei fatti a procedure accelerate che consentano la rapida realizzazione di opere , basti pensare che Di Pietro ministro impedì di ricondurre le opere definite strategiche nell'alveo della VIA ordinaria, come richiesto dalla Commissione Europea, a cui sono di fatto sottratte dalla cosiddetta legge obbiettivo, da lui stesso difesa e mantenuta in vita.

Nell'esame del decreto in discussione ora si sono concentrati tutti sulla c.d. protezione civile spa e la battaglia in Parlamento e fuori ha riguardato l'art. 16 (e anche gli arbitrati).

Il Dipartimento della P.C. , come qualunque organo tecnico dello Stato , doveva mettere in atto quello che la legge e il Presidente del Consiglio decidevano e gli andrebbe contestata, semmai, una supposta mancata osservanza dei doveri di controllo che la legge gli impone, non facendo il polverone attuale in cui nessuno capisce bene quali sono i ruoli e le responsabilità.

Se si voleva invece fare una seria battaglia politica essa doveva essere condotta contro l’articolo 5 bis, comma 5 della legge 401/2001, che Berlusconi ha voluto, contenuto in una legge su cui le opposizioni hanno fatto a suo tempo una battagliucola parlamentare di facciata, mai intervenendo per abolirlo anzi mantenendolo e utilizzandolo tranquillamente quando sono state al governo.

Solo ora, molto tardivamente , si accorgono del meccanismo riguardante i grandi eventi ma hanno fatto la battaglia su “protezione spa”, ben attenti a non attirare troppo l’attenzione sulla norma di cui si è fatto eccessivo uso con l’assenso e il gradimento di tutti (a parte, come detto più volte, qualche Verde oscurantista). Non vorrai mica che la tolgano!

L’autore è stato Presidente della commissione Ambiente e territorio della Camera dei deputati e senatore per i Verdi.

Allora fece molto scalpore. Eppure pochi lo ricordano e ancor meno sono quelli che l’hanno ricordato.La bella giornata di lotta di ieri dei lavoratori “stranieri” ha avuto un precedente.

Il 15 Marzo del 2002 si svolse infatti a Vicenza il primo sciopero dei lavoratori migranti. Il primo e, purtroppo, finora l’unico proclamato da CGIL, CISL, UIL.

Una giornata straordinaria. Così la descrisse il Corriere della Sera: «Trionfo di colori, babele di razze.Sfilano e cantano sulle note reggae di Bob Marley. Ma il pensiero è fisso su un altro spartito: la nuova legge sull' immigrazione Bossi-Fini, vissuta come una minaccia per le loro speranze di lavoro e integrazione. È il primo sciopero di questi nuovi Cipputi dalle facce nere, gialle e olivastre. Non era mai accaduto in Italia che lavoratori extracomunitari, regolarmente assunti, incrociassero le braccia. E invece, per otto ore, le concerie, le acciaierie e tutto quel reticolo di imprese che fa di Vicenza una delle capitali dell' immigrazione, hanno dovuto fare a meno di quella che qualcuno ha già ribattezzato la “classe operaia con la faccia nera”»

Anche allora, alla vigilia di quello sciopero, aleggiava una preoccupazione: il timore di un’iniziativa “etnica” di lotta. Ma, CGIL, CISL, UIL decisero di affrontare il rischio lavorando su due versanti. Da un lato convocando assemblee di tutti i lavoratori nei luoghi di lavoro e dall’altro decidendo di rendere visibile con lo sciopero il lavoro e il protagonismo degli immigrati. Fu un successo rimasto nella memoria di tutti, almeno a Vicenza. Forse è anche per questa ragione che ieri sera alla grande “fiaccolata” di Montecchio Maggiore (VI) sfilavano accanto agli immigrati i rappresentanti di CGIL, CISL, UIL. Un vero miracolo! In questi tempi di divisione sindacale, anche questa è una notizia. Che l’impervia strada della ricostruzione dell’unità sindacale passi attraverso la spinta dal basso e il protagonismo dei lavoratori immigrati?

L’autore è stato segretario generale della Camera del Lavoro di Vicenza

Nella valanga di commenti sulla rivolta tascabile della banlieu milanese (che poi per collocazione fisica si chiamerebbe inner city) abbondano come prevedibile i riferimenti alle grandi categorie dello spirito. A destra come a sinistra, che si voglia dare la colpa di tutto, morto compreso, ai soliti comunisti e preti troppo solidali, oppure alla politica razzista e identitario-reazionaria dei leghisti e dintorni, gli argomenti sollevati finiscono prima o poi per evocare ciascuno a modo suo le medesime immagini. Che sono, prendendo un po’ alla rinfusa, quelle del sistema globalizzato di sfruttamento, dei flussi migratori indotti da guerre o fame, della legalità, delle regole, dei diritti, e chi più ne ha più ne metta.

Io volevo cercare di abbassare un po’ lo sguardo, come nella vecchia canzonetta della Bertè, quella che diceva “Più vicino ai marciapiedi, dove è vero quel che vedi”. E ci ho provato in quell’articolo intitolato MEGALOPOLI IN FIAMME? Che sosteneva più o meno questa tesi: le politiche urbane della destra, a volte invidiate o inconsapevolmente scimmiottate anche da certo centrosinistra, non solo hanno avuto un ruolo centrale nel costruire le premesse per il morto e i disordini di via Padova a Milano, ma ne stanno preparando un po’ ovunque, di casi del genere. Il meccanismo è quello classico che ben riassume ad esempio sul Corriere di oggi 16 febbraio un editoriale di Angelo Panebianco: “I ghetti si formano perché l'afflusso di immigrati spinge le persone che temono un deprezzamento eccessivo della loro proprietà a vendere. E quando il deprezzamento è compiuto, il quartiere si riempie di immigrati poveri”. Schematico, ma ineccepibile.

Molto meno ineccepibile l’atteggiamento di certe amministrazioni, che specie nelle grandi città non riescono a capire una cosa che parrebbe evidente: i ghetti a poco a poco stanno diventando le enclave borghesi di chi ancora abita in certi quartieri, via via circondati dal nuovo marasma urbanistico-sociale. Fatto di terziarizzazione, dismissione, chiazze di gentrification, e soprattutto della nuova e fluttuante marmellata dove si mescolano etnie, attività, classi sociali. Una marmellata che potrebbe essere fisiologicamente abbastanza omogenea, ma che la latitanza di politiche adeguate (sociali, urbanistiche, culturali, di animazione ecc.) comprime per nuclei separati sempre più incarogniti, dove solo un po’ di volontariato e tanta improvvisata buona volontà di solito riescono a mantenere un precario equilibrio. In via Padova era troppo precario, e da troppo tempo.

Forse qualcuno si ricorderà quando, cinque o sei anni fa, nella fascia sud dell’area metropolitana milanese un altro omicidio assurdo a Rozzano scatenò una polemica nazionale. La colpa, tuonavano i media allineati a destra ( e non solo) era tutta delle periferie anonime progettate dagli architetti razionalisti sui modelli di una ideologia spaziale totalitaria, sponsorizzata dalla sinistra e pagata coi soldi del contribuente. E allora, giù fendenti contro lo Zen di Palermo, o le Vele di Scampìa, o il mitico steccone del Corviale a Roma, solo per citare i progetti più famigerati. A parte certi eccessi e faziosità, in effetti quelle critiche non erano del tutto campate per aria. Però, come si replicò abbastanza presto da sinistra, per capire davvero la questione bisognava andare “Più vicino ai marciapiedi, dove è vero quel che vedi”.

E si capiva che quelle “periferie dei comunisti”, di solito costruite con leggi e governi dalla ferrea anima democristiana, qualche difetto nel manico potevano anche avercelo, ma scendendo dal satellite dell’ideologia schierata si notavano anche altre cose. Ad esempio che ogni tanto quegli spazi non erano tanto anonimi e opprimenti, oppure che i casi di degrado peggiore derivavano dalla realizzazione solo parziale dei progetti. Molti si erano dimenticati, per esempio, che la figura dell’operatore sociale moderno in Italia nasceva (come intenzione) nei primi quartieri popolari del dopoguerra voluti dal ministro Fanfani, proprio per guidare gli inesperti contadini inurbati a nuovi spazi, nuovi rapporti, nuove prospettive. Insomma quelle periferie “sovietiche” in tutto o in parte degradate non erano il prodotto di un modello socio-urbanistico della sinistra, o degli architetti sadici, ma anche, forse soprattutto, dell’opposizione di chi quel modello non lo voleva, e ne aveva sabotato lo spirito.

Ma i ghetti come quello che si è incendiato in via Padova, sono o non sono il prodotto di un modello? La risposta che proponevo nel pezzo di domenica citato all’inizio è:SI. Il modello, dispiegato ormai da lustri a Milano e altrove, e senza risposte alternative neppure culturali adeguate, è quello tanto bene esemplificato dalle realtà anche esplicite del dibattito sul “territorio”. Da un lato la città dei quartieri da decine di migliaia di euro al metro, riproposti ovunque, dall’altro le sacche di attesa, più o meno degradate, all’inesorabile arrivo delle ruspe, semplicemente più o meno dilazionato nel tempo. Sono questi, e soltanto questi, i temi che il dibattito sul nuovo piano regolatore, sulle iniziative dell’Expo 2015, ci propongono. Il tema sociale dell’abitazione emerge solo ed esclusivamente come grimaldello, ad esempio per creare l’ennesima emergenza e dichiarare procedure d’urgenza per costruire dove non si dovrebbe. Una volta costruito, poi magari si deciderà di lasciar decidere al mitico “mercato”. E tanti saluti alle case a prezzi accessibili.

Poi c’è l’altra politica di integrazione, quella del pattugliamento armato dei quartieri. Armi dell’esercito, della polizia, delle ronde più o meno legali e organizzate. Ma anche armi culturali, come l’idea stessa di integrazione a senso unico: siete venuti da “noi” quindi adeguatevi alle “nostre” abitudini. Il che è sostanzialmente una negazione dell’idea stessa di città, luogo dei flussi, dell’innovazione, del conflitto ma anche degli equilibri più avanzati. In sostanza, soprattutto in un’epoca di grandi mobilità come quelle determinate dalla globalizzazione, integrarsi è un percorso che deve coinvolgere tutti, e certi localismi da adoratori della polenta e cotechino, applicati all’amministrazione metropolitana, fanno onestamente piangere.

Tutto, senza nulla togliere ai fatti, ovvero (me l’hanno ricordato i lettori del mio intervento) che c’è un sudamericano che ha accoltellato un nordafricano, che c’è chi con la storia della solidarietà finisce per lasciar troppo correre, e poi che c’è un problema di convivenza, di razzismo ecc. ecc. che non c’entra nulla con certe questioni di quartiere … Tutto bene, e tutti d’accordo (con qualche divergenza, vabé).

Ma che i ghetti, dove succedono queste cose, siano una faccenda “urbana”, lo sanno anche certi sociologi improvvisati da salotto televisivo. E che la destra fascistoide da che mondo è mondo i ghetti li lasci marcire per poi sfruttarli a proprio piacimento (dagli sventratori dei quartieri romani negli anni ’30, a certa cinica politica americana fino ai nostri giorni) è un altro fatto. Mica un’opinione. Il modello Milano ce l’abbiamo davanti, e quei morti e feriti ci vanno a braccetto. Grazie per l’attenzione.

San Fratello, un paese nella provincia di Messina, sta letteralmente franando. Un’intera piccola comunità (1.500 anime, si sarebbe detto un tempo) è stata costretta in fretta e in furia a raccogliere poche masserizie e ad andare via in modo fortunoso: chi da parenti e chi in albergo o chissà dove. Anche la Calabria si sta ‘disfacendo’: Maierato, Pizzo Calabro, Gimignano, la piana dell’Alli, Acri, Castiglione Cosentino stanno inesorabilmente scivolando giù. Ma questi sono solo gli ultimi esempi in ordine di tempo, mentre l’elenco sarebbe lungo e attraverserebbe l’Italia intera, compresa la Sardegna.

Come è corta la memoria degli amministratori e, forse, anche la nostra. A parte le popolazioni coinvolte e i famigliari, chi si ricorda dei morti dell’alluvione di Capoterra dell’anno scorso?

Quali le cause? Sempre la stesse: una cattiva politica e la speculazione edilizia. Non sembri strano, ma le due cose sono sempre andate di pari passo.

Stando alle accuse dei magistrati di Firenze Bertolaso non sembra più il super-eroe, è ridotto a un essere comune con molte (forse troppe) debolezze, circondato da una corte variegata di rapaci: cosiddetti uomini di affari, con una spiccata capacità a fare i propri interessi; parentado vario (cognati, mogli e chissà che altro), sempre utile alla bisogna; politici sempre pronti a prendere e distribuire ‘favori’; donne che del corpo hanno fatto il loro territorio di guadagno. Troppi rapaci e troppi soldi, distribuiti al di fuori di ogni ritegno e delle regole minime di democrazia.

Povero quel popolo che ha bisogno di eroi, avrebbe detto il Nostro. E povera Italia che negli ultimi anni di eroi sembra averne avuto bisogno. Ora, basita, assiste al franare del super-eroe e assiste disperata alle frane dei suoi territori.

Da settimane gli operai di Termini Imerese chiedono a gran voce di poter conservare il posto di lavoro. Il loro è stato un carnevale poco allegro, se non per aver indossato la maschera di Marchionne con i denti aguzzi del vampiro. Anche gli operai dell’Alcoa di Portovesme e della Vinyls di Porto Torres chiedono di poter continuare a lavorare 8 ore al giorno e assicurare, così, cibo e alloggio alle loro famiglie.

Questi operai sono abituati a lavorare e non si sottraggono alla fatica neppure per difendere il loro posto, incatenandosi al deposito di carburanti del porto, esponendosi da giorni ai forti venti di maestrale in cima alla torre aragonese, incontrando con determinazione dirigenti locali e nazionali, parlando con chiunque esprima la volontà di ascoltarli.

Come è lontana l’Italia di questi operai da quella espressa dai cosiddetti imprenditori. D’altronde, come è lontano il modello sociale e imprenditoriale di Adriano Olivetti – di cui si celebra il centenario – da quello di quanti acquisiscono le imprese per smontarle e rottamarle con l’unico intento di fare affari. Per costoro ogni occasione è buona per fare denaro, persino un terremoto è ragione di brindisi e di serate piacevoli.

L’agenzia regionale per il lavoro ci comunica che si allungheranno i tempi dell’istruttoria delle domande di Master and Back, “in considerazione dell’elevatissimo numero delle domande pervenute in risposta agli avvisi pubblici relativi ai Percorsi di rientro ed ai Tirocini”. Ciò significa che ci sono migliaia di giovani sardi laureati e istruiti che sono andati fuori per migliorare il loro bagaglio culturale e tentano di resistere alle difficoltà che incontrano in questa Italia così avara con loro. Ritornano esprimendo la volontà di costruire un mondo che abbia un senso non solo per sé.

C’è un’Italia che frana, materialmente e moralmente, e c’è un’Italia che resiste alle intemperie e a questa brutta politica. Quale Italia avrà la meglio? Il quesito per il momento resta aperto.

Padana Superiore: solo a est di Milano Porta Venezia me ne ricordo in modo preciso almeno tre, di tratti urbani fatti così. Il primo è tutta la striscia di via Padova e varie trasversali, fino al ponte della ferrovia. Il secondo sta parecchie di decine di chilometri più a est, ed è il pezzo di via Milano a Brescia, fra il ponte sulla tangenziale e l’Esselunga. Il terzo è a Verona, verso Porta Vescovo. In mezzo altri quartieri, e soprattutto lo sprawl di capannoni, villette, svincoli che diluisce anche la percezione in una confusa marmellata. Ma se “scientificamente” si fa un pochino di andirivieni fra induzione e deduzione, così a spanne, l’analogia salta a gli occhi: medesimo asse stradale padano-pedemontano, medesima collocazione semicentrale in un grande centro di occupazione, medesima composizione sociale, urbanistica: fianco a fianco degrado, facce diversissime ma vistosamente “globali”, segni di ripresa, piccole attività artigianali e commerciali, atmosfera precaria. Medesimo futuro? Questo è tutto da vedere, ma il caso di Milano (che non è ovviamente neppure il primo) dovrebbe far pensare.

Se la storia di sicuro insegna, è pur vero che ciascuno impara quanto meglio crede. Sinora pare che la risposta prevalente della “politica” (virgolette quanto mai d’obbligo) copra il breve arco qualitativo che va dalla tesi delle mele marce da isolare, alla tolleranza zero tout court. La prima caratterizza le reazioni sedicenti progressiste, e presumibilmente in buone fede, con l’obiettivo della sedicente integrazione nel tessuto locale. La seconda, via via prevalente (forse sotto sotto più diffusamente apprezzata) è quella che si ripropone a Milano e in genere nei contesti di più preponderante presenza leghista-destrorsa. In via Padova in particolare, coincidenza curiosa al punto da non sembrare neanche tale, qualche antipastino di guerriglia urbana a sfondo non direttamente politico inizia proprio con la prima amministrazione leghista qualche anno fa, e la repressione dei centri sociali a partire dal più visibile Leoncavallo (la via Leoncavallo per i non indigeni è una parallela di via Padova, un isolato di distanza).

E sono addirittura dei primissimi anni ’80 le pubblicazioni sulla formazione dei ghetti urbani, organizzati secondo le classiche modalità di certi flussi di trasporto pubblico, o di nuclei di degrado immobiliare e crollo dei prezzi, ecc. Ma la risposta, se arriva e quando arriva, è al massimo una specie di nimbysmo decisionale, dietro al quale poi come si scopre via via si nascondono miserabili appetiti immobiliari pronti a salvare a modo loro la città a colpi di piccone risanatore.

Spostando e aggravando il problema, esattamente come accade coi blitz della polizia ai giardinetti nel caso del piccolo spaccio. Quando però il problema non sono una dozzina di ragazzotti, ma parecchie migliaia di persone, famiglie, interessi economici, aspettative sociali, lo zerbino sotto il quale nascondere la polvere supera le capacità dei nostri celoduristi tutti chiacchiere e distintivo. E la cosa esplode, basta un innesco qualunque.

Se ad esempio, oltre a smettere di intascare più o meno episodicamente mazzette, chi decide in materia di urbanistica si ponesse davvero il problema della città, e non di una caricatura postuma della City Beautiful di Daniel Burnham di oltre un secolo fa, magari si potrebbe iniziare a ragionare. Ma basta vedere cosa sta succedendo per capire che così non si va da nessuna parte: la Milano da due milioni di ciellini upper-middle-class sventolata nella teoria, nei fatti tangibili, negli obiettivi del piano in formazione, non lascia un centimetro quadrato di spazio urbano, sociale, economico, a chi oggi episodicamente incendia vetrine e ribalta macchine. E ahimè probabilmente la stessa cosa vale anche per le altre strisce di precarietà globalizzata sparse per la padania (e non) di cui si parlava prima, almeno se non si inizia davvero e in modo culturalmente responsabile a cercare di superare la contrapposizione “noi” e “loro”, visto che stiamo tutti, ma proprio tutti senza alcuna distinzione, sulla medesima oscillante barca. Il diritto di voto alle amministrative è solo un piccolo inizio, ma si deve fare subito. Con quello arriverà uno stimolo costante a ripensare la città, e a aiutare a casa loro, magari con sostegno farmacologico poveracci, gli sceriffi che ci stanno rovinando presente e futuro.

Nota: qui altri fatti e commenti (f.b.)

L’insegnamento della geografia scompare dai programmi scolastici. Dopo averla da tempo marginalizzata e relegata a un ruolo minore sacrificato da altre materie, oggi tagliano quella che reputano un ramo del sapere poco utile. La geografia non rientra insomma tra le competenze che i giovani è opportuno acquisiscano. Decisione allarmante. Non tanto in termini di posizionamento disciplinare all’interno delle classifiche scolastiche o accademiche, che è altro problema, ma per ciò che la geografia può dire ai giovani.

Si tratta infatti della disciplina che insegna a situarsi nel mondo. A comprendere come il mondo funziona, attraverso quali processi, contraddizioni, conflitti. Legge gli effetti di tali dialettiche, spiega la genesi e le dinamiche delle trasformazioni, analizza i modelli di organizzazione degli spazi. Uno sguardo capace insomma di esaminare l’incessante mutevolezza delle correlazioni – economiche, di potere, culturali, antropologiche... – per comprendere i cambiamenti della società in cui si vive. Aiuta di volta in volta a riposizionarsi. A prendere posizione. A essere consapevoli delle molte sfaccettature e interazioni che incorniciano e condizionano la vita.

Le mille questioni che affollano e affliggono il nostro tempo – le guerre, le povertà, i guasti all’ecosistema – rimarranno dunque senza ragioni? Ci accontenteremo che i giovani traggano informazioni e giudizi dalle mistificazioni mediatiche senza offrire bussole di orientamento e decrittazione? Ci arrendiamo senza coordinate critiche alla babele di internet?

Si vuole negare ai ragazzi di comprendere ‘dove’ sono, in che tipo di mondo vivono. Un dove che non è descrittivamente topografico, ma implica coscienza sociale, civile. Per molti versi anche esistenziale se consideriamo l’insieme dei campi relazionali, dai più minuti a quelli più complessi e ci addentriamo nei sentimenti di appartenenza ai luoghi.

Un taglio dei bilanci scolastici che sottende un visione miope della scuola e del ruolo della cultura, intesa come mero repertorio utilitaristico privo di spessore e problematicità. Un approccio che vede la geografia come una sorta di preistorico ‘tom-tom’, e la giudica superata dalle macchinette acefale che conducono al traguardo senza la necessità di percepire l’intorno. Attribuendo in questo modo anche agli uomini identità di automi acefali, pedine bendate da guidare su percorsi prestabiliti, che non sanno valutare e neppure intuire, incapaci di comprendere dinamiche pilotate da altri. Svuotati di consapevolezza, di coscienza. Privi della capacità di confronto e dello spirito critico che ne scaturisce. Alla fine di quel senso civico e della responsabilità sociale che ne derivano.

In questa era di disastri ambientali, crisi economiche, disparità sociali, la geografia, e la sua consapevolezza della matrice antropica dei problemi, è la scienza del disvelamento. Scoperchia le pentole, mette a nudo le responsabilità, facendo conoscere implicitamente denuncia. Una perdita importante nel generale svilimento culturale che questa nostra epoca attraversa.

Anche la geografia ha le proprie responsabilità. Una disciplina antica che non ha saputo mostrare i propri cambiamenti – che ci sono stati e sono importanti. Che ha mantenuto l’apparenza di una vecchia signora un po’ snob, di scarso appeal per sguardi attratti dagli sfavillii delle novità, dalle mode culturali – ma è meglio dire dalle etichette alla moda. Che presa da macerazioni interne (indispensabili quanto infinite e laceranti), ha perso di vista la propria utilità sociale. Anche quando il territorio, la sua complessità, la transcalarità delle correlazioni, erano al centro delle discussioni e degli interessi e la geografia poteva proporsi sulla scena culturale come interprete protagonista. Il metodo geografico può offrire strumenti preziosi di analisi e di progetto alle sensibilità e preoccupazioni per le sorti del pianeta e dei luoghi che lo compongono.

Il territorio e le logiche di relazione spaziale raccontano ciò che noi siamo. Armi formidabili di comprensione. Non rinunciamo a prendere coscienza, non lasciamo il nostro mondo in balia degli eventi senza sapere (e senza tentare di esercitare il nostro potere di controllo).

Paola Bonora è presidente del corso di laurea in Scienze geografiche dell’Università di Bologna

“Mi sun minga vert: mi sun russ!” Col suo eloquio spiccio, una trentina di anni fa il massiccio sindacalista della periferia milanese mi riassumeva la sua posizione su un problema di riqualificazione urbana. Ovvero il lavoro innanzitutto, poi magari proviamo anche a vedere queste faccende cosiddette ambientali che sembrano stare a cuore a certa gente … Presumo che a tutti sia capitato più volte nel tempo di incrociare queste posizioni, sfumate in un senso o nell’altro, e di sperimentare direttamente come e quanto da allora si sia evoluta e diffusa la sensibilità a queste tematiche, senza nulla perdere sull’altro versante, quello sociale of course.

Ma come si ripete sempre, c’è ancora tanta strada da fare: è ormai quasi scontato riflettere sulla qualità di cosa respiriamo, beviamo, mangiamo; e c’è anche la discriminante fra destra e sinistra, perché l’ambientalismo di destra spontaneamente pensa a pochi eletti che raggiungono la cima, e magari poi si trascinano la massa bue, mentre la sinistra vuole l’acqua pulita subito per tutti, il pomodoro biologico a portata di mano di tutti, perché ne hanno diritto … Però.

Però manca ancora qualcosa nell’equazione, ovvero il mitico territorio, inteso nelle varie forme che assume, di filtro per l’acqua di cui sopra che si purifica, di pompa per far crescere il bel pomodoro, e dulcis in fundo di aggeggio variegato sul quale camminiamo, costruiamo e ci scanniamo ogni giorno che passa.

Pensandoci bene, lo diceva già il vecchio profeta Isaia, “Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, fino a occupare ogni spazio, e diventano i soli proprietari in mezzo al paese!”. Ovvero stateci attenti a non consumare tutto il territorio, perché poi sono guai, e soprattutto a non lasciarlo consumare per pura avidità a pochi (Isaia era di sinistra? ma va?).

Però il Verbo pare proprio difficile da declinare, se dopo migliaia di anni siamo ancora qui ad ascoltare le stupidate dell’intellettuale organico canzonettista interista Roberto Vecchioni. Che dal punto di vista mediatico, beato lui, ha un impatto paragonabile a quello di Isaia, e di sinistra pure si dichiara pubblicamente da lustri, ma che poi casca nella seguente profezia: “l´unica soluzione è uno stadio nuovo, un po´ lontano dalla città, dove si possa fare davvero tutto il rumore che serve” (la Repubblica ed. Milano, 17 gennaio 2010).

La profezia di Vecchioni, a differenza di quella di Isaia, forse ha bisogno di qualche precisazione di contesto. A Milano, come in tanti altri posti, quelli che le archistar oggi chiamano superluoghi provocano un bel casino ormai da tanto tempo, e rischiano di provocarne ancora di più. Casino in termini di disagi, congestione, degrado dei quartieri ridotti a parcheggi, e casino nel senso più stretto dei decibel, prodotto non più solo dai boati della folla, ma anche dagli amplificatori degli eventi e concerti che i grandi luoghi di raduno umano in forma di massa consumatrice di qualcosa (in gergo superluoghi) sempre più offrono, con continuità nel tempo. E a Milano si è introdotto un limite ai decibel che gli abitanti della zona di San Siro, superluogo in nuce, potrebbero sopportare. Scoppia l’ira mediatica di Sir Paul McCartney, e i giornali scattano immediatamente, a raccogliere altre voci, dal boss Springsteen alla Lega Nord che da par suo propone di sostituire le rumorose star mondiali con spettacolini localisti in dialetto dai pochi decibel. Brr!

Doverosa tutela dei residenti o solo prospettiva culturale reazionario/strapaesana? Neanche una delle due, come lucidamente e inconsapevolmente ci spiega l’intervento di Vecchioni: ancora una volta, l’ennesima manovra di accerchiamento per “unire casa a casa, campo a campo …” ovvero lanciarsi nell’ennesimo assalto all’arma bianca a qualche altro dimenticato brano della Bibbia, ad esempio quello che dice “Essi avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali … si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt'intorno” (Numeri, 35:4). In altre parole, basta andare con lo stadio un po’ lontano dalla città, ovvero costruirne uno nuovo su quei campi, e portarsi via tutto il rumore e il fastidio, no? Tanto i campi non servono più, e in fondo anche nello stadio c’è un bel prato.

E poi dai! Ma quanto misuravano in realtà quei "cubiti" della Bibbia? Qui ci vuole precisione tecnica. Facciamo un bel convegno sul tema, finanziato dall’associazione costruttori, dal sindacato cantanti e dagli ultras del calcio!

Insomma ci risiamo. Qualcuno prova l’ennesimo colpaccio, ovvero speculare in città sulle aree del grande stadio e ampi dintorni, e anche sui “mille cubiti fuori dalle mura della città tutt'intorno” di biblica memoria. E per farlo coinvolge l’ennesimo pensoso intellettuale, pure di sinistra, che però inconsapevolmente rivela quanta poca strada si sia fatta in tanti anni nel diffondere cultura e consapevolezza.

A modo suo, e con parole più raffinate, il cantante ci sta dichiarando: “Mi sun minga vert: mi sunt interista”. Qualcuno glie lo spiega, di informarsi meglio prima di far pubblicità gratis ai palazzinari?

Ho seguito con molto interesse, il 16 giugno scorso, il convegno "Progettare la memoria - L’archeologia nella città contemporanea" e sono veramente lieto per questa iniziativa che Italia Nostra (nazionale) ha voluto intraprendere.

C’era gran bisogno di un approfondimento di quel tema e auguro che, com’è avvenuto per altri fondamentali atti dell’Associazione, anche questo possa costituire un valido riferimento unificante per tutte le sezioni, un messaggio illuminante per tanti cittadini volenterosi ed uno stimolo efficace per le istituzioni d’ogni livello.

Ho apprezzato in particolare due segnali ritrovati proprio sulla linea di partenza e su quella d’arrivo del convegno, come due cardini indispensabili su cui far girare una porta socchiusa, per riaprirla ad una questione particolare e decisiva accantonata da troppo tempo. Il primo riguarda l’immagine che fa da sfondo al cartoncino d’invito con il programma: il complesso dei Fori Imperiali spaccato dal superdiscusso stradone littorio. Il secondo sta nell’intervento finale del presidente nazionale di Italia Nostra, Giovanni Losavio, il quale ha detto senza mezzi termini che il rilancio del Progetto Fori è un obiettivo dichiarato e convinto di Italia Nostra, che va rilanciato e su cui ricominciare a lavorare con impegno. Appunto: ricominciare.

Allora c’è da chiedersi come questo obiettivo si sia offuscato e perso non solo nella linea del Comune di Roma, a partire dall’improvvisa morte del sindaco Petroselli, ma anche nella stessa Italia Nostra e soprattutto nella sua Sezione romana, che l’ha praticamente sepolto.

Con Antonio Cederna la Sezione romana aveva avuto il privilegio di essere la più agguerrita paladina del Progetto Fori ed anche in parte madrina attraverso il Piano per il Parco dell’Appia Antica coordinato da Vittoria Calzolari. Inoltre il pregevole Studio per la sistemazione dell’Area Archeologica Centrale promosso dalla Soprintendenza archeologica di Roma ebbe come coordinatore Leonardo Benevolo, che era stato il primo presidente della Sezione stessa all’atto della sua costituzione nel 1959. Ma negli ultimi tempi in questa sede si è parlato sempre meno del Progetto Fori. Di fatto prima lo si è accantonato, ma poi qualcuno l’ha anche avversato ritenendo bella e intoccabile via dei Fori Imperiali, mentre si ritrovava perfino una presunta difficoltà per la sua chiusura al traffico automobilistico. Tutto ciò usufruendo di quella gelosa autonomia e della tendenza all’esclusiva assoluta sui problemi cittadini che si è sviluppata sempre più nell’ultimo decennio e ne ha fatto una repubblica indipendente governata da un minidirettorio con poteri esclusivi.

Si è trattato, a mio giudizio, di un errore strategico che, abolendo un quadro generale, ha favorito le tante ricadute negative che stanno avvenendo e alle quali è sempre più difficile opporsi. Proprio Italia Nostra non avrebbe dovuto mettere nel cassetto quel grandioso programma di unificazione tra l’area archeologica centrale e il cuneo verde dall’Appia ai Castelli che avrebbe dovuto essere il fulcro culturale e operativo per un capovolgimento delle devastanti linee urbanistiche già operate e future operanti sulla capitale. Sicuramente il più grande intervento di archeologia urbana nazionale e mondiale mai ideato.

Vezio De Lucia, nel suo intervento al convegno, ha detto efficacemente che oggi c’è più che mai bisogno di assumere l’archeologia urbana come unidirezionalità culturale e di darle un forte ruolo di protagonismo "altrimenti l’esito non può essere che quello disastrante e disastroso del Progetto Fori". Un esito capovolto rispetto alle aspettative che aveva suscitato e al successo straordinario che aveva invece conseguito inizialmente nella cultura italiana ed europea, rafforzato dal forte apprezzamento e coinvolgimento dei cittadini romani di ogni ceto sociale.

Di quei tempi esaltanti, purtroppo di breve durata, ricordo la mia esperienza nel Pci, che ho trascorso anche con incarichi di responsabilità in una zona di Roma comprendente cinquantasei sezioni di partito, collocate in un vasto territorio di quartieri e borgate esteso tra le Mura Aureliane e l’estrema periferia della città. Più di una volta si erano affrontati problemi ambientali e di tutela, anche mutuati dalle ottime elaborazioni di Italia Nostra, ma riscontrando spesso un certo distacco o sentendosi dire che c’erano altri più gravi problemi di carattere nazionale o internazionale a cui pensare: il solito e ripetuto "quadro politico", sempre sovrastante e incombente che non lasciava troppo spazio a questioni passibili di venir rubricate nel cosiddetto "problema della fontanella", che magari proprio "fontanella" non era.

Quando invece fu la volta di divulgare e discutere il Progetto Fori nella sua portata culturale ed urbanistica esso fu sintomaticamente recepito senza obiezioni di sorta, anzi con un sorprendente entusiasmo. Forse avranno pure giocato, in quello specifico contesto di militanti, l’antimilitarismo di chi non voleva vedere carri armati e cannoni sfilare nel centro della città e l’antifascismo di chi parteggiava visceralmente per lo smantellamento di una simbolica e nefasta Opera del Regime, luogo di tronfie esibizioni e di parate anticipatrici di una guerra rovinosa.

Ma, al di là delle riunioni e indicazioni di partito, fu la città a rispondere con grande partecipazione e lo si vide nelle domeniche ai Fori, affollatissime, con splendide lezioni dei nostri migliori urbanisti ed archeologi sul patrimonio archeologico che ci stava di fronte e sotto i piedi e, di fatto, su quella Nuova Idea per Roma che Petroselli aveva politicamente lanciato quando non era ancora sindaco ma solo segretario della Federazione romana del Pci.

Ci tengo nel merito a ricordare che proprio su tale base programmatica il Pci ebbe a Roma un notevole successo nelle elezioni della primavera del 1981, conquistando il 35% dei voti mentre la Dc scendeva al 30. Ciò in netta controtendenza rispetto ai negativi risultati nazionali e nonostante l’accanita campagna elettorale messa in atto dagli avversari contro la giunta di sinistra in piedi dal 1976, in cui da poco più di un anno all’intellettuale Argan era subentrato quel prototipo di dirigente comunista che era Petroselli. Una campagna molto infuocata su cui soffiarono in particolare gli strumentali e martellanti articoli del quotidiano Il Tempo, con toni agitatissimi per il sacrilegio che si poteva commettere anche su via dei Fori Imperiali dopo gli scavi intrapresi su via della Consolazione per riunificare Foro Romano e Campidoglio.

Tornando invece all’accantonamento del Progetto Fori da parte della Sezione romana di Italia Nostra, posso dire di essere stato diretto testimone della fase decisiva in cui si passò da una forma di desistenza a un vero e proprio strappo. Fu quando si sparsero le voci che, su pressione del nuovo governo di centrodestra insediatosi dopo le stravinte elezioni del maggio 2001, si stesse approntando uno specifico vincolo monumentale per via dei Fori Imperiali. Chiesi, come membro del direttivo della Sezione, che questa si informasse e ne discutesse ma furono fatte orecchie da mercante. Saputo poi che il decreto ministeriale di vincolo era stato emanato (20/12/2001), sollecitai la Sezione a richiederne il testo per prendere una posizione ufficiale, ma la proposta non fu minimamente presa in considerazione, anzi mi fu risposto seccamente di andare a cercarmi quel decreto da solo. Per l’esterno si preferì far finta che non fosse successo niente, suscitando ovviamente molte perplessità in chi alla questione stava più attento.

D’altra parte ritengo che in questa occasione giocarono in parte l’influenza di nuove posizioni culturali come quella di Giorgio Muratore, anche lui del direttivo della Sezione, al quale poi il Messaggero del 12 febbraio 2002, giorno seguente l’anniversario della Conciliazione, dedicò un grosso articolo titolato "L’architettura fascista va salvata. Giù le mani da via dei Fori" in cui di fatto assimilava un selciato ad un’opera d’arte e arrivava perfino a dichiarare che "eliminarvi la circolazione risponderebbe solo a un criterio di komeynismo archeologico"; in parte i rapporti molto amichevoli con l’allora soprintendente Ruggero Martines che, adeguandosi rapidamente alla richiesta del Ministro e del Governo di allora, aveva confezionato il decreto; in parte, infine, l’orientamento politico verso un centrodestra in grande volata che un gruppetto organizzato cercava di consolidare anche in vista di proprie occasioni professionali.

Per queste ultime il precedente si poteva ritrovare nel "Protocollo di consenso" sulla mobilità preparato all’insaputa del direttivo e improvvisamente siglato davanti a televisioni e giornali il 9 maggio 2001 (a soli quattro giorni dalle elezioni nazionali e amministrative) dal vicepresidente della Sezione romana Oreste Rutigliano "per Italia Nostra", quindi anche con un ambiguo coinvolgimento dell’Associazione a livello nazionale, e dal candidato sindaco Antonio Tajani, che quella firma "di Italia Nostra" se la cominciò a sbandierare per bene come ciliegina ambientalista sul suo programma. La Sede centrale intervenne sbigottita per chiedere chiarimenti e smentire il tutto, ma ormai la frittata era fatta. Anche la presidente della Sezione romana, Maria Antonelli Carandini, rimase sconcertata e mi telefonò preoccupata a tarda sera chiedendomi si intervenire in qualche modo, cosa che feci immediatamente con una diffida a strumentalizzare la sigla di Italia Nostra, che inviai in particolare al "Maurizio Costanzo Show" perché questo si doveva tenere eccezionalmente a piazza del Popolo come conclusione della campagna elettorale di Tajani e, almeno in questo caso, il comunicato sortì effetto deterrente.

Lo stesso gruppetto tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 fece ancora pressione per ottenere la copertura di Italia Nostra su un’operazione sottesa a quel protocollo, relativa a interventi infrastrutturali nel centro storico di Roma e nel Parco dell’Appia Antica. Tale operazione, intrapresa segretamente in un paio di studi professionali, contava su un piano generale portato avanti da una Fondazione per la ricerca e lo sviluppo dei trasporti, fatto proprio dalla Regione Lazio (Storace) e dal Governo (Berlusconi), già avviato attraverso un accordo di programma e fortemente finanziato. Se non avessi denunciato io la manovra, la quasi totalità del direttivo della Sezione ne sarebbe rimasta del tutto all’oscuro. Secondo la mia cultura politica queste cose si possono anche chiamare "comitati d’affari".

Evidentemente a chi, dentro l’Associazione, era immischiato in tale iniziativa imprenditorial-politica figuriamoci se poteva interessare più che niente l’ormai d’altronde sepolto Progetto Fori, che di una nuova mobilità cittadina avrebbe invece dovuto costituire l’elemento centrale. Personalmente avevo già maturato delle forti divergenze con le linee di quelle persone in tema di mobilità (e non solo), ma quando per giunta e per un caso scoprii la suddetta manovra la smascherai in un tesissimo Consiglio direttivo (11 aprile 2002) augurandomi che Italia Nostra potesse dare un taglio netto con quel modo di procedere. Ciò però non avvenne grazie ad una reticenza complessiva e alla copertura che fu stesa sull’episodio, così il gruppetto consolidò le sue posizioni e fu perfino premiato entrando al completo nel direttivo della Sezione. Da qui in seguito è anche diventato il cavallo di Troia per l’arrembaggio alla direzione nazionale di Italia Nostra, contribuendo a provocare le dimissioni della presidente Desideria Pasolini dall’Onda, stimatissima fondatrice storica, e la presa di possesso da parte di Carlo Ripa di Meana, personaggio dalle mutevoli casacche politiche, immediatamente datosi da fare per la discussa svendita della sede nazionale di via Porpora, il prestigioso villino che i coniugi Astaldi avevano donato all’Associazione perché ne facesse il suo luogo più rappresentativo e preservasse così anche la loro memoria..

Tutto ciò che ho scritto finora è premessa alla questione che mi sembra sia rimasta un po’ elusa nel convegno: come portare avanti la linea che ne è scaturita, in particolare la proposta di rilanciare il Progetto Fori?

Non c’è più purtroppo Antonio Cederna, ma non credo manchino personalità in grado di farsi sentire con grande competenza attraverso una campagna puntuale e sistematica che sappia riprendere le fila del suo pensiero, riproporre la sua irriducibile tenacia, insistere appropriatamente in relazione agli oppositori e alla situazione politica di oggi, trovare i giusti alleati. Non dimentichiamo che quelle idee a suo tempo uscirono da un ristretto gruppo di intellettuali per allargarsi poi a tanti cittadini e diventare prezioso patrimonio culturale della città. Confido quindi che interventi su giornali e riviste, ulteriori e specifici convegni, collegamenti col mondo politico e anche imprenditoriale (vista l’entità di un’opera sicuramente più allettante rispetto al congelamento dello stato attuale), possano raggiungere buon fine. Certo i tempi non sono i migliori, ma occorre comunque lavorare se non per l’immediato presente almeno per il futuro, quando finalmente si riterrà inconcepibile che la maggiore superficie delle antiche piazze imperiali possa avere meno dignità, valore e tutela della soletta di cemento e dei sampietrini che la sovrastano.

La cosa più assurda è che si cerca di gettare ombra sui sostenitori del Progetto Fori accusandoli di ideologismo, mentre è proprio questo il principale elemento che sta alla base della presunta intoccabilità di via dei Fori Imperiali, che qualcuno preferisce qualificare come "asse stradale storicizzato" e mummificarlo, come si è cercato di fare con lo stesso indecoroso vincolo.

Mi fa specie, al proposito, la posizione che ho sentito ribadire nel convegno da Giuseppe Strappa, di cui peraltro apprezzo gli interventi espressi su molti altri casi. Non mi convince non solo il suo riferimento al solito motivo della "storicizzazione", ma anche la giustificazione che dà alla costruzione di via dell’Impero come continuità dello sviluppo di Roma per assi stradali, perché a mio giudizio non si può minimamente paragonarla ai rettilinei papali, finalizzati a riorganizzare tutta la città, stretti, funzionali rispetto alle dimore più o meno nobiliari che vi si dovevano affacciare. Ma soprattutto mi sento di respingere il destino che profila per l’ampio stradone. Già a suo tempo scrisse (Corriere, 24-11-02) che esso doveva "essere salvato dalla furia del nuovo "piccone liberatore": per permettere ai romani di riappropriarsene trasformandolo, magari, in un luogo per spettacoli, manifestazioni, riti civili. Uno straordinario foro moderno capace di tramandare il monito e la nobiltà dei fori antichi sui quali è fondato". Non mi sembra corretto attribuire in tal modo la qualifica di spicconatori a coloro che vogliono sicuramente rigorosi scavi stratigrafici (che nessun vincolo peraltro può vietare) all’interno di un quadro unitario e su un obiettivo straordinario che generi un nuovo sistema archeologico ed urbano. Né credo sia esaltante parteggiare, più che per le marmoree piazze imperiali ritrovate e riunificate, per un cosiddetto "foro moderno" di sampietrini. E poi per farne che? Magari proprio quelle kermesse di pacchiani centurioni e altro, quegli spettacoli assordanti o quelle incongrue adunate e parate che più possono mortificare il valore delle antichità circostanti e contribuire anche a danneggiarle. Quanto alla proposta dello stesso Strappa di valorizzare gli attuali percorsi sotterranei già presenti ma trascurati, niente da eccepire, purché essa non intenda saldarsi e stabilizzarsi con l’ibrida "proposta Fuksas" che, a costi comunque elevati, vorrebbe conciliare l’inconciliabile: il mantenimento della strada e una presunta continuità dei Fori.

C’è infine da affrontare e risolvere un problema tutt’altro che secondario: la questione della Sezione romana di Italia Nostra, che peraltro non ha partecipato al convegno e che continua a manifestarsi oggettivamente contraria Progetto Fori, senza avere nemmeno il coraggio di dichiarare apertamente e ufficialmente che questa grande idea propugnata da Antonio Cederna è morta e sepolta. Certo occorre battere resistenze ed incrostazioni, ma una forte presa di posizione dell’Associazione a livello nazionale, unita ad un suo vivo protagonismo, potrà di sicuro risultare vincente. Sarà in ogni caso necessario infrangere anzitutto la barriera di quella specie di "sacro pomerio" in cui si vorrebbero gelosamente restringere, senza alcuna interferenza, tutte le azioni sul territorio romano. Non è assolutamente concepibile delegare una decisiva questione di portata nazionale e mondiale ad un piccolo gruppo che si avvale impropriamente di una più che illustre eredità passata. Ritengo pertinente, al proposito, quanto ha scritto Francesco Scoppola: "Ciò che più dispiace nel caso dei Fori, come in altri, è il proporre o addirittura realizzare idee opposte a quelle di Antonio Cederna fingendosi o davvero credendosi suoi discepoli devoti. Il fatto grave è contrabbandare ciò che Antonio non voleva come se fosse un compimento del suo pensiero o un omaggio a lui. Pare trattarsi di un fenomeno contagioso: sempre più numerosi sono quelli che lo contraddicono nei fatti e lo ricordano a parole". Su queste parole dovrebbe meditare soprattutto la Sezione romana di Italia Nostra, che pure le ha riportate nel recente libro pubblicato a propria cura "Antonio Cederna – archeologo giornalista uomo poeta", avendo costantemente presente che tuttora al nome di Cederna è titolato solo quel misero belvedere, o meglio mal-vedere, davanti al quale, come un insulto, continua a scorrere imperterrito e ad emettere gas di scarico il traffico automobilistico.

Roma, 4 luglio 2009

foto f. bottini

Mio nonno già sul finire del XIX secolo ne combinava di tutti i colori per scappare da quei campi nella grande pianura alla confluenza dei due fiumi. Aveva una innata abilità manuale, e invece di rovinarsele, le mani, con gli attrezzi agricoli, preferiva cose un po’ più industriali: la carpenteria ad esempio. Il legno poi se lo portò via lontano, a costruire aeroplani, che la campagna al massimo la guardavano da molto lontano, o la usavano come pista da atterraggio.

foto f. bottini

Così anche mio padre, che di aeronautico costruiva solo modellini di balsa con “motore” a elastico, se ne è stato a rigorosa distanza da campi, fossi, filari e compagnia bella, allevando pure il sottoscritto nella totale indifferenza a quello che pure, nelle varie case suburbane dell’infanzia e dell’adolescenza, mi stava giusto davanti a gli occhi o sotto i piedi.

foto f. bottini

In definitiva, ad essere onesti, tutto questo ritrovato entusiasmo per le campagne mi puzza un po’ di bufala. Ecco, esattamente: puzza, e fango che si appiccica sotto i piedi, e canicola d’estate con quella botta ai polmoni se il vento gira dalla parte sbagliata rispetto alle stalle, o nebbia che ti stronca morale e articolazioni in certe mattine giù in valle, quando dai rami gocciola il gelo della notte e del sole sopra la testa non si vede ancora traccia. E però.

foto f. bottini

Però c’è anche l’aspetto, per così dire, postmoderno della questione, quello che il vecchio tricheco baffuto Ebenezer Howard chiamava già “ town-country” giusto mentre mio nonno, ignaro di queste riflessioni, se ne scappava dalle poco amate campagne a una pensioncina giusto nella periferia industriale dipinta da Boccioni. Una town-country metropolitana che nel bene e nel male oggi è il nostro spazio di vita quotidiano, dove tutto si mescola ed è difficile da distinguere. Forse anche impossibile da distinguere. E probabilmente anche sbagliato distinguere: cose come la città e la campagna in senso tradizionale, nella regione metropolitana sono concetti privi di senso. Lì tutto interagisce, deve farlo, e chi ci sta in mezzo deve cercare di capirlo. Tutti quanti, intendo.

foto f. bottini

Sono sicuro che in qualche modo l’ha capito Giovanni Gronda, che giovedì (ore 17, Cassinetta di Lugagnano, Palazzo Comunale) presenta il suo progetto di percorso ciclabile metropolitano Grande Gronda. Basta provare, idealmente o meno, a seguire con un dito su una mappa i nomi delle località elencate, per tracciare uno schema storico-geografico di straordinario interesse, e infatti si osserva come il percorso “potrebbe favorire la nascita di un turismo eco-compatibile che contribuisca allo sviluppo sostenibile dei territori attraversati”. Però credo che ci sia di più, e di meglio. Opinione personale naturalmente, ma le mie idee istintive sulla campagna e relativi miti le ho già spiegate prima e non posso farne a meno: che certi fumosi sottopassi tra Gaggiano e il Ticinese, o il patchwork di prefabbricati e granturco di Inzago, possano diventare l’idillio pastorale del terzo millennio, pare ipotesi abbastanza remota.

foto f. bottini

Per fortuna. E anche, all’opposto, addomesticare troppo certi cuori di tenebra palustri nelle anse dell’Adda a nord di Brivio, tirare a lucido i boschi di Coarezza nel tratto a monte del Ticino, con la campagna e la natura non pare azzeccarci molto, no?

Credo che, indipendentemente dai pur auspicabili risultati pratici dell’idea GrandeGronda, un suo portato ideale e immediato sia quello di mettere le basi di una nuova coscienza. C’è una recente canzonetta da cabaret che recita più o meno “diamoci un’aria metropolitana, in questa provincia italiana, diamoci un’aria metropolitana, da Baggio alla Martesana”. Molto seria e profonda la riflessione, nonostante il tono scanzonato. Dice in sostanza, non prendiamoci troppo sul serio, ma ricordiamoci sempre che certi localismi e ansie di ritorno al passato fanno solo ridere, e fanno solo il gioco di chi sfrutta queste nostre confuse aspirazioni a proprio vantaggio.

foto f. bottini

Che altro è, ad esempio, l’arcaica pensata centrodestra ciellina e milanocentrica del capoluogo da due milioni, e contemporaneamente la strategia local-leghista dei sindaci nel Parco Sud che rivendicano un proprio “sviluppo del territorio” a colpi di nuove lottizzazioni di dubbia utilità? Uno dei risultati di Grande Gronda è appunto quello di proporre una prospettiva di osservazione della realtà territoriale ad altezza d’occhio umano, stavolta senza né i morsi della fame contadina, né il mito della velocità futurista stroncato negli ingorghi della Tangenziale, presente e futura.

foto f. bottini

Iniziare insomma a riflettere davvero e sul serio sulla metropolitan community locale, e farlo dal basso, visto che chi pretende di guidarci si dimostra a ogni passaggio sempre più inadeguato. O magari crede di rappresentare qualcun altro, chissà.

Comunque, forse lo pensava anche il vecchio tricheco Ebenezer Howard contemplando la sua bella pensata di town-country: hai voluto la bicicletta? E adesso pedala!

la settimana prossima sarà decisiva per il paesaggio della Sardegna. Il piano casa (?) è in fase di approvazione, con qualche contrasto all'interno della maggioranza in Consiglio regionale, segno che si tratta di un provvedimento difficile da accettare anche per quelli più forti di stomaco. Ma temo che verrà approvato e sarà tra i peggiori nella classifica dei piani voluti dalle regioni nel solco dell' annuncio del premier. Una legge regionale che inciderà su un piano paesaggistico, con incrementi di volume pure nelle parti più delicate delle coste, è roba da non credere, ma non per chi - figuriamoci - ha pensato di cambiare la Costituzione con il lodo Alfano.

Lo aveva detto Berlusconi in campagna elettorale che sarebbe finita la carestia edilizia degli anni di Soru (“i migliori anni della nostra vita” potremmo dire noi osservatori appassionati di questi temi). E non è difficile immaginare il suo smagliante, terribile sorriso alla notizia di un'altra Regione che ha imboccato la strada maestra.

Tutto secondo il programma ispirato dalla demagogia pop che conosciamo bene. Prima si attizza l'insofferenza verso la pianificazione (l'individualismo antisociale è normalmente vigoroso). Poi basta azzopparle le regole, iniziando il processo di correzione del piano paesaggistico senza prendersi la briga di farlo davvero. Così si capisce quanto si può tirare la corda.

Il danno sarà oltre gli effetti del fai-da-te che si vedranno nell'isola. Perché la cosa peggiore è il messaggio che stanno mandando: la tutela del territorio è una fissazione di pochi pessimisti. I soliti del “partito del no”, che vaneggiano sul paesaggio invece di calcolare con ottimismo quanti bi-trilocali starebbero su quel costone così tenero che si taglia con un grissino.

Colpisce che vadano avanti nonostante tutto, nonostante le tragedie che hanno colpito alcune parti del Paese e che non hanno risparmiato la Sardegna.

Aiuto!

Postilla

Sembra che il Consiglio regionale stia animatamente discutendo quanto tutelare o non tutelare entro una fscia di 300 (trecento) metri, che per una larga maggioranza sarebbe l'area costiera da tutelare!.Sembra che si voglia consentire ricostruzioni con vistosi premi di cubatura al di là di questo limite.

Se per caso fosse così bisognerebbe dire che chi non preferisce il cemento al paesaggio, e ciò nonostante accetta questo piano di discussione, o è ignorante oppure è ipocrita.

La vigente tutela della costa sarda è ben più estesa e articolata dei quel limite geometrico. La aree da tutelare (anche con l'esclusione di nuove cubature e di infrastrutture) non solo è generalmente molto più ampia, (2.000 metri mediamente, con punte fino agli 8-10mila), ma è accuratamente studiata analizzando le caratteristiche paesaggistiche (visuali, ambientali, ecologiche, funzionali) di tutti gli ambiti costieri.

I limiti solo geometrici (quali i 150 m della legge Galasso 431/1985, i 300 m della successiva legge regionale 45/1989, anche i 2.000 m della legge regionale 8/2004) costituiscono una salvaguardia transitoria assolutamente grossolana ("colpi di sciabola", li definiva Alberto Predieri a proposito dei vincoli della Galasso), in attesa delle più accurate determonazioni della pianificazione paesaggistica.

Siamo veramente curosi di sapere se i consiglieri regionali sanno queste cose e, soprattutto, se ne terranno conto ed eviteranno di modificare le norme di difesa del paesaggio costiero con una successione di colpi di mano, quale quello che si perpetrerebbe col "piano-casa" se si volesse rispettare solo il miserevole limite dei 300 metri.

Un paio d’anni fa, forse anche di più, mi aggiravo per l’ennesima fascia medio padana individuata dal ras legaiolo locale come fabbrica di consensi e prebende a colpi di audaci sparate retoriche. In quello come in altri casi, le sparate non puntavano in basso, a colpire con le classiche salve di pallettoni da trecento lire qualche poveraccio in cerca di vita migliore. Puntavano invece ad altezza di portafoglio, e facevano un bel rumore gratificante: HUB!

Apparentemente perso tra le raffiche da trecento lire in valuta bossiana, forse non saltava sufficientemente agli occhi il senso di quel suono: hub vuol dire nodo e questo lo sappiamo tutti, ma nella retorica urlante delle tonnellate di rapporti faziosi, convegni compiacenti, e va pure detto opposizione spesso fessacchiotta e premoderna, si perdeva la strategia. Che consiste, nel caso degli strateghi così così che ci riserba il destino, nel buttarci dentro un po’ di tutto in quell’hub, che da cosa poi nasce cosa e tutto si aggiusta. Che sia nodo di trasporti, su gomma ferro reti immateriali persone merci, o dell’immaginario commerciale lussuoso nazionalpopolare middle target, o di servizi veri & presunti, il nodo si presta a diventare groviglio, e si sa che coi garbugli azzeccati o meno la cultura nazionale ci va a nozze. Così da un aeroporto nasce una stazione, o viceversa, e dentro ci vanno il palaghiaccio che poi quando si scioglie genera il parco per grandi e piccini acquasplash, o la cittadella della moda esclusiva che però - non sia mai - non vuole escludere nessuno.

Questa nuova iniziativa del governo sugli stadi, altro non è se non la ratifica istituzionale di un altro passo, coerente senza uno sbaffo, nella direzione hub, vale a dire c’è tanto spazio vuoto da valorizzare, concentriamo lì aspettative e investimenti, e poi vediamo come va a finire. Di solito va a finire che paga Pantalone, ovvero che nascono baracconi senza capo né coda, magari poi mollati a metà dopo aver consumato inopinatamente ettari all’agricoltura. Con lo stesso top manager, nel frattempo passato alla concorrenza, che a nuovi convegni spiega con la sua bella faccina di tolla come quello sia ormai (dopo due o tre anni in media, così vanno le carriere oggi) un “modello superato”. E con l’esperto pescato chissà dove pronto a spiegare al popolo bue e asinello le grandi prospettive della nuova cittadella, o legge deroga, o rete nazionale … E qui, casca appunto il popolo di buoi e asinelli.

Perché dura ormai da alcuni anni, quello che dovrebbe essere un dibattito sugli hub, ma non riesce proprio ad esserlo. Siamo ancora (lo ha confermato ad esempio il nostro ex faro di modernità Veltroni inaugurando l’ennesimo “centro commerciale più grande d’Europa”) ai salumieri che si incazzano per la concorrenza della grande distribuzione, o agli intellettuali che continuano in un modo o nell’altro a storcere in naso e basta. Mi sia consentita, per farla breve, una troppo rudimentale carrellata pubblicistica:

1) c’è una raccolta interessante di qualche anno fa, curata dal sociologo Giandomenico Amendola, La Città Vetrina, dove parecchi contributi affrontano comparazioni internazionali, analisi sui comportamenti nei nuovi contesti, letture storico-critiche. Poi arrivano gli architetti, e siamo al disastro, perché la prospettiva pare tornare a filo di parete, manco fossimo precipitati all’epoca dei primi progetti di Victor Gruen: il centro commerciale e l’hub a funzioni miste complesse come nuovo nodo di centralità, eccetera eccetera. Senza alcuna considerazione del fatto che i signori hub non sono affatto tali, perché nascono in una logica di puro mercato, e si fanno concorrenza l’uno con l’altro rubandosi il nostro territorio, che nessuno considera mai nell’equazione. E qui il peccato è veniale, visto che gli architetti in quella raccolta erano una sorta di ospiti invitati, e il mestiere del sociologo non è quello di arginare consumi di suolo, promuovere il mix integrato di funzioni sul territorio ecc.

2) passa un po’ di tempo ed esplode la faccenda Superluoghi, ovvero gli hub abilmente riconfezionati dallo stilista archistar. Qui scatta un bel meccanismo, che facendo uno strumentale strafalcione latino potrei anche chiamare rerum sunt consequentia nomina. La critica qui se ne è andata in ferie e alla eccezionale (almeno inedita per il tema) esposizione mediatica ha fatto riscontro il modestissimo contenuto della pubblicazione, e la vita effimera del sito (nonostante si trattasse di iniziativa apparentemente istituzionale) che quel dibattito avrebbe almeno potuto in parte ospitare e promuovere. La cosa induce a una interpretazione dietrologica ma andreottianamente plausibile: l’obiettivo era solo mediatico, di affermazione dello slogan-neologismo, e contemporaneamente del punto di vista generale degli sponsor, ubiqui e ingombranti come non mai.

Più modestamente e sistematicamente, prosegue però la riflessione scientifica sui temi, come quella che ad esempio ormai da anni sviluppano i ricercatori del Laboratorio Urbanistica & Commercio del Politecnico di Milano. E che ha prodotto proprio sulla Urbanistica dei Superluoghi uno studio in una prospettiva internazionale scritto da Mario Paris (Maggioli 2009), a sostegno di una tesi: si tratta di una chiave essenziale per capire le aspettative degli investimenti in trasformazioni urbane-territoriali, che si propongono di costruire un nuovo riferimento sociale e immaginario forte del terzo millennio. E non conta molto sapere se si è d’accordo o no, se e come questa prospettiva confligga con una immagine di mondo ideale dove commercio e servizi continuano a svolgersi in assolate o nebbiose piazze all’italiana, fra bancarelle porfido sagrato della cattedrale e portico del broletto. Insegnano, le riviste internazionali, che se questo vuole il “mercato” questo avrà. Gli outlet insegnano, coi loro portici folk finti, e sono solo l’inizio, che non a caso l’ennesimo top manager o sociofago a gettone qualche mese fa ha definito “superati”.

Il libro di Mario Paris molto significativamente riporta in copertina una foto dall’alto in cui si intravedono la solita ridda di scatoloni irta di impianti tecnici, una fascia autostradale a otto corsie e addendi che la taglia manco fossimo in un quadro di Mondrian, e le inconfondibili sagome di aerei accostati a un terminal aeroportuale. Non siamo dalle parti di qualche misterioso futuribile polo di sviluppo concepito dal comitato centrale del PCC o dagli sceicchi di Dubai, ma solo alla periferia di Bergamo.

Tutto il mondo è paese, e lo cantava anche Pippo Franco qualche anno fa. “ I cavalli nel Nevada, fan la cacca per la strada … Proprio come qui da noi, a Bergamo”. In definitiva, se non si vuole davvero che quell’ HUB! stia poi a significare il rumore del ruttino che tutti ci digerirà, forse sarebbe meglio cominciare almeno a smetterla con la pura indignazione, e/o l’attesa di conquistare qualche amministrazione locale per opporsi una manciata di anni a qualche processo, che poi ricomincerà tranquillamente una volta passata a’ nuttata. Questi nodi territoriali sono la strategia centrale delle trasformazioni urbane e di chi – sono tanti, importanti, pesano – ci investe sopra sul lungo termine.

Sta anche alla risposta culturale adeguarsi, cercare di capire, cercare di escogitare proposte innovative e sostenibili perché queste trasformazioni avvengano nel rispetto della città, della società, dell’ambiente. Ma per favore senza pensare continuamente a qualche tremante vecchina che trascina le ciabatte sotto le bancarelle del centro storico, visto che comunque:

a) la vecchina è una elettrice di Formigoni, Berlusconi, Galan ecc. ecc.

b) tra le nuove professioni del futuro i nostri top manager avranno già di sicuro escogitato anche il figurante/vecchina, un po’ come i pupazzoni viventi di Disneyland.

Nota: a puro titolo informativo, su Mall ho riportato presentazione e introduzione del libro di Mario Paris; probabilmente ne proporrò anche qualche estratto in futuro, visto che l'Autore mi ha gentilmente mandato dei brani scelti; sugli altri testi citati si veda ad esempio il contributo di Gabriella Paolucci sull'utenza giovanile nei nuovi territori del consumo, o l'articolo dedicato a suo tempo al tema superluoghi da Francesco Erbani su Repubblica (f.b.)

“Al fine di garantire migliori condizioni di competitività sul mercato internazionale e dell'offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all'aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l'esercizio dell'attività, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purché ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici”.

Poche righe rabberciate - infilate di soppiatto nella legge 99 del 23 luglio 2009, enfaticamente rubricata come "Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia" - per sovvertire decenni di giurisprudenza e fornire alle favelas di casa nostra la protezione che i palazzinari e gli speculatori non avrebbero mai osato immaginare.

Altro che condono edilizio. Per le lottizzazioni abusive realizzate affastellando roulotte e case mobili, il Legislatore, questa volta, non si è accontentato di una “semplice” sanatoria. Ha fatto di più, ha depenalizzato la fattispecie criminosa; ha affrancato da ogni e qualsiasi obbligo di autorizzazione “le installazioni e i rimessaggi di mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente”. In poche parole, ha reso lecito ciò che per decenni è stato perseguito dall’Autorità Giudiziaria Penale, che aveva costantemente rilevato l’alto potenziale distruttivo di tali realizzazioni.

Le conseguenze per l’ambiente saranno devastanti e la legge, retroattiva per il noto principio del “favor rei”, si frapporrà perfino alle sentenze passate in giudicato che quelle lottizzazioni avevano colpito. Bloccate tutte le demolizioni avviate, sospese le acquisizioni ai patrimoni comunali: dopo tre leggi di condono, ne arriva un’altra. La quarta. Nascosta, irrituale, “a gratis” direbbero a Roma.

Poche parole, congegnate ad arte da qualche oscuro azzeccagarbugli di regime, magari per risolvere problemi particolarissimi, nella deriva ormai incontrastata delle leggi ad personas: “Le installazioni e i rimessaggi di mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente – così il testo di legge - non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici”. Insomma, installare permanentemente “mezzi mobili di pernottamento” è oggi possibile. Ovunque e comunque, purché all’interno delle strutture turistico-ricettive all’aperto. E che saranno mai, nelle intenzioni del Legislatore, i mezzi “mobili” di pernottamento ancorché “collocati permanentemente”? Un ossimoro, forse. Come “ghiaccio bollente”, “copia originale”, “politico onesto”.

E, a proposito di onestà, non sarebbe stato più corretto dire che è stata cancellata tutta la giurisprudenza che per anni aveva sanzionato come “lottizzazione abusiva” l’installazione permanente di campi roulotte, container, case mobili et similia? Forse no. Forse era necessario utilizzare termini ambigui, per evitare la levata di scudi che, ahimè, non c’è stata. Obiettivo raggiunto, bersaglio centrato, dunque. Ora, finalmente, le favelas di casa nostra, le baraccopoli che saturano le “strutture turistico ricettive all’aperto”, le bidonville spesso collocate a ridosso delle spiagge, di siti archeologici e nei luoghi più incontaminati del Paese, hanno un proprio “scudo spaziale” che le proteggerà dagli assalti degli ambientalisti e delle toghe rosso-verdi.

La legge non si limiterà a frapporre ostacoli alla rimozione delle bidonville abusivamente realizzate, ma ne produrrà di nuove. Non male per l’internazionalizzazione delle imprese, vero?

Che io sappia, solo la regione Toscana ha impugnato la norma e, rilevandone il contrasto con la propria legge regionale, ha sollevato un conflitto di attribuzioni. Solo la regione Toscana. E le altre?

Salerno, 1 novembre 2009

La risposta del governo alle vittime dell’ultima alluvione del Messinese non può essere soltanto: “Costruiremo a tempi brevi le nuove case”, come ha ripetuto ieri il presidente Berlusconi. Non può essere cioè soltanto “edilizia”. Dev’essere una risposta ambientale che porti al graduale, ma sicuro, risanamento dello sfasciume di territorio prodotto dall’abusivismo e/o da concessioni edilizie dissennate, dalla mancata attuazione di ben 1.191 ordinanze di demolizione disposte dalla magistratura, da disboscamenti e da incendi criminali che hanno “cotto” terreni discioltisi alla prima pioggia violenta, dalla permissività dei Comuni e da una Regione che, forte di una autonomia speciale, non ha mai voluto un vero piano paesaggistico.

Ieri l’altro l’arcivescovo di Messina è stato chiarissimo parlando di “territorio sfregiato, violentato dall’uomo”: “Dateci la garanzia di un piano di sicurezza fatto di opere concrete e non di carte o di parole vuote, perché simili tragedie non debbano più accadere”. Assai più della semplice risposta “edilizia” di Berlusconi, la quale elude la causa di fondo delle ripetute tragedie messinesi, e cioè il dissesto profondo di un territorio già difficile, con 41 torrenti sotterranei che “dormono” anni e poi si scatenano furiosamente. Alla messa in sicurezza nazionale ha accennato giorni fa lo stesso commissario Guido Bertolaso ipotizzando la cifra di 25 miliardi di euro. Ottimistica, temo. Dopo la gigantesca colata di fango di Sarno (160 vittime nel maggio ‘98) il suo predecessore, lo scienziato Franco Barberi, parlò di 40 miliardi di euro per un piano nazionale adeguato.

Da scalare in più decenni e però senza saltare un anno, perché, se non si ricomincia subito ad investire nella difesa del suolo (si era iniziato a farlo dopo la legge n. 183), per turare le falle di sempre nuove emergenze si spenderà di più di quanto serve al piano nazionale. La commissione De Marchi stimò, nel ‘70, in 10.000 miliardi di lire (circa 5 miliardi di euro da rivalutare) la somma necessaria in venticinque anni per il risanamento. Nei trent’anni seguenti si è speso tre volte tanto solo per le emergenze. Oggi il servizio Protezione del suolo del Ministero dell’Ambiente dispone della cifra di 198 milioni. Niente.

Per questo si è chiesto di accantonare le opere faraoniche dedicandosi a questi piani strutturali da cui dipende il futuro stesso dell’Italia. L’ha chiesto anche il presidente Napolitano oggi, non a caso, nel mirino delle polemiche del giornale della famiglia Berlusconi (e siamo soltanto all’inizio). “Un piano di sicurezza”, l’ha reclamato sabato l’arcivescovo di Messina. Ma la risposta del premier è sempre la stessa: avanti col Ponte sullo Stretto, subito le nuove case nelle zone alluvionate. L’uno e le altre su terreni fragili, per giunta sismici. La messa in sicurezza? Alla prossima tragedia. Non fa spettacolo, non fa immagine, non fa “passare alla storia”. E i poveri morti del Messinese restano di serie B.

È di sinistra prendere voti di destra, da persone di destra, per un programma che loro condividono in pieno e che quindi è piuttosto difficile definire specificamente di sinistra?

Una bella domanda, neh?

Eppure è la prima cosa che viene da chiedersi dopo aver letto le percentuali che Francesco Erbani riporta nel suo articolo su Domenico Finiguerra e l’esperienza di Cassinetta di Lugagnano: alle politiche si vota compatti ben oltre il 60% per Berlusconi, Bossi & compagnia cantante; alle amministrative, voilà, tutto ribaltato, e una percentuale simile si riversa sul “comunista” Domenico. Nuovo mago della comunicazione? Diabolico manipolatore dell’opinione locale? Fortunato primo cittadino in un paesello di gonzi facili da abbindolare? Macché: siamo noi che non abbiamo capito niente, perché siamo retrogradi provinciali, con scarsa attitudine a una prospettiva metropolitana.

Tocca qui intendersi, però, su quell’aggettivo “metropolitano”. Dove la metropoli è da intendersi nel senso old-fashioned coloniale, di lontano centro direzionale da cui tutto emana e a cui tutto prima o poi dovrà rendere conto. Ovvero, non l’ormai paesanotta Milano ridotta a terra di caccia per fascistelli cresciuti, localisti in malafede e speculatori immobiliar-finanziari, ma la grande rete mondiale delle città globali: dove si involano l’immaginario, i quattrini, qualche delocalizzazione di lusso e molto altro. E che poi ci restituisce smaterializzatissime gocce di saggezza, che però vanno lette a modino, non scartabellate distrattamente alla ricerca di soluzioni manualistiche.

E cosa ci casca addosso, dalla mitica saskiasasseniana rete globale? Che ovunque da lustri si manifesta una forte tendenza alla suburbanizzazione, che si tratta di un processo “balcanizzante”, che le antiche categorie tradizionali di destra, sinistra, conflitto e dialettica sociale nel suburbio balcanizzato non valgono una cicca, e quindi che occorrono nuovi strumenti di lettura e analisi, se si vuole ricondurre (come credo tutti vorremmo) la prospettiva almeno a una dialettica fra conservazione, progresso, privilegio, eguaglianza, ambiente, sviluppo, e compagnia bella.

Le ricerche sui suburbi balcanizzati lo dicono appunto da lustri, ad esempio, che la tutela dell’ambiente locale, anche nella versione allargata di una maggiore attenzione al territorio agricolo, oltre che della “solita” sperimentazione tecnologica avanzata, non caratterizza assolutamente comunità a orientamento politico generale progressista. Basta pensare alla serie di meritori rapporti che la Brookings Institution ha dedicato agli anni della dinastia Clinton-Bush e alla polarizzazione degli stati rossi e blu sulle fasce esurbane: alla concentrazione del voto incarognito e reazionario corrispondevano più spesso che no anche atteggiamenti ad esempio assai orientati al contenimento di consumi energetici, alla produzione-consumo locale di alimenti freschi, alla tutela degli spazi aperti e del verde territoriale … Insomma tutti i parafernali che quasi automaticamente un commentatore nostrano rovescia senza pensarci un attimo nel cestino della Sinistra, che sarà pure orfana delle belle classi e categorie di una volta, ma sull’Ambiente … signora mia …

E invece, all’ombra dei pannelli solari, della cura per la flora e la fauna, finanche della democrazia diretta assembleare autogestita per le questioni amministrative mica poi tanto correnti della comunità, si nascondono razzismo, atteggiamento bigotto ai limiti della comicità, una granitica triade famiglia-soldi-individualismo da far paura, fino alle cose solite, tipo l’arsenale da dopobomba in tavernetta, il SUV rostrato anche se ibrido, il disprezzo per categorie sociali come insegnanti e immigrati.

E se guardiamo bene, nel senso di affacciarci oltre la classica membrana di prosciutto ideologico, con tutte le nostre varianti locali nazionali, regionali, provinciali, comunali, queste cose sono normalissime anche qui da noi. La gated community, da sempre vessillo di certa destra, non ha necessariamente bisogno del muro o del filo spinato nascosto fra i lauri, per essere tale: quasi sempre basta e avanza la barriera mentale alimentata dal solo pregiudizio, o da un informato, intelligente giudizio critico … ma pur sempre di destra. Domenico Finiguerra, nel suo piccolo territorio comunale chiuso a sandwich fra due (ancora per un po’) bellissime zone a parco metropolitano come la valle del Ticino e il Sud Milano, ne ha intuito intelligentemente il potenziale politico-identitario, ha saputo tradurre in pratica amministrativa e di consenso la sua intuizione, e ora conseguentemente porge il proprio modello all’attenzione di chi vuole ascoltare. Ascoltare: non fotocopiare.

Nota: sulle ultimissime tendenze alla balcanizzazione suburbana (oltre alla lettura di alcuni dei rapporti della Brookings che ho proposto tempo fa su Mall) c’è un libro appena uscito dedicato agli aspetti razziali, recensito da Lewis Bealeper Alternet; qui il link ovviamente all'articolo di Francesco Erbani, ultimo della serie "locale" da cui prendono spunto queste riflessioni; si veda anche per affinità il mio Sinist'-Dest'! nonché il breve scambio con Sandro Roggio (f.b.)

Se sono stato io a provocare la reazione di Fabrizio Bottini (eddyburg ci guadagna il bel contributo Sinist’-Dest’!) provo a discolparmi e mi attendo comunque la concessione di qualche attenuante. Da una parte le sintesi giornalistiche sono sempre a scapito della completezza delle argomentazioni ( mi riaccadrà anche ora); dall'altra giuro che quando dico – con l'accetta – di sinistra/ di destra non mi riferisco all'atteggiamento contingente di D'Alema e Cicchitto, ma a sinistra /a destra nel verdetto di studiosi (lo so che citare Bobbio è scontato: ma è lui che spiega bene che in una società complessa destra e sinistra si possano in più casi sovrapporre e intrecciare. Ma esclude che tali contingenze possano avere importanza decisiva). Figuriamoci l' hippy tra i fascisti, fotografato da Bottini, che è come una infreddolita rondine a primavera. O un doppiopetto ai congressi del Pci.

Ne sono convinto, la solidarietà ecologica e generazionale ( così per mia comodità di sintesi) è una cosa di sinistra. Se tengo nello sfondo la differenza indicata da Bobbio: la politica di sinistra è ispirata da ideali, guarda lontano; la politica di destra è mossa da interessi, guarda dietro l’angolo.. Qualunque cosa dicano, in sintonia o in discordia Labour e Tories, Bersani e Gasparri, importa pochissimo.

L'accetta mi serviva. A fronte di quella affermazione dei due amministratori di Toscana e Umbria secondo i quali sinistra vuol dire “attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro”. E a rincalzo il solito rimbrotto al partito del no, a chi vorrebbe “il territorio sotto la teca”. Roba di destra, ho scritto. Potrei finire qui, ma aggiungo un paio di cose perchè è troppo ricco di spunti l'articolo di Fabrizio Bottini (pure con la british memory nello sfondo e riluttante quanto basta a rievocare un passato compresso da un giudizio storico, che è sempre fazioso, ma sufficiente per prese di distanza dalla cronaca). Su un aspetto concordo con lui : “… non è la prospettiva di lettura del valore relativo di ambiente e territorio, a distinguere l’approccio di destra e di sinistra, ma quella di uso e accessibilità sociale di quel valore”. Appunto. Mettiamo l’affermazione nel qui e adesso di una lettura d’ assieme, senza ignorare il senso politico delle scelte in atto a proposito di accessibilità sociale ai valori comuni. Nel programma del Presidente del Consiglio, l’edilizia rivestirebbe il ruolo di punta per il rilancio dell’economia. Provvedimento “concreto”, che intende dare risposte alla recessione, cui si è fatto fronte con il solletico di social card e con progetti di federalismo che, allo stato attuale, sgravano lo Stato di interventi strutturali improntati alla coesione economica e sociale, e caricano Regioni Province e Comuni di ulteriori tariffe e fiscalità.

Ed ecco le Regioni che rientrano nei doveri di ruolo, dopo che il grande comunicatore viene avvertito che la legge deve essere concorrente e ripartita, magari con un passaggio in conferenza Governo-Regioni, con procedimento corretto e più meditato; infine consapevoli ( quasi tutti) di una giurisprudenza che ad esempio in Sardegna richiama lo Stato al principio di coerenza della azione amministrativa, si teme che gli interessi diffusi adiscano le magistrature in livelli di giudizio defatiganti, e dagli esiti confortanti per chi ha a cuore il paesaggio, come si dice nell' eddytoriale ultimo. Però le stesse Regioni si mettono poi, a guardare bene, nel linea tracciata da Berlusconi con l'etica deplorevole del male minore, che non produce molto riguarda l’accessibilità sociale.

L’edilizia volano dello sviluppo, tutti più o meno d’accordo a quanto pare. E’ un intervento congiunturale a bassissimo valore aggiunto di tecnologie e lo Stato se ne starà nella dimensione concessiva e concessoria. Un lasciafare al privato, che accederà a poco a conti fatti, in linea con le macchine dei carabinieri ferme e le ronde padane in piazza. Sappiamo com'è. Non un intervento organico sulla riqualificazione del patrimonio edilizio: la demotica per le disabilità in case datatei; non servizi a quartieri disgraziati; non fotovoltaico sui tetti delle scuole; non scuole e ospedali e carceri ripensati in relazione alla rivoluzione informatica. Eccetera. Lo Stato evapora: asseconda il processo di individualizzazione delle responsabilità sottraendosi ai compiti di welfare. Soffriamo per questo andazzo noi che ci diciamo di sinistra e magari lo siamo davvero, sempre con la patente rilasciata da Bobbio; soffriamo per la vicenda della Scuola riformata, da destra, senza una riforma; mentre si declina il paradigma di nuove povertà (i precari della formazione) dando ragione a Bauman: il nuovo povero non è quello escluso dai processi produttivi ma da quelli del consumo e perciò al sostegno alla produzione.

Guardiamo al mondo? Sì, e perché non proviamo a riflettere sulle motivazioni politiche che stanno dietro l’elezione di Obama e il suo graduale andare verso una riconversione globale dell’economia e dell’ambiente ? (che piace -?- pure a Berlusconi ovviamente per finta).

Sentiamo Rifkin: «Più industrie e meno emissioni ? – gli chiedono. «Esattamente. La terza rivoluzione industriale è quella che permette uno sviluppo economico che si concilia perfettamente con la riduzione delle emissioni... ».Le case come elemento trainante del nuovo modello energetico? «Uno dei quattro pilastri. Il primo è costituito dalle energie rinnovabili. Il secondo è rappresentato dagli edifici sostenibili. Il terzo dalle tecnologie basate sull' idrogeno che serve a immagazzinare l' energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Il quarto pilastro dalle reti intelligenti per distribuire l' energia secondo il modello del web».

Ecco, c’è un orizzonte di sinistra su questi temi. Meno angusto di quello che immaginiamo. Argomenti portati dentro un progetto articolato e difficile, che non si affida alle pulsioni anarchiche, strategico, politico, con la p maiuscola, ben altra cosa del favore permanente alla lobby di interessi legittimi – l’edilizia – da parte di politici che del consenso immediato hanno comprensibile necessità. E se si pensasse anche ai figli degli edili? Non sarebbe male mi pare. Perché sarebbe /è una cosa molto di sinistra che, ahimè, le forze di sinistra, o una parte di esse, soprattutto in Italia stentano a comprendere. Ma questa è una contingenza, insisto, che conta relativamente – direbbe forse Bobbio; che non balet a nudda – dicono in modo sbrigativo dalle mie parti.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

La direzione di marcia dell’attuale maggioranza si palesa sia nel ricorso al commissario per qualsiasi opera od azione calpestando ogni possibile obiezione o dissenso (è l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti) sia nella costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Queste, in sintesi, le considerazioni di Edoardo Salzano, nell’ Eddytoriale n° 128/’09. Poiché, con C. Napoleoni e F. Rodano, E. Salzano scriveva sui quaderni della Rivista Trimestrale, egli sa che già negli anni ’70 e ’80 si parlava della “incompatibilità di fondo tra capitalismo e democrazia”. Nel 1981, venne fatto presente ad E. Berlinguer d’essere di fronte ad un bivio: o la trasformazione processualmente profonda della società italiana sulla base di un “blocco storico” rivoluzionario, ovvero il ripristino, a livello d’azienda e di “sistema”, delle essenziali compatibilità capitalistiche, sulla base di una involuzione secca della democrazia e dunque di un “blocco storico” di tipo fascistico. Inoltre, Salzano sa che, nell’ottobre di quell’anno, Craxi imboccò la strada del riallineamento del lavoro alle esigenze esclusive del profitto, ed il percorso verso la china della soluzione reazionaria divenne inarrestabile. Rodano considerò come non obbligata questa seconda via e perciò non irrealistica la prima. Infatti, nei decenni del secondo dopoguerra, ai percorsi di Truman, Nixon, Kissinger, Tatcher, Reagan, si contrapposero momenti significativi in cui si affermò la via tracciata da Roosevelt, Kennedy, Brandt (e, in Italia, da Togliatti, De Gasperi, Moro, Berlinguer). Poi, la “sinistra” allentò sempre più i freni ed il baratro fu in breve raggiunto coincidendo il fine delle imprese (la massimizzazione del reddito/profitto) e quello generale del sistema stesso (il controllo totale del mercato e dello spazio fisico). Pertanto, Salzano ribadisce che la direzione di marcia dell’attuale maggioranza è “debolmente ed inefficacemente contrastata” dall’opposizione.

Non sappiamo dire se, in realtà, sia stata seguita una terza via o se il percorso berlusconiano differisca, solo in parte, da quello craxiano. Tuttavia, se Berlusconi può continuamente presentarsi come l’innovatore assoluto in tutto, ci dovrà pur essere una qualche ragione. Magistralmente, è riuscito a far apparire irrilevante, privata, la “confidenza” di Noemi L. ed importante, pubblica, la sua personale frequentazione della tesi di Naomi Klein. A lungo e nei particolari, s’è fantasticato sull’utilizzatore finale di avvenenti fanciulle italiote, ma s’è evitato di far luce sul come, dopo il terremoto del 6 aprile, stia applicando l’italica versione della “shokterapia” illustrata dall’affascinante giornalista canadese. Essenziale che la giovane Noemi riceva la ‘Coppa del nonno’ per la sua partecipazione al ‘Trofeo papi’ e debba la notorietà alle vesti succinte visibili nel book dimenticato da E. Fede. Marginale che la Naomi autrice del famoso saggio No Logo gli sia stata “presentata” dall’amico G. Bush solo in veste ridotta (?). Allora, crediamo che la terza via stia proprio nel saper mescere ogni cosa senza tanti complimenti e con sempre meno oppositori reali. Deve fare il “miracolo” di dare la casa a tutti gli sfollati. I suoi giornali, le sue TV ed i suoi “bravi” sottoposti, 24 ore su 24, ripetono: non distraete più di tanto il “Santo” di notte, giammai disturbate il “Ricostruttore” di giorno. Così, alla fin fine, come l’uomo del fare (e del fottere) ama più il vedere ed il “sentir dire” che il leggere, il suo popolo libero preferisce farsi turlupinare dal logorroico dire quotidiano, piuttosto che far sforzo per capire ciò che succede, tanto in Abruzzo quanto in Italia. Al 4 di settembre consegnerà la prima casa e tutto sarà risolto.

Lucidamente compendiando le poche osservazioni critiche apparse in questi mesi, Salzano propone una ulteriore chiave di lettura del fare di governo affermando che la direzione di marcia dell’attuale maggioranza “rende vera ed attuale, nel nostro Abruzzo, la frase di Noemi Klein: le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.

Nel seguito, riportiamo le sue argomentazioni, (riproposte nel testo pubblicato in Tiscali Italia on line) perché i commenti ivi lasciati dai fedeli/tifosi della causa berlusconiana, se non dall’alto orchestrati, sono “terribilmente istruttivi” e significanti l’esistenza d’una cieca, assoluta, fede nel “se-dicente” messia.

La vera tragedia del modo berlusconiano di procedere alla ricostruzione risiede in due scelte, tra loro strettamente collegate, che avrebbero meritato un’attenzione più ampia: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.Con la prima scelta si è colpita lademocrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano. Con la seconda scelta si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi”.

In un dibattere democratico, non v’è pretesa che tutti condividano questa posizione, ma se non fosse più lecito esporla pacatamente senza essere “linciati”, come è successo in questo caso allo stesso Salzano, allora, risulterebbe inconfutabile l’assoluta veridicità delle sue affermazioni: democrazia e tessuto sociale si uccidono anche sottraendo alla comunità ruolo e scelte nella ricostruzione dell’identità urbana e della polis.

Negli stessi giorni in cui fra le sterpaglie di Santa Giulia evapora la visione neocementizia dell’ex furbetto Zunino, qualche svincolo di tangenziale più a nord si recita a venti metri di altezza un altro atto del medesimo dramma.

Per attirare finalmente la dovuta attenzione su un caso che a malapena trovava spazio nelle pagine interne di cronaca locale, alcuni operai della INNSE di Lambrate sono (come sempre più spesso si fa ormai in questi casi) saliti su una gru, e intendono rimanerci fino a quello che hanno chiamato il “lieto fine”. Il caso non ha nulla a che vedere con la crisi, né internazionale né rionale: la fabbrica lavora benissimo, e ha abbondanza di ordini da evadere. Ma come succede ormai normalmente, quei terreni si trovano dove non dovrebbero stare, ovvero sul Pianeta Italia, e qui produrre (produrre qualunque cosa, anche sofisticati macchinari per il mercato europeo come si fa alla INNSE) è cosa “superata”, tutti corrono a “smaterializzare”, che non si sa bene cosa voglia dire, salvo forse che smaterializzati si scappa più in fretta col malloppo.

Quella fabbrica sta dove un tempo prosperava la Innocenti, quella della Lambretta, quella dei mitici Tubi Innocenti ecc. ecc. La vicenda è raccontata meglio ed esaurientemente nei dettagli da Loris Campetti nel suo Capitalismo Italiano , storia di fabbrica, di città, di classe e sviluppo economico-sociale. Tutto vecchiume superato, naturalmente: adesso vanno forte le sparate incredibili. Basta ripeterle senza battere ciglio e dopo un po’ tutti (quasi tutti, va!) ti vengono dietro. Come la panzana della Milano da due milioni, che adesso è diventata argomento corrente, cosa che ogni tanto si precisa giusto fra parentesi, per argomentare il nuovo progetto più o meno griffato, come quello che probabilmente anzi sicuramente è già pronto appena quegli operai riusciranno a farli scendere, dalla gru. Al posto della Innocenti, appunto, avanzano implacabili le compatte schiere dei banalissimi quartieri della nuova Milano da taroccare, tutti con la loro griglia stradale a cul-de-sac da lottizzazione brianzola, ma coi palazzoni multipiano invece delle villette, o il parcheggio dell’Esselunga (catena di distribuzione ufficiale della maggioranza cronica di centrodestra) al posto del campo di granturco. Per la piazza, c’è già quella del Duomo, no? Cosa volete ancora: comunisti!

Ecco, posto di lavoro e dignità a parte (a parte?) cosa ci stanno a fare quegli operai in cima alla gru. A ricordarci quanto anti-social sia e sempre sarà l’housing di questa gente e di chi la vuole scimmiottare. Qualche curva della tangenziale più a sud, pochi svincoli, cinque minuti se non c'è il ciclico biblico ingorgo, c'è il fantasma finanziario immobiliare che qualcuno chiama Santa Giulia. I mozziconi lasciati lì da Sir Norman Foster in mezzo a sterpaglie e corvi becchettanti, servono solo a ricordarci che fra non molto toccherà magari pure a noi salire metaforicamente su qualche gru, perché tocca ricordarsi l'antica massima di John Donne: non chiederti per chi suona la campana, suona sempre per te!

Il 23 luglio 2009, in Sardegna, sono bruciati 15000 ettari. Non è facile immaginare una superficie incendiata così vasta, qualcuno pensa che tutto questo porti a risultati positivi. Oggi siamo tutti più poveri economicamente, abbiamo meno boschi, paesaggio e possibilità, è come se qualcuno in borsa avesse bruciato i vostri investimenti, i vostri risparmi di 50 anni.

Tuttavia, chi lo ha fatto, deliberatamente, Vi ha sottratto un pezzo di futuro.Non sono certo dei ragazzini annoiati o degli idioti che vogliono liberarsi dei turisti. A Torralba, sul monte Arci, a Arenas, a Loiri, a San Teodoro, no!! Qualcuno, lo fa pensando che qualcosa volga a suo favore, e non è facile capire quale è il ragionamento.

Se entro 15 anni non si può cambiare da una destinazione d'uso ad un'altra, un terreno incendiato, se entro 10 non si può costruirci, e per 5 non ci si può pascolare, a che serve?

Se l'antincendio è professionalizzato e non si assume gente in funzione degli incendi e magari si compensa il servizio per il conseguimento di risultati, a che serve?

Può essere utile per allontanare i già pochi turisti, oppure può essere utile per costruire tra 10 anni, degli agriturismi nelle campagne bruciate. Il bosco non torna in 10 anni, non torna nemmeno in 25, ne, forse, in 50!

Noi tuteliamo gli arginelli dello Stagno di Molentargius per il fenicottero, i Sette Fratelli o il Monte Lora per 4 aquile, la costa di Bosa per i grifoni o l’area di Piscinas per i cervi, e poi, in 10 ore sono bruciati 100 siti di interesse comunitario, 3 parchi, protetti per anni dalle azioni pericolose, puntuali, minute.

Forse molti pensano che questo produca qualcosa di positivo e probabilmente non si rendono conto che non lo porta, che non è possibile e che comunque, tutto ciò, ci condurrà a vivere peggio, noi, loro ed i loro figli e nipoti.

Quando sparisce l'ombreggio, aumenta l'irraggiamento del suolo, i suoli si asciugano prima, l'aridità estiva arriva prima. I suoli asciutti sono più difficili da imbibire, sono meno permeabili, le piogge estive ed autunnali erodono più velocemente lo strato di alcuni cm, superficiale, quello più fertile, che sparisce, scompare e riprende seriamente solo quando la vegetazione è ricca, a foglie larghe (corbezzolo, querce, etc.).

Facendo così aumentiamo le possibilità di inondazione a settembre, ottobre, novembre, e non servono i soldi dell’Unione Europea, non servono i metodi di tutela idrogeologica, e molti morti possibili sono in agguato per frane o inondazioni.

Qualcuno si sentirà in dovere di far tutela, sistemare alvei e regimare corsi d’acqua, privarci di naturalità, di quanto rende più ricca la Sardegna, la naturalità superstite intimamente permeata di vita rurale.

Il recupero da tali situazioni è lento ed intanto noi, autolesionisti, siamo qui a dire che è arido, ma se il suolo è arido, c'è meno condensa e si formano e fermano meno nuvole e piove meno. Noi tagliamo gli alberi, cancelliamo i filari di ombreggio lungo strade e ferrovie, gli eucalipti nelle aree della bonifica e della riforma, abbassiamo il vento al suolo, riduciamo le zone d’ombra, le siepi, gli alberi in città e nei paesi, diminuiamo il fresco, aumentiamo il calore al suolo e l’evaporazione. Il bestiame figlia di meno, ha latte meno ricco e gli allevatori guadagnano meno, i coltivatori anche.

Il caldo non consente di vivere, non consente di pensare, di avere pensieri liberi e incrementare il caldo, la temperatura, vuol dire dover indirizzare risorse per ridurla. Questo è un modo per limitare la libertà di tutti, ognuno vedrà ridotte le possibilità dei propri figli e le proprie, sia economiche che di pensiero.

I morti non sono solo due, i morti sono tanti, ma i non nati sono molti di più perché l’impoverimento sociale e culturale sottrae più vite del fuoco.

Un ettaro non bruciato è vita, vita guadagnata, vita attuale e vita futura, libera, ricca di pensieri, di verde, di fresco, di possibilità.

Le possibilità cancellate in un momento dal fuoco, per 5, 10, 15 anni, sono pari alla durata dell’infanzia di 2 generazioni, che, dove è bruciato, non conosceranno la macchia, il bosco, la sua vegetazione, la sua ricchezza e saranno più poveri, di vita, di pensieri e di possibilità economiche, condannati da qualcuno che aveva pensato che il fuoco è meglio, il fuoco è grande.

Siate intelligenti, ogni ettaro non bruciato sono vite future, benessere e libertà ed una buona premessa per la felicità.

Razzisti, vergognosi sfruttatori elettorali di problemi irrisolti, classe politica impresentabile che ci porta fuori dal mondo civile … E allora?

Tutto vero, naturalmente, ma: e allora?

L’ennesima sparata di un leghista a caccia di voti facili, come tutte le sparate del genere, è andata perfettamente a segno, a modo suo. Prima si propone l’apartheid sui mezzi pubblici di Milano, una cosa che praticamente in tutto il mondo conosciuto è ritenuta repellente e costituzionalmente impraticabile. Poi a brevissimo termine la solita rettifica: era solo una battuta, per carità. Ma il sasso nello stagno è lanciato, e genera i soliti cerchi. Un incubo di meccanica prevedibilità: un po’ di signore, anziani ecc. per vari motivi frequentatori quotidiani dei mezzi pubblici che iniziano a pensare … beh, questi almeno propongono qualcosa; sul versante opposto, immediato passaggio d’ordinanza all’iperspazio galattico, condito anche da viaggi nel tempo, verso gli anni ’50, l’Alabama, o le leggi razziali fasciste del 1938 …. Tutto condivisibile naturalmente … Ma poi?

Poi, ad esempio, potrebbero a tutti tornare in mente le scenette (assai meglio recitate, elettoralmente parlando) del cognato di Craxi che urlava “fascista, razzista!” a un tranviere reo di aver litigato con gli zingari malamente accampati da mesi sul piazzale del deposito autobus. A telecamere spente, l’eroe dell’integrazione a spese altrui ordinava poi di sgombrarli, quegli zingari, magari per lasciarli accampare in condizioni e impatti anche peggiori altrove.

Le “reazioni” (virgolette d’obbligo) del centrosinistra alla nuova sparata sulle vetture riservate ai bianchi padani mancano anche dell’impatto mediatico delle antiche urla del sindaco milanese socialista: almeno lui strillava in mezzo a quel piazzale. I paladini dei pur condivisibilissimi Valori appaiono confezionare i propri prodotti mediatici in ambiente perfettamente sterile, forse proprio per non rischiare di mescolare le grandi categorie dello spirito alla realtà: quei vagoni della metropolitana che come sanno tutti fanno schifo, e resteranno identici (e pronti ad alimentare nuove sparate) se li si affronta a colpi di de-territorializzata, aulica solidarietà.

Proviamo invece a riassumere la questione in altri termini.

A partire dal fatto che la metropolitana di Milano fa sempre più schifo, perché sono mancati progettualità, investimenti, strategie. Non solo per pensare ad ampliare la rete, con opere che si sa costano moltissimo (e che probabilmente neppure i soldi dell’Expo riusciranno a coprire), ma ad usare in pieno le potenzialità di quella esistente. E sui mezzi di superficie, che sarebbero come ci insegnano le migliori esperienze internazionali complementari alla costosa dorsale sotterranea, le cose vanno anche peggio, appunto con mezzi sporchi, disorganizzazione, poca vigilanza e via di questo passo. I mezzi pubblici sempre più sono usati da chi per un motivo o l’altro non ha alternative, mentre ad esempio certe strategie per il territorio metropolitano sembrano ignorare o sottovalutare gli aspetti qualitativi e quantitativi della rete dei mezzi (a partire dall’idea demente del tunnel autostradale che collega i grandi progetti di trasformazione urbana in corso).

Ma nessuno ha parlato di queste cose, che notoriamente sono al 100% responsabilità di chi governa Milano da molti lustri. Beh: se non è masochismo, poco ci manca.

Nota: su un tema convergente si veda anche il mio commento a un articolo di Ilvo Diamanti dedicato alla Utopia/Atopia della sinistra italiana (f.b.)

Sinistra che era utopica, e ora si scopre atopica: c’è contraddizione? Mi pare di no. Certamente no: utopia e atopia possono tranquillamente coesistere, mescolando l’una i propri potenziali guai a quelli dell’altra.

E ha ovviamente ragione Eddy quando osserva, nella sua postilla all’articolo di Ilvo Diamanti sulla “Sinistra senza Luoghi”, che sembra mancare del tutto qualunque conoscenza di territorio, o forse meglio qualunque rapporto fra questa conoscenza e le idee di governo del futuro.

Ma mi tornano in mente, chissà perché, le facce di un gruppetto di giovani (studenti, presumo) che qualche anno fa alla fine di un convegno, dove fischiava prepotente il vento delle grandi categorie dello spirito, si sono avvicinati al tavolo dei relatori, puntando occhi speranzosi sul sottoscritto (che si aspettava invece di vederli virare verso le superstar accademiche locali). Il loro più audace portavoce, mi chiedeva poi rispettoso come avessi mai potuto escogitare un sofisticato metodo di indagine territoriale come quello che avevo esposto poco prima.

Gettandomi nell’imbarazzo più totale: quale metodo avevo citato? A quale teoria, a me evidentemente sconosciuta, si stava riferendo il mio giovane speranzoso interlocutore? Come potevo al tempo stesso non deluderlo, e cercare di uscire alla svelta da quell’equivoco?

Poi, ascoltandolo un po’ meglio, un raggio di sole ha squarciato le tenebre: il misterioso “metodo di indagine territoriale” che avevo appena esposto, interessando tanto i giovani della platea (e magari annoiando gli altri relatori), era quello di andare a vedere direttamente, e prendere qualche appunto. Fine.

L’interesse di quei ragazzi si era risvegliato perché parlavo di cose che conoscevano, facevano parte della loro vita quotidiana. Cose che però non ritrovavano mai, o quasi mai, nelle riflessioni sul “territorio” con cui si cimentavano nelle aule universitarie: ricche di affascinanti categorie, giudizi, definizioni, quanto disperatamente estranee al mondo tangibile fuori dall’aula. Insomma utopia e atopia in quel caso avevano chiaramente finito di sovrapporsi, confondendosi l’una con l’altra.

E si trattava fra l’altro di un caso alto e raffinato di confusione, ben diverso da quello più o meno praticato dal nostrano centrodestra, riassunto dall’articolo di Diamanti, e che vorrei qui riassumere con lo slogan di “ Earthquake Theme Park”, parco a tema del terremoto.

Cos’è infatti, essenzialmente, un parco a tema? Diamo un’occhiata ai fatti: si recinta un pezzo di territorio, ci si costruisce dentro uno spazio altamente simbolico, “falso” in quanto propone un’immagine del mondo dichiaratamente improponibile fuori da lì, e si fa pagare l’ingresso per godersi la simulazione. Poi scesi dalla giostra si varcano i cancelli nell’altra direzione, e arrivederci alla prossima visita! Manca qualcosa? Ovviamente si.

Mancano il resto del territorio, e tutto ciò che territoriale non è, ma su cui il parco a tema (sin dai suoi esordi, non solo Disneyland, ma anche esempi più antichi come i Sacri Monti) proietta nello spazio e nel tempo la propria luce. È esattamente quello che il centrodestra, ognuna delle varie componenti a modo suo, ma con una manovra complessivamente efficacissima, pratica da anni, e che ha raggiunto il suo punto più alto col terremoto in Abruzzo, e la trasformazione appunto di quel territorio in un recinto fatato, dove le favole sapientemente diventano realtà, e i luoghi carburante ad alimentare il motore dell’immaginario e del consenso. D’altra parte, anche gli altri aspetti diciamo così minori (le piccole giostre di paese che scimmiottano e/o replicano localmente il grande parco a tema) continuano imperterriti a funzionare: dall’ascolto vero o presunto degli interessi dei produttori di ricchezza, alla tutela della qualità degli spazi di convivenza, marchio “sicurezza”.

Come nei migliori parchi a tema, poi, a proiettare la luce della giostra sul resto della città e sulle tenebre della campagna ci pensano i mezzi di comunicazione, se si sanno usare bene. Quel recinto simbolico invade così il resto del mondo: sogno realizzato, o meglio quasi sul punto di realizzarsi, se non fosse per i soliti disfattisti dell’opposizione (per inciso: erano opposizione, al sogno si intende, anche quando erano al governo).

E sull’altro versante? Di solito, silenzio, o borbottio, qualche volta scimmiottature dell’originale, che ovviamente non riproducono affatto l’originale, e non si vendono come l’originale. L’utopia ridotta a misteriosa categoria dello spirito, oggetto di fede, soprattutto intangibile nella vita quotidiana. L’atopia, che si traduce anche nel pensare (quasi automaticamente) ai leghisti appena si avvista un gazebo bianco all’orizzonte. Poi magari si scopre che è una promozione di formaggi, ed è proprio da quel modello che le camicie verdi hanno copiato: non si potrebbe imparare almeno quello? A guardare e imparare, prima di lanciarsi in grandi utopie?

Intendo dire PRIMA, non INVECE: una distinzione che spesso si sorvola.

(*) Nota: curiosamente, Uto-Ato era anche un tormentone cabarettistico di gran successo negli anni ’70, lanciato dall’architetto Mario Marenco in una delle trasmissioni televisive di maggior successo di Renzo Arbore

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