Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
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Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione: la mancanza di soldi. «Non ci sono le risorse» ha sentenziato di recente il ministro Poletti. Ma è davvero così? Sembra difficile invece crederlo, se ci si informa sulla ricchezza reale del paese, senza fermarsi alle retoriche correnti e al baccano stupido dei media. La Banca d'Italia, ad esempio, sembra avere un'idea diversa delle “risorse” dell'Italia. Nel suo documento La ricchezza delle famiglie italiane. Anno 2013, il nostro paese, con una ricchezza netta pari a 8.728 miliardi di euro, appare in una luce diversa dalla vulgata miserabilista corrente: «Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un'elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Giappone e Regno Unito e superiore a quello di Stati Uniti, Germania e Canada».
Dunque, qual'è allora il vero ostacolo che si para dinnanzi all'istituzione del reddito minimo? Ma è evidente che si tratta di una ragione interamente politica. Il ceto politico non ha nessuna intenzione di scontrarsi con gli interessi costituiti, mettere in discussione la gerarchia consolidata della ricchezza così come si è venuta storicamente formando. Questo ceto, del resto, costituisce un segmento interno, una giuntura delle società capitalistiche del nostro tempo. Mettere radicalmente in discussione i rapporti dominanti esporrebbe a rischio il suo stesso potere relativo e la sua riproduzione. Eppure da noi la sperequata distribuzione della ricchezza non è solo una drammatica disuguaglianza fra le classi, che danneggia la “crescita”: dentro vi è incistata anche una questione generazionale. Sempre la Banca d'Italia, ne I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 ha ricordato che nel precedente ventennio, in termini relativi, il reddito degli anziani è passato «dal 95 al 114 per cento della media generale. (...) Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente è diventato significativamente più basso della media: il calo è stato di circa 15 punti percentuali».
Dunque, quello per il reddito minimo è una battaglia strategica di grande portata, in grado di dare un minimo di respiro alla nostra gioventù e a tante famiglie disperate in tempi brevi. Al tempo stesso colpirebbe la disuguaglianza e rafforzerebbe la domanda interna. Le risorse si trovano dove un tempo le trovavano i partiti della sinistra e i sindacati non asserviti: facendo leva sulla lotta sociale, con una pressione di massa che trasferisca aliquote significative di ricchezza dalle immense e crescenti rendite accumulate nelle fasce alte della società. La Coalizione sociale di Landini e altri dovrebbe porsi come centrale tale obiettivo, non solo per le ragioni già dette. Con le politiche correnti, senza un cambiamento dei trattati dell'Unione - ottenibile da un vasto movimento di massa continentale - è evidente a tutti noi che il prossimo avvenire, in Italia e in Europa, sarà delle destre. Con conseguenze imprevedibili per la democrazia.
che dovrebbero essere soddisfatte >>>
Il succo 'politico' delle dichiarazioni di Rossi, sta nelle ultime frasi, in particolare quando il Presidente afferma: "sono certo che la crisi dei corpi intermedi e dei partiti impone il dovere di allargare lo spettro della rappresentanza, della discussione e della decisione politica. Sono grato ai comitati di cittadini impegnati da anni nelle battaglie ambientali e civili". E subito dopo: "credo che con il Piano del Paesaggio anche in Toscana possiamo contribuire alla ricomposizionee delle forze progressiste e delle culture della sinistra. Ci sono tutte le premesse. Tra le molte possibilità anche il voto disgiunto, consentito dalle regole e dall’offerta politica".
Rossi, a quanto sembra, invita gli elettori di sinistra che non voteranno né Pd né Grillo, ma più probabilmente altre liste, a esprimere comunque un voto a suo favore. Dobbiamo prendere sul serio la proposta di Rossi o si tratta solo di un brillante escamotage per porre fine a una polemica? Proviamo a prenderla sul serio.
La risposta potrebbe essere la seguente. Caro Presidente, quanto lei scrive è indubbiamente di grande importanza e siamo soddisfatti che abbia riconosciuto il ruolo positivo di associazioni ambientaliste e comitati nelle vicende del Piano paesaggistico e più in generale nella tutela del territorio toscano. L'unico appunto è che nel suo intervento sia riproposta la teoria degli "opposti estremismi", intesi come contrapposizione tra un'imprenditoria di rapina che pretende di avere le mani totalmente libere e un ambientalismo 'imbalsamatore' che vuole frenare ogni sviluppo. Lei sa bene che gli ambientalisti e i comitati vogliono arrestare - non basta frenare - lo sviluppo distruttivo e vogliono supportare, nei limiti delle loro possibilità, quello che crea lavoro, tanto meglio se qualificato, come lei stesso dice.
Ma torniamo alla sua proposta che indica come possibile una ricomposizione delle forze progressiste e della cultura della sinistra e all'ipotesi di un possibile voto disgiunto. L'una cosa si lega all'altra. In effetti, potrebbe essere la gestione del Piano paesaggistico a costituire il vero e proprio banco di prova di questa proposta, ma il dubbio è il seguente: lei è sicuro che sarà seguito su questa strada dal suo partito? E che un modello di governo toscano un po' eccentrico rispetto a quello nazionale sarà supportato, o per lo meno non ostacolato, dagli organismi centrali del Pd?
Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno in cui Gesù torna a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, la festa ebraica che ricorda la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con preghiere e pranzi in comune. Era un momento di grande popolarità per Gesù; la sua predicazione in varie parti della Palestina faceva sperare in una nuova liberazione dall’esosa Roma che opprimeva il paese con la collaborazione o tolleranza delle autorità religiose ufficiali, ostili, quindi a questo nuovo profeta. Una folla accoglie Gesù, come racconta l’evangelista Giovanni, agitando rami di palme, la pianta diffusa sul posto.
Quello che succede dopo è noto; il pranzo con gli amici, l’agguato dei nemici, la denuncia alle autorità romane, le perplessità del prefetto romano Pilato, le folle sobillate contro Gesù dai “sacerdoti”, la crocefissione. Nella tradizione cattolica la domenica “delle palme” prevede la benedizione di rami di piante, in Italia dell’ulivo che è diffuso nell’Europa meridionale. (Non so che cosa facciano benedire i cristiani in Germania o Svezia).
Pensando a questo rito mi risuonava nella mente lo stridio delle motoseghe che stanno tagliando gli ulivi del Salento, attaccati da un mortale parassita, e mi sono ricordato quando, settant’anni fa, sono venuto per la prima volta in Puglia. Proprio nel Salento mi hanno fatto vedere i tronchi contorti e bellissimi dei secolari ulivi, raccontandomi la leggenda che fossero così per la sofferenza del nume tutelare, il genius loci, che ogni ulivo portava dentro di sé. Chi sa che cosa pensa la divinità pagana ora cacciata via del tronco del suo ulivo, ridotto ad un fittone che emerge sconsolato dal suolo nel terreno dopo aver visto imbrunire a morte le foglie dal loro verde originale.
Sono state e vengono scritte innumerevoli pagine sulla epidemia che ha colpito gli ulivi del Salento e che minaccia di estendersi; chi è questo batterio Xylella, da dove viene, come è possibile fermarne la propagazione, come risarcire gli agricoltori, che cosa fare nelle terre abbandonate. Soprattutto è ora di interrogarsi su questa nuova manifestazione della fragilità dell’agricoltura: di quella pugliese, oggi, ma più in generale italiana, e, in tante diverse forme, dell’agricoltura mondiale.
Siamo alla vigilia della famosa esposizione universale EXPO 2015 di Milano che prometteva costruttive indicazioni su come nutrire il pianeta, anche se sembra si stia trasformando in una sfilata di ristoranti. Si sprecano parole come sostenibilità e biodiversità mentre nei paesi industrializzati, per motivi “economici” gli addetti in agricoltura sono ridotti a meno del dieci percento dei lavoratori e la stessa tendenza sta diffondendosi nei paesi emergenti.
Il rapporto fra l’uomo e la terra è sradicato dall’avanzata delle grandi monocolture di piante commerciali, dei pozzi petroliferi e delle miniere, delle fabbriche, dall’avanzata del cemento dei quartieri e delle rotaie delle ferrovie sempre più veloci, del catrame delle strade e autostrade e delle discariche di rifiuti. Questa transizione è spacciata per modernità, ma in pratica è governata dal potere finanziario sempre pronto ad abbandonare alla rovina le imprese, anche agroindustriali, di cui si è rapidamente appropriato al solo fine di arricchirsi. L’agricoltura speculativa altera, spesso irreversibilmente, gli equilibri ecologici, quelli che possono, solo loro, in maniera durevole, sfamare il mondo, con una agricoltura che ha bisogno di tempi lunghi e di paziente cura e amore.
Il passato, il presente e il futuro dell’agricoltura saranno esaminati in un convegno su “Le tre agricolture” che si terrà a Brescia, per iniziativa della locale Fondazione Luigi Micheletti, il 22 e 23 aprile, alla vigilia dell’apertura dell’esposizione di Milano. La prima agricoltura per diecimila anni ha assicurato il cibo nel rispetto degli equilibri fra piante, animali, suolo e acque, con il lento e faticoso lavoro umano, con ansie davanti ai pericoli di tempeste, grandine, alluvioni, siccità, con gioie nel momento del raccolto. Con la rivoluzione industriale i migliori salari per gli operai hanno attratto nelle città crescenti folle di agricoltori che hanno abbandonato le campagne. Si è avuta una rapida crescita della popolazione mondiale e per sfamarla è stato necessario lo “sfruttamento” intensivo delle terre, l’apporto di concimi artificiali e di pesticidi che hanno fatto aumentare la produzione agricola, ma a spese di un crescente inquinamento delle acque, della avanzata della siccità, dell’abbandono di colture tradizionali.
L’industria agroalimentare per soddisfare la domanda delle popolazioni urbane ha incrementato i commerci internazionali che hanno offerto maggiore varietà di cibo nelle tavole e incentivato in terre lontane coltivazioni estranee alla loro vocazione, con conseguenti erosione del suolo e cambiamenti climatici. Non sta risolvendo i problemi la seconda agricoltura, quella “biologica”, divenuta in molti casi una moda e ben presto esposta anch’essa a furbizie e frodi. Forse esiste una terza agricoltura, in gran parte da inventare, che riporti i lavoratori alla terra, non come passeggera passione, ma come necessità per “nutrire il pianeta” nel rispetto degli equilibri ecologici e dell’uso razionale delle acque, compatibile col clima e con le caratteristiche del suolo, con le leggi della natura. Perché, in fin dei conti, come scriveva il biologo Barry Commoner, «Nature knows best», la natura sa le cose meglio di noi.
Sono 48 i beni per i quali l'Agenzia ha dato il via libera per il trasferimento. Vicenda da seguire con attenzione per capire chi sono destinatari dei regali. La Nuova Venezia, 27 marzo 2015
Per i molti cittadini che avevano votato Pisapia, attendendosi anche una svolta radicale rispetto al modello neoliberista e mercatistico...>>>
La prima disillusione è arrivata con la mancata discontinuità con il Piano urbanistico approvato dall’amministrazione di Letizia Moratti. Si è preferito approvare e adottare in tutta fretta un Piano di Governo del Territorio, e soprattutto un Piano delle Regole, del tutto simile a quello firmato Moratti/Masseroli, preferendo un processo decisionale per molti aspetti opaco e non partecipato, e una sostanziale conferma dello status quo nelle scelte di fondo. Ma anche la capacità di regia e negoziazione nelle decisioni in merito ai contenuti funzionali dei ‘grandi progetti urbani’ è stata debole: la finanza immobiliare ha continuato a dettar legge.
La seconda delusione l’ha suscitata la sostanziale inerzia, l’adattività del governo milanese rispetto alla sedicente macchina da guerra predisposta in ambito regionale per la realizzazione dell’effimera EXPO 2015. Totalmente abbandonato nella mani del governo lombardo e dei suoi affaristi, il progetto ha, come ben noto, dato luogo all’ennesimo intreccio di interessi illeciti e di atti corruttivi arginati soltanto dall’intervento della magistratura. E questi eventi hanno sicuramente gettato un’ombra, sia pure di riflesso, anche sull’immagine di Milano e del governo municipale.
E ancora, deludente e inspiegabile è stato il protratto silenzio dell’amministrazione milanese nella fase di dibattito relativa alla istituzione della Città Metropolitana: debole l’ascolto e l’interazione con i comuni della cintura; poche le idee su come rafforzare lo Statuto Metropolitano all’interno di una legge (la Delrio) banale e senza coraggio; e, soprattutto, nessuna iniziativa volta a sollecitare e scuotere il governo regionale da una apatia e un interesse manifestamente antimetropolitano.
Altra promessa mancata, su un tema specifico ma non meno rilevante: la realizzazione della Grande Moschea, ai primi posti nel programma elettorale del Sindaco in quanto doveroso esercizio di repubblicana non discriminazione religiosa in una città sempre più multietnica. La decisione, dilazionata fuori tempo massimo politicamente accettabile, è oggi ulteriormente indebolita e procrastinata da una legge lombarda che irride alla Costituzione.
A completare questo bilancio pieno di ombre (oltre che di alcune luci, ad esempio in materia di contenimento del traffico e di politiche sociali) è arrivato, proprio nella fase di avvio del nuovo ente di governo metropolitano, quando occorrerà grande capacità di visione strategica oltre che lungimirante innovazione amministrativa, il gran rifiuto a ricandidarsi.
Pisapia rinuncia di fatto alla opportunità di promuovere, finalmente, strategie e politiche più determinate e coerenti con il suo programma elettorale quando, con un secondo mandato che avrebbe consentito maggiori spazi di autonomia e di iniziativa, sarebbe stato più agevole farlo. Un secondo mandato che, con tutta probabilità, i cittadini gli avrebbero confermato, soprattutto per la fiducia nella persona più che nei risultati ottenuti fin qui.
I cittadini di Milano e della sua area metropolitana possono da oggi attendersi un anno di navigazione a vista con un Sindaco che si è auto-delegittimato e indebolito, mentre si addensano sulla metropoli i rischi di un flop di EXPO, malgrado i “camouflages” dell’ultima ora.
Ma anche se andasse tutto liscio, rimane la totale incertezza sul dopo EXPO. Le esperienze internazionali relative ai cosiddetti ‘grandi eventi’ ci insegnano che le (poche) storie di successo sono state quelle in cui era ben chiaro sin dall’inizio il progetto relativo al ‘che fare’ a festa terminata; in cui le aree sono state acquisite al pubblico pagandone un giusto prezzo (a valore agricolo, se tale era la loro destinazione precedente). Alcuni di noi avevano segnalato, ancor prima che la candidatura di Milano vincesse su quella di Smirne, che questi erano i problemi e le sfide cruciali. Le cose sono andate in altra direzione e a tutt’oggi rimane aleatorio il contenuto funzionale del progetto per il riuso del sito dell’evento: perché le aree di Cabassi e Fondazione Fiera sono state strapagate da Arexpo, grazie alla edificabilità comunque concessa a favore della proprietà dalla allora sindaca Moratti e perché i costi sono enormemente lievitati. In questa situazione di incertezza, nella quale gli enti pubblici vogliono a tutti i costi rientrare dallo scriteriato investimento e il rischio è l’ennesima cementificazione senza qualità (peraltro in una situazione di stallo del mercato edilizio), la voce di Pisapia avrebbe forse finalmente potuto esprimersi con maggiore coerenza e forza.
Chi sarà il nuovo Sindaco?
Forse (ma il ‘forse’ nel nostro paese è sempre una cautela realistica), una candidatura temibile del centrodestra - quella di Maurizio Lupi, del quale abbiamo sempre criticato l’ascesa sin dalla sua iniziale esperienza milanese - non sarà più sostenibile, dopo la gestione disinvolta del Ministero delle Infrastrutture. Ma, purtroppo, all’orizzonte si profilano molti lupacchiotti pronti a conquistare Milano e a distruggere ciò che di buono è stato realizzato dalla giunta arancione. C’è solo da sperare che la risposta della sinistra sia all’altezza.
Bye bye Pisapia, con grande disillusione e probabile futuro rimpianto da parte dei cittadini onesti.
Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni...>>>
Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.
La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante?
«La chiave per valutare un’infrastruttura deve essere il servizio che garantisce ai cittadini» Ma si tratta di capire quali servizi sono prioritari, se per poche persone avere un Milano-Roma ogni 15 minuti, o per centinaia di migliaia arrivare presto in fabbrica, ufficio o scuola. Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2015
Il ricambio al ministero delle Infrastrutture e l’auspicata riforma della legge obiettivo costituiscono un’occasione storica per avviare una riflessione - possibilmente celere e concreta - su quali siano le infrastrutture effettivamente utili al Paese e come si possano superare i gravi limiti nelle modalità di programmazione, progettazione e costruzione. Serve una pax infrastrutturale che passi per una democratizzazione sostanziale del percorso di realizzazione delle opere. Il primo ingrediente è una programmazione unitaria con strumenti e standard europei che tenga al proprio interno reti materiali e immateriali, opere grandi e piccole, finanziamenti nazionali e comunitari, opere nuove e investimenti tecnologici, con una capacità di selezione che non si è vista negli ultimi 15 anni. Riprendendo un vecchio slogan coniato da Paolo Costa bisogna realizzare «tutte le opere necessarie, solo quelle necessarie». Oltre all’introduzione di strumenti che all’estero sono consuetudine - studi di fattibilità, analisi dei fabbisogni, analisi costi-benefici - è il concetto stesso di utilità che va rifondato in Italia.
L’infrastruttura non è solo un’opera fisica, un appalto, un costo: è soprattutto un contenitore di servizi e il servizio che fornisce ai cittadini deve essere la chiave per valutarla, per decidere se sia utile o meno. Se a tutti fosse stato spiegato con chiarezza che l’Alta velocità si sarebbe tradotta in treni che ogni quarto d’ora raggiungono Milano da Roma in tre ore - e che questo avrebbe cambiato il sistema dei trasporti italiano in favore di una modalità ambientalmente sostenibile e la geografia delle principali città - forse il dibattito pubblico sarebbe stato meno ideologico e più trasparente. Tanto più questo vale se si vogliono attrarre capitali privati che hanno bisogno di piani economico-finanziari aderenti alla realtà per poter intervenire. Bisogna archiviare la stagione di piani di traffico gonfiati per realizzare opere che poi chiedono interventi pubblici correttivi ex post per far quadrare i conti. I rischi devono essere ben definiti e devono restare accollati a chi li ha assunti, senza sconti. Un tentativo di collegare opere e servizi (con relativo impatto economico e sociale sul territorio) è stato fatto da Fabrizio Barca nell’impostazione della nuova programmazione dei fondi strutturali Ue 2014-2020.
Un tema che dovrebbe rientrare in questa riflessione è quello di un piano di investimenti “leggeri” e tecnologici che consentano uno sfruttamento più intenso delle infrastrutture pesanti esistenti. È una filosofia fondamentale dove ci sono vaste reti infrastrutturali, come per esempio nelle ferrovie. Il caposcuola di questa filosofia è stato Mauro Moretti, ai tempi in cui era amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi). Oggi questo approccio “leggero” prevale (ma non è coerente fino in fondo) anche nel contratto di programma Fs che contiene un robusto piano tecnologico e consente, con tecnologie di circolazione all’avanguardia in Europa, di aumentare la capacità di una linea ferroviaria (in termini di numeri di treni che ci possano viaggiare sopra in determinato lasso di tempo) con raddoppi infrastrutturali molto limitati (e non integrali). Il costo può essere ridotto a un quinto o a un decimo rispetto a quello dell’intervento infrastrutturale “pieno”, garantendo comunque un risultato in termini di cadenza e tempi di percorrenza sostanzialmente uguali. È necessario che il passeggero sia l’unico destinatario di un piano infrastrutturale.
La democratizzazione del processo infrastrutturale passa per l’abbattimento del muro che oggi separa le infrastrutture dai cittadini. Una riprogrammazione delle opere pubbliche in termini di servizi ai cittadini è il primo passo decisivo in questa direzione. Il secondo è l’introduzione anche in Italia di un procedimento, sul tipo del débat public francese, che consenta una discussione reale con i cittadini sul territorio, liberando l’opera da giochi e giochetti che non di rado vede protagonisti la stazione appaltante e gli amministratori locali, per interessi che spesso non sono generali. Il terzo passaggio è il ritorno a una progettazione che riprenda a parlare con il territorio e che sia frutto di un processo reale di competizione fra progetti alternativi: lo strumento c’è, è il concorso di progettazione che, soprattutto in ambito urbano, può aiutare a trovare le soluzioni giuste e favorire la partecipazione. Bisogna solo superare la diffidenza di molti sindaci. Il quarto pilastro di questa nuova era è l’utilizzo dei sistemi di monitoraggio civico e di open coesione per rendere del tutto trasparente il piano economico, il progetto e gli stati di avanzamento del cantiere, con i suoi costi e le sue eventuali varianti, senza trascurare, ancora una volta, gli impatti in termini di servizi.
«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia...>>>
«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia e fortunato proprietario di Poveglia, l’isola della laguna che si è aggiudicato nel 2014 per 513 mila euro, annunciando la sua candidatura a sindaco per il centrodestra. Non ha spiegato cosa intende fare se il Mose non funziona - forse dà per scontato che se lo terranno in carico i cittadini contribuenti - ma, a riprova del suo impegno per la rinascita della città, ha aggiunto che vuole una fermata della TAV a Mestre e che «non cederemo» le grandi navi a Trieste. Infine, con perfetto piglio renziano, ha concluso l’elegante comizio rammentando al pubblico che «è ora di mostrare gli attributi».
Brugnaro è uno degli imprenditori/mecenati di riferimento dell’ex sindaco Cacciari, durante la cui amministrazione ha fatto molti “regali” alla città. Nel 2005 ha acquistato dal demanio i Pili, 40 ettari a Marghera, in posizione strategica di fianco al ponte della Libertà, per 5 milioni di euro. In quell’occasione, il comune ha rinunciato al diritto di prelazione sull’area, che il piano regolatore destinava a verde pubblico urbano, parcheggi e attrezzature ad uso collettivo, sostenendo di non avere le risorse per bonificare i terreni. In realtà, neanche Brugnaro intendeva usare soldi suoi, e nelle molte tavole rotonde sulla cosiddetta Green Economy, organizzate dalla Fondazione Pellicani (presieduta dal candidato alle primarie del PD sponsorizzato dallo stesso Brugnaro e da Cacciari) ha sollecitato l’intervento del comune, della regione e del governo per «rivedere il protocollo per le bonifiche» e ridurre gli oneri per i privati.
L’area non è stata ancora bonificata e dati certi sul suo inquinamento non sono disponibili. Secondo le inchieste svolte da Felice Casson, quando era magistrato a Venezia, nel sito dei Pili erano sono stati scaricati «300.000 metri cubi di gessi e fanghi industriali speciali e tossico nocivi».
A chi gli ha chiesto come intenda affrontare il suo palese conflitto d’interessi, Brugnaro ha spiegato che, se eletto sindaco, «non farà niente sulle sue aree»! E ha aggiunto di non avere conflitti d’interesse nemmeno a Venezia insulare dove, nel 2009, il comune ha concesso la gestione per 42 anni e due mesi, in cambio del restauro (esclusi i preliminari interventi di risanamento conservativo già effettuati dal comune), la Scuola Grande della Misericordia ad una società di cui il candidato sindaco possiede l’80% delle quote.
Con procedura “inusuale”, il comune ha inserito nella convenzione del 2009 il proprio impegno a sottoscrivere la fidejussione per l’accensione del mutuo necessario a finanziare i lavori. Per cinque anni, però, la società non ha neppure avviato i lavori, preferendo affittare per eventi il prestigioso complesso del Sansovino. Si tratta di un edificio alto 24 metri, il più alto nel sestiere di Cannaregio, con due grandi sale di 1000 metri quadrati, una dimensione inferiore solo a quella della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, molto appetibili per le cerimonie dei ricchi. Così, oltre ad ospitare alcuni eventi collaterali della Biennale, ha fatto da cornice al matrimonio di Zoppas, presidente della Confindustria del Veneto, a quello della figlia di un magnate indiano del ferro, alle feste della famiglia Asscher (import/export di diamanti). In queste occasioni, che hanno spesso comportato l’occupazione abusiva dei circostanti spazi pubblici, il comune ha concesso deroghe ai limiti dei rumori e degli orari. Non ha, invece, reclamato il pagamento da parte della società privata di penali e sanzioni per il ritardo nei lavori .
Nel 2013, durante l’amministrazione del sindaco Orsoni, alcuni consiglieri del M5S hanno inutilmente cercato di eliminare la fidejussione di 1 milione di euro dagli obblighi del comune e di ridiscutere l’intera convenzione contestando la natura “culturale” dell’utilizzo effettivo da parte di Brugnaro e soci (uno dei criteri per l’assegnazione della concessione era stata la qualità del progetto culturale, che valeva il 25% del punteggio complessivo) ma l’assessore Maggioni e il vicesindaco Sandro Simionato hanno fatto approvare il documento perché «arriva dalla passata amministrazione e il comune deve onorare gli impegni».
Nel 2014 sono finalmente iniziati i lavori. Ora si parla di un “moderno centro polifunzionale a servizio della città”, di uno “spazio pubblico a forte vocazione culturale, dove si alterneranno attività museali, mostre temporanee, sfilate di moda, degustazioni enogastronomiche, eventi fieristici o sportivi”, di “un contenitore flessibile dove esporre le eccellenze venete, dalle scarpe di Vicenza al vetro di Murano, per incrociare l’Expo”.
In città si dice che a suo tempo Brugnaro ha votato Cacciari ed ora Cacciari voterà per lui, riuscendo ancora una volta a far fuori Casson. Purtroppo non si tratta solo di odio personale, la posta in gioco è il mantenimento del sistema di potere messo in piedi venticinque anni fa con la prima elezione di Cacciari di cui ogni giorno emergono i costi e i danni per i cittadini. Stupisce, si fa per dire, che il commissario che lotta contro il deficit di bilancio non chieda un contributo di solidarietà anche ai mecenati e ai loro protettori. Preferisce tagliare servizi, aumentare tasse e svendere il patrimonio pubblico. Prima di andarsene, potrebbe almeno provare a vendere il Calatrava ai cinesi, ammesso che siano disposti a farsi imbrogliare.
Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio...>>>
Non dimentichiamo che la bellezza, sebbene non sia sufficiente a rendere la città adeguata ai bisogni dei suoi abitanti, è certamente un requisito necessario. Soprattutto i suoi spazi pubblici. Ecco una proposta per una piazza di Milano. La Repubblica, Milano, 16 marzo 2015
Molte piazze italiane di grande bellezza sono state ottenute «per forza di levare». Piazza della Scala è un caso esemplare. Figlia del progetto mengoniano della Galleria, di cui è la splendida conclusione a nord, è stata ricavata da demolizioni che hanno messo a diretto contatto Palazzo Marino (Galeazzo Alessi, 1553-58) e il Teatro della Scala (Giuseppe Piermarini, 1776-78). Alla sua configurazione ha dato un contributo importante Luca Beltrami a cui si deve, in successione, il restauro di Palazzo Marino, l’edificio della Banca Commerciale a nord e, infine, sul fronte meridionale, Palazzo Beltrami, oggi sede della Ragioneria comunale. Misura e dialogo civile tra gli edifici fanno l’ospitalità e la qualità architettonica del luogo. Un risultato a cui concorrono le aperture prospettiche di via Manzoni e via Verdi e la convocazione, a est, dello splendido fianco di San Fedele (Pellegrino Tibaldi, 1569-79). Ma non meno prezioso per l’equilibrio dell’insieme è il monumento a Leonardo da Vinci (Pietro Magni, 1872, originariamente destinato a piazza S. Fedele) che, con la sua presenza discreta, decentrata dal baricentro geometrico, e gli otto tigli che lo circondano, favorisce l’interazione fra gli organismi.
Il recente insediamento delle Gallerie d’Italia e del Cantiere del ‘900 nella vecchia sede riadattata della Banca Commerciale e nei connessi palazzi sette-ottocenteschi Anguissola e Brentani ha dato vita a un polo espositivo subito assurto a stella di prima grandezza nel sistema museale di Milano. Ne beneficia la piazza che vede accresciuta la vitalità culturale e i suoi valori civili.
Piazza della Scala è suscettibile di miglioramenti? Certamente (anche se, in una graduatoria degli spazi aperti pubblici a Milano bisognosi di interventi, questo sarebbe in fondo alla lista). Si vuole che il Teatro della Scala e le Gallerie d’Italia siano più integrati all’invaso della Piazza? Si può fare, ma senza mettere in discussione ciò che è già configurato in modo soddisfacente. Mi riferisco alla sistemazione operata da Paolo Portoghesi (1989-2000) che ha saggiamente reinterpretato l’impianto ottocentesco, ponendo fine alla triste vicenda che fino agli anni sessanta aveva ridotto la piazza a un orribile deposito di autoveicoli. Basterebbe eliminare l’assurdo parcheggio residuo a fianco della Scala e ridurre al minimo indispensabile il transito veicolare per via Case rotte e piazza Mattioli, proseguendo sul lato settentrionale, nei materiali e nelle cromie, il lavoro di Portoghesi, che sarebbe insensato disfare.
Un’attenzione particolare andrebbe riservata a piazza Mattioli, ridotta in condizioni penose anche grazie a BikeMi, il servizio pubblico di biciclette in condivisione del Comune che qui ha recentemente addossato una delle sue infilate di bici al nobile fianco di S. Fedele, come si trattasse di un retro. In questo spazio, a completamento dell’opera di Beltrami, Piero Portaluppi ha prodotto uno dei suoi lavori migliori dialogando con le preesistenze. Si tratta di rinsaldare quell’interlocuzione e farla lievitare. In altri termini è qui che si dovrebbe concentrare l’attenzione dei partecipanti al concorso d’idee promosso da IntesaSanPaolo e dal Comune di Milano: in questa sfida di fondare un luogo che della piazza ha ora solo il nome, facendone la prosecuzione della piazza maggiore. Raffaele Mattioli se lo merita.
Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori...>>>
E' fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra “ di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore (Il preside dell'Istituto Tecnico Avogadro di Torino in Corriere della sera, 14 marzo). Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po' di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . E' evidente che l'idea del preside che chiama all'insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono: la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.
L'idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l'ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all'imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni. Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L'evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare.
Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l'efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché essa mette di fronte a due strade diverse che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all'altezza delle sfide che ci si parano innanzi.
Ma oltre a quello civile e storico-politico c'è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la s cuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E' un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere. Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo.Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l' ignoranza dei più, oltre che per l'interesse egoistico dei pochi. L'attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l'aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”. Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» ( C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l'idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.
L'articolo è stato inviato contestualmente al manifesto
Caro Governatore,sono anni che le scriviamo e la mettiamo a conoscenza della devastazione delle cave, dell’inquinamento delle sorgenti, dell’impoverimento della biodiversità. Decine e decine di foto allegate alle nostre lettere a comprova del disastro ambientale che nessuno può negare. Decine di concessioni, peraltro autorizzate dal Parco, in cui i reati ambientali commessi dai concessionari vengono derubricati a reati “permissibili”: una vera contraddizione in termini.
I tagli e le ferite sono visibili, sempre, a tutti. L’inquinamento delle acque, periodicamente bianche per la marmettola, è stato anche riconosciuto dagli organi competenti, se per i fiumi Carrione, Frigido e Versilia è stata chiesta e ottenuta una proroga al 2021(!!!) “per conseguire il buono stato dei corpi idrici”, evitando in questo modo sanzioni dall’Europa.Aspettiamo nei prossimi giorni di vedere approvato in aula il frutto della scelta di alcuni “trasgressivi” (per usare un eufemismo), i quali, nonostante teoriche casacche politiche di destra e di sinistra, si uniformano a votare profonde modifiche ad un piano già approvato il 7 luglio. Se ci sarà il rispetto della normativa questo piano dovrà nuovamente essere aperto alle osservazioni di rito, perché è completamente snaturato rispetto alla versione passata in aula.
Quello che voglio portare alla sua attenzione, come cittadina, e che spiega il termine edulcorato di trasgressivi, è che le modifiche introdotte da costoro violano le leggi dello Stato: a partire dal Codice dei Beni Culturali, e a seguire le ricordo il principio di precauzione, le leggi sulla tutela dei siti Rete Natura 2000 (per le quali già l’Europa ha aperto un eu-pilot nei confronti della Regione), le leggi sulla tutela delle acque superficiali e carsiche (la nostra riserva del futuro) e per le quali si è stati costretti a chiedere deroghe fino al 2021.È una semplificazione alla Renzi questa che vediamo messa in atto, oppure è la vistosa e macroscopica messa in mora della democrazia?
Si è chiesto perché i concessionari fanno la voce grossa?Difendono pochi posti di lavoro o i loro smisurati guadagni (al nero) favoriti dall’inerzia dei governi regionali e dalla passività e dalla collusione delle amministrazioni locali?
In questi ultimi due anni la tassa che il Comune di Massa richiede ai concessionari di cave per ogni tonnellata di marmo in blocchi è raddoppiata: oggi siamo a 9,90 euro a tonnellata per marmo che ha un prezzo medio di mercato tra i 200 euro e 4.000 euro a tonnellata. Anche un bambino sarebbe in grado di capire che si consente a poche persone di guadagnare cifre mostruose. D’altra parte i Bin Laden hanno pagato alcune concessioni di Carrara 46 milioni di euro, euro intascati da quattro-cinque famiglie.< /br>< /br>Non crede che la devastazione sia frutto di un folle regolamento varato dalla Regione che consente per ogni tonnellata di marmo estratto che il 20% (25% nel Parco) sia marmo in blocchi e l’80% detrito?
Ci contestano la frase ad effetto che il marmo delle Apuane vada nei dentifrici, ma è evidente che gli amministratori regionali, oggi incuranti delle leggi, hanno volutamente consentito la devastazione a favore dei pochi che fanno carbonato di calcio. C’è addirittura una ferrovia dedicata che da Pieve San Lorenzo va allo stabilimento Kerakoll di Sassuolo e si consentono 100 passaggi di camion al giorno a Orto di Donna, in Val Serenaia (cioè nel Parco delle Apuane!) per alimentare il frantoio di Betolleto.
E’ troppo chiederle di modificare quel rapporto 20/80 che aveva senso in una società “preindustriale”, quando il marmo veniva cavato con le mine?
E’ troppo chiederle di ricondurre alla ragione quei selvaggi trasgressivi che calpestano i diritti dei cittadini per il guadagno di pochi?
E’ troppo chiederle come cittadina una tutela ambientale resa possibile semplicemente dal rispetto delle leggi?
L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra< /i>
Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare...>>>
Il terremoto fece sollevare l’acqua marina in una onda alta 15 metri (tsunami, le chiamano) che ha invaso la terra ed è penetrata nella centrale nucleare della cittadina. L’acqua di mare ha allagato e interrotto il funzionamento delle pompe di circolazione dell’acqua di raffreddamento dei tre reattori in funzione; immediatamente sono intervenute le barre che fermano il flusso dei neutroni e la fissione nucleare. Per la mancanza di acqua i reattori però hanno continuato a scaldarsi per il calore liberato dal decadimento spontaneo delle diecine di tonnellate di materiali radioattivi, uranio, plutonio e prodotti di fissione, contenuti nel loro nocciolo che è fuso. Il calore ha provocato la formazione di idrogeno che è esploso distruggendo le strutture di acciaio e cemento contenenti i tre reattori con dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive.
I soccorritori si sono trovati davanti a rottami, aria, terreno e acque contaminati; ci sono stati episodi di coraggio e di sacrificio di operai e tecnici che si sono esposti ad alta radioattività per riattivare la circolazione dell’acqua dell’oceano in modo da disperdere almeno una parte delle sostanze radioattive nel grande mare, evitando conseguenze che avrebbero colpito un gran numero di abitanti dell’intero Giappone.
La fusione del nocciolo dei reattori è il grande pericolo temuto dai costruttori di impianti nucleari, un evento, considerato quasi impossibile e che invece si è verificato tre volte in 15.000 anni-reattore, il numero di anni di funzionamento per il numero dei reattori funzionanti, oggi circa 450. Infatti è successo nel 1979 in un reattore americano, senza contaminazione radioattiva esterna (la radioattività era stata trattenuta all’interno del reattore); poi è successo ancora nel 1986 nel reattore a Chernobyl in Ucraina, con incendio e liberazione di radioattività nell’aria; tale radioattività si era sparsa su parte dell’Europa (era arrivata anche nell’Italia settentrionale). In seguito a questo incidente, peraltro previsto dai movimenti antinucleari, in Italia si tenne nel 1987 un referendum che, a larga maggioranza, impose la cessazione delle attività nucleari in Italia.
Dopo Chernobyl è rallentata la costruzione di nuove centrali in tutto il mondo, ma la potente industria nucleare ha lentamente ripreso fiato; di due centrali, dichiarate ultrasicure, progettate in Francia è stata iniziata la costruzione in Finlandia e in Francia. La cosa sembrava così allettante che nel maggio 2008 il IV governo Berlusconi, appena insediato, annunciò di voler costruire anche in Italia centrali nucleari di “nuova generazione" capaci di "produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente". Ci furono accordi fra le società elettriche Enel italiana e Electricité de France, francese, e poi leggi e decreti che avrebbero dovuto regolare le localizzazioni delle future centrali e garantire la sicurezza attraverso nuove agenzie.
Nel 2010 il movimento antinucleare depositò una richiesta di referendum per l’abrogazione di tali leggi; contro il referendum, fissato per il giugno 2011, nel gennaio-febbraio dello stesso anno ci fu una forte propaganda filonucleare; nel marzo la catastrofe di Fukushima dimostrò ancora una volta la fragilità della tecnologia nucleare. L'alta partecipazione al referendum del successivo giugno e la grande maggioranza antinucleare fecero tramontare del tutto, di nuovo, il sogno del nucleare italiano. Per fortuna, perché oggi i famosi reattori francesi ultrasicuri sono ancora da completare e non si sa quando entreranno in funzione.
Comunque le industrie nucleari non mollano, sostenendo che solo il nucleare può far diminuire i pericoli dei mutamenti climatici dovuti al crescente uso di carbone e petrolio e può far fronte ad un aumento del prezzo del petrolio; l’agenzia internazionale per l’energia ha di recente previsto che possa essere necessaria, da oggi al 2050, la costruzione nel mondo di altre 400 centrali nucleari: una previsione assurda sul piano della disponibilità delle risorse naturali, della sicurezza dell’ambiente e ancora più sul piano economico, soprattutto davanti al trionfale cammino delle fonti energetiche rinnovabili.
Queste brevi considerazioni si propongono di dimostrare quanta cautela occorra nelle scelte dei governi in materia di energia e di materie prime; molte tecnologie, dietro promesse meravigliose, nascondono spesso delle trappole da cui poi è difficile uscire. E’ il caso delle fonti di energia fossili, le cui riserve non sono illimitate e il cui crescente uso provoca inquinamento locale e contribuisce ad aggravare i mutamenti climatici a livello planetario. E’ il caso dell’energia nucleare che, anche quando non serve più, lascia delle scorie radioattive di cui è difficile liberarsi per secoli; lo dimostra il dibattito appena cominciato in Italia sul deposito delle diecine di migliaia di tonnellate delle scorie radioattive presenti nel nostro paese. Da qui l’importanza, a livello parlamentare, di un controllo tecnico-scientifico delle prevedibili conseguenze ambientali e sociali di scelte che, a prima vista, sembrano tanto promettenti.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è Piazza San Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianeta sono ... >>>
Nel marzo 2014, le Generali avevano occupato la piazza con una installazione, un grande paio di occhiali che “sono la metafora dell'invito a guardare il presente e il futuro con ottimismo, perché vedere la vita con positività è il primo passo per migliorarla". Un anno dopo, possono rallegrarsi di aver visto bene.
2. Mongolfiera Vuitton a San Marco senza permessi: tre indagati
L’articolo si riferisce a un episodio del giugno 2013. quando una mongolfiera è atterrata in piazza per girare uno spot pubblicitario della ditta Vuitton. Ora è emerso che nessuno aveva i permessi necessari (sopra Venezia non si può volare, se non con specifiche autorizzazioni). Il magistrato ha emesso tre decreti penali per un importo di 500 euro ciascuno (meno del prezzo di una borsa Vuitton!). Secondo il giornalista del Corriere, sul piano giudiziario è “una vicenda di non grande conto.
Ora spetterà ai tre indagati decidere se fare ricorso o pagare la piccola multa”… ma è più seria sul piano mediatico, perché vede “uno dei marchi di punta della moda mondiale, tirato in ballo per un banale permesso mancante all’atterraggio in uno dei salotti più belli del mondo”.
3. Piazza San Marco a pagamento e con prenotazione
La proposta è stata recepita con interesse dai candidati sindaci che, senza soffermarsi sui dettagli tecnico-giuridici – ci saranno recinzioni, tornelli, vigilantes? – probabilmente pensano che se la piazza è “ormai è un’area museale”, una volta eletti, la potranno privatizzare, portando a compimento il processo di cessione delle cosiddette risorse culturali che negli ultimi mesi, durante la gestione commissariale, ha avuto una straordinaria accelerazione, inclusa la stipula di una convenzione tra i musei civici di Venezia e la Fondazione del Sole 24 Ore. La fondazione, pagando 80 mila euro per 4 anni (circa 600 euro al giorno), gestirà le mostre d’arte, tenendosi tutti gli incassi, e potrà anche organizzare travelling exhibitions, cioè portare in giro i quadri dei musei veneziani. Al comune, cioè ai cittadini contribuenti, restano le spese di guardiania e manutenzione delle sedi.
Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti...>>>
La crisi comincia nel 2008. Dunque dal 2001 per cinque anni l’opposizione del centro sinistra ha taciuto, come se nel suo insieme approvasse le conseguenze laceranti verso un territorio già ridotto a brandelli. La voce, benché flebile, del Comitato per la bellezza lo certifica: quel tipo di finanziamento è un duro colpo alla “speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano”. La conquista del governo da parte del centrosinistra suscita in noi, come nel romanzo di Dickens, “Grandi speranze”. Ma non conoscevamo a fondo la vocazione totalmente centrista se non destrorsa dei partiti che lo costituivano. I governi “nostri” (per modo di dire), invece di cancellare la “porcata” bassaniniana, non solo la confermano ma con la legge finanziaria del 2007 la protraggono di tre anni. Nel seguito, dal 2010, nessun politico accenna al problema; se lo facesse “perderebbe il posto”. Infatti la crisi si spande anche sul settore edilizio riducendone l’occupazione, mentre i Comuni, intendo quelli bene amministrati, si arrabattano fra la diminuzione delle risorse finanziarie a meno di aumentare le tasse già alte e la contrarietà a ridurre le prestazioni dei servizi sociali o a lasciarle in mano ai privati, si sa inaccessibili alle famiglie più bisognose.
Eppure non bisogna arretrare dalla posizione contro l’impiego perverso degli oneri. E, insieme, dire chiaro che la diminuzione delle opere edilizie di ogni genere in un paese distrutto dal costruire costruire costruire, come una rapallizzazione globale, sarebbe il principio da rivendicare e poi da applicare (non c’entra qui la ”decrescita felice”). Gli edifici giunti a tale insensata numerosità, dappertutto, da lasciarsi alle spalle enormi scie di costruzioni vuote, si pensi ai famigerati capannoni, agli uffici nelle grandi e medie città, alle seconde terze quarte case (intanto continuavano a mancare le case popolari pubbliche); le infrastrutture di trasporto tanto più inutili quanto più tronfie, si pensi fra una miriade di casi alla mai abbastanza vituperata, per eccesso di assurdità, TAV Torino Lione, o alla nuova autostrada Bre-Be-Mi, ottima per veloci corse coi pattini a rotelle, tanto è sicura stante l’assenza di traffico motoristico (intanto era trascurato e tagliato il fitto e indispensabile tessuto minore, specialmente quello ferroviario, una volta vanto della nazione): tutto questo è materia del nostro tormento per aver perso tante battaglie urbanistiche pur aspramente combattute, è materia inoltre della vergogna di troppi, istituzioni partiti e persone, per poterli elencare qui e riassumerne forse per l’ultima volta le malefatte.
Ricordo la crisi edilizia del 1965. La congiuntura, estesa a tutto il territorio nazionale, fu quella di un settore industrialmente arretrato in cui per due decenni avevano imperversato gli speculatori sulle aree fabbricabili e no, le nuove immobiliari, gli imprenditori di ogni genere, le imprese di costruzioni: tutte aziende e personaggi che avevano fatto guadagni colossali in regime di bassi salari e sfruttamento di immigrati, sottraendo capitali agli investimenti produttivi. Tuttavia, temendo che la pacchia finisse, si lamentavano cercando di incolpare una legge urbanistica che non c’era, ferma al progetto Mancini, il quarto dopo i tentativi di Zaccagnini, Sullo e Pieraccini, peraltro dimenticato da mesi nei recessi del ministero. La verità era che si era costruito troppo, malamente, brutalmente, secondo l’obbiettivo di moltiplicare e intrecciare rendita e profitto il più rapidamente possibile.
Oggi, la crisi generale sembra comprendere inevitabilmente un settore che invece, anche senza questa situazione, doveva flettere perché, come ancora Berdini ci ricorda, “abbiamo costruito troppo”, “abbiamo il doppio dell’urbanizzato” rispetto ai paesi europei a settentrione. Insomma, indipendentemente dall’indecente, benché talvolta forzoso impiego improprio degli introiti da concessioni di costruire, da tempo sindaci e giunte approfittano dei loro enormi poteri decisionali e della generale debolezza del Consigli (conseguenza della radicale riforma voluta da destra e sinistra poco meno di vent’anni fa), poi degli ulteriori poteri trasferiti dalle Regioni ai Comuni in tema di paesaggio, per dispensare concessioni edilizie che distribuiscono ingiuste ma apprezzate, da essi stessi, extra-rendite. Ad ogni modo troppi sindaci hanno mostrato una tale propensione a edificare indistitamente il territorio che certe lacrime per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio sono sospette. Un’infinità di episodi denunciati anche in Eddyburg hanno rivelato il loro fastidio verso gli strumenti costituzionali o consuetudinari o culturali atti a difendere il territorio (il paesaggio) dagli immancabili aggressori: a curarlo, a conservarlo per le generazioni future.
Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?
Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.
Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa ...>>>
Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della contraccezione. Forse avendo ancora davanti agli occhi la situazione demografica dei paesi appena visitati, il Papa ha risposto: «Io credo che il numero di tre [bambini] per famiglia, che lei menziona, secondo quello che dicono i tecnici, è importante per mantenere la popolazione. Tre per coppia…. Per questo la parola-chiave per rispondere è quella che usa la Chiesa sempre, anch’io: è ‘paternità responsabile’... Alcuni credono che – scusatemi la parola – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli. No. Paternità responsabile».
Questo breve scambio di parole ha avuto varie reazioni nel mondo cattolico. Alcune persone hanno rivendicato la gioia e virtù delle famiglie numerose; altre hanno ribadito il divieto dell’uso di tecniche di contraccezione, al di fuori dell’astinenza dei coniugi dai rapporti sessuali nei periodi di fertilità femminile. Il concetto di “paternità responsabile” risale all’enciclica Humanae vitae emanata dal Papa Paolo VI nel 1968, nel pieno di un vasto dibattito internazionale su uno degli aspetti centrali dell’ecologia: il ruolo della crescita della popolazione sull’impoverimento delle risorse naturali e sul degrado ambientale.
Il problema è stato trattato per la prima volta in un famoso libretto, Saggio sulla popolazione, pubblicato anonimo da Thomas Malthus (1766-1834) nel 1798. Davanti alla constatazione che la popolazione povera che stava affollando le città industriali inglesi aumentava più rapidamente di quanto aumentasse la produzione di alimenti, Malthus contestò l’assegnazione di piccoli contributi alle famiglie povere, sostenendo che non era giusto spendere soldi pubblici per aiutare persone che mettevano al mondo figli senza essere in grado di assicurargli almeno il cibo.
Il dibattito sui rapporti fra popolazione e “cibo” continuò per tutto l’Ottocento e poi nel Novecento. Alcune comunità cristiane erano più disponibile ad un controllo dell’aumento della popolazione mentre la parte cattolica era più intransigente nella interpretazione letterale del ventottesimo versetto del primo capitolo della Genesi, in cui Dio ordina all’uomo e alla donna: ”Crescete e moltiplicatevi”. Un imperativo che era comprensibile per il popolo ebraico, poco numeroso in un paese abitato da numerosi nemici, ma che pone problemi economici e anche pratici davanti allo spettro della scarsità di alimenti, di spazi coltivabili, di minerali e fonti di energia, il “cibo” di una società moderna, richiesti da una crescente popolazione mondiale.
Il problema si fece ancora più acuto dopo la seconda guerra mondiale; un mondo (di 2,3 miliardi di persone nel 1945), stremato dalla guerra affidava ai figli il proprio futuro. Il “pericolo” di un aumento della popolazione, soprattutto dei poveri e dei paesi sottosviluppati, fu denunciato dall’ecologo William Vogt (1902-1968) nel libro La via per la sopravvivenza del 1948 e, nello stesso anno, dal libro Il pianeta sovraffollato del biologo Henry Fairfield Osborn Jr. (1887-1969). Nel 1954 fu annunciata la scoperta della “pillola”, messa in commercio nel 1960, che consentiva rapporti sessuali senza il concepimento di figli ad offriva un facile ed economico mezzo per quella limitazione delle nascite auspicata nei libri, entrambi del 1966, di Paddock: Fame ! 1975, e di Paul Ehrlich: La bomba della popolazione.
L’economista cattolico britannico Colin Clark (1905-1989) reagì stizzosamente a questa ondata di neomalthusianesimo americano sostenendo, in un saggio del 1967, la (peraltro improbabile) tesi che la Terra potrebbe sfamare diecine di miliardi, anche una quarantina, di abitanti. In questa atmosfera (la popolazione mondiale era già arrivata a 3,5 miliardi di persone) fu emanata l’enciclica Humanae vitae che, nel paragrafo 10 precisa: «La paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».
I doveri verso la famiglia comprendono evidentemente quello di decidere il numero dei figli in modo da assicurargli delle condizioni decorose di vita, di istruzione, di salute, tutte cose che inevitabilmente comportano l’accesso a sufficienti alimenti, ad acqua pulita e ad abitazioni igieniche. A loro volta questi “beni” richiedono prodotti agricoli, cemento, ferro, energia, ottenibili impoverendo le ricchezze della natura e generando alterazioni del territorio e inquinamenti. E’ un dovere “verso la società” regolare la procreazione (e i consumi individuali) in modo da assicurare al “prossimo”, agli abitanti del pianeta, che oggi sono ormai più di 7 miliardi, condizioni dignitose di vita e di salute e limitati danni ambientali.
D’altra parte la limitazione delle nascite provoca un aumento, in proporzione, degli anziani, la parte più fragile della popolazione verso cui sorgono altri doveri. E neanche una società stazionaria, in cui siano più o meno uguali la natalità e la mortalità, proposta da alcuni, può durare a lungo essendo destinata al declino, con sollievo, forse, dell’ecologia, ma con quale destino per la nostra specie ? Un bel problema, per la politica di oggi e per le generazioni future, a cui sarà il caso di cominciare a pensare.
rcipelago Milano dell'economista dei trasporti Marco Ponti. Dal facebook dell'urbanista Sergio Brenna. 17 febbraio 2014, con postilla
Marco Ponti nel suo intervento sul n. 7 di Arcipelago Milano "pontifica" sull'eliminazione dei vincoli all'uso edificatorio dei suoli come l'eliminazione dei vincoli al "libero" mercato delle abitazioni. Il passo successivo è, ovviamente, che su quei suoli ogni proprietario/imprenditore sia libero di costruire con le destinazioni, quantità e altezze più confacenti alle proprie "libere" aspettative di mercato. In Italia i risultati li abbiamo visti in atto nelle città realizzatesi negli Anni Cinquanta-Sessanta tra la ripresa economica post-bellica e la la "legge Ponte" 765/68, e ancora ne soffriamo le conseguenze.
Certo anche l'idea del tendenziale azzeramento del consumo di nuovo suolo, altrettanto ideologica e in voga quanto il neoliberismo economico-urbanistico, rischia spesso di rovesciarsi nella promozione di spropositate densificazioni edificatorie nel riuso di aree già urbanizzate.
Giuseppe de Finetti nel 1946, riflettendo sul tema "Sulle aree più care case alte o case basse?", scriveva: "La manìa delle grandi altezze rientra nella manìa del "Kolossal" così caratteristica negli sviluppi moderni, nella megalomanìa moderna. Non la grande altezza dobbiamo desiderare nel caso di costruzioni sulle aree urbane più care, ma "la giusta altezza"; e questa va deterrminata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.(...) La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte nuove iniziative edilizie che per essere di mole assai minore (dell'Empire State Building) non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irreparabile insulto al volto delle nostre città."
La "giusta altezza", dunque, ma anche "la giusta quantità edificatoria" e "la giusta localizzazione": e a chi spetterebbe stabilirle? Non certo al singolo proprietario/imprenditore, che perseguendo legittimamente il proprio lucro di mercato, si è dimostrato non in grado di stabilirne i limiti. Già la Legge Urbanistica del 1942 e poi il disegno di legge Sullo del 1963 proponevano questa soluzione: approvazione pubblica di un Piano Generale di urbanizzazione, facoltà dei privati di darvi attuazione singola o consorziata e, in caso di inerzia, esproprio a prezzi agricoli, urbanizzazione pubblica, riassegnazione a privati dei lotti edificabili al costo conseguente. Difficoltà belliche, sforzi ricostruttivi, opposizioni politico-ideologiche le fecero fallire entrambe, e forse non è opportuno oggi riproporle tal quali. Ma almeno la nostalgia del "glorioso" liberismo urbanistico Anni 50-60, quello vorrei proprio potermelo risparmiare e se proprio devo sposare una visione economica, vorrei poter essere almeno keynesiano!
postilla
Non è facile comprendere se in Marco Ponti, nel suo articolo per Arcipelago Milano, abbia preso la mano il gusto del paradosso, oppure se sia davvero convinto di quello che ha scritto. Se si dovesse escludere la prima ipotesi, allora bisognerebbe ritenere che Ponti ha una visione veramente distorta della città, e una visione molto neoliberista dell'economia. Intanto, sembra pensare che la città, l'habitat dell'uomo, sia composto soltanto di case (e naturalmente di strade, ferrovie, tram, metropolitane e le altre simili cose di cui è maestro. Il che è palesemente una follia, e non è ai frequentatori di eddyburg che si debba argomentarlo. Che poi il suo pensiero economico si sia ridotto a Milton Friedman e ai Chicago boys, dimenticando non solo il filone Adam Smith-David Ricardo-Karl Marx, ma perfino quello dei liberisti alla Luigi Einaudi è cosa che può dispiacere, ma è nello Zeitgeist. Speriamo che, su un altro terreno, non invochi per l'Italia, scavalcando o anticipando Renzi, un altro Pinochet.
La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) ...>>>
Per “nutrire il pianeta” occorrono trattori e concimi, processi per trasformare i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia attraverso innumerevoli operazioni di conservazione e di modificazione fisica e chimica (si pensi alla trasformazione del latte in burro e formaggio, dei chicchi di grano in pasta e pane, delle carcasse degli animali in carne in scatola, dei pomodori in conserve, eccetera). E occorre acqua ricavata dalle sorgenti o distribuita dagli acquedotti, e energia, la merce per eccellenza ricavata da carbone o petrolio, da gas naturale o dal moto delle acque o dai pannelli fotovoltaici. E poi occorrono navi e camion che trasportano i prodotti ai supermercati e alle botteghe fino ai mercatini di villaggio, tutta una catena di scambi in cui si formano scorie e rifiuti inquinanti. Questa è la storia naturale del cibo che arriva alle famiglie e alla ristorazione collettiva.
Le esposizioni di merci hanno radici antichissime da quando i mercanti hanno cominciato a presentare le proprie merci sulle piazze dei villaggi e delle città; le fiere sono state, almeno dal medioevo in avanti, grandi eventi periodici che si svolgevano nelle città e radunavano venditori e acquirenti e curiosi, occasioni di informazione e di cultura, prima ancora che di vendita. Col passare del tempo questi eventi sono diventati vere e proprie esposizioni in cui i manufatti e i prodotti non sono venduti ma solo presentati e, direi, raccontati ai visitatori. La prima grande esposizione universale si ebbe nel 1851 a Londra, nel pieno della rivoluzione industriale e del successo imperiale della Gran Bretagna della regina Vittoria. Seguirono, con altrettante ambizioni, nella Francia del secondo impero di Napoleone III, le esposizioni di Parigi, del 1855 orientata ai prodotti industriali, e del 1856 orientata ai successi delle produzioni agricole francesi.
Nel 1906 Milano volle la sua esposizione universale in occasione dell’apertura della galleria del Sempione, altro successo tecnico che avrebbe collegato l’Italia con i paesi industriali dell’intera Europa. Nelle strutture dell’esposizione fu creata, nel 1923, la sede permanente della ”Fiera di Milano”, l’evento annuale di primavera nel quale le industrie potevano mostrare al mondo le proprie novità. Il film di Camerini, Gli uomini che mascalzoni, del 1932, con De Sica, ancora trasmesso da qualche televisione locale, mostra l’atmosfera gioiosa e incantata dell’incontro popolare con la tecnica, con prodotti e macchinari, nella fiera “campionaria” di Milano. Anche Bari volle, nel 1929, una sua fiera “campionaria” in cui presentare le merci e i prodotti della Puglia, e che ospitava i prodotti di molti paesi africani e asiatici, “del Levante”, che si presentavano, in tali incontri annuali agli occhi del mondo. Come professore di Merceologia non mancavo, ogni settembre, di visitare la Fiera del Levante per farmi dare campioni di prodotti che venivano poi esposti nel museo merceologico dell’Università.
Adesso ci sono rigorose distinzioni fra esposizioni universali, ogni cinque anni, esposizioni internazionali, ogni tre anni, entrambe destinate a trattare particolari temi di interesse generale, manifestazioni diventate occasioni per congressi, ed esposizioni, spesso, più di uomini politici che di prodotti. Mi auguro che l’EXPO di quest’anno sia una occasione per “esporre” informazioni e notizie sui prodotti di terre e persone vicine e lontane, sul lavoro nei campi, nelle fabbriche, nei negozi e sul comportamento alimentare delle famiglie e delle mense, sulle contraddizioni, anche, delle varie forme dell’agricoltura. L’EXPO può, insomma, al di là degli aspetti spettacolari, svolgere, grazie alle merci, una straordinaria funzione culturale e, direi, educativa, diffondendo una conoscenza popolare dei problemi del cibo e dell’energia da cui dipende la vita quotidiana di tutti.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Prima di tutto, trovo gratuita l'attribuzione di intenti maschilistici alle mie parole. Non c'è niente di meno vero. Rivendico poi il metodo e il merito della mia posizione.
La legge urbanistica e il piano del paesaggio della Toscana sono provvedimenti importanti. Io penso che il contributo ad essi fornito dal dibattito in Consiglio regionale sia stato positivo e di rilievo. E penso che positive siano state le modifiche effettuate in Consiglio regionale a seguito delle osservazioni dei sindaci e delle categorie economiche. Penso, infine, che anche nell'ultima fase dell'iter consiliare la commissione e l'aula svolgeranno il loro ruolo con spirito costruttivo e grande equilibrio.
Per questo ho trovato inopportuno l'intervento del sottosegretario. Mi è sembrato un tentativo di mettere sotto tutela un'assemblea rappresentativa che su questo fronte si è mostrata più volte lungimirante. Baldeschi sa bene, e lo ricorda, quale sia la storia delle mie posizioni in materia di tutela ambientale e paesaggistica. Proprio perché ritengo di poter parlare di questi temi con cognizione di causa e proprio perché credo nella possibilità di difendere rigorosamente l'ambiente promuovendo contemporaneamente lo sviluppo economico, dico che non dobbiamo commettere l'errore di confondere la tutela col vincolismo astratto e cadere in eccessi prescrittivi come quelli per fortuna rimossi durante l'iter consiliare dell'atto in questione.
Dico inoltre che di ogni legge dovremmo sempre tracciare, cosa che spesso non si fa, una Vib, una valutazione di impatto burocratico. Cioè dovremmo continuamente domandarci se i sacrosanti obiettivi che perseguiamo li stiamo perseguendo col minimo costo burocratico indispensabile o col massimo costo burocratico immaginabile. Non so se questo punto di vista sia renziano o meno. Non mi interessa. Basta che sia di buonsenso. E a me sembra lo sia.
Commento
Le posizioni di Dario Parrini in materia di ambiente e paesaggio sono state di intelligente tutela, almeno fino a quando è stato Sindaco di Vinci. Proprio per questo, una volta diventato segretario del Pd toscano, da lui ci si sarebbero aspettate decise prese di posizione in difesa del Piano paesaggistico, in particolare sulla questione Apuane, dove non sono in gioco sviluppo e occupazione, bensì le rendite di posizione di imprese che intendono continuare a sfruttare un patrimonio di tutti senza regole e senza alcun rispetto di paesaggio e ambiente. Non mi sembra che ciò sia avvenuto, ma forse ancora non è troppo tardi.
Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi...>>>
Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi a Presidente della Regione Toscana, ha avuto parole sbagliate nella forma e nel merito a proposito dell'intervista sul Pit-Piano paesaggistico toscano rilasciata dal sottosegretario del Mibact Ilaria Borletti Buitoni. Cosa ha detto la Borletti Buitoni? Che il Piano paesaggistico necessariamente è frutto di compromessi e che il compromesso raggiunto a proposito della tutela delle Apuane rappresenta un limite di equilibrio che, se fosse varcato in senso peggiorativo, potrebbe mettere in forse l'approvazione del Piano da parte del Mibact.
Parrini ha definito, senza alcuna motivazione, le giuste esortazioni del sottosegretario "superbe" e ha invitato la Borletti Buitoni a occuparsi dei fatti suoi, perché il consiglio regionale toscano non ha bisogno di "richiami"; aggiungendo, con un tocco di maschilismo che l'intervista in questione "gli fa tenerezza" (sottinteso: le donne sono delle testoline sventate , soprattutto quando si occupano di politica). Quanto al merito, Parrini sbaglia: il Piano paesaggistico è co-pianificato tra Mibact e Regione per precisa scelta politica e la sua approvazione da parte del Ministero comporta una serie di semplificazioni nelle zone vincolate, importanti per i Comuni e importanti anche per chi ha fatto un credo di efficienza e snellimento delle procedure. Ma il Mibact e le Soprintendenze toscane, che hanno svolto un lungo e meritorio lavoro insieme ai funzionari regionali sulla vestizione dei vincoli e sulla disciplina del piano, non sono - come vorrebbe Parrini - dei "convitati di pietra": che il sottosegretario del Mibact con delega al paesaggio esprima la sua opposizione a modifiche del testo concordato sotto la spinta delle lobby del marmo non solo è legittimo, ma anche doveroso.
«Pubblichiamo la prefazione di Paolo Maddalena al nuovo saggio dell'urbanista Paolo Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, in questi giorni in libreria edito da Donzelli». MicroMega-online, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)
Il libro di Paolo Berdini, dall’illuminante titolo Le città fallite, copre un vuoto nella pur ampia letteratura sugli scempi edilizi: esso enumera con lodevole completezza la serie dei fatti eclatanti che hanno distrutto i territori urbani, ponendo in evidenza come questa distruzione territoriale e ambientale sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica. Da vero, grande urbanista quale è, l’Autore esprime quasi un grido di dolore, che sembra materialmente emergere da queste accattivanti pagine, e che si trasmette automaticamente al lettore, rendendolo spiritualmente vicino al pensiero di chi scrive.
L’attrattiva di questo libro, in effetti, sta proprio nello svelare le cause e i retroscena dell’immane devastazione delle nostre città, che mantiene il lettore in una specie di suspense, nell’attesa di conoscere chi o cosa c’è dietro questa dannosissima sciagura. Non è nostro intento far venir meno la «tensione» del lettore e ci asterremo, pertanto, dall’illustrazione dei singoli accadimenti, limitandoci a porre in evidenza soltanto l’importanza delle regole urbanistiche, del loro grande valore di civiltà e della loro importanza giuridico-costituzionale.
Il libro si apre con un’illustrazione della «città pubblica», della città che è «servente» al bisogno umano di incontrarsi e di vivere in comunità. È in fondo la città che ci hanno donato, sulle orme di tessuti urbani pre-esistenti, i governanti liberali dei primi anni dell’unità d’Italia. Dal punto di vista più strettamente giuridico, viene posta in evidenza l’importanza, si direbbe strategica, di aver individuato la categoria degli «standard edilizi», di cui parla il decreto ministeriale 1444 del 1968, secondo il quale ogni cittadino ha il diritto ad avere a disposizione una superficie minima di territorio su cui realizzare i servizi di cittadinanza: l’istruzione, il verde, i servizi alla persona.
Insomma, emerge chiaramente che funzione propria dell’urbanistica è quella di garantire i diritti dell’uomo, e, con questi, il decoro e la bellezza delle nostre città. A tal proposito, si citano gli esempi della famiglia Crespi, che aveva una fabbrica di tessuti e che ebbe cura di creare un ambiente comunitario e sereno per i lavoratori. Ma si cita anche La Pira, sindaco di Firenze, che, negli anni cinquanta, requisì le abitazioni abbandonate per darle ai senzatetto, e infine l’esempio di Adriano Olivetti, che a Ivrea tanto si dedicò per la creazione di un vero modo comunitario di vivere.
Le noti dolenti cominciano con l’avvento del pensiero unico del «neoliberismo economico», divenuto soffocante nell’ultimo ventennio. Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la «città pubblica» e la fa diventare un puro «conto economico». La nostra tradizionale città è stretta in una tenaglia: da un lato la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si impone una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette «liberalizzazioni», le piccole imprese, che sono state sempre il nerbo della nostra economia.
In sostanza, si prepara l’avvento della fase di Tangentopoli. Comincia Craxi con il primo condono edilizio del 1985, cui seguiranno i due condoni del governo Berlusconi, e inizia subito la stagione delle «deroghe urbanistiche», delle quali parla la legge n. 79 del 1992. Ma soprattutto si afferma il principio dell’«urbanistica contrattata», alla quale seguono le ulteriori «deroghe» della legge Tognoli per la costruzione dei parcheggi nei centri storici e l’invenzione dei «Consorzi di imprese», che si dividono gli appalti delle grandi opere pubbliche.
Un grave colpo all’urbanistica è dato da Bassanini, il quale non inserisce nel Codice degli appalti del 2001 un emendamento per mantenere il vincolo, posto dalla legge Bucalossi n. 10 del 1977, di destinazione degli oneri urbanistici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: da allora essi possono essere utilizzati anche per le spese correnti. In tal modo speculatori e amministratori comunali si trovano sullo stesso piano di interessi. Entrambi convergono sulla convenienza di distruggere il territorio per ottenere danaro. L’accordo fra costruttori e amministratori diventa una regola.
Sempre nello stesso anno un altro duro colpo è inferto con la «Legge obiettivo», che Berlusconi illustra su una lavagna in una famosa apparizione televisiva. Basta dire che questa legge, con uno stanziamento di 110 miliardi in tre anni, prevede il «ponte sullo Stretto di Messina», cioè una vera ecatombe ambientale.
Tuttavia, è la «rendita fondiaria», cioè l’urbanizzazione dei terreni agricoli, che aguzza l’ingegno degli speculatori, e Berlusconi va loro incontro con il «Piano casa», che fa nascere una gara tra le Regioni per concedere ai costruttori il massimo di guadagni possibili, soprattutto in termini di cambio di destinazione d’uso e di aumento delle cubature. Quello della rendita fondiaria è un problema gravissimo del quale si era occupato nel 1962 Fiorentino Sullo, proponendo che i Comuni dovessero prima acquistare i terreni agricoli e poi urbanizzarli, facendo in modo che l’enorme aumento di valore del terreno trasformato da agricolo a edificabile restasse al pubblico e non divenisse un regalo per gli speculatori edilizi. Ma la politica, in accordo con gli speculatori, non ha mai fatto passare questo intelligente progetto.
Si deve aggiungere che questo sistema ha avuto un largo consenso tra la gente, poiché alla rendita fondiaria donata ai costruttori, nella fase ascendente della nostra economia, si è aggiunto l’aumento di valore degli immobili, che giova fortemente ai proprietari di abitazioni. Sicché tre grandi forze, per motivi diversi, si sono aiutate l’un l’altra nella distruzione dei terreni agricoli: gli speculatori edilizi, gli amministratori pubblici e i cittadini.
Sennonché la crisi economica e la conseguente diminuzione di valore degli appartamenti, che nelle periferie ha raggiunto il 40%, ha lasciato il danaro ai costruttori e ai cittadini la «beffa». Chi ha contratto un mutuo per pagare l’acquisto dell’alloggio oggi paga un prezzo di gran lunga superiore al valore del bene acquistato.
Anche per questo motivo si assiste oggi a un cambio delle forze sociali e politiche in campo: da un lato c’è la popolazione che si è schierata fortemente contro la politica, dall’altro ci sono i politici in perfetto accordo con l’alta finanza e i costruttori di case.
Il governo Monti segue in pieno «le prescrizioni» dell’alta finanza che ha occupato le istituzioni economiche europee. Egli ripristina l’imposta sulla casa senza prevedere alcuna esenzione; continua il finanziamento delle «grandi opere» (i 110 miliardi in tre anni sono sempre iscritti in bilancio), riduce gravemente le spese per la sanità, la giustizia, la rete dei servizi pubblici.
Anche Letta, con il suo breve «governo del fare», aiuta la speculazione immobiliare con la «Quadrilatero Spa», che dovrebbe unire, per ora inutilmente, l’Umbria e le Marche. La «trovata» è che la garanzia per i crediti sarebbe venuta dalle «aree di cattura di valore», cioè dall’aumento di valore dei terreni lambiti dalla costruzione dell’autostrada. È stato un fallimento e sono stati posti sulle spalle degli italiani altri 270 milioni di euro. Poco dopo, il ministro Franceschini (governo Renzi) ha accettato l’emendamento dell’onorevole del Pd, Maria Coscia, istituendo i «Comitati di garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici». È la fine della tutela paesaggistica.
E, come se tutto questo non bastasse, c’è lo Sblocca Italia di Renzi, che fa prevalere l’interesse alla costruzione delle «grandi opere» sulla tutela del paesaggio, dei beni artistici e storici, della salute e dell’incolumità pubblica. Mentre il ministro Lupi, con la sua proposta di modifica della materia urbanistica, mette sullo stesso piano pubblico e privato e propone l’indennizzo della «conformazione» della proprietà privata e l’abrogazione del citato d.m. n. 1444 del 1968 relativo agli standard edilizi.
L’urbanistica è, dunque, del tutto distrutta.
Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio. Si tratta di applicare il principio di «partecipazione popolare», previsto, anche come «diritto di resistenza», dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.
In sostanza, occorre ottenere un «capovolgimento» dell’immaginario collettivo, e far capire che la Costituzione protegge soprattutto «l’utilità pubblica» (art. 41) e riconosce e garantisce la «proprietà privata» solo se essa persegue la «funzione sociale» (art. 42). È ora, in altri termini, che la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia finalmente attuata. Molti intellettuali sono all’opera: Antonio Perrotti, Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Salvatore Settis, Tomaso Montanari e tanti altri.
La speranza si fonda sull’azione delle associazioni e dei comitati, che di fronte allo spreco del nostro territorio devono agire e unirsi in una lotta senza quartiere, da svolgere sul piano della legalità costituzionale e, specificamente, sotto l’egida di quella che è stata denominata «l’etica costituzionale», e cioè i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà.