La storia si ripete, e quanto sta accadendo oggi per il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un film già visto. Si tratta del 'remake' ...(continua a leggere)
Il problema è che le 'non valutazioni', perché di ciò si tratta, producono spesso effetti devastanti. Ha fatto scuola in tal senso l’alta velocità – nel sottoattraversamento appenninico - dove a seguito di ripetute segnalazioni da parte dei tecnici in merito alla probabilità che la realizzazione delle gallerie ferroviarie potesse intercettare l’acquifero e alla necessità, perciò, di approfondire le conoscenze in tal senso, la politica (tutta) ha, nel supremo interesse collettivo, approvato l’opera dando mandato affinché – ed ecco le parole magiche - “nelle successive fasi autorizzative” si verificasse la sussistenza di tale criticità. Et voilà, con la semplice frase “nelle successive fasi autorizzative” si è realizzata l'intuizione capace di sovvertire l’applicazione delle regole poste a tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Perche è bene ricordare - a riguardo - che gli acquiferi del Mugello sono stati effettivamente intercettati dalle gallerie, che fiumi, torrenti e sorgenti si sono effettivamente seccati; e, udite udite, la Regione Toscana si è costituita parte civile nel processo per disastro ambientale; sì proprio quella Regione che anni prima, in sodalizio con l’allora Ministro delle infrastrutture Matteoli, aveva approvato il progetto TAV convenendo che soltanto “nelle successive fasi autorizzative” si sarebbe dovuto verificare se avevano una base di fondatezza le preoccupazioni ambientali poste da coloro che oggi è di moda chiamare 'gufi'.
Ma torniamo alla procedura di VIA del nuovo aeroporto di Firenze in corso. Questa sta seguendo lo stesso sistema collaudato di aggiramento delle leggi e delle regole. Il primo passo è che il proponente presenti un progetto preliminare/definitivo, operazione impossibile solo per gli ingenui. Il significato autentico è che il progetto entra nella VIA come 'preliminare' e ne esce come 'definitivo'. Come? Con un secondo passo: la commissione VIA, invece di chiedere integrazioni e chiarimenti - atti ufficiali che interromperebbero la procedura e che richiederebbero risposte e approfondimenti altrettanto ufficiali - 'contratta' le modifiche del progetto con il proponente; e, in effetti, per quanto risulta, la Commissione Via non ha richiesto nessuna integrazione del materiale del Master Plan aeroportuale per quanto lacunoso, né lo farà la Regione, Toscana, né lo ha fatto il Comune di Firenze, ovviamente sponsor del progetto, che ha trasformato le proprie osservazioni in "prescrizioni realizzative".
Le "prescrizioni realizzative", un'invenzione senza alcun fondamento giuridico, spiegano il terzo fondamentale passo del "sistema". L'amministrazione - tanto per fare un esempio - invece di chiedere le necessarie integrazioni degli studi e dei modelli di valutazione del rischio idraulico, perché basati su dati non aggiornati, dirà che "nelle successive fasi di realizzazione del progetto si dovrà approfondire l'eventuale necessità di disporre di dati più aggiornati". E così si arriva al progetto esecutivo 'non valutato', con ritardi, interruzioni non previste, proteste, costi triplicati da scaricare sui contribuenti; e con il rischio di ripetere i disastri del Mugello.
Questo sistema è stato seguito dalla Commissione VIA con l'intermediazione e il patrocinio di ENAC nel corso degli anni per tutti i progetti aeroportuali soggetti a studio di impatto ambientale. E, ovviamente, nonostante l'allarme della pagina locale di Repubblica (colpo di scena! Palazzo Vecchio fa le bucce all'aeroporto!) le "prescrizioni realizzative" del Comune di Firenze sono state favorevolmente accolte dal proponente Adf che ha annunciato di volere avviare i lavori entro agosto, anticipando come favorevoli i pareri della Regione e degli altri enti interessati; e sottintendendo che le valutazioni (serie) non sono altro che un evitabile intralcio a decisioni già maturate.
Le opache e tortuose vicende del nuovo aeroporto di Firenze non fanno altro che ripetere un copione collaudato: aggiramento delle regole poste a tutela della sicurezza e della salute delle popolazioni, vanificazione dei processi partecipativi, decisioni prese dall'alto e gestite dall'alto, pubblicità sui giornali al posto di analisi serie. Il tutto con la complicità delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche; nel silenzio della stampa che riporta solo entusiastiche dichiarazioni a supporto del nuovo aeroporto. Non c'è da stupirsi che la 'politica' sia sempre più sentita come una collusione tra potenti, estranea e contraria agli interessi dei cittadini.
Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano di Paolo Berdini ha comportato un seguito. Voglio dire che nel tempo trascorso da allora ho ripensato lentamente a un tema suscitato dall’autore. Il risultato è questo articolo.
Berdini comincia il suo intervento in maniera inaspettata, originale, spiazzante. Molto utile però ai presenti fra cui numerosi giovani studenti del Politecnico, che suppongo fossero informati delle ultime vicende urbanistiche e architettoniche della città e conoscessero almeno l’essenziale degli eventi storici. Egli racconta del suo arrivo in treno e della decisione di andare dalla stazione Centrale alla “Nuova Milano” di Garibaldi – Repubblica – Isola. Quella di cui l’amministrazione civica e certi commentatori menano vanto. Quella dei grattacieli gettati lì senza un piano particolareggiato del Comune. Venuta su così per iniziativa liberista e irregolare di società immobiliari, banche, presidenza regionale; non discussa e non controllata in alcun Consiglio pubblico.[1]
Berdini dinanzi al borgo del Quatar sbalordisce; dice di essere incredulo, addolorato: perché “Milano è bella”. “Milano è bella”, ripete.
Come dobbiamo interpretare quest’affermazione netta, sicura? Che Milano era bella? Che lo fosse ancora, dopo i fervidi apprezzamenti di Stendhal, prima della grande guerra e ancora negli anni Venti oso dirlo, benché non fossero mancati gl’investimenti anche molto estesi lautamente remunerativi della rendita fondiaria laddove svettava il primato nell’accumulazione dei profitti industriali (comprendenti sostanziosi trasferimenti dall’agricoltura). Rievocando la forma della città, gli elementi urbani costitutivi, la pianificazione, l’architettura nel trascorrere del tempo dal tardo neoclassico all’eclettismo al liberty al primo Novecento, parrebbe resistito una sorta di vincolo a tenere insieme non a slegare la città, anche in mancanza di un obbligo regolamentare a farlo.
Solo con la revisione del razionalismo schematico, prima da parte di Enrico Agostino Griffini (il più anziano degli architetti moderni attivi a Milano) propenso a un ripensamento storicistico, poi di Piero Bottoni col progetto del Quartiere Gallaratese (1955-56, non realizzato), rinasce l’attenzione all’eccezionale contributo dato dalla strada italiana all’abitare bene, socievole, al di là della funzione famigliare dell’alloggio. Bottoni propone la “strada vitale”, una tipologia che da un lato vorrebbe richiamare la tradizione, dall’altro rappresentare la rottura razionalista: corpi bassi continui lungo i bordi per il commercio, i servizi sociali e culturali, le attività artigianali minute (la “vitalità”, dice Bottoni) e alti volumi per le abitazioni retrostanti ed estesi in lunghezza perpendicolarmente ai corpi bassi, e molto distanziati fra loro. Questa soluzione, sebbene non sembri disponibile a collaborare all’”assassinio”, non può tuttavia vantare una reale parentela con la strada storica. Infatti, manca la residenzialità (e le attività vi si mescolerebbero), mancano le famiglie le persone che vi abiterebbero incrociando le loro vite, i rapporti umani che ne nascerebbero. Quegli alti fabbricati si distaccano in tutt’altra condizione spaziale e sociale, secondo una specie di ritorsione lecorbusieriana.
Ben più duri giudizi meritano tracciati denominati “via”, “corso”, “strada” quando non ne hanno la minima rispondenza storica. La storia l’hanno buttata in frantumi gli autori proprio “assassinando” le vere strade insieme a vasti contesti. Per soluzione famosa – e non lo è troppo! – nomino la “racchetta”, prevista dal piano regolatore del 1934 e malinconicamente non negata dagli architetti milanesi negli anni Cinquanta: Corso Europa, Via Larga, Via Albricci, “balordo stradone”, “stradone micidiale” come lo chiama con disprezzo Antonio Cederna, “arrestato in piazza Missori sopra il cadavere di San Giovanni in Conca”.[2] Grossi edifici in lungo in largo in alto, molti “firmati”, interamente dedicati agli uffici, alla finanza e al commercio; delle migliaia di abitazioni preesistenti nessuno si ricorda, a meno di qualche vecchio (etiam ego) che vide da giovane sbriciolare le sobrie case unite nell’allineamento viario, rappresentative di quella celata bellezza tipicamente milanese che altrove ho definito architettura neoclassica da capomastro. Il sopravvissuto palazzo Cinque-Settecentesco Litta Cusini in corso Europa, debole e smarrito, sembra sul punto di essere schiacciato dalla pressione dei nuovi fabbricati che lo fiancheggiano.
Siamo alla ricerca della città “bella”. Cerchiamo l’essenza umana, la bellezza intima, non quella monumentale di cui peraltro Milano è ricchissima. Dal fascismo al dopoguerra ai decenni corsi uno dopo l’altro attraverso incontenibili cambiamenti strutturali[3], la mala urbanistica e la sorella speculazione fondiaria ed edilizia hanno imperversato fino ad oggi non facendo caso su quale tipo (socio-economico) di città piombassero i danni irreversibili (basti accennare alla perdita di mezzo milione di residenti) spacciati per benefici. Il caso e la coerente azione non potevano che esibirsi dove il successo già ottenuto chiamava, quando sembrava inconcepibile rinunciare alla concentrazione. Doveva essere il centro storico, già prescelto dal fascismo, in particolare il centro del centro vale a dire l’area all’interno della Cerchia dei Navigli, il luogo delle manomissioni che man mano avrebbero marcato sempre più chiaramente la natura e la funzione di Milano: banche, assicurazioni, uffici finanziari e fiscali, sedi commerciali dei prodotti di lusso …
Camminiamo nelle piccole strade dietro e di fianco alla Scala, nell’intrico fra Broletto, dell’Orso, Verdi, S. Margherita. Siamo nel super centro, in un vecchio tessuto viario. Buona parte delle cortine ci appaiono come descritto sopra, ma non mancano gli accecamenti e i colpi al cuore. Via Filodrammatici (con la piazzetta dedicata a Enrico Cuccia, località e nome simboli indiscussi della potenza finanziaria della città) si presenta decorosa ma laggiù in fondo si staglia uno spaventoso doppio sopralzo. Giriamo, attraverso via Bossi, in via Clerici, per riscontrare la presenza del settecentesco omonimo palazzo esteso lungo la strada; conosciamo i tesori che conserva. Dirimpetto incombe un gigantesco edificio moderno di sorprendente bruttezza, per di più bianco abbagliante come il gesso e con il corpo centrale arretrato per ottenere maggior altezza: ora proprietà della più potente banca nazionale ma costruito a metà degli anni Cinquanta per uffici Olivetti su progetto di noti architetti “di fiducia”, fra cui il giustamente stimato in ambito olivettiano Marcello Nizzoli (di qui la sorpresa).
Stiamo cercando, come si è visto, un’altra bellezza, quella della città costruita, urbana e umana, per questo abbiamo insistito sul legame tra forma del luogo (strada, piazza...) e residenzialità, tra spazio famigliare e spazio pubblico. In mancanza di tale coerenza, come in gran parte dei quartieri entro la circonvallazione “spagnola” che hanno buttato fuori le famiglie residenti, dovremmo accontentarci di quel che la forma della città offre ancora nelle parti scampate ai vandali, magari ferite ma non assassinate, se non rovinate dagli stessi milanesi.[4] Insomma, dovremmo apprezzare la scena urbana, sapendo che mancano i veri attori e al più vi brulica la “vitalità” nel senso bottoniano. Di tali occasioni Milano ne offre non poche. Ognuno si cercherà le sue, nessuno pretenderà che sciogliamo le complicazioni di questo articolo con un elenco da guida turistica.
Invece invitiamo a ritrovare la bellezza come qui interpretata ai margini esterni della circonvallazione, in zone residenziali (specialmente strade e viali) dove conta il contributo di buona architettura dell’Ottocento e del Novecento ante guerra mondiale. Ora impiego (anche) la prima persona singolare e chiudo dichiarando la mia scelta di luogo esemplare in cui il conto delle diverse parti che concorrono a costruire il tutto torna, soddisfacendo la nostra equazione della bellezza: è un insieme di strade poco al di là dei Bastioni di Porta Venezia. Qui si concentra un gruppo eccezionale di case liberty, magnifiche facciate, sorprendenti particolari d’interni negli accessi, decorazioni ben integrate nell’architettura, sculture, mosaici di ceramica, pezzi di artigianato del ferro …, ogni opera di architetti e artisti contribuisce a costruire una scena urbana unitaria e unica: che, però, non ci basta per distinguere la bellezza urbana.
[1] Un’architetta interpellata da un giornalista ha detto che “Milano ha il grattacielo nel suo dna perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina …”.
[2] Antonio Cederna, L’inutile rovina,”Il Mondo”, II°,28 febbraio 1956, poi in I vandali in casa, Laterza 1956; nuova edizione 2006, ridotta, a cura di Francesco Erbani con sottotitolo Cinquant’anni dopo).
[3] Cfr. in Eddyburg il mio Com’era Milano e com’è al tempo dell’esposizione, 22 aprile 2015.
[4] Richiamo all’altro testo da affiancare a quello di Antonio Cederna: L’Italia rovinata dagli italiani. Sottotitolo di copertina Scritti sull’ambiente, la città, il paesaggio 1946-1970. A cura di Vittorio Emiliani, Rizzoli, Milano 2005. Antologia di articoli pubblicati prevalentemente sul Corriere della sera.
La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza...(continua a leggere)
La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza (da ultimo l'ottimo intervento di L. Illetterati su il manifesto del 28/5) ci dovrebbe tuttavia spingere a tentare di delineare i tratti di una scuola all'altezza del nostro tempo. Al di là della necessità di remunerare gli insegnanti italiani con un reddito dignitoso – la più vera e urgente riforma – occorrerebbe avviare una riflessione di prospettiva. La scuola è un asse fondamentale per la trasformazione radicale del capitalismo e costituisce un terreno su cui la sinistra ha potenzialità egemoniche.
E' evidente infatti che su tale terreno le classi dirigenti europee non vanno oltre un basso orizzonte economicistico. Tutti gli interventi riformatori che si sono succeduti in Italia e in Europa su scuola e Università, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna” (1999) sino alla “buona scuola” dell'attuale governo - ovviamente con differenti ambizioni - hanno un elemento in comune: quello di ricercare una maggiore efficienza funzionale degli istituti della formazione. Modificazioni e aggiustamenti che non hanno mai riguardato la qualità degli insegnamenti e il modo di impartirli, l'estensione e l'innalzamento dei processi di conoscenza e di formazione, ma i meccanismi “produttivi” delle stesse istituzioni (quantità di laureati e diplomati, tempo e risorse impiegati, assunzione di personale, ecc.).
Significativamente, non pochi, maldestri e ignari, si spingono ad accusare la scuola quale responsabile della disoccupazione giovanile. Ed è questa pressione, che si esercita sul mondo della formazione, a determinare l'ossessione dilagante per la valutazione ed il merito. Quel che preme al legislatore è incrementare e misurare la prestazione dei soggetti che operano nell'istituzione come in qualunque impresa che deve competere. Da qui discende l'intero edificio normativo e burocratico, che cresce su se stesso e che soffoca oggi scuola e università, distratte dai loro compiti formativi e chiamate continuamente a valutare e a valutarsi, a mimare imprese che devono produrre beni e servizi.
Ma è questa la scuola di cui abbiamo bisogno? L'innovazione nei contenuti degli insegnamenti si può davvero esaurire nell'aggiunta di qualche disciplina ( «Arte, Musica, Diritto, Economia, Discipline motorie») e, come recita ancora il testo del Ddl governativo, nel guardare «al futuro attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti»? La modestia di queste amene genericità partorite dalle burocrazie ministeriali rivela tutta l'angustia culturale in cui è imprigionata la pedagogia neoliberista del nostro tempo. E , per la verità, non solo essa. In realtà, oggi, sul piano dei contenuti e delle discipline la scuola potrebbe costituire uno straordinario laboratorio di riforma scientifica, culturale e morale. Un luogo in cui si formano giovani in grado di pensare in forme nuove la realtà della natura, all'altezza delle sfide gigantesche che dobbiamo fronteggiare.
C'è un altro aspetto di carattere disciplinare e contenutistico che rimane clamorosamente assente dalle indicazioni dei riformatori che intervengono sulla scuola. Non mi riferisco soltanto all'assenza di idee su come valorizzare gli insegnamenti della nostra grande tradizione umanistica, base di formazione ed emancipazione spirituale degli individui, di educazione al pensiero, alla bellezza e alla poesia, e non semplicemente competenza professionale da utilizzare nel lavoro. Anche in questo caso è la storia contemporanea recente a suggerire la direzione necessaria. Il 900 ci consegna un'altra grande frattura. A dispetto del perdurante dominio economico e militare dell'Occidente, è evidente che la visione eurocentrica della storia del mondo oggi appare disarticolata dall'irrompere di nuove forze.
La vicenda del Fontego dei tedeschiillustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali,e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa ...(continua la lettura)
La vicenda del Fontego dei tedeschi illustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali, e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa che abbia pregio. Come tutte le operazioni del gruppo Benetton a Venezia, l’acquisto di quel complesso non è stato solo un accorto investimento immobiliare. E’ servito a ridisegnare una parte della città con il risultato di accelerare la trasformazione dell’intera struttura urbana: fisica, economica, sociale e politica. La soluzione finale posta alla vicenda dalla sentenza del Consiglio di Stato, che ha accolto le motivazioni dei privati proprietari, del comune e della sopraintendenza, tutti alleati contro Italia Nostra, suggerisce una riflessione su almeno tre questioni, il cui rilievo trascende la scala locale: il concetto di pubblica utilità, il futuro delle “città museo”, la zonizzazione del territorio in funzione del potere d’acquisto dei turisti.
1. TTIP e Consiglio di Stato
Il 10 giugno il Parlamento europeo esprimerà il suo parere sul TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e la libertà di investimento), il trattato che consentirà alle grandi concentrazioni multinazionali di impugnare le normative e le leggi di qualsiasi stato, che siano in contrasto ai propri interessi, ricorrendo ad un tribunale privato che avrà una giurisdizione al di sopra degli stati nazionali. Gli interessi economici delle multinazionali saranno, quindi, anche da un punto di vista formale, al disopra dei diritti delle persone e delle comunità locali. L’argomento usato per rendere le multinazionali immuni alle legislazioni nazionali sovrane è la “necessità” di evitare che le leggi pongano “restrizioni al commercio” e abbiano un impatto negativo sui profitti. Il governo italiano, ha detto Renzi, sta “spingendo con determinazione” per l’approvazione del trattato.
Secondo quanto riporta la stampa, tra le motivazioni con la quale il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Italia Nostra a proposito dei lavori di ristrutturazione del Fontego c’è il riconoscimento che le deroghe a norme e leggi sono giustificate in vista degli “effetti benefici per la collettività che ne derivano”. Se è così, si tratta di una sentenza anticipatrice dei dettami del TTIP, perché sancisce che quello che è bene per gli investitori, è bene per tutti.
DFS, la consociata di Moet Hennessy Louis Vuitton che gestirà il centro commerciale, non è un bottegaio qualsiasi. Creata a Hong Kong nel 1960 , possiede spazi duty free in 18 scali aeroportuali e 14 grandi magazzini denominati T-Galleria (dove T sta per traveller) in grandi città, soprattutto in Asia. Lo sbarco a Venezia è parte della strategia della società di espandersi e conquistare l’Europa. Come ha dichiarato l’amministratore delegato Philippe Schaus, “stavamo già trattando per una sede a Roma, ma quando Benetton ci ha chiamato, abbiamo pensato: questa è un’opportunità incredibile… we could not dream a better situation!”
In effetti, la situazione è ottima per DFS, che arriva e non deve nemmeno perdere tempo in trattative con le autorità locali, perché il lavoro sporco è già stato fatto. Deve solo pagare il giusto prezzo al proprietario dell’immobile, l’imprenditore/eroe nostrano che, d’ora in poi, potrà limitarsi a intascare l’affitto (si dice 110 milioni per i primi anni, cioè il doppio di quanto corrisposto alle Poste italiane per comprare l’edificio).
Il beneficio pubblico individuato nella sentenza consiste in 300 posti di lavoro, che forse avrebbero potuto essere creati anche senza stravolgere l’edificio monumentale. Non si menzionano future entrate fiscali per il comune. Speriamo che DFS Duty Free Shop non significhi che non pagheranno tasse.
2. La profezia di Andy Warhol
Quando Andy Warhol diceva: “tutti i grandi magazzini diventeranno musei, e tutti i musei diventeranno grandi magazzini” pensavamo fosse una battuta, invece, come sempre, l’artista è profeta.
Gli interventi sulla struttura edilizia del Fontego verranno portato a termine dal gruppo Benetton, secondo il progetto di Rem Koolhas. Per l’allestimento degli spazi interni, invece, DFS ha incaricato l’inglese Jamie Fobert, grande “star dell’interior design”.
L’intenzione, ha spiegato Schaus in una conferenza stampa organizzata al teatro la Fenice, è di creare una nuova “destinazione commerciale e culturale” sul Canal Grande, dando spazio a una nuova interpretazione del department store e sviluppando “un nuovo concetto di shopping che sia tanto commerciale quanto culturale”.
Con il supporto delle istituzioni locali, ha aggiunto (e sarebbe interessante sapere se e quali accordi siano già stati presi), DFS intende avviare un programma di eventi culturali per offrire ai clienti una “nuova esperienza”. Uno dei 300 assunti si occuperà esclusivamente di “manifestazioni culturali” e come tutti dipendenti verrà addestrato presso l’università della DFS. La società, infatti, possiede anche una sua università la cui missione è creare un ambiente educativo atto a sviluppare le abilità necessarie per far vivere esperienze di lusso estremo al viaggiatore internazionale!
Il piano terra del department store ospiterà le sezioni Food&Wine e Gift&Fashion mentre all’interno della corte coperta sarà allestito un caffè con spazi dedicati alla vendita di prodotti enogastronomici del territorio e di manifattura locale. Il primo piano sarà dedicato a Fashion Accessories, il secondo ai “prodotti uomo” e all’area Watches&Jewels. Il terzo piano sarà occupato da un’area dedicata al beauty e alle fragranze e dalla sezione delle calzature.
Per allestire le “sale”, la cui superficie commerciale complessiva è di circa 8 mila metri, Fobert riempirà l’involucro del Fontego con scale mobili di legno e pareti trasparenti che fungono da divisori e vetrine espositive. “Abbiamo analizzato le stratificazioni del fondaco, così come i migliori esempi di design italiano dell'epoca d'oro”, ha detto il designer, “e abbiamo preso spunto anche dall'acqua e dai riflessi dei canali per ideare nuovi giochi di superfici e richiami alla natura della città”.
3. Come adeguare la città alle necessità del department store
La previsione di Andy Warhol si riferiva alle modalità espositive all’interno di un singolo museo. Ma se una città è un museo (come dicono con scherno gli sviluppatori che se ne appropriano) e un museo è un centro commerciale, per la proprietà transitiva è l’intera città che deve essere risistemata, allestita come un centro commerciale.
E forse è questa la visione a cui si ispira Schaus quando dice “restituiremo al Fontego il ruolo di centro d’incontro e di emblema della città …. lo trasformeremo in un luogo vivo, in una destinazione d’eccellenza, rafforzando la connessione storica della città tra cultura e commercio”.
In ogni caso il rapporto con la città è decisivo per garantire il successo dell’operazione che richiede la soluzione a problemi funzionali, primo fra tutti l’accessibilità. DFS non dice quanti clienti dovranno arrivare al Fontego perché l’investimento sia remunerativo (altrimenti possono farci causa, imporci una addizionale irpef o regalarci una sponsorizzazione), ma alcuni anni fa il gruppo La Rinascente aveva stimato non potessero essere meno di 6 milioni all’anno. DFS ha deciso di stipulare accordi con i tour operators cinesi dal momento che “i viaggiatori cinesi stanno aumentando e amano particolarmente fare shopping in città estere, dove i prezzi nel lusso sono mediamente inferiori del 30% a quelli praticati nella madrepatria”. Dal punto di vista quantitativo la questione è risolta, anzi diventerà realtà la battuta secondo la quale Venezia è una “bottega dove cinesi vendono a cinesi merci fatte da cinesi”.
Il problema, dal punto di vista di DFS, è piuttosto quello di garantire ai suoi clienti “un’esperienza di lusso” non solo all’interno del centro commerciale, ma durante l’intera permanenza a Venezia, o almeno nel percorso tra la stazione ferroviaria e il Fontego. Il che rende necessario allargare l’ambito di pertinenza del Fontego stesso. Già nel rendering allegato al progetto di Koolhas (vedi Il Ponte del Fontego su eddyburg) era chiara l’intenzione di inglobare il ponte di Rialto nel dominio del centro commerciale. Ma non basta, e quindi, se non si possono trasportare i clienti in elicottero sul tetto terrazza (non ancora) o chiudere il Canal Grande al trasporto pubblico e cederlo a DFS (non ancora) non c’è altra soluzione che rendere meno squallido il percorso a piedi.
A questo ha provveduto il commissario Zappalorto che, tra i suoi ultimi atti, ha approvato una delibera contro il degrado, non in tutta la città, ma giustappunto solo lungo il tragitto dalla stazione al Fontego! Il risultato sarà che i banchetti non verranno eliminati (gli abusivi e i commercianti esentasse votano) ma semplicemente si sposteranno per non deturpare l’esperienza di chi va a fare shopping al Fontego.
È un ulteriore segnale di come il falso dibattito sul numero di turisti sostenibile verrà risolto con una zonizzazione della città in funzione del loro potere d’acquisto. Tale zonizzazione può essere così schematicamente descritta: isole della laguna destinate a alberghi a sette stelle; le aree attorno a Piazza San Marco, Rialto e stazione trasformate in recinti commerciali tra loro connessi da “corridoi” riservati; la zona dal ponte dell’Accademia alla Salute e il territorio sempre più vasto occupato dalla Biennale ceduti al cosiddetto turismo d’arte. Lo spazio residuale al di fuori di questi compound più o meno fortificati, sarà lasciato ai cittadini superstiti che se lo contenderanno con il “turismo straccione”.
Relazione di Stefano Boato all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015
La vendita e la concessione d’uso ai privati dei beni pubblici in Italia e in Comune di Venezia è molto aumentata dal 2.000 ad oggi e sta avendo un’ulteriore accelerazione dalle recenti leggi sulle sdemanializzazioni e dagli atti amministrativi già avviati a realizzazione come si può rilevare dalla cartografia e dagli elenchi, pur ancora parziali e non completi, che presentiamo. Le problematiche e le polemiche che all’inizio sembravano riguardare solo casi sporadici e che ancor oggi restano confinate ad un ristretto ambito di “addetti ai lavori”, hanno quindi un urgente bisogno di allargare la consapevolezza, l’informazione, la discussione alla comunità. Solo una vera partecipazione dell’intera popolazione può mettere sotto controllo questo processo sempre più accentuato e grave, e i singoli atti non possono più essere affrontati solo con affrettate polemiche specifiche, difficilmente documentate all’ultimo momento. Innanzitutto, eliminata ogni vendita ai privati di beni pubblici, anche ogni ipotesi di concessione va subordinata alla verifica di non bisogno del bene per usi sociali di qualsiasi tipo.
Le stime del valore degli immobili degli ultimi anni sono sempre più inadeguate e totalmente sbilanciate a favore degli interessi privati; dalle stime dell’inizio anni 2.000 del parco pubblico di via Pio X° in pieno centro storico a Mestre ceduto ai privati e raso al suolo per far costruire un condominio, alle recenti stime relative al valore del Fondaco dei Tedeschi a Rialto o delle Procuratie Vecchie in piazza S.Marco a Venezia. Le stime non possono più essere delegate alle sole strutture interne del Comune o alla consulenza di studi professionali privati, occorre imporre sempre la verifica con stime di altre strutture pubbliche terze esterne, e nel margine di incertezza si devono imporre i maggiori valori nell’interesse pubblico.
Le aree e gli edifici dei servizi pubblici vigenti, faticosamente conquistati negli anni, devono essere mantenuti e non rimossi addirittura anche con l’avvallo degli uffici urbanistica che li giudicano superflui o superiori alle necessità (Fondaco dei Tedeschi, Giardino delle Vergini, Villa Heriot, Procuratie Vecchie a Venezia; aree centrali di Mestre e Marghera cedute o riallocate ai margini esterni della città).
Le norme edilizie ed urbanistiche vigenti devono essere rispettate, e non evase con deroghe avvallate dalle strutture tecniche comunali e con formali delibere politico-amministrative che dichiarano inesistenti e fantasiosi interessi pubblici non specificati e valutati in base a principi espliciti. Queste deroghe comunque non debbono più essere deliberate con Accordi di Programma tra il Sindaco o un suo delegato e altri rappresentanti pubblici e privati, obbligando così il Consiglio Comunale ad un avvallo a posteriori di fatto obbligato.
Le disinvolte delibere di cambio d’uso, passando di solito da funzioni residenziali o di servizio a funzioni terziarie o turistiche (sino ad oggi anche rimuovendo vigenti vincoli a standard di servizio pubblico) non vanno nell’interesse della vivibilità della città ma dei profitti e delle rendite dei privati e creano un valore aggiunto dell’immobile che almeno deve essere stimato e valutato in modo controllato e corrisposto in misura prevalente all’Amministrazione Pubblica (Beneficio Pubblico tendenzialmente pari al 66 %, mai comunque inferiore al 51%).
Le nuove funzioni private autorizzate non devono occupare i pochi spazi centrali a servizi rimasti disponibili in centro città (sia a Venezia che in terraferma). In ogni caso comunque gli standard di servizio vanno attuati integralmente rispettando le norme e cedendo integralmente le aree o gli spazi dovuti. A Venezia in particolare l’obbligo di legge deve comunque essere rispettato recuperando le aree o i volumi di servizio (vedi evasione dell’obbligo di legge per il Fondaco dei Tedeschi).
Le aree a verde pubblico vanno comunque mantenute, rispettate o attuate (e non devastate per l’obbligo privato di drenaggio delle acque nelle nuove edificazioni (obbligo per la cosiddetta “invarianza idraulica”). Si può invece cominciare a sperimentare la sostituzione degli standard a parcheggi con la realizzazione (a parità di valore) di infrastrutture per la mobilità pedonale (Plan Pieton) , piste ciclabili, trasporti pubblici.
Nel caso in cui si intenda dare in concessione per un certo numero di anni un bene, non già vincolato a servizio pubblico, la concessione deve avvenire sulla base di un bando e/o gara pubblica in coerenza ai piani, progetti e programmi vigenti o preliminarmente deliberati, precisando le condizioni d‘uso in modo rigoroso e controllabile; se non rispettata la concessione dev’essere automaticamente revocata; vedi le concessioni a di parti dell’Arsenale al Consorzio Venezia Nuova e alla Biennale anche recenti (prevenendo ed esautorando gli organi democratici di imminente elezione) di spazi ulteriori ai già moltissimi concessi (Sale d’Armi nord e sud) o vincolati a verde pubblico (Giardino delle Vergini).
Gli oneri di urbanizzazione, cioè le risorse per la realizzazione della qualità degli insediamenti urbani (prescritte fin dal 1977 dalla legge Bucalossi –Testo Unico per l’Edilizia n.10) non devono essere più dirottati per le spese ordinarie dei bilanci comunali (incentivando così anche le edificazionie le cementificazioni inutili); cominciò a consentirlo il governo Amato nel 2001 e ora i Commissari prefettizi di Venezia Zappalorto e Tatò propongono l’integrale deroga dalla destinazione di legge per la qualità urbana e il loro uso per spese ordinarie correnti.
Le strutture dell’amministrazione devono essere adeguate ai compiti per una efficace tutela e attuazione degli interessi pubblici e i piani e i progetti devono essere sottoposti ai pareri della Commissione di Salvaguardia in attuazione alle Leggi Speciali vigenti (il Comune di Venezia è l’unico dei nove comuni di gronda che non invia le documentazioni per i pareri di legge).
Per la vivibilità e la socialità della città, occorre che la comunità urbana si riappropri delle decisioni e del controllo sull’uso dei beni e degli spazi pubblici.
Relazione di Paola Somma all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015
1. La mappa con la localizzazione degli immobili e/o delle aree pubbliche cedute ai privati negli ultimi anni, o la cui alienazione è stata annunciata, mostra l’enorme dimensione di un fenomeno che sta travolgendo l’intero territorio comunale. Perchè viene venduto il patrimonio pubblico? Come vengono prese le decisioni? Quali effetti la sistematica privatizzazione di pezzi di città ha sull’intera città?Per capire quello che sta avvenendo, più che di vendita, termine che richiama l’esistenza di un contratto tra due parti consenzienti, il venditore e l’acquirente, è utile adottare un lessico di guerra e parlare della PRESA di Venezia.
Se fossimo in guerra, la mappa mostrerebbe le posizioni che abbiamo perduto e, allo stesso tempo, verrebbe usata al quartier generale del nemico per evidenziare le posizioni espugnate. In ogni caso rende visibile l’entità della preda, la cui conquista frutta un ricco bottino a chi se ne impadronisce. C’è un tesoro in comune (L’Espresso, 1 giugno 2010), titolava un giornale qualche anno fa e spiegava come “grazie al cambio di destinazione d’uso, i beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore” . Nello stesso articolo si chiariva che “il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari”.
2. Quali sono le forze che si contendono i beni pubblici? Da un lato ci sono le città, nel senso di civitas, cioè l’insieme dei cittadini, indipendentemente dalle loro ricchezze o dalle cariche che ricoprono, dall’altro gli investitori che hanno “fiuto per gli affari” – Tra le due parti c’è il governo, ad ogni livello territoriale, che per definizione è investito della promozione del benessere collettivo, ma che di fatto è schierato a sostegno di chi si sta appropriando di ogni bene pubblico. Così, il governo centrale trasferisce beni del demanio ai comuni, affinchè i comuni li vendano. “Regali piovono sul comune”, dicono i giornali, dimenticandosi di specificare che si tratta di regali “in transito” e che il beneficiario finale non sono i comuni, ma soggetti privati.
Inoltre, il governo crea appositi meccanismi e strutture, tra le quali la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi fondi d’investimento immobiliare, col preciso scopo di “stimolare e ottimizzare i processi di dismissione di patrimoni immobiliari degli enti pubblici che presentino un potenziale di valore inespresso, per esempio legato al cambio d’uso”. Tali strutture operano sull’intero territorio nazionale, ma ovviamente, sono più aggressive dove la preda è più ricca. Cassa Depositi e Prestiti scatenata alla conquista di Venezia (Venezia Today, novembre 2014) è l’efficace titolo con cui si illustra l’attività della Cassa che “sta acquistando a basso costo immobili e isole per riutilizzarli per operazioni di carattere turistico e alberghiero”.
Infine, un ruolo non secondario nella smobilitazione del patrimonio pubblico è affidato alle molte istituzioni, società ed enti titolari di un patrimonio che è dei cittadini – dall’azienda sanitaria all’Università, all’azienda dei trasporti locali. Tutte vengono di fatto, e spesso di diritto, scisse in due tronconi. Ad uno si conferisce il patrimonio immobiliare, e lo si trasforma in una vera e propria società di sviluppo immobiliare (vedi ACTV e PMV), all’altro, sempre più impoverito resta il compito di erogare i servizi e diventa una “bad company”.
3. In questo scenario o teatro di guerra, tutti gli amministratori che negli ultimi 20 anni hanno governato Venezia hanno scelto di non valorizzare nulla e di dismettere tutto, e l’hanno fatto senza coinvolgere i cittadini o contro la loro espressa volontà. Tutte le decisioni che si sono tradotte in una perdita di patrimonio pubblico (dalla creazione del fondo immobiliare alle svendite di palazzi) sono state assunte dal sindaco e dalla sua squadra che hanno operato come quinta colonna degli investitori privati. «Dobbiamo arrangiarci e saperci vendere», ha detto nel 2009 l’ex sindaco Cacciari. E nel sito web della Direzione Svilluppo Territorio ed Edilizia una apposita rubrica è stata dedicata al Marketing Urbano e Territoriale, nella quale si esalta la partecipazione a tutte le fiere del settore immobiliare (Expo Italia Real Estate, Urban Promo, Tre Eire, Mipim) e le azioni sostenute per segnalare agli operatori del “comparto Real Estate le opportunità di investimento”. A questi eventi i funzionari del comune si recano con il portfolio delle “occasioni in offerta” che comprende, di volta in volta, Forte Marghera, l’Ospedale al Mare, i palazzi ceduti al Fondo Immobiliari.
4. La propaganda si è rivelata una delle armi più efficaci per prevenire e neutralizzare le reazioni delle comunità e indurci a consegnare senza resistenza il patrimonio di noi tutti. D’altronde, chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, dicono gli strateghi militari. L’argomento più usato è quello secondo il quale la vendita del patrimonio è “funzionale al ripiano del debito pubblico”. Dal momento, però che malgrado le continue vendite il deficit di bilancio continua ad aumentare, è opportuno chiedersi se il nesso causale tra debito e vendite non vada invertito. Forse il comune intraprende grandi opere inutili e persevera in grandi sprechi perché mette in bilancio ipotetici guadagni o perchè sa che più si indebita più potrà vendere. Il Comune è con l’acqua alla gola, titola Repubblica nel maggio 2010, e aggiunge «se non vende i suoi tesori rischia di non poter saldare i conti del Palazzo del Cinema».
Il che significa che prima si è decisa l’operazione Palazzo del cinema e poi si “scoperta” la necessità di vendere l’ospedale. Allo stesso modo, prima si è deciso che Venezia ha bisogno di un tram per portare milioni di turisti da aeroporto al porto, poi si è stati “costretti” a svendere il deposito di mezzi ACTV in via Torino. Il risultati è che sull’area un privato ha costruito un grattacielo, mentre l’ACTV deve affittare spazi per i veicoli e compensare le costanti perdite con l’aumento dei biglietti. Se le vendite non servono a ripianare i debiti, bisognerebbe quindi chiedersi se l’obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio sia il vero obiettivo o se, in realtà, il vero scopo non sia quello di far si che il comune resti sempre indebitato. Un comune senza debiti, infatti, non sarebbe obbligato a svendere, e non c’e miglior tattica per costringere alla resa gli assediati che prendere la città per fame.
5. Le vendite del patrimonio pubblico non solo non rispondono a nessun requisito di razionalità economica, ma producono anche una serie di danni collaterali. Il comune, infatti, per rendere i beni più appetibili ai privati, non si limita a fissare prezzi molto vantaggiosi, ma offre o è disposto a “negoziare “ apposite varianti urbanistiche con relativo aumento di cubatura, nuova edificazione, rimozione di vincoli d’uso (si dice ad esempio che la cessione della Biblioteca di Mestre potrebbe portare a 5 mila metri cubi di nuova edificazione, la scuola Manuzio ha una potenzialità 22 mila metri cubi, l’Ospedale al Mare “si porta in dote” il piano di valorizzazione del Lido).
Oltre ad impoverire la collettività, le privatizzazioni contribuiscono a cedere ai privati, in quanto proprietari, il compito di fare il piano e a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano. Sono quindi il risultato di una serie di azioni concertate con gli investitori da parte dello stato che rompe il contratto sociale con i cittadini per facilitare l’estrazione di profitto privato.
6. Se non siamo di fronte a episodi di “compra vendita di immobili”, ma alla conquista da parte dei privati, con la complicità delle istituzioni, delle porzioni più appetibili del territorio e del ruolo di pianificatore della città, più che privatizzazione dovremmo parlare di privatismo e soprattutto dovremmo chiederci se dopo aver perso tante battaglie è ancora possibile rovesciare l’andamento della guerra? Fra le azioni per contrastare il fenomeno, indispensabile è svelare la manipolazione del linguaggio, il bombardamento di copertura ideologica. con la quale i mezzi di comunicazione raccontano al cittadino derubato i miracoli delle svendite, partendo dai termini rigenerazione- rinascita -rinascimento -riqualificazione – con i quali le azioni finalizzate ad incrementare la redditività dell’investimento privato vengono osannate come benefiche per tutta la collettività.
Lo stato si libera di spiagge, forti, isole è un trionfale titolo del Gazzettino, nel 2010, uno dei tanti esempi del modo con cui lo stravolgimento lessicale corrisponde ed è funzionale allo stravolgimento della democrazia urbana. Tra i termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa – amministratori, tecnici, mezzi di informazione – perchè alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. La presunta equivalenza tra la privatizzazione di un immobile pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con un artificio retorico. Si sostiene cioè che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico” . E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone” (come in un cinema, un bar, un centro commerciale).
Bisognerà, poi, ricostruire le vicende di ogni bene simboleggiato dai bollini rossi sulla mappa, a cominciare dall’Arsenale, la rocca della nostra città, il cui assedio è cominciato oltre 30 anni fa. Nel 1980, Paolo Portoghesi allora direttore della Biennale disse di voler usare la Biennale come “cavallo di Troia per aprire l’Arsenale”. Nel 1993 uno degli slogan della fortunata campagana elettorale di Massimo Cacciari fu “abbattiamo le mura dell’Arsenale!” Nè in un caso, nè nell’altro i cittadini hanno ascoltato Cassandra, finchè non è stato chiaro a tutti che “Arsenale restituito ai veneziani” (La Nuova Venezia, 2012) significa in realtà Arsenale lottizzato e assegnato ai vari potentati che si stanno spartendo la città, dal Consorzio Venezia Nuova alla Biennale. Per completare la missione pochi mesi fa il commissario Zappalorto ha dato incarico a NAI Global Italia, una società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione di fondi immobiliari, di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale.
Infine, la millantata “restituzione” dello spazio pubblico ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perchè consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Non a caso Paolo Baratta, il presidente della Biennale che in passato è stato ministro delle privatizzazioni del governo Amato e ministro del commercio estero del governo Dini ha rilasciato una serie di interviste nelle quali detta l’agenda alla futura amministrazione e reclama un «patto urgente per fare fronte comune e trovare risorse per nuovi interventi in Arsenale»… «io sono un po’ preoccupato”, ha detto “perché la logica di farne un’area urbana aperta come un qualsiasi altro spazio della città rischia di trasformarlo nel giro di una generazione in un’area edificabile come qualsiasi altra… perché si fa presto a dire pubblico, bello applaudire al passaggio dal Demanio al Comune ma con i chiari di luna in fatto di finanziamenti, il rischio è il ritorno degli immobiliaristi”.
Di fronte all’arroganza di chi si crede il governatore di un enclave occupata dalla quale organizzare sortite per occupare la città, anche noi chiediamo un patto con la futura amministrazione, perchè dopo la rapida ricognizione delle perdite faccia, con i cittadini, un piano realistico di ricostruzione del patrimonio pubblico, nella consapevolezza che esiste un rapporto stretto tra la ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico.
Riferimenti
Sugli episodi di "mecenatismo" a Venezia vedi i numerosi scritti di Paola Somma in questo sito. In particolare, per l'apporto del "mecenate" Rosso e il valore economico che ha ricavato dal suo obolo vedi " Il ponte del Fontego ". Vedi poi i libretti della collana "Occhi aperti su Venezia" di Corte del fontego editore. Pubblicheremo inoltre su eddyburg i testi delle relazioni svolte all'incontro dedicato alla "Presa di Venezia" organizzato da Corte del fontego editore, da Italia nostra - Venezia e da eddyburg.
Lo hanno scritto e affermato in molti. Queste elezioni regionali consegnano una certezza non camuffabile: Matteo Renzi è stato seccamente... (continua a leggere)
Per afferrare la portata strategica di questa sconfitta occorre brevemente rammentare le mosse vincenti compiute da Matteo Renzi. E' evidente che un passaggio decisivo, il primo, più clamoroso, è stata l'alleanza diretta con Berlusconi. Il patto del Nazareno. Più spregiudicato di Letta, che si era fermato ad Alfano, Renzi ( ah, questi cattolici intemerati!) ha scelto direttamente di portarsi in casa l'Orco, di stringere un patto con l' Impresentabile. Il Berlusconi di allora era una perfetta anatra zoppa, ancora con tanto potere, ma privo di agibilità politica, come si diceva. Un avversario ideale per Renzi, che poteva persuaderlo facilmente del vantaggio reciproco delle sue mosse, tanto più che si trattava di scelte graditissime al capo del centro-destra. L'iniziativa, urticante per tanti dirigenti del PD, per la sua base e per i suoi elettori, è stata abilmente giustificata dalla necessità di coinvolgere anche l'avversario per riforme di portata costituzionale.
Ma il conflitto con la sinistra interna e soprattutto le scelte del governo hanno toccato radici profonde del consenso su cui si è retto sinora il PD. E occorre rammentare. Per ragioni di inerzia culturale, e per vari altri fattori, il PD, agli occhi di tanti italiani, è apparso come l'erede storico del vecchio PCI. Se anche per un intellettuale radicale come Mario Tronti, il Pd è ancora IL PARTITO, figuriamoci quanto tale identificazione abbia operato nella mente di semplici militanti ed elettori. E per questa larghissima fascia del popolo della sinistra – che in Italia è vivo e vegeto nonostante gli scongiuri degli avversari – Il Jobs act ha significato la licenziabilità e la ricattabilità dei dipendenti da parte del padrone. Mentre la Buona scuola e il preside-manager sono apparsi un cuneo lacerante dentro la comunità scolastica, un diversivo autoritario per non affrontare il problema centrale: la remunerazione secondo standard europei dei nostri insegnanti.
Dunque, queste scelte di destra sono state punite dagli elettori di sinistra, ma non premiate dagli elettori di destra. Perché, visto che il centro-destra è ancora più diviso del fronte avversario? Credo che una risposta sia da cercare nel fatto che pressoché nulla è cambiato nella condizione della grande maggioranza degli italiani. La pressione fiscale si mantiene elevata, sia al centro che in periferia, ed è anzi in crescita, la disoccupazione non da segni di cedimento, salari e stipendi sono fermi, aumenta senza sosta il part-time. Nessuno di questi dati è stato scalfito dall'azione di governo, e Renzi va in giro spandendo sorrisi di letizia per la ripresa in atto. Ma tale forma di comunicazione è altamente controproducente: mostra agli italiani solo la sua strabiliante capacità di mentire. Non è tutto. Le forze di centro-destra, ma anche il movimento 5S, conducono una politica aggressiva nei confronti dell'UE, ormai responsabile sempre più decisiva delle nostre disastrose condizioni. Ma Renzi, dopo i motteggi orgogliosi su “ l'Europa cambia verso”, dopo un semestre europeo senza sussulti, ha mostrato il suo perfetto allineamento ai voleri di Bruxelles, il solito perbenismo europeista di chi fa i compiti a casa. Con un ministro dell'Economia, Padoan, che sembra davvero credere nello screditato catechismo dei padroni dell'UE. E questo ormai gli italiani non lo perdonano più a nessuno.
Dunque, il progetto di Renzi è crollato. E ciò non è avvenuto per imperizia. Se si è onesti occorre riconoscere che l'uomo è senza storia e senza cultura, privo perciò di visione. E' solo tatticamente bravo: non basta per un grande paese nelle nostre condizioni. Con queste elezioni la destra italiana ha annusato il sangue e sa che può tornare a vincere, anche incrementando, come fa Salvini, la guerra tra poveri, visto che la riduzione del welfare e la disoccupazione l'alimentano. E ha sperimentato, anche con Toti, quanto sia conveniente opporsi a Renzi invece di collaborare. Questa stampella dunque verrà meno. A sinistra per il momento non c' è gran che, mentre resta in piedi la forza oppositiva dei 5S. Un movimento, com' è stato osservato, che ha mostrato la rapida maturazione di un gruppo dirigente giovane, radicato nelle realtà locali, malgrado l'estremismo infantile di Grillo e Casaleggio. Il bipolarismo che doveva mettere ai margini le “frange estreme” è a pezzi. Il partito della nazione resta un sogno di regime da riporre nel cassetto.
Le vicende in corso sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze spiegano come i privati oramai decidano a loro piacimento sulla cosa pubblica ...(continua a leggere)
Le vicende in corso sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze spiegano come i privati oramai decidano a loro piacimento sulla cosa pubblica con la collaborazione di organismi statali (leggi Ministero delle Infrastrutture ed ENAC); mentre gli enti rappresentativi, in primis la Regione Toscana, stanno a guardare. Comportamenti tanto più gravi se si considera che nel progetto elaborato dalla società Aeroporto di Firenze (Adf) e proposto da ENAC nella procedura VIA, in gioco non sono solo la pista e le sue attrezzature, ma il rifacimento completo della piana a contatto con Firenze: tra l'altro, il nuovo sistema di raccolta delle acque alte e basse - con la deviazione e ricostruzione di un ampio tratto del Fosso Reale - le aree di compensazione delle superfici impermeabilizzate, il nuovo collegamento (quanto mai improbabile) tra il centro di Sesto Fiorentino e l'Osmannoro; per non parlare delle criticità, tra cui le pesanti interferenze con il polo universitario di Sesto e i vincoli che ne impediranno non solo l'ampliamento, ma anche una gestione in sicurezza.
Progetti di questo tipo ed entità, secondo la normativa europea, nazionale e regionale, devono essere accompagnati da un ampio ed effettivo processo di partecipazione. Nella fattispecie, la Regione Toscana si era impegnata, in sede di Variante del Piano di indirizzo territoriale, a sottoporre il progetto a Dibattito pubblico, così come è previsto dalla legge regionale sulla partecipazione. Ma ENAC e Adf non sono d'accordo e non vogliono esami o discussioni: rispondono picche alla Regione che chiede di essere messa a conoscenza del progetto (come sarebbe doveroso in una leale collaborazione) e lo rendono noto come 'definitivo' solo nella procedura VIA. Tuttavia, leggendo la documentazione depositata presso il Ministero dell'Ambiente, ci si rende facilmente conto che il progetto è carente in molte parti e in altre elaborato solo in linea di massima; perciò, non di 'definivo' si tratta, bensì di 'progetto preliminare', non a caso indicato da proponente come 'Master Plan'.
L'aspetto più grave della vicenda, tuttavia, va oltre l'opacità della gestione del progetto. Il risvolto più critico - un anticipo del potenziale contenuto nella legge Sblocca Italia - è che il piano di una parte così critica e delicata dell’area metropolitana fiorentina sia affidato un operatore privato, Air Corporacion America (anche proprietaria dell'aeroporto di Pisa) che decide sulla base dei propri interessi: mentre quelli pubblici sono tutti da dimostrare; nella marea di documenti prodotti da Adf ne manca, infatti, uno fondamentale: uno studio serio e approfondito che spieghi l'utilità del nuovo aeroporto. Molte pagine a pagamento sui giornali, ma nessuna seria analisi ne spieghi i vantaggi a fronte di un riassetto che accentua criticità e caratteri di artificialità del territorio. In sintesi: il territorio al servizio dell'aeroporto e non viceversa.
A fronte di un progetto di rilevante interesse pubblico che viene gestito non solo privatisticamente, ma in modo non partecipato, cosa fa la Regione Toscana che si vede messa all'angolo e che non viene messa in grado di svolgere il Dibattito pubblico (ammesso che lo voglia veramente svolgere); che potrà intervenire sul progetto di Adf solo in seconda battuta, con un suo parere nella Conferenza di servizi, dove, presumibilmente si arrenderà ai voleri di Marco Carrai, presidente di Adf e sodale di Matteo Renzi? La Regione tace ed è implicitamente accondiscendente; e non è irrilevante che, nonostante il plateale sconfinamento di Adf e ENAC contro uno strumento di pianificazione approvato, la Regione Toscana non abbia presentato alcuna osservazione in proposito (né alcuna osservazione in generale). E cosa fa Enrico Rossi, rieletto con largo margine presidente della Regione Toscana? Manterrà, dopo avere preso le distanze da Anna Marson, il silenzio sulla richiesta di Dibattito pubblico presentata da tutte le associazioni ambientaliste? Rossi rieletto in modo plebiscitario, ma con un 50% di astensioni: per sfiducia nella politica e nelle istituzioni, come è giustificato dalle vicende tortuose e opache del nuovo aeroporto di Firenze.
PS Non stupisce che il progetto dell'aeroporto, nella fase di valutazione di impatto ambientale, abbia ricevuto numerose e dettagliate osservazioni, sia sugli aspetti normativi e procedurali, sia sugli aspetti sostanziali e tecnici. A tutto ciò i rappresentanti di Adf rispondono con arroganza, senza entrare nel merito; preferendo l'invettiva all'argomentazione. Alle documentate e precise osservazioni dell'Università di Firenze, contenute in decine di pagine di studi tecnici, Roberto Naldi, presidente di Corporacion America Italia, risponde: «Mi aspettavo qualcosa di più qualificato, invece lo studio è banale e squalificante, fatto da persone che non hanno alcuna esperienza in fatto di aeroporti»: il 'privato' in linea con l'atteggiamento aggressivo di una politica fatta di slogan e di insulti.
Le televisioni mettono ogni tanto in circolazione un film del 1985 intitolato “Cinque minuti dalla fine”, del regista sovietico (allora esisteva ancora l’URSS) Andrej Končialovskij. La storia è presto detta: due detenuti, uno anziano e uno giovane, fuggono da un penitenziario e saltano su quattro potenti locomotive in movimento senza sapere che il guidatore è morto di infarto. Le locomotive corrono senza controllo; i dirigenti della compagnia ferroviaria non riescono a fermarle e possono solo dirottare il convoglio su un binario morto. Il detenuto anziano, interpretato da un eccellente John Voight (premio Oscar), si sfracella contro una montagna dopo essere riuscito a sganciare l’altra locomotiva su cui si trova il detenuto giovane che si salva, così, a “cinque minuti dalla fine”. Mi è tornato in mente questo film come metafora di quello che potrebbe succedere se continua lo sfrenato aumento della concentrazione nell’atmosfera di alcuni gas, come anidride carbonica, ossido nitroso, metano, composti clorurati e alcuni altri. Secondo l’opinione della maggior parte degli studiosi tali gas trattengono una parte del calore solare all’interno dell’atmosfera con conseguente riscaldamento anche degli oceani e dei continenti e crescenti mutamenti climatici, da siccità (ce n’è una catastrofica adesso in California) a improvvise piogge torrenziali.
L’aumento della concentrazione di tali gas (detti “gas serra” perché il riscaldamento planetario ha luogo con un fenomeno simile a quello che avviene nelle serre) è attribuito al crescente uso di combustibili fossili e a vari processi chimici industriali. Pertanto, se continuasse ad aumentare la quantità di fonti di energia e di merci prodotte e “consumate” dalla popolazione terrestre, aumenterebbero, in maniera crescente e irreversibile, la temperatura del pianeta, le bizzarrie climatiche e i conseguenti danni sotto forma di perdita di raccolti, di distruzione di edifici e strade, di innalzamento del livello dei mari con allagamento di zone costiere. Per rallentare tali danni e dolori futuri, bisognerebbe, perciò, diminuire i consumi di fonti di energia e di beni materiali, disturbando però, così, quella divinità intoccabile che è la crescita economica e merceologica.
Questa prospettiva non piace, anzi disturba molto, molte persone. Prima di tutto i venditori di carbone, petrolio e gas naturale, i quali vedrebbero compromessi i propri profitti; per lo stesso motivo non piace ai venditori di minerali, macchinari, prodotti chimici, alimenti, eccetera. E tutti questi hanno buon gioco nello spiegare che, se si desse retta alla tesi sopra esposta, milioni di persone perderebbero il lavoro. La proposta di mutamento non piace ai ricchi, naturalmente, che non vogliono rinunciare ad avere più beni di lusso, ma non piace neanche a molti abitanti dei paesi industriali che sono appena riusciti a possedere l’automobile e la casa, e piace ancora meno agli abitanti dei paesi poveri i quali chiedono di avere beni materiali per uscire dalla miseria e dall’arretratezza.
Proprio per cercare una riposta alle preoccupazioni per i mutamenti climatici, nelle settimane scorse molti scienziati si sono riuniti presso le due Accademie pontificie, quella delle Scienze e quella delle Scienze sociali, e hanno concluso i lavori con una dichiarazione in cui si afferma che “l’azione umana, attraverso l’uso di combustibili fossili, ha un impatto decisivo sul pianeta. Se continuano le tendenze attuali, questo secolo sarà testimone di cambiamenti climatici senza precedenti e della distruzione dell’ecosistema, con conseguenze drammatiche per noi tutti”. Le cause sono state riconosciute nel massiccio uso di combustibili fossili da parte dei paesi ricchi mentre i danni climatici colpiscono maggiormente gli abitanti dei paesi poveri, nelle “pratiche agricole su scala industriale che stanno distruggendo ecosistemi”, nell’ampliamento delle disuguaglianze economiche e sociali.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
L’unica applicazione “commerciale” dell’energia solare, capace, cioè di “far soldi” (che è l’unica cosa che molti chiedono al Sole), consiste nei pannelli fotovoltaici...(leggi tutto)
La possibilità di ottenere energia dal Sole dipende da una catena di rapporti commerciali che comincia con i produttori delle celle fotovoltaiche vere e proprie e dei pannelli, poi passa attraverso chi importa i pannelli, chi va a convincere i governanti ad assicurare incentivi finanziari, chi vende pannelli solari porta a porta promettendo sicuri guadagni, chi assicura il montaggio e la manutenzioni dei pannelli, chi vende i dispositivi capaci di trasformare l’elettricità a basso voltaggio, prodotta dai pannelli, nell’elettricità a 220 volts come vogliono i frigoriferi, i televisori, le cucine e gli scaldabagno elettrici. Infine la catena continua con chi predispone la “vendita” dell’elettricità solare, ad alto prezzo, alle società elettriche che in cambio cedono, quando il Sole è assente, a prezzi più bassi l’elettricità ai venditori solari; la differenza fra i due prezzi è pagata da tutti noi.
Il principale inconveniente dell’elettricità solare sta proprio nel fatto che essa viene prodotta di più nelle ore centrali della giornata e d’estate, quando è bassa la richiesta, ed è scarsa o assente nella notte e nei mesi invernali quando invece è elevata la richiesta da parte delle famiglie, degli uffici, delle fabbriche. La soluzione può essere cercata soltanto in un sistema capace di accumulare l’elettricità, a mano a mano che è prodotta, in modo da renderla disponibile quando è richiesta.
Le batterie di accumulatori sono dispositivi ben noti da oltre un secolo; ogni automobile ne ha una che viene ricaricata durante il viaggio e assicura l’elettricità per l’avviamento del motore fermo. Le batterie finora più comuni sono quelle a piombo e acido solforico. Con la diffusione della microelettronica è aumentata la domanda di batterie ricaricabili di piccole dimensioni e ciò ha stimolato la ricerca scientifica che ha portato all’invenzione, negli anni novanta del Novecento, delle batterie a ioni di litio ricaricabili.
Con diverse soluzioni sono così diventate disponibili batterie capaci di immagazzinare fino a 0,200 chilowattore di elettricità in un chilo di peso; dopo che è stata prelevata l’elettricità che essa contiene, la batteria può essere ricaricata, per esempio con l’elettricità prodotta di giorno dai pannelli fotovoltaici, ed è pronta a restituirne una parte in un momento successivo. Con le migliori batterie è possibile ripetere questi cicli di scarica-e-ricarica alcune migliaia di volte, poi la batteria va buttata via.
Proprio nei mesi scorsi è stata annunciata la produzione di batterie a ioni di litio, della dimensione di un frigorifero, capaci di immagazzinare fino a 7 chilowattore, più o meno l’elettricità consumata da una famiglia in un giorno. Una società americana ha annunciato la costruzione, nel deserto del Nevada, di una fabbrica capace di produrre queste batterie su larga scala. Sarebbe la soluzione rivoluzionaria: i pannelli solati darebbero liberati dal dover dipendere dalle grandi società elettriche per gli scambi di elettricità, dai capricci della politica che decide gli incentivi; la famiglie potrebbero godere di una autonomia elettrica, grazie all’energia solare.
Non solo; le nuove batterie consentirebbero il lancio delle automobili elettriche; con pochi minuti di ricarica, allacciata ad una presa di elettricità, una automobile elettrica potrebbe percorrere diecine o centinaia di chilometri, senza inquinamento, silenziosamente; vedremmo sorgere nelle strade “distributori” di elettricità simili a quelli odierni di benzina o gasolio, o si potrebbe ricaricare le batterie dell’automobile di notte nel garage di casa, magari con l’elettricità prodotta di giorno dai propri pannelli solari. Insomma, nuove automobili, nuove fabbriche, nuovo lavoro, minore inquinamento, minore consumo di petrolio.
Come in ogni grande innovazione ci sono però alcuni inconvenienti; per la fabbricazione delle nuove batterie occorrerebbero grandi quantità di litio, di cui esistono grandi riserve in Argentina, Bolivia, Cile; occorrerebbe cobalto, di cui il Congo Kinshasa, in Africa, contiene metà delle riserve mondiali; occorrerebbe grafite naturale e sintetica. Da una trappola all’altra? La natura non da niente gratis; solo l’ingegno è gratis ed ecco che altri laboratori e imprese stanno sviluppando batterie ricaricabili che utilizzano alluminio, al posto del litio, sfruttando la formazione di una differenza di potenziale fra un anodo (polo negativo) di alluminio e un catodo di grafite, a contatto attraverso soluzioni di cloruro di alluminio; i proponenti promettono che tali batterie potrebbero sopportare 7000 cicli di scarica-e-ricarica con una rapida ricarica in pochi minuti.
Con nuove batterie forse l’elettricità solare potrebbe liberarci dalle fonti energetiche fossili, aiutarci ad eliminare parte dell’inquinamento e delle cause del riscaldamento globale, contribuire, insomma, a realizzare quella società solare in cui tanti hanno (abbiamo) sperato. Il cammino è appena iniziato, aspetta altre scoperte e innovazioni e promette nuovo lavoro.
Che i grandi flussi migratori costituiscano fenomeni inarrestabili, destinati a cambiare il volto dei paesi, dovrebbe esser noto in Italia, terra d’emigrazione e di antica sapienza storica. A poco valgono le barriere, gli strepiti, le paure di fronte a processi demografici e sociali incontenibili. Essi avanzano a dispetto di tutto, procedono anche molecolarmente e cambiano la storia del mondo, che lo vogliano o no i contemporanei.
Perciò una istituzione come i Centri d’Identificazione ed Espulsione – nati dalla fantasia miserabile del centro-destra — ha sintetizzato tutta la miopia e l’inettitudine delle nostre classi dirigenti di fronte a un fenomeno che non sono in grado di fronteggiare, ma neppure di comprendere. Miopia e inettitudine paradossali, per un paese in declino demografico, malamente invecchiato, che respinge l’energia vitale di una gioventù affamata di lavoro, di stabilità e di sicurezza di vita. Eppure, non mancano gli esempi recenti che potrebbero insegnare qualcosa ai governanti italiani e anche a quelli europei.
I quali, come s’è visto di recente, di fronte alle ecatombi nel Mediterraneo, condensano la loro alta progettualità nell’idea di affondare i barconi dei disperati. Qui gli algoritmi degli strateghi della finanza precipitano nel ridicolo. Negli anni ’90 gli USA hanno conosciuto una ondata di immigrazione fra le più vaste e intense della loro storia.
Quell’immissione demografica, proveniente dal Sud e Centro America, ha costituito, fino all’ 11 settembre, una delle leve della straordinaria espansione economica del decennio. Nuova popolazione, dunque nuovi bisogni di case, servizi, cibo e beni, e tanta disponibilità di forza lavoro a basso costo. E ancora oggi è l’immigrazione che tiene in piedi la base alimentare di quel paese. In California, la “campagna” degli USA, quasi nessuna raccolta di frutta e ortaggi sarebbe possibile senza il lavoro dei latinos, in grado di reggere un durissimo lavoro a temperature insopportabili per la popolazione americana. Non è un modello da imitare, ma è la realtà. Ma anche a casa nostra, lo ricordano giustamente Tonino Perna e Alfonso Gianni nel loro articolo, gli immigrati svolgono già una funzione economica decisiva nelle nostre campagne, ancorché in condizioni spesso inaccettabili. Si fa poco sapere agli italiani, ad es., che gran parte del settore zootecnico del Nord Italia è stato tenuto in vita dal lavoro oscuro e silenzioso degli immigrati dall’India.
Ma quanto propongono Perna e Gianni può diventare in effetti un grande progetto. Costituisce una strada non solo utile e percorribile, ma obbligata per un insieme di ragioni. Intanto perché riportare alla nostra terra migliaia di giovani africani o di altri altri stati che l’hanno dovuta abbandonare nel loro paese, per miseria o per guerra, significa dare una prospettiva a una parte importante della popolazione migrante. Al tempo stesso, l’ingresso di tanti giovani che hanno esperienza e vocazione per il lavoro agricolo potrebbe rimettere in vita territori vastissimi non solo del nostro Sud, ma anche delle colline preappeniche di tutta la Penisola, oggi in abbandono o in via di spopolamento. Infine, porre il fenomeno dell’immigrazione al centro di un vasto progetto di inserimento sociale, farne una leva di progresso economico e ambientale di tutto il paese, rafforzerebbe enormemente il discorso di pura difesa umanitaria degli immigrati che oggi fa la sinistra e le forze democratiche. Qui sta un nodo di elaborazione politica di assoluto rilievo, che può disinnescare la miscela populistica e xenofoba della destra italiana.
Com’ è ovvio, il processo di inserimento dei nuovi arrivati nelle nostre campagne non può essere affidato alla spontaneità. Questi miracoli del cosi detto libero mercato avvengono solo nella testa degli economisti neoliberisti. Occorre che la mano pubblica faccia la sua parte, sia a livello centrale, con apposite leggi, sia in periferia, tramite le amministrazioni comunali. La base di partenza è la disponibilità della terra. Esistono immense estensioni di territori abbandonati, ricordano Perna e Gianni. Ma molti di questi, specie se collocati non lontano dal mare, sono in attesa di edificazione, perché la speranza di arricchirsi con la rendita non muore mai. E dunque occorre stabilire per legge l’impossibilità netta e invalicabile di cambiare destinazione d’uso alle terre agricole. Tanto più che si tratta quasi sempre di terre collinari, che assolvono un compito di equilibrio ambientale e idrogeologico decisivo per la sicurezza di territori e abitati. Ma i comuni dovrebbero fare la loro parte, impegnandosi a inventariare le loro terre e quelle demaniali disponibili.
In queste aree, che rappresentano certamente l’osso della nostra agricoltura, è possibile sviluppare economie niente affatto marginali. Nelle migliori terre di collina potrebbe fiorire e in parte rifiorire la frutticoltura di qualità, in grado di valorizzare la biodiversità agricola ineguagliabile di cui ancora disponiamo. Oggi esiste solo a livello amatoriale, si dovrebbe innalzare a una scala accettabile di produzione e immettere nel mercato. Ma accanto all’agricoltura si potrebbe sviluppare un ambito gravemente sottovalutato: quello della silvicultura.
E’ poco noto che nel Mezzogiorno l’intervento della Cassa, che ha riforestato larga parte delle nostre montagne e colline - limitando le alluvioni che periodicamente funestavano paesi a abitati - ha avuto un indirizzo molto specifico: si è limitato alla protezione del suolo dai fenomeni di erosione. Oggi noi abbiamo km quadrati di boscaglia e di macchia e siamo costretti a importare dall’Europa il legname da opera: noci, ciliegi, castagni, oltre a quello dei paesi tropicali. Si apre dunque uno scenario di possibilità di nuova forestazione con alberi di pregio di straordinaria ampiezza, in grado di far rivivere tanti paesi e terre oggi abbandonati. Tanto più che alla selvicoltura si può accompagnare l’allevamento, soprattutto di animali da cortile, e l’uso delle acque interne, capaci di produrre reddito immediato.
Naturalmente, a valle, si presenta il problema della commercializzazione dei prodotti. E’ questo l’altro grande nodo su cui intervenire. Lasciare i produttori in balia della grande distribuzione significa strozzare i loro redditi e condannarli all’abbandono dell’impresa. E qui occorre imparare dall’esperienza della riforma agraria del 1950. Le imprese che allora ebbero successo e riuscirono a sopravvivere, furono quelle che ebbero una quota sufficiente di terra (almeno 5 Ha) e la casa. Ma che al tempo stesso godettero dell’assistenza tecnica degli Enti di riforma e la possibilità di accesso al mercato. La creazione di cooperative, come quelle previste dal Decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte, del 1944, dovrebbe costituire una piattaforma importante dell’intero progetto, in grado di mettere insieme efficienza economica e relazioni solidali. Non è solo in gioco la possibilità di valorizzazione economica dei territori. Si gioca qui anche la scommessa di ricostruire, sulle nostre antiche terre, nuove comunità di vita
Un diamante è tornato a brillare, nei giorni scorsi, nel cielo di Roma e svetta, con la sua cuspide candida, riuscendo a spandere una parte del suo splendore sulla consueta cornice di traffico e caos urbano che lo circonda. La piramide Cestia, innalzata alla moda egizia da un ricco commerciante romano, nel I secolo a.c., è stata di nuovo riaperta al pubblico completamente ripulita e consolidata, dopo un restauro durato 327 giorni (quanto la costruzione) e terminato con 75 giorni di anticipo rispetto alla stima di progetto. L'operazione, curata integralmente dalla Soprintendenza Archeologica statale di Roma, è stata finanziata in toto da un imprenditore giapponese, Yuzo Yagi che, come unica contropartita, ha voluto offrire una festa finale in occasione della conclusione dei restauri e della riapertura al pubblico del monumento, il 20 aprile scorso.
Alla festa non ha partecipato il ministro Franceschini che pure questo rarissimo - forse l'unico da molti anni a questa parte - esempio di mecenatismo puro nei confronti del nostro patrimonio culturale dovrebbe tenerselo caro, visti i non esaltanti risultati del suo Art Bonus, il provvedimento che avrebbe dovuto moltiplicare le erogazioni liberali dei privati a sostegno del patrimonio (comunque posteriore all'elargizione di Yagi).
Non è il suo unico problema, in verità: allo stesso modo la cosiddetta riforma del Mibact, la riorganizzazione della macchina ministeriale originata dalla spending review, pare impantanata in gravi impasses organizzative, con strutture, archivi e biblioteche in primis, già ora in forte sofferenza, mentre si dilatano i tempi per l'avvio a pieno regime dei venti Musei autonomi: sicuramente i 20 direttori non arriveranno, come previsto, a giugno.Esito non stupefacente considerato il modus operandi del ministro e dell'altissima dirigenza Mibact programmaticamente diffidenti nei confronti delle competenze interne, costantemente ignorate quando non delegittimate.
È accaduto, ad esempio e a più riprese, con la vicenda della ricostruzione dell'arena del Colosseo che il ministro, anche pochi giorni orsono ha ribadito di voler ricostruire per ricavarne i diritti TV derivati da "rappresentazioni uniche al mondo". Uniche non solo nello spazio, ma anche nel tempo, visto che nessun romano ha mai assistito agli spettacoli dal livello dell'arena. A meno che - falsificazione per falsificazione - non si intenda poi procedere con la ricostruzione delle gradinate: peccato che quei guastafeste dei magistrati abbiano messo sotto accusa quel brillante antecedente costituito dal rifacimento del Teatro Grande di Pompei. Anche in questo caso, il ministro ha ignorato il parere dei propri funzionari: la direttrice del Colosseo ha più volte pacatamente esposto le molteplici ragioni tecniche e scientifiche che si oppongono ad un progetto simile.
Lo spregio nei confronti delle competenze interne è evidentemente una delle cifre "stilistiche" di questo governo, basta pensare alle inaudite dichiarazioni della ministra Giannini sugli insegnanti suddivisi fra abulici e squadristi. E le conseguenze nefaste di una simile deriva si sono viste ieri, 3 maggio, a Bologna, dove l'unico confronto concesso dal premier agli insegnanti che protestavano- manganelli permettendo - è stata un'udienza in un retrobottega, a favor di telecamere.
Al contrario, proprio chi cerca di far valere le ragioni della scienza e dell'esperienza, di una competenza maturata sul campo in condizioni sempre più difficili di anno in anno, sia sul piano materiale che della delegittimazione politica è forse l'unico antidoto efficace agli squadrismi reali, da un lato e dall'altro alla "retorica delle puttane" (cit. Montanari) di cui l'inaugurazione Expo ci ha fornito esemplificazione mortifera.Una retorica che non può nascondere il vuoto culturale di una manifestazione ormai fuori tempo massimo quanto a spirito e motivazioni socioeconomiche e il cui unico obiettivo appare la celebrazione acritica della monocoltura commerciale. Osservando le inutili e pretenziose architetture dei padiglioni di questa fiera scombiccherata - una sorta di postalmarket dell'archistar - si pensa sconsolati al "less is more" dell'autore del più bel padiglione Expo mai concepito, quello sì, all'insegna dell'innovazione. Ma era il 1929 ed era Ludwig Mies van der Rohe.
E si pensa che l'innovazione, in realtà, nonostante tutto, qualcuno riesce ancora a farla in questo paese malandato. Con un'architettura di 2000 anni fa, riportata alla bellezza originaria attraverso l'uso sapiente e sperimentale di nuove metodologie di restauro e manutenzione e nuovi studi che ne hanno ricomposto una storia particolare e affascinante. E così pienamente restituita al godimento di tutti, per i secoli a venire.
È la piramide Cestia, o meglio i pochi ma competentissimi tecnici di un'istituzione di tutela statale, che meriterebbero il palcoscenico dell'Expo, perché è il loro sapere, esercitato sui resti del passato, non per feticismo, nè per sfruttamento effimero, che è in grado di insegnarci qualcosa di profondo sul nostro presente e di indicarci una possibile via per un futuro un po' più consapevole e meno retoricamente velleitario.
Me l'aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Guardo ora i giornali su internet. Tutti ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti... (leggi tutto)
Me lo aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Sfoglio i giornali su internet. Ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti compatti con i loro slogan contro le grandi opere inutili e costose, contro le scelte neoliberiste del governo. Invece raccontano, fotografano le azioni del “blocco nero”. Nessun giornalista dice chiaro che i blocchisti hanno potuto fare tutto quello che volevano, completamente liberi, senza il minimo ostacolo. La polizia assisteva agli incendi delle auto, alla rottura delle vetrine, agli imbrattamenti e non so a che altro come fosse davanti a una recita teatrale, a una finzione. Più violenza, più convenienza, non è difficile capire per chi. Mai visto scene paradossali come quelle in cui i blocchisti, prima vestiti come tutti, indossavano la divisa tutta nera dal cappuccio alle scarpe tenuta nei loro sacchi e, indisturbati, procedevano come programmato; poi si spogliavano del nerume, riponevano o gettavano, si rivestivano da bravi ragazzi e se ne andavano.
Pochi giorni prima il settantennio della Liberazione aveva superato certa stanchezza celebrativa degli anni scorsi. Grande partecipazione di giovani, anziani e vecchi, un corteo lunghissimo, pieno di simboli e di suoni; 150.000 persone per testimoniare la vitalità di un retaggio storico che i rigurgiti di fascismo anche in una città medaglia d’oro della Resistenza non potranno mai spegnere. Saranno questi osceni rigurgiti a essere ricacciati in gola ai vomitanti. Magnifici, antiretorici gli interventi in Piazza Duomo, specialmente quelli di un’insegnante di 33 anni e del presidente dell'Anpi Smuraglia (92!), entrambi incalzante denuncia della condizione gravissima del paese nell’economia, nella politica, negli assetti sociali, nella cultura.
Ricordavamo la manifestazione del 1994, l’enorme corteo sotto la pioggia rispecchiamento dell’opposizione radicale al governo Berlusconi: che dopo pochi mesi cadrà. Ieri nessuno poteva credere che il governo attuale fosse davvero in pericolo, tuttavia nasceva la speranza che un’opposizione sociale di sinistra degna del nome diventasse viva opposizione politica e agitasse la “morta gora” delle alte istituzioni, in verità miranti, vuoi rumorose vuoi quatte quatte, a demolire la Costituzione un pezzetto dopo l’altro.
Intanto si inaugurava l’Esposizione universale. Ne ho scritto l’11 aprile insieme a un po’ di storia sociale milanese (Com’era Milano e com’è al tempo dell’Expo) e lì rimando. Ho visto le immagini dei padiglioni, e dintorni, in una rassegna fotografica: un trionfo inconcepibile del Kitsch. Del resto il Kitsch, ormai, è considerato un movimento d'arte. Un’infestante festa rutilante di forme liberamente scriteriate del tutto prive di un qualche legame con la ricerca architettonica (non basta la scusa della provvisorietà). Ho già segnalato in altra occasione che per simboleggiare la mostra si potrebbe scegliere il padiglione della Thailandia, la cui coerenza al tema agrario (“Nutrire il pianeta…”) consisterebbe nell'averlo costruito in forma di cappello delle contadine.
Dalle prime interviste sembra che i visitatori siano entusiasti dell'”architettura” dei padiglioni. E dell’inverosimile ”albero della vita”? (mi auguro che cada in testa al progettista e agli organizzatori, se si riuniranno lì sotto per adorarlo).
C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità...>>>
Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l'architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall'agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.
Appare dunque evidente che le sorti dell'eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto.
è davvero esigua e le prossime votazioni (segue)
è davvero esigua e le prossime votazioni per il rinnovo del consiglio direttivo nazionale sono l’ultima occasione per un’inversione di senso. Credo che sia impossibile tornare all’età dell’oro, quando Italia Nostra fu l’indiscussa protagonista della salvezza di Firenze, di Venezia, dell’Appia Antica, della Costiera Amalfitana, senza sconti per nessuno. La mostra “Italia da salvare” fece il giro del mondo.
Dalla fondazione, per mezzo secolo, è stata in prima linea nella difesa della capitale dagli assalti speculativi. “Roma sbagliata”, del 1974 (“un’impressionante radiografia della capitale dopo un secolo di malgoverno”, scrisse Antonio Cederna), insieme alle denunce di Dom Franzoni e della Caritas di Luigi Di Liegro, aprì la strada alle amministrazioni di Argan e Petroselli. Quanti ricordano che fu Italia Nostra alla fine degli anni Ottanta a far esplodere lo scandalo per il famigerato progetto Fiat Fondiaria, primo caso di urbanistica contrattata (ancor oggi tenuto in vita dal comune di Firenze)?
A mano a mano, con il passare degli anni, sempre di più hanno prevalso il piccolo cabotaggio, la prudenza, il buonsenso. L’urbanistica di rito ambrosiano, che ha aperto la strada in tutt’Italia alla controriforma e agli energumeni del cemento armato, come Maurizio Lupi, Italia Nostra non l’ha affatto combattuta con l’energia e la determinazione necessaria. E negli anni più recenti gli episodi di regressione si sono infittiti.
Nel 2010 Italia Nostra della Lombardia ha addirittura tentato un’inaudita operazione di revisionismo proponendo di “aggiornare” il pensiero di Antonio Cederna. E infine sono costretto a ricordare che Italia Nostra tiene a distanza Desideria Pasolini dall’Onda, ultima esponente di quel glorioso drappello che fondò l’associazione nel 1955, e che è stata la Bianchi Bandinelli, nel febbraio scorso, a ricordare e premiare Desideria (“una vita per la tutela”).
Non si può tornare all’età dell’oro, ma credo che abbiamo il dovere – per quanto mi riguarda è l’ultima volta – di cercare intanto di riannodare i fili di una vicenda non ancora del tutto consunti.
Voterò per Ilaria Agostini, Luigi De Falco, Raffaella Di Leo, Maria Pia Guermandi, Giovanni Losavio, Tomaso Montanari, Emanuele Montini, Francesco Vallerani. Non sono gli unici candidati meritevoli di fiducia, nella lunga lista a disposizione degli elettori ce ne sono almeno altrettanti che possono contribuire alla difficile impresa.
Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta ... >>>
Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta da quel 22 aprile 1970 che segnò l’inizio, di fatto, della "primavera dell'ecologia". Il 1970 arrivava dopo una lunga serie di proteste contro le esplosioni delle bombe nucleari nell’atmosfera; dai deserti africani, asiatici o dagli isolati atolli del Pacifico tali tests americani, russi, francesi, immettevano nell’aria elementi radioattivi che ricadevano poi anche a migliaia di chilometri di distanza, sulle terre coltivate e nelle acque. Era la stagione della protesta contro la diffusione planetaria dei pesticidi clorurati persistenti, come il DDT, e contro l’uso di erbicidi contaminati di diossina nel Vietnam; le città industriali erano afflitte da un traffico congestionato e la loro aria era oscurata dai fumi industriali; il petrolio copriva vaste superfici del mare.
In quella lontana primavera, in tutti i paesi industriali fu come se si aprissero gli occhi a un gran numero di persone: in un'epoca di grande sviluppo economico gli abitanti dei paesi industrializzati si accorsero improvvisamente che le fumose ciminiere delle fabbriche non segnavano l'avanzata del progresso, ma buttavano nell'atmosfera polveri e sostanze cancerogene e acidi che andavano a finire nei polmoni dei cittadini, nei fiumi, sui boschi. L'automobile, massimo segno del successo tecnologico, appariva improvvisamente come un “Insolent chariot”, l’arrogante veicolo che, invece di liberare l’uomo dai vincoli delle distanze, costringeva a muoversi a pochi chilometri all'ora, tutti in fila, in mezzo a un'atmosfera inquinata da fumi, metalli, veleni. La plastica, trionfo dell'industria chimica sintetica, era un bellissimo materiale ma, dopo l’uso, restava indistruttibile e copriva i mari, si fermava sugli argini dei fiumi, svolazzava per i campi coltivati. Il lavoro nelle fabbriche liberava grandi masse di persone dalla miseria secolare a prezzo di incidenti, avvelenamenti, morti, tanto che alcuni scrissero che "lavorare fa male alla salute".
Nella primavera di quel 1970 una nuova generazione di giovani, gli stessi delle lotte studentesche e operaie in California, a Parigi, a Berlino, a Milano, si accorsero che le Università, i grandi scienziati, il potere economico e politico, avevano tenuto nascosti gli aspetti negativi del "progresso" merceologico; furono scoperte parole magiche e sconosciute come "ecologia", che divenne domanda di un cambiamento verso un mondo meno violento e più ospitale per gli esseri umani. Anche in Italia in quel 22 aprile 1970 la Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche FAST di Milano, allora presieduta da Luigi Morandi, organizzò alla Fiera di Milano una grande conferenza internazionale i cui atti (L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale, Milano, Tamburini, 1971), purtroppo ormai una rarità bibliografica, conteneva un inventario delle forme di violenza contro l’ambiente.
La prima "giornata della Terra" stimolò un gran numero di persone --- giornalisti e studenti, professori e comuni cittadini --- a pensare, a leggere, a scrivere, a parlare di ecologia. Alcuni si permisero addirittura di spiegare quanto fosse poco attendibile il mitico “Prodotto interno lordo” come indicatore del benessere e dello sviluppo umano. In quella "giornata della Terra" di 45 anni fa sui muri delle città americane apparve un manifesto con una vignetta in cui Pogo, un opossum umanizzato, noto personaggio dei fumetti, guardava un ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».
Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell'ecologia, ma poi fanno a gara per sfrecciare su ingombranti SUV e per costruire suntuose ville nei boschi, dopo aver tagliato gli alberi, o sulla riva del mare, dopo aver spianato le preziose dune. Ben presto la carica innovativa e “sovversiva” dell’ecologia si spense; il potere economico e finanziario spiegò bene che quelle dei guasti ambientali erano esagerazioni di frustrati pessimisti, che occorreva più energia a basso prezzo, che occorreva produrre e consumare più automobili, più merci, più plastica, diffuse l’illusione che la tecnica avrebbe risolto tutto.
Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, la popolazione mondiale ha superato i 7000 milioni di persone, tre miliardi di nuovi consumatori in Asia e nell’America latina si affiancano ai due miliardi di abitanti dei paesi già industrializzati affannandosi a bruciare carbone e petrolio, a produrre macchine e merci, a immettere nell’atmosfera gas nocivi e che alterano il clima, a gettare nelle discariche e negli inceneritori, miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti, oltre centocinquanta milioni di tonnellate ogni anno solo in Italia; residui di plastica galleggiano addirittura sugli oceani. In Italia grandi città costiere gettano tranquillamente le acque di fogna non trattate nel mare e nei fiumi; la fame di spazio e il rapido crescente ”consumo di suolo” per edifici, quartieri urbani, autostrade e veloci ferrovie, centri turistici, rende più fragili le colline e le coste, fa aumentare frane e alluvioni.
Se veramente amassimo “la Terra” forse bisognerebbe fermarsi e guardarsi intorno, recuperare la voglia di un nuovo, più giusto, rapporto degli esseri umani con le risorse naturali, con i beni della Terra. E magari rimettersi a studiare un po’ di buona ecologia, quella vera. Forse, come diceva Pogo, davvero il nemico siamo noi.
Una specie di racconto in stile chiaroscuro chandleriano, sullo sfondo di un’idea stupida e sbagliata di spazio pubblico per la mobilità dolce pieno di difetti, facilmente rimediabili, ma bisogna pensarci. Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2015, postilla (f.b.)
Ma che bella giornata di Primavera! Sole caldo, cielo azzurro e un’arietta frizzantina da liberi tutti. Liberi dal lavoro, dallo studio, dai rapporti usurati-usuranti, dalle ipocrisie della quotidianità. In bicicletta, dunque! E via lungo la Martesana, come l’operaio di Prévert in fuga dalla fabbrica. C’è da verificare, tra l’altro, se a Cernusco hanno finalmente alzato le chiuse, se l’acqua è tornata nel canale, insieme ai germani reali, alle gallinelle dal becco rosso, alle nutrie goffe e grassocce, alle bottigliette Heineken, ai sacchetti di plastica Esselunga, ai preservativi Hatù, agli scatoloni di cartone, ai bidet di ceramica, ai pannolini ripieni graziosamente rilasciati dai milanesi d’antan e da quelli acquisiti. La pedalata sciolta e vivace divora in pochi minuti il tratto Melchiorre Gioia-via Padova e affronta con determinazione l’asfalto rosso granulato di via Idro. Il campo nomadi sonnecchia sulla destra. L’orologio dice le 15,30. È tempo di siesta lì dentro. Due ragazzini giocano al pallone tra cocci di vetro e cumuli di macerie. Un cane abbaia senza convinzione, per dovere.
Superata una cancellata d’incerta utilità pratica, ecco il ponticello d’acciaio che porta al sottopasso della tangenziale Est. Di qua Milano, di là Vimodrone e Cologno. La citybike nera da gagà metropolitano s’inerpica sul manufatto modello Alcatraz dai parapetti altissimi. Ed è lì che, in una giornata praticamente perfetta, si verifica l’intoppo, l’incongruo che non t’aspetti: che c... ci sta a fare in mezzo al ponte quel giovanotto smilzo, biondo, con orecchino di perla e tatuaggi d’ordinanza sulle braccia? Più veloci di un flipper digitale, le sinapsi segnalano che la cronaca nera si è già occupata di quel posto e che il giovanotto in t-shirt e pantaloni scampanati alla marinaia potrebbe essere un lontano parente di Ghino di Tacco. Quello che taglieggiava i passanti piombandogli addosso dalla fortezza di Radicofani. Ghino, intanto, ha già spalancato le braccia magre occupando tutto la larghezza del ponticello. Fermarsi e pagare il pedaggio o andargli addosso rischiando di cadere insieme a lui? Fermarsi, ovviamente. Perché è in momenti come questi che fanno sentire il loro peso secoli di civilizzazione e la fragilità che ne deriva. «Dammi 10 euro» intima lui con un tono di voce acuto e vagamente isterico. «Ti conviene. Più avanti ci sono altri che t’aspettano. Ben più cattivi di me».
Lì per lì colpisce, più dell’offesa, la correttezza della sintassi e ancora di più la logica economica della richiesta. Dieci euro, in fondo, sono poco più di quello che se ne va quotidianamente fra lavavetri e mendicanti vari. Resta il fatto che la richiesta produce uno sdoppiamento della personalità. Quella razionale e pragmatica propende per un ragionevole compromesso: rassegnarsi, pagare e filare via. Quella legalitaria e intransigente spinge per assumere l’iniziativa: un bel cazzotto sul naso e magari un calcione tra le palle, come farebbe Bruce Willis. Questa o quella? Né l’una né l’altra, alla fine, ma il tentativo di ipnotizzare il ragazzo di vita con una dotta affabulazione sui rischi immediati e prospettici di una vita border line, dissoluta e violenta. E con la speranza di veder spuntare un altro ciclista, un maratoneta con le Nike, un pensionato delle ferrovie, un birdwatcher con la Nikon, magari un rom onesto. Invece niente.
Ghino, comunque, non ha alcuna intenzione di lasciarsi irretire da una morale che suona palesemente strumentale nelle circostanze date. Sulle sue labbra sottili affiora un ghigno che sa di angoli bui, di lacci emostatici, di farmacie notturne, di carabinieri maneschi. Con gesto teatrale affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni e ne estrae qualcosa di luccicante che assomiglia molto al manico di un coltello a serramanico. Il gesto abbassa di qualche centimetro la cintura dei pantaloni e scopre l’elastico degli slip neri marcati Ascot. Che i 10 euro gli servano per comprarsene altre due paia di ricambio?
È chiaro a entrambi che lo stallo non può durare a lungo. Ok, vada per i 10 euro. Purché si salvino i documenti, l’orologio, il cellulare e la citybike... D’altronde, non è forse questa la nuova banalità del male? Non quella della Arendt, fondata sulla violenza dell’ideologia, quella sminuzzata e minimalista di questi tempi mediocri.
Con studiata e lenta rassegnazione l’affabulatore frustrato prende a ravanare nello zainetto alla ricerca del portafogli. Ancora nessuno all’orizzonte. A poche decine di metri auto e camion sfrecciano ronfando sulla tangenziale. È in questo preciso momento che avviene la mutazione. Mentre gli viene allungata una banconota nuova da 10 euro, il cordiale Dr Jekyll diventa l’irascibile Mr Hyde e si avventa brutalmente sul bersaglio grosso: il portafogli. Ma il legittimo proprietario del medesimo, che già mal sopportava il Dr Jekyll, non è per niente disposto a subire Mr Hyde.
Seguono lunghi secondi di strattonamenti e spintonamenti. Più un certo numero di vaffa reciproci. Finché Mr Hyde, a cui non fa difetto il senso della tragedia shakespeariana, torna a infilare la mano nella tasca destra. Quella del serramanico. Una mossa ad effetto che chiude di fatto la partita.
Il ragazzo con l’orecchino di perla prende il portafogli, se lo mette in tasca come fosse il suo e, dando prova di lodevole moderazione, si disinteressa dell’orologio e di tutto il resto. Poi si allontana, con aria svagata e passo dinoccolato, verso il campo rom. Lui che rom non è di sicuro. «Perché i rom che vivono lì — spiegano al commissariato di polizia — hanno tutti la pelle olivastra».
«Ma restituisci almeno i documenti, accidenti a te!».
Il portatore di mutande Ascot non accenna nemmeno a fermarsi. Si limita a lanciare il portafogli verso il Lambro. Da che mondo è mondo le vittime non meritano che disprezzo. Ma il parapetto di ferro è alto e il portafogli ricade sul ponticello. Aperto. Con tutti i suoi simboli di modernità e benessere in bella evidenza: il bancomat, le carte di credito, l’abbonamento dell’Atm, la tessera sanitaria e quella del Fai, la patente di plastica rosetta..
postilla
In premessa, va dato merito all’autore dell’articolo di aver più volte sottolineato come l’aggressore sia molto presumibilmente un coatto locale, nulla a che vedere con la solita fauna misteriosa che tanto piace ai razzisti securitari per le loro campagne elettorali. Perché da quelle parti c’è anche una solida presenza di cosiddetti campi rom, e ci mancavano pure quelli, ma il problema è un altro, e si chiama ahimè progettazione di spazi pubblici, e specificamente qui di un corridoio di mobilità dolce. I nostri “tecnici” qui si sono espressi al meglio nel concepire, per la sicurezza di chi lo percorre il corridoio, quanto di più insicuro possibile, ovvero un budello senza uscita di centinaia e centinaia di metri, fatto di varie barriere insuperabili (muri di recinzione, il canale, il fiume, le spalle del ponte, il puzzolente sottopassaggio della Tangenziale … qualcuno forse ne avrà visti degli scorci a una comunicazione alla Scuola di Eddyburg) su entrambi i lati. Così, dentro alla sequenza di budelli cul-de-sac si forma naturalmente una trappola, sempre pronta a scattare appena cala sotto una certa soglia la dissuasione degli “occhi sulla strada”. Un caso frequentissimo di sventatezza tecnico-progettuale in senso lato: niente vie di fuga, niente possibilità di controlli qualsivoglia: quanti spazi pubblici di fatto abbandonati del genere conosciamo? Luoghi dove si avventura solo quel genere di spedizione organizzata, o il solitario impavido atleta sprezzante del pericolo? Ognuno di noi ne potrebbe elencare centinaia, e la questione è sempre la stessa, che rinvia a un paio di principi semplicissimi: il cul-de-sac e la privatizzazione di fatto. Ricostruite una rete, stimolate le attività permanenti, e avrete risolto gran parte del problema, ma vallo a spiegare ai tizi de “il problema è un altro” (f.b.)
Le fotografie del signor Rosso, padrone del marchio Only the Best, che si arrampica sorridente sulle impalcature del cantiere per il restauro del ponte di Rialto campeggiano... (segue)
I primi contatti fra Rosso e l’ex sindaco Giorgio Orsoni risalgono al 2011. Nel 2012 il costo del restauro era ipotizzato fra i 5 ed i 7 milioni di euro. Il comune ha quindi indetto un bando, con base d’asta di 5 milioni, ed è giustappunto per tale cifra che Rosso, convinto che “quando si crea profitto è giusto darne una parte ai beni culturali e alla società”, si è aggiudicato la gara per la sponsorizzazione.
Nelle numerose interviste che ha concesso in questi giorni, il nostro mecenate, che ha appena ricevuto una laurea honoris causa in economia aziendale e che certo non eccede in understatement, ha ribadito di non avere nulla in cambio della sua generosità. “Qui regaliamo bellezza ha detto! ma le controprestazioni previste nel contratto firmato nel 2013 (“non va dimenticato che stiamo parlando di imprenditori e quindi un tornaconto deve esserci”, spiegò l’allora assessore ai lavori pubblici Alessandro Maggioni) non sono poche, né di poco valore. Esse prevedono:
Nel novembre 2014, prima ancora dell’inizio dei lavori, il costo del restauro è “lievitato” a 5 milioni e 200 mila euro. Ciò comporterà “un piccolo prelievo per le casse pubbliche”, ha scritto con un tono di benevola comprensione il Corriere del Veneto. Proprio oggi, in contemporanea con l’inaugurazione in stile cafonal-chic del cantiere, il comune ha annunciato che quest’anno non ci sono risorse per i centri estivi. Mancano 150 mila euro e 4 mila bambini resteranno a casa.
Oltre che sulla iniqua distribuzione di costi e benefici fra pubblico e privato, che ormai non fa più notizia, il restauro del ponte dovrebbe far riflettere anche sul progetto di città al cui interno si situa e del quale è un importante elemento. Il cantiere, infatti, si trova a pochi metri da quello del Fontego dei Tedeschi che il gruppo Benetton sta trasformando in centro commerciale. La contiguità delle due operazioni non è solo fisica, come è bene messo in evidenza dai modelli predisposti dallo studio di Rem Koolhaas. Oggettivamente, l’intervento sul ponte non solo valorizza l’area intorno al Fontego, ma veicola l’immagine del ponte come suo accesso. Forse non l’ha chiesto Benetton, ad onor del quale va riconosciuto di non aver mai rivendicato l’etichetta di mecenate - il titolo gli era stato conferito a sua insaputa dall’ex sindaco Massimo Cacciari - ma è certo che ogni suo investimento immobiliare in città è stato accompagnato da una apposita opera pubblica, a partire dal ponte di Calatrava che collega la stazione, anch’essa trasformata in centro commerciale, al terminal automobilistico.
Ma, purtroppo su questi temi la città tace. Nessun candidato alle imminenti elezioni li menziona, né tanto meno si impegna a far affiggere all’ingresso del comune la targa “non si accettano regali”.
“Salta il bilancio del comune di Venezia. Il commissario Zappalorto vara un piano lacrime e sangue fino al 2018” e “Il comune cede alla Biennale l’uso perpetuo dell’Arsenale Sud” sono i due... >>>
Le cifre circa l’entità del buco nel bilancio del comune cambiano in continuazione perché, forse, per avere i dati veri bisognerebbe disarticolare le varie voci da cui hanno origine i “nostri” debiti, prime fra tutti sprechi e rischiosi investimenti in derivati, grandi opere e grandi regali ai mecenati. Invece si preferisce comunicare il totale, che oggi ammonterebbe a 65 milioni di euro. E’ solo una coincidenza, ma poche settimane fa, propagandando il carnevale “il brand italiano più conosciuto al mondo, un valore aggiunto che ha il preciso obiettivo di valorizzare l’economia della città in periodo invernale”, Piero Rosa Salva, il presidente di Vela s.p.a (società partecipata del Comune e del Casinò per organizzare eventi e il marketing cittadino) ha detto che il flusso di denaro speso dai turisti durante il carnevale è “un affare da 70 milioni in due settimane” e che gli pareva quindi “anacronistico pensare ad una eventuale abolizione di eventi di questo genere”. Il presidente Rosa Salva, che nel 2014 ha avuto un premio aggiuntivo di 10 mila euro, può stare tranquillo. Nessun contributo di solidarietà verrà chiesto ai beneficiari dei 70 milioni del carnevale.
Secondo il piano del commissario, infatti, per sanare il debito bisognerà che i costi dei servizi siano interamente coperti dagli utenti, il che da un lato significa che chi paga le tasse pagherà i servizi due volte, dall’altro che chi incamera il denaro speso da milioni di turisti continuerà a godere di un regime di “vacanza” fiscale. Al commissario questo non interessa, lui è qui per “sanare” il bilancio, e del resto nemmeno i candidati sindaco osano mettere in discussione lo slogan secondo il quale il turismo è la nostra (?) industria più preziosa. Ammesso che sia un’industria, bisognerebbe almeno specificare che si tratta di un’industria estrattiva, che di per sè non produce nulla, se non materiale di scarto. E che il suo successo, come quello di una qualsiasi industria estrattiva, si basa sulla disponibilità di materie prime a costo zero- che sia carbone, caffè o una città d’arte fa poca differenza purché distribuisca dividendi agli azionisti - lavoro poco qualificato e poco retribuito, e licenza di scaricare le esternalità negative, ambientali e sociali, sul territorio. Nel migliore dei casi, gli aspiranti sindaco ventilano l’ipotesi di far pagare “qualcosa in più” ai turisti (cioè di alzare il prezzo del prodotto per l’acquirente finale) ma nessun serio piano di contrasto all’evasione fiscale del settore è previsto. Far affiggere il reddito dichiarato alla vetrina di bar e ristoranti o suonare i campanelli alle migliaia di strutture ricettive non autorizzate, tutte agevolmente localizzabili nei siti internet, sono operazioni tecnicamente fattibili; il problema è che le “categorie” locali votano e le multinazionali sono esentasse, per definizione.
Oltre ad aumenti di tributi e tariffe, il piano di rientro del debito prevede una nuova tornata di svendite e cessioni di immobili e beni comunali. È un ramo nel quale il commissario si è già molto impegnato nei mesi scorsi con una serie di iniziative, dalla consegna del Lido al fondo immobiliare Hines al cambio d’uso delle Procuratie Vecchie in piazza San Marco a vantaggio delle Generali, che avranno ripercussioni pesanti e non reversibili per la città. Oggi, ignorando le motivate proteste dei molti comitati a difesa dell’Arsenale bene pubblico, ha rinnovato e ampliato la concessione alla Biennale. Non solo la durata della concessione diventa, di fatto, perpetua, ma la Biennale potrà concedere in uso a terzi gli spazi avuti dal comune. Ovviamente, nessun corrispettivo verrà alla città, a parte qualche milione di turisti.
Privatizzazione dei beni pubblici, regali ad astuti investitori e sedicenti benefattori, tagli e tasse per i cittadini annichiliti non si verificano solo a Venezia. Qui, però, la sproporzione tra il flusso di denaro in transito e la miseria delle casse del comune ha raggiunto dimensioni tali da farne un caso da “manuale”, una best practice di una prospera economia di rapina.
In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni >>>
Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).
L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”.
Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il TNP, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali. Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta.
L’11 aprile di 52 anni fa Giovanni XXIII nell’enciclica “Pacem in terris” affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione, ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.
Lo saranno anche...>>>
Lo saranno anche dopo le elezioni? I disegni ed il rendering della tettoia che verrà collocata all’arrivo del tram a piazzale Roma, “porta automobilistica della laguna”, hanno suscitato molti commenti negativi sull’aspetto della struttura, il cui progetto è stato approvato dal commissario straordinario che governa la città. Si tratta di una piastra d’acciaio lunga 32 metri, poggiante su un’unica colonna centrale per “evocare una T nel paesaggio”. Sarà di colore grigio scuro, in conformità alle richieste della Sopraintendenza che lo ha voluto “in tinta” con il vicino nuovo palazzo di Giustizia, il cui rivestimento in rame “ invecchia malamente” e, invece di assumere la tonalità del metallo ossidato, è diventato grigio fumo.
Le più o meno futili discussioni sull’aspetto della pensilina, che verrà installata nei prossimi giorni, hanno distolto l’attenzione dall’intreccio di vicende, a scala nazionale e locale, di cui essa è, per il momento, l’ultimo atto.
Il tutto ha inizio nel 2002, quando la legge finanziaria predisposta dal ministro Tremonti ha imposto alle società di trasporto locale lo scorporo della parte infrastrutturale dalla erogazione dei servizi. La logica del provvedimento è simile a quella che ha portato allo smantellamento delle Ferrovie dello Stato. E simili sono i risultati: da un lato riduzione delle risorse per il servizio di trasporto, il che significa meno manutenzione dei mezzi, minor numero di corse, aumento delle tariffe; dall’altro grande impulso allo sviluppo immobiliare delle stazioni cedute a privati investitori.
Per effetto di tale legge, nel dicembre 2003, ACTV l’azienda comunale di trasporto pubblico di Venezia è stata scissa in due. E’ stata creata PMV s.p.a società del Patrimonio per la Mobilità, alla quale è stata conferita la proprietà di tutti i beni costituenti le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali destinate all'effettuazione del trasporto pubblico: gli approdi del servizio di navigazione - pontoni galleggianti, passerelle d’imbarco e pontili fissi in calcestruzzo-, le pensiline di fermata del servizio bus in terraferma, nonché i depositi dei mezzi e le relative aree di parcheggio. Da allora PMV affitta questi beni ad ACTV, e periodicamente minaccia di impedirne l’utilizzo ai mezzi di trasporto pubblico se non verranno alzati i canoni.
Nella stessa operazione di scissione del 2003, ACTV ha conferito a PMV anche il ramo di azienda denominato "Progetti Speciali" nel quale rientra il progetto per la realizzazione del “sistema tranviario su gomma a guida vincolata per la città di Mestre Venezia”.
I successivi sindaci hanno continuato ad appoggiare il progetto del tram, sebbene ognuno con motivazioni diverse e con diverse ipotesi di percorso. Per Massimo Cacciari era funzionale allo sviluppo del cosiddetto Quadrante Tessera, una gigantesca speculazione immobiliare adiacente all’aeroporto, e per sostenere la candidatura di Venezia alle Olimpiadi del 2020. Giorgio Orsoni non aveva un preciso disegno territoriale nel quale inserire il tram. Si limitava a valutarne le potenzialità nella contrattazione con i privati investitori che sperava di attrarre. Così, propose di modificare il percorso già approvato per far arrivare il tram davanti al Palais Lumière, la torre che Pierre Cardin voleva costruire a Marghera.
In ogni caso, era chiaro a tutti che per i cantieri del tram servivano molti soldi. Si è così deciso di alienare il deposito degli automezzi ex ACTV in via Torino, un’area di oltre trentamila metri quadrati in posizione strategica in prossimità dell’imbocco del ponte della Libertà. Inizialmente si è parlato di metterlo all’asta partendo da una base di 14 milioni di euro, ma poi, nel 2012, lo si è ceduto per 9 milioni ad un privato per realizzare un supermercato, una torre commerciale/residenziale e un parcheggio a raso. Il progetto, ha spiegato l’assessore Ezio Micelli, “tiene insieme tre elementi: sobrietà, complessità e qualità e punta sulla ricchezza funzionale dell’impostazione di fondo… è un intervento da tempo atteso, sia per ragioni di natura sociale, visto lo stato di abbandono e di degrado dell’area, che ambientali, essendo necessaria una bonifica, non solo da materiali inquinanti, ma anche da possibili residuati bellici”.
Ora che il tram è arrivato a piazzale Roma - il ritardo di alcuni anni rispetto ai programmi non ha impedito ad Antonio Stifanelli, presidente di PMV, di ricevere, per il 2014, un premio di 50.000 euro- ed il grattacielo a Mestre è finito, nuovi progetti sono in vista. Dopo aver realizzato enormi pontili a San Marco e al Lido -più diminuiscono le corse più si ampliano le stazioni alle fermate - PMV vorrebbe costruire una grande stazione di interscambio a Mestre, in piazza Cialdini. Ovviamente, le risorse necessarie dovrebbero provenire dalla vendita di immobili comunali. A questo dovrà provvedere la prossima amministrazione comunale e stupisce che nessuno dei candidati si pronunci sulla questione, preferendo promettere crescita e sicurezza. Intanto, l’unica cosa certa è che, grazie al tram, chiamato anche “siluro rosso”, forse per evocare un’analogia con i freccia rossa, verranno sospese o ridotte le corse di alcune linee di autobus.
Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista ...>>>
Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista segna un frattura netta non solo con la dittatura mussoliniana, ma anche con il conservatorismo monarchico, ponendo le basi dell'Italia democratica. Un evento che non è una delle tante “rivoluzioni passive” della nostra storia, ma il frutto della lunga lotta partigiana, di una resistenza popolare che ha pochi precedenti nel nostro passato nazionale. Per circa un ventennio la sua celebrazione è entrata nell'immaginario degli italiani come un anniversario condiviso, una festa di tutti che ratificava l'accettazione universale dei valori della Costituzione e della democrazia. Ricordo che sul finire degli anni '60 e nel decennio successivo, la replica di quella commemorazione cominciò ad apparire, ai giovani di sinistra della mia generazione, come uno stanco rituale in una società di stabile democrazia, che aveva ormai bisogno di idealità più avanzate cui ispirarsi.
Credo che la decisione di parte ebraica sia faziosa e sbagliata per più ragioni, e non ho bisogno di entrare nei dettagli delle discussione per dimostralo. Del resto, basta leggere l'intervista a Yussuf Salman, quale rappresentante delle comunità palestinesi (il manifesto del 10.4.2015) per vedere quanto ragionevole sia la posizione di questa parte. E' faziosa e sbagliata intanto perché nella presente fase storica, mentre infuria in Medio Oriente un fanatismo religioso di inaudita ferocia, l'intelligenza politica consiglierebbe la ricerca dell'unità, del dialogo, della cooperazione tra le forze che ambiscono alla pace. Non turba nessuno il fatto che in questo momento l'Isis sta portando i suoi massacri nel campo dei rifugiati palestinesi di Yarmouk, gremiti di bambini e di vecchi? O è solo Israele, solo gli ebrei che devono godere del monopolio della pietà una volta per sempre?
E veniamo a noi. Forse che milioni di italiani non hanno ragioni di recriminazioni, nei confronti dell'intera comunità ebraica del nostro paese, per la tiepidezza – si fa per dire – con cui essa ha assistito al massacro di civili palestinesi a Gaza? Uccisioni e distruzioni immani, perpetrati per ben due volte, con bombardamenti simultanei da terra , dal cielo e dal mare, nel 2008 e nel 2014. Non è ad essa ben noto che milioni di italiani, forse la grande maggioranza del nostro popolo, guarda allo Stato d'Israele, come a un potere ingiusto e liberticida, che tiene in servitù un altro popolo? O crede che i cittadini non capiscano, non sappiano. Eppure, per amore di unità e di dialogo l'antifascismo italiano ricerca l'accordo, tentando di mettere insieme le parti. Perciò io credo che l'Anpi su questo punto deve avere una posizione di assoluta fermezza. Come ha ricordato Angelo D'Orsi, l'art. 2 dello statuto di quella organizzazione rivendica «un profondo legame con i movimenti di liberazione del mondo» (il manifesto, del 9.4.2015). L'equidistanza pilatesca deforma la verità. Oggi sono i palestinesi, è questo popolo che attende di essere liberato.
In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio ...>>>
Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.
Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato NPT. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.
Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).
L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”. Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il NPT, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali.
Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta. Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare.
Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli.
D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi. Chi volesse saperne di più trova molte informazioni nel recente libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete ! un disarmo nucleare totale.
52 anni fa, proprio un undici aprile, Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.
Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo >>>
Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo, col suo corpaccione obeso, le braccia gonfie come in una grassa divinità d’oriente, i tanti lunghi tentacoli come nel polpo gigante abili ad avvinghiare per intero la città e a soffocarla fino all’ultimo respiro di morte.
Al principio degli anni Sessanta Milano è anche città industriale in ogni senso. Quasi la metà dei residenti attivi sono operai (484.000), ma gli addetti all’industria (in gran parte operai), cresciuti continuamente, sono poco meno di mezzo milione sicché il tasso di industrializzazione (rapporto fra addetti, approssimativamente posti di lavoro, e popolazione residente, 1.583.000) tocca il 31%, il massimo dal dopoguerra. Il confronto fra i residenti attivi nell’industria e i posti di lavoro mostra la prevalenza delle entrate in un pendolarismo giornaliero incessante. Vale a dire: si veniva a lavorare a Milano nell’industria oltre che nel terzo settore; un processo storico di lunga durata soltanto interrotto, e non completamente, dai momenti più duri della guerra.
Ai primi anni del decennio Settanta la popolazione residente, sempre aumentata dal 1945, è tanta quanto non era mai stata e mai più sarà, circa 1.740.000 unità (censimento del 1951: 1.274.000). Gli operai che risiedono in città sono diminuiti del 17%, ma all’interno di una popolazione attiva in corso di riduzione anche per ragioni di struttura demografica rappresentano il 41%. Gli addetti industriali, sebbene ancora molti, 435.000, non nascondano sintomi di deindustrializzazione, d’altro canto indicano la persistenza di una forte domanda verso il territorio extra urbano e dunque l’incongruenza del mercato delle abitazioni – in altre parole la mancanza di case popolari – rispetto alla realtà del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Eppure vibra ancora nell’aria la parola d’ordine gridata nei cortei del grande sciopero del 1969, “casa servizio sociale”. Intanto diventa sempre più intensa la richiesta di impiegati negli infiniti luoghi del terziario, detto “settore dei servizi” mentre servizio sociale sarà sempre meno e sarà sempre più coacervo finanziario, commerciale, speculativo, persino affaristico mafioso. Le sue sedi invaderanno spazi urbani di ogni genere, dapprima capillarmente edifici residenziali fino a che i noti grandi volumi “firmati”, simboli, per noi, della fine ingloriosa dell’architettura e dell’urbanistica, andranno, come mostri frankensteiniani camminanti attraverso la città, a cercare e a coprire le aree libere più belle, che avremmo voluto destinate al bene comune. La rendita fondiaria intrinseca alle costruzioni si riprodurrà sempre, qualsiasi sia il loro destino, compreso quello di rimanere vuote per mancanza di domanda. Come capiterà sempre più spesso, ci sia o no crisi economica generalizzata..
Con il trascorrere degli anni Settanta e nei decenni successivi a Milano infierisce il sovvertimento demografico che trascina con sé lo squilibrio sociale. La popolazione residente diminuisce senza sosta fino a che al principio del nuovo millennio il censimento rivela una perdita impressionante di 560.000 unità: come se a una persona normale fosse prelevato un litro e mezzo di sangue. Una città ridotta a 1.180.000 residenti, a causa di improbabile scelta anti-urbana di famiglie o di certa espulsione per impossibilità di trovare un alloggio adeguato al reddito da lavoro, anche per la cronica penuria di abitazioni pubbliche in regime di Aler (azienda lombarda di edilizia residenziale, un’azienda come altre), non può essere la città vera. Che riconosciuta per equa numerosità di persone stabili, per equilibrio di settori economici e di attività delle persone, per proporzione fra diversi ceti sociali sarà molto difficile ritrovare. Gli operai “milanesi” per abitazione, occupati in città o altrove che, come si è visto, oltre mezzo secolo fa imprimevano sui residenti un chiaro marchio di classe lavoratrice tradizionale, sono diminuiti assai più velocemente dell’intera popolazione. Il loro peso, già ridotto al 10% all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scotso, ora è trascurabile. Anche la Milano residenziale d’oggi, che esibirebbe tristemente un nuovo salasso di quasi centomila persone se non fosse per il contributo degli stranieri “regolari”, ben 265.000 (anagrafe 31.12.2013, residenti totali 1.354.000), non può ribaltare la propria verità sostanziale. Mostra però che l’antica vocazione a ospitare allogeni non è morta. Grazie a loro potrebbe profilarsi un futuro demografico e sociale meno statico. Solo una speranza.
L’altra Milano, quella del giorno, se così si può dire, con la massa di impiegati pendolari che forse portano la popolazione presente in queste ore a due milioni, neanch’essa è la città vera, giacché non recupera nulla del carattere storico dell’autentica modernizzazione (doveroso ossimoro). Come sbandierava il corteo morattiano: monocultura commerciale dominante con la classe speculatrice che la impersona: contro la ricchezza culturale della città che abbiamo amato e abbiamo perduto. Sarà proprio l’Esposizione a convalidarla. Dal disperato luogo dei padiglioni, tradimento della primaria idea di presentare davvero le coltivazioni dei paesi del mondo, agli assi stradali radiocentrici, al centro-centro della città: i pellegrini si uniranno alle folle durevoli per invetriarsi davanti o dentro le migliaia di spettacolari brutti negozi di abbigliamento e accessori in continuo cambiamento, cuore del riciclaggio mafioso, o di bar aggiustati in falsi ristoranti-pizzerie campioni del risotto milanese fornito surgelato a notte fonda dall’”organizzazione” e rigenerato nel forno a microonde.