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Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
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Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione: la mancanza di soldi. «Non ci sono le risorse» ha sentenziato di recente il ministro Poletti. Ma è davvero così? Sembra difficile invece crederlo, se ci si informa sulla ricchezza reale del paese, senza fermarsi alle retoriche correnti e al baccano stupido dei media. La Banca d'Italia, ad esempio, sembra avere un'idea diversa delle “risorse” dell'Italia. Nel suo documento La ricchezza delle famiglie italiane. Anno 2013, il nostro paese, con una ricchezza netta pari a 8.728 miliardi di euro, appare in una luce diversa dalla vulgata miserabilista corrente: «Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un'elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Giappone e Regno Unito e superiore a quello di Stati Uniti, Germania e Canada».

E' una ricchezza formata dal patrimonio abitativo (4.900 miliardi), ma anche da titoli finanziari, risparmi, attività economiche, ecc. Si tratta di una posizione di tutto rispetto, anche in confronto di grandi potenze industriali che il reddito minimo lo praticano da tempo. E' allora qual'è il problema? Perché un paese così ricco non trova le risorse per dare alle fasce più deboli ed esposte della nostra popolazione un reddito di dignità? Perché l'Italia ha oggi 6 milioni di poveri in senso assoluto, il 10% degli individui e l'8% delle famiglie? La prima risposta è - come largamente noto - nella disugualissima distribuzione della ricchezza. Su questo punto i dati della Banca d'Italia degli ultimi anni sono noti. Il 10% delle famiglie più ricche detiene quasi la metà della ricchezza nazionale.
Questione sociale di prima grandezza, ma oggi ostacolo evidente alla cosiddetta ripresa. Cinque mesi fa perfino l'OCSE, che non è la Caritas, si è spinta a sostenere, pudicamente che «l'aumento della disparità ha un impatto sulla crescita» (M. Moussanet sul Sole del 9.12.2014). E allora, perché i governi e i partiti non promuovono politiche efficaci di riequilibrio, di redistribuzione della ricchezza? Non è noto che il welfare del dopoguerra si è retto su sistemi fiscali progressivi? Eppure oggi un sistema fiscale realmente democratico non è nell'agenda del nostro governo, né ovviamente dell'UE, dove si fa a gara, tra paesi, a chi offre le migliori condizioni fiscali ai capitali esterni. Mentre in Italia, secondo i dati apparsi di recente sulla stampa, ben l'80% del peso fiscale è sostenuto dalla parte più debole del paese, dipendenti e pensionati.

Dunque, qual'è allora il vero ostacolo che si para dinnanzi all'istituzione del reddito minimo? Ma è evidente che si tratta di una ragione interamente politica. Il ceto politico non ha nessuna intenzione di scontrarsi con gli interessi costituiti, mettere in discussione la gerarchia consolidata della ricchezza così come si è venuta storicamente formando. Questo ceto, del resto, costituisce un segmento interno, una giuntura delle società capitalistiche del nostro tempo. Mettere radicalmente in discussione i rapporti dominanti esporrebbe a rischio il suo stesso potere relativo e la sua riproduzione. Eppure da noi la sperequata distribuzione della ricchezza non è solo una drammatica disuguaglianza fra le classi, che danneggia la “crescita”: dentro vi è incistata anche una questione generazionale. Sempre la Banca d'Italia, ne I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 ha ricordato che nel precedente ventennio, in termini relativi, il reddito degli anziani è passato «dal 95 al 114 per cento della media generale. (...) Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente è diventato significativamente più basso della media: il calo è stato di circa 15 punti percentuali».

Non c'è da stupirsi: il capitalismo neoliberista distribuisce la ricchezza sulla base dei puri rapporti di forza fra classi e individui. Com'era stato per tutta la precedente storia delle società umane, sino al trentennio “keynesiano”. Il generale regredire della nostra civiltà, lasciata ai liberi appetiti del cosiddetto “mercato”, si riflette anche qui. La parte meno rappresentata e forte, la nostra gioventù, indietreggia, non ha lavoro, non riesce a intraprendere, non può proseguire gli studi, non può fare ricerca, non può mettere su famiglia. E' da anni che il segmento più giovane della popolazione, il più vitale, potenzialmente più creativo e innovativo, in grado di ridare speranza e slancio al nostro paese, viene lasciato languire ai margini della società. Si facciano un giro per le città e i paesi del Sud politici e giornalisti filogovernativi: risparmieranno la fatica di leggere aride statistiche. Ma possono anche stare a Milano, dove l'altro giorno, per 25 posti da infermiere, erano in fila 13 mila persone.(Corriere della Sera del 3.4. 2015)
Davvero, qualcuno pensa di intaccare la disoccupazione giovanile italiana con il Jobs Act ? Chi può onestamente affermare che con la sola crescita potremo avere milioni di nuovi posti di lavoro? E quanti anni dovremo attendere? E quale potrà essere il ritmo di tale crescita, con i vincoli in cui ci stringono i patti iugulatori dell'UE? Nessuno faccia finta di non sapere che l'Italia è un paese sotto occupazione straniera: sotto occupazione finanziaria. Una novità assoluta nella storia degli stati sovrani.

Dunque, quello per il reddito minimo è una battaglia strategica di grande portata, in grado di dare un minimo di respiro alla nostra gioventù e a tante famiglie disperate in tempi brevi. Al tempo stesso colpirebbe la disuguaglianza e rafforzerebbe la domanda interna. Le risorse si trovano dove un tempo le trovavano i partiti della sinistra e i sindacati non asserviti: facendo leva sulla lotta sociale, con una pressione di massa che trasferisca aliquote significative di ricchezza dalle immense e crescenti rendite accumulate nelle fasce alte della società. La Coalizione sociale di Landini e altri dovrebbe porsi come centrale tale obiettivo, non solo per le ragioni già dette. Con le politiche correnti, senza un cambiamento dei trattati dell'Unione - ottenibile da un vasto movimento di massa continentale - è evidente a tutti noi che il prossimo avvenire, in Italia e in Europa, sarà delle destre. Con conseguenze imprevedibili per la democrazia.

Tutto congiura a loro favore: il rinfocolamento dei risentimenti nazionali, l'immigrazione - destinata a diventare ingovernabile con la tragedia dell'Africa e del Vicino Oriente - lo svuotamento ulteriore del welfare, la facilità di mettere i poveri l'uno contro l'altro. In politica il tempo è tutto. Perciò occorre oggi raccogliere la rabbia, il rancore, la disperazione ma anche la rassegnazione dei nostri giovani (e non solo di essi) e trasformarla in energia politica, mostrando ad essi un obiettivo conseguibile tramite il loro impegno in prima persona. Questo significa, tradotto in parole semplici, che la Coalizione sociale deve metter in moto subito iniziative nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nell'Università, in tutti gli spazi pubblici perché il reddito minimo diventi il tema dominante.
Una campagna di mesi, in cui si mettono in luce diritti e si denuncino le ingiustizie intollerabili che stanno trascinando il paese alla rovina. Una grande vertenza nazionale, che abbia al centro quest'asse, che parta ora, che avvicini le organizzazioni ai cittadini, rinsaldando un fronte politico davvero nuovo, privo delle strumentalità proprie delle campagne elettorali. E' questa una condizione importante: un aspetto mai considerato, per spiegare i fallimenti delle proposte politiche messe in piedi dalla sinistra radicale, è che sono state promosse sempre a ridosso delle elezioni. Dall'Arcobaleno in poi, puntualmente, esse sono apparse agli occhi degli elettori come una scoperta manovra da ceto politico, animate dal desiderio di occupare posti di potere. La politica fra i cittadini si dovrebbe fare tutti i giorni. Una grande battaglia nazionale così orientata può costituire l'esperienza da cui può nascere - se si sarà responsabili e si porrà al primo posto il valore dell'unità – una formazione politica dai tratti nuovi. Una “ cosa” che nessuno può ideare oggi a tavolino.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

che dovrebbero essere soddisfatte >>>

Alberto Asor Rosa, nel suo "I nazareni della Toscana", indica con lucidità le scelte fondamentali che dovrebbero essere soddisfatte dal prossimo governo della Toscana se vuole dirsi di sinistra e se vuole onorare l'approvazione del Piano paesaggistico.

L'intervento del Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, anche se risponde solo in parte e omette di replicare alle critiche, contiene una serie di dichiarazioni e proposte condivisibili e si segnala anche per un approfondimento e uno stile del tutto desueti nelle acrimoniose polemiche dei consiglieri regionali del Pd. Inconsueti, inoltre, sia il contenuto, sia il tono delle parole con cui Rossi esprime apprezzamento di quanto hanno fatto i vituperati (da altri) intellettuali, opinionisti e giornalisti per sostenere le buone ragioni del Piano paesaggistico, di cui il Pd nel consiglio regionale aveva proposto lo stravolgimento (un dato che non può essere sottovalutato e su cui Rossi tace).

Il succo 'politico' delle dichiarazioni di Rossi, sta nelle ultime frasi, in particolare quando il Presidente afferma: "sono certo che la crisi dei corpi intermedi e dei partiti impone il dovere di allargare lo spettro della rappresentanza, della discussione e della decisione politica. Sono grato ai comitati di cittadini impegnati da anni nelle battaglie ambientali e civili". E subito dopo: "credo che con il Piano del Paesaggio anche in Toscana possiamo contribuire alla ricomposizionee delle forze progressiste e delle culture della sinistra. Ci sono tutte le premesse. Tra le molte possibilità anche il voto disgiunto, consentito dalle regole e dall’offerta politica".

Rossi, a quanto sembra, invita gli elettori di sinistra che non voteranno né Pd né Grillo, ma più probabilmente altre liste, a esprimere comunque un voto a suo favore. Dobbiamo prendere sul serio la proposta di Rossi o si tratta solo di un brillante escamotage per porre fine a una polemica? Proviamo a prenderla sul serio.

La risposta potrebbe essere la seguente. Caro Presidente, quanto lei scrive è indubbiamente di grande importanza e siamo soddisfatti che abbia riconosciuto il ruolo positivo di associazioni ambientaliste e comitati nelle vicende del Piano paesaggistico e più in generale nella tutela del territorio toscano. L'unico appunto è che nel suo intervento sia riproposta la teoria degli "opposti estremismi", intesi come contrapposizione tra un'imprenditoria di rapina che pretende di avere le mani totalmente libere e un ambientalismo 'imbalsamatore' che vuole frenare ogni sviluppo. Lei sa bene che gli ambientalisti e i comitati vogliono arrestare - non basta frenare - lo sviluppo distruttivo e vogliono supportare, nei limiti delle loro possibilità, quello che crea lavoro, tanto meglio se qualificato, come lei stesso dice.

Ma torniamo alla sua proposta che indica come possibile una ricomposizione delle forze progressiste e della cultura della sinistra e all'ipotesi di un possibile voto disgiunto. L'una cosa si lega all'altra. In effetti, potrebbe essere la gestione del Piano paesaggistico a costituire il vero e proprio banco di prova di questa proposta, ma il dubbio è il seguente: lei è sicuro che sarà seguito su questa strada dal suo partito? E che un modello di governo toscano un po' eccentrico rispetto a quello nazionale sarà supportato, o per lo meno non ostacolato, dagli organismi centrali del Pd?

Occorrerebbe una buona dose di intelligenza politica per non essere pregiudizialmente contrari a un esperimento di questo tipo, capire i vantaggi di una certa 'biodiversità politica' e non pretendere, perciò, l'omologazione di ogni realtà regionale. Ma questa intelligenza esiste? Si tratta, Presidente, del primo nodo critico che deve essere superato perché la 'ricomposizione' che lei prospetta sia fattibile. Il secondo è conseguente: se lei si candida come Presidente anche per chi, da sinistra, non vota il suo partito, deve per coerenza, una volta eletto, formare un governo regionale e una giunta che includano queste forze di sinistra. Lo farà, anche se lei - di nuovo Presidente - disporrà di una maggioranza assoluta nel consiglio regionale e non avrà bisogno di allargare "lo spettro della rappresentanza e della decisione politica"? Sono domande cruciali per coloro che vogliono prendere sul serio quanto lei ha scritto.
Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno...>>>

Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno in cui Gesù torna a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, la festa ebraica che ricorda la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con preghiere e pranzi in comune. Era un momento di grande popolarità per Gesù; la sua predicazione in varie parti della Palestina faceva sperare in una nuova liberazione dall’esosa Roma che opprimeva il paese con la collaborazione o tolleranza delle autorità religiose ufficiali, ostili, quindi a questo nuovo profeta. Una folla accoglie Gesù, come racconta l’evangelista Giovanni, agitando rami di palme, la pianta diffusa sul posto.

Quello che succede dopo è noto; il pranzo con gli amici, l’agguato dei nemici, la denuncia alle autorità romane, le perplessità del prefetto romano Pilato, le folle sobillate contro Gesù dai “sacerdoti”, la crocefissione. Nella tradizione cattolica la domenica “delle palme” prevede la benedizione di rami di piante, in Italia dell’ulivo che è diffuso nell’Europa meridionale. (Non so che cosa facciano benedire i cristiani in Germania o Svezia).

Pensando a questo rito mi risuonava nella mente lo stridio delle motoseghe che stanno tagliando gli ulivi del Salento, attaccati da un mortale parassita, e mi sono ricordato quando, settant’anni fa, sono venuto per la prima volta in Puglia. Proprio nel Salento mi hanno fatto vedere i tronchi contorti e bellissimi dei secolari ulivi, raccontandomi la leggenda che fossero così per la sofferenza del nume tutelare, il genius loci, che ogni ulivo portava dentro di sé. Chi sa che cosa pensa la divinità pagana ora cacciata via del tronco del suo ulivo, ridotto ad un fittone che emerge sconsolato dal suolo nel terreno dopo aver visto imbrunire a morte le foglie dal loro verde originale.

Sono state e vengono scritte innumerevoli pagine sulla epidemia che ha colpito gli ulivi del Salento e che minaccia di estendersi; chi è questo batterio Xylella, da dove viene, come è possibile fermarne la propagazione, come risarcire gli agricoltori, che cosa fare nelle terre abbandonate. Soprattutto è ora di interrogarsi su questa nuova manifestazione della fragilità dell’agricoltura: di quella pugliese, oggi, ma più in generale italiana, e, in tante diverse forme, dell’agricoltura mondiale.

Siamo alla vigilia della famosa esposizione universale EXPO 2015 di Milano che prometteva costruttive indicazioni su come nutrire il pianeta, anche se sembra si stia trasformando in una sfilata di ristoranti. Si sprecano parole come sostenibilità e biodiversità mentre nei paesi industrializzati, per motivi “economici” gli addetti in agricoltura sono ridotti a meno del dieci percento dei lavoratori e la stessa tendenza sta diffondendosi nei paesi emergenti.

Il rapporto fra l’uomo e la terra è sradicato dall’avanzata delle grandi monocolture di piante commerciali, dei pozzi petroliferi e delle miniere, delle fabbriche, dall’avanzata del cemento dei quartieri e delle rotaie delle ferrovie sempre più veloci, del catrame delle strade e autostrade e delle discariche di rifiuti. Questa transizione è spacciata per modernità, ma in pratica è governata dal potere finanziario sempre pronto ad abbandonare alla rovina le imprese, anche agroindustriali, di cui si è rapidamente appropriato al solo fine di arricchirsi. L’agricoltura speculativa altera, spesso irreversibilmente, gli equilibri ecologici, quelli che possono, solo loro, in maniera durevole, sfamare il mondo, con una agricoltura che ha bisogno di tempi lunghi e di paziente cura e amore.

Il passato, il presente e il futuro dell’agricoltura saranno esaminati in un convegno su “Le tre agricolture” che si terrà a Brescia, per iniziativa della locale Fondazione Luigi Micheletti, il 22 e 23 aprile, alla vigilia dell’apertura dell’esposizione di Milano. La prima agricoltura per diecimila anni ha assicurato il cibo nel rispetto degli equilibri fra piante, animali, suolo e acque, con il lento e faticoso lavoro umano, con ansie davanti ai pericoli di tempeste, grandine, alluvioni, siccità, con gioie nel momento del raccolto. Con la rivoluzione industriale i migliori salari per gli operai hanno attratto nelle città crescenti folle di agricoltori che hanno abbandonato le campagne. Si è avuta una rapida crescita della popolazione mondiale e per sfamarla è stato necessario lo “sfruttamento” intensivo delle terre, l’apporto di concimi artificiali e di pesticidi che hanno fatto aumentare la produzione agricola, ma a spese di un crescente inquinamento delle acque, della avanzata della siccità, dell’abbandono di colture tradizionali.

L’industria agroalimentare per soddisfare la domanda delle popolazioni urbane ha incrementato i commerci internazionali che hanno offerto maggiore varietà di cibo nelle tavole e incentivato in terre lontane coltivazioni estranee alla loro vocazione, con conseguenti erosione del suolo e cambiamenti climatici. Non sta risolvendo i problemi la seconda agricoltura, quella “biologica”, divenuta in molti casi una moda e ben presto esposta anch’essa a furbizie e frodi. Forse esiste una terza agricoltura, in gran parte da inventare, che riporti i lavoratori alla terra, non come passeggera passione, ma come necessità per “nutrire il pianeta” nel rispetto degli equilibri ecologici e dell’uso razionale delle acque, compatibile col clima e con le caratteristiche del suolo, con le leggi della natura. Perché, in fin dei conti, come scriveva il biologo Barry Commoner, «Nature knows best», la natura sa le cose meglio di noi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Sono 48 i beni per i quali l'Agenzia ha dato il via libera per il trasferimento. Vicenda da seguire con attenzione per capire chi sono destinatari dei regali. La Nuova Venezia, 27 marzo 2015

Venezia. “Pioggia” di immobili e aree statali in arrivo in dono al Comune di Venezia da parte dell'Agenzia del Demanio. E l'effetto del decreto sul federalismo demaniale del giugno dello scorso anno, che entra nel vivo con la pubblicazione in questi giorni da parte dell'Agenzia del demanio dei pareri che prevedono appunto il trasferimento agli enti locali di immobili dello Stato non più in uso.
Sono 48 i beni su cui il Demanio ha già dato l'assenso al trasferimento a Ca' Farsetti, ma sono 23 quelli che sono già stati trasferiti, in questa fase, all'amministrazione, soprattutto terreni ed ex caserme. C'è il molo comunale all'isola del Tronchetto, i Giardini della Marinaressa in Riva dei Sette Martiri, l'ex ridotto vecchio, l'ex caserma della Guardia di Finanza, il Casotto telemetrico e un terreno a Sant'Erasmo, un terreno agli Alberoni e due a Burano. Ancora, quattro negozi in via Sandro Gallo, l'ex campo dell'aviazione di Campalto, l'ex elioterapico a San Giuliano, una porzione del Poligono di tiro a segno del lido e un appezzamento di terreno a San Nicolò. Quindi l'ex campo di aviazione di Campalto, l'ex caserma di artiglieria di San Pietro in Volta, una porzione di terreno lungo il Canal Grande a Cannaregio, un fabbricato di pertinenza di Villa Elena a Zelayino.
Nel "pacchetto" di immobili che devono ancora essere materialmente trasferiti al Comune, l'ex Batteria Manin a Pellestrina, l'ex Forte Morosini, l'ex caserma della Guardia di Finanza di Venezia, la Batteria Marco Polo, l'ex Forte Ca' Roman Barbarigo, l'ex Batteria Emo, l'ex Caserma di Artiglieria di San Pietro in Volta, l'ex Caserma di Cavalleria di San Nicolò del Lido. Ancora in via di definizione invece il trasferimento di altri due beni che stanno a cuore al Comune, come la Batteria Rocchetta e in particolare la cinquecentesca ex Caserma Pepe del lido, il più importante e meglio conservato manufatto storico, architettonico e militare dell'isola. Sempre utilizzata negli anni come struttura militare, in ultimo come caserma dei Lagunari fino al 2000, l'edificio, oggi inutilizzato, era stato inserito all'interno del Piano Direttore del Lido dal Comune, come appoggio all'attuale centro del Master Europeo sui Diritti Umani nell'ex convento di San Nicolò.
Anche l'ex piazza d'Armi di Sant'Elena e l'ex Monastero di Sant'Anna a Castello, richiesti entrambi dal Comune, sono ancora in via di assegnazione. In centro storico, il Palasport dell'Arsenale e l'area cantieristica della Giudecca. Ma molti dei beni che saranno assegnati riguardano il lido, con l'arenile degli Alberoni, piazzale Ravà e via Klinger, l'ex Luna Park. In terraferma, diventeranno tra l'altro comunali la sede viaria di viale San Marco e il Forte Bazzera.

Per i molti cittadini che avevano votato Pisapia, attendendosi anche una svolta radicale rispetto al modello neoliberista e mercatistico...>>>


Per i molti cittadini che avevano votato Pisapia, attendendosi anche una svolta radicale rispetto al modello neoliberista e mercatistico dell’urbanistica milanese inventato da Maurizio Lupi quando era assessore allo Sviluppo del Territorio, quelli del suo governo sono stati anni deludenti. Il capitale di speranza e di fiducia costruito attraverso una campagna elettorale lungimirante e partecipata è stato in parte sperperato, se non dal Sindaco dalla sua Giunta. Certamente delusione c’è stata per quanto riguarda le promesse riformatrici non mantenute in materia di pianificazione e di messa sotto controllo della rendita immobiliare/finanziaria.

La prima disillusione è arrivata con la mancata discontinuità con il Piano urbanistico approvato dall’amministrazione di Letizia Moratti. Si è preferito approvare e adottare in tutta fretta un Piano di Governo del Territorio, e soprattutto un Piano delle Regole, del tutto simile a quello firmato Moratti/Masseroli, preferendo un processo decisionale per molti aspetti opaco e non partecipato, e una sostanziale conferma dello status quo nelle scelte di fondo. Ma anche la capacità di regia e negoziazione nelle decisioni in merito ai contenuti funzionali dei ‘grandi progetti urbani’ è stata debole: la finanza immobiliare ha continuato a dettar legge.

La seconda delusione l’ha suscitata la sostanziale inerzia, l’adattività del governo milanese rispetto alla sedicente macchina da guerra predisposta in ambito regionale per la realizzazione dell’effimera EXPO 2015. Totalmente abbandonato nella mani del governo lombardo e dei suoi affaristi, il progetto ha, come ben noto, dato luogo all’ennesimo intreccio di interessi illeciti e di atti corruttivi arginati soltanto dall’intervento della magistratura. E questi eventi hanno sicuramente gettato un’ombra, sia pure di riflesso, anche sull’immagine di Milano e del governo municipale.

E ancora, deludente e inspiegabile è stato il protratto silenzio dell’amministrazione milanese nella fase di dibattito relativa alla istituzione della Città Metropolitana: debole l’ascolto e l’interazione con i comuni della cintura; poche le idee su come rafforzare lo Statuto Metropolitano all’interno di una legge (la Delrio) banale e senza coraggio; e, soprattutto, nessuna iniziativa volta a sollecitare e scuotere il governo regionale da una apatia e un interesse manifestamente antimetropolitano.

Altra promessa mancata, su un tema specifico ma non meno rilevante: la realizzazione della Grande Moschea, ai primi posti nel programma elettorale del Sindaco in quanto doveroso esercizio di repubblicana non discriminazione religiosa in una città sempre più multietnica. La decisione, dilazionata fuori tempo massimo politicamente accettabile, è oggi ulteriormente indebolita e procrastinata da una legge lombarda che irride alla Costituzione.

A completare questo bilancio pieno di ombre (oltre che di alcune luci, ad esempio in materia di contenimento del traffico e di politiche sociali) è arrivato, proprio nella fase di avvio del nuovo ente di governo metropolitano, quando occorrerà grande capacità di visione strategica oltre che lungimirante innovazione amministrativa, il gran rifiuto a ricandidarsi.

Pisapia rinuncia di fatto alla opportunità di promuovere, finalmente, strategie e politiche più determinate e coerenti con il suo programma elettorale quando, con un secondo mandato che avrebbe consentito maggiori spazi di autonomia e di iniziativa, sarebbe stato più agevole farlo. Un secondo mandato che, con tutta probabilità, i cittadini gli avrebbero confermato, soprattutto per la fiducia nella persona più che nei risultati ottenuti fin qui.

I cittadini di Milano e della sua area metropolitana possono da oggi attendersi un anno di navigazione a vista con un Sindaco che si è auto-delegittimato e indebolito, mentre si addensano sulla metropoli i rischi di un flop di EXPO, malgrado i “camouflages” dell’ultima ora.

Ma anche se andasse tutto liscio, rimane la totale incertezza sul dopo EXPO. Le esperienze internazionali relative ai cosiddetti ‘grandi eventi’ ci insegnano che le (poche) storie di successo sono state quelle in cui era ben chiaro sin dall’inizio il progetto relativo al ‘che fare’ a festa terminata; in cui le aree sono state acquisite al pubblico pagandone un giusto prezzo (a valore agricolo, se tale era la loro destinazione precedente). Alcuni di noi avevano segnalato, ancor prima che la candidatura di Milano vincesse su quella di Smirne, che questi erano i problemi e le sfide cruciali. Le cose sono andate in altra direzione e a tutt’oggi rimane aleatorio il contenuto funzionale del progetto per il riuso del sito dell’evento: perché le aree di Cabassi e Fondazione Fiera sono state strapagate da Arexpo, grazie alla edificabilità comunque concessa a favore della proprietà dalla allora sindaca Moratti e perché i costi sono enormemente lievitati. In questa situazione di incertezza, nella quale gli enti pubblici vogliono a tutti i costi rientrare dallo scriteriato investimento e il rischio è l’ennesima cementificazione senza qualità (peraltro in una situazione di stallo del mercato edilizio), la voce di Pisapia avrebbe forse finalmente potuto esprimersi con maggiore coerenza e forza.

Chi sarà il nuovo Sindaco?

Forse (ma il ‘forse’ nel nostro paese è sempre una cautela realistica), una candidatura temibile del centrodestra - quella di Maurizio Lupi, del quale abbiamo sempre criticato l’ascesa sin dalla sua iniziale esperienza milanese - non sarà più sostenibile, dopo la gestione disinvolta del Ministero delle Infrastrutture. Ma, purtroppo, all’orizzonte si profilano molti lupacchiotti pronti a conquistare Milano e a distruggere ciò che di buono è stato realizzato dalla giunta arancione. C’è solo da sperare che la risposta della sinistra sia all’altezza.

Bye bye Pisapia, con grande disillusione e probabile futuro rimpianto da parte dei cittadini onesti.

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni...>>>

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.

L'Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto, nella sua storia unitaria, una così estesa riduzione della sua base produttiva, un crollo così rovinoso dell'occupazione, un dilagare continuo e senza argini della povertà e della disperazione sociale. Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in questi anni difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese opera uno dei più antichi e potenti sindacati dell'Occidente. Ma, senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni, occorrerebbe almeno ricordare che l'inerzia e il silenzio del sindacato hanno non poco favorito l'iniziativa dei novatori.
Chi ha dato a Renzi l'opportunità di presentarsi come il difensore dei giovani e dei precari, con l'iniziativa del Jobs Act? Chi ha permesso che l'iniziativa di riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla Confindustria? Eppure dovrebbe essere evidente che oggi l'avversario di classe -ripristiniamo questo termine di verità nel linguaggio della politica- ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra) stenta a capire. Alla bulimia consumistica dei cittadini del nostro tempo occorre dare in pasto sempre prodotti nuovi. Basta che siano nuovi all'apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico fine? L'importante è “andare verso il futuro”. Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto. Figuriamoci la Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete mettere il Jobs Act, un prodotto nuovissimo per giunta in smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai e impiegati?

La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante?

Ho spesso ricordato che l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata fondata nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto ufficio studi. Eppure era nata come un generoso progetto universale della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa della classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece le sorti del mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1945. Eppure nessuno osserva che dietro ad esso c'è solo l'interesse di alcune migliaia di banchieri, dietro l'ILO ci sono diversi miliardi di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la potenza di tale contraddizione? Non è possibile cominciare a tessere una rete internazionale che rivitalizzi tale organismo, o ne crei un altro nuovo o ne cambi il nome, con il fine di una reale rappresentanza degli operai di tutto il mondo?Quando incominceremo a porre in agenda l'obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di standard di base irrinunciabili delle condizioni e dell'orario di lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che da quando esiste l'Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia sindacale e mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.
Certo, per tali tentativi i dirigenti della CGIL dovrebbero disporre di energie intellettuali difficili da trovare nelle buie stanze dei loro uffici. Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non è possibile che i dirigenti della CGIL si guardino intorno a vedano tanti nostri giovani, le migliori e più colte intelligenze del nostro paese, che scappano all'estero ? E perché non scegliere tra questi i tanti talenti che potrebbero portare energia, idee, motivazioni, conoscenza di lingue e realtà sociali in grado di ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità potrebbe compiere la creatività della CGIL se una nuova leva di giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel mondo, venisse fatta entrare con specifici compiti dirigenziali?
Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra tutta intera si dovrebbe porre il problema dei nostri giovani intellettuali. Ma anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua antica istituzione, in grado di ridare una nuova vitalità all'organizzazione dei lavoratori. Nata nel 1891 a Milano, la Camera del Lavoro è stata una geniale invenzione del sindacalismo ottocentesco. Essa metteva insieme le diverse categorie operaie in unico centro territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si diversificava e articolava le sue geografie. E oggi? Non sappiamo da tempo che il lavoro, precario, alterno, reso autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno ritrova unità in un luogo determinato? E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove possano confluire non solo i lavoratori e i pensionati per pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le massaie, i giovani, gli studenti ?
E' una istituzione a base territoriale quella che oggi può fornire uno spazio di unità a un universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro dovrebbero dunque essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione aggregativa che potrebbero svolgere nel Mezzogiorno devastato dei nostri giorni, dove i i giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la loro disperazione. Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale di movimento. Ma i temi politici non mancano. Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del reddito minimo.
Si tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra. Incertezze che nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il terreno sociale e teorico da cui è nata: l'analisi del mondo del lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo. Marx ha disvelato l'origine della ricchezza e della sua diseguale distribuzione, mostrato l'architettura dell'intera società, partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del capitale, ci dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei processi accelerati di automazione e per il vantaggio di poter trasformare direttamente il danaro in altro danaro. Ma uno sguardo sommario ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico a far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché così può tenerlo sotto ricatto, rafforzare il suo rapporto di dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l'ha dimenticato, pensando che il capitale si riduca alle piccole imprese familiari del Nordest. Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e vittorioso.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

«La chiave per valutare un’infrastruttura deve essere il servizio che garantisce ai cittadini» Ma si tratta di capire quali servizi sono prioritari, se per poche persone avere un Milano-Roma ogni 15 minuti, o per centinaia di migliaia arrivare presto in fabbrica, ufficio o scuola. Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2015

Il ricambio al ministero delle Infrastrutture e l’auspicata riforma della legge obiettivo costituiscono un’occasione storica per avviare una riflessione - possibilmente celere e concreta - su quali siano le infrastrutture effettivamente utili al Paese e come si possano superare i gravi limiti nelle modalità di programmazione, progettazione e costruzione. Serve una pax infrastrutturale che passi per una democratizzazione sostanziale del percorso di realizzazione delle opere. Il primo ingrediente è una programmazione unitaria con strumenti e standard europei che tenga al proprio interno reti materiali e immateriali, opere grandi e piccole, finanziamenti nazionali e comunitari, opere nuove e investimenti tecnologici, con una capacità di selezione che non si è vista negli ultimi 15 anni. Riprendendo un vecchio slogan coniato da Paolo Costa bisogna realizzare «tutte le opere necessarie, solo quelle necessarie». Oltre all’introduzione di strumenti che all’estero sono consuetudine - studi di fattibilità, analisi dei fabbisogni, analisi costi-benefici - è il concetto stesso di utilità che va rifondato in Italia.

L’infrastruttura non è solo un’opera fisica, un appalto, un costo: è soprattutto un contenitore di servizi e il servizio che fornisce ai cittadini deve essere la chiave per valutarla, per decidere se sia utile o meno. Se a tutti fosse stato spiegato con chiarezza che l’Alta velocità si sarebbe tradotta in treni che ogni quarto d’ora raggiungono Milano da Roma in tre ore - e che questo avrebbe cambiato il sistema dei trasporti italiano in favore di una modalità ambientalmente sostenibile e la geografia delle principali città - forse il dibattito pubblico sarebbe stato meno ideologico e più trasparente. Tanto più questo vale se si vogliono attrarre capitali privati che hanno bisogno di piani economico-finanziari aderenti alla realtà per poter intervenire. Bisogna archiviare la stagione di piani di traffico gonfiati per realizzare opere che poi chiedono interventi pubblici correttivi ex post per far quadrare i conti. I rischi devono essere ben definiti e devono restare accollati a chi li ha assunti, senza sconti. Un tentativo di collegare opere e servizi (con relativo impatto economico e sociale sul territorio) è stato fatto da Fabrizio Barca nell’impostazione della nuova programmazione dei fondi strutturali Ue 2014-2020.

Un tema che dovrebbe rientrare in questa riflessione è quello di un piano di investimenti “leggeri” e tecnologici che consentano uno sfruttamento più intenso delle infrastrutture pesanti esistenti. È una filosofia fondamentale dove ci sono vaste reti infrastrutturali, come per esempio nelle ferrovie. Il caposcuola di questa filosofia è stato Mauro Moretti, ai tempi in cui era amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi). Oggi questo approccio “leggero” prevale (ma non è coerente fino in fondo) anche nel contratto di programma Fs che contiene un robusto piano tecnologico e consente, con tecnologie di circolazione all’avanguardia in Europa, di aumentare la capacità di una linea ferroviaria (in termini di numeri di treni che ci possano viaggiare sopra in determinato lasso di tempo) con raddoppi infrastrutturali molto limitati (e non integrali). Il costo può essere ridotto a un quinto o a un decimo rispetto a quello dell’intervento infrastrutturale “pieno”, garantendo comunque un risultato in termini di cadenza e tempi di percorrenza sostanzialmente uguali. È necessario che il passeggero sia l’unico destinatario di un piano infrastrutturale.

La democratizzazione del processo infrastrutturale passa per l’abbattimento del muro che oggi separa le infrastrutture dai cittadini. Una riprogrammazione delle opere pubbliche in termini di servizi ai cittadini è il primo passo decisivo in questa direzione. Il secondo è l’introduzione anche in Italia di un procedimento, sul tipo del débat public francese, che consenta una discussione reale con i cittadini sul territorio, liberando l’opera da giochi e giochetti che non di rado vede protagonisti la stazione appaltante e gli amministratori locali, per interessi che spesso non sono generali. Il terzo passaggio è il ritorno a una progettazione che riprenda a parlare con il territorio e che sia frutto di un processo reale di competizione fra progetti alternativi: lo strumento c’è, è il concorso di progettazione che, soprattutto in ambito urbano, può aiutare a trovare le soluzioni giuste e favorire la partecipazione. Bisogna solo superare la diffidenza di molti sindaci. Il quarto pilastro di questa nuova era è l’utilizzo dei sistemi di monitoraggio civico e di open coesione per rendere del tutto trasparente il piano economico, il progetto e gli stati di avanzamento del cantiere, con i suoi costi e le sue eventuali varianti, senza trascurare, ancora una volta, gli impatti in termini di servizi.

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia...>>>

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia e fortunato proprietario di Poveglia, l’isola della laguna che si è aggiudicato nel 2014 per 513 mila euro, annunciando la sua candidatura a sindaco per il centrodestra. Non ha spiegato cosa intende fare se il Mose non funziona - forse dà per scontato che se lo terranno in carico i cittadini contribuenti - ma, a riprova del suo impegno per la rinascita della città, ha aggiunto che vuole una fermata della TAV a Mestre e che «non cederemo» le grandi navi a Trieste. Infine, con perfetto piglio renziano, ha concluso l’elegante comizio rammentando al pubblico che «è ora di mostrare gli attributi».

Brugnaro è uno degli imprenditori/mecenati di riferimento dell’ex sindaco Cacciari, durante la cui amministrazione ha fatto molti “regali” alla città. Nel 2005 ha acquistato dal demanio i Pili, 40 ettari a Marghera, in posizione strategica di fianco al ponte della Libertà, per 5 milioni di euro. In quell’occasione, il comune ha rinunciato al diritto di prelazione sull’area, che il piano regolatore destinava a verde pubblico urbano, parcheggi e attrezzature ad uso collettivo, sostenendo di non avere le risorse per bonificare i terreni. In realtà, neanche Brugnaro intendeva usare soldi suoi, e nelle molte tavole rotonde sulla cosiddetta Green Economy, organizzate dalla Fondazione Pellicani (presieduta dal candidato alle primarie del PD sponsorizzato dallo stesso Brugnaro e da Cacciari) ha sollecitato l’intervento del comune, della regione e del governo per «rivedere il protocollo per le bonifiche» e ridurre gli oneri per i privati.

L’area non è stata ancora bonificata e dati certi sul suo inquinamento non sono disponibili. Secondo le inchieste svolte da Felice Casson, quando era magistrato a Venezia, nel sito dei Pili erano sono stati scaricati «300.000 metri cubi di gessi e fanghi industriali speciali e tossico nocivi».

A chi gli ha chiesto come intenda affrontare il suo palese conflitto d’interessi, Brugnaro ha spiegato che, se eletto sindaco, «non farà niente sulle sue aree»! E ha aggiunto di non avere conflitti d’interesse nemmeno a Venezia insulare dove, nel 2009, il comune ha concesso la gestione per 42 anni e due mesi, in cambio del restauro (esclusi i preliminari interventi di risanamento conservativo già effettuati dal comune), la Scuola Grande della Misericordia ad una società di cui il candidato sindaco possiede l’80% delle quote.

Con procedura “inusuale”, il comune ha inserito nella convenzione del 2009 il proprio impegno a sottoscrivere la fidejussione per l’accensione del mutuo necessario a finanziare i lavori. Per cinque anni, però, la società non ha neppure avviato i lavori, preferendo affittare per eventi il prestigioso complesso del Sansovino. Si tratta di un edificio alto 24 metri, il più alto nel sestiere di Cannaregio, con due grandi sale di 1000 metri quadrati, una dimensione inferiore solo a quella della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, molto appetibili per le cerimonie dei ricchi. Così, oltre ad ospitare alcuni eventi collaterali della Biennale, ha fatto da cornice al matrimonio di Zoppas, presidente della Confindustria del Veneto, a quello della figlia di un magnate indiano del ferro, alle feste della famiglia Asscher (import/export di diamanti). In queste occasioni, che hanno spesso comportato l’occupazione abusiva dei circostanti spazi pubblici, il comune ha concesso deroghe ai limiti dei rumori e degli orari. Non ha, invece, reclamato il pagamento da parte della società privata di penali e sanzioni per il ritardo nei lavori .

Nel 2013, durante l’amministrazione del sindaco Orsoni, alcuni consiglieri del M5S hanno inutilmente cercato di eliminare la fidejussione di 1 milione di euro dagli obblighi del comune e di ridiscutere l’intera convenzione contestando la natura “culturale” dell’utilizzo effettivo da parte di Brugnaro e soci (uno dei criteri per l’assegnazione della concessione era stata la qualità del progetto culturale, che valeva il 25% del punteggio complessivo) ma l’assessore Maggioni e il vicesindaco Sandro Simionato hanno fatto approvare il documento perché «arriva dalla passata amministrazione e il comune deve onorare gli impegni».

Nel 2014 sono finalmente iniziati i lavori. Ora si parla di un “moderno centro polifunzionale a servizio della città”, di uno “spazio pubblico a forte vocazione culturale, dove si alterneranno attività museali, mostre temporanee, sfilate di moda, degustazioni enogastronomiche, eventi fieristici o sportivi”, di “un contenitore flessibile dove esporre le eccellenze venete, dalle scarpe di Vicenza al vetro di Murano, per incrociare l’Expo”.

In città si dice che a suo tempo Brugnaro ha votato Cacciari ed ora Cacciari voterà per lui, riuscendo ancora una volta a far fuori Casson. Purtroppo non si tratta solo di odio personale, la posta in gioco è il mantenimento del sistema di potere messo in piedi venticinque anni fa con la prima elezione di Cacciari di cui ogni giorno emergono i costi e i danni per i cittadini. Stupisce, si fa per dire, che il commissario che lotta contro il deficit di bilancio non chieda un contributo di solidarietà anche ai mecenati e ai loro protettori. Preferisce tagliare servizi, aumentare tasse e svendere il patrimonio pubblico. Prima di andarsene, potrebbe almeno provare a vendere il Calatrava ai cinesi, ammesso che siano disposti a farsi imbrogliare.

Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio...>>>

Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio l’importanza della misericordia. Un giubileo, come è noto, è ispirato a principi che il cristianesimo ha ereditato dall’Antico Testamento. Secondo la narrazione biblica Mosè, al ritorno dall’esilio dell’Egitto, intorno al 1200 avanti Cristo, fu ispirato da Dio a stabilire delle leggi per il popolo ebraico che stava tornando in Palestina; tali leggi sono poi state rielaborate nei tre o quattro secoli successivi e sono contenute nel libro del Levitico. In particolare il capitolo 25 dispone che, nella settimana, un giorno ogni sette debba essere dedicato al riposo, al “non fare”: è il sabato degli Ebrei, la domenica dei cristiani, il venerdì dei musulmani. Un anno ogni 50 doveva poi essere celebrato come anno di totale riposo.
Nell’anno del giubileo, che cominciava con un solenne suono del corno, in ebraico jobel (da cui giubileo), la terra non doveva essere coltivata, doveva essere lasciata “riposare” anche lei; una norma che aveva precisi motivi ecologici perché la terra coltivata a lungo in maniera intensiva diventa meno fertile e recupera le sostanze nutritive perdute interrompendo per qualche tempo la coltivazione. Nell’anno del giubileo chi si era appropriato della terra altrui doveva restituirla perché, come Dio ricorda nel versetto 23, “la terra è mia” e noi siamo ospiti di un bene non nostro. Inoltre dovevano essere liberati gli schiavi, quelli che per povertà erano stati costretti a vendere se stessi e la propria famiglia, e i poveri potevano riscattare le case che avevano dovuto vendere.
Ha senso ricordare queste norme così antiche ai cristiani del ventunesimo secolo ? Una lettura teologica e insieme ecologica del Giubileo è contenuta in una “lettera pastorale”, intitolata La Terra è di Dio, pubblicata alla vigilia del giubileo del 1975, da Giovanni Franzoni, abate della basilica di San Paolo fuori le Mura di Roma e poi ripresa dallo stesso Franzoni nel libro Lasciate riposare la terra alla vigilia del successivo Giubileo del 2000. Ha senso eccome: guardate a che cosa è ridotta “la Terra di Dio”; nel nome di quello che Papa Francesco chiama “il dio denaro” le terre dei contadini e agricoltori poveri vengono espropriate per dedicarle a coltivazioni e allevamenti intensivi, da parte di grandi proprietari terrieri o di multinazionali, con l’effetto di trarre grandi profitti gettando nella miseria e nella fame le popolazioni locali, di impoverire la fertilità dei suoli e di aumentare l’inquinamento delle acque con concimi e pesticidi.
Guardate le terre devastate dall’assalto per la conquista di minerali o di combustibili, invase da montagne di scorie quando le miniere e i giacimenti non producono più e da cimiteri di rifiuti quando le fabbriche vengono abbandonate. Guardate come i terreni sono asfaltati dalla speculazione edilizia per costruire edifici e quartieri per le classi abbienti; guardate i quartieri ridotti a squallidi agglomerati di poveri, privi di servizi, sede di violenza, alle opere che alterano il flusso naturale delle acque e accelerano l’erosione del suolo.
Le ricchezze da restituire agli antichi proprietari, caduti in miseria, sono quelle accumulate attraverso le ingiustizie sociali, economiche e commerciali all'interno dei paesi ricchi e nei rapporti economici fra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Per non parlare poi dell’invito alla liberazione degli schiavi; gli schiavi del XXI secolo sono i lavoratori pagati con salari di fame, quelli privati del lavoro, le persone costrette a migrare in paesi che le respingono, sono le minoranze etniche e gli immigrati sfruttati e emarginati nei paesi che si dicono cristiani, le famiglie prive di una abitazione dignitosa. Questi sono i mali che dovrebbero essere rimossi da quella “misericordia” che il Papa invoca come motivazione dell’imminente anno santo.
Ma le nostre società pensano a tale evento in termini di soldi, a quei miliardi di euro che i milioni di “pellegrini” porteranno a Roma e in Italia, utilissimi per l’economia nazionale e, naturalmente, per le tasche di alcuni. La stessa città di Roma si appresta alla imprevista invasione con strade dissestate, tombini intasati, rifiuti da smaltire, periferie miserabili, un traffico congestionato e scadenti servizi pubblici di trasporto. Eppure l’anno santo potrebbe essere l’occasione per ripensare i rapporti fra gli esseri umani e la terra e le risorse della natura, beni comuni di cui non ci si può appropriare senza arrecare danni al prossimo e alla natura stessa. Davanti ai segni sempre più vistosi di impoverimento e di contaminazione dell’ambiente sarebbe necessario avere il coraggio di "non fare", di rallentare e interrompere il loro sfruttamento, di usarli con equità e nel rispetto delle popolazioni locali.
Il Giubileo potrebbe essere l’occasione per riconoscere le nuove schiavitù, per provvedere all’accoglienza degli stranieri e degli immigrati, per assicurare abitazioni decenti a chi ne è privo, per garantire salari giusti. Se non lo si vuole fare per misericordia, per quella “compassione per i miseri” a cui dovrebbe essere dedicato il prossimo Giubileo, sarà bene farlo per motivi egoistici, per disinnescare la violenza, interna e internazionale, che agita gli schiavi del XXI secolo; la giustizia è infatti l’unica premessa per la pace, come diceva, inascoltato, il profeta Isaia.
L'articolo è stato inviato contestualmente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Non dimentichiamo che la bellezza, sebbene non sia sufficiente a rendere la città adeguata ai bisogni dei suoi abitanti, è certamente un requisito necessario. Soprattutto i suoi spazi pubblici. Ecco una proposta per una piazza di Milano. La Repubblica, Milano, 16 marzo 2015

Molte piazze italiane di grande bellezza sono state ottenute «per forza di levare». Piazza della Scala è un caso esemplare. Figlia del progetto mengoniano della Galleria, di cui è la splendida conclusione a nord, è stata ricavata da demolizioni che hanno messo a diretto contatto Palazzo Marino (Galeazzo Alessi, 1553-58) e il Teatro della Scala (Giuseppe Piermarini, 1776-78). Alla sua configurazione ha dato un contributo importante Luca Beltrami a cui si deve, in successione, il restauro di Palazzo Marino, l’edificio della Banca Commerciale a nord e, infine, sul fronte meridionale, Palazzo Beltrami, oggi sede della Ragioneria comunale. Misura e dialogo civile tra gli edifici fanno l’ospitalità e la qualità architettonica del luogo. Un risultato a cui concorrono le aperture prospettiche di via Manzoni e via Verdi e la convocazione, a est, dello splendido fianco di San Fedele (Pellegrino Tibaldi, 1569-79). Ma non meno prezioso per l’equilibrio dell’insieme è il monumento a Leonardo da Vinci (Pietro Magni, 1872, originariamente destinato a piazza S. Fedele) che, con la sua presenza discreta, decentrata dal baricentro geometrico, e gli otto tigli che lo circondano, favorisce l’interazione fra gli organismi.

Il recente insediamento delle Gallerie d’Italia e del Cantiere del ‘900 nella vecchia sede riadattata della Banca Commerciale e nei connessi palazzi sette-ottocenteschi Anguissola e Brentani ha dato vita a un polo espositivo subito assurto a stella di prima grandezza nel sistema museale di Milano. Ne beneficia la piazza che vede accresciuta la vitalità culturale e i suoi valori civili.

Piazza della Scala è suscettibile di miglioramenti? Certamente (anche se, in una graduatoria degli spazi aperti pubblici a Milano bisognosi di interventi, questo sarebbe in fondo alla lista). Si vuole che il Teatro della Scala e le Gallerie d’Italia siano più integrati all’invaso della Piazza? Si può fare, ma senza mettere in discussione ciò che è già configurato in modo soddisfacente. Mi riferisco alla sistemazione operata da Paolo Portoghesi (1989-2000) che ha saggiamente reinterpretato l’impianto ottocentesco, ponendo fine alla triste vicenda che fino agli anni sessanta aveva ridotto la piazza a un orribile deposito di autoveicoli. Basterebbe eliminare l’assurdo parcheggio residuo a fianco della Scala e ridurre al minimo indispensabile il transito veicolare per via Case rotte e piazza Mattioli, proseguendo sul lato settentrionale, nei materiali e nelle cromie, il lavoro di Portoghesi, che sarebbe insensato disfare.

Un’attenzione particolare andrebbe riservata a piazza Mattioli, ridotta in condizioni penose anche grazie a BikeMi, il servizio pubblico di biciclette in condivisione del Comune che qui ha recentemente addossato una delle sue infilate di bici al nobile fianco di S. Fedele, come si trattasse di un retro. In questo spazio, a completamento dell’opera di Beltrami, Piero Portaluppi ha prodotto uno dei suoi lavori migliori dialogando con le preesistenze. Si tratta di rinsaldare quell’interlocuzione e farla lievitare. In altri termini è qui che si dovrebbe concentrare l’attenzione dei partecipanti al concorso d’idee promosso da IntesaSanPaolo e dal Comune di Milano: in questa sfida di fondare un luogo che della piazza ha ora solo il nome, facendone la prosecuzione della piazza maggiore. Raffaele Mattioli se lo merita.

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori...>>>

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori pronti ad accogliere con favore le “riforme” del governo. Merita tuttavia qualche ulteriore considerazione l'innovazione più singolare del progetto governativo: la chiamata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attribuisce anche la gestione di premi e incentivi (vere e proprie briciole per pochissimi) da elargire ai professori più meritevoli. Su Repubblica del 14 marzo Francesco Merlo ha tratteggiato una esilarante simulazione di quel che accadrebbe nella scuola italiana se questa norma dovesse essere approvata.

E' fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra “ di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore (Il preside dell'Istituto Tecnico Avogadro di Torino in Corriere della sera, 14 marzo). Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po' di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . E' evidente che l'idea del preside che chiama all'insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono: la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.

L'idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l'ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all'imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni. Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L'evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare.

L'enfasi che il ddl mette sulla figura del preside e sull'autonomia scolastica dovrebbe suscitare serie preoccupazioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dissoluzione di quella struttura pubblica che regolava la vita scolastica, con meccanismi impersonali di accesso all'insegnamento e si simula, per affermarla poi di fatto, una privatizzazione degli istituti. Non è più lo stato, in rappresentanza di tutti noi, che comanda, ma il preside, a sua discrezione. Il rapporto tra insegnanti e preside non è più una relazione tra colleghi, ma un affare privato tra un capo-azienda e i suoi sottoposti. Tale dissolvimento per il momento simbolico della scuola pubblica nasconde un altro elemento che scardina assetti storici consolidati: la sempre più spinta autonomizzazione dei curricula scolastici. Ogni scuola perseguirà il proprio modello e il proprio programma di studi. Ma la scuola italiana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di fornire agli italiani, emergenti da una secolare storia di localismi, di differenziazioni regionali, di diversità linguistiche, un comune fondo culturale, il minimo indispensabile di identità nazionale. Vogliamo che la scuola abbandoni tale compito? Bene, il presidente del Consiglio e le burocrazie ministeriali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno queste “riforme”, qual'è il modello di società che essi intendono perseguire.

Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l'efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché essa mette di fronte a due strade diverse che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all'altezza delle sfide che ci si parano innanzi.

Vogliamo una scuola che aiuti la formazione di una società nuova, più giusta e avanzata, che rielabori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cerchiamo di farla funzionare al meglio per rispondere ai bisogni presenti e immediati della società così com'è, con le sue gerarchie e squilibri? Nel primo caso è evidente che non basta più, alla scuola italiana, l'affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazionale. Oggi occorrerebbe fornire una più larga visione europea e mondiale. Uno dei compiti del riformatore dovrebbe essere quello di introdurre elementi di conoscenza cosmopolita nella formazione dei nostri studenti, che non possono certo esaurirsi nell'apprendimento della lingua inglese. Preparare i nuovi cittadini del mondo, ecco uno dei compiti da assegnare alla scuola del nostro tempo, mentre intorno a noi si scontrano storie e civiltà, ribollono guerre sanguinose dipendenti da ingiustizie e soprusi, incomprensioni e ignoranza. E per tale asse formativo i saperi umanistici sono irrinunciabili.

Ma oltre a quello civile e storico-politico c'è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la s cuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E' un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere. Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo.Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l' ignoranza dei più, oltre che per l'interesse egoistico dei pochi. L'attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l'aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”. Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» ( C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l'idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.

L'articolo è stato inviato contestualmente al manifesto

Le molte buone ragioni per cui chi ha compiti di governo ponga la propria azione innanzi tutto sotto il sigillo della legalità: ciò non sta avvenendo per quanto riguarda il piano paesaggistico toscano.

Caro Governatore,sono anni che le scriviamo e la mettiamo a conoscenza della devastazione delle cave, dell’inquinamento delle sorgenti, dell’impoverimento della biodiversità. Decine e decine di foto allegate alle nostre lettere a comprova del disastro ambientale che nessuno può negare. Decine di concessioni, peraltro autorizzate dal Parco, in cui i reati ambientali commessi dai concessionari vengono derubricati a reati “permissibili”: una vera contraddizione in termini.

I tagli e le ferite sono visibili, sempre, a tutti. L’inquinamento delle acque, periodicamente bianche per la marmettola, è stato anche riconosciuto dagli organi competenti, se per i fiumi Carrione, Frigido e Versilia è stata chiesta e ottenuta una proroga al 2021(!!!) “per conseguire il buono stato dei corpi idrici”, evitando in questo modo sanzioni dall’Europa.Aspettiamo nei prossimi giorni di vedere approvato in aula il frutto della scelta di alcuni “trasgressivi” (per usare un eufemismo), i quali, nonostante teoriche casacche politiche di destra e di sinistra, si uniformano a votare profonde modifiche ad un piano già approvato il 7 luglio. Se ci sarà il rispetto della normativa questo piano dovrà nuovamente essere aperto alle osservazioni di rito, perché è completamente snaturato rispetto alla versione passata in aula.

Quello che voglio portare alla sua attenzione, come cittadina, e che spiega il termine edulcorato di trasgressivi, è che le modifiche introdotte da costoro violano le leggi dello Stato: a partire dal Codice dei Beni Culturali, e a seguire le ricordo il principio di precauzione, le leggi sulla tutela dei siti Rete Natura 2000 (per le quali già l’Europa ha aperto un eu-pilot nei confronti della Regione), le leggi sulla tutela delle acque superficiali e carsiche (la nostra riserva del futuro) e per le quali si è stati costretti a chiedere deroghe fino al 2021.È una semplificazione alla Renzi questa che vediamo messa in atto, oppure è la vistosa e macroscopica messa in mora della democrazia?

Si è chiesto perché i concessionari fanno la voce grossa?Difendono pochi posti di lavoro o i loro smisurati guadagni (al nero) favoriti dall’inerzia dei governi regionali e dalla passività e dalla collusione delle amministrazioni locali?

In questi ultimi due anni la tassa che il Comune di Massa richiede ai concessionari di cave per ogni tonnellata di marmo in blocchi è raddoppiata: oggi siamo a 9,90 euro a tonnellata per marmo che ha un prezzo medio di mercato tra i 200 euro e 4.000 euro a tonnellata. Anche un bambino sarebbe in grado di capire che si consente a poche persone di guadagnare cifre mostruose. D’altra parte i Bin Laden hanno pagato alcune concessioni di Carrara 46 milioni di euro, euro intascati da quattro-cinque famiglie.< /br>< /br>Non crede che la devastazione sia frutto di un folle regolamento varato dalla Regione che consente per ogni tonnellata di marmo estratto che il 20% (25% nel Parco) sia marmo in blocchi e l’80% detrito?
Ci contestano la frase ad effetto che il marmo delle Apuane vada nei dentifrici, ma è evidente che gli amministratori regionali, oggi incuranti delle leggi, hanno volutamente consentito la devastazione a favore dei pochi che fanno carbonato di calcio. C’è addirittura una ferrovia dedicata che da Pieve San Lorenzo va allo stabilimento Kerakoll di Sassuolo e si consentono 100 passaggi di camion al giorno a Orto di Donna, in Val Serenaia (cioè nel Parco delle Apuane!) per alimentare il frantoio di Betolleto.
E’ troppo chiederle di modificare quel rapporto 20/80 che aveva senso in una società “preindustriale”, quando il marmo veniva cavato con le mine?
E’ troppo chiederle di ricondurre alla ragione quei selvaggi trasgressivi che calpestano i diritti dei cittadini per il guadagno di pochi?
E’ troppo chiederle come cittadina una tutela ambientale resa possibile semplicemente dal rispetto delle leggi?

L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra< /i>

Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare...>>>

Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare. Eppure quell’11 marzo di quattro anni fa, alle due del pomeriggio ora locale, un fortissimo terremoto nel Mare del Giappone, proprio davanti alle coste di Fukushima, ha provocato una delle più grandi tragedie industriali della storia e ha fatto crollare un mondo di affari e illusioni.

Il terremoto fece sollevare l’acqua marina in una onda alta 15 metri (tsunami, le chiamano) che ha invaso la terra ed è penetrata nella centrale nucleare della cittadina. L’acqua di mare ha allagato e interrotto il funzionamento delle pompe di circolazione dell’acqua di raffreddamento dei tre reattori in funzione; immediatamente sono intervenute le barre che fermano il flusso dei neutroni e la fissione nucleare. Per la mancanza di acqua i reattori però hanno continuato a scaldarsi per il calore liberato dal decadimento spontaneo delle diecine di tonnellate di materiali radioattivi, uranio, plutonio e prodotti di fissione, contenuti nel loro nocciolo che è fuso. Il calore ha provocato la formazione di idrogeno che è esploso distruggendo le strutture di acciaio e cemento contenenti i tre reattori con dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive.

I soccorritori si sono trovati davanti a rottami, aria, terreno e acque contaminati; ci sono stati episodi di coraggio e di sacrificio di operai e tecnici che si sono esposti ad alta radioattività per riattivare la circolazione dell’acqua dell’oceano in modo da disperdere almeno una parte delle sostanze radioattive nel grande mare, evitando conseguenze che avrebbero colpito un gran numero di abitanti dell’intero Giappone.

La fusione del nocciolo dei reattori è il grande pericolo temuto dai costruttori di impianti nucleari, un evento, considerato quasi impossibile e che invece si è verificato tre volte in 15.000 anni-reattore, il numero di anni di funzionamento per il numero dei reattori funzionanti, oggi circa 450. Infatti è successo nel 1979 in un reattore americano, senza contaminazione radioattiva esterna (la radioattività era stata trattenuta all’interno del reattore); poi è successo ancora nel 1986 nel reattore a Chernobyl in Ucraina, con incendio e liberazione di radioattività nell’aria; tale radioattività si era sparsa su parte dell’Europa (era arrivata anche nell’Italia settentrionale). In seguito a questo incidente, peraltro previsto dai movimenti antinucleari, in Italia si tenne nel 1987 un referendum che, a larga maggioranza, impose la cessazione delle attività nucleari in Italia.

Dopo Chernobyl è rallentata la costruzione di nuove centrali in tutto il mondo, ma la potente industria nucleare ha lentamente ripreso fiato; di due centrali, dichiarate ultrasicure, progettate in Francia è stata iniziata la costruzione in Finlandia e in Francia. La cosa sembrava così allettante che nel maggio 2008 il IV governo Berlusconi, appena insediato, annunciò di voler costruire anche in Italia centrali nucleari di “nuova generazione" capaci di "produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente". Ci furono accordi fra le società elettriche Enel italiana e Electricité de France, francese, e poi leggi e decreti che avrebbero dovuto regolare le localizzazioni delle future centrali e garantire la sicurezza attraverso nuove agenzie.

Nel 2010 il movimento antinucleare depositò una richiesta di referendum per l’abrogazione di tali leggi; contro il referendum, fissato per il giugno 2011, nel gennaio-febbraio dello stesso anno ci fu una forte propaganda filonucleare; nel marzo la catastrofe di Fukushima dimostrò ancora una volta la fragilità della tecnologia nucleare. L'alta partecipazione al referendum del successivo giugno e la grande maggioranza antinucleare fecero tramontare del tutto, di nuovo, il sogno del nucleare italiano. Per fortuna, perché oggi i famosi reattori francesi ultrasicuri sono ancora da completare e non si sa quando entreranno in funzione.

Comunque le industrie nucleari non mollano, sostenendo che solo il nucleare può far diminuire i pericoli dei mutamenti climatici dovuti al crescente uso di carbone e petrolio e può far fronte ad un aumento del prezzo del petrolio; l’agenzia internazionale per l’energia ha di recente previsto che possa essere necessaria, da oggi al 2050, la costruzione nel mondo di altre 400 centrali nucleari: una previsione assurda sul piano della disponibilità delle risorse naturali, della sicurezza dell’ambiente e ancora più sul piano economico, soprattutto davanti al trionfale cammino delle fonti energetiche rinnovabili.

Queste brevi considerazioni si propongono di dimostrare quanta cautela occorra nelle scelte dei governi in materia di energia e di materie prime; molte tecnologie, dietro promesse meravigliose, nascondono spesso delle trappole da cui poi è difficile uscire. E’ il caso delle fonti di energia fossili, le cui riserve non sono illimitate e il cui crescente uso provoca inquinamento locale e contribuisce ad aggravare i mutamenti climatici a livello planetario. E’ il caso dell’energia nucleare che, anche quando non serve più, lascia delle scorie radioattive di cui è difficile liberarsi per secoli; lo dimostra il dibattito appena cominciato in Italia sul deposito delle diecine di migliaia di tonnellate delle scorie radioattive presenti nel nostro paese. Da qui l’importanza, a livello parlamentare, di un controllo tecnico-scientifico delle prevedibili conseguenze ambientali e sociali di scelte che, a prima vista, sembrano tanto promettenti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è Piazza San Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianeta sono ... >>>

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è PiazzaSan Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianetasono di quelli che se ne appropriano.

1. LeProcuratie Vecchie torneranno a vivere
(La Nuova Venezia, 6 marzo 2015)

Il commissario straordinario Zappalorto ha firmato l’accordo con le AssicurazioniGenerali relativo alle destinazioni d’uso consentite nel complesso delleProcuratie Vecchie, una vicenda che si trascinava da molti anni (vedi PiazzaPulita su eddyburg). La parte già adibita a uffici e attività commerciali non subiràmodifiche, mentre nella parte del complesso attualmente libera, le Generali potranno destinare “il 70%degli spazi per scopi di interesse generale a carattere culturale, scientifico,di alta formazione, di tutela della salute e dell'ambiente, di sostegno socialeo per la promozione dell'immagine della Città di Venezia. Il restante 30% potràessere destinato ad uso privato come uffici o attività compatibili con lavocazione storico-artistica dell'edificio e con la sua ubicazione nell'areamarciana”.

Come corrispettivo a queste alquanto vaghe prescrizioni, al comuneverranno lasciati 640 metri quadri incomodato gratuito per vent’anni e sarà versata una tantum la cifra di 3milioni di euro. Si tratta di un accordo più svantaggioso per il comune perfinorispetto a quello previsto dal precedente sindaco Orsoni, che chiedeva 3000 metri quadri per trent’anni, ma ilcommissario è entusiasta perché “il leone delle Generali torna a San Marco conun progetto di rilancio della presenza a Venezia in un contesto architettonico…dove tornerà a pulsare l'eccellenza di un grande gruppo che arricchiràulteriormente il prestigio e il valore di tutta l'area marciana”. Ilcommissario si dimentica di dire che tale valore verrà incamerato dalleGenerali, che hanno accortamente aspettato che la città fosse sguarnita diun’amministrazione regolarmente eletta prima di sottoscrivere l’accordo.

Nel marzo 2014, le Generali avevano occupato la piazza con una installazione, un grande paio di occhiali che “sono la metafora dell'invito a guardare il presente e il futuro con ottimismo, perché vedere la vita con positività è il primo passo per migliorarla". Un anno dopo, possono rallegrarsi di aver visto bene.

2. Mongolfiera Vuitton a San Marco senza permessi: tre indagati

(Corriere del Veneto, 14 febbraio 2015)

L’articolo si riferisce a un episodio del giugno 2013. quando una mongolfiera è atterrata in piazza per girare uno spot pubblicitario della ditta Vuitton. Ora è emerso che nessuno aveva i permessi necessari (sopra Venezia non si può volare, se non con specifiche autorizzazioni). Il magistrato ha emesso tre decreti penali per un importo di 500 euro ciascuno (meno del prezzo di una borsa Vuitton!). Secondo il giornalista del Corriere, sul piano giudiziario è “una vicenda di non grande conto.

Ora spetterà ai tre indagati decidere se fare ricorso o pagare la piccola multa”… ma è più seria sul piano mediatico, perché vede “uno dei marchi di punta della moda mondiale, tirato in ballo per un banale permesso mancante all’atterraggio in uno dei salotti più belli del mondo”.

3. Piazza San Marco a pagamento e con prenotazione

(La Nuova Venezia, 2 marzo 2015)

E’ l’idea lanciata da un “consulente turistico” partendo dall’assunto che “il numero chiuso a Venezia non è praticabile, oltre che per ovvie difficoltà, per la libera circolazione dei cittadini prevista dalla normativa internazionale, ma sarebbe invece possibile attuarlo, in determinate circostanze in Piazza San Marco, considerandola per quello che ormai è: un’area museale e monumentale”.

La proposta è stata recepita con interesse dai candidati sindaci che, senza soffermarsi sui dettagli tecnico-giuridici – ci saranno recinzioni, tornelli, vigilantes? – probabilmente pensano che se la piazza è “ormai è un’area museale”, una volta eletti, la potranno privatizzare, portando a compimento il processo di cessione delle cosiddette risorse culturali che negli ultimi mesi, durante la gestione commissariale, ha avuto una straordinaria accelerazione, inclusa la stipula di una convenzione tra i musei civici di Venezia e la Fondazione del Sole 24 Ore. La fondazione, pagando 80 mila euro per 4 anni (circa 600 euro al giorno), gestirà le mostre d’arte, tenendosi tutti gli incassi, e potrà anche organizzare travelling exhibitions, cioè portare in giro i quadri dei musei veneziani. Al comune, cioè ai cittadini contribuenti, restano le spese di guardiania e manutenzione delle sedi.

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti...>>>

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti, gravissima violazione della norma che li destinava solo alla realizzazione dei servizi primari e secondari? Dimenticato, se non da qualche milanese, il nome del meritorio autore, Pietro Bucalossi. A quel tempo ci rimanda Paolo Berdini (in eddyburg 19 febbraio, da una pubblicazione esterna del 17). Anno, 2001; nome e co­gnome del primo responsabile, Franco Bassanini ministro del governo Amato e presunto esperto amministrativo di centrosinistra. Quanti altri responsabili in seguito, se in quasi tre lustri numerosi governi si sono succeduti perdurante fino a oggi il disimpegno generale dinnanzi allo scandalo, salvo le poche voci isolate risonanti qua e là, come in Eddyburg? E ora si sentono giustificati a causa della crisi e dei conseguenti buchi scavati nei bilanci locali dai tagli dei trasferimenti statali. Eppure certi disastri c’entrano poco con la crisi; risalgono a indebitamenti cresciuti lungo anni di gestione negligente e scorretta esercitata da amministrazioni precedenti alle attuali. Ne elenca e commenta alcune Berdini, a cominciare dal caso clamoroso di Roma. Aggiungo Milano la cui giunta comu­nale, non credo accusabile di mala gestione economica, ha dovuto caricarsi dei debiti accumulati nelle due tornate precedenti dominate dal centrodestra, Gabriele Albertini e Letizia Brichetto Moratti i sindaci.

La crisi comincia nel 2008. Dunque dal 2001 per cinque anni l’opposizione del centro sinistra ha taciuto, come se nel suo insieme approvasse le conseguenze laceranti verso un territorio già ridotto a brandelli. La voce, benché flebile, del Comitato per la bellezza lo certifica: quel tipo di finanziamento è un duro colpo alla “speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano”. La conquista del governo da parte del centrosinistra suscita in noi, come nel romanzo di Dickens, “Grandi speranze”. Ma non conoscevamo a fondo la vocazione totalmente centrista se non destrorsa dei partiti che lo costituivano. I governi “nostri” (per modo di dire), invece di cancellare la “porcata” bassaniniana, non solo la confermano ma con la legge finanziaria del 2007 la protraggono di tre anni. Nel seguito, dal 2010, nessun politico accenna al problema; se lo facesse “perderebbe il posto”. Infatti la crisi si spande anche sul settore edilizio riducendone l’occupazione, mentre i Comuni, intendo quelli bene amministrati, si arrabattano fra la diminuzione delle risorse finanziarie a meno di aumentare le tasse già alte e la contrarietà a ridurre le prestazioni dei servizi sociali o a lasciarle in mano ai privati, si sa inaccessibili alle famiglie più bisognose.

Eppure non bisogna arretrare dalla posizione contro l’impiego perverso degli oneri. E, insieme, dire chiaro che la diminuzione delle opere edilizie di ogni genere in un paese distrutto dal costruire costruire costruire, come una rapallizzazione globale, sarebbe il principio da rivendicare e poi da applicare (non c’entra qui la ”decrescita felice”). Gli edifici giunti a tale insensata numerosità, dappertutto, da lasciarsi alle spalle enormi scie di costruzioni vuote, si pensi ai famigerati capannoni, agli uffici nelle grandi e medie città, alle seconde terze quarte case (intanto continuavano a mancare le case popolari pubbliche); le infrastrutture di trasporto tanto più inutili quanto più tronfie, si pensi fra una miriade di casi alla mai abbastanza vituperata, per eccesso di assurdità, TAV Torino Lione, o alla nuova autostrada Bre-Be-Mi, ottima per veloci corse coi pattini a rotelle, tanto è sicura stante l’assenza di traffico motoristico (intanto era trascurato e tagliato il fitto e indispensabile tessuto minore, specialmente quello ferroviario, una volta vanto della nazione): tutto questo è materia del nostro tormento per aver perso tante battaglie urbanistiche pur aspramente combattute, è materia inoltre della vergogna di troppi, istituzioni partiti e persone, per poterli elencare qui e riassumerne forse per l’ultima volta le malefatte.

Ricordo la crisi edilizia del 1965. La congiuntura, estesa a tutto il territorio nazionale, fu quella di un settore industrialmente arretrato in cui per due decenni avevano imperversato gli speculatori sulle aree fabbricabili e no, le nuove immobiliari, gli imprenditori di ogni genere, le imprese di costruzioni: tutte aziende e personaggi che avevano fatto guadagni colossali in regime di bassi salari e sfruttamento di immigrati, sottraendo capitali agli investimenti produttivi. Tuttavia, temendo che la pacchia finisse, si lamentavano cercando di incolpare una legge urbanistica che non c’era, ferma al progetto Mancini, il quarto dopo i tentativi di Zaccagnini, Sullo e Pieraccini, peraltro dimenticato da mesi nei recessi del ministero. La verità era che si era costruito troppo, malamente, brutalmente, secondo l’obbiettivo di moltiplicare e intrecciare rendita e profitto il più rapidamente possibile.

Oggi, la crisi generale sembra comprendere inevitabilmente un settore che invece, anche senza questa situazione, doveva flettere perché, come ancora Berdini ci ricorda, “abbiamo costruito troppo”, “abbiamo il doppio dell’urbanizzato” rispetto ai paesi europei a settentrione. Insomma, indipendentemente dall’indecente, benché talvolta forzoso impiego improprio degli introiti da concessioni di costruire, da tempo sindaci e giunte approfittano dei loro enormi poteri decisionali e della generale debolezza del Consigli (conseguenza della radicale riforma voluta da destra e sinistra poco meno di vent’anni fa), poi degli ulteriori poteri trasferiti dalle Regioni ai Comuni in tema di paesaggio, per dispensare concessioni edilizie che distribuiscono ingiuste ma apprezzate, da essi stessi, extra-rendite. Ad ogni modo troppi sindaci hanno mostrato una tale propensione a edificare indistitamente il territorio che certe lacrime per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio sono sospette. Un’infinità di episodi denunciati anche in Eddyburg hanno rivelato il loro fastidio verso gli strumenti costituzionali o consuetudinari o culturali atti a difendere il territorio (il paesaggio) dagli immancabili aggressori: a curarlo, a conservarlo per le generazioni future.

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Stupisce un po' osservare oggi, nel campo della sinistra, la tiepidezza politica e soprattutto la flebile mobilitazione organizzativa che accompagna una rilevante iniziativa politica. Mi riferisco alla raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale, al fine di cancellare l'introduzione del principio di “pareggio di bilancio” nella nostra Costituzione. Si ricorderà che il 22 settembre 2014 un comitato promotore, composto da giuristi come Stefano Rodotà e Gaetano Azzariti, da Maurizio Landini, da parlamentari di Sel, Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, e del PD, Pippo Civati e Stefano Fassina, ha depositato la proposta di legge in Cassazione.
Da allora, il dibattito su quel tema è stato languente e soprattutto non si è vista l'attivazione dei comitati per un ampio coinvolgimento dei cittadini.A fine gennaio Sel l'ha rilanciato a Milano, con il convegno Uman Factor (perché in inglese, francamente, non si capisce), ma il fuoco della mobilitazione stenta ancora ad accendersi. Eppure si tratta di una iniziativa politica di prima grandezza, non dissimile per molti aspetti, dalla battaglia per l'acqua bene comune. Intanto per la potenziale ampiezza del consenso che essa può raccogliere. Il fallimento delle politiche di austerità, la devastazione sociale e l'arretramento sul piano dei diritti che esse stanno generando in Europa appare sempre più evidente alla maggioranza dei cittadini. E le forze che sanno opporsi in maniera credibile alla stupida ferocia di questa politica, alla cultura che la sorregge, raccolgono consensi da ogni parte. Dicono qualcosa a tutti noi il successo di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Ma dovrebbe dirci qualcosa anche l'avanzata e la proliferazione delle formazioni di destra, che si alimentano di una politica antiausterità, anche se antieuropea. E' evidente ormai che i governi in carica non rappresentano l'opinione pubblica dei paesi dell'Unione, si reggono sull'astensionismo di massa e sulla dispersione delle opposizioni.
Ma togliere dalla Costituzione lo stupido sfregio del principio del pareggio di bilancio ha per noi un significato che va al di là del piano costituzionale e dei diritti. Quella norma, inserita il 20 aprile del 2012, rappresenta una scelta pianificata del declino italiano. Una scelta che appare insensata già alla luce delle caratteristiche storiche del capitalismo italiano. Chi conosce le vicende della nostra industrializzazione sa quale ruolo strategico ha dovuto giocare la mano pubblica, non solo nell'imporre regole e istituzioni, ma nel supplire all'assenza di capitali di rischio in settori strategici per lo sviluppo del paese.
E non si tratta solo delle antiche nostre debolezze. Oggi, dopo i colpi della crisi, viene imposta una riduzione sistematica della spesa pubblica che paralizza comuni e regioni, impedisce investimenti, riduce la produzione di ricchezza, deprime la domanda interna, trascina in un circolo vizioso l'intera macchina economica. Limitare così pesantemente il ruolo economico dello stato in una società di capitalismo maturo denuncia una strategia di pianificata autoemarginazione dell'Italia e dell'Europa. Al confronto il modello Usa, da un punto di vista strettamente capitalistico, appare più lungimirante e avanzato.Come ha mostrato con dovizia documentaria Mariana Mazzuccato ne Lo stato innovatore (Laterza), il potere pubblico gioca in quel paese un ruolo strategico di prima grandezza in investimenti nei quali il capitale privato non si avventura. Esso costituisce la vera avanguardia dell'innovazione tecnologica. Senza dire che lo stato americano ha continuato a investire generosamente in formazione e ricerca mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, si è marciato e si continua a marciare in senso contrario.
Ma che cosa dire, d'altronde, del modello di accumulazione originaria in atto in Cina da decenni, dove è lo stato che guida le danze? E potremmo fare un lungo elenco di paesi emergenti in cui lo sviluppo economico è promosso con intelligenza strategica dal potere pubblico. L'Europa no. E' ossessionata dal debito, perché ragiona con l'animo strozzino dei banchieri tedeschi. Confida nel fatto che i conti in ordine attireranno investimenti dall'esterno e che la bassa domanda interna, dovuta a bassi salari e disoccupazione, sarà compensata dalle esportazioni. Ma tutti i paesi del mondo sperano nelle esportazioni e schiacciano i propri lavoratori per poter competere tra di loro nel mercato mondiale, col risultato di ordine e prosperità generale che oggi è sotto gli occhi di tutti. Senza dire che paesi come l'Italia, la Spagna, la Grecia, ecc i conti in ordine, con questo schema, non possono metterli, senza distruggere la società e alla fine gli stessi conti.

Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?

Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.

Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione in questi ultimi giorni nello scontro che ha contrapposto il governo greco di Tsipras ai rappresentanti dell'UE. Con un fuori programma che avrebbe dovuto trovare qualche voce politica capace di rivendicare la dignità degli stati sovrani.Vedere il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schäuble, ringhiare come fosse il padrone d'Europa, non è stato uno spettacolo edificante. Ma ancor meno edificante è stato vedere che nessun capo di stato o di governo ha osato ricordare al ministro che l'Unione ha i suoi organismi, in rappresentanza di ben 28 paesi. In quelle trattative abbiamo visto non solo due idee di Europa, ma anche il muro che in Germania e a Bruxelles intendono tenere alto contro l'avvenire del nostro paese.
Dopo l'approvazione del jobs act, la grancassa mediatica si è messa in moto e il capo dei prestigiatori italiani amplifica i suoi trucchi per rappresentarci le magnifiche sorti che ci attendono. Non lasciamoci abbacinare. I problemi sociali degli italiani resteranno gravi a lungo, anche se ci sarà qualche segno di ripresa economica.La mutilazione del ruolo dello stato imposta dal pareggio di bilancio è un macigno su cui Renzi non potrà danzare.

Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa ...>>>

Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della contraccezione. Forse avendo ancora davanti agli occhi la situazione demografica dei paesi appena visitati, il Papa ha risposto: «Io credo che il numero di tre [bambini] per famiglia, che lei menziona, secondo quello che dicono i tecnici, è importante per mantenere la popolazione. Tre per coppia…. Per questo la parola-chiave per rispondere è quella che usa la Chiesa sempre, anch’io: è ‘paternità responsabile’... Alcuni credono che – scusatemi la parola – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli. No. Paternità responsabile».

Questo breve scambio di parole ha avuto varie reazioni nel mondo cattolico. Alcune persone hanno rivendicato la gioia e virtù delle famiglie numerose; altre hanno ribadito il divieto dell’uso di tecniche di contraccezione, al di fuori dell’astinenza dei coniugi dai rapporti sessuali nei periodi di fertilità femminile. Il concetto di “paternità responsabile” risale all’enciclica Humanae vitae emanata dal Papa Paolo VI nel 1968, nel pieno di un vasto dibattito internazionale su uno degli aspetti centrali dell’ecologia: il ruolo della crescita della popolazione sull’impoverimento delle risorse naturali e sul degrado ambientale.

Il problema è stato trattato per la prima volta in un famoso libretto, Saggio sulla popolazione, pubblicato anonimo da Thomas Malthus (1766-1834) nel 1798. Davanti alla constatazione che la popolazione povera che stava affollando le città industriali inglesi aumentava più rapidamente di quanto aumentasse la produzione di alimenti, Malthus contestò l’assegnazione di piccoli contributi alle famiglie povere, sostenendo che non era giusto spendere soldi pubblici per aiutare persone che mettevano al mondo figli senza essere in grado di assicurargli almeno il cibo.

Il dibattito sui rapporti fra popolazione e “cibo” continuò per tutto l’Ottocento e poi nel Novecento. Alcune comunità cristiane erano più disponibile ad un controllo dell’aumento della popolazione mentre la parte cattolica era più intransigente nella interpretazione letterale del ventottesimo versetto del primo capitolo della Genesi, in cui Dio ordina all’uomo e alla donna: ”Crescete e moltiplicatevi”. Un imperativo che era comprensibile per il popolo ebraico, poco numeroso in un paese abitato da numerosi nemici, ma che pone problemi economici e anche pratici davanti allo spettro della scarsità di alimenti, di spazi coltivabili, di minerali e fonti di energia, il “cibo” di una società moderna, richiesti da una crescente popolazione mondiale.

Il problema si fece ancora più acuto dopo la seconda guerra mondiale; un mondo (di 2,3 miliardi di persone nel 1945), stremato dalla guerra affidava ai figli il proprio futuro. Il “pericolo” di un aumento della popolazione, soprattutto dei poveri e dei paesi sottosviluppati, fu denunciato dall’ecologo William Vogt (1902-1968) nel libro La via per la sopravvivenza del 1948 e, nello stesso anno, dal libro Il pianeta sovraffollato del biologo Henry Fairfield Osborn Jr. (1887-1969). Nel 1954 fu annunciata la scoperta della “pillola”, messa in commercio nel 1960, che consentiva rapporti sessuali senza il concepimento di figli ad offriva un facile ed economico mezzo per quella limitazione delle nascite auspicata nei libri, entrambi del 1966, di Paddock: Fame ! 1975, e di Paul Ehrlich: La bomba della popolazione.

L’economista cattolico britannico Colin Clark (1905-1989) reagì stizzosamente a questa ondata di neomalthusianesimo americano sostenendo, in un saggio del 1967, la (peraltro improbabile) tesi che la Terra potrebbe sfamare diecine di miliardi, anche una quarantina, di abitanti. In questa atmosfera (la popolazione mondiale era già arrivata a 3,5 miliardi di persone) fu emanata l’enciclica Humanae vitae che, nel paragrafo 10 precisa: «La paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».

I doveri verso la famiglia comprendono evidentemente quello di decidere il numero dei figli in modo da assicurargli delle condizioni decorose di vita, di istruzione, di salute, tutte cose che inevitabilmente comportano l’accesso a sufficienti alimenti, ad acqua pulita e ad abitazioni igieniche. A loro volta questi “beni” richiedono prodotti agricoli, cemento, ferro, energia, ottenibili impoverendo le ricchezze della natura e generando alterazioni del territorio e inquinamenti. E’ un dovere “verso la società” regolare la procreazione (e i consumi individuali) in modo da assicurare al “prossimo”, agli abitanti del pianeta, che oggi sono ormai più di 7 miliardi, condizioni dignitose di vita e di salute e limitati danni ambientali.

D’altra parte la limitazione delle nascite provoca un aumento, in proporzione, degli anziani, la parte più fragile della popolazione verso cui sorgono altri doveri. E neanche una società stazionaria, in cui siano più o meno uguali la natalità e la mortalità, proposta da alcuni, può durare a lungo essendo destinata al declino, con sollievo, forse, dell’ecologia, ma con quale destino per la nostra specie ? Un bel problema, per la politica di oggi e per le generazioni future, a cui sarà il caso di cominciare a pensare.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

rcipelago Milano dell'economista dei trasporti Marco Ponti. Dal facebook dell'urbanista Sergio Brenna. 17 febbraio 2014, con postilla

Marco Ponti nel suo intervento sul n. 7 di Arcipelago Milano "pontifica" sull'eliminazione dei vincoli all'uso edificatorio dei suoli come l'eliminazione dei vincoli al "libero" mercato delle abitazioni. Il passo successivo è, ovviamente, che su quei suoli ogni proprietario/imprenditore sia libero di costruire con le destinazioni, quantità e altezze più confacenti alle proprie "libere" aspettative di mercato. In Italia i risultati li abbiamo visti in atto nelle città realizzatesi negli Anni Cinquanta-Sessanta tra la ripresa economica post-bellica e la la "legge Ponte" 765/68, e ancora ne soffriamo le conseguenze.

Certo anche l'idea del tendenziale azzeramento del consumo di nuovo suolo, altrettanto ideologica e in voga quanto il neoliberismo economico-urbanistico, rischia spesso di rovesciarsi nella promozione di spropositate densificazioni edificatorie nel riuso di aree già urbanizzate.

Giuseppe de Finetti nel 1946, riflettendo sul tema "Sulle aree più care case alte o case basse?", scriveva: "La manìa delle grandi altezze rientra nella manìa del "Kolossal" così caratteristica negli sviluppi moderni, nella megalomanìa moderna. Non la grande altezza dobbiamo desiderare nel caso di costruzioni sulle aree urbane più care, ma "la giusta altezza"; e questa va deterrminata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.(...) La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte nuove iniziative edilizie che per essere di mole assai minore (dell'Empire State Building) non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irreparabile insulto al volto delle nostre città."

La "giusta altezza", dunque, ma anche "la giusta quantità edificatoria" e "la giusta localizzazione": e a chi spetterebbe stabilirle? Non certo al singolo proprietario/imprenditore, che perseguendo legittimamente il proprio lucro di mercato, si è dimostrato non in grado di stabilirne i limiti. Già la Legge Urbanistica del 1942 e poi il disegno di legge Sullo del 1963 proponevano questa soluzione: approvazione pubblica di un Piano Generale di urbanizzazione, facoltà dei privati di darvi attuazione singola o consorziata e, in caso di inerzia, esproprio a prezzi agricoli, urbanizzazione pubblica, riassegnazione a privati dei lotti edificabili al costo conseguente. Difficoltà belliche, sforzi ricostruttivi, opposizioni politico-ideologiche le fecero fallire entrambe, e forse non è opportuno oggi riproporle tal quali. Ma almeno la nostalgia del "glorioso" liberismo urbanistico Anni 50-60, quello vorrei proprio potermelo risparmiare e se proprio devo sposare una visione economica, vorrei poter essere almeno keynesiano!

postilla

Non è facile comprendere se in Marco Ponti, nel suo articolo per Arcipelago Milano, abbia preso la mano il gusto del paradosso, oppure se sia davvero convinto di quello che ha scritto. Se si dovesse escludere la prima ipotesi, allora bisognerebbe ritenere che Ponti ha una visione veramente distorta della città, e una visione molto neoliberista dell'economia. Intanto, sembra pensare che la città, l'habitat dell'uomo, sia composto soltanto di case (e naturalmente di strade, ferrovie, tram, metropolitane e le altre simili cose di cui è maestro. Il che è palesemente una follia, e non è ai frequentatori di
eddyburg che si debba argomentarlo. Che poi il suo pensiero economico si sia ridotto a Milton Friedman e ai Chicago boys, dimenticando non solo il filone Adam Smith-David Ricardo-Karl Marx, ma perfino quello dei liberisti alla Luigi Einaudi è cosa che può dispiacere, ma è nello Zeitgeist. Speriamo che, su un altro terreno, non invochi per l'Italia, scavalcando o anticipando Renzi, un altro Pinochet.

Cari cittadini che votate PD,
in questi giorni il partito in cui avete riposto le vostre speranze di un futuro migliore ha imposto nella discussione alla Camera sulla revisione costituzionale tempi ristretti come per un decreto legge: la Carta costituzionale trattata alla pari di un provvedimento di necessità e urgenza da liquidare alla svelta.
A questa obiezione i dirigenti del PD replicano in due modi. Sostengono in primo luogo: sono anni che se ne discute e ormai è l’ora di concludere. In realtà ha discusso solo, e male, il Parlamento, ma nel paese il tema è ignoto alla maggior parte dei cittadini, che non sono stati chiamati a ragionarne nemmeno dai loro stessi partiti. Voi stessi non siete mai stati convocati dal PD in assemblee cittadine; l’argomento è tabù per voi e appannaggio solo dei parlamentari. Se voi aveste voluto rovesciare le priorità e chiedere al PD di occuparsi prima di tutto della crisi economica e della mancanza di lavoro non avreste mai avuto la sede pubblica per farlo.
In secondo luogo il PD ribatte che, alla fine, la maggioranza ha il diritto di vedere realizzati i propri progetti e non può farsi soffocare dall’ostruzionismo delle opposizioni. Qui c’è la mistificazione più grave. Il PD ha l’attuale maggioranza dei seggi alla Camera solo a causa del mostruoso premio previsto dal Porcellum per chi prevale, sia pure di poco, nella competizione elettorale. E’ ora di ricordare che il PD ha preso nel 2013 circa il 26% dei voti. Ha prevalso a fatica sul Movimento Cinque Stelle, ma la sua maggioranza di voti ricevuti è poco più di un quarto dei voti scrutinati. Peggio ancora: poiché i non votanti sono stati circa il 40% degli aventi diritto al voto, la maggioranza del PD calcolata sulla totalità dei cittadini con diritto di voto è ancora più bassa: un’autentica minoranza. Che però col premio diventa maggioranza nelle aule parlamentari.
Ora questa falsa maggioranza ripete di continuo che sono necessarie le riforme. Non per migliorare le condizioni dei cittadini ma per cambiare le istituzioni: la riforma del Senato e la legge elettorale. La prima viene ritenuta necessaria perché il nostro tempo europeo esige rapidità e richiede il passaggio da due Camere legislative a una sola. La seconda è richiesta anche dalla Corte Costituzionale che ha giudicato in buona parte incostituzionale la legge elettorale, il Porcellum con cui abbiamo votatole ultime tre volte, 2006, 2008 e 2013.
Ma in realtà le riforme in discussione non risolvono affatto i due problemi.
Invece di abolire il Senato e passare direttamente a un sistema monocamerale si inventa un Senato posticcio e contraddittorio. Non è eletto dai cittadini ma ha potestà legislative. E’ dotato di poteri rilevanti (vota il Presidente della Repubblica, concorre a modifiche costituzionali) ma è composto da soggetti nominati dai consigli regionali. In nome della lotta ai costi della politica è ridotto dai 315 attuali a 100 senatori, ma alla Camera lo stesso criterio non vale: resta composta da 630 deputati. Il motivo è semplice: al contrario del Senato, alla Camera il premio di maggioranza garantisce, come si è visto, una maggioranza certa, anzi sproporzionata in rapporto ai voti ricevuti, quindi i deputati dovevano essere tenuti buoni.
Invece di mandare al macero la legge elettorale attuale se ne fa una copia che ne mantiene alcuni insidiosi aspetti incostituzionali. I capilista saranno bloccati e ciò comporta che circa due terzi dei parlamentari saranno nominati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori. L’enorme premio di maggioranza renderà diseguale il voto dei cittadini: la minoranza più grossa uscita dalle urne avrà 340 deputati, tutte le altre minoranze dovranno dividersi i restanti 290. Chi voterà per la prima conterà molto di più di chi voterà per le altre.
Al confronto col Porcellum c’è un pericoloso peggioramento: il premio di maggioranza andrà non a una coalizione ma a un solo partito. Quindi la più grossa delle minoranze, divenuta falsa maggioranza, avrà il dominio assoluto alla Camera, ma a sua volta sarà dominata da chi avrà avuto il potere di nominare chi sarà stato eletto. Il risultato finale sarà una falsa maggioranza di ubbidienti al servizio di chi li ha fatti eleggere.
La sovranità popolare sarà ridotta alla scelta, ogni cinque anni, di un vincitore telegenico che diventerà dominatore assoluto. Egli infatti disporrà del potere di esigere che i disegni di legge del governo vengano votati entro sessanta giorni senza emendamenti. Tutte le attività parlamentari, di commissione e di aula, avranno funzione servile. La falsa maggioranza parlamentare avrà poi la possibilità di eleggere da sola il Presidente della Repubblica e plasmare la Corte Costituzionale e potrà così impadronirsi dei residui strumenti di controllo.
A ciò si aggiunge un colpo ulteriore: le possibilità di partecipazione diretta dei cittadini alla politica sono ora rese più difficili perché le firme da raccogliere per le leggi di iniziativa popolare passano da 50.000 a 150.000, quelle per i referendum da 500.000 a 800.000: i pochi padroni della politica vogliono essere sicuri di non essere disturbati.
In sintesi, le due riforme insieme cambieranno non solo la forma di governo ma anche la forma di Stato: si passa di fatto dalla repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale. Peggio: sarà un presidenzialismo sgangherato, del tutto privo degli incisivi strumenti di controllo cui è assoggettato, per esempio, il presidente degli Stati Uniti.
Cari cittadini che votate PD,
per venti anni abbiamo lottato, anche insieme a voi, contro il disegno del centrodestra di modificare la Costituzione e sottomettere così il Parlamento alla volontà del governo. E ci siamo riusciti quando nel 2006 la volontà popolare ha bocciato la sua riforma della Costituzione. Ora quel programma del centrodestra è assunto in pieno e perfino aggravato dal PD.
Un partito consapevole che la sua maggioranza è frutto di una legge elettorale incostituzionale dovrebbe astenersi dal toccare la Costituzione e dedicare tutte le sue energie ad affrontare e risolvere i più gravi problemi del paese. I principi più luminosi della Costituzione sono ben lontani dall’essere realizzati: la Costituzione attende ancora di essere attuata. Il Pd invece la stravolge con l’obbiettivo esplicito di attribuire a chi vince le elezioni, anche per un solo voto, un potere illimitato che nemmeno nei suoi sogni più ottimistici Berlusconi aveva immaginato per sé. Ora si oppone a un disegno che gli è sempre piaciuto fino a pochi giorni fa, perché si è convinto che quel potere tocchi a Renzi invece che a lui.
Cari cittadini che votate PD,
può darsi che alcuni, o forse molti, tra di voi siano ormai convinti che il Parlamento non abbia da molto tempo dato buona prova di sé, e che è meglio un leader capace di apparire veloce piuttosto che un parlamento lento e impacciato. Bisogna ammetterlo: non è facile oggi difendere il Parlamento. Ma riflettete: è già tre volte che il Parlamento è stato eletto con una legge che ha frustrato in profondità la sovranità popolare.
Tre Parlamenti si sono succeduti senza che i cittadini potessero formarlo secondo la loro volontà. Tre Parlamenti composti in massima parte da raccomandati delle segreterie di partito incapaci di produrre attività legislativa in armonia con le esigenze più pressanti del paese. Invece di cambiare e migliorare la selezione degli eletti, la via imboccata dal PD con queste riforme costruisce un Parlamento ancora più raccomandato e lo consegna alla volontà di una persona sola.
Non è mai stato questo il vostro modo di pensare la politica. Convincete il vostro partito a cambiare strada: ampliate la democrazia invece di lasciare che sia soffocata.

(16 febbraio 2015)

La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) ...>>>

La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) in mezzo a vasti dibattiti che vanno dalle speranze di crescita del prestigio internazionale dell’Italia produttiva e dell’arrivo di soldi in modo da alleviare la nostra crisi economica, alle critiche sulla organizzazione e a domande su quello che succederà dei vasti spazi occupati dall’EXPO quando sarà finita. In questi dibattiti, a mio parere, si parla poco della vera finalità dell’esposizione che, come dice il nome, dovrebbe proporsi di ”esporre” i mezzi per raggiungere i grandi generosi obiettivi di “Nutrire il pianeta” e di assicurare “Energia per tutti”. L’EXPO 2015 rientra nel filone delle esposizioni e fiere merceologiche che si propongono di far conoscere e diffondere manufatti e tecnologie sviluppate nei vari paesi.

Per “nutrire il pianeta” occorrono trattori e concimi, processi per trasformare i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia attraverso innumerevoli operazioni di conservazione e di modificazione fisica e chimica (si pensi alla trasformazione del latte in burro e formaggio, dei chicchi di grano in pasta e pane, delle carcasse degli animali in carne in scatola, dei pomodori in conserve, eccetera). E occorre acqua ricavata dalle sorgenti o distribuita dagli acquedotti, e energia, la merce per eccellenza ricavata da carbone o petrolio, da gas naturale o dal moto delle acque o dai pannelli fotovoltaici. E poi occorrono navi e camion che trasportano i prodotti ai supermercati e alle botteghe fino ai mercatini di villaggio, tutta una catena di scambi in cui si formano scorie e rifiuti inquinanti. Questa è la storia naturale del cibo che arriva alle famiglie e alla ristorazione collettiva.

Le esposizioni di merci hanno radici antichissime da quando i mercanti hanno cominciato a presentare le proprie merci sulle piazze dei villaggi e delle città; le fiere sono state, almeno dal medioevo in avanti, grandi eventi periodici che si svolgevano nelle città e radunavano venditori e acquirenti e curiosi, occasioni di informazione e di cultura, prima ancora che di vendita. Col passare del tempo questi eventi sono diventati vere e proprie esposizioni in cui i manufatti e i prodotti non sono venduti ma solo presentati e, direi, raccontati ai visitatori. La prima grande esposizione universale si ebbe nel 1851 a Londra, nel pieno della rivoluzione industriale e del successo imperiale della Gran Bretagna della regina Vittoria. Seguirono, con altrettante ambizioni, nella Francia del secondo impero di Napoleone III, le esposizioni di Parigi, del 1855 orientata ai prodotti industriali, e del 1856 orientata ai successi delle produzioni agricole francesi.

Da allora fu una corsa di ogni paese a organizzare esposizioni per far conoscere i propri progressi economici e tecnici; a Milano nel 1871 si tenne la prima “esposizione industriale” dell’Italia unita, il cui interessante catalogo è stato ristampato nel 2010 a cura dell’editrice “Milano città delle scienze”. Nel lungo elenco di esposizioni universali spicca quella di Parigi del 1889 per celebrare, ormai in età repubblicana, il centesimo anniversario della Rivoluzione Francese; fu l’occasione per mostrare al mondo, con la Torre Eiffel, tutta d’acciaio, il successo della tecnologia siderurgica e meccanica. La successiva esposizione di Parigi del 1900 fu adornata dalla illuminazione elettrica, altro trionfo della nuova fonte di energia e delle nuove lampade inventate dall’americano Edison. Tutto il Novecento è stato segnato da esposizioni tecniche e merceologiche, strumenti di diffusione dei progressi e della “potenza” economica dei paesi ospitanti.

Nel 1906 Milano volle la sua esposizione universale in occasione dell’apertura della galleria del Sempione, altro successo tecnico che avrebbe collegato l’Italia con i paesi industriali dell’intera Europa. Nelle strutture dell’esposizione fu creata, nel 1923, la sede permanente della ”Fiera di Milano”, l’evento annuale di primavera nel quale le industrie potevano mostrare al mondo le proprie novità. Il film di Camerini, Gli uomini che mascalzoni, del 1932, con De Sica, ancora trasmesso da qualche televisione locale, mostra l’atmosfera gioiosa e incantata dell’incontro popolare con la tecnica, con prodotti e macchinari, nella fiera “campionaria” di Milano. Anche Bari volle, nel 1929, una sua fiera “campionaria” in cui presentare le merci e i prodotti della Puglia, e che ospitava i prodotti di molti paesi africani e asiatici, “del Levante”, che si presentavano, in tali incontri annuali agli occhi del mondo. Come professore di Merceologia non mancavo, ogni settembre, di visitare la Fiera del Levante per farmi dare campioni di prodotti che venivano poi esposti nel museo merceologico dell’Università.

Adesso ci sono rigorose distinzioni fra esposizioni universali, ogni cinque anni, esposizioni internazionali, ogni tre anni, entrambe destinate a trattare particolari temi di interesse generale, manifestazioni diventate occasioni per congressi, ed esposizioni, spesso, più di uomini politici che di prodotti. Mi auguro che l’EXPO di quest’anno sia una occasione per “esporre” informazioni e notizie sui prodotti di terre e persone vicine e lontane, sul lavoro nei campi, nelle fabbriche, nei negozi e sul comportamento alimentare delle famiglie e delle mense, sulle contraddizioni, anche, delle varie forme dell’agricoltura. L’EXPO può, insomma, al di là degli aspetti spettacolari, svolgere, grazie alle merci, una straordinaria funzione culturale e, direi, educativa, diffondendo una conoscenza popolare dei problemi del cibo e dell’energia da cui dipende la vita quotidiana di tutti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

La lettera che il segretario del PD toscano, ha spedito al Corriere fiorentino in replica all’articolo scrittoda Paolo Baldeschi per eddyburg, (ripreso il 23 febbraio dal quotidianofiorentino), ha già avuto una puntualerisposta dal nostro collaboratore suqueste pagine. Esso si presta però a qualcheconsiderazione di carattere più generale sul ruolo che quel partito stasvolgendo in Toscana, e su quello che i diversi attori stanno giocando. Vogliointervenire in proposito con un’osservazione e alcune brevi domande.
L’osservazione.
Afferma Parrini: «Di ognilegge dovremmo sempre tracciare, cosa che spesso non si fa, una Vib, unavalutazione di impatto burocratico. Cioè dovremmo continuamente domandarci se isacrosanti obiettivi che perseguiamo li stiamo perseguendo col minimo costoburocratico indispensabile o col massimo costo burocratico immaginabile. Non sose questo punto di vista sia renziano o meno. Non mi interessa. Basta che siadi buonsenso. E a me sembra lo sia».

Il riferimento del segretario del PD toscano allaburocrazia sembra del tutto allineato con il “senso comune”, e non con il “buonsenso”: per riferirci alla distinzione gramsciana: con la visionedel mondo inculcata dall’ideologia dominante, e non dal personale pensierocritico.
Cerchiamodi essere chiari, e di comprendere perche cosa, in un regime democratico, serva la burocrazia. Essa serve a dare le indispensabili basi tecnicaall’azione pubblica, a conoscere prima di decidere, a esprimere la volontàdelle decisioni politiche in modo coerente ed efficace, a definire regole certee chiare, a vigilare sulla loro attuazione e a consentire al potere giudiziariodi intervenire quando vengono violate.

Proprio per l’importanza della sua funzionein un regime democratico, nei paesi in cui il “pubblico” funziona (GranBretagna, Francia, Germania) la burocrazia pubblica gode della massimaconsiderazione, autorevolezza, prestigio, ed è invece ridotta a un ruolo servilenelle autocrazie..
Èovvio che la burocrazia è invececonsiderata un ostacolo per qualunque operatore economico che anteponga i propri interessi a quellidella collettività. Così come è unostacolo per ogni politico, sia essoeletto dal popolo o nominato dal suo boss, che anteponga gli interessi suoi odella sua parte a quelli della collettività e veda quindi nella burocrazia un ostacolo alpieno dispiegamento della sua discrezionalità.
Laconcezione della burocrazia che Parrinirivela nella sua lettera non è peraltroriducibile al “renzismo". Essa discende dall’ideologia globale che si è affermata come dominantenell’ultimo trentennio, e di cui Matteo Renzi esprime (per ora) il coronamentonella provincia italiana.

Si tratta infatti di un’ideologia che ha cominciatoad affermarsi, in Italia ben prima dell’impadronimento da parte di Renzi dellespoglie della vecchia sinistra: dal giorno in cui “destra” e “sinistra” furonoconcordi nel ritenere che la governabilità sia preferibile alla democrazia eche quest’ultima possa, e a volte debba, essere sacrificata alla prima.

Chi èavvezzo a guardare alla cittá da un punto di vista non meramente “tecnico”, matenendo conto delle relazioni di potere, ne ha visto l’inizio nella decisione di farscegliere i segretari comunali direttamente dai sindaci, e nel progressivotrasferimento di poteri dagli organi collegiali (e quindi pluralisti) delleistituzioni a quelli ristretti o divertice (quindi oligarchici o monocratici). Il buon Matteo è solo (per ora)l’espressione finale del ciclo apertosi, in Italia quando aveva appena smesso ipantaloncini corti.
Nelcaso specifico del Pit toscano c’è dadire solo che Parrini non sembra averlo letto con attenzione. Il piano non solo non introduce nuovi procedimenti (senon quando i piani comunali dovranno adeguarsi al piano), ma porterà, seapprovato con la validazione del ministero, a diverse significativesemplificazioni per i cittadini e gli operatori economici. Il vero obiettivosono quindi i vincoli, che si vorrebbero abolire.
La domanda.
Èvero o non è vero che nella sesta commissione consiliare, i consiglieri del PD (loro, nonaltri) hanno proposto al Consiglio regionale, come ultimo"emendamento" al piano paesaggistico, l'eliminazione di qualsiasilimitazione dell'attività di escavazione sulle Apuane e più in generale latrasformazione di tutte le “direttive” rivolte agli enti locali in “indirizzi”?

Quest’ultimaproposta è del tutto aberrante. Coincide con la delega piena di cospicuiinteressi pubblici, collettivi, comuni, all’imperio delle convenienze private. Ridurrei “comandi” che la Regione trasmette aicomuni in semplici suggerimenti significherebbe annullare l’efficacia del piano. L’approvazione formale di quellaproposta degli esponenti del PD coinciderebbe con la sepoltura della politicadi tutela avviata dall’assessore Marson e dal presidente Rossi.

Se le nuove norme della Regione toscanafossero in tal modo stravolte bisognerebbe concludere che solo il velo dell’ipocrisia resterebbe aseparare i sedicenti difensori del piano dai suoi più tenaci, e onesti,avversari.

Caro direttore, dispiace che Paolo Baldeschi, verso il quale, come lui sa, provo sentimenti di autentica stima, cada in un grosso equivoco, nel suo intervento sul Corriere Fiorentino di ieri, sul mio commento alle dichiarazioni del sottosegretario Borletti Buitoni.

Prima di tutto, trovo gratuita l'attribuzione di intenti maschilistici alle mie parole. Non c'è niente di meno vero. Rivendico poi il metodo e il merito della mia posizione.

La legge urbanistica e il piano del paesaggio della Toscana sono provvedimenti importanti. Io penso che il contributo ad essi fornito dal dibattito in Consiglio regionale sia stato positivo e di rilievo. E penso che positive siano state le modifiche effettuate in Consiglio regionale a seguito delle osservazioni dei sindaci e delle categorie economiche. Penso, infine, che anche nell'ultima fase dell'iter consiliare la commissione e l'aula svolgeranno il loro ruolo con spirito costruttivo e grande equilibrio.

Per questo ho trovato inopportuno l'intervento del sottosegretario. Mi è sembrato un tentativo di mettere sotto tutela un'assemblea rappresentativa che su questo fronte si è mostrata più volte lungimirante. Baldeschi sa bene, e lo ricorda, quale sia la storia delle mie posizioni in materia di tutela ambientale e paesaggistica. Proprio perché ritengo di poter parlare di questi temi con cognizione di causa e proprio perché credo nella possibilità di difendere rigorosamente l'ambiente promuovendo contemporaneamente lo sviluppo economico, dico che non dobbiamo commettere l'errore di confondere la tutela col vincolismo astratto e cadere in eccessi prescrittivi come quelli per fortuna rimossi durante l'iter consiliare dell'atto in questione.

Dico inoltre che di ogni legge dovremmo sempre tracciare, cosa che spesso non si fa, una Vib, una valutazione di impatto burocratico. Cioè dovremmo continuamente domandarci se i sacrosanti obiettivi che perseguiamo li stiamo perseguendo col minimo costo burocratico indispensabile o col massimo costo burocratico immaginabile. Non so se questo punto di vista sia renziano o meno. Non mi interessa. Basta che sia di buonsenso. E a me sembra lo sia.

Commento

Le posizioni di Dario Parrini in materia di ambiente e paesaggio sono state di intelligente tutela, almeno fino a quando è stato Sindaco di Vinci. Proprio per questo, una volta diventato segretario del Pd toscano, da lui ci si sarebbero aspettate decise prese di posizione in difesa del Piano paesaggistico, in particolare sulla questione Apuane, dove non sono in gioco sviluppo e occupazione, bensì le rendite di posizione di imprese che intendono continuare a sfruttare un patrimonio di tutti senza regole e senza alcun rispetto di paesaggio e ambiente. Non mi sembra che ciò sia avvenuto, ma forse ancora non è troppo tardi.

Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi...>>>

Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi a Presidente della Regione Toscana, ha avuto parole sbagliate nella forma e nel merito a proposito dell'intervista sul Pit-Piano paesaggistico toscano rilasciata dal sottosegretario del Mibact Ilaria Borletti Buitoni. Cosa ha detto la Borletti Buitoni? Che il Piano paesaggistico necessariamente è frutto di compromessi e che il compromesso raggiunto a proposito della tutela delle Apuane rappresenta un limite di equilibrio che, se fosse varcato in senso peggiorativo, potrebbe mettere in forse l'approvazione del Piano da parte del Mibact.

Dichiarazione quanto mai opportuna, dal momento che alcuni sindaci della zona, in perfetta e sospetta sintonia con le ditte di escavazione, reclamano a gran voce il ritorno al far west cui, invece, il Piano vuole dettare alcune regole: incuranti - sindaci e imprese - dei rinvii a giudizio che hanno colpito il sindaco di Carrara, assessori, dirigenti comunali e imprese per i danni erariali provocati da una non innocente sottovalutazione del valore di mercato del marmo, ciò che ha consentito elusione fiscale e penalizzato i Comuni per minori introiti.

Parrini ha definito, senza alcuna motivazione, le giuste esortazioni del sottosegretario "superbe" e ha invitato la Borletti Buitoni a occuparsi dei fatti suoi, perché il consiglio regionale toscano non ha bisogno di "richiami"; aggiungendo, con un tocco di maschilismo che l'intervista in questione "gli fa tenerezza" (sottinteso: le donne sono delle testoline sventate , soprattutto quando si occupano di politica). Quanto al merito, Parrini sbaglia: il Piano paesaggistico è co-pianificato tra Mibact e Regione per precisa scelta politica e la sua approvazione da parte del Ministero comporta una serie di semplificazioni nelle zone vincolate, importanti per i Comuni e importanti anche per chi ha fatto un credo di efficienza e snellimento delle procedure. Ma il Mibact e le Soprintendenze toscane, che hanno svolto un lungo e meritorio lavoro insieme ai funzionari regionali sulla vestizione dei vincoli e sulla disciplina del piano, non sono - come vorrebbe Parrini - dei "convitati di pietra": che il sottosegretario del Mibact con delega al paesaggio esprima la sua opposizione a modifiche del testo concordato sotto la spinta delle lobby del marmo non solo è legittimo, ma anche doveroso.

Parrini non fa tenerezza, piuttosto dispiacere a chi si ricorda di lui come ottimo sindaco di Vinci, attento alla tutela del territorio con piani regolatori "illuminati"; uno dei pochi sindaci toscani che ha non solo promosso un progetto di riqualificazione di una zona semi-degradata, ma lo anche brillantemente realizzato. Parrini dottor Jekyll, diventato come proconsole renziano improvvisamente Mr Hyde; con delusione di coloro (sono tra questi) che pensavano che, proprio per i suoi trascorsi, il segretario regionale del Pd potesse sostenere l'assessore all'urbanistica Anna Marson e orientare la politica toscana in difesa e promozione di ambiente e paesaggio: per un "modello di neoambientalismo toscano" che non è né di destra né di sinistra, ma semplicemente innovativo e all'altezza dei tempi.

«Pubblichiamo la prefazione di Paolo Maddalena al nuovo saggio dell'urbanista Paolo Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, in questi giorni in libreria edito da Donzelli». MicroMega-online, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

Il libro di Paolo Berdini, dall’illuminante titolo Le città fallite, copre un vuoto nella pur ampia letteratura sugli scempi edilizi: esso enumera con lodevole completezza la serie dei fatti eclatanti che hanno distrutto i territori urbani, ponendo in evidenza come questa distruzione territoriale e ambientale sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica. Da vero, grande urbanista quale è, l’Autore esprime quasi un grido di dolore, che sembra materialmente emergere da queste accattivanti pagine, e che si trasmette automaticamente al lettore, rendendolo spiritualmente vicino al pensiero di chi scrive.

L’attrattiva di questo libro, in effetti, sta proprio nello svelare le cause e i retroscena dell’immane devastazione delle nostre città, che mantiene il lettore in una specie di suspense, nell’attesa di conoscere chi o cosa c’è dietro questa dannosissima sciagura. Non è nostro intento far venir meno la «tensione» del lettore e ci asterremo, pertanto, dall’illustrazione dei singoli accadimenti, limitandoci a porre in evidenza soltanto l’importanza delle regole urbanistiche, del loro grande valore di civiltà e della loro importanza giuridico-costituzionale.

Il libro si apre con un’illustrazione della «città pubblica», della città che è «servente» al bisogno umano di incontrarsi e di vivere in comunità. È in fondo la città che ci hanno donato, sulle orme di tessuti urbani pre-esistenti, i governanti liberali dei primi anni dell’unità d’Italia. Dal punto di vista più strettamente giuridico, viene posta in evidenza l’importanza, si direbbe strategica, di aver individuato la categoria degli «standard edilizi», di cui parla il decreto ministeriale 1444 del 1968, secondo il quale ogni cittadino ha il diritto ad avere a disposizione una superficie minima di territorio su cui realizzare i servizi di cittadinanza: l’istruzione, il verde, i servizi alla persona.

Insomma, emerge chiaramente che funzione propria dell’urbanistica è quella di garantire i diritti dell’uomo, e, con questi, il decoro e la bellezza delle nostre città. A tal proposito, si citano gli esempi della famiglia Crespi, che aveva una fabbrica di tessuti e che ebbe cura di creare un ambiente comunitario e sereno per i lavoratori. Ma si cita anche La Pira, sindaco di Firenze, che, negli anni cinquanta, requisì le abitazioni abbandonate per darle ai senzatetto, e infine l’esempio di Adriano Olivetti, che a Ivrea tanto si dedicò per la creazione di un vero modo comunitario di vivere.

Le noti dolenti cominciano con l’avvento del pensiero unico del «neoliberismo economico», divenuto soffocante nell’ultimo ventennio. Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la «città pubblica» e la fa diventare un puro «conto economico». La nostra tradizionale città è stretta in una tenaglia: da un lato la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si impone una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette «liberalizzazioni», le piccole imprese, che sono state sempre il nerbo della nostra economia.

In sostanza, si prepara l’avvento della fase di Tangentopoli. Comincia Craxi con il primo condono edilizio del 1985, cui seguiranno i due condoni del governo Berlusconi, e inizia subito la stagione delle «deroghe urbanistiche», delle quali parla la legge n. 79 del 1992. Ma soprattutto si afferma il principio dell’«urbanistica contrattata», alla quale seguono le ulteriori «deroghe» della legge Tognoli per la costruzione dei parcheggi nei centri storici e l’invenzione dei «Consorzi di imprese», che si dividono gli appalti delle grandi opere pubbliche.

Un grave colpo all’urbanistica è dato da Bassanini, il quale non inserisce nel Codice degli appalti del 2001 un emendamento per mantenere il vincolo, posto dalla legge Bucalossi n. 10 del 1977, di destinazione degli oneri urbanistici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: da allora essi possono essere utilizzati anche per le spese correnti. In tal modo speculatori e amministratori comunali si trovano sullo stesso piano di interessi. Entrambi convergono sulla convenienza di distruggere il territorio per ottenere danaro. L’accordo fra costruttori e amministratori diventa una regola.

Sempre nello stesso anno un altro duro colpo è inferto con la «Legge obiettivo», che Berlusconi illustra su una lavagna in una famosa apparizione televisiva. Basta dire che questa legge, con uno stanziamento di 110 miliardi in tre anni, prevede il «ponte sullo Stretto di Messina», cioè una vera ecatombe ambientale.

Tuttavia, è la «rendita fondiaria», cioè l’urbanizzazione dei terreni agricoli, che aguzza l’ingegno degli speculatori, e Berlusconi va loro incontro con il «Piano casa», che fa nascere una gara tra le Regioni per concedere ai costruttori il massimo di guadagni possibili, soprattutto in termini di cambio di destinazione d’uso e di aumento delle cubature. Quello della rendita fondiaria è un problema gravissimo del quale si era occupato nel 1962 Fiorentino Sullo, proponendo che i Comuni dovessero prima acquistare i terreni agricoli e poi urbanizzarli, facendo in modo che l’enorme aumento di valore del terreno trasformato da agricolo a edificabile restasse al pubblico e non divenisse un regalo per gli speculatori edilizi. Ma la politica, in accordo con gli speculatori, non ha mai fatto passare questo intelligente progetto.

Si deve aggiungere che questo sistema ha avuto un largo consenso tra la gente, poiché alla rendita fondiaria donata ai costruttori, nella fase ascendente della nostra economia, si è aggiunto l’aumento di valore degli immobili, che giova fortemente ai proprietari di abitazioni. Sicché tre grandi forze, per motivi diversi, si sono aiutate l’un l’altra nella distruzione dei terreni agricoli: gli speculatori edilizi, gli amministratori pubblici e i cittadini.

Sennonché la crisi economica e la conseguente diminuzione di valore degli appartamenti, che nelle periferie ha raggiunto il 40%, ha lasciato il danaro ai costruttori e ai cittadini la «beffa». Chi ha contratto un mutuo per pagare l’acquisto dell’alloggio oggi paga un prezzo di gran lunga superiore al valore del bene acquistato.

Anche per questo motivo si assiste oggi a un cambio delle forze sociali e politiche in campo: da un lato c’è la popolazione che si è schierata fortemente contro la politica, dall’altro ci sono i politici in perfetto accordo con l’alta finanza e i costruttori di case.

Il governo Monti segue in pieno «le prescrizioni» dell’alta finanza che ha occupato le istituzioni economiche europee. Egli ripristina l’imposta sulla casa senza prevedere alcuna esenzione; continua il finanziamento delle «grandi opere» (i 110 miliardi in tre anni sono sempre iscritti in bilancio), riduce gravemente le spese per la sanità, la giustizia, la rete dei servizi pubblici.

Anche Letta, con il suo breve «governo del fare», aiuta la speculazione immobiliare con la «Quadrilatero Spa», che dovrebbe unire, per ora inutilmente, l’Umbria e le Marche. La «trovata» è che la garanzia per i crediti sarebbe venuta dalle «aree di cattura di valore», cioè dall’aumento di valore dei terreni lambiti dalla costruzione dell’autostrada. È stato un fallimento e sono stati posti sulle spalle degli italiani altri 270 milioni di euro. Poco dopo, il ministro Franceschini (governo Renzi) ha accettato l’emendamento dell’onorevole del Pd, Maria Coscia, istituendo i «Comitati di garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici». È la fine della tutela paesaggistica.

E, come se tutto questo non bastasse, c’è lo Sblocca Italia di Renzi, che fa prevalere l’interesse alla costruzione delle «grandi opere» sulla tutela del paesaggio, dei beni artistici e storici, della salute e dell’incolumità pubblica. Mentre il ministro Lupi, con la sua proposta di modifica della materia urbanistica, mette sullo stesso piano pubblico e privato e propone l’indennizzo della «conformazione» della proprietà privata e l’abrogazione del citato d.m. n. 1444 del 1968 relativo agli standard edilizi.

L’urbanistica è, dunque, del tutto distrutta.

Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio. Si tratta di applicare il principio di «partecipazione popolare», previsto, anche come «diritto di resistenza», dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.

In sostanza, occorre ottenere un «capovolgimento» dell’immaginario collettivo, e far capire che la Costituzione protegge soprattutto «l’utilità pubblica» (art. 41) e riconosce e garantisce la «proprietà privata» solo se essa persegue la «funzione sociale» (art. 42). È ora, in altri termini, che la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia finalmente attuata. Molti intellettuali sono all’opera: Antonio Perrotti, Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Salvatore Settis, Tomaso Montanari e tanti altri.

La speranza si fonda sull’azione delle associazioni e dei comitati, che di fronte allo spreco del nostro territorio devono agire e unirsi in una lotta senza quartiere, da svolgere sul piano della legalità costituzionale e, specificamente, sotto l’egida di quella che è stata denominata «l’etica costituzionale», e cioè i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà.

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