Norma Rangeri, la nostra instancabile direttrice, mi invita a esprimere pubblicamente la mia scelta di voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma. L'intenzione, naturalmente, è di raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario cha appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito Democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.
Ma che c'entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del PD, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso. Considero simili scelte il distillato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E' il processo di disneylizzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d'insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.
Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti. Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma - una volta nell'agone elettorale - ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l'auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale. C'era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d'origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie.
«Reclusione, formazione, coscienza. Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte». Il manifesto 8 giugno 2016 (m.p.r.)
«Vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi»; «Il piano carceri: via dai centri storici. Le nuove prigioni solo in periferia»; «Carceri, è polemica. L’operazione vendita non convince tutti». Sono i titoli di la Repubblica del 27 e 28 maggio 2016, mentre il dibattito-convegno tra funzionari e operatori della giustizia insieme a magistrati, avvocati e docenti universitari riguardo ai «cambiamenti nell’area penale per le professioni sociali», tenutosi il 27 maggio presso l’Università di Milano-Bicocca, pone l’accento sulle misure alternative al carcere come antidoto alla recidiva e sui rapporti sempre più stretti che il carcere deve avere con il territorio. Al tempo stesso l’iniziativa del Ministro della Giustizia di dare avvio, nel maggio del 2015, agli «Stati Generali dell’esecuzione penale» ha portato alla costituzione di 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori, studiosi e volontari del settore come anche detenuti, per la definizione di «un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto».
Nell’aprile di questo anno il Comitato degli esperti, che ha coordinato a livello nazionale i tavoli tematici, ha presentato e discusso a Rebibbia il documento finale degli Stati Generali, constatando che «il problema dell’esecuzione penale è un problema culturale, prima ancora che normativo» e facendo capire «come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva». Un percorso dunque attraverso il quale «la società offre un’opportunità ed una speranza alle persone» e dà a se stessa «un’opportunità ed una speranza di diventare migliore».
Affermazioni queste di civiltà giuridica e sociale al tempo stesso, ma che sono in contraddizione con quanto la stampa nazionale mette in luce, riferendosi alla vendita delle carceri situate nei centri storici e soprattutto alla costruzione di nuovi penitenziari nelle periferie. Se la politica dell’esecuzione penale va verso la prospettiva del ridimensionamento delle misure detentive e di un allargamento di quelle «di comunità» e gli operatori tutti ritengono di grande utilità il lavoro di rete sul territorio per la riduzione della recidiva e la progressiva inclusione sociale delle persone detenute, eliminare le carceri dal centro e costruirle in periferia assume il valore simbolico di un disegno che intende, come afferma Luigi Manconi, rimuovere il male, che si pensa essere dentro il carcere, nascondendolo allo sguardo dei cittadini.
È comunque la risposta che si ritrova nelle città di tutti i paesi dove poveri, bambini di strada e persone marginali devono essere nascosti agli occhi del mondo in nome del decoro. Così la società, pur essendoci totalmente immersa, nega la violenza e cerca di allontanarla da sé, nascondendo la propria parte negativa nell’idea di esorcizzarla, ma questa, se non accolta e riconosciuta, ritorna più potente che mai e prende il sopravvento. Si deve allora guardare al carcere come al luogo dove, in certe circostanze e attraverso dolorose esperienze, fare i conti con la propria ombra apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore verso un ulteriore percorso, lungo e faticoso, di conoscenza di sé che porta al riconoscimento dei nostri demoni ed alla ricomposizione ad unità delle nostre parti scisse in un gioco di luci e ombre come anche in un andare e venire tra dentro la galera e fuori nella comunità.
Per dare parola alle tante voci della galera, attraverso le quali la città può forse avere l’idea che i delinquenti sono in realtà persone come noi, vorrei dire della mia esperienza pluriennale di docente che tiene corsi universitari in carcere parlando di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio. Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia la formazione in carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività di ricerca, culturali e didattiche presso alcuni Istituti penitenziari lombardi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano e dello stesso provveditorato. La convenzione è rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, con la possibilità di organizzare in carcere corsi, stage, tirocini e laboratori.
Così una mattina entro in carcere con il gruppo di studenti frequentanti e incontriamo il gruppo di detenuti che intendono seguire le lezioni. Si lavora sul conflitto e sulla mediazione con se stessi che significa fare i conti con il nostro doppio, ma anche con la molteplicità delle nostre identità e con le proiezioni delle nostre ombre. Il corso evidenzia come le storie dei partecipanti si intrecciano quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano. Alla fine del corso la valutazione degli elaborati e la presentazione degli stessi nella forma di una rappresentazione teatrale. Questo corso ha poi dato luogo alla scrittura collettiva, detenuti e studenti, di un libro dal titolo università@carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono.
Ci si deve sempre ricordare che per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nel libro ne sono una viva testimonianza. È necessario, d’altra parte, indicare una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano un luogo di mediazione per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola. È quindi importante che il carcere sia una presenza molto visibile nella città per potere incontrare le nostre maschere e quelle degli altri o, in altri termini, incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte.
Si deve quindi investire non in mura o allontanando il carcere dallo sguardo dei più, ma in formazione e lavoro come in attività ludiche per tutti, sia verso la persona detenuta sia verso chi, a vario titolo, lavora nel carcere e nella comunità.
... (continua la lettura)
in occasione dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma sul tema: “L’uomo e l’ambiente”. Quest’anno le Nazioni Unite propongono come tema la lotta al commercio illegale di specie vegetali ed animali e di loro parti come le zanne di elefante o le pelli di tigre. Un problema importante perché tale commercio è alimentato dal bracconaggio e da operazioni illegali e criminali che provocano la perdita della biodiversità da cui dipendono la stessa sopravvivenza delle specie, alla lunga della nostra stessa specie.
La giornata mondiale dell’ambiente rappresenta una occasione per leggere ancora una volta, tutte insieme, le forme in cui l’ambiente viene modificato, le cause delle modificazioni, i danni umani e anche gli effetti economici che le violenze all’ambiente provocano.
La prima cosa che viene in mente riguarda le modificazioni climatiche i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche in questi giorni di fine primavera; da Parigi a Bari, da Milano alle campagne tedesche e romene. Piogge improvvise cadono su città di asfalto e su campi supersfruttati e l’acqua non trova più le sue strade naturali di scorrimento e dilaga nelle cantine, esplode dalle fognature, distrugge coltivazioni agricole pregiate. Ormai, con buona pace dei negazionisti, non c’è più dubbio che tali violenze climatiche derivano dalla continua, crescente modificazione della composizione chimica dell’atmosfera, la quale, a sua volta è dovuta non a punizioni divine, ma ad azioni lecite e anzi lodevoli: all’uso dei combustibili con cui oltre un miliardo di autoveicoli sulle strade del mondo trasportano persone e merci e tengono in moto l’economia, con cui le fabbriche producono cose utili e benefiche come acciaio per la costruzione delle abitazioni, dai lussuosi grattacieli del Golfo Persico, alle periferie che continuamente si espandono per ospitare miliardi di persone, in Cina come a Milano, in Africa come in California.
I gas che modificano il clima vengono dall’agricoltura che assicura il cibo che “consumiamo” ogni giorno, dai campi coltivati con concimi e trattori, agli allevamenti del bestiame che fanno arrivare proteine pregiate sulle mense del mondo.
Se ci spostiamo dalle modificazioni climatiche agli incendi che devastano tante zone della Terra, dai boschi che circondano le ville dei divi in California, a Pantelleria, alle grandi foreste brasiliane, indonesiane, africane, si vede che tali incendi lasciano il suolo nudo ed esposto all’erosione da parte delle piogge. Incendi e distruzioni forestali che spesso sono intenzionali per lasciare spazio a speculazioni edilizie o a nuove coltivazioni o a miniere da cui estrarre preziosi minerali, operazioni che spesso rispondono alla richiesta di “cose buone”. La estensione delle coltivazioni di palme nel sud-est asiatico permette di soddisfare la domanda dell’olio di palma che entra in molti alimenti e del biodiesel, quel surrogato ”ecologico” del carburante diesel ricavato dal petrolio. Oppure i nuovi spazi, “liberati” dalle foreste, consentono di ottenere lo zucchero da trasformare in alcol usato come carburante “ecologico” al posto della benzina, o di estrarre due miliardi e mezzo di tonnellate all’anno di minerale di ferro che sarà poi trasformato in un miliardo e mezzo di tonnellate di ferro e acciaio, che sono cose buone e utili.
Tutte le cose buone e i “servizi” come la conoscenza, le telecomunicazioni, la difesa della salute, la possibilità di muoversi, richiedono dei beni materiali che vengono tratti dalla Terra, modificandola, e inevitabilmente comportano la restituzione alla Terra delle acque usate, addizionate di sostanze nocive per la vita, di gas, di scorie solide, un flusso di circa 250 miliardi di tonnellate all’anno di materie, corrispondenti ad un “peso” di circa 35 tonnellate all’anno per ogni persona che abita la Terra (500 volte il peso del corpo). Inutile dire che questo numero, oltre ad essere una grossolana approssimazione, è un valore medio; molti abitanti della Terra si appropriano delle sue ricchezze molto di più e molti altri se ne appropriano in quantità molto minore.
L’”ambiente” che le Nazioni Unite e i governi del mondo intendono difendere viene, insomma, continuamente attraversato da un flusso di materiali che trasformano la biosfera, che è cosa buona, in tecnosfera, il mondo degli oggetti capaci di soddisfare la richiesta dei “consumi” umani, che sono cose buone, come ci ripetono ogni giorno i governanti. Consumi che anzi dovrebbero aumentare per tenere vivace l’economia mondiale, ma la cui produzione e uso modificano inevitabilmente e negativamente proprio quello stesso ”ambiente” che diciamo di voler invece difendere.
Con strani effetti finanziari; l’aumento dei consumi fa aumentare la massa di denaro in circolazione e i danni ambientali, la distruzione del suolo, le alluvioni, gli inquinamenti, fanno aumentare la massa di denaro in circolazione per risarcire gli alluvionati, per costruire impianti di depurazione o pannelli solari o automobili elettriche e così via. La Terra ci rimette sempre e i soldi crescono sempre.
Le precedenti brevi considerazioni non hanno alcun fine moralistico né raccomandano necessariamente comportamenti di austerità merceologica, anche se una critica dei “consumi” figura in maniera quasi ossessiva perfino nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco; sono semplicemente avvertimenti degli effetti che l’attuale comportamento merceologico determina sulla Terra e sul suo ambiente. Tanto per saperlo.
Nasceva ufficialmente a Londra circa un secolo fa, l'idea di urbanista moderno, quando su iniziativa del Royal Institute of British Architects si riunivano a congresso studiosi e professionisti da tutto il mondo rivendicando in sostanza una grande intuizione maturata proprio e principalmente nel mondo dell'architettura: le trasformazioni urbane non potevano più avvenire di fatto spezzettando nello spazio, nel tempo, nei flussi economici e nelle decisioni decine di competenze e prospettive diverse. Che ci fosse un gran bisogno di qualche genere di sintesi lo dimostrava da solo e da subito già il contenuto e il tono delle comunicazioni, a tratti surreale come quando George Lionel Pepler esordisce così: «Se non fosse per la straordinaria importanza dell’argomento che propongo, quasi dovrei scusarmi del fatto di presentarlo a questo Convegno, vista la distanza da una prospettiva propriamente architettonica». E di argomento importante si tratta di sicuro, visto che è la London Orbital, dopo un paio di generazioni caposaldo del grande piano regionale di Abercrombie, e capostipite di tutti gli schemi metropolitani del mondo.
Un primo deciso segnale di discontinuità, rispetto alle divaricazioni, ri-convergenze, nuovi equilibri di questa comunità tecnico-scientifica, arriva verso la metà del '900, quando fa capolino un inatteso dissenso esterno. Anche qui per molti versi succede, anche se informalmente e spalmato nel tempo e nello spazio, qualcosa di analogo alla Town Planning Conference di Londra 1910, c'è una convergenza, una coincidenza, ma al tempo stesso tutto si articola da subito in vari rivoli di cui proviamo a individuare un paio di grandi famiglie, corrispondenti a quelle degli architetti-urbanisti. La prima famiglia ha anche il suo bel nome proprio da sfoggiare come santino di riferimento, ed è (inutile forse ricordarlo) quello della casalinga urbanista per caso Jane Jacobs, temprata nell'opposizione culturale sociale e politica al dispiegarsi meccanico della città razionalista governata con criteri meccanici e autoritari. La seconda famiglia non sa ancora di essere tale, e si esprime nel puro iniziale disagio per quello che qualche audace ha iniziato a chiamare addirittura sprawl, riprendendo un nomignolo già usato da paesaggisti e conservazionisti tra le due guerre mondiali. Il disagio per i quartieri dormitorio ormai prodotti in serie «immersi nel verde» dai discendenti perduti della cultura della città giardino, immemori sia di cosa sia una città, sia della differenza tra un giardino e un prato davanti al cancello di ingresso.
E arriviamo ai nostri giorni, in cui per dirla con le statistiche internazionali, l'urbanizzazione planetaria trasformerebbe l'urbanistica in una specie di potenziale geopolitica, e il suo approccio in un nuovo, ennesimo convergere di società, saperi, aspirazioni. La domanda a cui ci sarebbe da trovare risposta è chi adesso, dovrà farsi carico della responsabilità di elaborare un nuovo modello all'altezza dei tempi e dei bisogni, e di gestirne la trasformazione in spazi e sistemi ambientali sempre più vasti e comprensivi. Non certo più l'intellettuale solitario degli albori del XX secolo, con la sua fusione di arte e scienza che rinvia alla politica, ma neppure quel vago anelito partecipativo assembleare emerso dal disagio di metà secolo, ed espresso soprattutto in opposizioni locali, la cui capacità di elaborare progetti si è poi incanalata in modi del tutto tradizionali, per quanto molto più attenti ad esprimere la domanda. Come si riformula, oggi, l'idea di città e territorio?
Riassumendo per sommi capi un processo ancora ampiamente agli inizi, ma di cui si possono già intravedere parecchi segnali, la nuova urbanistica potrebbe configurarsi a partire da un rinnovato intreccio, non solo analogo ai due descritti sopra, ma in grado in qualche modo di ricomporli nella continuità. Il «nuovo urbanista» (chiamiamo così per semplificare un soggetto non certo individuale) deriva coerentemente dalla transizione che per tutta la seconda metà del '900 ha visto dialetticamente scontrarsi l'idea originaria, di approccio scientifico-professionale universale, quella di espressione spontanea di disagio e bisogni locale dei destinatari della pianificazione, sfociando sostanzialmente in un processo comunicativo e di relazione.
Un processo dove pianificare, individuare priorità, decidere modi e tempi, entra direttamente nel fare politica, nella partecipazione in quanto diritto, inclusione, potere effettivamente praticato in modo diffuso, ben diverso sia dall'elaborare grandi progetti o contrapporsi ad essi con istanze alternative particolari. Una città e un territorio che esprimono un processo di pianificazione sanno amalgamare il punto di vista degli abitanti e dei portatori di interessi piccoli e grandi, quelli mediati e metabolizzati dei loro rappresentanti eletti ai vari livelli, e soprattutto sono in grado di riequilibrare (o almeno provare a farlo sistematicamente) il peso relativo dei decisori, determinato dal loro potere. Si integrano così – in verticale e in orizzontale - anche le conoscenze specifiche, quelle che nella prima metà del '900 avevano a volte diviso la disciplina urbanistica, a volte addirittura determinato gerarchie che parevano eterne e naturali fra i saperi e il loro ruolo relativo. Restano le discipline prettamente spaziali tradizionali, ma si integrano quelle sui flussi (materiali e oggi immateriali), sociali, ambientali, ciascuna poi articolata a sistema nei propri aspetti gestionali. Forse qualche importante architetto entusiasticamente accorso alla Town Planning Conference di Londra 1910 resterebbe perplesso, magari scandalizzato, davanti a questa perdita di sacralità delle forme fisiche, del «contenitore» che domina il contenuto. O forse, ne coglierebbe il grande spirito innovativo, di fatto analogo nel metodo e negli obiettivi allo spirito di quei tempi.
Su La Città Conquistatrice molti testi, d'epoca e non, trattano il tema della figura dell'Urbanista
Alcuni concetti ripresi nell'ultimo paragrafo derivano da una rilettura in prospettiva storica dell'ultimo rapporto ONU-Habitat, Urbanization and development – Emerging futures - 2016
«Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?».
Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti.
«Le faccio un esempio che non c’entra con il carcere: a Roma c’è il Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo».
Cosa conta per un carcere in periferia?
«Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano, che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l’urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona».
Quindi non boccia a priori il piano?
«Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo».
E dove porta questa strada?
«Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva».
In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio.
«Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta: intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare».
Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali.
«Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio».
E allora come li immagina?
«Con una funzione sociale: una parte dedicata all’accoglienza, un’altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà».
Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l’idea stessa del male?
«Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il “rimosso” c’era».
Per concludere: l’importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche “cattedrali nel deserto”?
«Esatto. Tra l’altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri “tecnologiche” europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione».
L'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto
«Il regista vincitore con il fratello dell’Orso d’Oro con un docu-film ambientato in carcere parla del progetto di vendere la prigione romana: “Viverci è impossibile però farne un uso commerciale rappresenterebbe un insulto a chi lì dentro ha sofferto tanto”» Intervista diArianna Finos. La Repubblica, 30 maggio 2016 con postilla
Togliete le carceri dai centri storici, ma non trasformatele in alberghi e centri commerciali». Vittorio ePaolo Taviani, registi, sono in sintonia con il piano del governo, anticipato ieri da Repubblica, che prevede l’abbandono delle strutture storiche di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale a favore di nuovi penitenziari nelle periferie di Roma, Milano e Napoli, ma a patto che «gli spazi siano destinati al servizio pubblico dei cittadini». Da sempre attivi nelle prigioni, i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro alla Berlinale nel 2012 con Cesare deve morire, docu-film sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia.
Vittorio, 86 anni, si è appena ripreso dall’incidente dello scorso ottobre, quando fu investito a un’auto in piazza Venezia. E dice: «Per noi di famiglia, parlo anche per mio fratello Paolo, e per il quartiere il carcere di Regina Coeli fa parte dell’orizzonte dei nostri sentimenti. Da cinquant’anni anni conviviamo con quello che ci arriva da là.
Le famose grida romantiche dall’alto del Gianicolo e dalle sbarre, messaggi d’amore e di sostegno. Può capitare, e questo è terribile, che di notte improvvisamente arrivi una voce singola, disperata: “Qui non posso vivere”. Quando c’è una partita dell’Italia, non abbiamo bisogno di accendere la televisione. Se va bene o va male lo sentiamo dalle grida di orrore o gioia che arrivano da lì dentro».
Diverse sono le condizioni di chi è recluso.
«Lo sappiamo bene. Con “Cesare…” io e Paolo abbiamo vissuto un’esperienza a Rebibbia, che è un carcere buono ma con problemi di sovraffollamento. Ci capitava, prima o durante le riprese, di camminare per questi lunghi corridoi e vedere attraverso le porte semiaperte uomini vecchi e giovani distesi sui letti a castello. Immersi, per ore, in un silenzio di morte. Uno di loro mi disse: “Non mi deve chiamare detenuto, mi chiami il guardatore di soffitti”. In questo senso, in quei luoghi, c’è un nulla che distrugge l’energia della vita. Regina Coeli è molto peggio. Perché almeno il carcere di Rebibbia è stato costruito in modo razionale, nella prigione di Trastevere ho visto celle fatiscenti.
Credo che sia venuto il momento che Regina Coeli scompaia, accompagnato, lo dico, dal dolore di tutti noi che viviamo in questo quartiere. È un pezzo della storia di Roma che si fonde con i rumori della città che gli è intorno. Si perderà tutto, ma ben venga se avverrà a favore di un luogo in campagna, con costruzioni innovative progettate da architetti, sociologi e psicologi affinché si trovi il modo per trasformare la pena in un cammino di riscatto. Vivere là dentro è una condizione inconcepibile per un essere umano. Allora, addio Regina Coeli».
Tra le conseguenze più gravi dell’inadeguatezza delle strutture c’è l’immobilismo dei detenuti.
«Quando i nostri carcerati, attori, uscivano dalle loro celle e venivano per alcune ore da noi, dicevano: “Oggi siamo liberi, ci sentiamo persone. Appena torniamo su, perdiamo l’individualità degli uomini, l’energia della vita”. Ci ha sconvolto il loro dover vivere senza un progetto. Alcuni meravigliosi disperati studiavano, prendevano lauree e diplomi, agganciandosi a qualcosa da costruire».
Con i detenuti del vostro film avete mantenuto un contatto?
«Con i nostri attori abbiamo stabilito un rapporto che oggi, quattro anni dopo il film, è d’amore. Li sento fratelli, vorrei baciarli. Lo scorso marzo ho partecipato a una gara di retorica. Ma questo non cancella l’odio per quel che hanno fatto. Io e Paolo rimaniamo in questa contraddizione.
Ci hanno raccontato cose terribili: “Io ho tre orfani sulla coscienza”, “io ne ho ammazzati venti”. Prima li rifiuti, poi lavorando con loro li vedi tirar fuori il dolore che hanno dentro, senza pudori. Uno ha scritto alla moglie: “Vieni a vedermi quando recito perché mentre recito posso perdonarmi”. Il ricordo più bello è la foto che ciascuno di loro ha voluto fare, al centro, tra me e Paolo, con l’Orso d’oro in mano».
Il carcere è anche luogo di reclutamento per l’estremismo jihadista.
«Questo terribile, spaventoso fanatismo islamico trova proseliti tra chi è in carcere. Se fossi un detenuto penserei: “Sì, ho questa colpa, ma è più grave la violenza che mi fa questo Stato, la tortura che mi infligge giorno e notte”. E qualcuno pensa che sia giusto ribellarsi. E Il carcere diventa scuola di sopraffazione. Ha presente che significa essere stipato in una camerata che dovrebbe essere per tre e invece ci si sta in sette? Un costringimento della mente e del corpo».
Come dovrebbero essere utilizzati gli edifici storici?
«Quando arrivammo qui, mezzo secolo fa, ci dissero che il carcere sarebbe diventato una grande biblioteca nazionale. Una biblioteca, un museo. Queste sono le trasformazioni possibili per una struttura nel cuore della città. Non può diventare un grand hotel, un ipermercato. La nuova destinazione deve diventare un omaggio a chi in quel carcere molto ha sofferto. Un destino commerciale per Regina Coeli mi farebbe orrore e il mio quartiere protesterebbe con tutte le forze».
postilla
Vittorio Taviani ha perfettamente ragione nel merito. Ma si illude se pensa che chi ha avuto la grande idea di "valorizzare" le carceri nei centri storici sia ansioso di individuare e promuovere l'utilizzazione più adeguata alle qualità intrinseche (culturali, artistiche, storiche) di quei manufatti. Così come si illudono quanti credono che padroni del governo in carica e Cassa depositi e prestiti abbiano come obiettivo il miglioramento delle condizioni degli infelici incarcerati. L'unico obiettivo è poter disporre di tanti metri cubi da impiegare un una poderosa speculazione immobiliare.
Alla maggior parte degli Italiani il nome “Montalto di Castro” dice poco; alcuni hanno notato, andando veloci lungo la linea ferroviaria Roma-Genova, questo nome sul muro di una stazione; i più curiosi, guardando fuori dal finestrino, dalla parte del mare, avranno visto in lontananza quattro grossi edifici con un grande, alto camino: una centrale elettrica che, negli anni ottanta del secolo scorso, è stata al centro di vivaci polemiche ecologiche. A dire la verità le centrali di Montalto di Castro sono state due, una nucleare che non è mai stata neanche completata, e quella a olio combustibile che ha funzionato pochi anni e oggi è chiusa. Dopo la grande crisi del 1973, quando il prezzo del petrolio aumentò di dieci volte in pochi anni, il governo italiano avviò dei piani energetici che prevedevano la costruzione di numerose centrali nucleari distribuite in varie parti d’Italia. Cominciò una vivace contestazione antinucleari e rimase in piedi soltanto il progetto di una centrale nucleare da 2000 megawatt, del tipo ad acqua bollente simile a quella che era in funzione a Caorso (Cremona), da localizzare nel Lazio, quasi al confine con la Toscana, in una pianura occupata da campi coltivati, vicino al mare.
Un progetto nato sotto una cattiva stella perché nel 1979 si verificò negli Stati Uniti il primo grave incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island, con fusione del nocciolo contenente l’uranio, il plutonio e gli elementi radioattivi formatisi nel processo. Furono avviate inchieste sulla sicurezza nucleare e, nonostante le proteste e i dubbi, il governo italiano decise di iniziare ugualmente la costruzione della centrale di Montalto. Sfortunata davvero, perché nel 1986 si verificò l’altro gravissimo incidente nucleare alla centrale ucraina di Chernobyl. Grande spavento, altre commissioni, altre inchieste parlamentari, in Italia un referendum bocciò la scelta nucleare e nel 1989 fu deciso di abbandonare a metà la costruzione della centrale di Montalto. Fra opere già fatte, fra risarcimento di danni per i contratti in corso, eccetera, il tutto è costato ai cittadini italiani l’equivalente di alcuni miliardi di euro attuali.
Come se non bastasse, sulla base di previsioni errate dei consumi di elettricità, nel 1990 nella stessa località è stata iniziata la costruzione di un’altra centrale, questa volta alimentata ad olio combustibile, con una potenza quasi doppia di quella della defunta centrale nucleare. La centrale, dell’ente elettrico statale, è entrata in funzione nel 1992, ma nel frattempo, grazie ai lauti incentivi dello stesso stato, sono stati costruiti moltissimi impianti che producono la stessa elettricità dal Sole, dal vento e anche dai rifiuti. L’Italia è così venuta a disporre di elettricità in quantità molto superiore a quella richiesta per cui i governi hanno deciso di chiudere le proprie centrali termoelettriche più vecchie, ma anche quella recentissima di Montalto. In tale centrale la produzione di elettricità è scesa, fra il 2004 e il 2006, cioè dopo appena una dozzina di anni di vita, a 12 miliardi di chilowattore all’anno (la metà di quella possibile) ed è continuata a diminuire fino alla chiusura, nel 2011, dopo appena diciannove anni. La centrale di Montalto è ora un rudere che attende una qualche utilizzazione. Qualcuno parla di farne un grande inceneritore di rifiuti, altri di utilizzare lo spazio per il famoso deposito delle scorie nucleari, circa 100 mila tonnellate di materiali radioattivi e pericolosi sparsi per l’Italia, uno scottante problema da decenni irrisolto.
Intanto la centrale è la, nella pianura, ferma. Ogni volta che muore una fabbrica, anche se era sbagliata, anche se per anni i suoi fumi hanno contribuito ai mutamenti climatici, dovrebbe essere un lutto nazionale. Erano belle e grandi caldaie e turbine, costate acciaio e lavoro, erano grandi strutture di cemento costruite da centinaia di lavoratori, in cui erano impiegati centinaia di tecnici e operai. Una fabbrica che chiude è occupazione perduta, sono famiglie che perdono un reddito, ma soprattutto porta con se speranze deluse. Le imprese non perdono mai i soldi, sanno a chi fare pagare i loro errori, i manager escono di scena sempre con lauti premi. E’ il paese che rimane impoverito e ferito e deluso.
Nel caso di Montalto di Castro siamo poi di fronte a dolori e sprechi che potevano essere evitati. Si sapeva che la centrale nucleare era una scelta sbagliata, lo aveva denunciato il movimento antinucleare; anche la costruzione di una così grande centrale termoelettrica era in contraddizione con la scelta governativa di incentivare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Per evitare futuri errori e sprechi sarà bene che la politica energetica ed industriale prenda decisioni non sotto la pressione di miopi interessi finanziari, ma precedute da corrette analisi e previsioni di che cosa il paese ha realmente bisogno, come è opportuno soddisfare queste necessità e con processi che assicurino duraturi posti di lavoro. Magari ascoltando anche un poco le voci critiche.
Il lavoro deriva dalla produzione di merci, industriali e agricole, e da servizi, i quali richiedono anch’essi sempre “cose” materiali. Le merci e i servizi non sono tutti uguali; alcuni inquinano l’ambiente, altri fanno male alla salute, e la storia mostra che spesso i processi inquinanti e nocivi dopo poco devono essere abbandonati lasciandosi alle spalle terre desolate e dolore.
È ragionevole vendere carceri storiche come San Vittore e Regina Coeli per aprirne di nuove in periferia? Il piano del governo irrompe nella campagna elettorale delle amministrative. E divide. «È un progetto giusto che il Comune deve favorire», si schiera subito il candidato sindaco del centrodestra a Milano, Stefano Parisi. «La mia priorità è di trovare una soluzione per mettere a posto quello già esistente - ribatte il suo avversario di centrosinistra, Giuseppe Sala - Una vendita senza vincoli mi fa veramente paura».
E dubbi arrivano anche da sindacati e associazioni, oltre che da un esperto del dossier carceri come il senatore dem Luigi Manconi: «Le condizioni strutturali di San Vittore e Regina Coeli sono pessime - premette - ma penso che la soluzione debba essere una profonda opera di risanamento, ristrutturazione e manutenzione degli istituti. Spostarli causerebbe gravi difficoltà per chi deve raggiungerli: familiari dei detenuti, avvocati, personale e associazioni».
L’idea dell’esecutivo è di vendere le carceri a Cassa depositi e prestiti, che li destinerà al mercato immobiliare.
Un piano non necessariamente da bocciare, sostiene il Garante dei detenuti Mauro Palma: «Per affrontare il problema della qualità della detenzione, è chiaro che la questione dello spazio non è neutrale. Una riflessione su dove collocare il carcere è dunque ineluttabile. L’importante è mettersi d’accordo sul concetto di periferia: l’istituto deve comunque essere parte della città, collegato strutturalmente e concettualmente. Altrimenti non mi trova d’accordo». Cauto, ma senza entusiasmo è anche il primo cittadino di Napoli, Luigi de Magistris: «In questo paese non abbiamo carceri all’altezza di un paese democratico, si è fatto tanto ma ancora tanto va fatto».
Anche il mondo politico si schiera. D’accordo con il piano governativo è Maurizio Lupi (Ncd): «San Vittore è ormai obsoleto». Contrari invece la berlusconiana Renata Polverini - «vendere Regina Coeli sarebbe un insulto a Roma» - e Daniele Farina di Sinistra Italiana: «È un disegno di tutti i governi di centrodestra».
Marco Cappato, presidente di Radicali italiani, è sulla stessa linea: «La proposta del ministro Orlando sembra più rivolta alla speculazione immobiliare che non a rendere vivibili le carceri, che devono restare dove sono». Non basta insomma spostare gli istituti per migliorare la condizione dei detenuti: «Conosco le difficoltà di alcune carceri storiche - rileva Daniela de Robert, del collegio del Garante dei detenuti - ma per favorire il reinserimento dei detenuti costruisci nuovi istituti fuori dal mondo?».
Non la prende bene neanche un’associazione che si occupa di detenuti come Antigone: «Il rischio è creare carceri-ghetto». Chiude il cerchio sempre Manconi: «Alla resa dei conti, si rischia di produrre un’architettura e un’ingegneria della rimozione del male - questo si pensa essere il contenuto del carcere - allontanandolo dallo sguardo dei cittadini. E dunque provocando un’ulteriore separazione».
postilla
Ciò che molti sembrano non aver compreso, nè i giornalisti nè i loro interlocutori, è che l'obiettivo non è affatto migliorare le condizioni dei carcerati, ma fare (e far fare) lucrosi affari con la speculazione immobiliare. Altrimenti non avrebbero affidato l'impresa alla Cassa depositi e prestiti riformata per raggiungere questo obiettivi (c.m.c.)
«Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale i primi istituti, poi altri nove. Li acquisterebbe la Cassa depositi e prestiti, sarà lei a trattare con i Comuni per ottenere le variazioni urbanistiche e poi a sua volta cedere i palazzi ristrutturati». La Repubblica, 28 maggio 2016, con postilla
Che cosa stanno studiando Orlando e Cdp? Partendo dalle motivazioni e dagli obiettivi. È fin troppo evidente che carceri assai antiche – San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più “moderno” Poggioreale realizzato nel 1914 – non possono rispondere alle attuali esigenze di una corretta detenzione. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono state in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi.
Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla “decarcerizzazione” ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di veder calata la popolazione carceraria e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte di Strasburgo. Ma non basta qualche metro in più per ottenere una detenzione effettivamente rieducativa. Per questo servono strutture nuove, spazi per il tempo libero, zone per il lavoro.
Spiega il ministro: «Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dicotomia del dentro-fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto “di transizione”, in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando».
E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza di Cdp. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture. In cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. Cdp – cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e la conseguente ristrutturazione – potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche.
Un fatto è certo, come dice Orlando, «è del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestiti dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante ». Conclude Orlando: «Con il regime del 41-bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr.) abbiamo riconquistato il carcere, adesso non possiamo rischiare di compromettere la situazione».
postilla
Ecco le parole chiave dell'operazione: «Mura molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi». Provate a immaginare a quali "spazi collettivi" penserà la Cassa depositi e prestiti; noi che sappiamo guardare nel futuro vi anticipiamo che saranno alberghi, residenze di lusso, a magari qualche lucroso centro commerciale.
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di non avere adeguatamente informato e protetto il caporalmaggiore Salvatore Vacca, morto di leucemia a 23 anni per essere venuto in contatto con uranio impoverito durante la campagna di Bosnia del 1998. Il metallo tossico era usato nei proiettili dalle forze NATO di cui il giovane Vacca faceva parte.
L’uranio è un metallo molto pesante (pesa un terzo più del piombo, quasi come il tungsteno), durissimo ed è piroforico: quando un proiettile contenente uranio urta ad alta velocità un corpo metallico (per esempio la corazza di un carro armato), raggiunge altissime temperature, si ossida e il calore liberato è sufficiente a far fondere la corazza di un carro armato o di una fortificazione. Durante l’urto e l’ossidazione una parte dell’uranio si libera sotto forma di finissime particelle di metallo o di ossido che ricadono tutto intorno al punto dell’impatto. L’uranio non solo è radioattivo, ma è anche tossico.
L’uranio era già stato usato dall’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale, quando scarseggiava il tungsteno impiegato nei proiettili penetranti. Nel suo libro di memorie il ministro degli armamenti della Germania nazista Albert Speer ha scritto: «Nell’estate del 1943 sono cessate le importazioni di minerali di tungsteno dal Portogallo: ho perciò ordinato di usare le riserve di uranio, circa 1200 tonnellate, per la fabbricazione di proiettili penetranti, dal momento che era stato accantonato il progetto di costruire la bomba atomica». L’impiego dell’uranio come metallo per proiettili penetranti, già presente nelle fertili menti degli ingegneri tedeschi, è rimasto limitato fino a quando non è diventato disponibile in grandi quantità come sottoprodotto delle attività nucleari negli Stati Uniti. La produzione di energia nelle centrali nucleari e nelle bombe atomiche dipende dall’uranio, un elemento che è presente in natura con due isotopi, uguali dal punto di vista chimico, ma con un differente numero di protoni nel nucleo: l’uranio-235 (presente in concentrazione di appena lo 0,7 percento), e l’uranio-238, il più abbondante. Le centrali nucleari liberano calore sottoponendo a “bombardamento” con neutroni l’uranio contenente circa il 3 o 4 percento di uranio-235; le bombe nucleari liberano l’enorme quantità di energia esplosiva in seguito all’urto con neutroni dell’uranio contenente circa 90 percento di uranio-235.
La separazione dei due isotopi si ottiene facendo passare i rispettivi fluoruri allo stato gassoso attraverso speciali “filtri” che lasciano passare prevalentemente il più “leggero” isotopo uranio-235; in queste operazioni di ”arricchimento” dell’uranio-225 si formano dei residui di uranio “impoverito”, costituito quasi esclusivamente dal più “pesante” isotopo-238 (contenente soltanto circa lo 0,2 percento di uranio-235).
Nel corso di mezzo secolo, nei paesi in cui si sono svolte attività industriali di “arricchimento” dell’uranio - Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica (l’attuale Russia), e altri - si sono accumulate grandissime quantità di uranio ”impoverito”, mezzo milione di tonnellate negli Stati Uniti, oltre un milione di tonnellate nel mondo, come sottoprodotto e scoria degli impianti di diffusione gassosa. Il complesso militare-industriale ha così pensato che era un peccato buttare via tutti questi residui di uranio-238 e gli ingegneri militari si sono così ricordati che l’uranio impoverito si presta bene per la fabbricazione di proiettili penetranti, è migliore del tungsteno e, proprio per il suo carattere di sottoprodotto industriale, costava meno del tungsteno stesso. Si trattava, insomma, del recupero e riciclo di un rifiuto, secondo i principi della migliore “economia circolare” !
Con l’unico inconveniente che l’uso militare dell’uranio impoverito, radioattivo anche lui e tossico, rappresentava una fonte di pericolo e contaminazione delle persone e dell’ambiente; non solo sono contaminati i combattenti nemici, ma anche i combattenti che l’hanno usato e i civili che percorrono strade o territori in cui permangono residui di polvere di uranio, di questo “metallo del disonore”, secondo il titolo di un documentato libro sull’uso militare dell’uranio impoverito.
Durante la guerra del 1991 in Iraq l’esercito americano ha usato e disperso nell’aria e sul suolo circa 500.000 chili di uranio impoverito; molti soldati americani sono stati contaminati e hanno manifestato una speciale malattia, la “Sindrome del Golfo” con effetti anche mortali. Molti reduci americani hanno chiesto e ottenuto dei risarcimenti dal loro governo.
E’ stato stimato che oltre tremila militari italiani nelle forze NATO in missione di pace in Bosnia e nel Kosovo siano stati esposti al metallo tossico usato nei proiettili dei cannoni e dei carri armati e che oltre trecento siano morti per questa causa. Molti reduci hanno chiesto giustizia al governo italiano senza successo. Soltanto dopo 14 anni una qualche giustizia è stata resa almeno al caporalmaggiore Vacca.
Ci sarà una città o un paese che intitolerà una via o una piazza ai “Caduti di guerra avvelenati dalle armi del proprio esercito”? Senza contare che nessuno aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad una così subdola causa, comparse negli abitanti dell’Iraq meridionale, o negli abitanti della ex-Jugoslavia, una volta che sono tornati nelle loro terre devastate e contaminate; chi li aiuterà a guarire, chi riconoscerà la causa della loro morte nell’uranio radioattivo, “brillante” frutto di una tecnologia che non si ferma neanche davanti ai danni alla vita di persone inermi e all’ambiente?
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
Sul futuro urbanistico di Milano e della sua area metropolitana si addensano nubi nere; ma il temporale era già annunciato dalle scelte della Giunta Pisapia... (continua la lettura)
Sul futuro urbanistico di Milano e della sua area metropolitana si addensano nubi nere; ma il temporale era già annunciato dalle scelte della Giunta Pisapia. Recentemente ho avuto l’occasione di analizzare e commentare i dati sull’andamento demografico e occupazionale di Milano e Provincia negli ultimi due decenni 1991-2001 e 2001-2011 (in un saggio che ho intitolato Milano: da metropoli fordista a Mecca del real estate)[1]. I risultati della mia analisi sono preoccupanti: evidenziano l’emergere, nell’ultimo decennio considerato, di una tendenza a un dualismo produttivo-residenziale che divide il centro dall'hinterland metropolitano, generando crescenti movimenti pendolari. Tutto lo sviluppo demografico si è localizzato nell'hinterland, mentre tutto lo sviluppo occupazionale si è localizzato esclusivamente nel comune di Milano: indice quest'ultimo (+9,17% e +0,17% rispettivamente nel comune centrale e nell'hinterland) di una cesura gravissima nell'integrazione produttiva che aveva caratterizzato la regione urbana in tutto il periodo dal boom economico alla fine del secolo.
Il titolo, che può apparire enfatico, vuole dunque sottolineare una specificità drammaticamente negativa del capoluogo lombardo: lo strapotere esercitato da almeno 20 anni dalla finanza immobiliare; una specificità che non sembra destare alcuna preoccupazione nei due candidati maggiori alle prossime elezioni comunali: né, ovviamente, in quello del centro-destra (Stefano Parisi), né, e questo è molto più preoccupante, in quello del centro-sinistra (Giuseppe Sala). E infatti, nel merito i loro programmi sono purtroppo molto simili. Entrambi hanno già affermato che l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari verrà onorato, malgrado l’incidente di percorso che ha visto finalmente emergere un dissenso all’interno della maggioranza uscente. Entrambi, da manager quali sono, hanno lodato l’urbanistica milanese, quella della deregulation, quella del PGT rimediale e meramente quantitativo, come un modello da perseguire e irrobustire. Entrambi perseverano nell’elogio sperticato dei grandi progetti realizzati a Milano e nel sottolineare il formidabile successo di EXPO2015 (e il conseguente brillante posizionamento competitivo di Milano nel mondo, assolutamente indimostrato e indimostrabile).
Effettivamente a Milano si è costruito molto.
I dati sugli addetti al settore delle costruzioni lo confermano. Se nel passato, e anche nel decennio 1991-2001, lo sviluppo dell'occupazione aveva evidenziato una crescita dell'attività edilizia esclusivamente nell'hinterland e una caduta nel centro urbano, del tutto in linea con le tendenze demografiche, nell'ultimo decennio si è verificato invece un vero e proprio ribaltamento. I dati evidenziano infatti una sorta di boom edilizio nel centro metropolitano, con una crescita degli addetti pari a oltre il 16%: circa il doppio del tasso di crescita registrato nell'hinterland e cinque volte superiore al tasso di crescita medio nazionale. Un simile indicatore di crescita quantitativa, una crescita peraltro ben visibile nella città, confligge tuttavia con le tendenze rilevate sul fronte demografico che segnalano una ulteriore perdita di popolazione a Milano (-4,26%) e una crescita robusta dell’hinterland (+8,99%).
Per quale tipo di popolazione si è costruito recentemente? All'evidenza, non si è manifestata quella tendenza al ritorno di popolazione verso il centro metropolitano, superficialmente attesa da tanti sostenitori dello sviluppo edilizio quantitativo concesso dai Piani di Governo del Territorio delle amministrazioni di centro-destra (ma anche, sia pure in misura inferiore, dal governo di sinistra), né (fortunatamente) il temibile obiettivo di riportare Milano agli ‘splendori’ degli 1,8 milioni di abitanti della fine degli anni ‘60, sbandierati dall’assessore all’urbanistica della giunta Moratti. Evidentemente, il differenziale di prezzo milanese rispetto alle cinture esterne non ha controbilanciato il limitato, e in alcuni casi anche nullo, differenziale di qualità urbana offerto dal polo centrale alle classi medie e medio basse.
Si è costruito nel cuore metropolitano per una domanda internazionale a carattere prevalentemente finanziario, che certamente fin qui si è manifestata ma le cui aspettative potrebbero facilmente cambiare non appena si avvedesse dei limiti dell'offerta immobiliare milanese. Si tratta di limiti che riguardano la qualità, sia edilizia che urbanistica, e il rapporto qualità/prezzo - come si dice senza giri di parole nel settore, il value for money. Una domanda internazionale che comunque non è sufficiente per colmare un'offerta, oggi largamente sovradimensionata, che si risolve in una montagna di appartamenti costosissimi in vendita o sfitti, mentre il disagio abitativo si fa sempre più drammatico.
In assenza di una visione condivisa e di precisi impegni per una sua coerente realizzazione, si sono negli ultimi 20 anni inventate effimere grandi funzioni urbane per legittimare, anche attraverso i concorsi internazionali di architettura, una trasformazione delle aree più centrali o accessibili dettata da pure logiche di mercato. Né le varie amministrazioni che si sono alternate alla guida del Comune si sono sentite obbligate a renderne conto alla città, in quanto l’accountability è stata considerata con continuità un inutile orpello.
Nel prossimo futuro Milano rischia di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella relativa al riuso degli scali ferroviari dismessi. Anziché utilizzare, trattandosi di aree ad alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, una Bozza di Accordo di Programma fra Comune e Ferrovie dello Stato ha proposto nel 2015 di spalmare in maniera pressoché indifferenziata 670.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale[2].
Da questo modello di urbanistica Milano ha guadagnato davvero in attrattività, così come sbandierato quotidianamente dai candidati sindaci, dai loro partiti di riferimento, nonché da Renzi e compagni?
Può essere utile, anche se certamente non entusiasmante, scorrere per intero l’ultimo rapporto sugli investimenti immobiliari esteri in Europa nel 2015 “Emerging Trends in Real Estate”. Il rapporto ha suscitato qualche campanilistico entusiasmo nelle pagine locali dei quotidiani milanesi, poiché ha segnalato la presenza del capoluogo lombardo, unica città italiana, fra le 10 maggiori “piazze” europee, con 4 miliardi di euro di investimenti nel 2014-2015. Ma uno sguardo ai commenti più puntuali relativi alle città inserite nella classifica appare molto più interessante di quelli relativi ai miliardi investiti. Berlino, la più attrattiva in prospettiva, viene giudicata tale per il suo potenziale di sviluppo nelle tecnologie avanzate, per il capitale cognitivo, per una forte immigrazione di giovani con formazione di alto livello, per la abbondanza di offerta abitativa in affitto a basso prezzo (e quindi, con ampi margini di aumento (sic!)). Anche per tutte le altre città predilette dagli investimenti immobiliari vengono evidenziati alcuni elementi di qualità urbana e di progettualità pubblica. Per Milano invece non una parola sui vantaggi localizzativi offerti dalla città, ma soltanto la citazione degli acquisti immobiliari recenti di due grandi investitori internazionali, nonché una estrapolazione sul futuro di questi acquisti che pare, come ho già sottolineato, azzardata[3].
Che ne è dell’hinterland, nel modello neoliberista trionfante in area milanese? È il grande sacrificato poiché, in assenza di un disegno strategico metropolitano, continueranno a prevalere i localismi competitivi fra comuni e i processi imitativi delle pratiche milanesi, inevitabilmente ‘al ribasso’: infatti Milano ha fatto scuola anche per gran parte dei comuni dell’area metropolitana[4]. Né questo protratta, e “mostruosa” direbbe Mario De Gaspari, alleanza fra amministrazione locale e interessi della finanza immobiliare sembra poter trovare nel governo metropolitano un autorevole attore, capace di rimettere in discussione le regole del gioco: ad esempio attraverso un piano strategico davvero di scala e ambizione metropolitana; e, soprattutto, attraverso una profonda revisione dei criteri che presiedono al negoziato pubblico/privato.
La Città Metropolitana di Milano appare infatti evanescente come un ectoplasma; così come totalmente evanescente appare il Piano Strategico recentemente presentato con il solito stucchevole trionfalismo. Sorge il sospetto che i Comuni, in primis Milano, abbiano assecondato, se non addirittura gradito, un’istituzione metropolitana così debole come è quella scaturita dalla legge regionale n. 92/2015[5] (si veda Grand Lyon Métropole e Città Metropolitana Milanese: un confronto impari), allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze.
La Giunta Pisapia ha perso l’occasione di promuovere una svolta davvero radicale in materia di politiche urbanistiche: ha adottato, nella revisione del PGT, una strategia “rimediale” meramente quantitativa; ha lasciato i rapporti di forza pubblico/privato immutati; ci ha regalato come grande innovazione del PGT il concetto di indifferenza funzionale che autorizza il “mix funzionale libero” (un vero e proprio ossimoro urbanistico con cui si è consentita al privato piena libertà di intervento su tutto il tessuto consolidato della città: esemplare per la sua indesiderabilità, ma simile a molti altri, il progetto per lo stadio del Milan al Portello, in pieno centro, saltato soltanto per il mancato accordo fra l’ente Fiera e il Milan); ha trascurato il tema, cruciale in un contesto decisionale ampiamente deregolato, della trasparenza. Nelle buone pratiche internazionali, i risultati degli accordi negoziali per quanto concerne il vantaggio pubblico e il vantaggio privato sono accessibili in Internet; dove c’è opacità si apre la strada a scelte sub-ottimali, quando non a progetti inaccettabili o a fenomeni corruttivi.
In estrema sintesi, a Milano si è rinunciato a qualsivoglia regia pubblica nelle politiche urbanistiche.
E le prossime elezioni del sindaco di Milano non sembrano riservare sorprese liete: anzi, un futuro ancora peggiore… se è possibile.
note
[1] In via di publicazione sul prossimo numero di Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali.
[2] Si tratta di 7 scali ferroviari con una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq. La bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere, è decaduta nel dicembre 2015 per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa, ma destinata probabilmente a costituire un’eccezione date le prospettive elettorali. Si vedano G. Goggi, “Solo un frammento del problema urbanistico: gli scali ferroviari”, in arcipelagomilano.org, 16 dicembre 2015; M. Monte, “Scali ferroviari: oltre l’approccio immobiliare”, in arcipelagomilano.org, 26 aprile 2016.
[3] A proposito di Milano si scrive soltanto: «Overseas investors are pouring capital into the city: Qatar Holding consolidated its interest in Milan’s new Porta Nuova project, while China's Fosun group spent €345 million on its first Italian purchase, UniCredit’s former headquarters, the historic Palazzo Broggi, and Partners Group acquired two prime office properties in the centre of Milan for €233 millionı (PricewaterhouseCoopers(PwC), Urban Land Institute: Emerging Trends in Real Estate® Beyond the capital Europe 2016: 39).
[4] Nei PGT dei comuni dell’hinterland, le rilevanti previsioni edificatorie segnalano una inesauribile, e insostenibile, propensione per un’espansione residenziale destinata a produrre ulteriori consumi di suolo agricolo; nel riuso di grandi aree dismesse, domina invece incontrastato lo shopping mall con il corredo di multisale, residenze, alberghi, nuove infrastrutture stradali o ampliamento di quelle esistenti: un vero affare per la lobby del cemento e del movimento terra. I più importanti, recenti, e contrastati dalla popolazione e dai piccoli commercianti: l'Arese Shopping Center, da poco inaugurato, sull’area ex Alfa Romeo a Nord Ovest del capoluogo lombardo (120.000 mq. di pavimento sui quali si insedieranno anche i giganti dell’abbigliamento low-cost) e lo “Westfield Milan”, di futura realizzazione sull’area, prossima all’aeroporto di Linate, dell’ex dogana di Segrate di proprietà delle Ferrovie italiane (pubblicizzato come lo “shopping mall di lusso più grande d’Italia”: 235.000 mq e l’arrivo, annunciato trionfalmente, delle Galeries Lafayette).
[5] La Regione Lombardia ha ulteriormente ridimensionato le già deboli competenze delegate dalla legge Delrio alle Città Metropolitane, riaccentrando tutte le funzioni precedentemente esercitate dalla Provincia di Milano. Si tratta di competenze che dovrebbero costituire ambiti fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale del territorio metropolitano: l’agricoltura, la cultura, l’ambiente e l’energia.
Finalmente un articolo che introduce qualche elemento di demistificazione dell'ultimo spot del governicchio totalitario. Distruggono tutto il welfare conquistato in decenni di lotte (assistenza, scuola, sanità, verde e sport ecc.). poi danno un'elemosina. La Repubblica, 17 maggio 2016
Sabato scorso il ministro Costa, intervenendo ad un convegno del Forum delle associazioni familiari, aveva mostrato grande apertura verso il “fattore famiglia”, una misura ispirata al “quoziente familiare” francese che mira a rendere più equo il sistema fiscale riducendo il costo dei figli a carico. Il giorno dopo il ministro Lorenzin ha rilanciato in tutt’altra direzione con il bonus bebè, presentato come principale soluzione al crac demografico. Il ministro Padoan, come raccontano le cronache, sembra sia rimasto tiepido. Palazzo Chigi ha successivamente precisato che il bonus è in realtà solo una delle misure prese in esame. Come indica anche il rapporto del think tank Volta, si dovrebbe partire da un organico ripensamento degli strumenti di welfare.
Questa vicenda, mostra come il tema demografico sia sentito nella sua urgenza, ma mette anche in luce tutti i limiti della politica nel dare una risposta all’altezza della sfida. È giusto preoccuparsi. La popolazione italiana è come un edificio sul vertice del quale aggiungiamo continuamente nuovi piani, per il fatto che si vive sempre più a lungo, ma con parte inferiore e fondamenta sempre più fragili, per l’erosione prodotta dalle nascite. È però sbagliato trattare i temi demografici con la logica dell’emergenza, siano essi l’immigrazione, l’invecchiamento o le trasformazioni familiari. Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo termine. Per mettere in campo politiche efficaci è allora necessario prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire con successo su tali meccanismi.
Questo è ancor più vero oggi. Nelle società moderne avanzate “l’onere della prova” delle decisioni riproduttive si è invertito. Se in passato l’atteggiamento di base era quello di avere figli e per non averne si doveva operare una scelta esplicita, da qualche decennio la condizione di partenza è invece l’assenza di figli, che rimane tale se non si attiva una scelta deliberata sostenuta da condizioni positive. Di conseguenza, se un Paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone a fare figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato è necessario mettere in campo azioni ad esplicito e solido supporto di tutto il processo decisionale. In primo luogo, il desiderio deve poter trasformarsi in vero progetto di vita. Tale progetto deve poi poter trovare possibilità di effettiva e concreta realizzazione. Infine, è necessario che vi sia la ragionevole aspettativa di un successo nell’esito finale. Tutte queste fasi sono oggi entrate in crisi. Le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andar oltre.
Il bonus bebè non sembra in grado di intervenire efficacemente su nessuno di questi meccanismi. Per come è configurato più che favorire la natalità può essere utile come contrasto al rischio di povertà, particolarmente alto in Italia per le famiglie con oltre due figli. Indicare obiettivi chiari e misurabili, oltre a dar conto dell’impatto del bonus precedente prima di rilanciare nella stessa direzione, aiuterebbe a capire se al di là delle buone intenzioni c’è davvero un serio impegno della politica a restituire fiducia e vitalità al Paese.
Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani 2016” dell’Istituto Toniolo Twitter: @ AleRosina68
”
Vi immaginate una repubblica con poco più di 50 mila abitanti che cita in tribunale il gigante mondiale, gli Stati Uniti? Per trovare questa repubblica, denominata delle Isole Marshall, dovete prendere un mappamondo, guardare l’immenso Oceano Pacifico, cercare proprio a metà, fra l’Australia e le Isole Hawaii, all’altezza dell’equatore; farete fatica a riconoscere un puntino che indica una catena di isole coralline, distanti fra loro centinaia di chilometri; è questo il territorio della minuscola repubblica di cui parlo. Sarà stato perché negli anni quaranta del secolo scorso erano state affidate come “mandato” agli Stati Uniti, sarà stato perché erano lontane da altri paesi abitati, sta di fatto che sono state scelte per condurre una serie di esplosioni sperimentali di bombe atomiche americane.
Anche se così lontane da tutti, le isole Marshall hanno avuto una interessante storia; già tremila anni fa sono state visitate da marinai e pescatori provenienti dalle coste dell’America meridionale, dall’Australia e dall’Asia orientale, che percorrevano il mare sterminato con zattere capaci di resistere alle tempeste oceaniche. Sono state poi scoperte dai navigatori europei, spagnoli, prima di tutto, poi inglesi fra cui il capitano John Marshall che visitò le isole nel 1788 e le dette il proprio nome; le isole rimasero proprietà spagnola fino al 1884 quando la Spagna “le vendette” alla Germania. Rimasero tedesche fino alla prima guerra mondiale quando i giapponesi le occuparono e ne ebbero il mandato fino alla seconda guerra mondiale, durante la quale furono occupate dagli americani che vi costruirono una base militare.
La prima bomba atomica, dopo quelle di Hiroshima e Nagasaki, fu esplosa nel luglio 1946 nell’isola di Bikini, una corona di rocce coralline intorno ad una laguna nella quale furono poste varie navi militari in disarmo, per vedere che effetto la bomba avrebbe fatto su una flotta. Affondarono tutte e l’America esultò per la potenza della nuova arma, un avviso per l’Unione Sovietica con cui era cominciato una “guerra fredda”. La bomba di Bikini fu battezzata ”Gilda” dal nome della protagonista di un omonimo film di successo interpretato dall’”esplosiva” bellezza di Rita Hayworth; uno stilista chiamò “bikini” il costume di bagno in due pezzi che permetteva alle signore di esporre i propri “esplosivi” attributi femminili. Solo dopo molto tempo si sarebbe saputo che le polveri radioattive gettate nell’atmosfera dalle bombe atomiche e nucleari esplose nelle solitarie isole Marshall, a Bikini fra il 1946 e il 1958 e ad Eniwetok dal 1948 al 1958, avrebbero provocato centinaia di morti per tumori. La bomba termonucleare usata nel marzo 1954 nel test “Bravo” aveva una potenza distruttiva equivalente a quella di 13 milioni di tonnellate di tritolo (cinquecento volte superiore a quella della bomba di Hiroshima) e polverizzò una parte del suolo corallino dell’isola di Bikini.
Gli Stati Uniti risarcirono con soldi gli abitanti che erano stati spostati dalle loro isole, spesero cifre enormi per “grattare” via il suolo contaminato dalla radioattività; alcuni abitanti furono riportati sul luogo e alla fine gli fu riconosciuta, nel 1986, la sovranità sulle loro travagliate isole che ora hanno una bandiera, un piccolo parlamento e un seggio all’assemblea delle Nazioni Unite.
Nel frattempo i vari paesi dotati di bombe nucleari, hanno continuato a collaudare i loro arsenali facendo esplodere circa duemila bombe nucleari nell’atmosfera e poi nel sottosuolo e hanno continuato a perfezionare e tenere in funzione le bombe esistenti, oggi oltre 10.000 in nove paesi, Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord. Altre bombe nucleari sono distribuite in altri paesi, fra cui l’Italia che ”ospita” bombe termonucleari americane a Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone).
Dal 1968 esiste un trattato di non proliferazione nucleare (NPT) firmato da tutti i paesi (ad eccezione di Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) che avrebbe dovuto limitare la fabbricazione di armi nucleari e anzi, nel suo articolo VI, impone a tutti gli aderenti di procedere ad un totale disarmo nucleare, un impegno mai rispettato, con la scusa che il possesso di armi nucleari da parte di un paese scoraggia altri da usarle, il principio della deterrenza. Ricordando quello che avevano sofferto, gli abitanti delle isole Marshall si sono arrabbiati e hanno deciso di intraprendere delle azioni legali contro i paesi nucleari. Hanno cominciato a fare causa al governo degli Stati Uniti presso un tribunale della California per violazione del NPT di cui è firmatario; il tribunale ha respinto l’accusa ma si sono messi in moto delicati problemi di diritto internazionale. Come se non bastasse la Repubblica delle Isole Marshall ha denunciato presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja tutti i nove stati nucleari per la violazione degli obblighi di disarmo imposti da una precedente sentenza della stessa Corte.
Il dibattito è in corso ed è un peccato che non se ne parli in Italia. Di disarmo nucleare ha parlato invece Papa Francesco nel messaggio inviato nel dicembre 2014 alla Conferenza di Vienna sull’”impatto umanitario delle armi nucleari ricordando che «le armi nucleari hanno il potenziale di distruggere noi e la civiltà», le armi nucleari come tali, non quelle di un paese o dell’altro paese, proprio per il solo fatto di esistere, e ha concluso: «Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile». Speriamo che qualcuno lo ascolti.
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre... (continua la lettura)
, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre 100 Associazioni, 22 sigle sindacali e 9 fra partiti e movimenti politici, ha deciso che questa esperienza - preziosissima - non possa che essere l'inizio di un percorso.
Nato per contrastare la deriva che ha investito il nostro patrimonio culturale e paesaggio attraverso le riforme Franceschini e leggi quali SbloccaItalia, legge Madia, Codice degli Appalti e ddl sul consumo di suolo, Emergenza cultura è riuscito, in pochi mesi, a coalizzare un gruppo sempre più vasto di persone, di esperienze, di conoscenze di altissimo livello culturale, sociale, civico. Perché al contrario di chi ha pensato le riforme del Mibact, lo strumento che ci ha guidato per contrastare quello che riteniamo un gravissimo attacco all'art. 9 della Costituzione, è stato il confronto, la discussione, l'ascolto reciproco di posizioni diverse. Insomma, l'esercizio di quel senso critico che riteniamo essere uno degli obiettivi primari cui porta la conoscenza del nostro patrimonio culturale.
Lo si è capito benissimo nell'affollatissimo convegno del 6 maggio al Centro Congressi di Roma. Tantissime le analisi, i commenti, i racconti delle esperienze e delle iniziative che ruotano attorno ai beni culturali e al paesaggio: quasi da sopraffare per complessità e vastità dei problemi e del loro intreccio. Un’amplissima disamina delle ragioni del patrimonio - dalle Soprintendenze agli archivi, dalle Biblioteche ai Musei, ai cantieri di scavo - che ha impietosamente rivelato lo stato di preparalisi di tantissimi Istituti e luoghi della cultura, non più in grado di svolgere le funzioni loro assegnate per una mancanza di risorse ormai più che decennale. Asfissia aggravata dall'insipienza amministrativa che ha guidato gli ultimi provvedimenti ministeriali, a partire da quello sulla mobilità interna del personale, costretto ad un'autogestione imbrigliata in criteri opachi e contraddittori.
Ma poi anche le iniziative "dal basso", di Comitati ed Associazioni, che in questi tempi così faticosi si affiancano nell'opera di denuncia, ma anche, spesso, svolgono un'efficace azione civica a tutela di patrimonio e paesaggio.
E assieme, l'analisi puntuale dei provvedimenti normativi, nella pericolosità derivante dal loro carattere sistemico; pur se farraginosi, giuridicamente deboli e talora contraddittori, decreti e leggi di quest'ultima stagione sono accomunati in realtà da una coerenza ferrea: la ridefinizione sistematica della pubblica amministrazione mirata ad una compressione radicale delle sue competenze e funzioni. Quelle funzioni che permettono ad uno Stato degno della maiuscola, l'esercizio dei principi costituzionali, compreso quindi l'art. 9.
Ma assieme, fra questi interventi troverete (sul sito emergenzacultura.org) l'analisi della latitanza e conclamata inadempienza del Ministero, nell'insieme della sua componente dirigenziale, di fronte a qualsivoglia funzione di programmazione di area vasta, a partire da quella cruciale connessa alla pianificazione paesaggistica.
E lo svelamento articolato nel dettaglio e supportato da cifre e dati inequivocabili del carattere velleitario, e spesso dannoso delle ultime "invenzioni" della riforma: dalle Soprintendenze "olistiche" (e quindi sulla necessità delle specializzazioni, non come territori circoscritti, ma come rivendicazione della supremazia del sapere scientifico su quello amministrativo), ai poli museali regionali (un limbo di strutture eterogenee con finalità velleitarie quali i "sistemi museali regionali") alla così detta Scuola del Patrimonio (un ircocervo senza alcuna precisa visione culturale).
E, infine, e non certo per importanza, le ragioni del mondo del lavoro: dalla delegittimazione costante del personale interno alle condizioni incivili di precariato cui sono costretti ormai molte migliaia di giovani che pur in situazioni al di sotto della dignità professionale (dai tirocini, ai voucher, dagli stages ai contratti a 5 euro lordi l'ora per studiosi spesso plurispecializzati e dottorati) contribuiscono - tutti i giorni - e in modo sempre più determinante, a far funzionare archivi, biblioteche e musei, a catalogare il patrimonio, a gestire migliaia di cantieri archeologici l'anno.
Nella propaganda governativa delle riforme Franceschini e del miliardo per la cultura, non un solo centesimo è assegnato alla tutela del paesaggio, o per il miglioramento delle condizioni professionali del personale - interno e non - cui è affidato il compimento dell'art. 9.
Gli eventi di emergenza cultura, che hanno trovato una loro perfetta continuità nel convegno - partecipatissimo - organizzato a Bologna dalla locale sezione di Italia Nostra il 13 maggio, oltre ad un indubbio successo mediatico, hanno ottenuto altri risultati straordinari: riunire verso un obiettivo comune, gruppi che sinora avevano proceduto su strade separate, e addirittura confliggenti.
Oltre al personale del Mibact, il mondo dell'Università, quello del precariato, i sindacati, gli operatori culturali sul territorio, i comitati civici, le Associazioni a tutela del patrimonio e di categoria, partiti e movimenti politici, il mondo intellettuale che si sta mobilitando in difesa della Costituzione per il No al Referendum. Perché, come è stato sottolineato da molti, a partire da Salvatore Settis, nella Costituzione - con sapiente costruzione - i vari articoli si richiamano l'un l'altro, necessitandosi: così la difesa dell'art. 9, si ricollega direttamente agli articoli 1, 3, 4, 33, 35, 36...
Credo che per i lavoratori del Mibact sia stato il momento dell'orgoglio ritrovato, per quello delle Università, il rinnovarsi della consapevolezza che la ricerca - ciò che lega tutela, valorizzazione, insegnamento - è tale solo se pienamente libera e non ammette cesure istituzionali, per i precari, la speranza che la loro condizione diventi una battaglia allargata: perchè il futuro di questo Ministero passa anche e soprattutto attraverso di loro. Inevitabile, adesso, che questa esperienza prosegua e, accanto e oltre la denuncia, riesca a costruire una diversa proposta per l'attuazione dell'art. 9.
Non sarà semplice, ma intendiamo "usare" le energie intellettuali e le competenze emerse in chi si riconosce in "Emergenza cultura", innanzi tutto per elaborare dei correttivi all'attuale quadro normativo e proporre, di conseguenza, una diversa e più efficace attuazione di quanto prescrive il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. È un impegno complesso, soprattutto perché passa attraverso un obiettivo ineludibile, che è quello dell'allargamento del "popolo dell'art. 9".
Abbiamo il dovere, prima di tutto, di ampliare la platea di chi riconosce l'importanza cruciale di quell'articolo come strumento di consapevolezza civile. La "democratizzazione" del patrimonio culturale è un passaggio ancora incompiuto della nostra democrazia: dalla ristretta platea di una colta élite di frequentatori di musei e monumenti, siamo approdati alla folla dei turisti consumatori, teleguidata nelle scelte. È successo in pochi decenni, senza mediazioni, anche per colpa nostra: abbiamo il dovere di recuperare, in fretta e aiutare a costruire una maggioranza di cittadini che, in quanto tali, rivendicano un diverso modo di accesso al patrimonio, più consapevole e critico.
Dopo il 7 maggio, però, sappiamo di possedere entrambi i "figli" della speranza:
La speranza ha due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio.
Sdegno per le cose come sono e coraggio per cambiarle.
Sant'Agostino
Le Apuane: un drammatico problema aperto, che richiede soluzioni non semplici, ma rapide. Una proposta operativa per ricucire le troppe lacerazioni, una proposta operativa per costruire nuove relazioni tra Ecologia, Persone, Società, Economie, Natura e Luoghi (m.p.g.)
Tutto sulle Apuane è lacerato: a partire dalle montagne attaccate in ogni loro parte, alle cave devastanti, all’abbandono dei pascoli e dei boschi e della fragilissima agro pastorizia, e similmente alla condizione dei paesi disabitati, e all’invecchiamento della popolazione. Ma all’origine di tutte queste lacerazioni sta l’industria del marmo, nelle sue varie finalità estrattive, tutte comunque multinazionali globalizzate. Il marmo è ormai solo una materia prima come l’oro o il rame o i diamanti, le montagne un luogo da distruggere, le persone una popolazione da sfruttare, anche fino alla morte. Ma a differenza dei paesi del terzo mondo dove la popolazione è umiliata e indifesa, qui la popolazione è in parte consenziente, pensando di avere le briciole (in nero) di questa rapina e si fa addirittura promotrice della svendita delle terre collettive e del loro ambiente, travisando una tradizione di lavoro che peraltro ormai non esiste più.
Questa lacerazione, economica, sociale, mentale, storica e pratica, è pericolosissima sia in sé che nei confronti di ogni alternativa possibile. Anche la realtà delle terre civiche estese a tutta la Montagna, che il Centro Cervati difende e propone come alternativa strategica, invece è misconosciuta e travisata sia dalle leggi vigenti, anche quelle paesistiche, che dagli utenti, provocando un’ulteriore lacerazione nella situazione generale già così tanto frammentata.
Anche per questo emerge un’altra lacerazione, quella tra le associazioni, su chi difende il Piano Paesistico, anche sulle Apuane, così come è stato approvato, modificato dai ‘cavatori’ e dalla Regione, e chi vorrebbe riportarlo al Piano originario e alla legislazione nazionale. In base alla posizione che si intende assumere le attività conseguenti sono diverse. E ciò perché la legge ora vigente legittima interventi distruttivi inaccettabili, fino al paradosso di rendere “paesaggio ufficiale” proprio la distruzione della montagna, resa addirittura struttura paesistica “sovra ordinata”!
Di fronte a tutte queste lacerazioni, che si estendono anche alle città pedemontane (per tutte Carrara) a loro volta straziate e devastate dalle lacerazioni, urbanistiche, ambientali, sociali, culturali,economiche, e ai loro territori di pianura (Versilia) o di fondovalle (valli del Serchio, o del Magra) sempre più intasati e “periferizzati”, o ancora le lacerazioni dei fiumi e quelle della desertificazione dei ravaneti e del carsismo, di fronte a questo mondo esposto a grandi pericoli e ferito in ogni sua parte, ma ancora vivente e ancora più drammaticamente coinvolgente, fantastico, ed appassionante l’opposizione non può essere che articolata, complessa, ma anche creativa
Una Prima opposizione in atto è puntuale, puntigliosa, cava per cava, fiume per fiume, paese per paese, città per città.U na seconda opposizione coglie ogni anche minimo segnale di vitalità che si manifesti tra le lacerazioni e che spinge a cercare di rilanciare una produzione di cibo, di accoglienza, di riscoperta dei luoghi, di continuazione della vitalità comunitaria, di economia giovanile, e di mettere questi fattori tra loro in comunicazione, tramite flussi di relazioni sempre più ampie.
La terza opposizione mette in atto un salto ecologico/ mentale complesso: I Laboratori socio-paesistici della “Città/Natura”. Non megapiani o cabine di regia, ma processi partecipati sperimentali viventi, organizzati sulla base di un pensiero evolutivo e concreto, quello di nuove relazioni tra Ecologia,Persone,Società, Economie, Natura e Luoghi
I Laboratori aprono la prospettiva di una nuova condizione per questo territorio e per i suoi abitanti: una nuova CITTA’/NATURA, una simbiosi tra insediamenti, ancora separati nella loro individualità di piccole città, borghi, paesi e frazioni, ma poi tutti ricollegati in un “effetto città” complessivo che entra in relazione con tutti i frammenti di Natura e di ambiente a loro volta riconnessi in un sistema ecologico unitario, progressivamente sempre più strutturato.
Così Natura e Città,oggi super/lacerati vengono posti di nuovo in relazione, e al loro interno ricomposti, ed aprono nuove correlazioni tra loro pervenendo ad un nuova configurazione interattiva, ad un Nuovo AMBIENTE DI VITA (una vita naturale, sociale, culturale, e anche virtuale) dove servizi urbani, teatri, scuole, mercati, ma anche orti, campi, prodotti biologici di qualità, boschi, ma più che altro fiumi e montagne, così come il mare, divengono componenti attive di un Luogo per Abitare e per produrre secondo natura e secondo creatività sociale.
La prima proposta operativa: dalla Montagna al Mare Il LABORATORIO PANIE- VERSILIA
Per operare e creare una tale configurazione e verificarne la fattibilità stiamo costruendo un contesto di esperienza e sperimentazione, di conoscenza e nuova elaborazione, di scambio paritario tra le diverse componenti che abbiamo chiamato Laboratorio Panie-Versilia.
La Versilia, le Panie e le Apuane meridionali sono ancora in grado di costruire questa alternativa, con le Panie che svolgono il ruolo di cattedrale della Città/Natura, con la Versilia, bassa e alta, una bonifica e un giardino territoriale/ paesistico che diviene Ambiente di Vita di tutta la popolazione, ospiti compresi, estensibile anche alle valli del versante del Serchio.
Si è verificato che un tale contesto crea le condizioni per fare incontrare le diverse esperienze spontanee già in atto, sia in termini di contrapposizione ai fenomeni dominanti, sia in termini di creazione e promozione di attività inedite.
L’assunzione dell’Ambiente di Vita Montagna-Mare che proponiamo trova riscontro anche nella definizione degli ambiti paesistici del Piano Paesistico Regionale con un ambito che si estende dal Crinale Apuano al Mare Tirreno, e che così fornisce un importante riferimento legislativo nella normativa vigente, sviluppandola peraltro con modalità innovative ed evolutive.
Ma proprio qui nasce la contraddizione con il Piano nelle sue parti modificate, perché esse risultano in aperto contrasto con l’evoluzione del Piano da noi praticata.
Vi invitiamo tutti a partecipare ai nostri Laboratori socio paesistici della “Città/Natura”, recentemente lanciati a Seravezza, e fondati su un lungo lavoro pluridecennale.
Personalmente oggi mi recherò a Firenze alla manifestazione contro l’Inceneritore e l’Aeroporto nella Piana della Città Metropolitana, l’altra grande contraddizione presente nel Piano Paesistico così come,approvato con conseguenze disastrose per la città, il suo ambiente e per tutta la Toscana.
L'autore è Presidente del “Centro Cervati per l’Uso Civico” - Seravezza
“Economia circolare” è un termine diventato di moda da alcuni anni per descrivere le tecnologie di riciclo dei rifiuti e le tecnologie “verdi”, presentate come grande novità. In realtà in tutte le società umane, a cominciare da quelle antichissime, il riutilizzo delle cose usate e dei residui è stata pratica non solo saggia, ma necessaria per sopravvivere in un mondo in cui le risorse materiali disponibili sono sempre state limitate. Un dimenticato episodio di economia circolare riguarda la Puglia e la sua importante produzione di olio di oliva. L’olio di oliva è un alimento ottenuto nei paesi mediterranei, da almeno tremila anni, macinando le olive; la pasta omogenea risultante viene poi pressata facendone colare l’olio insieme ad una parte dell’acqua dalla quale l’olio è poi separato. Il contenuto di olio è di circa 15-20 chili per ogni 100 chili di olive; dalla spremitura restano circa 40-50 chili di un panello umido (la sansa) contenente ancora circa 2-3 chili di olio.
La sansa per secoli era considerata un rifiuto, buttata via o bruciata o dispersa nel terreno, anche con qualche beneficio perché contiene piccole quantità di sali potassici. L’imprenditore pugliese Vito Cesare Boccardi (1835-1878), durante un viaggio in Germania, intorno al 1865 venne a conoscenza della possibilità di estrarre il grasso dalle ossa mediante solfuro di carbonio. Il solfuro di carbonio è un liquido volatile, con odore sgradevole, infiammabile e tossico da respirare, che era stato ottenuto nel 1796 dal chimico tedesco Lampadius scaldando insieme pirite di ferro (solfuro di ferro) e carbone; si libera così un vapore facilmente condensabile, il solfuro di carbonio, appunto, con formula CS2, un atomo di carbonio legato a due atomi di zolfo, che si rivelò subito un buon solvente dei grassi.
I primi brevetti per l’estrazione del grasso dalle ossa, anche questa un’operazione di economia circolare, di recupero di materie commerciabili da un sottoprodotto della macellazione, erano stati assegnati al chimico francese Edouard Deiss già nel 1855.
Poco dopo la ditta tedesca C.O.Heyl di Moabit, alla periferia di Berlino, estraeva con solfuro di carbonio olio dai pannelli di vari semi oleosi. Boccardi (1835-1878) pensò di applicare il processo alle sanse di oliva per ottenere olio da trasformare in sapone, in un suo sansificio a Molfetta. Sorsero in breve tempo vari stabilimenti che operavano con ciclo integrale: estraevano olio dalle olive, poi recuperavano dalle sanse l’olio residuo usando come solvente il solfuro di carbonio che essi stessi producevano.
Nel 1869 con capitali francesi fu creata a Bari la “Società delle olierie e saponerie meridionali”, diretta dai signori Marius Gazagne e Sarlin; lo stabilimento, sito nella zona dell’attuale Fiera del Levante, produceva solfuro di carbonio e olio di sansa. Un articolo del 1883 afferma che la fabbrica produceva ogni giorno 1200 chili di solfuro di carbonio e 7000 chili di olio di sansa. A Milazzo nel 1873 la ditta Zirilli produceva anch’essa solfuro di carbonio e olio di sansa. Nel 1883 simili stabilimenti esistevano, oltre che in Puglia e in Sicilia, anche in Toscana.
Si ha notizia che imprenditori pugliesi presentarono, con successo, nelle esposizioni merceologiche, dei campioni di olio di sansa al solfuro. Dapprima l’olio di sansa, di colore verde intenso per la clorofilla che veniva estratta insieme all’olio, era considerato non adatto ad uso alimentare e veniva impiegato per la fabbricazione del sapone, apprezzato perché, per il suo elevato contenuto di acido oleico, permetteva di ottenere dei saponi meno duri di quelli ottenuto con grassi ricchi degli acidi palmitico e stearico. L’”olio al solfuro” era oggetto di esportazione, specialmente negli Stati Uniti; un saponificio di Milwaukee fondato nel 1864 da un tale Caleb Johnson, nel 1898 diede il nome “palmolive” al sapone, dal caratteristico colore verde, fatto con gli acidi grassi dell’olio di sansa di oliva italiano. La fabbrica fu poi assorbita dal saponificio Colgate e il nome “Palmolive” è ora marchio di fabbrica di questa multinazionale dei detergenti.
Queste operazioni di antica economia circolare non erano prive di inconvenienti: I sansifici che producevano olio al solfuro erano soggetti a esplosioni e incendi ed erano inclusi fra le industrie esposte a rischio di incidenti rilevanti, da localizzare fuori dalle città. Per questo motivo già agli inizi del Novecento il solfuro di carbonio fu sostituito con benzina o altri idrocarburi meno pericolosi.
Con vari perfezionamenti è stato possibile eliminare colore e sapori sgradevoli dall’olio di sansa e farne un olio adatto ad usi alimentari. Con successo, perché già negli anni trenta del Novecento era prevista la vendita di olio alimentare di sansa, il cui prezzo era inferiore a quello dell’olio di pressione, col quale poteva anche essere miscelato, nel qual caso era denominato “Olio di sansa e di oliva”. Il favore ricevuto dall’olio di sansa presso i consumatori meno abbienti spinse gli industriali dell’olio di oliva a chiedere ai vari governi di applicare all’olio di sansa una imposta di fabbricazione che ne facesse avvicinare il prezzo a quello degli oli di pressione, naturalmente con le proteste dei proprietari dei sansifici che erano in genere piccoli stabilimenti diffusi nelle zone di produzione delle olive.
L’olio di sansa è ancora prodotto e commerciato; le sanse esauste, dopo l’estrazione dell’olio, trovano impiego come miglioratori del terreno o come combustibili, altra prova che l’economia può operare a cicli sempre più chiusi.
« La protesta della campagna "Roma non si vende" si è trasformata nella proposta "Decide la città": una carta dei diritti in dieci punti che sarà sottoposta ai candidati sindaci sabato 14 maggio». Il manifesto, 6 maggio 2016 (c.m.c.)
Il costo sociale di questa operazione è immenso: destrutturazione capillare delle reti associative, culturali, dell’autogestione che a Roma rappresentano un’eccezione. In passato, la prima giunta Rutelli cercò – inutilmente – di mettere ordine con la «delibera 26»: canone «sociale» e regolarizzazione delle occupazioni in città. Oggi si chiedono gli arretrati a prezzi di mercato, ignorando gli accordi precedenti: alla Torre 6 milioni di euro, al grande Cocomero 116 mila euro.
È l’altra faccia di Mafia Capitale: con la scusa del caso «affittopoli», del ritorno alla legalità, per cancellare la stagione degli «affidamenti diretti» che tanti guai e corruttele ha portato, si è scelto un rimedio peggiore del male: il bando che favorisce la privatizzazione delle politiche sociali e la vendita del patrimonio pubblico. La campagna «Roma non si vende» è cresciuta, si è coalizzata e ha maturato una discreta fiducia in se stessa. Qualche risultato lo ha raggiunto: gli sgomberi sembrano essere stati messi in stand-by. Nel frattempo la protesta è passata alla proposta. Da settimane ci sono assemblee nei quartieri della Capitale dove si sta scrivendo la «Carta di Roma Comune» in dieci punti.
Singolare esperienza di diritto dal basso, nato dall’incontro tra docenti, attivisti, ricercatori precari e abitanti dei quartieri, la carta di Roma Comune conta almeno su un precedente: lo statuto della fondazione del teatro Valle Bene Comune. Elavborata nel corso delle assemblee nel teatro occupato tra il 2011 e il 2013 e in una consultazione online, oggi è un’esperienza che ha sedimentato alcuni argomenti-chiave e una serie di argomenti decisivi.
Nel testo di “Roma Comune” si parla di diritto sorgivo: “Il diritto non è solo quello prodotto dall’autorità dello Stato. Il diritto nasce dalle pratiche, dalle convenzioni, dalle consuetudini, dagli usi. Questo diritto sorgivo reclama un riconoscimento da parte delle istituzioni, ma è già diritto, prima di questo riconoscimento. Nessuno potrà più cancellarlo”.
Di questa visione coraggiosa, e senz’altro innovativa rispetto a un dibattito stagnante e a dir poco mediocre, si possono rintracciare l’origine in alcuni passaggi degli ultimi libri di Stefano Rodotà, Il diritto ad avere diritti o Diritto d’amore. Anche in questo caso si ragiona sul concetto di autonomia e sull’incontro con i movimento sociali.
L’incontro con i movimenti serve al diritto per «conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita – scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto». Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita.
Il testo, scritto in punta di diritto, propone di ricomprendere tutte le realtà che “svolgono comprovate attività socialmente utili di interesse cittadino o municipale” in un nuovo elenco. Tale elenco sarà un supporto utile per definire il “Regolamento sulla gestione del patrimonio” e ristabilire il criterio per l’accesso alla disponibilità dei beni pubblici e di interesse sociale”. Alla base c’è un altro principio costituzionale, quello della sussidiarietà orizzontale stabilito dall’articolo 118 che favorisce “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singolie associati”.
Ancora un volta, si cerca un rapporto virtuoso tra i movimenti sociali e Costituzione, il testo che è stato cambiato dalla riforma renziana per un buon terzo. Ma questa è un’altra storia.
Rigidità è per esempio e paradigma quella della forma della casa citata in apertura, sia nel progetto «familiare», sia nell'organizzazione dei quartieri quando esiste qualcosa del genere, sia nella gestione e amministrazione del servizio casa quando questo entra a far parte dei programmi di welfare. Qui nemmeno l'approccio razionalista ed efficientista industriale riesce a andare oltre certi studi meccanici del filone existenzminimum, se è vero che di fatto poi la produzione di abitazioni, e soprattutto la gestione del grande comparto pubblico, resta ancorata al modello granitico della famiglia nucleare. Al punto che in tantissimi paesi, segnatamente la Gran Bretagna dove di fatto si è quasi «inventato il modello», dopo diverse generazioni si scontano ancora diseconomie e polemiche politiche di grande rilievo, quando l'assegnazione e godimento di alloggi pubblici vede una incredibile discrasia tra domanda e offerta, soprattutto a fronte della crescita esponenziale di famiglie di una sola persona a occupare per vari motivi spazi enormi. Un relativo lusso, certo, ma a spese di altri.
C'è poi l'approccio neoliberale mercatista, che prima con la retorica della creative class, del suo contributo allo sviluppo locale, ha provato a sperimentare soluzioni edilizie e urbanistiche diverse, poi riproducendole in modo piuttosto meccanico pro domo sua ha creato e continua a creare ghetti gentrificati per i cosiddetti Millennials, giovani che ancora non si sono formati una famiglia, e che secondo il mercato semplicemente «aspettano di trasferirsi in una villetta unifamiliare». La risposta del privato è quella di realizzare delle sorte di pensionati studenteschi allargati, in cui i microappartamenti (comunque esclusivi e costosissimi per unità di superficie) si mescolano a localini e negozi di tendenza, spazi di coworking e altre amenità a mezza strada fra il campus universitario e una specie di azienda individuale diffusa sul territorio. Ma ancora qui non si coglie affatto che quella condizione individuale forse non è affatto provvisoria, che richiederebbe un ripensamento abbastanza radicale dell'approccio, dei servizi, della città che ci sta attorno insomma.
Perché le nude statistiche, oltre a cose magari apparentemente più effimere ma assai significative come associazioni, pubblicazioni, prodotti mirati, ci dicono che «stare da soli» (cosa diversa dalla solitudine patologica così come viene proposta di solito) è tendenza in grande crescita. Case, quartieri, welfare, trasporti, servizi, paiono inchiodati a quel modello familiare nucleare fissato nel XIX secolo e a quanto pare per ora inamovibile, mentre la realtà va da un'altra parte, a volte solo soggettivamente e psicologicamente, in altri casi anche proiettandosi in modo vistoso sulla realtà. Qualcuno naturalmente ha già provato, in una logica di marketing politico, a calcolare quanto peso relativo possano esprimere le istanze di questo neo-individualismo postindustriale, e se si tratti tendenzialmente di istanze declinabili in senso progressista o liberista-conservatore. Ovvero se orientate più al modello del single solo al comando, oppure a quello democratico dell'eremita meditante. E anche così, guardando agli attriti fra la città com'è e come ce la immaginiamo, con le tensioni nelle periferie tra anziani soli barricati dentro spazi inadeguati e nuove formazioni che rivendicano diritto alla casa, si capisce quanto complicato sia, farsi un'idea ragionevole del senso di destra o sinistra, oggi.
La maggior parte dei paesi ha sottoscritto, con una grande cerimonia, gli accordi, presi a Parigi nel dicembre 2015, per rallentare il lento continuo aumento della temperatura del pianeta Terra, responsabile dei mutamenti climatici e a sua volta provocato dall’immissione nell’atmosfera di gas, detti “gas serra”, provenienti dalle attività umane. Per la maggior parte i gas serra sono costituiti dall’anidride carbonica CO2 liberata dalla combustione dei combustibili fossili, carbone, petrolio e gas naturale, che sono le fonti di energia usate in maggiore quantità nel mondo, dall’incendio delle foreste, dalla produzione di cemento. Altro gas serra è il metano che sfiata dai pozzi di gas naturale o che si libera dalla putrefazione di rifiuti agricoli e urbani, e altri gas serra derivano da processi industriali. Nel mondo ogni anno circa 35-40 miliardi di tonnellate di CO2 si aggiungono a quelle già esistenti nell’atmosfera; in Italia circa 400-450 milioni di tonnellate all’anno di CO2 vengono immessi nell’atmosfera planetaria.
Per rallentare il riscaldamento planetario sono previste delle specie di multe (“carbon tax”), tanti euro per ogni tonnellata di gas serra immessi nell’atmosfera da una industria o da un paese, soldi che dovrebbero servire in parte ad aiutare i paesi poveri ad avviarsi allo sviluppo economico e sociale con tecnologie meno inquinanti e rispettando il proprio ambiente.
Trattandosi di soldi, i governi, le banche, le compagnie di assicurazioni, le imprese, enti di ricerca, ma anche associazioni ambientaliste, cercano di prevedere di quanta energia ciascun paese avrà bisogno e quali fonti energetiche poco inquinanti farà bene a utilizzare. In questi ultimi tempi si stanno moltiplicando analisi e previsioni di consumi energetici che prendono il nome di piano, strategia o, più modernamente, “roadmap” (che sarebbe come dire la strada che occorrerebbe percorrere per ottenere un certo risultato).
Tutti questi piani, al fine di diminuire le emissioni di gas serra per “stare dentro” i vincoli di emissioni imposti dagli accordi di Parigi, prevedono di sostituire una parte dei combustibili fossili con le fonti energetiche rinnovabili: solare, eolico, idroelettrico, con carburanti derivati da prodotti agricoli, con la combustione negli inceneritori (ora chiamati “termovalorizzatori”) dei rifiuti (promossi a fonti rinnovabili), e di diminuire i consumi totali di energia con la ristrutturazione degli edifici, con la diffusione dei servizi informatici, eccetera,
La maggior parte delle fonti rinnovabili però produce essenzialmente energia elettrica che oggi in gran parte è ottenuta bruciando l’inquinante carbone (oltre dieci milioni di tonnellate all’anno solo nelle centrali termoelettriche italiane). Ma l’elettricità prodotta con le meno inquinanti fonti rinnovabili costa di più di quella ottenuta dalle fonti energetiche fossili e i maggiori costi di produzione devono essere rimborsati ai proprietari di pannelli fotovoltaici, di pale eoliche o di termovalorizzatori sotto forma di soldi tratti facendo pagare di più l’elettricità ai consumatori i quali, in un certo senso, devono pagare per quello che sarebbe il loro diritto: respirare aria pulita e non essere alluvionati.
L’energia, sotto forma di calore e di elettricità, ”serve” a produrre merci e ad assicurare servizi: a trasformare il minerale in acciaio, il grano in pane e pasta, a muovere le automobili, a scaldare le case e ricaricare i telefonini, insomma a tutte le cose della vita quotidiana. A modesto parere di un merceologo, per prevedere e indicare di quali e quante fonti di energia avrà bisogno un paese nei prossimi anni e con quale inquinamento, sarebbe bene cominciare dal fondo, cioè dall’analizzare di quali e quante merci e servizi si prevede che un paese abbia bisogno.
Ciascun prodotto o servizio può essere ottenuto, infatti, con diversissime quantità e tipi di energia. Per restare al caso dell’acciaio, che è al centro di tanti problemi in Puglia, la stessa tonnellata di acciaio può essere prodotta con carbone, con gas naturale, o con l’elettricità, con diverse quantità di energia tratte da diverse fonti e con diversi effetti inquinanti. Una persona può percorrere un chilometro con un’automobile economica, con un SUV, con un treno o con un autobus, in ciascun caso con quantità e tipi di energia diversissimi e con diversi inquinamenti, eccetera. La quantità di merci e servizi di cui i cittadini di un paese hanno bisogno dipendono dal numero di abitanti e dalla loro età: gli anziani hanno bisogno di meno motociclette dei giovani e hanno bisogno di maggiori spazi ricreativi e assistenza medica; l’invecchiamento della popolazione impone modifiche nella richiesta di nuove abitazioni e nei relativi consumi di cemento e piastrelle; le mode inducono a modificare la richiesta di alimenti, di tessuti, di mobili. Tutti fenomeni da cui dipende la richiesta di energia.
Nei piani energetici che ho visto in circolazione, in generale mancano le informazioni sulle previsioni dei fabbisogni di merci e servizi, al di là di una generica promessa di chimica o tecnologia “verde”. Per quanto ne so, solo il rapporto 213/2015 dell’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) conteneva le previsioni dei consumi di elettricità, addirittura al 2050, basate sulle previsioni della richiesta e della produzione di alcuni prodotti: acciaio, alluminio, prodotti chimici industriali, prodotti farmaceutici, cemento, laterizi, carta, prodotti alimentari e tessili. Le previsioni sono sempre difficili, ma vanno pur fatte ricordando che in futuro, piaccia o no, le società umane hanno bisogno di oggetti, di energia e anche di cieli meno inquinati.
Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo. Sono in totale disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Camillo Davigo, nell'intervista concessa ad Andrea Fabozzi, sul Manifesto del 24 aprile. Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente e che interessano a pochi italiani. Anche se nell'intervista vi si leggono banalità folgoranti del tipo: «Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi». Un motivo di bassa retorica per depotenziare le posizioni di Camillo Davigo e ridurlo al rango del Grande Repressore.
Capisco bene quanto ha dichiarato ad Aldo Cazzullo, Reffaele Cantone, in un'intervista su Corriere del 23 aprile: «Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano». Certamente, le manette non sono bastate e non bastano mai, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Non certo i magistrati, che avevano svolto il loro compito e a cui spettano altri compiti.
Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L'intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l'urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A.Floridia sul Manifesto del 14 aprile - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello?
Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto una affermazione importante, ripresa da pochi: «la classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi». Ed è questo il punto, il vero punto da discutere. Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, 'ndrangheta e camorra, sia per l'imponenza dei capitali che muovono, che per l'ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com'è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione.
A trent’anni di distanza da quel 26 aprile del 1986 giornali e televisioni ricordano il grave incidente che porta il nome di Chernobyl; in quella cittadina dell’Ucraina, allora sovietica, che nessuno aveva mai sentito nominare, in uno dei quattro reattori della centrale nucleare, per l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento si verificò la fusione del “nocciolo”, un insieme di tubazioni di acciaio che contenevano grandi quantità di atomi radioattivi: uranio, plutonio e i loro prodotti di fissione che il mondo avrebbe imparato a conoscere per nome: cesio, stronzio, iodio radioattivi.
Le conseguenze ambientali, economiche e politiche dell’incidente di Chernobyl furono grandissime. Le fiamme e i fumi fuoriusciti dal tetto scoperchiato di quella centrale segnarono di fatto la fine dell’avventura nucleare italiana e anche nel resto del mondo fecero svanire il sogno dell’elettricità illimitata a basso costo. Da allora le oltre 400 centrali nucleari esistenti nel mondo hanno continuato a produrre elettricità; alcuni reattori sono stati chiusi anticipatamente, qualche nuovo reattore è stato anche costruito. Da alcuni anni la produzione mondiale di elettricità nucleare è in continua diminuzione, dal 14 percento della produzione mondiale di energia elettrica nel 2000, all’attuale meno del 10 percento. Della scelta atomica ci restano le crescenti quantità di scorie radioattive prodotte dai reattori nucleari militari e commerciali, che nessuno sa dove sistemare, una eredità che lasciamo alle generazioni future.
Ma la tragedia di Chernobyl ebbe anche altri volti che sono rimasti poco noti o dimenticati. Mi riferisco agli operai, ingegneri, volontari, pompieri, presenti o venuti dalle città vicine, che si adoperarono con i pochi mezzi a disposizione, nella grande confusione di strutture contorte e crollate, per spegnere l'incendio e che, per fermare la fuoriuscita di materiale radioattivo, esposero le loro vite a radiazioni mortali; morirono quasi tutti, così come morirono i piloti degli elicotteri che, a ripetizione, sorvolarono il reattore ancora in fiamme per gettare al suo interno centinaia di migliaia di tonnellate di sabbia e cemento e piombo, in modo da fermare la reazione nucleare che procedeva ancora.
Se non ci fosse stato il loro sacrificio, la radioattività delle polveri e gas che si sparsero e ricaddero in Europa avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose. La storia è raccontata da Grigori Medvedev nel dimenticato libro Dentro Chernobyl, pubblicato nel 1996 dalle edizioni La Meridiana di Molfetta, un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole perché è una specie di Cuore del ventesimo secolo. Il libro di Igor Kostin, Chernobyl, confessioni di un reporter, Ega Editore, Torino, contiene una ulteriore drammatica documentazione fotografica delle ore e delle settimane della grande paura e degli sforzi dei tecnici e degli operai impegnati a fermare la fuoriuscita della radioattività. Qualche città italiana avrebbe fatto bene a intitolare una strada o una piazza ai "martiri di Chernobyl", agli eroi che, in quelle terre lontane, a prezzo della loro vita, evitarono che fossimo contaminati in modo molto più grave e salvarono tante delle nostre vite.
Il disastro fu accompagnato da episodi di generosità e solidarietà internazionale. Il chirurgo americano Robert Gale, specialista di trapianti di midollo osseo, corse subito in Ucraina e per molto tempo operò i malati più gravi; anche questa storia è raccontata in un libro dello stesso Gale e in un film dal 1991, "Chernobyl", del regista Anthony Page, che ancora circola in qualche televisione e che meriterebbe di essere visto da tanti italiani.
Le zone intorno al reattore di Chernobyl, rese inabitabili a causa dell’elevata radioattività, furono fatte sgombrare dalla popolazione; molti abitanti di tali zone erano stati avvelenati dalla nube radioattiva; in Ucraina molti che allora erano bambini e ragazzi portano ancora nel corpo le conseguenze di tale contaminazione; per anni alcuni di questi bambini hanno trascorso dei periodi di vacanza in Italia, ospiti di organizzazioni di volontariato.
Qualche anno dopo, nel 2011, in Giappone si verificò un’altra catastrofe nella centrale nucleare di Fukushima. Un maremoto provocò l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento di tre reattori e anche lì i reattori esplosero e provocarono l’immissione nell’ambiente di polveri con una radioattività equivalente a quella di circa 25.000 chilogrammi di radio. Anche a Fukushima, molti operai, ingegneri e tecnici sacrificarono la propria vita per cercare di fermare la fuga verso l’ambiente esterno delle polveri, salvando quindi dalla morte molti abitanti delle zone vicine. Eroi sconosciuti anche quelli come quelli di Chernobyl di cui Medvedev, nel libro prima citato, scrisse: "Gli eroi e i martiri di Chernobyl ci hanno fatto comprendere l'impotenza dell'uomo di fronte a ciò che l'uomo stesso crea, nella sua presunzione di onnipotenza".
Il 16 aprile, un episodio apparentemente marginale ha segnato simbolicamente la fine della primavera toscana, quella prospettiva balenata durante l’assessorato Marson di una politica che facesse di ambiente, paesaggio e territorio ingredienti di uno sviluppo innovativo e durevole.
Questo episodio, marginale ma significativo, è il suggello di una gara crescente tra Renzi e Rossi a chi è più bravo nel facilitare opere inutili e dannose. Basta ricordare due ultimi episodi. Il 25 marzo Renzi, accompagnato da alcuni suoi fidi e ignorando Rossi, ha convocato in segreto a Palazzo Vecchio il Sindaco Nardella e alcuni assessori per sancire che l’aeroporto dell’amico Carrai si doveva fare e altrettanto (ultima improvvisazione) una nuova linea della tranvia sotto il centro storico di Firenze. E poiché due tunnel nel sottosuolo fiorentino, la tranvia oltre la Tav, forse sarebbero stati troppi, quest’ultima poteva attendere. Pochi giorni dopo, simmetricamente, il Presidente Rossi si è precipitato a Roma, è intervenuto nel procedimento Via in corso sul nuovo aeroporto e annunciato che entro un mese la Commissione Via (che ancora deve pronunciarsi con votazione, in seduta plenaria) avrebbe dato parere favorevole con prescrizioni al progetto esecutivo: esattamente ciò che fin dall’inizio hanno sostenuto e preteso i proponenti del progetto. Infine, per rassicurare i cittadini, Rossi si è proposto come presidente di un costituendo Osservatorio, che ripentendo la tragica esperienza del Mugello, niente conterà e niente farà: un’autentica presa in giro.
Ha aggiunto Rossi che si sarebbe fatto il sottoattraversamento dell’alta velocità, fortemente voluto dalle cooperative rosse, e che le terre di scavo sarebbero state declassate da rifiuti a materiali riutilizzabili. Dimenticandosi che solo qualche mese fa Raffaele Cantone aveva ribadito di fronte al Consiglio regionale quanto già era scritto nella sua relazione del 4 agosto 2015: che erano mancati gli adeguati controlli da parte degli enti pubblici preposti e che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non potevano ritenersi del tutto superate”. Tra queste, i permessi scaduti, i vertici delle società arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora” e che “i comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera”.
La diretta streaming dell’audizione di Cantone è stata negata, la maggioranza ha glissato, i giornali hanno dato scarne notizie per tacere subito dopo, mentre sono acritici quando si tratta di diffondere autentiche balle tra cui spiccano le notizie che l’aeroporto sarà inaugurato nel 2018 e che i lavori di rifacimento dell’intero assetto territoriale della piana fiorentina costeranno (solo) 150 milioni. Soldi pubblici nelle intenzioni di Renzi, che perciò aveva spinto su Firenze come sede del prossimo G7 per giustificare con l’eccezionalità dell’evento i finanziamenti statali all’aeroporto, non altrimenti concedibili per normativa europea. Dirottata altrove la sede del G7, la classe dirigente fiorentina ha emesso alti lamenti, dichiarando tra l’altro che l’evento “avrebbe dato visibilità” a Firenze… finora, come si sa, ignota al mondo.
Una piccola perla che testimonia o la dabbenaggine di chi la dice o il fatto che egli creda di parlare a un esercito di mentecatti, ma riportata senza battere ciglio dalla stampa locale. In sintesi, Renzi e Rossi si comportano in modo simmetrico. Intromissioni in questioni e procedure che devono essere lasciate alle istituzioni rappresentative e agli organi competenti, indebite pressioni, violazione di norme e procedure; cui si possono aggiungere, nella sostanza, l’idea dei cittadini come massa inerte e l’attiva acquiescenza agli interessi del cemento e della finanza. Qualcuno dovrebbe spiegare a Rossi che l’alternativa a Renzi si fa sul terreno dei valori, sull’ascolto dei cittadini, sulla valorizzazione dei contributi dei cosiddetti “corpi intermedi”: In una parola su un’effettiva democrazia. Se Rossi vuole battere Renzi facendo a chi è il più Renzi dei due, la sua partita è persa. Purtroppo anche quella della Toscana e non solo.
, inteso come acque, aria, foreste, suolo, esseri viventi. Non a caso il Ministero si chiama per la “tutela” dell’ambiente; il braccio scientifico di tale ministero si chiama Istituto Superiore per la ”Protezione” e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Infatti l’ambiente deve essere tutelato e protetto dalle attività umane e, in qualche caso, da eventi “naturali” come terremoti o eruzioni vulcaniche. Le alterazioni di origine umana derivano da interessi contrapposti, spesso o talvolta entrambi legittimi: chi produce merci utili e occupazione e chi protesta per i fumi che escono dai camini; chi costruisce una casa in montagna e chi protesta per il taglio dei boschi, eccetera.
La protezione dell’ambiente, da parte della pubblica amministrazione e da parte di associazioni o movimenti di ecologisti e ambientalisti, presuppone “la conoscenza” delle sue condizioni e delle sue modificazioni e questa può essere acquisita soltanto esaminando libri e documenti sparsi in numerosi posti, più o meno facilmente accessibili. Una associazione ecologica può contrastare l’inquinamento di un fiume soltanto se conosce tutti i suoi caratteri, la localizzazione e il tipo delle attività inquinanti, la natura delle scorie che finiscono nelle acque, i danni alla vita acquatica e alla salute delle persone che, a valle, traggono dal fiume l’acqua da bere. Si tratta, di conoscenze chimiche, fisiche, geologiche, biologiche, contenute in libri e relazioni spesso raccolti da enti e uffici pubblici, anche se raramente si sa dove si trovano.
E’ stata quindi molto opportuna l’iniziativa della dott. Anna Laura Saso, dell’ISPRA prima ricordato, di raccogliere a Roma, il 15 aprile scorso, presso la Biblioteca Nazionale, i responsabili delle principali agenzie e istituzioni invitandoli a “raccontare” il ricco patrimonio di libri e documenti relativi all’ambiente esistenti nelle loro biblioteche e in quale modo ogni cittadino vi può accedere. Tanto per cominciare, lo stesso ISPRA possiede nella sua biblioteca libri e relazioni proprio nello specifico tema ambientale, così come in ciascuna regione le varie agenzie locali per la protezione ambientale possiedono biblioteche con la documentazione relativa soprattutto al territorio in cui operano.
Nel 1927 fu creato Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che coordina le ricerche scientifiche italiane attraverso diecine di laboratori propri o presso le Università. Il CNR in novanta anni ha raccolto una vastissima biblioteca contenente libri e collezioni di riviste in tutti i campi scientifici, in gran parte direttamente legati all’ambiente. Nel 1934 fu creato l’Istituto Superiore di Sanità che possiede una enorme documentazione sulle fonti di inquinamento e sui loro effetti sulla salute degli Italiani; un’altra importante biblioteca ambientale si trova presso l’ENEA, l’agenzia nata nel 1952 per le ricerche nucleari e ora specializzata nelle nuove tecnologie energetiche e ambientali. Il convegno sulle biblioteche ambientali ha messo in evidenza che una parte, continuamente crescente, delle conoscenze sullo stato, sull’evoluzione e sulle alterazioni dell’ambiente, sparse in questi e altri enti pubblici, è disponibile in Internet e diventa quindi accessibile a coloro che riconoscono e vogliono contrastare le violenze alla natura e al territorio. E’ stata anche costituita una associazione di “amici” delle biblioteche ambientali.
Un altro aspetto importante riguarda il recupero delle biblioteche e degli archivi di privati, persone o anche associazioni o gruppi che sono stati attivi nelle lotte ambientali. Qualcosa è stato salvato, come l’archivio dell’urbanista Antonio Iannello da parte del Comune di Napoli, quello dello scrittore Antonio Cederna a Roma; rischia la dispersione la biblioteca di Fabrizio Giovenale, uno dei fondatori di Legambiente, in locali sotto sfratto alla periferia di Roma; la Biblioteca Motolese si trova a Taranto nel Quartiere Tamburi, a ridosso dei fumi dell’ILVA. Molte altre raccolte private di libri e documenti ambientali sono confinate in luoghi poco accessibili e moltissime sono andate perse. La Fondazione Luigi Micheletti di Brescia da venti anni va, letteralmente, “alla caccia”, di libri e archivi ambientali privati, a pericolo di dispersione, che raccoglie nella sua biblioteca-museo sulla storia contemporanea; un patrimonio che, in parte, aspetta di essere catalogato e inventariato e che rappresenta una fonte di studio e ricerca per comprendere molti eventi della storia dell’ambiente attraverso le testimonianze dei protagonisti. A causa della miopia delle istituzioni pubbliche alla Fondazione mancano soldi per le persone e per lo spazio di archiviazione, un peccato perché soltanto la conoscenza degli errori passati permetterebbe di prevedere, prevenire ed evitare errori e costi ambientali futuri. Come ha scritto Shakespeare, “il passato è prologo”.
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno