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Il governo dei tecnici non è una novità assoluta. Novità assoluta è che abbia il sostegno dei due partiti più importanti, fino a ieri opposti, anzi contrapposti. Governo di tecnici fu il governo Dini che in campo culturale ebbe alcuni meriti come l’introduzione del biglietto nei musei in luogo della tassa di accesso, l’istituzione di alcuni Parchi Nazionali, il finanziamento integrale del nuovo Auditorium di Roma, ecc. Esso si mosse comunque sulla linea storica della tutela sedimentata con le leggi Rosadi (1909), Croce (1922), Bottai (1939), Galasso (1985) cercando di far prevalere l’interesse generale sugli interessi particolari e individuali.

Pensavamo che, dopo il tracollo vertiginoso, di regole e di finanziamenti, dell’era berlusconiana, il governo Monti avrebbe ripristinato una linea di dignità culturale capendo, oltretutto, che i beni culturali e paesaggistici in realtà “fanno immagine” più di ogni altra cosa. Purtroppo, per ora, non è così. L’inerzia, le assenze, gli ostinati e quasi ostentati silenzi – pur di fronte ad autentici scandali – del titolare del Ministero, Lorenzo Ornaghi, ricordano la latitanza di Bondi. Ma vi sono, ancor più allarmanti, taluni dati di cronaca. Intanto il ministro stesso, mentre non sta facendo praticamente nulla per i piani paesaggistici con le Regioni, esce dal catacombale silenzio per proporre – come ha sottolineato Eddyburg - una legge-quadro per l’urbanistica coi bonus volumetrici, le compensazioni di cubature e facili cambi di destinazione d’uso. Una rovina. In stile INU. Meglio che continui a non fare nulla se deve cucinare e sfornare piatti avvelenati del genere.

Ornaghi non lo si è visto, con Monti, nemmeno all’Aquila dove è disperatamente urgente avviare una seria e rigorosa ricostruzione. Si ricorderà che Berlusconi e il commissario Bertolaso avevano scelto una linea volutamente estranea alle esperienze riuscite di ricostruzione dei centri storici e di restauro di grandi beni storico-artistici come Friuli (in particolare Venzone) e Umbria-Marche. Dopo aver straparlato di “new towns” non sapendo nemmeno cos’avessero significato nel dibattito urbanistico di 40-50 anni fa, per i centri storici, a partire dall’Aquila, hanno lasciato le cose come stavano, cioè alle macerie. Presunzione sommata a incultura.

Il governo Monti non ha questa scusante, i suoi componenti sono, in molti casi, professori stimati, alcuni ci forniscono lezioni quotidiane, anche comportamentali. Eppure – in assenza del solito Ornaghi – esso ha avallato un rapporto ed una proposta dell’OCSE per la “resurrezione” dell’Aquila come smart-city che suscita sferzanti sarcasmi in quanti sanno cos’è un centro storico italiano, cos’è la Carta di Gubbio, cosa sono le esperienze di Bologna e di altre città, ecc. Rapporto dell’Università di Groeningen e proposta OCSE che Vezio De Lucia ha bollato così: “È un testo inverosimile. Da anni, da decenni, non si leggevano stoltezze simili, sembrano chiacchiere da bar. Non riesco a credere che invece siano state scritte da istituzioni autorevoli come l’Ocse, l’università di Groningen, il Ministero dello Sviluppo e le confederazioni sindacali”.

E su Eddyburg si è letto: si tratta di “un intervento per l’edilizia storica che si imita a conservare le facciate demolendo il resto, che considera meritevoli di una qualche tutela solo i “monumenti” demolendo “l’edilizia minore”, che promuove la sostituzione del paziente lavoro dell’urbanistica, della storia e del restauro con l’intervento “creativo” degli architetti, magari mobilitati da un concorso internazionale”. Una regressione raccapricciante, naturalmente digitalizzata, rispetto alle esperienze che sul piano dei restauri hanno fatto dell’Italia un modello avanzato - tecnico-scientifico e sociale - nel mondo.

Berlusconi predicava e realizzava, senza pudori di sorta, la politica dei condoni edilizie e ambientali, degli scudi fiscali, la tolleranza massima verso l’abusivismo (persino in Campania), in base al motto “ciascuno è padrone a casa sua”. Un sostanziale e generale imbarbarimento. Monti non può ripetere questi modelli sottoculturali. Eppure coi decreti di liberalizzazione e di semplificazione passano a frotte – per giunta col voto di fiducia - misure destinate a stravolgere in breve tempo la vita notturna (e quindi anche diurna), il traffico, le abitudini, le relazioni famigliari nelle nostre antiche e spesso conservate città. Locali di ogni tipo, anche quelli destinati alla vendita degli alcolici, anche le discoteche, potranno aprire senza alcuna autorizzazione preventiva sulla sicurezza (i controlli saranno ex post), compresi i famigerati e finti “circoli culturali”, lo stesso potranno fare le bancarelle. Di più: locali e bancarelle (se non porranno divieti i Comuni) non avranno più orari, neppure nella vendita degli alcolici. Lo stesso i distributori automatici di birra. Con quali pericoli per i più giovani è facile immaginare. Tutto sarà possibile, veloce, anzi immediato. In nome di una nuova “crescita” turistico-commerciale. Indiscriminata, incontrollata, e quindi brutale. Quella reclamata dai “bottegari” romani e, di fatto, concessa a forza di proroghe da Alemanno.

Nessuna misura di tutela è stata infatti prevista per i centri storici che già stanno degradandosi in maniera desolante a divertimentifici notturni e che espellono con “movide” sempre più rumorose e violente i residenti, ormai esigui, cioè gli ultimi presidii di controllo sociale. Scomparsi loro, avrà libero campo la malavita organizzata la quale –– si è pesantemente infiltrata, a cominciare da Roma, nell’economia effimera della notte, potenziando la già fiorente rete di spaccio degli stupefacenti dietro insegne di mera copertura. Lo sanno tutti, è strano che non lo sappiano ministri esperti come il prefetto Anna Maria Cancellieri alla quale il senatore Luigi Zanda ha indirizzato una lettera allarmata in proposito senza ricevere risposta. Vale anche qui l’antica legge di Gresham (1519-1579): la moneta cattiva scaccia quella buona, i locali peggiori scacciano i migliori, potendo pagare superaffitti negati a chi fa impresa in modo legale e leale. Una sorta di paleocapitalismo paramafioso, una continua dequalificazione imprenditoriale, commerciale, estetica. Tutto ciò non spaventa minimamente i tecnici neo-liberisti? La loro alta cultura non riesce a concepire regole, filtri, tutele, non vede gli spazi che spalanca alla criminalità maggiore e minore, ad un generale lassismo verso l’illegalità, con la caduta di controlli preventivi di sicurezza (oltre che di decoro, nascono negozi di una bruttezza oscena)?

C’è un altro provvedimento col quale questo governo – che pure parla di continuo di “aprire ai privati” - prende le distanze dalla cultura che in passato ha consentito, pur fra mille difficoltà, di tutelare il nostro patrimonio storico-artistico. Le dimore storiche, i palazzi antichi vincolati appartenenti a privati hanno fruito di agevolazioni persino ovvie nel pagamento di tasse e imposte. Invece, di fronte all’IMU, non ci saranno facilitazioni di sorta per enti e privati i quali conservino in pieno decoro gli edifici storici del Belpaese. Il risultato sarà di costringere non pochi proprietari a cessare una manutenzione finora attenta e magari a mettere sul mercato, a svendere in pratica ai soliti affaristi ben muniti di capitali spesso dubbi. Con la legge Scotti, ministro nel 1991-92, che accordava una detrazione del 27 per cento, l’Associazione Dimore Storiche calcolò che erano stati attivati restauri per 300 miliardi di lire del tempo e che lo Stato aveva recuperato, dalle imposte per i maggiori lavori, 147 lire ogni 100 alle quali aveva temporaneamente rinunciato.

Di tutto ciò sembra non esservi più alcuna memoria. Se Ornaghi non fa nulla per mettere in moto i piani paesaggistici con le Regioni, Passera & Ciaccia (Infrastrutture) vogliono togliere i fondi di Arcus, tutta da riformare, certo, ai restauri. Anche a quelli utili, utilissimi, come alcuni del FAI. Sta passando nel corpo vivo del nostro Paese una politica sorda alla cultura, come scissa dalla storia migliore del Paese, una politica che monetizza tutto e tutti: dal lavoro alla bellezza. E chi verrà dopo di noi? Si arrangi. E l’articolo 9 della Costituzione? Polvere del tempo, evidentemente. Cenere pre-moderna. Aridàtece Berlusconi, allora? No, per carità. Però dateci una politica per la cultura seria e dignitosa. Che non si limiti al ministro Ornaghi e al duo Emmanuele Emanuele-Vittorio Sgarbi. Per favore.

Qualche anno fa, se lo ricordano benissimo tutti, il centrosinistra si giocò le elezioni comunali a Roma per via della questione sicurezza e periferie. Il povero Rutelli, candidato a succedergli e almeno per una volta incolpevole, fu in qualche modo vittima sia del caso che di una serie di gaffes straordinariamente infilate una dopo l’altra dal suo predecessore Veltroni. Ne cito un paio a memoria: la promessa di risolvere tutti i problemi di viabilità di un mega centro commerciale con la metropolitana, l’atteggiamento apparentemente fatalistico, quantomeno tentennante, sulle turiste straniere falciate in centro da un pirata della strada. In tutti i casi, in un modo o nell’altro, il sindaco (o il suo ufficio stampa, ma è la stessa cosa al giorno d’oggi) dimostravano platealmente di vivere sulla luna rispetto ai veri problemi dei cittadini, di non capire affatto la città, di averne un’idea astratta, in definitiva di disprezzare i bisogni dell’elettore.

Ad esempio nel caso del centro commerciale, lo sa chiunque (chiunque non viva fra sale riunioni e auto blu, intendo) come il mondo di svincoli in cui vengono progettati prima questi scatoloni, il modello di consumo a cui fanno riferimento, siano da mezzo secolo plasmati sull’automobilismo di massa. Per capirlo fin nelle ossa basta provare una volta o due ad andarci senza auto, e per capirlo ancor meglio osservare le tattiche di avvicinamento di chi (pochi e con poca voce di solito) l’automobile proprio non ce l’ha. Nel caso delle turiste travolte dall’auto a tutta velocità si parlava di persone che avevano alzato il gomito e si aggiravano barcollando per le strade, oppure di comportamento criminale di chi non rispetta i limiti guidando, scordandosi ad esempio che in tutto il mondo esistono anche le zone pedonali, o comunque quelle in cui anche volendo non si può lanciare la macchina grazie ai percorsi e agli arredi. Specie là dove appunto c’è passeggio turistico, si mangia, si beve, ci si diverte. Insomma il massimo rappresentante istituzionale (non solo lui, ovvio) dava l’idea di non capire bene ciò che rappresentava: la città fatta di spazi e di gente che ci sta dentro dalla mattina alla sera. Adesso tocca a Milano.

A Milano non ci sono le elezioni incombenti, perché ci sono appena state e la signora che ha dimostrato di non capire (o non voler capire, chissà) i suoi elettori su temi chiave come vivibilità, periferie, trasporti ecc. è stata educatamente messa alla porta. Fra le grandi notizie sulle trasformazioni urbane, i grattacieli più alti d’Italia, il piano regolatore in discussione, l’Expo 2015, in questi giorni se ne è imposta una piccola, che apparentemente con le trasformazioni urbane non avrebbe alcun rapporto: l’uomo sbranato da un branco di cani randagi mentre passeggiava in un campo. Ecco una possibile trappola per il sindaco, del tipo che alla fine, come centri commerciali, turiste travolte o peggio, si paga alle urne e non solo: cosa sta dicendo la città con questo fatto di cronaca nera, su cui giustamente i quotidiani si stanno soffermando anche nelle pagine nazionali? Per dirla in termini gergali giornalistici, come mai stavolta il cane che morde l’uomo ha fatto tanta notizia? Provo a dare una interpretazione allargata.

Quando leggiamo, ormai un giorno si e uno pure, quelle statistiche sul pianeta urbanizzato, la nostra mente di sicuro evoca delle immagini, a commentare quei numeri, magari anche parecchio diverse dalla classica panoramica della foto redazionale (di solito grattacielo o baraccopoli). Ecco, è su questa immagine che si può giocare un’idea di città coerente, oppure più o meno campata per aria. Ed è sperabile che la smetta di essere quella che emerge dai giornali a proposito del poveraccio sbranato dai randagi “nei campi fra Muggiano e Baggio”, come ripetono ossessivi gli articoli citandosi l’uno con l’altro. Perché fra Muggiano e Baggio di campagna non ce n’è più da diverse generazioni, cerchiamo di capirlo una volta per tutte. Così come non ce n’è più, di campagna, in tutte le cerchie metropolitane in un modo o nell’altro scampate all’edilizia, parchi agricoli ufficiali o spontanei e temporanei. Greenbelt,termine bellissimo ed evocativo ma a cui bisogna dare molta più sostanza, se non vogliamo fare tutti collettivamente la fine dei sindaci, e poi ritrovarci di nuovo a piangere “sorpresi” nuovi guai.

La permanenza di attività agricole in area urbana non la trasforma automaticamente in campagna, soprattutto nel senso che l’uso sociale degli spazi tende ad essere altamente urbano. In campagna ci sono forse ricoveri di fortuna per poveracci senza il becco di un quattrino che non possono permettersi di meglio? In campagna pullulano forse ad ogni piè sospinto carcasse di auto incendiate, piccole discariche abusive, e tutti gli infiniti segnali che il 99,9% dei frequentatori di quei posti non ha mai munto una mucca, né piantato un seme in vita sua? Persino quel tizio che vediamo caracollare col trattore in fondo al fosso di irrigazione, magari lo fa solo part-time per via di legami familiari, mentre in realtà è titolare di un’agenzia di servizi per il turismo. In campagna con gli animali ci si sa comportare, in città no, soprattutto davanti ai mostri sconosciuti lontani discendenti delle mansuete bestiole abbandonate da qualcuno in fondo alla strada asfaltata. Certo, su un viottolo fangoso, ma da cui si distinguono ancora benissimo le insegne al neon dei supermercati, dove vanno a fare la spesa normalmente i contadini metropolitani. Solo, non chiamateli contadini, per favore.

Una volta c’era un modo solo per distinguere la città dalla campagna: dove c’è costruito e dove no, dove si coltiva e dove no. Il famoso pianeta urbanizzato oltre il 50% ci insegna almeno una cosa, ovvero che quella distinzione oggi è carta straccia, superata dagli eventi, insieme alla ideologica poesia agreste (inventata probabilmente da un latifondista). Esattamente un secolo fa il segretario della Garden Cities Association pubblicava un bilancio critico a pochi anni dalla fondazione (*), spiegando che il senso della “terza calamita” di Howard pareva in qualche modo travisato, che tutti parevano aver imboccato la via delle lottizzazioni di villette con giardino, invece di cercare un equilibrio territoriale diverso. Oggi siamo ancora allo stesso punto. Giusto a Milano, fra i primi vagiti progettuali per l’Expo era anche saltata fuori l’idea (non del tutto abbandonata) dei cosiddetti borghi rurali, che sotto sotto sottintendevano una sub-urbanizzazione a bassa densità. Mentre invece il concetto di greenbelt correttamente interpretato è davvero un margine invalicabile di sviluppo edilizio, a cedere il passo a spazi aperti e produzione agricola.

Ma appunto, spazi aperti e produzione agricola non significa discutibile miracolo urbanistico-sociale, ovvero la transustanziazione della popolazione urbana in allegri villici, che si aggirano a proprio agio fra animali domestici e selvatici, mucchi di letame, solchi bagnati di servo sudor. Significa l’idea di trasformare quelli che oggi sono residui di un’epoca finita (cascine, campi, sistemi di irrigazione, alberature)nei segni di un’epoca nuova, e soprattutto spazi neo-urbani. Dove urbana è la mentalità, urbano l’uso, urbane vigilanza e sicurezza. Dove i branchi di mostri almeno non possono nascondersi, e le istituzioni sono presenti tanto quanto fra i sussiegosi palazzi del centro. In definitiva, se capiamo questo, almeno si sarà fatto un passo avanti, e l’ennesima emergenza sicurezza avrà avuto uno sbocco positivo.

(*) Nota per veri appassionati: Ewart G. Culpin, The Garden City Movement Up-To-Date, London 1912

I giornali pubblicano in questi giorni, anche con una certa evidenza, alcuni particolari sulla fulminea carriera accademica del signor Michel Martone, baby-ordinario prodigio, che aiutano sicuramente a spiegare l’origine della sua indebita famigerata uscita sui cosiddetti sfigati che si laureano, orrore, a 28 anni. Ma in realtà non c’è niente di particolare nel curriculum del sottosegretario, almeno al punto da distinguerlo dalla maggior parte dei suoi colleghi: il percorso sostanzialmente esterno e parallelo della sua formazione, in pratica familiare e autogestita, la cooptazione pilotata sopra e oltre ogni logica o criterio obiettivo, il conseguente consolidarsi di un’idea di sé che produce, quasi automaticamente, quel sottile disprezzo. La cosa particolare, semmai, è che poi l’ha espresso ad alta voce.

Invece di prendersela col personaggio in sé, però, forse sarebbe più utile pensare al contesto generale che l’ha prodotto, magari limitandosi a qualche aspetto specifico, che a mio modesto parere rinvia comunque a un tema generale: sono trascorse generazioni da quando, a parole, siamo passati da una università di élite a una università di massa, ma nessuno sembra aver mosso un dito per adeguarsi. Martone, perfetto esemplare sfornato dal sistema che non dovrebbe esistere più da decenni (e che invece è l’unico legittimato a riprodursi coerentemente) ha sbadatamente urlato ai quattro venti ciò che di solito i suoi colleghi si dicono a voce più bassa in riunione, in commissione, o anche al bar, se non ci sono orecchie troppo indiscrete. Ovvero che l’università di élite è viva, vegeta, unica espressione culturale alta della nostra società, e la cosiddetta università di massa sta lì solo ed esclusivamente a far massa, appunto.

Del resto, perché ci si iscrive, all’università? La risposta di Martone è adamantina, e in linea con certe orrende idee già ventilate all’epoca del ministro (brrr!) Letizia Moratti. Ovvero si studia per migliorare le possibilità di carriera, chi non ce la può fare in questo meglio che impari a tirare di lima, o di scopino. Dimenticatevi, se mai ci avete pensato, se mai ne avete discusso, tutte quelle sciocchezze sui processi di formazione permanente spalmata su parecchi anni, anche discontinua nel tempo, anche mescolata nei temi, negli obiettivi, nelle discipline. Dimenticatevi il ruolo che l’università può svolgere e di fatto svolge eccome (lo dicono ad esempio i documenti ufficiali del programma Erasmus, fra tutti) nel costruire cittadinanza, democrazia, allargare e articolare il vetusto concetto di “classe dirigente”. Macché: l’autista guadagna dieci, l’ingegnere arriva a cento, se hai un MBA magari schizzi a mille. Tutto qui.

In questo caso gli articoli dei giornali sul concorso da professore ordinario di Martone aiutano davvero a capire. L’obiettivo, manco stessimo dentro alla sceneggiatura di Highlander, è vincere, vincere, ne resterà solo uno, affermarsi ad ogni costo. E non farlo, si badi bene, secondo il criterio che in teoria lì più o meno dovrebbe imperare (il contributo al progresso della scienza, comunque lo si voglia considerare), ma in una logica lobbistica e bottegaia da consiglio di amministrazione qualunque. Conta naturalmente il pezzo di carta, ma il resto è tutto azione esterna e parallela: il giovane è immaturo? Si farà, si farà! Garantisce la famiglia. E se questa famiglia, anche in senso allargato, cooptativo, putativo, non c’è o non ha forza sufficiente, allora si: sei uno sfigato. Non sai stare al tuo posto nel sistema delle caste che da millenni tutto domina. Forse sta qui, diciamo anche qui, il senso della parola “casta” tanto di moda oggi.

Mi riferisco all’interessante e puntuale articolo di Francesco Erbani Ue, soldi ai contadini che salvano il paesaggio, pubblicato da Repubblica e ripreso da eddyburg

La PAC nasce come politica settoriale, come intervento di stampo prettamente economico: erano gli anni immediatamente successivi alla guerra e il deficit alimentare dei sei Paesi fondatori della Comunità Europea rappresentava una emergenza, così come la necessità di sostenere un settore che aveva un peso economico e occupazionale ancora molto significativo.

Da allora le cose sono radicalmente cambiate: il contributo al Pil dell’agricoltura è calato, cosi come la quota degli occupati. In più la filosofia dell’intervento pensato all’indomani della stipula del trattato di Roma si era resa manifestamente inadeguata già nei primi anni settanta quando il tema delle eccedenze prese la ribalta anche mediatica e divenne il simbolo dell’insostenibilità ambientale, finanziaria e commerciale di quel progetto di politica agricola. Il progresso tecnico aveva aumentato le rese e svuotato le campagne, le politiche che schermavano gli agricoltori dal mercato consideravano l’agricoltura più un sistema assistito che una branca produttiva.

Cosi, all’inizio degli anni Novanta, il cambio di rotta e l’affermarsi dell’idea di una politica agricola che associasse alla sua funzione di politica economica, anche quella di politica ambientale e territoriale. Si apre un ciclo di riforme che progressivamente riduce l’importanza degli obiettivi economici, riducendo enormemente la distorsività dell’intervento, ed enfatizza quelli territoriali e ambientali.

Oggi entriamo in un’era diversa, in cui i mercati sono più turbolenti che in passato, in cui il cibo torna a divenire risorsa strategica, in cui l’agricoltore è esposto a rischi imprenditoriali maggiori che in passato. I censimenti ci indicano una riduzione importante delle superfici coltivate e in molte aree il rischio di disattivazione di porzioni importanti di tessuto agricolo è un rischio reale.

L’agricoltura sta rischiando di diventare più debole, nella stessa competizione nell’uso dei suoli che l’articolo richiama come una delle principali cause di degrado paesaggistico e ambientale del nostro territorio. I fenomeni che Erbani nel suo articolo addita come principali nemici della biodiversità e della tenuta ecologica e idrogeologica di ampie porzioni del nostro territorio nazionale.

Credo che la particolare condizione dell’agricoltore, anello debole della catena alimentare su cui spesso si scaricano le grandi incertezze che stanno caratterizzando i mercati agroalimentari in questi ultimi anni, richieda ancora una politica agricola che sia anche politica economica. Sposare una visione della PAC come politica ambientale, rischia di pregiudicare la continuità della funzione economico - produttiva dell'agricoltura, che pure è indispensabile per assicurare le funzioni ambientali richiamate dallo stesso Erbani. Va bene promuovere la produzione di beni ambientali da parte dell'agricoltore, ma perché ciò avvenga in maniera continuativa e diffusa l'attività agricola deve essere sostenibile anche sotto il profilo economico. Altrimenti il rischio è quello di perdere le preziose funzioni, dalla lotta al cambiamento climatico alla salvaguardia ambientale e paesaggistica, sempre richiamate dall’articolo.

La linea deve essere quella di perseguire un duplice obiettivo: sostenibilità economica e sostenibilità ambientale. Un concetto che oggi viene tradotto nello slogan "producing more polluting less" (produrre di più inquinando meno) anche nella prospettiva di una riedizione, a distanza di quasi mezzo secolo, dell'emergenza della sicurezza alimentare.

Quindi si alla promozione di una agricoltura più verde, ma si anche a strumenti che possano continuare a sostenere la funzione economica del settore agricolo. Attorno alla sua vitalità ruota la possibilità di tenere e valorizzare quel mosaico paesaggistico, territoriale e quel patrimonio di tradizioni e culture locali che trova espressione nel nostro paesaggio rurale e nella nostra offerta di ricchezze agroalimentari.

postilla

Il problema sotteso alla domanda conclusiva della nota (l’Autore è assessore alle Risorse agroalimentari Regione Puglia e coordinatore della Commissione politiche pgricole nazionale) è davvero gigantesco. Ci troviamo in un mondo dominato da un’economia (e un sistema di valori) che si basa sulla riduzione d’ogni bene a merce, e quindi sull’asservimento integrale del valore d’uso al valore di scambio. Il valore d’uso (la regione per cui determinati prodotti e servizi sono utili all’uomo e alla SUA crescita) è utile solo perché è laa base necessaria del valore di scambio. A tal punto che si inducono i consumatori a desiderare prodotti che non servono perché possano comprarli, e quindi permettere ai padroni dell’economia di ottenere valore di scambio (danaro). La leva che comanda l’insieme degli eventi economici (e sociali) è il massimo arricchimento di chi detiene il potere. In questo quadro lo spazio delle attività che si riferiscono in modod essenziale al valor d’uso è particolarmente difficile. Come trovare spazio, nell’uuso dei territori rurali, all’agricoltura che serve ad alimentare (e ad allietare) le popolazioni, quando sono più convenienti, sulla base del valore di scambio e dei profitti percepibiil, le colture sostitutive della benzina dei carburatori delle automobili , o quelle esportabili nel mercato internazionale? Per non parlare dell’altro aspetto della sottrazione di suolo ai bisogni vitali dell’umanità, che è la sovrapproduzione di aree urbanizzate.

Occorre cercare, con pazienza, le basi teoriche e pratiche di un’altra economia rispetto a quella capitalistica: questa non è stata l’unica a regolare i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente, non è detto che sia l’ultima. Può non esserlo, se l’uomo di oggi impiega meglio il suo pensiero e le sue pratiche. Tra queste, anche quella di incoraggiare (e pagare) un uso dell’agricoltura finalizzato a valori (quali il paesaggio, la bellezza, la salute) che nell’economia di oggi non sono riconosciuti tali. Certo, perché questo accada è necessario che la Politica torni a comandare sull’Economia: occorre che gli obiettivi della società siano dettati dalla crescita dell’uomo e non del so portafogli (meglio, del portafoglio di pochi).

Una sintesi dell’elaborato consultabile nel file pdf allegato.

In Italia, la tutela giuridica dei beni artistici e culturali nasce già dagli editti e decreti degli stati preunitari, ma le prime leggi organiche dell’Italia unita sono la legge n.1089 sulla “tutela delle cose d’interesse storico-artistico” e la legge n.1497 sulla “protezione delle bellezze naturali” entrambe del 1939. Nel 1948 la Costituzione della Repubblica in coerenza con la storia della tutela italiana, inserisce tra principi fondamentali all’art.9, “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Negli anni la tutela giuridica è passata da un concetto “estetico-percettivo” (cose d’arte e bellezze naturali) alla concezione di “beni culturali” e “beni paesaggistici ed ambientali”. Così è stato stabilito che “la tutela consiste nell’esercito delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”. Dal 1977, le regioni italiane hanno potuto legiferare in modo esclusivo e indiretto sull’architettura rurale, attraverso alcune normative riguardanti il paesaggio, lo sviluppo agricolo, l’agriturismo e il turismo rurale o con norme in materia urbanistica e di edificabilità in zona agricola oppure attraverso misure e bandi di finanziamento europei del P.O.R. 1994-99. Ma solo nel 2003, con la legge n.378, “Disposizioni per la tutela e valorizzazione dell’architettura rurale” lo Stato ha legiferato sugli edifici o fabbricati rurali e gli insediamenti agricoli realizzati tra XIII ed il XIX sec., che costituiscono testimonianza dell’economia rurale tradizionale della nazione. Nel 2004, è stato emanato il “Codice dei Beni culturali e del paesaggio” (D.lgs 42/2004 s.m.i.) che nel suo articolato comprende tra i “beni culturali” all’art.10 comma 4, l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale; come pure i “beni ambientali” da tutelare nella pianificazione paesaggistica delle regioni all’art.135, comma 4, lettera d) valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO.

Il 6 ottobre 2005, il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha emanato un Decreto, che definisce come individuare le diverse tipologie di architettura rurale presenti sul territorio nazionale, gli interventi ammissibili a contributo, le specifiche tecniche d’intervento e nello stesso D.M. viene istituito il Comitato Paritetico per l’architettura rurale. Dopo quest’ultimo atto normativo nazionale, nel 2005 la regione Liguria approva un Bando dal titolo “Salvaguardia e valorizzazione delle tipologie d’architettura rurale nei comuni dell'entroterra ligure”, nel 2006 la regione Campania emana invece la Lr. n.22/2006 "Norme in materia di tutela, salvaguardia e valorizzazione dell'architettura rurale" che si ispira alla L.n.378/2003. Mentre, nell’ottobre 2008, il Ministero per i Beni ed attività culturali pubblica la direttiva “Interventi in materia di tutela e valorizzazione dell'architettura rurale” (2008). Nel 2009, prima la Sardegna e poi il Veneto emanano bandi per accedere al Fondo nazionale per la tutela e valorizzazione dell’Architettura rurale. Ad oggi, pur sollecitate dal Ministero BCA, nessuna regione italiana ha ottenuto i contributi per la tutela e valorizzazione dell’Architettura rurale.

Dopo questo excursus sulla normativa di tutela l’Italia, siamo passati alla verifica dell’efficacia delle norme sull’architettura rurale nella regione Puglia ed in particolare dove è più densa ed articolata la presenza del patrimonio della “pietra a secco” (p. a s.). Se esaminiamo le aree con vincolo di tutela paesaggistica della L.1497/39 e decreti “Galassini“ L.4321/8% si può notare come queste aree di tutela del paesaggio interessino in minima parte le aree con costruzioni p.a.s., anche, dove, come nella Murgia dei Trulli, il Piano paesistico vigente (PUTT/p. 1998) aveva perimetrato l’area “Valle dei trulli” da sottoporre a sottopiano. Invece la tutela “monumentale” dei beni della p. a s. (L.1089/39), interessa alcuni rari grandi trulli o masserie, anche se naturalmente fa eccezione il centro storico di Alberobello, che ha un vincolo di zona monumentale e panoramica dal 1910, di tipo paesaggistico dal 1970 ed infine un riconoscimento dell’UNESCO 1996.

Oggi in Italia esiste una legge nazionale specifica sulla tutela dell’architettura rurale, ed in più alcune leggi regionali, ma persiste un contrasto tra tutela e trasformazioni urbanistiche ed una frammentazione delle competenze degli Enti che a vario titolo operano su tali beni culturali. Inoltre, la crisi dell’economia agricola ha portato all’abbandono dei suoli agricoli meno vocati e alla trasformazione del paesaggio agrario a causa dell’agricoltura intensiva, che riduce gli addetti e la necessità di risiedere nelle case sparse. In particolare i vecchi fabbricati in “pietra a secco”, sono oggi destinati o alla distruzione o all’alienazione turistica.

L’ultima parte del lavoro è dedicata all’esame dei nuovi strumenti di tutela: il primo di questi sono i Programmi triennali regionali per l’architettura rurale. L’associazione Italia Nostra della Puglia ha preparato un Proposta di Legge regionale “Norme per la tutela e valorizzazione dell’architettura rurale” d’iniziativa popolare (5 comuni o 15.000 firme di cittadini), e che dovrà essere accompagnata da una legge regionale per gli “Interventi di trasformazione urbanistica edilizia delle zone agricole”. Nel 2010 è stato adottato il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) che oltre alle analisi del “Patto città-campagna”, alla carta dei Beni regionale dei culturali ha anche, predisposto un allegato con “le linee guida per il recupero, la manutenzione e il riuso delle’edilizia e dei beni rurali” ed in particolare “le linee guida per il restauro e il riuso dei manufatti in pietra a secco”. Si era ipotizzato qualche anno fa per le aree come la Valle d’Itria, di istituire un “Parco rurale” come “Paesaggi terrestri e marini protetti” classificati dall’UICN. Un altro strumento di promozione dell’identità collettiva e del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico sono gli “ecomusei” quali luoghi di museo permanente nel territorio per i quali di recente è stata approvata la LR 15/2011 d’istituzione degli ecomusei della Puglia.

L’intervento giunge alla conclusione che serva una “tutela integrata” che sia coordini le leggi, i piani, gli enti e le risorse per un recupero del valore patrimoniale ed identitario del patrimonio della “pietra a secco”.

Eddyburg ha salutato l’avvento del governo Monti con il commento “meglio una banca che un lupanare”, siamo proprio sicuri? Credo che i provvedimenti finora adottati e soprattutto le sue intenzioni programmatiche vadano esaminate con molta attenzione per evitare che il sollievo per la temporanea rimozione di Berlusconi ci renda orbi come gli editoriali strapuntino di Scalfari. La posta in gioco è alta. Non si tratta di scegliere tra una puttana di buon cuore o un banchiere cattivo, come in Ombre rosse, ma di capire che al motto di “coesione” stiamo consegnando senza resistere tutti i beni comuni agli investitori.

Coesione sociale senza giustizia sociale

“Piove sul giusto e sull’ingiusto. Solo il giusto si bagna, l’ingiusto gli ha rubato l’ombrello” , dice il proverbio cinese.

Spread e coesione sono le due parole più ossessivamente ripetute da giornalisti e politici. Una è sinonimo di divisione, divario; l’altra di unità, unione. Coesione, però, non è sinonimo di giustizia. I rematori di una galera si muovono allo stesso ritmo imposto dalla frusta del padrone. Remano coesi, si potrebbe dire, così come i forzati che raccolgono cotone o costruiscono strade legati ad una catena che li fa muovere come un’entità unitaria. Coesione senza giustizia è il modo migliore per usare il lavoro di molti a vantaggio del profitto di pochi. Che un intero popolo sia indotto non solo a dissanguarsi per questo obiettivo, ma a riconoscerlo come suo, è un capolavoro di retorica, la vera alzata d’ingegno dei professori.

D’altronde come spiegano gli strateghi militari, chi vince l’infowar, la guerra dell’informazione, vince la guerra, inclusa quella attualmente in corso che, a scala mondiale, il capitale ha scatenato contro il lavoro.

Ladri di merendine

Per giustificare alcune misure del governo, che perfino i suoi esegeti più convinti fanno fatica ad apprezzare, si dice che hanno avuto solo 17 giorni per metterle a punto. In realtà sono anni che i professori stanno sperimentando il loro programma, ed è proprio in base a questa loro competenza che sono stati chiamati/inviati.

Il pilastro fondante del loro modello economico, e del progetto politico che ne deriva, consiste nel dare un prezzo a tutto quello che può diventato oggetto di compravendita, privatizzarlo, tassarlo. Il che vale per tutto, dall’acqua all’aria, dall’istruzione alla salute, dai semi di grano alle bombe. Solo benessere o sofferenza umana non trovano spazio nei loro algoritmi, a meno che non possano essere convertiti in voci contabili.

Poco sorprende, quindi, se invece di investire in prevenzione, rendere le città meno inquinate, promuovere e consentire stili di vita meno malsani, il governo stia studiando la possibilità di tassare il cosiddetto cibo spazzatura e di utilizzare il relativo gettito per costruire ospedali, ovviamente da regalare ai privati. Trattandosi di una tassa regressiva e palesemente classista/razzista - ormai solo i figli dei ricchi mangiano la marmellata fatta dalle nonne – la sua introduzione non è inverosimile. Restiamo in attesa di una tassa sulle biciclette per finanziare i circuiti di formula uno e di un censimento, seguito da esproprio, delle piantine di basilico per finanziare le multinazionali che producono ogm.

La città revanchista

Gran parte dei provvedimenti attuati e di quelli allo studio riguardano la casa, intesa esclusivamente come base imponibile. Non ci si occupa degli squilibri territoriali e sociali accentuati dallo smantellamento del patrimonio residenziale pubblico, né della situazione di colpevole abbandono nella quale sono state lasciate molte aree urbane. Quel che solo conta è, nell’immediato, quanto si può ricavare grazie al fatto che gli italiani sono stati costretti a diventare proprietari della casa dove abitano e, in prospettiva, quanto si potrà ricavare da più efficienti e competitive modalità di uso del patrimonio edilizio.

E’ innegabile l’abilità dialettica mostrata dal professor Monti a proposito di questi temi. Non si può non esser d’accordo, infatti, sulla necessità e opportunità di una adeguata tassazione dei beni immobiliari. Il gettito, però, dovrebbe andare alle amministrazioni locali per erogare servizi ai cittadini e attuare, così, almeno una parziale redistribuzione della rendita incamerata dai singoli proprietari.

Purtroppo non è questo lo scenario auspicato e previsto. Solo una parte delle tasse sugli immobili rimarrà ai comuni, i servizi locali che non sono ancora stati distrutti o privatizzati dovranno esserlo al più presto, l’imposizione avvantaggia fortemente e intenzionalmente i grandi patrimoni. Anche le detrazioni ammesse – come lo sconto concesso ad una famiglia con due figli - ricca o povera, evasore fiscale o onesto contribuente – ma non all’anziano che vive solo - si traducono in forse piccole, ma non meno odiose, conseguenze. La vera e propria punizione, poi, con aliquota di seconda casa, di coloro che, possedendo l’abitazione nella quale vivono i genitori, non li cacciano e mettono a reddito la proprietà, è la misura più rivelatrice dello scarto fra i retorici appelli al sostegno della famiglia e alla solidarietà generazionale e le intenzioni del governo. Non è dato sapere se, nelle simulazioni elaborate da Monti e dai suoi boys, incoraggiare la delocalizzazione di questi vecchi improduttivi in appositi ospizi e ricoveri è una misura dalla quale ci si aspetta la crescita del pil.

Non è dato sapere, nemmeno, dove si trovano i 6 milioni di famiglie che, si è vantato Monti oer sostener che si tratta di una manovra equa, non dovranno pagare la tassa sugli immobili. Siccome è improbabile che questi casi non siano stati mappati, la riluttanza a rendere pubblica l’informazione è un segnale inquietante circa le reali intenzioni del governo.

Oltre che della manovra già adottata, infatti, la casa sarà il fulcro anche dei prossimi interventi legislativi, a cominciare dalla revisione del catasto. Di questa riforma, in linea di principio, utile e necessaria, non si conoscono ancora i dettagli. C’è, però, una dichiarazione di Monti che non può non suscitare preoccupazione. Invece di spiegare come una più adeguata corrispondenza tra valori di mercato e valori catastali servirà a restituire alla collettività plusvalori indebitamente incamerati, Monti ha detto che la riforma servirà a individuare coloro che “magari involontariamente, compiono l’abuso” di abitare in una casa per la quale non pagano abbastanza tasse. Più precisamente servirà a delimitare le microzone urbane nelle quali i valori catastali più si discostano dai valori di mercato.

Per comprendere il significato e la portata di tale dichiarazione bisogna tener conto di due elementi. Innanzitutto, la riforma del catasto è presentata come una misura (forse l’unica insieme ai licenziamenti ) per la crescita. Il che vuol dire che la presunta futura crescita economica dell’ Italia non si baserà sull’ agricoltura, sull’ industria manifatturiera e tanto meno su innovazione e ricerca, ma sul mattone, nelle due varianti di grandi infrastrutture ed edilizia. In secondo luogo è verosimile che l’attenzione non sarà più rivolta all’edilizia in genere- quella un pò cafona dei condoni berlusconiani- ma a quella più di classe, nelle aree di prestigio.

Secondo i rapporti preparati dai dipartimenti real estate delle grandi banche d’affari, infatti, le prospettive d’investimento immobiliare in Italia solo promettenti solo in alcune zone, soprattutto nei quartieri centrali e nelle parti di città storiche con più potenzialità di sviluppo turistico.

Se in nome della sbandierata trasparenza il governo rendesse pubbliche la mappa delle microzone di prestigio – in attesa della revisione del catasto potrebbe farsele prestare dal fondo immobiliare di qualche banca, anche Banca Intesa ne ha uno molto ben attrezzato - i cittadini potrebbero rendersi conto degli effetti che la revisione dei valori catastali produrrà sulla composizione e distribuzione della popolazione delle città, soprattutto dei centri storici.

Potranno, cioè, capire che la riforma non contiene elementi di giustizia sociale, ma che al contrario:

- rendere insostenibile la tassazione sulla casa per anziani, pensionati e famiglie a basso reddito che ancora si ostinano ad abitare nei centri città significa obbligarli a vendere

- questo non è un effetto imprevisto e indesiderato, al contrario è parte della strategia di valorizzazione delle città che devono essere liberate dai poveri per poter essere sviluppate - finora si era agito demolendo quartieri e abitazioni di proprietà pubblica, adesso non potendo mandare l'esercito a sgombrare chi abita a casa sua si induce il cittadino che "non sta più sui mercato" a spostarsi

- la scelta di commisurare le tasse sulla casa alla dotazione di servizi disponibili nel quartiere accrescerà la segregazione sociale. E' forse questo l'elemento più perverso della strategia Monti. Invece di usare le tasse per fornire una dotazione minima di servizi a tutti e costruire così una città meno ingiusta, si persegue il disegno opposto. La città non è un diritto o, piuttosto, tale diritto è proporzionale al potere d'acquisto. Se i poveri non possono più permettersi la città, che la cedano agli investitori e se ne vadano altrove.

postilla

Come in un puzzle, le misure di cui scrive Paola Somma (aveva inviato il suo intervento a capodanno, ma si era impantanato tra gli auguri) si collocano in un quadro che è riduttivo definire preoccupante; altro importante tassello, nel campo delle politiche territoriali, sono le scelte per le Grandi opere (inutili, costose e spesso dannose), affidate al ministro passera ma secondo una filosofia che sembra condivisa. Come moltissime delle iniziative di questo governo sono misure che vengono presentate dai protagonisti con argomentazioni logiche, e questo consente di discuterle: come si fa in questo articolo. Il cui contenuto condivido pienamente. Aggiungerei che lo scandalo è anche il fatto che, se è giusto tassare i redditi da patrimonio non meno (e magari più) dei redditi da lavoro; sarebbe giusto che tra i primi andassero anche tassati, seriamente, i redditi da patrimonio finanziario e non solo quelli da patrimonio immobiliare

Su questo tema (o accanto ad esso) ce n’è un altro, che nell’opinione pubblica sembra confondersi con esso: queste misure hanno a che fare con l’antica battaglia degli urbanisti contro la rendita fondiaria urbana? Su questo argomento bisognerà tornare. Mi sembra però che il rapporto sia molto marginale. Le misure montiane prelevano una parte del reddito , reale o virtuale, dei cittadini imponibili. L’obiettivo dei tentativi di riforma urbanistica (dai tempi di Nathan e Giolitti agli inizi del secolo scorso, a quelli di Fiorentino Sullo e della stagione delle riforme degli anni Sessanta dello stesso secolo) era il cosiddetto “plusvalore” : il maggior valore venale acquisito dai beni immobili (aree ed edifici) per effetto di decisioni e investimenti pubblici. La sede giusta per incamerare parte consistente di quel valore sembrava essere (ed è) quello della vendita. Ma di questo non si parla. Non ne parla nessuno, neppure a sinistra. Ed è facile comprendere perché. Ma occorrerà ragionarne più ampiamente.

Per una volta si può dirlo: la sinistra ha ragione da vendere, quando sostiene che i cattivi d’animo non esistono, che tutto dipende dalla società, dall’ambiente in cui si cresce, dalle occasioni colte o mancate di rispondere a corroboranti stimoli. Infatti basta vedere da dove spuntano in stragrande maggioranza i nostri profeti della secessione, del particolarismo, della ermetica chiusura localistica e familista rancorosa contro il resto del mondo, per capire tante cose. Se si volesse tracciare un confine politico tra le attuali componenti della destra italiana, ad esempio, inutile scomodare le scienze sociali e i guru della sottile interpretazione: basta un bravo geometra, dotato preventivamente degli indirizzi. Scoprirà, o per meglio dire verificherà, la corrispondenza fra tassi di urbanità, tassi di secessionismo, prospettive specifiche del razzismo eccetera.

Qualche anno fa, quando il fenomeno leghista usciva (quantitativamente) dal puro folklore locale, qualcuno ci provò pure, a fare degli accostamenti geografici, ivi comprese alcune simpatiche teorie sui rapporti fra percentuali elettorali e linea padana delle risorgive. Umidità relativa della secessione a parte, qualcosa ci beccava, confusamente ma ci beccava. Poi da oltreoceano, dove le scienze sociali sono di solito praticate da chi prima si è preso la briga di studiare almeno qualche anno, è arrivata una conferma sistematica sulla componente geografica di certi atteggiamenti reazionari. Ma si è anche capito chiaramente che l’umido dei fossi (o magari dei torrenti dove si pesca il salmone) non c’entra nulla. La discriminante è quella classica urbano/rurale, o più precisamente, nel terzo millennio del “pianeta delle città”, la linea di demarcazione è il confine urbano/suburbano.

Adesso arriva anche la conferma storica, stimolata dalla ormai lunga sequenza di sciocchezze e strafalcioni inanellata dai probabili e improbabili candidati alle primarie Repubblicane, e contorno di comprimari Tea Party. Giustamente, studiosi e commentatori si sono chiesti: ma da dove arriva questa fauna? Chi li ha slegati? Possibile che siano spuntati dal nulla? E la triste risposta conferma l’interpretazione sociale della sinistra. Sono cresciuti negli ambienti segregati villettari, non solo loro, ma anche i loro antenati politici: più villettari, più reazionari, più infanzia da soli in giardino, più idee sceme per la testa da grandi. Se la diagnosi esatta del male è della sinistra, la terapia però stavolta arriva direttamente dalla cultura legaiola. Ebbene si: aiutiamoli a casa loro, cambiandogli la casa. Nel senso di dare più urbanità ai buchi neri dello spirito che sono quei quartieri incazzati nascosti dietro la siepe con cane abbaioso. Se volete saperne qualcosa in più, dell’infinita serie dei reazionari storici in villetta, leggete I Repubblicani Odiano le Città, di Daniel Denvir su Alternet 3 gennaio.

Si è conclusa il 27 novembre a Milano, al Museo della scienza, la mostra, promossa dalla Ambasciata di Norvegia, sulla straordinaria figura di Fridtjof Nansen, scienziato, esploratore polare, diplomatico e statista, commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni, insignito del Premio Nobel per la Pace. La sua dedizione alle questioni umanitarie salvò la vita a migliaia di persone dopo la Prima Guerra Mondiale e a innumerevoli altre restituì identità con un certificato che portava il suo nome .

Fridtjof Nansen nacque in Norvegia il 10 ottobre del 1861 a Store Fr”on, vicino ad Oslo. Quest’anno è dunque il 150° anniversario della sua nascita, il centesimo della scoperta del Polo Sud.

In gioventù si dedicò agli studi delle Scienze Naturali, poi alla zoologia e con l’obiettivo di studiare la vita degli animali polari nel loro ambiente nel 1882 si imbarcò sul motoveliero Viking, compiendo osservazioni sulla deriva dei ghiacci, sulle temperature lungo la colonna d’acqua, rielaborando le teorie sulle correnti artiche osservando che il ghiaccio si formava in superficie e che le acque più calde della corrente del Golfo passavano sotto le acque più fredde superficiali.

Compì osservazioni sulla vita delle foche , delle balene e di altre forme di vita animale nell’Artide..

Al ritorno, iniziò un lungo periodo di studi presso il Museo Zoologico di Bergen di cui fu nominato curatore Nel 1886, grazie ad un premio conferitogli dal Museo per una pubblicazione, si recò a Napoli alla Stazione Zoologica, dove per alcuni mesi, compì ricerche, pubblicandone i risultati.

A Napoli maturò l’idea che anche in Norvegia dovesse essere realizzata una stazione analoga a quella che prende il nome da Anton Dohrn e in seguito promosse la fondazione di 2 laboratori di biologia marina a Bergen e a Trondhejm.

Al ritorno in patria pubblicò le sue ricerche sul sistema nervoso e conseguì il titolo di dottore in scienze naturali.

Ancora molto giovane Nansen, all’età di soli 26 anni, decise di intraprendere una spedizione per attraversare da costa a costa la calotta glaciale della Groenlandia, ancora inesplorata, elaborando un piano dettagliatissimo e meticolosamente studiato, e questo metodo sarà una costante di tutte le sue future attività. Partì nel 1888 con 5 compagni sulla baleniera Jason, la futura Stella Polare della spedizione artica del duca degli Abruzzi, alla volta della inaccessibile costa orientale della Groenlandia con l’intenzione di tagliare dietro di sé tutti i ponti, altra costante di ogni sua azione, in modo da essere obbligato a raggiungere la costa occidentale, data l’impossibilità di venire soccorsi nella inaccessibile costa orientale.

La baleniera venne stretta dai ghiacci e Nansen riuscì a raggiungere la costa con una scialuppa dopo un mese di tentativi, affrontando un ambiente del tutto ostile, dopo essersi lasciato alle spalle la sicurezza rappresentata dall’imbarcazione principale. La spedizione dopo un viaggio lungo e faticoso attraverso la calotta glaciale raggiunse a settembre la costa occidentale della Groenlandia. Durante questo percorso massacrante Nansen e i suoi uomini raccolsero scrupolosamente dati di carattere scientifico, annotandoli puntualmente.

Compiuta la traversata dell’isola, nel maggio dell’anno dopo, il 1889, poterono tornare in patria accolti come trionfatori.

Iniziò per Nansen una intensa attività di conferenziere in diversi paesi europei e venne anche nominato curatore del museo di Oslo. Maturando le osservazioni fatte anni prima sulle correnti polari e convintosi del fatto che una forte corrente est-ovest doveva scorrere dalla Siberia verso il Polo Nord, mise a punto un nuovo e più impegnativo progetto, quello di raggiungere il Polo utilizzando le correnti artiche. Deciso a dimostrare la validità della sua teoria, Nansen stilò le caratteristiche di cui doveva essere dotata un’imbarcazione per resistere alla pressione del ghiaccio. Il suo piano era quello di navigare verso est lungo il Passaggio a Nord-Est fino alle Isole della Nuova Siberia per rimanere poi congelati nel ghiaccio. L’equipaggio sarebbe rimasto a bordo della nave mentre essa veniva spinta insieme ai ghiacci a ovest verso il Polo Nord e gli stretti tra le Svalbard e la Groenlandia.

La spedizione lasciò Christiania (l’attuale Oslo) nel giugno 1893 con provvigioni sufficienti per cinque anni e combustibile per otto. Il “Fram” navigò a est lungo la costa settentrionale della Siberia. A circa 100 miglia dalle Isole della Nuova Siberia Nansen cambiò rotta puntando verso nord. Il 20 settembre, a una latitudine di 79 gradi, il “Fram” si trovò imprigionato nei banchi di ghiaccio. Nansen e i suoi uomini si prepararono a lasciarsi trasportare dalla corrente a ovest in direzione della Groenlandia.

Il “Fram” non venne spinto così vicino al Polo Nord come aveva sperato e così Nansen decise di raggiungere il Polo, portando con sé uno dei suoi uomini, Hjalmar Johansen. Sbarcarono sul ghiaccio il 14 marzo del 1895, circa due anni dopo la partenza da Oslo. Il loro tentativo non ebbe successo. Le condizioni atmosferiche erano peggiori del previsto: la strada era spesso sbarrata da dorsali di ghiaccio e da tratti di acqua libere dal ghiaccio che furono causa di notevoli ritardi. Alla fine, a 86° gradi e 14’ nord, decisero di tornare indietro e di dirigersi verso la Terra di Francesco Giuseppe. Nansen e Johansen non avevano raggiunto il Polo, ma ci erano andati più vicino di qualsiasi altro esploratore prima di loro. Riuscirono a ritornare e finalmente giunsero nel giugno del 1896 a contatto di una spedizione inglese nell’arcipelago di Francesco Giuseppe. Ad agosto poterono tornare in Norvegia, oltre tre anni dopo la partenza.

Anche il Fram dopo 3 anni si era nel frattempo liberato dalla morsa dei ghiacci e navigava alla volta della Norvegia.

Le teorie di Nansen si erano dimostrate esatte perché il Fram aveva seguito la corrente di cui egli aveva postulato l’esistenza. Inoltre la spedizione aveva raccolto preziosissime informazioni sulla corrente, i venti e le temperature, dimostrando inoltre in modo inconfutabile che non esisteva terraferma vicino al Polo sul lato eurasiatico, ma un oceano profondo e coperto di ghiacci. Per la nuova scienza chiamata oceanografia, il viaggio del “Fram” fu di grandissima importanza. Per Nansen esso significò un punto di svolta: da quel momento fu proprio l’oceanografia a diventare il centro delle sue ricerche.

Il ritorno in patria fu trionfale, Nansen divenne ospite di Corti e capi di Governo di tutti i principali paesi, ottenne onorificenze, lauree ad honorem, divenne professore di Zoologia all’università di Oslo, pubblicò in sei volumi le ricerche fatte durante la spedizione col Fram e si impegnò a realizzare in Norvegia di un grande centro per lo studio della oceanografia.

Fu in contatto con Scott e con tutti gli altri esploratori polari dell’epoca e aiutò Amundsen a pubblicare i risultati della sua spedizione attraverso il passaggio Nord Ovest con il Gjoa.

La fama e la stima conquistata fecero di Nansen un uomo pubblico a cui vennero affidati compiti di natura politica, soprattutto in campo internazionale, fino ad essere nominato ministro di Norvegia a Londra, dove negoziò trattati che garantivano al suo paese l’integrità territoriale.

Il Fram continuò ad essere utilizzato per spedizioni artiche e in seguito venne utilizzato da Amundsen per la spedizione del 1911 in Antartide dove riuscì a raggiungere il Polo Sud.

I grandi viaggi da esploratore di Nansen ebbero termine, ma egli continuò a compiere ricerche fornendo dati accuratissimi sia sul Mare di Norvegia sia sulla circolazione delle acque nel nord Atlantico, compiendo nel 1911 e 1912 missioni sulla Frithjof della marina militare norvegese e sullo yacht inglese Veslemy nelle acque delle Svalbard.

In seguito nel 1913 a bordo del Correct della Compagnia Siberiana compì una missione lungo le coste artiche della Siberia, conoscendo le popolazioni indigene delle coste artiche siberiane e il popolo russo, spingendosi fino a Vladivostok attraverso la transiberiana, pubblicando poi le osservazioni effettuate durante il lungo viaggio.

Nel 1914, mentre si avvicinava la prima guerra mondiale, Nansen compì una nuova crociera oceanografica nell’Atlantico Nord Orientale sulla nave Armauer Hansen, che si concluse a luglio, poche settimane prima dello scoppio della guerra.

Nel 1917, essendo la neutrale Norvegia stretta nella morsa della fame, Nansen venne inviato negli Stati Uniti come Ministro plenipotenziario, dove negoziò difficili accordi volti a non condurre il suo paese in guerra, assumendone addirittura la personale responsabilità nelle more di decisioni che il Governo in patria non riusciva a prendere.

Al termine della guerra , nel 1919, Nansen , nominato Presidente della Lega Norvegese della Società delle Nazioni fu inviato a Londra per allacciare rapporti con la corrispondente società inglese.

Nel frattempo, consapevole del dramma che stavano vivendo centinaia di migliaia di uomini travolti dalla guerra e dalla rivoluzione sovietica, decise di rivolgersi direttamente ai capi dei paesi vincitori, chiedendo loro di creare una Commissione avente lo scopo di inviare viveri e medicinali in Russia.

La proposta, benché accolta, fallì per i conflitti fra le fazioni russe che si fronteggiavano e per l’ostruzionismo degli emigrati russi e ciò provocò sofferenza e morte per centinaia di migliaia di persone, con grande dolore di Nansen che scrisse parole molto amare nel suo libro “ La Russia e la Pace” sull’inumano comportamento di numerosi responsabili politici.

Nel 1920 Nansen partecipò come rappresentante della Norvegia alla prima riunione a Ginevra della Lega delle Nazioni e fu incaricato di presentare un dettagliato piano per il rimpatrio dei prigionieri di guerra che a centinaia di migliaia erano ammassati in condizioni disumane in campi di concentramento in Russia, Siberia, Caucaso, Turkestan. Solo in Germania e in Francia 200 mila russi erano rinchiusi in campi di concentramento.

La Croce Rossa non era in grado di affrontare un problema di tali dimensioni e Nansen presentò un progetto con il quale individuava le modalità per rimpatriare via mare i prigionieri.

Il piano venne approvato e Nansen fu nominato alto commissario per il rimpatri dei prigionieri e grazie alle sue grandi doti di organizzatore nel 1921 aveva già rimpatriato 350 mila persone e alla successiva assemblea della Lega delle nazioni egli potè annunciare di averne riportati a casa 427.886, spendendo una cifra di molte volte inferiore a quella preventivata.

Purtroppo altri immani problemi umanitari erano esplosi, provocati dalla guerra e dalle rivoluzioni: solo i profughi russi erano circa 2 milioni e a Nansen venne assegnato il nuovo compito di occuparsi di questa grave emergenza alla quale si aggiunse quella ancor più grave dei bambini per i quali lanciò un appello a tutto il mondo attraverso l’Unione internazionale per la salvezza dei bambini, che però fu raccolto positivamente solo da 15 paesi. Purtroppo per crudeli ragioni politiche per l’avversione nei confronti della rivoluzione bolscevica moltissimi bambini perirono per la fame e gli stenti.

Moltissimi profughi non avrebbero più potuto tornare nei paesi dai quali erano fuggiti ed avevano perso cittadinanza e documenti ed erano dunque apolidi, privi di uno stato giuridico: Nansen propose di dotarli di un certificato , che prese il nome di “certificato Nansen” che consentì di ridare personalità giuridica a milioni di apolidi.

Quasi tutti i governi riconobbero il valore del certificato, che non portava in testa lo stemma di nessun paese bensì il nome di Nansen e che rimase in vigore fino al 1953.

Numerose furono le crisi che Nansen dovette affrontare per conto della Lega delle nazioni, nelle cui assemblee prese più volte la parola parlando in favore del disarmo, contro il colonialismo, per la riparazione dei danni di guerra. Una crisi riguardò Corfù dopo l’uccisione di alcuni ufficiali italiani.

Cercò di fare ammettere la Germania nella lega delle Nazioni e diede un notevole apporto alla Convenzione sulla Schiavitù e all’Atto per la pacifica risoluzione delle controversie internazionali e si occupò del popolo armeno, massacrato dai turchi nell’indifferenza degli altri paesi.

Fu a capo della commissione nominata dalla Lega delle Nazioni con il compito di aiutare gli Armeni, che avevano costituito una federazione con le altre repubbliche transcaucasiche, Georgia e Azerbajan, dopo le stragi compiute dai turchi di Kemal , a ricostituire la propria economia. L’aiuto fornito fu grandissimo e prezioso, consentendo l’ammodernamento dell’agricoltura, il rifacimento degli impianti idrici, la ricostruzione delle strade e la riconquista di una condizione di maggiore tranquillità.

Nel frattempo continuava incredibilmente anche la sua produzione scientifica, puntualmente pubblicata.

Nel 1923 gli fu conferito il premio Nobel per la Pace , nel 1925 fu nominato Rettore della università di Sant’Andrea.

Si spense nel 1930, non riuscendo a partecipare alle spedizioni di sorvolo dell’Artico con i dirigibili della società Aeroartic di cui era stato nominato presidente.

Straordinariamente significativo l’omaggio che gli rese nell’intervento commemorativo alla assemblea della Lega delle Nazioni, Lord Robert Cecil che ne ricordò il servizio reso alla pace e ai deboli e ai sofferenti, “senza riguardo per i suoi interessi, e per la sua salute , lavoro che portò immensi benefici ai più diseredati degli uomini”.

Mi piace ricordare , a conclusione di questo sommaria descrizione della vita e dell’opera di uno straordinario scienziato e benefattore dell’umanità , quello che scrisse di lui un esploratore polare forlivese, Silvio Zavatti , di cui ho ritrovato recentissimamente un dattiloscritto originale nella biblioteca del Museo nazionale dell’Antartide a Siena sulla vita di Nansen nel quale è scritto : “quando morì si disse che Nansen aveva rappresentato l’uomo nel senso più vero e alto della parola per le straordinarie imprese che lo portarono a confortare ed aiutare centinaia di migliaia di uomini travolti dalle guerre”.

L’autore è membro della Commissione Scientifica per la Ricerca in Antartide

Sopprimere le province è una decisione sbagliata , esse svolgono funzioni significative a livello territoriale e altre potrebbero svolgerne in favore dei comuni piccoli e piccolissimi che non sono in grado di adempiere, penso alla funzione di stazione appaltante per comuni inferiori a 15.000 abitanti, come previsto nella originaria stesura della legge Merloni.

Funzioni che riguardano la pianificazione, la valutazione delle opere e degli interventi, la organizzazione della mobilità sovra comunale, le scuole, l’ambiente , per fare solo alcuni esempi, devono necessariamente essere prese in considerazione a livello sovra comunale.

Le regioni in moltissimi casi poi hanno delegato o subdelegato funzioni proprie alle province, mantenendo di fatto solo la potestà di distribuire le risorse e, purtroppo, di legiferare, creando una inestricabile giungla di provvedimenti diversi da luogo a luogo sulle medesime materie.

Le regioni inoltre sono avvezze da una sindrome centralista rispetto alla quale il centralismo dello Stato appare all’acqua di rose mentre gli apparati regionali ormai si distinguono solo per la loro scarsa competenza, essendo state sottratte al loro esame le materie delegate alle province.

Da oltre 40 anni esiste nei settori più consapevoli che si occupano del “governo del territorio” in senso lato un dibattito volto ad individuare per l’ente intermedio competenze tali da superare la frammentazione delle scelte, la loro sovrapposizione e ripetizione e a definire un quadro organico di obiettivi di sviluppo e tutele, sottratto ad una visione più miope legata agli interessi più localistici.

Pensare che le Regioni siano capaci di fare tutto ciò è pura illusione, essendosi queste ultime ubriacate nell’esercizio inutile se non dannoso della potestà legislativa ed avendo abbandonato totalmente la funzione programmatoria e cancellato quella gestionale.

Mantenere un livello democratico di discussione e di indirizzo e di pianificazione nei consigli provinciali appare assai necessario e le molte proteste che si sono levate in difesa delle Province hanno numerose ragioni dalla loro parte.

La decisione presa dal Governo ha il merito di costringere tutti alla considerazione dell’urgenza di assumere un provvedimento non più rinviabile che però salvi ciò che è ( o dovrebbe essere ) una funzione che è troppo importante e estesa per poter essere assolta dai comuni in materia di programmazione, pianificazione e di tutela ambientale e che necessita di una vicinanza al territorio e di un suo rapporto costante e penetrante con esso da non poter essere svolta dalla Regione.

Resta il problema saldi, a mio avviso assai semplice da risolvere: si torni all’antico, a quando presidenti provinciali, assessori e consiglieri godevano di un gettone o poco più, pur essendo riservato ai primi addirittura il potere di firma, che poneva in capo a loro responsabilità gestionali dirette e personali.

Mentre queste responsabilità venivano trasferite ai dirigenti, ai quali spetta ora la gestione , mentre agli organi politici sono riservati poteri di indirizzo, l’appannaggio economico per tutte le figure istituzionali cresceva in modo esponenziale mentre , per effetto del “Bassaninismo” numerosissime competenze venivano trasferite dai consigli alle giunte. Risultato : meno responsabilità , più soldi.

Stando dunque così le cose la proposta che avanzo è la seguente : si azzerino i compensi per assessori e consiglieri ai quali potrebbe essere riservato un modesto e simbolico gettone per le sedute di giunte e consigli mentre ai presidenti potrebbe essere riconosciuto un modesto appannaggio, tipo quello di un insegnante o di un preside di scuola, in considerazione del fatto che essi hanno la rappresentanza legale dell’ente.

Un’altra misura di carattere democratico poi dovrebbe essere quella di riportare ai consigli le materie loro sottratte dalla c.d. esigenza di governabilità : non essendo più quello della giunta un lavoro a tempo pieno e retribuito sarebbe quanto mai opportuno condividere oneri e eventuali onori a livello consiliare , oltre alla democrazia ne guadagnerebbe moltissimo anche la trasparenza, assai appannata nell’ultimo periodo.

Il decreto dunque potrebbe essere emendato in tal senso e vi sarebbe addirittura un saldo positivo. Si sfidino con questa proposta tutti coloro che oggi si stracciano le vesti, incapaci però di una qualsivoglia idea diversa dal mantenimento dello stato quo. Vedremo cosa obiettano.

In questi ultimi giorni, dopo l’ennesima pioggia autunnale trasformata dai giornali e dagli effetti in devastante alluvione, il neoministro dell’Ambiente Clini si è espresso in varie occasioni pubbliche a favore di una “nuova legge urbanistica”. Il tema, giustamente ripreso nei titoli e negli occhielli degli articoli, in realtà poi veniva di fatto eluso: c’è il dissesto del territorio, si è costruito dove non si doveva, occorrono interventi mirati … Insomma della legge urbanistica vera e propria si intuivano solo alcune vaghe istanze, magari si trattava pure di una svista, chissà, o di un parlare alla nuora perché suocera intenda. Emergeva però anche un altro elemento, in realtà ormai consolidato nel dibattito culturale e politico, ma (purtroppo) relativamente nuovo nelle dichiarazioni ministeriali: un efficiente e ordinato assetto del territorio, la tutela degli spazi aperti e dei sistemi ecologici dall’edificazione indiscriminata, è una precondizione indispensabile per lo sviluppo socioeconomico.

Il che, se non si tratta proprio di una sconfessione brutale del mitico “sviluppo del territorio” decantato da lustri a destra e a centrosinistra, ci va molto vicino. Ma si può dire molto di più volendo, a questo proposito: addirittura, capannoni villette e centri commerciali a vanvera sarebbero alla base della crisi mondiale che ci sta attanagliando tutti da qualche anno, e di cui ancora non si intravede la fine. Non è la sparata di un telepredicatore, e nemmeno la constatazione un po’ iperbolica seppur in buona fede di un ambientalista. È invece l’analisi di uno studioso qualificato, ascoltato, con vasta esperienza nel settore immobiliare (sic), nonché fellow della prestigiosa Brookings Institution, ente di ricerca non particolarmente orientato a far sparate a vanvera, per quanto affascinanti e futuristiche, ma a cimentarsi direttamente con la decisione politica e le strategie operative in materia di posti di lavoro, infrastrutture, politica estera, difesa …

Lo studioso è Christopher Leinberger, piuttosto noto da anni perché appartenente a quel variegato fronte multidisciplinare che va dagli architetti di area new urbanism, al sociologo Richard Florida, ai discendenti culturali di Jane Jacobs, insomma a tutti coloro che sostengono un primato dell’ambiente urbano sulla compartimentalizzazione dispersa genericamente detta sprawl, e che invece altri pur prestigiosi e ascoltati commentatori mettono dentro al generico calderone “città”. Non si tratta ovviamente di questione di lana caprina: con una popolazione mondiale in crescita esponenziale e sempre più urbana, dare senso preciso all’aggettivo “urbano” diventa esiziale, tanto quanto decidere quali qualità debba avere il tanto agognato “sviluppo”.

Leinberger, in un recentissimo intervento sul New York Times, generalizza la sua antica convinzione sulla provata “diseconomicità” della dispersione insediativa, individuando la radice della crisi che ci ha travolto proprio nella crisi immobiliare suburbana, e a sua volta le radici di questa crisi, udite udite, nel mercato. Non il mercato che ci raccontano ai telegiornali, oscuro orizzonte fatto di flussi informatici e sadici signori in grisaglia intenti a giocare sulla nostra pelle. Ma il mercato della domanda e dell’offerta. Riassumo in breve (chi vuole si legga la raccolta degli articoli disponibili di Leinberger): dagli anni ’90 si è ribaltata la preferenza di due generazioni discontinue di americani, i baby boomers e i cosiddetti millennials, che non apprezzano più il modello della villetta unifamiliare e di ciò che le sta attorno. I primi stanno andando in pensione e cercano il quartiere urbano ricco di servizi di prossimità, i secondi sono una specie di creative class nel senso di Richard Florida, e vogliono quartieri dove si possa al contempo abitare, lavorare, divertirsi. Entrambi i gruppi non sanno che farsene del barbecue in giardino del sabato sera, o dell’automobile come prolungamento del corpo. Soprattutto non sanno che farsene della casa unifamiliare, che in assenza di domanda crolla di prezzo.

Si badi bene, qui non c’è nessun segnale necessariamente progressista o ambientalista. Per quanto ne sappiamo i pensionati e giovani professionisti possono del tutto coerentemente andare ad abitare in quei ghetti di lusso stigmatizzati da Anna Minton nel suo Ground Control, e illuminarsi e riscaldarsi con energia dalle fonti più micidiali possibili. La tendenza evidenziata da Leinberger però fa proprio pensare a un’idea di sviluppo economico di mercato non più legata al modello petrolifero, automobilistico, in realtà anche consumistico così come siamo abituati a concepirlo, visto che a ben vedere il quartiere urbano induce più consumi di spazio pubblico e immateriali, che di costosa paccottiglia (dalla motofalciatrice al SUV ecc.). Torniamo ora alle dichiarazioni del neoministro italiano per l’Ambiente e al poco che se ne capisce. Non dicono la stessa cosa, in realtà? Non usano allo stesso modo le medesime varianti, mercato, territorio, sviluppo? Se si, qualunque cosa intendesse Clini con la sua “nuova legge urbanistica” si spieghi meglio: qualche presupposto buono dovrà pur esserci. Sicuramente meglio parlare di sviluppo a partire da quella prospettiva, invece di subire tabelline truccate del genere there is no alternative.

p.s. un ragionamento analogo a quello sull'edilizia residenziale suburbana, si applica anche alle attività economich decentrate (f.b.)

Sono passati esattamente venti anni dall’approvazione della legge quadro sulle aree protette e, secondo me, il bilancio, salvo rare eccezioni, è deludente. I problemi sono tanti, a cominciare dall’invadenza del sottobosco politico nella nomina dei presidenti, dei consigli direttivi e dei commissari. Personalmente sono stato sempre contrario alla presenza negli organi di amministrazione dei parchi di esponenti delle associazioni ambientaliste che dovrebbero essere una controparte e non coadiutori dell’ente. Ma in questa nota mi fermo solo su un punto, certo non marginale, che però mi sembra trascurato: mi riferisco al destino del piano d’assetto dei parchi dopo l’approvazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Il Codice, giustamente, in forza dell’art. 9 della Costituzione, ha prescritto che “le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione […] ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette” (decreto legislativo 42/2004, art. 145, comma 3). Invece, prima del Codice, la legge quadro prevedeva un piano di assetto del parco addirittura sostitutivo di ogni altro livello di pianificazione (il piano per il parco “sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro livello di pianificazione”: legge 394/1991, art. 12, comma 7).

L’insostenibilità dell’attuale situazione emerge con chiarezza, per esempio, a proposito dell’Appia Antica: mentre il piano paesaggistico dell’Appia Antica è approvato, vigente e ben fatto (è anche l’unico piano paesaggistico del Lazio approvato), il piano d’assetto elaborato dall’ente parco (molto difettoso nella tutela del paesaggio, dei monumenti e dell’archeologia) non è mai stato approvato. Né può essere approvato proprio perché in contrasto con il piano paesaggistico. Insomma, un pasticcio che non agevola certo la tutela di un bene che dovrebbe essere prezioso “come l’Acropoli di Atene” (Antonio Cederna) e continua invece a essere ingiuriato da piccoli e grandi scempi.

Stando così le cose, penso che sia necessario decidere sulla ragion d’essere del piano d’assetto dei parchi, e mi chiedo se non convenga – in un’auspicabile riorganizzazione degli strumenti di pianificazione specializzata (paesaggio, aree protette, bacini imbriferi, energia, trasporti) – unificare almeno la tutela paesaggistica e quella naturalistica. Si tratterebbe, in buona sostanza, di assegnare al piano paesaggistico anche contenuti di tutela e di cura del mondo animale e vegetale coinvolgendo e responsabilizzando al riguardo gli enti parco. Non mi sfugge che il tema merita più ampie e documentate riflessioni, ma intanto cominciamo a discuterne.

L’intervento si inserisce nella discussione sull’assetto dei parchi recentemente aperta da eddyburg, cui tutti i lettori sono chiamati a partecipare.

Ieri mi è capitato, ascoltando in diretta sulla radio il bollettino di guerra da Genova e non solo, di attraversare il ponte sul Po di Casei Gerola, alla confluenza dello Scrivia: beh, faceva paura. E non ero evidentemente il solo a cincischiarmi con impressioni del genere, visto che nonostante la pioggia battente e l’ambientino già poco accogliente di suo, c’era un po’ di pubblico ad ammirare lo spettacolo. E a guardare a valle della corrente, riflettendo sul fatto che oltre quelle cime di alberi che spuntano dalle acque limacciose, nel grande fiume si riversano poi dall’altra sponda l’Agogna, il Terdoppio, il Ticino. Si intuisce anche senza ragionare troppo, l’inquietudine che dal parmense in giù inizia a prendere la coscienza collettiva.

Ma questi sono ragionamenti sui massimi sistemi, anche un po’ faciloni e di bocca buona come il suo, Presidente, sul costruire troppo e male. Dato che quando il fango ti trascina via si tratta di faccenda più che mai terra terra, i massimi sistemi forse non sono il punto di vista più adeguato: restiamo sul pratico, come quel fiumiciattolo per ora non esondato che si chiama Lambro. Lei dovrebbe conoscerlo piuttosto bene, Presidente, visto che su quelle sponde ha iniziato a costruire la sua fortuna nel lembo del comune di Segrate appena fuori dalla Tangenziale che oggi si chiama Milano Due, lo stesso fiume che forse si intravede oltre i capannoni anche da qualche finestra degli uffici Mediaset di Cologno, o dalla cupola dell’Angelo Raffaele che l’amico don Verzé ho collocato in cima all’impero sanitario e cementizio rosicchiandosi altri pezzettini e pezzettoni di campagna nelle fasce attorno al fiume. Però in realtà vorrei parlare di una zona un pochino più a monte, un bel giro in bicicletta diciamo, cioè la Cascinazza a Monza.

Una zona che, dicono in tanti, tantissimi, non si deve costruire: perché non serve alla città, perché toglie un’area a parco di cui c’è tanto bisogno per tutti; perché, infine, elimina un’area di esondazione naturale alle piene del Lambro, che infatti lì si va a sfogare (stavolta non ancora) quando le precipitazioni, e l’urbanizzazione della Brianza a monte non dimentichiamo, ci fanno andar dentro troppa acqua. Solo propaganda antisviluppo, dicono da sempre i suoi sodali sostenitori e alleati, quella è una grande occasione per la città, e infatti dopo le ultime elezioni locali è stato spedito lì direttamente dalla capitale imperiale il viceré degli interessi superiori, che travestito da assessore al territorio (senza mollare la poltrona di sottosegretario o ministro, non ricordo) ha gestito tutta la grande variante del piano urbanistico necessaria allo scopo. E come si fa a rendere edificabile un’area di esondazione di un fiume? Nel modo più classico, ovvero imbrigliando in qualche modo le acque del fiume, con opere ingegneristiche.

Le quali opere ingegneristiche in primo luogo costano un sacco di soldi e di tempo, ma storicamente non ce la fanno mai, e poi mai, a star davvero dietro a tutti gli interessi scatenati dalla potenziale urbanizzazione indotta. I genovesi che oggi piangono le ultime vittime e svuotano le case dal fango probabilmente non hanno mai sentito nominare il prof. Ing. Gaudenzio Fantoli, luminare dell’idraulica che a cavallo fra XIX e XX secolo sviluppava tra l’altro gli studi sull’irreggimentazione del corso del Bisagno che hanno reso possibili ad esempio i progetti di Piazza Vittoria a Piacentini, o della Foce a Daneri, e in generale tutta l’infilata di strade e palazzi tra la ferrovia e il mare. Però a monte evidentemente le opere (e/o le manutenzioni periodiche indispensabili) non hanno retto il carico di un insediamento fatto a pezzi e bocconi, abusivo condonato, o del tutto legale ma sulla base di presupposti sbagliati. Con buona pace del luminare.

Anche a Monza, o in tanti altri casi simili, si trova sempre, magari pure in ottima fede, lo scienziato garante del progettone, realizzato o solo promesso, che risolve o dice di risolvere il problema. Ma anche nel migliore dei casi si tratta sempre e comunque di una soluzione locale, che il problema lo sposta a valle, e a valle c’è sempre qualcuno o qualcosa che ne soffre: gli vendiamo un altro bel costoso progettone locale? Che si fa per esempio con Milano Due e il San Raffaele, inondati dalla prossima piena del Lambro perché alla Cascinazza non si può più esondare? O alla Cascinazza stessa, quando il canale o chissà cosa realizzato a spese del contribuente non sarà più abbastanza, visto che ancora a monte si è realizzato un ulteriore progetto che impermeabilizza suolo? Non è una ipotesi peregrina, egregio Presidente: sta proprio davanti a casa sua.

Si tratta della cosiddetta Milano Quattro, prevista con apposita variante comprata al piano territoriale del parco fluviale: se ne è parlato qualche anno fa, e pareva davvero incredibile che un tizio senza problemi economici si giocasse quel magnifico spazio aperto, davanti a casa e fino al fiume, per farci l’ennesima palazzata fintamente “immersa nel verde” di fianco allo svincolo della prevista autostrada Pedemontana bi-partisan. Anche quella, c’è da dire, immersa nel verde grazie all’apporto ideologico dei compagni urbanisti che progettano le compatibilizzazioni, poco prima di presenziare ai convegni sulla piaga del consumo di suolo. E qui, forse, il cerchio si chiude, perché lei ci racconta sicuramente delle balle, quando dice che si costruisce troppo e male, ma non è assolutamente il solo a trattarci da imbecilli.

Il dibattito alto, come voi ben sapete, deve svolgersi ad una quota adeguata a inquadrare in prospettiva i grandi orizzonti che, soli, lasciano scorgere l’alba dietro l’imbrunire. A furia di stare in alto però, anche al netto delle vertigini, il linguaggio e i riferimenti perdono forzatamente contatto col terreno, se nessuno provvede a rifornirne costantemente i pensatori, che così riescono a tenerci ben saldi i piedi nonostante tutto. Deve essere per questo (è l’unica spiegazione che mi viene in mente) che il Wall Street Journal, una delle cosiddette bibbie del capitalismo, propone innocentemente un promemoria geografico sui modi di fare i conticini settimanali. Si rivolge alle grandi catene di distribuzione occidentali calate da qualche anno sul mercato cinese, che però a quanto pare faticano a raggiungere i favolosi obiettivi economici sperati. Perché?

Perché sbagliano a fare i conti dal Pil, spiega il giornale del 7 novembre con tono didattico in un pezzo dal titolo An Important Hitch in China’s Urban GDP Numbers. Quando elaborano i dati per le loro ricerche di mercato sui bacini locali, quando costruiscono quei diagrammi a mettere in rapporto densità di popolazione, propensione psico-sociologica ai consumi, accessibilità di certi nodi, il punto di partenza sono le cifre messe a disposizione dall’amministrazione pubblica. La quale amministrazione pubblica, prosegue puntiglioso il WSJ, racconta favole sui prodotti interni lordi regionali e cittadini che poi finiscono appunto per disorientare del tutto i cervelloni di Wal Mart, Carrefour e compagnia bella. Ci mettono del loro certi zelanti funzionari di partito che, annusando venti di luminosa carriera, truccano i dati su quanto starebbe nelle tasche dei loro concittadini. Ma c’è anche un aspetto territoriale/amministrativo/statistico da tenere nel conto, ovvero che la città cinese, i suoi tassi di crescita, il reddito medio ecc. sono concetti sfuggenti.

Anzi, allargando il campo, come notava anche David Pilling sul Financial Times, è tutto il sistema delle neo-città asiatiche ad essere diventato un universo piuttosto inconoscibile. A partire dal Prodotto Interno Lordo delle statistiche ufficiali, su cui si basano poi i modelli previsionali delle grandi catene di distribuzione, le loro strategie insediative, di marketing, di breve e medio periodo. La popolazione cresce a dismisura, dicono le statistiche, e invece è solo qualche burocrate locale che le ha “truccate” allargando i confini della città. Il procedimento corretto sarebbe quello della Statistical Metropolitan Area americano perfezionato all’inizio del ‘900, ma i nostri funzionari di partito non vanno tanto per il sottile quando si tratta della propria carriera, dei privilegi, e tutta la programmazione deve giocoforza seguire quei personalissimi sentieri.

Con buona pace dei consigli di amministrazione regionali e globali dei giganti commerciali colpiti al cuore/portafoglio da questa allegra gestione del Pil da parte dei sornioni furbastri con cui trattano abitualmente, l’intera vicenda getta un pochino di luce anche sugli ondivaghi criteri su cui si basa il feticcio della cultura della crescita cronica, l’indiscutibile dogma davanti al quale dalle nostre parti si levano il cappello quasi tutti. Quasi, perché anche dalle parti dell’ISTAT si è iniziato almeno sul versante del metodo a introdurre varianti significative. E l’articolo del Wall Street Journal, anche perché pubblicato proprio lì, sottolinea sino a che punto quella roba non sia affatto un dogma, e non sia affatto indiscutibile: la si discute eccome, quando tocca il portafoglio di chi ci paga lo stipendio. E dunque, possiamo iniziare a discuterla, seriamente, quando tocca cose, se si consente, un po’ più importanti.

Nel 105 d.C. Plinio il Giovane venne nominato da Traiano curator alvei Tiberis et riparum et cloacarum urbis. Bellissima definizione che configura una sorta di presidenza dell’Autorità di bacino del Tevere, cioè di un fiume scatenato soggetto a piene improvvise, torrentizie e furibonde. Se ne scendete il corso, come a me capitò di fare molti anni or sono, noterete che ai bordi del Tevere, nelle zone pianeggianti, nulla è stato mai costruito in antico. Come lungo il Po, del resto. I fiumi dovevano avere la possibilità di sfogare la loro forza idraulica. Oggi non è più così. Si costruisce in vicinanza delle rive di fiumi e torrenti o addirittura nelle aree di golena, nell’alveo stesso dei corsi d’acqua. Ad ogni piena disastrosa sarebbe utile sapere quante case, capannoni, laboratori alluvionati sorgono là dove in ogni altro Paese civile sarebbe, anche nei fatti, vietatissimo. Tanti, temo.

Qualche giorno addietro il Wwf – ripreso, che mi risulti, soltanto da Marco Bucciantini sull’Unità– ha denunciato che la Regione Liguria, nel luglio scorso, ha approvato un nuovo regolamento che consente di edificare a 3 metri appena da fiumi e torrenti e non più alla distanza di 10 metri (che a me paiono sempre pochi). Sulla base di quali presupposti ambientali e idraulici? Come se la Liguria non avesse riempito da decenni di cemento e di asfalto le sue riviere provocando così alluvioni a ripetizione. Cosa è successo alle spalle e dentro il Parco Nazionale delle Cinque Terre? Quanti finanziamenti sono stati accordati a questo organismo per migliorare lo stato di un territorio delicatissimo, costruito “a mano” con oltre 7.500 metri di muretti a secco? E come sono stati spesi gli stessi affinché non avvenisse quanto è invece avvenuto a Monterosso e a Vernazza?

Di fronte alle sempre più frequenti sciagure ambientali, bisogna dire le cose come stanno. Anche sulla inosservanza di leggi e regolamenti divenuta cronica dopo che, dal 1984, è invalsa la convinzione che un provvidenziale condono interverrà a sanare case, laboratori, fabbrichette e altro eretti in aree off limits, persino in parte demaniali o demaniali tout court (come sono quelle golenali, come minimo coltivate, troppo intensivamente, a pioppeto). C’è dell’altro però: i governi Berlusconi hanno decisamente peggiorato la fragilità del nostro territorio montano e collinare, non poco franoso e sismico, accoppiando alla politica dei condoni, edilizi e ambientali, la sottrazione sistematica di fondi destinati alla difesa, ordinaria e straordinaria, del suolo, impedendo così persino le più normali manutenzioni.

Nelle cronache di questi giorni c’è, purtroppo, molta emozionalità, e poca voglia di andare alle cause. Tornando alle Cinque Terre, perché tante auto sepolte nella melma a Monterosso? Forse perché lì si sono fatte entrare, anni fa, le auto e si è voluto, a tutti i costi, costruire un maxi-silos? Dove arrivano cemento e asfalto, i suoli si impermeabilizzano e, in presenza di pendenze scoscese come quelle liguri, l’acqua piovana vien giù a velocità folli. Se poi i corsi d’acqua sono stati intubati (è accaduto anche questo!) o incassati fra argini di cemento e/o fra spalti di case, il disastro è garantito. La storia, seminata di lutti e di rovine, delle alluvioni liguri non ha dunque insegnato nulla? Mi trovavo, per altre ragioni, a Genova nel ’70, quando si scatenò in città la furia delle acque del Polcevera e del Bisagno e si contarono parecchi morti. Scoprimmo che il vastissimo letto del Polcevera era stato ristretto da campi da tennis, circoli aziendali, costruzioni precarie, orti e altro. Le responsabilità delle Regioni e dei Comuni sono grandi. Pochi vigilano, reprimono, demoliscono. A Ischia non sono forse le costruzioni abusive a far cadere a pezzi l’isola? E con tutto ciò un gruppo di deputati del Pdl chiede un condono “speciale” per la Campania già tanto devastata. Le Regioni che hanno negli ultimi anni ottenuto lo stato di “calamità naturale” sono una decina e oltre. Ma di quale calamità “naturale” stiamo parlando?

Un luogo comune che corre molto in queste ore: non si è mai fatto nulla per la difesa del suolo. Non è vero. Non hanno fatto niente i governi Berlusconi tesi a “passare alla storia” col Ponte sullo Stretto. I governi di centrosinistra avevano cominciato ad invertire una rotta disastrosa con alcune buone leggi: la legge n.431 del 1985 sui piani paesaggistici e la legge n.183 del 1989 sulla difesa del suolo. La prima – pur votata alla unanimità – è stata rispettata appena da un pugno di Regioni, le altre hanno adottato in ritardo i piani o non li hanno nemmeno disegnati, né, tantomeno, colorati. La seconda prevedeva la creazione di Autorità di Bacino nazionali, interregionali e regionali. Il modello? Essendo troppo lontano quello, pur illuminato, del “curator” romano Plinio, il modello era l’Authority del Tamigi in capo alla quale si sono felicemente riunite le competenze di migliaia di enti risanando a fondo il grande fiume. Altrettanto doveva accadere in Italia dove fiumi come il Po o il Tevere corrono al mare attraverso quattro regioni, decine di Provincie, decine e decine di Comuni. Purtroppo campanilismi e particolarismi da noi non muoiono mai. Così, allorché le Autorità, nel 2001, hanno faticosamente ultimato la definizione dei piani di bacino, la loro devitalizzazione era già in atto. Ricordo che il piano di riassetto del Tevere venne contestato apertamente da Comuni della zona a nord di Roma i quali non ne volevano saperne di non poter continuare a costruire nelle aree alluvionali di questo difficile fiume le cui portate possono passare dai miserabili 40 metri cubi al secondo delle peggiori “magre” estive ai 2000-2200 metri cubi al secondo delle “piene” di autunno-inverno. La delegittimazione della legge n. 183 è andata avanti, molto pesantemente, ad opera del centrodestra sotto la spinta della Lega che vuol gestire il sacro fiume Po “a spezzatino”, cioè un pezzo per Regione. Una scemenza “criminale”. Ci sono state ribellioni a tanta insipienza? Onestamente non le ho avvertite.

Su tutto ciò si è abbattuta la scure finanziaria dei governi Berlusconi II e III: la difesa del suolo, cosa volete, non fa “passare alla storia”. Con la Finanziaria 2002 il centrodestra ha subito dimezzato rispetto al 2001 le risorse destinate a questa voce. Con quella del 2003, secondo la denuncia di Gaetano Benedetto del Wwf, “con un colpo di mannaia” ha fatto scomparire i fondi del Decreto Sarno (votati dopo quella terribile sciagura) e ridotto quelli della Legge Soverato (altro disastro, con le case edificate su una fiumara, anzi dentro…). L’Italia ha così affossato ben presto l‘approccio innovativo, di stile europeo, alla gestione delle acque avviato con la legge n. 183, e cioè praticare una manutenzione continua del territorio e la progressiva “rinaturazione” dei sistemi fluviali (fluminis alvei et riparum, per dirla con Plinio). Insomma, dalla legislatura 2001-2006 tutto lo strategico comparto ambiente-territorio è uscito “umiliato” dal governo in carica.

Nel 2006-2008, col ritorno, sia pure precario, dell’Ulivo al governo, sono state riattivate le risorse sottratte alla difesa del suolo, alla protezione dei litorali dal mare, quelli per i parchi, ecc. Fino a 584 milioni. Due anni di respiro. Ma dal trionfo di Berlusconi in qua, è ricominciato il sistematico dirottamento dei fondi. Nel 2009, alla tutela ambientale e territoriale risultava assegnato appena l’1,5 % della dotazione finanziaria contro il 6,8% attribuito alle grandi opere, tutte dal forte impatto ambientale. Mentre la crescente tropicalizzazione del clima, con piogge sempre più violente, reclamava a gran voce una strategia esattamente opposta. Nelle Finanziarie successive è andata ancora peggio. Tanto che, per il Veneto, sempre sull’orlo di nuove disastrose alluvioni, si prevede che la messa in sicurezza potrà avvenire – sempre che non si taglino altri fondi – non prima del 2041, traguardo che ovviamente sarà allontanato se vi saranno nuove alluvioni…Nel contempo Sandro Bondi titolare-fantasma dei Beni Culturali ha lasciato annegare nella palude ministeriale la nuova co-pianificazione paesaggistica Stato-Regioni prescritta dal Codice Rutelli per il Paesaggio. Quanti hanno protestato? Non ho avvertito, onestamente, forti proteste. Stefania Prestigiacomo, debolissima titolare dell’Ambiente, non ha saputo difendere da tagli pesanti il proprio Ministero, mettendo letteralmente in ginocchio i Parchi, a cominciare da quelli nazionali che sono invece fondamentali insieme ai Parchi regionali per migliorare lo stato precario della montagna e dell’alta collina italiana. Risultato, uno sfacelo idrogeologico garantito, specie laddove l’edilizia, legale e abusiva, è stata lasciata dilagare. Mentre si invocano nuovi condoni edilizi. Si è anti-berlusconiani “per principio” se, scorse le cifre, valutati i dati di fatto, si pensa che ormai siamo prossimi al suicidio finale del Belpaese? Credo proprio di no.

Lodevole l’incontro, avvenuto di recente, tra Comune di Milano e costruttori-immobiliaristi. Lodevole, purché l’incontro non riconfermi le pessime disposizioni del passato P.G.T., tutte concepite a favore dei costruttori-immobiliaristi e a svantaggio dei cittadini milanesi. E’ vero che dai costruttori non si deve prescindere: essi sono una ricchezza per la società, una fonte di crescita economica, una risorsa per l’occupazione. Tuttavia una saggia Amministrazione Comunale deve programmare lo sviluppo della città, tenendo presente l’interesse della collettività, e non l’eccessivo profitto dei costruttori. Ciò significa che alcuni dei più critici capitoli del P.G.T. devono essere cambiati radicalmente; in particolare i capitoli riguardanti la casa; il verde; i trasporti.

•Politica della casa: dovranno ridursi le costruzioni di lusso e promuoversi le costruzioni economico-popolari. In un momento di crisi e di ristagno della domanda i costruttori, che oggi stentano a piazzare i loro immobili, non potranno che essere soddisfatti nel vedersi assicurato il proseguimento della loro attività, e non avranno motivo di lamentarsi per l’arresto edilizio, pretestuosamente attribuito alla momentanea stasi richiesta dalla revisione del P.G.T..

•Politica del verde: sarà impedita ogni nuova edificazione sia nelle poche aree ancora non costruite, sia nelle sempre più numerose aree in procinto di liberarsi. Scalo Farini è un caso esemplare: non appena messo in disarmo dovrà trasformarsi in un intero parco pubblico; e non – come infelicemente è stato proposto – in un nuovo terreno di addensata ed invadente lottizzazione.

La politica del verde esige una politica del territorio, cioè una previsione delle sviluppo urbano non più ristretto entro gli angusti confini municipali, secondo la deleteria espansione a “macchia d’olio”, ma esteso nel territorio circostante, prevedendo o la crescita delle cittadine esistenti, oppure la nascita di nuovi nuclei-satellite.

•Politica dei trasporti: è possibile sviluppare insediamenti residenziali al di fuori del perimetro urbano solo se si attua una efficiente politica dei trasporti, cioè una rete di collegamenti radiali che unisca i centri periferici con la città-madre; ed un altrettanto efficiente sistema di collegamenti anulari che unisca tra di loro i vari insediamenti distribuiti intorno alla metropoli.

Per i trasporti interni alla città occorre prendere una decisione drastica: o si privilegia il mezzo privato, o si incrementa il mezzo pubblico. Nel primo caso proseguirà la folle proliferazione dei parcheggi a rotazione; nel secondo caso tutti i parcheggi interrati saranno riservati a soli box per residenti, e le strade cittadine, finalmente libere dalle auto in sosta, consentiranno un veloce transito di scorrimento ed ospiteranno una rete capillare di piste ciclabili.

Tutte le politiche sopra elencate richiedono una coraggiosa e sicura visione della città futura: di questa visione non si vede, al di là di generiche e vacue affermazioni, nessuna traccia nell’incontro tra Comune e costruttori-immobiliaristi.

L’autore è Consigliere di Italia Nostra Sezione di Milano.

I primi atti del governo, oltre a ridimensionare l’autonomia impositiva di Regioni e Comuni (con buona pace della Lega), ledono fortemente la loro stessa autonomia politica. Lo fanno con provocatorie incursioni su materie e funzioni di stretta competenza regionale e locale, come sono le politiche abitative o le scelte urbanistiche e di governo del territorio. E lo fanno con una serie di misure (e di tagli indiscriminati) che, in ultima analisi, sono destinate ad abbattersi negativamente sul Welfare locale e sulla qualità dei servizi, minando le condizioni di una crescita ordinata e, civile del territorio e gli stessi cardini della coesione sociale.

Chiediamoci dove i Comuni troveranno le risorse per il loro funzionamento. Le uniche porte aperte lasciate dal governo sono quelle degli “oneri di urbanizzazione” e della “valorizzazione” fondiaria e immobiliare del patrimonio pubblico e demaniale. Si tratta, com’è evidente di un ulteriore formidabile incentivo alla cementificazione e alla speculazione edilizia! Infatti, se l’imperativo è “più concessioni edilizie, più oneri di urbanizzazione” si spingono le amministrazioni locali a rilasciare quanto più licenze di costruzione possibile, pur di incamerare risorse che - tra l’altro - sempre meno saranno utilizzate per migliorare la qualità urbana e sempre più per far fronte alla spesa corrente. L’esperienza di questi anni ci ha mostrato i guasti prodotti da comportamenti poco virtuosi, per non dire miopi, di amministrazioni che hanno rilasciato con troppa frequenza e leggerezza autorizzazioni per programmi di trasformazione urbana che poi si sono rilevati un affare solo per i grandi gruppi immobiliari ma non per le comunità locali. E con il rilancio delle vendite delle case ex Iacp e delle operazioni di “valorizzazione” immobiliare sul patrimonio pubblico si cerca di rinverdire la nefasta stagione delle cartolarizzazioni.

I Comuni hanno annunciato lo “sciopero” dei bilanci per denunciare l’impossibilità di approvare documenti contabili credibili. Ma siamo arrivati a questa situazione anche per la debolezza con cui essi hanno contrastato la politica governativa e perché, troppo spesso, nei fatti hanno abdicato alle tendenze del cosiddetto libero mercato rinunciando a usare, come avrebbero dovuto, i poteri di cui dispongono in fatto di edificabilità dei suoli, di destinazione delle aree, di cambio di destinazione d’uso degli immobili. Sono stati rilasciati permessi per la costruzione di megastore e centri outlet lungo le principali vie di ingresso delle nostre città e si continuano ad approvare piani di edilizia residenziale, destinati alla vendita, equivalenti a nuovi quartieri popolati da decine di migliaia di abitanti. Viceversa, sorgono sempre mille difficoltà quando si tratta di reperire aree per l’edilizia sociale. Ora, il governo, col cosiddetto Piano Casa, cerca di gestire questa difficoltà e si appresta a varare nelle grandi città una serie di accordi di programma e di interventi integrati ( concordati e stipulati direttamente dal ministero delle Infrastrutture). Il rischio è che l’accattivante messaggio del “piano casa” favorisca in realtà mire speculative su spazi liberi o sui terreni agricoli (come, per es., sta avvenendo a Roma), continuando così una politica di sostanziale sostegno al mercato immobiliare e agli interessi della rendita. Non è un caso che il piano casa sia incentrato sull’idea di nuova edilizia residenziale, da realizzare con l’apporto di imprese e soggetti privati, e non contenga alcun riferimento alla priorità dell’offerta in affitto.

Questa impostazione, se dovesse trovare conferma, incontrerà la contrarietà del sindacato e, ci auguriamo, di tutti coloro che hanno a cuore la tutela del territorio e del paesaggio e la qualità della vita nelle nostre città. Ma ci deve anche spingere a riflettere sul ruolo delle autonomie locali e delle forze sociali e culturali presenti sul territorio. E’ necessario che la gestione del territorio, l’uso del suolo, i piani di intervento nelle città, siano oggetto di negoziazione pubblica e trasparente e non di trattativa privata tra sindaci e assessori all’urbanistica da un lato e proprietari dei terreni e imprenditori edili dall’altro.

Il degrado, il caos, la congestione e l’invivibilità che stanno soffocando le città, sia nei centri urbani che nelle periferie, sono il risultato dell’abbandono dello “spirito pubblico” in materia di urbanistica e di governo del territorio. E su queste cose il confine tra destra e sinistra - nelle politica locale - è diventato sempre più sbiadito. C’è stato il progressivo abbandono di una cultura amministrativa incentrata sulla città come “bene comune” e sul principio della pianificazione urbanistica. E’ andata avanti, nel silenzio pressoché generale, una espansione urbana contrassegnata da crescenti diseguaglianze sociali e dalla rottura di forme di coesione sociale, di solidarietà, di convivenza e buon vicinato, un tempo forti e consolidate nelle nostre città. Nuove povertà e drammatiche solitudini convivono insieme a intollerabili esibizioni di lusso e di egoismo. L’abbandono delle periferie fa il paio con vecchi centri storici riqualificati e magari chiusi al traffico per operazioni di marketing o d’immagine.

Cambiare politica urbana significa dunque assumere scelte coerenti con uno sviluppo delle città che coniughi solidarietà, equità, ed efficienza dei servizi (e anche la sicurezza seguirà!). Ma per mettere gli enti locali nelle condizioni di operare in questa direzione, c’è bisogno di risorse ovvero di una riforma fiscale in senso federalista che individui nel settore immobiliare la base imponibile principale dei Comuni.

Dopo l’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, i Comuni devono poter agire sui grandi patrimoni immobiliari presenti in loco e sull’enorme volume di affari e di ricchezze che circola sul territorio al di fuori del loro controllo fiscale. I tributi immobiliari, ridisegnati e rimodulati nell’ottica del rafforzamento dell’autonomia politica degli enti locali, rappresenta anche lo strumento per regolare con serietà ed efficacia un mercato (quello degli immobili), che oggi risponde unicamente agli interessi della rendita e della speculazione edilizia.

Riappropriarsi di un ruolo fiscale sul proprio territorio, significa per i Comuni poter governare il territorio, decidere sui delicati aspetti inerenti l’uso e il consumo del suolo, intercettare, ai fini impositivi, la crescita dei valori immobiliari (e delle transazioni) conseguenti a interventi pubblici di riqualificazione.

Allo stato l’ammontare delle imposte immobiliari (catastali, ipotecarie, di registro) è di circa 8 miliardi l’anno ed entrano totalmente nelle casse dello Stato. La riforma federalista - e il decentramento ai Comuni della gestione del Catasto – dovrebbe comportare coerentemente l’attribuzione di questi tributi alle istituzioni locali. Diventerebbe anche più efficace la lotta per ridurre e debellare un’elusione e un’evasione fiscale che, in campo immobiliare, ha percentuali elevatissime, e che la Guardia di Finanza conduce da tempo con scarsa efficacia. Uno studio Cresme del 2005 per l’Anci ha calcolato un’evasione della fiscalità erariale sugli immobili di circa 2,8 miliardi di euro (su 8 miliardi di gettito complessivo). Solo dal recupero dell’evasione delle imposte di registro sui contratti d’affitto (il 40% dei quali non è registrato) potrebbe derivare un’entrata aggiuntiva di 550 milioni di euro.

Ancora, un uso flessibile delle aliquote massime e minime dell’Ici (ancora operante su seconde case, grossi patrimoni, immobili a uso terziario), soprattutto in presenza della rivalutazione degli estimi catastali, potrebbe contribuire ad una redistribuzione più equa del carico fiscale sugli immobili oltre che incoraggiare comportamenti virtuosi nel mercato dell’affitto.

Serve infine flessibilità nell’imposizione sui trasferimenti di proprietà per favorire il passaggio da casa a casa e la mobilità intercomunale e interregionale. In un paese con circa l’80% di case in proprietà diventa indispensabile una misura che riduca al minimo le imposte di registro e catastali sulle compravendite che riguardano la prima abitazione, da compensare con imposte più alte sulle case di lusso, seconde case e altri tipi di immobili, per i quali il valore catastale deve diventare sempre più vicino all’effettivo valore di mercato.

Su queste e altre proposte è utile aprire un confronto che contribuisca a delineare una fiscalità locale nuova e adeguata alle complesse esigenze di città moderne e solidali.

Capita sempre più spesso che anche sindaci di sinistra si lascino un po’ andare nel magnificare i progetti immobiliari che stanno loro a cuore: “É un progetto che darà prestigio alla nostra città e slancio all’economia dell’intero Paese!” Questa è né più né meno l’ideologia (nel senso di errata teoria) della destra, che ritiene l’edilizia, vera o virtuale, “il vero volano dell’economia”, il settore che potrebbe muovere 4/5 punti di pil, ecc. Ed è anche l’ideologia che prepara il terreno per la speculazione e per un inevitabile declino economico e civile.

Ci saranno anche buoni argomenti per sostenere la necessità di un centro commerciale o di un nuovo quartiere residenziale, ma questo, per piacere, proprio no. Invece è qui dovrebbero risiedere le ragioni più significative della nostra opposizione alla politica economica della destra.

La speculazione, o valorizzazione immobiliare, è stata fra le cause principali della crisi finanziaria ed economica: non è vero, come sostengono gli immobiliaristi per giustificare le loro difficoltà nel presente, che è stata la crisi a causare la caduta dei valori immobiliari. È vero proprio il contrario: è stata la crescita dissennata del valore degli asset immobiliari a provocare la crisi. In Italia la crisi, inizialmente, ha colpito meno che altrove soprattutto perché non si è voluta ammettere la caduta del settore. l’intreccio col sistema creditizio avrebbe infatti causato pesanti ripercussioni sulla solidità delle banche e parecchi banchieri avrebbero dovuto rispondere di esercizio abusivo del credito.

Per un po’ hanno fatto come se niente fosse, ma ora non è proprio più possibile: la crisi dell’immobiliare, se non la scontano gli immobiliaristi, che hanno fatto tutto a credito, cioè coi soldi dei risparmiatori, la pagano le banche, i risparmiatori stessi e tutti quelli che hanno un mutuo da pagare.

Guardando a sinistra, non c’è da aspettarsi che questa posizione venga condivisa dal CCC che è ormai diventato la vera cassa di compensazione delle grandi operazioni immobiliari del Paese, perché ci entra come “partner operativo”, cioè senza pagare (non penso solo alle aree Falck di Sesto San Giovanni, ma anche, sempre per restare nel milanese, alle avventure di Segrate e Pioltello, ai progetti siciliani, o all’enormità dell’affare Uniland in Emilia e nel Lazio, ecc.), ma almeno nell’analisi si potrebbe convenire che il sostegno protervo al settore immobiliare ci fa permanere nel ristagno economico e dentro un modello di sviluppo al quale non riusciamo a sottrarci anche perché eccessivamente fondato sulla rendita e sul debito. Gli economisti la chiamano “sindrome di Baumol”, più si insiste e peggio è.

Da qui alla questione morale, purtroppo, il passo è breve. La differenza fra concussione e corruzione è enorme e nello stesso tempo irrilevante. Fra i due reati c’è apparentemente grande differenza perché altro è ricattare al fine di imporre il pagamento di denaro, altro è intascare con nonchalance la busta come frutto di una spontanea donazione. Ma la distanza è davvero solo apparente e quasi scompare del tutto se pensiamo alle tangenti non come ad un reato occasionale, ma come ad un sistema nel quale trovano composizione interessi diversi.

Come per molte fattispecie di reato c’è una fase iniziale, ingenua ed elementare e c’è una fase compiuta, dove il reato si radica nella società liberandosi delle connotazioni violente che lo caratterizzavano. Prendiamo il pizzo: a Milano pare non esista quasi più nella forma tradizionale impositiva: o paghi o ti facciamo saltare la bottega. La finanza criminale ha da gestire grandi capitali e guarda al mondo del commercio con altri occhi. “Penetra” nel sistema commerciale, promuove la realizzazione in franchising, gestisce l’usura con sistemi sofisticati, si è impadronita del business del gioco d’azzardo e delle macchinette mangiasoldi, è in grado di spingere per la creazione di uno spazio normativo funzionale ai suoi interessi. È finito da un pezzo il periodo dell’accumulazione originaria, violenta e crudele: ora la criminalità è un protagonista riconosciuto e articolato, attore a pieno titolo della scena economica. La criminalità di strada si mette in grisaglia e, invece che ai bombaroli, si affida ad avvocati e commercialisti.

Per le tangenti legate al settore immobiliare è la stessa cosa: quando tutti i soggetti “hanno capito come funziona”, il tavolo da gioco è pronto e apparecchiato. Tutto si decide nei preliminari. Se nel rugby c’è il terzo tempo, l’agape comunitaria dove si sublimano tutte le scorrettezze proprie del campo, qui tutto si gioca prima. È nel preliminare, in quella fase di gioco che anticipa la partita ufficiale, quella delle volumetrie, delle compensazioni, delle licenze edilizie e degli spostamenti di denaro, che i soggetti si “annusano” e stabiliscono i codici di comportamento. Questa fase termina quando si crea tra le controparti sufficiente reciproca fiducia e si configura un gioco nel quale tutti hanno il loro guadagno, cioè quando sul valore da attribuire al suolo si raggiunge un punto di caduta condiviso.

Ecco perché nelle inchieste sulle tangenti compare sempre qualche intermediario: occorre ci sia qualcuno che gode della fiducia sia della parte pubblica che della parte privata, che sia in grado di rassicurare entrambi dell’affidabilità dell’altro, che si sappia muovere bene nel sistema immobiliare privato, ma che al tempo stesso conosca le criticità e le debolezze della pubblica amministrazione. Finiti i “preliminari”, il sodalizio è costituito e si può giocare a carte scoperte. A questo sistema, però, ci si può sottrarre. Alla base delle scelte personali che un amministratore fa ci deve però essere sempre una valutazione di merito. Affidarsi troppo all’etica non conviene, perché c’è sempre qualcuno che pensa che in fondo non c’è niente di male a fare la cresta. La valutazione di merito, dunque, non può che riguardare l’interesse pubblico, perché le tangenti sono sempre e inevitabilmente una sottrazione di risorse alla comunità: sono cioè un anticipo sulla promessa di valore che i terreni riusciranno a produrre (qualcuno ha parlato non del tutto a sproposito di “tangenti con l’elastico”). Non provengono dal cielo, ma dalla ricchezza prodotta dal suolo e sono proprio quella parte di prodotto che invece di tornare alla comunità, sotto forma di opere o di servizi, prende una strada laterale.

Ora però c’è un aspetto, extragiudiziale ed extramorale, a partire dalla vicenda Sesto San Giovanni, che va preso seriamente in considerazione ed necessario farlo ora, perché presto sarà già troppo tardi. Il problema riguarda i riflessi che tutta questa storia potrà avere sul modo di governare il territorio. Non a Sesto, ma ovunque nel paese. Il pericolo lo si intravvede già leggendo le dichiarazioni di immobiliaristi e imprenditori coinvolti nell’inchiesta. È possibile, e perfino probabile, che nella temperie dell’inchiesta immobiliaristi, proprietari e pretendenti vari di volumetrie e cambi di destinazione si cerchino di prefigurare per il dopo, quando si parlerà meno di Penati e più di che cosa si deve fare sul territorio, una situazione in cui i comuni non possano mai dire di no.

È un rischio molto concreto: oggi, giustamente, la gente è arrabbiata con la politica e lo è ancora di più coi politici corrotti. Gli immobiliaristi appaiono per lo più come vittime. Per qualcuno è davvero così, per molti non lo è affatto. Se si crea nell’opinione pubblica un sentimento troppo favorevole verso i “diritti” della categoria, si intuisce in quale imbarazzo si potranno presto trovare i comuni. Non quelli “generosi” verso le pretese dei proprietari terrieri o quelli inclini alla corruzione, che saranno solo agevolati e continueranno ancora più indisturbati, ma quelli davvero virtuosi, quelli che intendono contenere il consumo di suolo e l’espansione della rendita, quelli capaci di dire dei no alle pretese degli immobiliaristi. E se il proprietario che si vedesse rifiutato il tradizionale aumento di volumetria o qualche altra agevolazione un domani si sentisse “concusso”?

Non pensiamo al piccolo proprietario che ha da sfruttare un modesto appezzamento. Pensiamo alle grandi compagnie immobiliari, quelle in grado di influenzare l’opinione pubblica (attraverso i giornali, perché ne sono azionisti) e di condizionare il comportamento delle banche (perché siedono nei consigli d’amministrazione): se non si afferma un’opinione diffusa, fondata e strutturata sulle conseguenze economiche e sociali della speculazione immobiliare, non c’è dubbio che la speculazione stessa ne uscirà rafforzata. La speculazione immobiliare è il vero problema per le città e per l’economia e lo sarà ancora di più quando sul caso Penati calerà il sipario.

La questione morale connessa al sistema delle tangenti (sotto diverse forme, consulenze, sponsorizzazioni, donazioni, favori, ecc.) deve essere dunque compresa al di là delle sue implicazioni giudiziarie, perché è ormai del tutto evidente che la speculazione immobiliare è una vera e propria emergenza nazionale, ambientale, ma soprattutto economica e sociale. Di più, così come si configura nel nostro paese, la speculazione può rappresentare un vero e proprio crimine economico, non dissimile dalla falsificazione monetaria. Un tempo, che la speculazione fosse creazione di denaro dal nulla, era una scontata verità per la dottrina economica (si veda il volumetto di A. Del Mar, Storia dei crimini monetari, excelsior 1881), oggi lo si è semplicemente dimenticato. Solo se lo si riconosce è possibile affrontare la cosiddetta questione morale dal verso giusto.

Ammettiamo che il signor Rossi possieda, per qualche insindacabile ragione, una macchina uguale in tutto e per tutto a quella usata dalla zecca per stampare moneta. Il signor Rossi è benestante, onesto e sa bene che stampare soldi falsi è un grave reato, e così la macchina rimane in cantina inutilizzata. Ammettiamo però che un giorno il buonuomo si trovi in gravi difficoltà economiche, che abbia magari subito qualche torto che proprio non si meritava, che la sfortuna si sia accanita contro di lui, che abbia smesso di pagare le rate dell’assicurazione e che sua moglie debba subire un delicato e costoso intervento chirurgico salvavita.

Per un po’ il signor Rossi resiste, chiede senza successo aiuto alle banche e ai parenti, finché stremato deve scegliere tra il rispetto della legge e la commissione di un reato che, nelle condizioni in cui si trova, non gli procurerà nemmeno troppi sensi di colpa. A questo punto tira fuori la macchinetta e comincia a produrre. La moglie è salva, ma la famiglia sempre povera e il futuro dei figli si prospetta gramo. E intanto si avvicina la scadenza della conversione monetaria: la moneta corrente, fortemente svalutata, sarà presto sostituita da una moneta più pesante, via gli ultimi tre zeri. Si tratta pur sempre della famiglia! E allora il Rossi, sempre più solo in lotta contro il destino, sempre più incazzato coi politici che guadagnano un sacco di soldi e lo lasciano nelle peste dopo una vita dedicata al lavoro, ci dà dentro di brutto, fa lavorare il marchingegno giorno e notte e intanto pianifica investimenti e cambio di valuta. Il finale ha poca importanza, ma ammettiamo solo, per un istante, che ci siano in circolazione parecchi signor Rossi e tante macchinette di quel genere: la moneta e l’economia ne soffriranno inevitabilmente.

Molti sindaci si trovano a commettere un crimine analogo, per quanto non sanzionabile, a quello commesso dal signor Rossi: contribuiscono davvero a creare cioè moneta falsa. E questo senza avere una giustificazione altrettanto nobile. È naturale che, in questo contesto, ci sia sempre qualcuno più sgamato degli altri che va oltre. C’è anche la possibilità di portare un po’ di soldi al partito, guadagnarsi una certa riconoscenza e magari scalarne i vertici. Ci si può far pagare la sede per le riunioni o le strutture per le feste che tanto piacciono ai simpatizzanti che amano il ballo e le grigliate… ci si può sistemare per un bel po’.

C’è un aspetto però, che davvero attiene alla morale, che non viene mai sottolineato: tutto il denaro, vero, falso o virtuale, che viene creato o messo in circolazione con questo sistema, deve poi essere davvero convertito in moneta sonante, perché gli speculatori, le banche e tutti i procacciatori che si son dati da fare per il buon fine del progetto, devono essere pagati per davvero. Tutto ricade, in definitiva, su chi le case le costruisce realmente (infatti nell’edilizia è diffuso il caporalato nella forma più arcaica e violenta) e su chi le case le deve acquistare (il cittadino, che si indebita con mutui generazionali).

La salute dell’economia reale viene inevitabilmente compromessa, perché si spalanca una via facile e per niente rischiosa alla ricchezza; è a rischio il sistema creditizio, perché le banche continueranno a rifinanziare gli speculatori per difendere i prestiti già erogati; si creerà uno squilibrio nel mercato degli alloggi, perché il prezzo delle case, sia che vengano costruite sia che rimangano virtuali, dovrà almeno coprire la quantità di moneta creata sulla carta; si erode il risparmio privato che, intrappolato nei mutui, non andrà più ad alimentare le imprese e il mercato dei titoli. Sugli effetti di carattere più squisitamente sociale, poi, ognuno può fare i propri esercizi spirituali e le riflessioni che crede. Basta guardarsi attorno: difficoltà occupazionali, scarsa attitudine al rischio imprenditoriale, giovani che non mollano mai la famiglia di partenza, invecchiamento della popolazione, emergenza abitativa e immigrati che faticano a integrarsi, …..

Un articolo recentemente comparso su «Breakinviews» ad opera di Fiona Maharg-Bravo conferma una volta di più le nostre opinioni sulle conseguenze economiche della speculazione immobiliare.

“uno dei dati più preoccupanti dell’economia spagnola” è il numero degli immobili invenduti: una zavorra di 700.000 case. Ma perché questo stock “zavorra” l’economia? Perché, potrebbe pensare il cittadino, l’economia non va avanti lo stesso. Le case restano lì, chi se ne importa?! In effetti, se le case fossero state costruite da un magnate con soldi tirati fuori direttamente dalla sua cassaforte, potrebbe anche essere così. Se qualcuno ha fatto un investimento, o una speculazione, sbagliata, peggio per lui. Se vuol recuperare qualcosa, che venda a metà prezzo. Ma le cose non stanno così, e quelle case sono davvero una zavorra. “Le banche posseggono una crescente quota di queste case invendute, poiché continuano a pignorare gli immobili dai costruttori edili falliti. Nonostante gli sforzi per liberarsene, stanno ancora accumulando più immobili di quanti riescano a venderne”.

È più chiaro? Lo snodo centrale della moderna economia è la banca, o meglio è il sistema del credito. “Il credito - spiegava Schumpeter – è essenzialmente creazione di potere d’acquisto al fine di cederlo all’imprenditore, e non semplicemente trasferimento di potere d’acquisto… Attraverso il credito si apre agli imprenditori l’accesso al frutto dei beni della società, prima che abbiano acquisito il normale diritto su di essi”. Le banche, ci dice l’economista, non sono semplici intermediari finanziari, ma, attraverso il credito, creano davvero moneta: anzi, in una economia moderna, il credito è il modo essenziale attraverso cui viene creata moneta.

Il credito in un certo senso sostituisce temporaneamente il diritto al denaro con la finzione di esso. Creare denaro in questo modo, attraverso una “finzione”, è utile, addirittura necessario all’economia di scambio, dove prevale la proprietà privata, perché solo in questo modo è possibile lo sviluppo. È il credito che consente di superare quello che è un vero e proprio “ponte sull’abisso” tra immobilità e sviluppo.

Il dispositivo si inceppa pericolosamente, però, quando i beni creati attraverso “la finzione” del credito rimangono invenduti per troppo tempo, a causa di una sovraproduzione o di prezzi eccessivi. L’intero processo può essere definito come inflazione da credito, e qui i problemi, per l’economia, sono davvero seri. Ovviamente questo non vale solo per le case: anche le automobili, se sono troppe e troppo care, restano invendute e i banchieri che hanno finanziato i produttori di veicoli non saranno troppo allegri: non capita mai, però, che le banche creditrici, si prendano in bilancio, a ristoro dei crediti erogati, qualche migliaio di automobili nuove. Con le case è diverso, perché sono beni “immobili”, sono soggette cioè a un deperimento di valore molto lento nel tempo e le variabili anzianità-tecnologia-obsolescenza non sono così significative come nei beni strumentali (ad esempio un’automobile o un computer). E inoltre anche i semplici diritti edificatori vengono ormai trattati come alla stregua di beni veri e propri. Così, invece di svalutare le case invedute, ammettendo gli errori (che, in caso di bolla, sono sistemici, cioè non riguardano singoli costruttori o speculatori, ma il sistema finanziario-costruttivo nel suo insieme) e quindi le perdite, si seguono altre strade. Ovviamente il motivo per cui il sistema fatica ad ammettere le perdite e segue strade alternative è un motivo forte, tutt’altro che insignificante. Non è solo per ingordigia, cioè che immobiliaristi e banche non ammettono perseverano nel dolo: i debiti e i crediti (rispettivamente per i costruttori e per le banche) così accumulati possono rappresentare un problema serio per l’economia, perché le banche, scarsamente capitalizzate, sono troppo esposte. Hanno “creato” troppo denaro a credito e ora che il mercato è fermo quel denaro si sta rivelando non solo una “finzione” temporanea (in attesa di essere convalidato dalle vendite), ma una finzione tout court, cioè si sta rivelando falso. E con questo risultano falsi anche gli attivi corrispondenti delle banche, le ipoteche e tutte le poste finanziarie a garanzia di quei crediti ormai inesigibili. Per difendersi, le banche acquisiscono quindi grandi quantità di immobili, o subentrano direttamente nelle operazioni immobiliari, trasferendo l’esposizione dal credito a beni apparentemente più solidi, ma fortemente illiquidi, cioè difficilmente trasferibili. I bilanci sono formalmente e temporaneamente salvi, ma l’economia è ferma. Le banche, coi bilanci così infettati di asset sopravvalutati (valori immobiliari irreali), evitano i fallimenti ma, in un certo senso, cessano di fare le banche. E per di più sono prese di mira dalla speculazione. Il sistema si “avvita” e uscirne diventa sempre più complicato.

Non è successo solo in Spagna. Il premio nobel Stiglitz sostiene da tempo che anche negli USA occorre ammettere le perdite e deprezzare le ipoteche e l’economista Kobayashi parla di lezione inascoltata del Giappone, dove l’economia, negli anni novanta, nonostante tutti gli aiuti alle banche, cominciò a riprendersi solo quando i bilanci delle banche furono ripuliti e i mercati ripresero fiducia.

Ora la Maharg-Bravo applica lo stesso schema alla Spagna e sostiene che “quanto prima le banche toglieranno dai loro bilanci questi pesi morti, tanto più facile sarà aumentare il credito. Ciò aiuterebbe anche a ridare fiducia al sistema finanziario e potrebbe rivelarsi più efficace che aggiustare alla meglio l’aliquota Iva”.

E in Italia? Da noi siamo ancora più indietro, siamo ancora nella fase della crescita della bolla. Incredibile a dirsi, ma è proprio così. Piani casa, l’edilizia “vero volano dell’economia” (dichiarazioni del governo), turismo “immobiliare” al 20% del pil (idem), città satelliti in ogni provincia (Berlusconi), ecc. E la sinistra? Rimando alla vicenda Mezzini-Uniland e al ruolo che vi hanno avuto il Banco emiliano romagnolo e il Consorzio Cooperative Costruttori. Si capiscono una sacco di cose.

Occorre ripartire dal governo locale. Ma per ora la consapevolezza del problema pare davvero scarsa e le nostre amministrazioni locali sembrano spesso voler salvare se stesse correndo in aiuto alla speculazione più che dare un contributo all’economia reale, favorendo il contenimento del prezzo degli alloggi e arginando la speculazione. Le tangenti andrebbero considerate come l’epifenomeno di un sistema immobiliare malato, inevitabile conseguenza di un’ideologia egoista e demenziale, più che l’effetto della degenerazione politica.

Il Censis del buon Giuseppe De Rita ogni tanto annuncia – con l’immancabile sostegno ed entusiasmo della stampa, specie progressista - una delle sue scoperte, di solito lanciando sul mercato nazionalpopolare l’ennesima confezione di acqua calda, che per carità serve sempre. Ovvero usando dati, censuari o campionari, per confermare o smentire tendenze note a chi si occupa normalmente di quelle questioni, ma che grazie alle entrature del Centro Studi Investimenti Sociali potrebbero più facilmente trasformarsi in politiche pubbliche adeguate. Con la classe dirigente, se mi si consente la battuta, che ci ritroviamo, oggi non pare proprio l’atmosfera più adatta, ma come si dice la speranza è l’ultima a morire. Cos’ha scoperto adesso il Censis? Che oltre il 10% degli italiani vive la condizione riassumibile con l’anglofono single. Sono tanti, tantissimi, potrebbero formare un partito che la Lega Nord se la beve senza accorgersene, ma nessuno si accorge di loro, liquidandoli come stranezza, marginalità percettiva, caratteristi cinematografici sul set della vita.

Da anni, forse da lustri, ogni qual volta emergeva il dato statistico innegabile su questi singles subito saltava fuori l’esperto o il commentatore saldamente ancorato al principio dell’ovvio, a spiegarci che quella statistica non delineava certo un universo di belloni miliardari che lavorano nella moda o nel rock & roll, del tipo che si vedono nelle pubblicità tornare a casa soli a tarda notte a frugare nel frigo. Al massimo l’immagine del single da terzo millennio era la vedova con tanto di crocchia canuta, calza pesante agosto compreso, dotata di serie della borsa a rete da portarsi sulla via per il mercato rionale. Più raro ma ipotizzabile, l’ex marito o ex moglie senza figli alle prese con i disagi e l’adattamento psicologico della vita fuori dalla sacra famiglia nucleare. Stop.

Curioso che poi magari il medesimo pubblico, almeno nelle sue fasce alfabetizzate, trovasse contemporaneamente interessanti teorie come quella di Richard Florida sul ruolo della creative class nel delineare nuovi modelli di organizzazione sociale, produttiva, culturale e urbana. Perché a ben vedere, anche oltre certi schematismi del sociologo americano evidentemente più dettati dal mercato editoriale e delle consulenze che dalla coerenza scientifica, a quella fascia sociale appartenevano molte tipologie di individui, ben oltre il giovane ricco e in attesa di riprodursi (ed emigrare nella conformista categoria statistica dei normodotati). Adesso, anche nella familista e mammona Italia, anche il cantore del casa famiglia bottega territorio locale di solito semirurale che tanto fa bene allo sviluppo, anche lui si accorge che il single esiste e lotta insieme a noi. Alla buon’ora, e magari ciò si deve alla recente conversione psicanalitica del patron della sociologia subliminale, però va tutto bene ciò che finisce bene. Ok. E poi?

E poi pare caschi di nuovo l’asino, almeno da quello che riferisce la solita stampa amica progressista. La nuova entità riconosciuta, poverina, è costretta a spendere uno sproposito in più per consumi individuali indispensabili, tipo il supermercato e dintorni. E si prevede che ci vorrà più welfare. Ovvero, pare di capire, ci siamo statisticamente allargati dalla vedova con crocchia canuta d’ordinanza, ma a lei stiamo saldamente ancorati quanto a categorie interpretative: non si riesce a andare oltre la logica della disgrazia di essere single, e vista l’impossibilità di introdurre una bella tassa sul celibato (magari qualcuno del centrodestra ci ha pensato) come succedeva ai bei tempi, si evoca il welfare. Presumibilmente sognando simil-case di riposo, assistenza domiciliare per giovani eccetera? Magari no, però davvero anche rispetto ai fighetti ricchi e urbani di Richard Florida siamo indietro di qualche anno luce.

Il single, tanto per continuare a usare l’inglese in modo proprio, è una household tanto quanto la famiglia nucleare, tanto quanto la comunità, tanto quanto tutte le altre entità anche non riconosciute dalla nostra classe dirigente, se mi si consente la battuta: Remember DICO, remember PACS ecc.?

Oltre ad affermare diritti in modo astratto, tocca poi ragionare di conseguenza per vedere di dargli delle gambe meno vacillanti, a quei diritti, riorganizzando un pochino il mondo su cui camminano.

Giusto per restare dalle parti della ragione sociale classica del Censis, i territori, ce n’è uno che da sempre fa la parte del leone, ed è la dispersione suburbana ex rurale dei cosiddetti distretti, in cui si tollera di tutto perché si tiene famiglia, indissolubilmente legata a bottega, evasione, allegra ignoranza di norme ambientali e sul lavoro .. Giudizi sommari e magari un po’ pure somari, i miei, ma spero ci siamo capiti quanto a sostanza: il classico suburbio a bassa densità con capifamiglia mogli bambini anziani tutti al loro posto, è il brodo di coltura internazionale della household classica emersa dalla civiltà industriale novecentesca-automobilistica eccetera. Quale è stata l’intuizione innovativa di Florida, in una società già in gran misura postindustriale, che però ancora si fa trascinare indietro proprio dall’organizzazione spaziale disegnata su quel modello, e ingessata in decenni di investimenti delle famiglie? Che c’è un nuovo distretto di sviluppo, rappresentato da quartiere urbano mixed-use. Dove si vive, si lavora, ci si incontra, si è tolleranti, individuali e sociali.

Florida, così come ad esempio l’economista urbano Glaeser, o gli esponenti di punta del new urbanism, da bravi americani attenti agli affari e a non scontentare troppo nessuna potenziale clientela, ovviamente puntano su ciò che più fa immagine, e meno rischia di toccare esplicitamente il portafoglio di chi paga le tasse. Da qui le immagini spesso al limite del ridicolo, di posti che forse esistono solo in qualche opuscolo immobiliare, o magari negli esperimenti di centro commerciale di lusso con annesso residence. I quartieri veri, le città vere, sono un’altra cosa, lo sanno pure loro. Ma pensare solo alla “fragilità sociale” del single, alla necessità di interventi di welfare, vuol dire proprio essere graniticamente cocciuti in quel modello sfigato casa chiesa bottega di cui sopra. Che tra l’altro non funziona nemmeno più tanto bene, come ci raccontano altre statistiche, oltre a far malissimo allo stesso territorio decantato guardando solo ai conti correnti.

Certo, se intendessimo il welfare all’antica, che dico alla postmoderna, estendendolo alle cosiddette urbanizzazioni secondarie, e pure alla produzione di spazi in generale, sarebbe tutta un’altra cosa. Niente individui solitari naufraghi dentro all’unico modello di residenza che offre il mitico mercato, tagliato in semiesclusiva sulla domanda mamma papà bambini più tavernetta per festicciole di fianco al garage a tre posti. E niente più giardinetti residuali per distribuzione di briciole ai piccioni in attesa dell’eterna dipartita, o ad esempio quelle piste ciclabili esiziali, dal sagrato al piazzale del cimitero (ce ne sono a decine di migliaia concepite esattamente così, per una clientela di massa anziano-dolente ma sportiva). Il quartiere di Richard Florida popolato da improbabili modelle e maghi del social network (in fondo l’hanno rifilato pure a noi, con Santa Giulia di Foster) sarà una finzione retorica, ma in fondo lo è anche la mitologia del territorio produttivo operoso e familista, su cui modulare ogni Investimento Sociale, per omnia secula seculorum. Cose che il progressista, quando ad esempio cerca voti consensi idee, non dovrebbe tanto prendere sotto gamba.

Per chi ama la statistica e le fonti originali, di seguito l’articolo che ha ispirato questo post (f.b.)

Caterina Pasolini, “Il boom dei single, in Italia sono ormai sette milioni”. la Repubblica, 24 settembre 2011



ROMA - Soli ma socievoli, senza famiglia o coinquilini per scelta, e non solo per età o destino. Eccoli, sono i single italiani del nuovo millennio: 7 milioni di persone che abitano case e monolocali senza compagni, mogli o figli a riempire serate e silenzi, a creare confusione, scatenare litigi o risolvere assieme problemi. Sempre di più, sempre più spesso gli italiani si ritrovano a non condividere la vita quotidiana e in dieci anni è stato un vero e proprio boom: le famiglie composte da una sola persona sono infatti cresciute del 39%.

Lo dicono le cifre, elaborate dal Censis su dati Istat, che fotografano un paese dove si convive sempre meno e avere figli tra crisi e lavoro precario è un’impresa. Così se i single crescono del 39% e le coppie aumentano solo del 20%, molte culle restano vuote. Tanto che le famiglie con figli calano complessivamente del 7 per cento. Pochi i nuovi genitori (un misero più 2 %) mentre i nuclei con cinque e più persone (tre bambini o i nonni a carico) crollano del 18%.

Ma chi sono i nuovi unici padroni di casa che, stando ai dati della Confesercenti, si ritrovano a spendere per acquisti alimentari 71% in più rispetto a chi vive in coppia, ovvero 320 euro contro 187? Vedove, anziani, si sarebbe detto fino a poco tempo fa, ma ora le cose sono cambiate: «Vivere da soli è una condizione di vita che ormai coinvolge tutte le fasce di età», conferma Giuseppe de Rita, presidente del Censis.

In effetti, se è vero che dei sette milioni meno della metà sono pensionati, dall’altro lato si moltiplica in maniera esponenziale il numero delle persone che vive sola da quando è giovane. Tra i 15 e i 45 anni è infatti cresciuto rispetto al duemila del 66% (pari a 790mila unità) il numero di chi non condivide quotidianamente tavola e letto. Tra gli over 45 ma non ancora in pensione, negli ultimi dieci anni è più 59,9% (pari a 628mila) di non conviventi mentre tra gli anziani c’è un aumento del 19% (540mila persone).

Sono più giovani del previsto i single del nuovo millennio, e hanno le idee chiare su cosa faranno nei prossimi dieci anni. Quali luoghi e persone frequenteranno. Il 60% si vede con amici e parenti, il 29% va a cinema teatro, concerti e musei. Il 21% è decisamente attratto dai centro commerciali mentre il 17 vorrebbe partecipare a manifestazioni di piazza. L’11% pensa di coccolarsi in centri benessere, studi estetici e palestre. Chi può, un dieci per cento, punta a riposarsi nella seconda casa mentre i più giovani (4%) amano andare in discoteca.

L’esercito fotografato dal Censis, rappresenta il 13,6% della popolazione italiana dai 15 anni in su. Nel complesso sono più le donne degli uomini a vivere da sole (il 15,5% a fronte dell’11,6%). Ma se si guarda alle fasce di età, la fotografia del paese racconta storie di uomini solitari e padri separati con i figli affidati alle compagne, visto che tra i 15 e i 64 anni sono soprattutto i maschi a vivere non in coppia o in famiglia. Tra gli anziani le donne padrone di casa assolute sono invece molte di più (38% contro il 15%) a testimoniare la longevità femminile.

«Vivere da soli - dice Giuseppe De Rita - non vuol dire essere una monade, ma rappresenta comunque una fragilità sociale, visto che in genere, in caso di bisogno, ci si rivolge al coniuge o al convivente. Per questo il nuovo welfare deve moltiplicare al suo interno le relazioni, soprattutto quelle che nascono dal volontariato e dall’associazionismo, che costituiscono forze di coesione cruciali».

Un amico mi ha segnalato una cosa che gli è parsa strana. A me, dopo aver riflettuto, si è rivelata invece molto grave. Racconto ordinatamente.

L’antefatto. Tre anni fa un serio e rigoroso urbanista, Giuseppe Boatti, professore al Politecnico di Milano ha partecipato a un concorso universitario e non ha avuto il risultato che riteneva giusto, essendo stato scavalcato da un candidato che aveva titoli scientifici e didattici molto inferiori ai suoi. Ha ricorso al Tar e ha perso, perché il giudice ha ritenuto che la scelta effettuata dalla commissione giudicatrice rientrasse nella sua discrezionalità. Cose che capitano.

Il fatto. Un giornale nazionale, il Giornale, pubblica il 15 settembre scorso, in seconda pagina dell’edizione milanese con “strillo” in prima pagina, un articolo dal titolo “Nessun complotto. E il Tar boccia Boatti”. Veramente strano. Un quotidiano di quel calibro (è la corazzata della stampa berlusconiana) che si occupa dell’esito di un ricorso amministrativo per una controversia di carriera accademica? Addirittura con la fotografia del ricorrrente? Poi ho letto l’articolo. E ho capito. La spiegazione sta nelle parole che raccontano ai lettori del foglio chi è Giuseppe Boatti: è niente di meno «uno dei padri dell’opposizione cittadina ai grattacieli, quello che – in un’intervista al quotidiano la Repubblica del 23 novembre 2007 – disse che a Milano “i palazzi crescono non dove serve, ma dove conviene”». Per la verità è anche uno che si è opposto a tutte le malefatte dell’urbanistica milanese negli ultimi decenni, di destra e di sinistra, con le puntuali critiche, le coraggiose denunce, le costanti proposte alternative, e sempre la rigorosa attenzione alle ragioni della legittimità, della giustizia e dell’equità (che sono aspetti diversi della difesa del cittadino contro i potenti). Ecco perché. Del resto, non è lo stesso foglio che ha inventato dal nulla lo “scandalo” Boffo (il direttore dell’Avvenire costretto alle dimissioni dal fango falso gettato da quel foglio)? Diffamare, intrufolandosi nelle vicende personali e distorcendone gli eventi: così si fa la lotta politica nell’Italia del neoliberismo straccione. Ma poi mi è venuto un altro pensiero. Un brutto pensiero.

Il brutto pensiero. Come mai Boatti? Quanti urbanisti ci sono a Milano, e quanti nell’università? Moltissimi. E saranno certamente molti tra loro – pensavo - quelli che, fedeli al loro mestiere e alla loro cultura, avranno aspramente contrastato la politica urbanistica. Ho riflettuto, ma ne sono venuti in mente pochissimi. Li ho avvertiti: questa volta è toccato a Boatti, la volta prossima toccherà a voi, che avete criticato le stesse cose che Boatti ha osato criticare, dal ”rito ambrosiano” fino alle molte forme della “urbanistica contrattatata” e della ”urbanistica finanziarizzata” di oggi. Poi ho pensato: come mai ho dovuto fare così poche telefonate? Qui mi è venuto il brutto pensiero. Forse agli altri, ai più, quello che Boatti (e gli altri tre) criticano piace. Vediamo e aspettiamo. Magari questa volta si svegliano.

Per spiegare le rivolte britanniche qualcuno ha usato, in modo corretto e inappuntabile, la pianificazione urbanistica. Un bell’articolo proposto dal Guardian ha stilato un brevissimo e sistematico elenco delle differenze di contesto fra le città dove le rivolte c’erano state, e altre dove in una situazione apparentemente identica non era invece successo nulla. E fra organizzazione delle bande giovanili, tipologia delle droghe più diffuse, è spuntata anche la composizione pianificata delle zone: là dove i complessi di case popolari sono stati in qualche modo integrati nel tessuto urbano insieme alle altre tipologie e fasce di reddito, i ragazzi sono scesi in strada a devastare e saccheggiare; dove quei quartieri se ne stanno concentrati per i fatti loro a comporre una immensa brulla periferia, a quanto pare non è successo nulla. Abbastanza ovvia l'ispirazione che un’idea del genere potrebbe immediatamente fornire agli amministratori di destra, a recuperare lo zoning rigido all’americana per motivi di ordine pubblico, e far così contemporaneamente un favore agli amichetti immobiliaristi. Meno ovvia l’altra considerazione: sarebbe mai venuta in mente a un osservatore italiano qualcosa del genere? Mi riferisco al tipo di lettura, non al trucchetto conseguente. E la risposta è: improbabile, per non dire quasi impossibile. La nostra cultura, oltre alla notoria refrattarietà rispetto a un approccio scientifico, pare sconti sterminate lacune anche rispetto a cose puramente empiriche, il tipo di roba che si ha davanti al naso ma pervicacemente si ignora. La geografia innanzitutto, urbana, suburbana o rurale che sia.

Ad esempio su la Repubblica Cinzia Sasso, pubblica un reportage dalla pianura cremonese dove si sta per inaugurare un grande tempio Sikh. L’articolo mi incuriosisce perché anch’io ci ho scritto qualcosa su quel tema, giorni fa, e lo leggo con una certa attenzione. Agli altri pezzi pubblicati sulla stampa non aggiunge molto in termini informativi, qui la particolarità è tutta nelle atmosfere: la padania profonda, l’integrazione sul territorio della comunità Sikh, il piccolo comune col grande cartello antidiscriminazione, magari fra quelli destinati ad essere soppressi visto che attorno alla chiesa e alla manciata di case abitano solo poche centinaia di anime elettrici, immigrati a parte. Ma tutta questa atmosfera locale dal luogo pare non cavare assolutamente nulla. Si descrive il paese, e poi si salta al capannone del Tempio, in un luogo che ha in comune solo ed esclusivamente il sindaco, visto che sta a un quarto d’ora in macchina di distanza, alle porte di un altro comune, oltre una delle strade statali più importanti di tutta l’area padana. In altre parole, i Sikh li hanno letteralmente cacciati in un angolo, e poco importa da questo punto di vista se quell’area se la sono comprata loro perché costava poco. Il fatto è che Cinzia Sasso dal punto di vista geografico ci sta raccontando una balla enorme: il paese, la chiesina, la gente che sta in piazza, e il tempio Sikh, non hanno alcun rapporto, se non quello del sindaco che dice questo è il mio comune, qui facciamo queste scelte. Ma è proprio il QUI che non è affatto chiaro e inequivocabile.

La cosa in sé andrebbe benissimo, e la signora Sasso magari potrebbe anche chiacchierare informalmente col sindaco di Milano Giuliano Pisapia (visto che è suo marito) della particolare prospettiva in cui relaziona direttamente luoghi molto lontani, e le persone che li abitano. Ma personalmente spero proprio che poi il sindaco di Milano in quanto tale non sia più di tanto contagiato dalla prospettiva classicamente iperspaziale. Almeno lui, o almeno gli amministratori in generale, dovrebbero avere un pochino a cuore la consistenza pratica di ciò che amministrano, no? Ve lo immaginate ad esempio Pisapia che visita un quartiere di Monza elargendo promesse a man bassa a tutti gli abitanti, a proposito di trasporti, rifiuti, asili e compagnia bella? No che non ve lo immaginate, salvo in un incubo alcolico. Ma per strano che possa sembrare, la relazione con lo spazio fisico (che significa anche ambiente, in senso non ideologico, trasporti un po’ oltre i diagrammi di flusso ecc. ecc.) della politica così come della società italiana più in generale pare davvero somigliare all’iperspazio di Star Trek. Ve lo ricordate, no? L’equipaggio tutto insieme all’astronave Enterprise si spostava da una galassia all’altra infilandosi in una specie di corsia riservata invisibile dove tutto spariva in una specie di centrifuga da lavatrice, per rimaterializzarsi a milioni di anni luce di distanza. Gli stessi singoli membri, di solito il comandante Kirk e il serioso signor Spock, usavano un metodo simile per coprire gli ultimi diciamo centomila chilometri, dall’orbita ellittica attorno al pianeta di turno fino al teatro dell’azione della puntata. Anche lì, si sistemavano sotto una specie di doccia iperspaziale, sparivano fra schizzi di particelle, per ritrovarsi un istante più tardi sulla superficie di una foresta, di un deserto, insomma altrove.

Ho scoperto da poco che l’iperspazio di Star Trek, oltre ad essere una trovata fantascientifica, era anche una pensata degli sceneggiatori per risparmiare sul magro bilancio delle prime serie di telefilm: gli effetti speciali che simulano il trasferimento su lunghe distanze, costano, molto meglio scaricare tutto il peso sull’immaginazione degli spettatori, titillati da una qualsiasi doccia di lustrini centrifugati. Però questo uso sistematico e inconsapevole, ma ostinato, dell’iperspazio manco fosse la quarta magica “I” dell’innovazione berlusconiana è davvero micidiale. Si parla e straparla di territorio, ma poi pervicacemente lo si ignora proprio nella sua dimensione essenziale, che è quella fisica. Previsioni insediative fantasiose al limite della vera e propria criminalità ambientale o sociale, trasformazioni e opere decise senza alcun riferimento alla realtà tangibile, al punto che per la contestualizzazione, diventata un passaggio successivo anziché preliminare, è comune il ricorso sistematico ad appositi strumenti retorici comunicativi. Fra i casi al tempo stesso più divertenti ed emblematici, la famosa dichiarazione dell’archistar Mario Botta di essersi ispirato, per un megaprogetto a Sarzana (in provincia di La Spezia) alle tipiche architetture tradizionali mantovane. Sconcerto tra gli esterrefatti rappresentanti dei comitati che si chiedevano giustamente, ma questo ci è o ci fa? La risposta esatta è né uno né l’altro: a suo modo in ottima fede, l’architetto di fama internazionale usava il classico modello comunicativo iperspaziale, in cui il territorio è solo un vago sfondo alle proprie divagazioni. E dove confondere Suzzara (che sta appunto in provincia di Mantova) con Sarzana è cosuccia da nulla, lapsus telefonico che si corregge con uno starnuto. Che lo starnuto scarichi poi milioni di metri cubi pure fuori contesto, è di nuovo un dettaglio di poco conto, visto che il progetto era quello e quello sarebbe restato, a cambiare potevano essere solo le chiacchiere di contorno. Lustrini in centrifuga iperspaziale.

La famosa metafora della città infinita, inventata da un gruppo di tuttologi semianalfabeti e pubblicitari attenti solo al ritmo della comunicazione, è un prodotto dello stesso tipo, per vendere un’autostrada astraendola del tutto dal contenuto materiale e spaziale. La centrifuga dei lustrini alla Star Trek qui assorbe l’immaginario e l’attenzione degli abitanti e in certa misura anche di osservatori esperti (o sedicenti tali), scaraventando qualcuno alla dimensione satellitare, dove magari basta una pennellatina di verde falso in più a confondere le idee sul tracciato, o nel puro iper-uranio delle idee filosofiche, che ciascuno declina a modo proprio. E la puzzolente striscia di asfalto si allontana miracolosamente dai luoghi sensibili, o diventa ciò che non è e non potrà mai essere, ovvero un parco, un percorso ciclabile, una bacchetta magica per essere tutti più belli, moderni, sani e forti. Addirittura più giusti, democratici, alla moda: chissà, pure con gli addominali più definiti e le tette più sode di chi la città infinita non ce l’ha. Miracoli dell’iperspazio!

Poi, tornati sulla terraferma, un po’ come Kirk e Spock nelle puntate dalla trama intricata, spuntiamo in mezzo all’alluvione (di solito cementizia, o di traffico, o di rifiuti smaltiti male …) e nessuno ci aveva avvertito. Non sarebbe stato meglio saperlo, in fondo? Si, se vogliamo essere una società democratica, consapevole, in grado per quanto possibile di autogovernarsi. Certamente no se abbiamo in fondo delle idee destrorse e autoritarie, pronte alla delega assoluta purché non si tocchi il nostro orticello, il mitico cortile di casa della retorica nimby, dove appunto tutto il resto è misterioso iperspazio, sconosciuto e privo di interesse. Sconosciuto anche nelle relazioni dirette con l’amato cortile di casa, che quasi sempre in un modo o nell’altro ci sono: dal capannone/tempio Sikh che la signora Cinzia Sasso ambienta in centro a Pessina Cremonese mentre se ne sta a cacciato a chilometri di distanza perso nei campi; al piano urbanistico della Milano metropolitana che suo marito il sindaco Giuliano Pisapia lotta per far diventare davvero tale, ma senza poteri reali che vadano oltre gli angusti confini del suo comune. Certo è complicato spiegare al cittadino comune quanto demente fosse il progetto dei fanatici ciellini e degli speculatori, quando volevano costruire dentro a Milano quanto basta e avanza a ospitare la popolazione di mezza provincia. Complicato far capire che se il comune grande fa così, allora anche quelli più piccoli vorranno farlo, e che allora si esaurisce lo spazio di tutti. Ma davvero è tanto complicato? Davvero bisogna rinunciare da subito a far ragionare la gente, a mostrargli quello che in fondo ha davanti agli occhi?

Certo, così poi il consenso per le proprie scelte bisogna davvero conquistarselo. Non basta scovare un pubblicitario che inventa le architetture tradizionali sarzanesi che piacevano a una fantomatica nonna Cesarina, o la città infinita che rassoda le tette grazie al magico profumo di modernità pedemontana immersa nel verde sinergico. Che non vuol dire niente, ma titilla la fantasia, e ti frega. C’è un motivo importante, per spiegare davvero cosa significa lo spazio fisico ai cittadini. Patrick Abercrombie, uno dei padri dell’urbanistica del ‘900, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale provò a sostenere la necessità di studi geografici e territoriali obbligatori nelle scuole medie e superiori, con particolare riguardo agli ambienti antropizzati. Il suo argomento principale era: se le nostre truppe avessero avuto più strumenti di lettura del territorio, probabilmente avremmo vinto più facilmente la guerra, con meno morti, meno tempo, meno costi. Oggi qualcuno in Gran Bretagna analizza lo spazio fisico della metropoli, e spiega anche così il diverso manifestarsi della conflittualità giovanile che ha messo a ferro e fuoco le città. Ovvero, legge il territorio e usa tutti i mezzi della conoscenza spaziale per vincere la guerra: poi il come vincerla si può declinare a destra o a sinistra. Ovvero in modo progressista, leggendo gli aspetti di stimolo del conflitto e quindi anche degli assetti spaziali che lo hanno determinato. O in modo conservatore/reazionario, interpretando la classica equazione conflitto uguale crimine, e individuando la necessità di abolire i suoi presupposti spaziali. Forse non è un caso, che sia proprio la cultura del neoliberalismo ad aver alimentato negli ultimi lustri la scomparsa degli spazi pubblici urbani: meno strade complesse, meno piazze, più centri commerciali e gated communities presidiati dalla vigilanza privata e a democrazia limitata. E, si noti, il centro commerciale è anche labirintico per scelta e strategia: ne sanno qualcosa gi utenti delle stazioni ferroviarie che i nostri valorizzatori stanno trasformando in gallerie di negozi con nascosta da qualche parte una biglietteria e una pensilina per partenze e arrivi.

Conoscere lo spazio, promuoverne e divulgarne la conoscenza, stimola l’interazione sociale, anche nelle forme estreme che a volte si esprimono nel conflitto. Non conoscerlo, rendere il più possibile complicata ed opaca una consapevolezza del territorio, è operazione autoritaria e reazionaria. Come non capire, né voler discutere con nessuno, il fatto che non si può descrivere ad esempio la città di Roma guardando la cartina delle due linee della metropolitana. O negli studi sociologici parlare per pagine e pagine in un libro del problema della dispersione urbana detta sprawl (che si compone di villette e capannoni sparsi su grandi distanze) e poi quando si arriva agli esempi pratici di esistenze ed esperienze esistenziali, piazzarle invece di punto in bianco nel bel mezzo di un centro storico, con la piazza e il bar sport all’angolo. O descrivere la vita del paesino padano coi sikh che mungono operosi le vacche da parmigiano doc e poi fingendo di girar semplicemente l’angolo … zac! imboccare invece l’iperspazio di Star Trek e rimaterializzarsi davanti al tempio capannone a qualche chilometro di distanza. Non è un dettaglio che interessa solo i geometri o i pignoli: magari potrebbe evitarci fra una generazione una bella rivolta dei giovani Sikh nella padania felix.

visto che è stato usato come una sorta di pretesto anche senza essere stato riprodotto sul sito, l'articolo di Cinzia Sasso è scaricabile direttamente in formato pdf (f.b.)

Meglio cominciare con la buona notizia, anzi ottima: da quando è iniziata la bella stagione 2011 le pagine cronaca e cultura di quotidiani pullulano di articoli sulla mobilità ciclabile. Ma c’è di più. Nel senso che in gran parte evapora subito anche il sospetto della subliminale promozione di qualcosa, dal nuovo modello superleggero all’accessorio firmato per la signora elegante e compagnia bella. No, quegli articoli parlano proprio dello spostarsi in bicicletta, andare da qui a lì pedalando, guardandosi in giro, da soli o in compagnia.

Però la buona notizia è già finita, perché sono quasi tutti articoli di destra, di destra estrema, subdolamente ispirati da fonti reazionarie, che vanno dai riferimenti culturali futuristi del fascismo classico a quelli postmoderni dei neoliberismo, la velocità spietatamente individualista da Marinetti a Boris Johnson tanto per dirne uno.

Possibile? Possibile.

Per fare un esempio pratico della perversione tendenziale di certa pubblicistica (e delle pratiche che poi inevitabilmente induce) basta riassumere uno di questi articoli, dedicato a decantare il minuscolo prodotto collaterale ciclabile di ben due Grandi Opere, ovvero l’alta velocità ferroviaria e l’Expo milanese. Succede che bontà loro ingegneri e managers trovino il tempo e il denaro per realizzare un collegamento continuo fra l’area metropolitana e il parco del Ticino, il giornalista salta in sella e il racconto inizia a dipanarsi. Guarda di qua, guarda di là, com’è fatta la pavimentazione, qualche pregio e difetto del percorso e degli attraversamenti, si arriva a destinazione e si conclude con l’avviso ai futuri curiosi: portatevi una bottiglia d’acqua e l’occorrente per riparare eventuali forature. Buttate anche lì, fra una cosa e l’altra, l’origine e la destinazione del percorso: il fondo cieco di una strada asfaltata che smette di essere tale, e il retro di un capannone ai margini di una zona industriale. Non sono cose marginali: riassumono tutto un mondo, che riproduce esattamente il contesto della Grande Opera su piccola scala. Sta qui, la connotazione autoritaria, di destra, elitaria eccetera, nella pista ciclabile da casello a casello.

Le cose non cambiano se invece di iniziare e terminare dietro un capannone le piste ciclabili di destra sbucano davanti a un panorama mozzafiato, o iniziano a inerpicarsi in una macchia di conifere di fianco alla chiesetta romanica. Resta identica la logica autostradale, dell’ambiente segregato, che forse piace moltissimo anche ai progettisti specializzati (che altrimenti dovrebbero confrontarsi con necessità diverse e rinunciare a qualche irresistibile tic aziendale) ma fa malissimo alla stessa idea di mobilità dolce suggerita dalla bicicletta. In poche parole, chi pensa, realizza, usa questo sistema di comunicazione, lo fa via via confrontandosi sempre meno col resto del mondo, e sempre più con una propria logica esclusiva, senza neppure accorgersene, fino a quando non è troppo tardi, e il danno è fatto. Un danno che si vede soprattutto nei punti di frizione obbligatoria fra un rete e l’altra, a partire da quella dei pedoni: non a caso a Manhattan è immediatamente esplosa la conflittualità dei quartieri attraversati dalle nuove piste dell’assessora ai trasporti Sadik-Kahn; non a caso gli ultimi sussulti del centrodestra milanese simbolicamente vedono sindaco e garrulo assessore a dipingere biciclette sui marciapiedi, in campagna elettorale.

Gli indizi di questo approccio pericolosamente di destra e autostradale alla ciclabilità sono tantissimi, e vorrei qui citarne uno particolarmente vistoso e apparentemente eccezionale, ovvero i due incidenti mortali che nel giro di un paio d’anni hanno coinvolto dei ciclisti di fianco alla pista dedicata, a qualche centinaio di metri da casa mia. Quei due ciclisti non viaggiavano sulla pista ciclabile, ma sulla corsia veloce di uno svincolo automobilistico che le sta di fianco, di quelle con pochissima visibilità e guard-rail zincato doppio. Imprudenza? No, soprattutto stupidità dei progettisti, e scarsa cura nella costruzione del percorso per le biciclette. Quanti ne vediamo e sperimentiamo ogni giorno, di casi del genere, identici salvo il morto? La pista ciclabile c’è, è costata parecchi soldi del contribuente, ma per entrarci bisogna essere dei veri esperti, del luogo o della perversione progettuale tipica. Chi non trova l’ingresso, magari è costretto appunto a costeggiare per centinaia e centinaia di metri qualche doppio guard-rail zincato, o invalicabile barriera new jersey, facendosi sfiorare il gomito sinistro dalle portiere dei veicoli in corsa, e facendosi pure maledire parecchie volte. Il paradiso del ciclista se ne sta visibilissimo oltre la barriera, ma non c’è alcun varco per entrarci: solo quell’unico ingresso per eletti, ovvero chi sa, ha avuto l’illuminazione. Più prosaicamente, un ambientino alla James Ballard, e ci passiamo ogni giorno, ballardianamente senza farci caso, nell’inferno del geometra.

Ecco, forse ci vorrebbe proprio Ballard, cantore esperto della banale perversione del suburbio, a tradurre in racconto l’incubo della pista ciclabile segregata che ci stiamo costruendo attorno blaterando invece in buona fede di mobilità dolce, rispetto per l’ambiente eccetera. Quei labirinti assurdi che disegnano sadici circoli attorno a una pozzanghera puzzolente mai asciutta, scavalcano la superstrada su una passerella che abbiamo visto centinaia di volte passando, ma non siamo mai riusciti a raggiungere (attraversando invece le quattro corsie dal trafficatissimo varco nella siepe). O magari le pedalate sognanti e balsamiche attraverso boschi, corsi d’acqua, monumenti storici, che però iniziano e finiscono dietro un capannone, vuoti nel tempo nello spazio e nella società, come la settimana in barca dei tre uomini di Jerome, che poi ritornano identici in ufficio.

Sono decisamente fuori dal tempo e dallo spazio, tutti quelli che sfilano segregati sulla pista dedicata lontano da tutto, magari impegnati a distinguersi ancora di più fra bici high-tech costose, magliette e accessori firmati, riproduzione in scala del Suv lasciato parcheggiato dietro il famoso capannone dove si esaurisce la pista segregata. Del resto glie l’hanno progettata così, come prima gli avevano progettato l’autostrada dei laghi, del sole, dalla pineta ecc. Ballard ci ha raccontato diverse volte la rivolta spontanea reazionaria e senza senso, di tutti coloro che si ritrovano in un ambiente chiuso, dal condominio, al centro commerciale alla gated community. E se i geometri vittime della lobby ciclistica benintenzionata ci stessero preparando una bike-riot del terzo millennio? Pare una cazzata, e probabilmente lo è, ma pensarci non costa nulla. Progettare meglio i percorsi ciclabili, ancora meno.

Quando proviamo a spiegare la dimensione metropolitana agli studenti del primo anno che si avvicinano titubanti alle mistiche del territorio, risulta parecchio utile quello schemino grafico chiamato transect dai nuovi urbanisti americani: sul un lato c’è il classico profilo di una città, con le torri, gli edifici fitti, le vie relativamente strette, poi una fascia in cui i viali iniziano a popolarsi di alberi magari anche in duplice filare, e i fabbricati a distanziarsi, alla fine sullo sfondo del cielo ci sono più ciuffi di foglie che falde di tetti. È particolarmente utile quello schema per chi si esercita sulla fascia orientale dell’area milanese, che la pianificazione provinciale chiama Adda-Martesana, sviluppata sull’asse della Padana Superiore e del tronco extraurbano della Metropolitana linea 2.

Gli americani articolano questa specie di "sezione territoriale" in varie fasce, e nell'area milanese si può riconoscere una Transect1, una Transect2 e una Transect3. Nella T1 ci stanno le aree quasi solo amministrativamente distinte dal capoluogo, come la Cologno di Mediaset o la Segrate di Mondadori e dell’ospedale San Raffaele; poi c’è la T2 dei grossi centri intermedi con le forti concentrazioni industriali e residenziali, da Cernusco a Gorgonzola fino al capolinea MM2 di Gessate (e al futuro tracciato esterno autostradale della TEEM); qui inizia l’ultima fascia, la T3 dove ancora qualcuno è convinto di stare in campagna, magari solo perché ci vuole un sacco di tempo per fare in macchina la quindicina di chilometri che lo separano dalla linea della Tangenziale. E poi c’è quel bell’odore di sterco di vacca, genuino ed evocativo.

Lo chiamavano idiotismo della vita rustica Marx e Engels, lo chiameremmo (dovremmo chiamarlo) ideologia suburbana noialtri, giusto per aggiornare il medesimo concetto. Oggi non ci sono più l’analfabetismo, la superstizione, l’isolamento fisico e culturale dell’epoca tradizionale, ma non ci sono dubbi che nei cul-de-sac residenziali e produttivi, nelle varie Wisteria Lane o viale Di Vittorio cresciuti negli anni attorno ai minuscoli centri storici di cascine con ex villa padronale, scorre una vita per nulla metropolitana. Almeno se con l’aggettivo intendiamo la serie di caratteri positivi ancora così ben riassunti da una delle “calamite” di Ebenezer Howard.

Inzago, pianeta Transect3, dove si è manifestato in questi giorni il fattaccio delle operaie discriminate nel silenzio dei compagni di lavoro, lasciate a casa perché così possono fare meglio ciò che la natura ha riservato alle donne (almeno nell’opinione di chi decide localmente). Inzago, dove se spegniamo le lampadine e i motori delle automobili si può tranquillamente precipitare in uno di quei begli ambienti da decentramento industriale otto-novecentesco, tale e quale alla Crespi d’Adda che da qui si raggiunge facilmente anche in bicicletta.

Sul manifesto di oggi 1 luglio 2001, Ida Dominijanni osserva che si sarebbe “tornati” a un modello di relazioni industriali anni ’50. Osservato dalla prospettiva dello sviluppo territoriale e sociale prevalente, quello che si mangia territorio agricolo senza costruire nulla che si possa lontanamente paragonare alla città (diffusa o vaporizzata o infinita, a piacere degli appassionati consulenti di settore), il caso è un po’ diverso. Nel senso che a quegli anni ’50 ci siamo rimasti, come dovrebbe apparire evidente proprio dallo schema insediativo, auspicabile e sostenibile solo per chi ragiona fantasticando american dreams di capifamiglia con l’automobile, che escono ogni mattina dalle villette, salutati dalle mogli, e queste poco dopo escono a loro volta per accompagnare con la seconda macchina i figli a scuola, nel centro polifunzionale raggiungibile quasi esclusivamente in quel modo. Poi una sosta al centro commerciale (qui si chiama la Corte Lombarda, realizzato col classico trucco dell’enclave comunale incistata nella circoscrizione concorrente, a fabbricare congestione a carico di altri), e magari i bambini li andranno a prendere i nonni, per portarli al doposcuola, con la terza e quarta macchina della famiglia allargata e del welfare privatizzato.

Quasi ovvio che, intente ad opre femminili varie, atteggiamenti d’ordinanza più o meno imposti da casalinga disperata, vago avvenir che in mente avevano, le donne qui nascano già con una tara da discriminazione anni ’50. Per fortuna un pochino di idea di città pare filtrata, insieme agli scarichi, anche sul pianeta suburbano Transect 3, speriamo che riesca a imporsi.

La musica classica fa aumentare la produzione di latte delle vacche, e tiene un po’ occupato il cervello dei popoli bue nei momenti di passaggio. Fino a non molti anni fa, forse ancora oggi in certi paesi e contesti, alla morte o caduta del potente di turno, della classe dirigente indiscutibile e indiscussa, si accompagnavano giorni e giorni di silenzio, rotto solo dalle note di qualche musicista sette-ottocentesco trasmesse dalla radio. Adesso il mondo in generale non deve più subire per forza quei lunghi momenti di tempo sospeso, e però …

Però ad esempio quando ci sono le elezioni, nei normali paesi democratici, non c’è alcun bisogno di sospendere nulla. Si tratta di un corrente passaggio di consegne, niente tragedia, al massimo qualcuno un po’ incazzato perché il popolo lo ama meno del previsto, e avanti il prossimo. E allora perché i siti web delle istituzioni non si comportano nello stesso modo? Perché non restituiscono in tempo reale, come dovrebbe essere il loro compito, cosa si sta evolvendo? Ci sono problemi tecnici, d’accordo, ma si possono risolvere appunto decidendo di risolverli. Il problema vero è che nessuno ci ha davvero pensato, se non di sfuggita, almeno volendo pensar bene.

Facciamo un piccolo esempio: la giustamente decantata vittoria del nuovo alle elezioni comunali di Milano. Sono passati dieci (10) giorni, durante i quali sono state assegnate deleghe, conferiti incarichi, prese responsabilità. Ci riferiscono giornali, siti, blog, di un cambiamento nell’organizzazione generale del sistema di governo, con accorpamenti, innovazioni, scorpori ecc. Nel piccolo mondo dell’urbanistica, piccolo non troppo visto che fra Piano di Governo del Territorio, Expo e grandi opere varie ci si è giocati molto del consenso dei cittadini, questi dieci giorni potrebbero aver anche ribaltato il modo di pensare la città, il suo futuro, il rapporto fra abitanti e grandi operatori che sinora hanno fatto il bello e il cattivo tempo.

Sul sito però nessuna traccia, nemmeno un avviso che spiega qualcosa del tipo “stiamo lavorando per voi, le cose che leggete sui nuovi progetti e quartieri appartengono all’altra amministrazione, fra una settimana arrivano gli aggiornamenti, ci scusiamo per il ritardo dovuto a malattia del responsabile ”. C’è un nuovo assessore, che non si chiama più Masseroli ma De Cesaris, e che rilascia anche alla stampa dichiarazioni di massima sulle proprie intenzioni, e però un marziano appena atterrato e che leggesse le varie pagine del sito troverebbe paro paro le grandi promesse del privato è assolutamente bello, di Santa Giulia paradiso di grandi e piccini, e via discorrendo. In definitiva, forse anche peggio della musica classica trasmessa dalla radio quando cade il dittatore, perché almeno non dà informazioni fuorvianti.

Ora, è perfettamente comprensibile che in dieci giorni non si riorganizza alcunché, neppure il modo di produrre e aggiornare il sito web di un grande Comune. Ma un impegno programmatico lo si potrebbe chiedere da subito, a questa come a tante altre amministrazioni che si insediano nel segno della novità e di un rapporto più diretto coi cittadini: piantatela di star solo chiusi in qualche stanza a decidere per il bene del popolo, non vi fa altro che bene comunicare in tempo reale quello che succede, come e perché. Gli strumenti tecnici e organizzativi ci sono, le strategie formali di comunicazione pure, usatele. Poi arrivano anche le indiscrezioni, i blog, le interviste ai quotidiani. Ma si tratta di cose in più, non invece.

A voler essere filologici e anglofili, come vogliono i tempi, la frase dall’autobiografia My Life and Work del 1922 recita: “ The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be”. Un successone: da allora il mondo tutto, coi tecnici in prima linea, si è dato da fare per realizzare il sogno. Al momento ci abitiamo in mezzo a quel sogno, e non è un bel vivere.

E a voler essere ancora più filologici e giusti, già all’epoca in cui l’autobiografia di Ford era fresca fresca di inchiostro qualche urbanista preveggente aveva intuito il problema, oltre l’entusiasmo sfrenato dei vari guru alla Le Corbusier o Wright. Basta ricordare che tutti i quartieri usati da Clarence Perry come casi studio per costruire la sua famosa teoria della neighborhood unit rispondono essenzialmente a due principi: realizzare isole di viabilità locale, autonoma e fortemente pedonale nella maglia delle grandi arterie automobilistiche; usare la composizione funzionale e l’organizzazione spaziale per farle corrispondere a un quartiere socialmente equilibrato. La realizzazione più coerente, e successiva alle teorie di Perry, è quella di Runcorn in New Jersey, dove per la prima volta si provano a mescolare strade per le auto a cul-de-sac con piccoli gruppi di case che sembrano fotocopiate dall’agreste manuale di Raymond Unwin per le città giardino.

Anche qui un altro successone: quei cul-de-sac iniziano a diffondersi come un virus, li vediamo ancora oggi in quelle mappe GoogleEarth, una specie di ameba di dimensioni continentali. Anche la città, quella già costruita, inizia a adeguarsi, usando la vecchia tecnica dello sventramento per realizzare le nuove strade per l’automobile. Strade, appunto, non vie. C’è una bella differenza. Le vie sono fatte per le persone, arterie di un grande corpo che è la città; le strade per far transitare veicoli da un punto A sino a un punto B, sono come i tubi di un sistema idraulico, o magari quelli della canna di un fucile. Il quartiere fatto di vie e la città degli ingegneri del traffico fatta di strade si evolvono ognuno per conto suo, con una interpretazione particolarmente perversa dell’unità di vicinato. Li vediamo ancora oggi nelle nostre città, specie nelle periferie anni ’60-’70, quei grumi di case e palazzi a cui si accede solo passando sopra o sotto qualcosa: dovevano essere parti organiche della città, secondo i progettisti, che non avevano però messo in conto cosa, nella testa di altri progettisti, teneva insieme il tutto: le canne di fucile della circolazione veloce. Altro che nuclei sociali equilibrati, quelle sono delle versioni tascabili della valle del Little Big Horn, con gli abitanti a fare da caricatura del Settimo Cavalleggeri in rassegnata attesa dell’attacco finale della tribù di Cavallo Pazzo. Cavallo Vapore, per essere precisi.

Non è un caso che proprio là dove è nato il problema quasi un secolo fa, si stia sviluppando un movimento che si chiama “Complete Streets”, Vie Complete, rigorosamente distinte da qualunque road, dove si cammina, si va magari in macchina, si entra ed esce dagli edifici e via dicendo. Sembra una sciocchezza a prima vista, ma provate a fare tutte queste cose su un tratto stradale di quelli suggeriti ad esempio dal nostro Codice della Strada, quello che prevede di abbattere tutti gli alberi e fasciare il nastro stradale con delle belle strisce doppie di guard-rail zincato! Là dentro c’è solo un’opzione di sopravivenza, ovvero comprarsi un baccello metallico privato, prezzo variabile da 8.000 euro minimo in su. Le vie complete vogliono anche uscire dalla valle del Little Big Horn in cui le ha confinate certa progettazione urbana novecentesca. Uno degli strumenti tecnici è quello ideato dall’ingegnere eretico olandese Hans Mondermann, e si chiama “spazi condivisi”, ovvero un’organizzazione del piano stradale che fa coesistere in una secie di conflitto governato le varie modalità di spostamento: l’esatto contrario della pedonalizzazione a ben vedere, e anche l’esatto contrario delle arterie veloci.

Per applicare il principio non basta una progettazione puramente ingegneristica, occorrono anche strategie e programmi: l’eliminazione generalizzata delle barriere, che vuol dire anche organizzazione urbanistica e permeabilità, mica un paio di scivoli; una offerta funzionale composita delle vie, che non sono tali se non sono abitate e percorse; l’intervento diretto (bestemmia!) sulle ex arterie veloci, a partire dai punti di attraversamento da e per la zona interessata dal progetto attuativo.

Questa cosa si chiama idea di città, addirittura. L’hanno sperimentato ad esempio nella cittadina di Ashford in Gran Bretagna, sinora famosa per il mega-outlet progettato da Richard Rogers, e per la prima stazione isolana del treno internazionale sotto la Manica. A Ashford avevano da molti anni un problema, prodotto esattamente dalla cultura automobilistica novecentesca, ovvero di aver “risolto” la continuità fra centro storico e zone di espansione col classico anello di circonvallazione. Beh, che c’è di strano, ce l’abbiamo pure noi a Ciccibuccoli di Sotto la circonvallazione, e stiamo benissimo, potremmo forse pensare. Invece loro volevano star meglio, e hanno così iniziato una revisione dello strumento urbanistico, tutta basata sulla permeabilità multimodale di quell’anello di circonvallazione.

Non certo con sovrappassi e sottopassi, si scavalca l’anello di circonvallazione, ma addomesticandolo, facendolo diventare una via come le altre, almeno a partire da quei punti, che ridiventano piazze anziché svincoli di traffico. L’arredo urbano naturalmente è solo l’ultima fase, prima c’è la pianificazione degli interventi su traffico esterno, e quindi prima ancora la riorganizzazione funzionale di alcuni quartieri, delle grandi barriere (l’alta velocità ferroviaria tanto per fare un piccolo esempio), dei servizi ecc.

Poi gli studi psicologici e percettivi, per intenderci alla Kevin Lynch, o Jan Gehl, o William Whyte: come reagisce l’automobilista davanti al pedone, e viceversa? Quali spazi e comportamenti mettono più a loro agio entrambi? La velocità è un fine o un mezzo? Beh, naturalmente si potrebbe continuare un bel pezzo, con domande, risposte, casi studio. La cosa fondamentale è cercare di non fare tutti la fine degli abitanti del quartiere di Milano, modernizzato dai soliti tecnocrati gonzi, e raccontato da Franco Vanni nell’articolo che segue. E chiedersi: in quante delle nostre città succedono cose simili, o anche peggiori in prospettiva, e le accettiamo come destino ineluttabile?

Franco Vanni, Prigionieri di uno spartitraffico, la Repubblica Milano, 29 aprile 2011

Sono aumentati gli incidenti stradali, sono spariti i posteggi, e soprattutto è diventato impossibile fare inversione di marcia a causa del nuovo spartitraffico. Con il risultato che per fare dieci metri si è costretti a una gimcana di un chilometro e mezzo. Sono oltre 800 le famiglie residenti in via Graf e via De Pisis che si oppongono alla trasformazione della strada voluta dal Comune: da viottolo a fondo cieco a grande arteria di traffico. Questa mattina bloccheranno la circolazione in segno di protesta, attraversando la via a velocità di lumaca.

Da quando il Comune ha trasformato e ampliato la strada, 840 famiglie di Quarto Oggiaro sono di fatto prigioniere in casa propria. Gli incidenti d’auto sono aumentati e sono scomparsi centinaia di posti auto. Via De Pisis, un tempo vicolo cieco di poco transito, oggi è un’arteria di traffico importante che collega via Eritrea alla Bovisa. La trasformazione della strada, considerata strategica da Palazzo Marino già negli anni Ottanta, scontenta i residenti che hanno scritto decine lettere di lamentela. Della «grande e strategica opera viabilistica» (sindaco Marco Formentini, settembre 1994) i residenti vivono solo i pesantissimi effetti collaterali.

Per protesta, oggi, dalle 10.30 bloccheranno per un’ora il traffico sulla via, camminando a passo di lumaca sulle strisce pedonali.

Lo spartitraffico che separa le due carreggiate costringe i residenti delle vie De Pisis e Graf a percorrere un chilometro e mezzo di strada in auto per passare dall’altra parte, vista l’impossibilità di fare inversione. La nuova conformazione della strada, con marciapiedi ridotti e nessuna visibilità verso i veicoli in transito per chi esce dai posteggi, ha causato 14 incidenti negli ultimi due mesi e mezzo, di cui due hanno coinvolto ambulanze. Con i lavori, cominciati sette mesi fa, se ne sono andati anche 350 posti auto in strada. E il cantiere, ancora aperto, contribuisce a creare caos nella circolazione. «L’amministrazione ha sempre dimostrato menefreghismo verso le nostre richieste - dice Isabella Morosini, portavoce del comitato di zona - per questo abbiamo deciso di bloccare la strada».

Luca Ruffino, anche lui attivo nell’assemblea dei cittadini del quartiere, attacca: «La speranza è che qualcuno ci ascolti. Vogliamo punti di svolta, posteggi e sicurezza. Abbiamo raccolto 500 firme e le avremmo volute consegnare alla Moratti». E infatti ieri il sindaco, temendo contestazioni, ha rinunciato all’annunciata visita a Quarto Oggiaro.

La storia delle strade a scorrimento veloce nella zona Nord della città, un tempo riunite nel "Progetto Gronda Nord", è lunga è travagliata. La costruzione della "superstrada urbana continua", che nei sogni delle giunte socialiste avrebbe dovuto decongestionare il traffico, si è scontrata con una valanga di ricorsi, bocciature del Tar e pronunciamenti sfavorevoli da parte della corte dei Conti. La "grande opera" è stata allora fatta a pezzi, con i singoli spezzoni approvati e finanziati in maniera autonoma. Uno è quello di via De Pisis.

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