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Avete notato che si parla sempre meno del petrolio? Sarà perché ormai il suo prezzo da un po’ di tempo non fa più le bizze, abbastanza stabile intorno a circa 40-50 dollari al barile (circa 250 euro alla tonnellata), la metà dell’anno scorso. Sarà perché ormai in Italia se ne importa di meno, rispetto agli anni passati: circa 50 milioni di tonnellate nel 2014 rispetto ai 90 milioni di dieci anni fa (e addirittura se ne produce un poco nella stessa Italia), in parte sostituito dal gas naturale e dal carbone (si, proprio lui, zitto zitto, sempre intorno a noi, importato in ragione di circa una ventina di milioni di tonnellate all’anno).

Il prezzo del petrolio subisce continue oscillazioni a causa di guerre sotterranee fra potentissime imprese finanziarie e altrettanto potenti governi che dominano il commercio internazionale di quasi 4200 milioni di tonnellate all’anno dell’odiato e amato petrolio: i produttori Stati Uniti e Russia, Norvegia e Arabia Saudita, Iraq e Iran, e poi gli affamati consumatori di petrolio come l’insaziabile Cina. Il petrolio costa perché corre sugli oceani e negli oleodotti stesi nelle giungle e nei deserti, e perché le sue riserve più accessibili si esauriscono rapidamente ed occorre estrarlo da giacimenti sempre più lontani e ostili.

Eppure proprio il petrolio è indispensabile, sotto forma dei suoi derivati, benzina e gasolio, per tenere in moto i 50 milioni di auto e moto veicoli che affollano strade e città italiane. Ma il petrolio entra nella nostra vita anche sotto tante altre forme per cui si può parlare di un “costo in petrolio”, per tutte le merci e i servizi.

Il petrolio entra nella vita di ogni “signor Rossi” fin da quando si alza la mattina. Si è appena seduto per fare colazione e anche il latte che sua moglie ha comprato ieri è stato ottenuto da una mucca che si è nutrita di foraggi e cereali e mangimi che sono stati "fabbricati" dall'agricoltura usando trattori e concimi e che sono stati trasportati con navi e camion, e tutto ciò ha richiesto prodotti petroliferi.

Anche il caffè ha richiesto un poco di petrolio, quello che è stato necessario per muovere le navi che lo hanno portato dall'Africa o dal Sud America, e per far funzionare le macchine per la tostatura. E c’è del petrolio anche "dentro" la giacca e i pantaloni e le scarpe indossati dal Signor Rossi perché le fibre tessili sintetiche hanno richiesto petrolio; la coltivazione del cotone e l'allevamento delle pecore e la tessitura e la fabbricazione delle scarpe, sono stati tutti resi possibili da energia derivata dal petrolio.

Neanche in ufficio il signor Rossi potrà liberarsi dalla invisibile schiavitù del petrolio: il suo ufficio è dotato di tutte le apparecchiature elettroniche che consentono di abbandonare i polverosi archivi cartacei e di accedere alle informazioni alla velocità della luce. Purtroppo un vecchio proverbio dice che non si può avere niente gratis: infatti anche le sue macchine contengono materie plastiche, circuiti elettronici, oro e metalli rari e sali di litio e grafite che tutti hanno richiesto minerali e processi che hanno consumato petrolio. Per stare tranquillo il signor Rossi farà bene a stampare i risultati del suo lavoro su carta, la cui produzione ha richiesto petrolio quando sono stati segati gli alberi, trasportati poi dai lontani boschi del Nord fino alle cartiere, e quando la cellulosa è stata trasformata in carta e poi tagliata in fogli ben squadrati.

Qualche buona notizia: la signora Rossi dice al marito che la concessionaria ha finalmente avvertito che la nuova automobile è disponibile; lui non lo sa, ma anche una automobile, come anche una lavatrice, un frigorifero, un televisore, sono fatti di innumerevoli parti ciascuna delle quali ha richiesto petrolio, nell'estrazione dei minerali, nella fusione dei metalli, nella plastica, nelle vernici, eccetera.

Nel 1982 una piccola casa editrice di Milano pubblicò un libretto (ormai esaurito) dell'inglese Peter Chapman, intitolato Il paradiso dell'energia, che parlava del “costo in petrolio" di ogni oggetto della vita domestica: il pane, i tessuti, i mobili, gli elettrodomestici: in questo modo, quando il prezzo dell'energia fosse aumentato, ogni persona avrebbe potuto calcolare di quanto sarebbe aumentato il prezzo, in euro, di quello che stava per acquistare e avrebbe potuto regolarsi nel suo comportamento quotidiano, nei suoi consumi. E, nello stesso tempo, avrebbe potuto pretendere, quando i prezzi del petrolio fossero diminuiti, come adesso, una adeguata diminuzione del prezzo delle merci che acquista, soprattutto dei combustibili per autoveicoli il cui prezzo al consumo invece non segue affatto quello del petrolio.

Infine la conoscenza del “costo energetico” delle merci dovrebbe aiutarci a ricordare che il petrolio, insieme al gas naturale e al carbone, è responsabile dell’inquinamento dei mari, del suolo e soprattutto dell’atmosfera con quelle polveri e idrocarburi e gas che entrano nei nostri polmoni. Tutti e tre questi combustibili fossili aggiungono, in Italia, circa 400 milioni di tonnellate all’anno ai circa 30.000 milioni di tonnellate di “gas serra”, responsabili dei mutamenti climatici, che ogni anno finiscono nell’atmosfera dell’intero pianeta. Sappiamo quindi chi ringraziare se, alle prime violente piogge, provocate proprio da tali inquinamenti, tante case e strade e campi vanno sott’acqua.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
«Investire sulla tutela dovrebbe essereuna priorità assoluta. Invece i controlli sono ridottiall’impotenza tra nuove regole e risorse decimate». L'Espresso, 22 ottobre, 2015

Dobbiamo augurarci che si abolisca la penosa simbiosi di cultura e turismo, che produce iniziative deplorevoli e rischiose per l’ambiente (...) perché in Italia il campo è invaso dal turismo di rapina»: scrivendo nel 1979, Elena Croce non poteva prevedere che nel 2013 il Turismo sarebbe confluito nel ministero dei Beni culturali. Eppure, continua, «questi danni immensi sono riparabili con una pianificazione appena razionale, svezzando i turisti dagli orrendi villaggi sulla spiaggia e da altri abusi e indecenze» (La lunga guerra per l’ambiente, che sarà ora riedito da Scuola di Pitagora).

Oggi imperversa sul paesaggio la retorica della bellezza, ma si moltiplicano pinete divelte, dune spianate, coste violate, valli e pianure invase da pretestuose autostrade e Tav. Dilaga l’urban sprawl, la distinzione tra città e campagna non vale più, i paesaggi urbani sono vittima di condoni, piani casa, sblocca-Italia. Il paesaggio dovrebbe essere per noi il massimo vanto. Perché in Italia, secondo Goethe, «le architetture sono una seconda natura, indirizzata a fini civili». Perché la nostra vera ricchezza non sono le grandi emergenze monumentali, ma la capillare trama di bellezza diffusa.
Ha scritto Iosif Brodskij a proposito di Venezia: «Abbondano frivole proposte sul rilancio della città, l’incremento di traffico in Laguna... Tali sciocchezze germogliano sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, paesaggio. Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro. Ma nessuno stupratore confessa di esserlo, anzi si nasconde dietro alta retorica e fervore lirico». Per passare dalla retorica ai fatti, investire sulla tutela del paesaggio dovrebbe essere una priorità assoluta, e la convergenza di Turismo e Beni Culturali in un solo Ministero ne sarebbe la premessa. Ma con quali risorse? Oggi ci sono 240 storici dell’arte nei musei, solo 137 nelle Soprintendenze territoriali (634 gli architetti): la tutela del paesaggio, colpita dal silenzioassenso, da mancanza di personale e da bilanci ridicolmente inadeguati, è ridotta all’impotenza. E un paesaggio senza tutela è destinato a subire ogni stupro.

«Abbiamo più che raddoppiato le zone coperte dal cemento e dall’asfalto, sfregiando la ricchezza del nostro paesaggio con tanti piccoli ecomostri. E ora il silenzio-assenso introdotto dalla legge Madia apre la strada a nuovi possibili scempi». L'Espresso, 22 ottobre 2015

Italia lenta, Italia iperveloce


Stiamo divorando la Milano-Bologna sui binari del Frecciarossa, a 298 km all’ora. Campi, canali, tralicci appaiono e svaniscono in un soffio. In mano abbiamo una foto di quando, qui accanto, nel 1960, avanzava il cantiere dell’Autostrada del Sole. Operai sterratori siedono nella polvere in un mondo piatto coltivato a grano e frumento, hanno facce da poveri, fazzoletti in testa come contadini tagiki, bevono l’acqua dai secchi. Il tracciato sarà finito nel ’64, tra molti applausi per Aldo Moro e Amintore Fanfani. Ed eccola qui, la A1 del 2015, corre in parallelo alla linea Tav, a meno di cento

metri. Come dire in poche righe i 62 minuti tra le due città? Sfrecciano campi, filari, pioppeti, frammenti di bosco. Silos, cabine Enel, cascine, magazzini, campanili. L’Ikea a Piacenza, blu ed enorme. E poi Cucine Scic, Fiera di Parma, Barilla. Barriere acustiche a tratti. A Reggio il ponte bianco e la stazione Tav di Calatrava il futurista. Ancora cascine, qualcuna in abbandono. Fienili e rotoballe. Una ciminiera azzurra. Frutteti. Vigneti. Campi coperti di pannelli solari. Poi muri sporchi, scritte “Bologna Bombers” e “Vaffankulo”, ed ecco infine: la città.

Visto a trecento all’ora, il paesaggio italiano è nuovo e antico insieme. Trattiene la storia come carta assorbente. Vi si legge il successo economico, e l’insuccesso. Eccetto Piero della Francesca, dai finestrini si vede l’Italia che fu, e quella ch’è diventata. Dal 1955, quando nacque “l’Espresso”, il territorio è cambiato molto. E non solo perché la direttrice Tav Torino-Milano-Salerno, parte delle Reti Transeuropee, misura mille chilometri di nuove linee ferroviarie. Mentre la Torino-Lione, così contestata, in territorio italiano ha l’84 per cento del percorso, 68 km su 81, in galleria (e dunque invisibile) e neppure è “Alta velocità” perché le merci viaggeranno a 120 all’ora e i passeggeri a 220. Più in generale, che cos’è successo? Tre cose. I mutamenti sono molti e piccoli (e non: pochi e grandi). È cresciuto il consumo del suolo dovuto all’intervento umano. Ma è anche molto aumentato il territorio protetto. Con questa inchiesta l’Espresso prova a capirne di più.
Più consumo del suolo
L’Italia è lunga, bella, strana. Certo non siamo il Canada, natura pura e ripetitiva. Da noi è paesaggio antropizzato, lavorato dall’uomo in due millenni di storia. I tedeschi parlano di Kulturlandschaft; i nostri studiosi di paesaggi frantumati, prodotti da molti soggetti. È cambiata anche l’interpretazione del paesaggio, osserva Fabrizia Ippolito dell’Università di Napoli II, che sta per pubblicare un Atlante d’Italia in numeri (Skira): «Si sono susseguiti il paesaggio da contemplare, la cultura del Grand Tour che sopravvive nelle guide del Touring; il paesaggio patrimonio comune, sancito dall’articolo 9 della Costituzione; la somma di luoghi speciali da tutelare, secondo la legge Galasso; storia e natura da proteggere dal cemento, per Italia Nostra, Legambiente, il Fai...».
Dal dopoguerra il consumo del suolo è più che raddoppiato. Dal 2,7 nel 1956 al 7 per cento nel 2014. Secondo il rapporto Ispra “Il consumo di suolo in Italia” (2015) sono stati intaccati 21 mila dei 301 mila chilometri quadrati del territorio nazionale: più a Nord-Ovest (8,4 per cento), meno al Sud (6,2). In ben 15 regioni si supera il 5 per cento di suolo consumato; in Lombardia e Veneto oltre il 10. Le ragioni sono demografiche, industriali, turistiche. Come ci ricordano altri dati raccolti da Ippolito, fino al 2008, ante crisi, consumavamo 800 chili di cemento per abitante (oggi la metà); abbiamo 5 mila cave attive e 13 mila inattive (più le illegali); 120 aeroporti grandi e piccoli; 30 milioni di abitazioni (il 20 per cento vuote) in ottomila Comuni.
Il Registro delle grandi opere interrotte ne conta circa 600, un’enormità. Con tutto ciò, il paesaggio italico resta ricchissimo, per natura, orografia, diversità, tradizioni costruttive. In quale altro Paese d’Europa coesistono i trulli della Valle d’Itria e i masi del Sudtirolo, le grotte di Postumia e i graniti di Capo Testa in Gallura, i vigneti pettinati dell’Oltrepò e la necropoli di Pantalica in Sicilia? In nessuno.
La città dispersa
Ai tempi in cui Antonio Cederna denunciava i “Vandali dell’Appia”, l’Agro Romano era un’altra cosa. Alle porte dell’Urbe brucavano le greggi accudite dai pastori. Roma aveva (non verso sud, dove l’asse Mussolini-Piacentini aveva imposto la via del Mare) una cintura di prati e pascoli punteggiati di rovine, templi, acquedotti, echi di Arcadia. Il nuovo piano regolatore avrebbe dovuto sviluppare la capitale verso est, assecondando una tendenza storica, tra Tiburtina, Casilina, Tuscolana. Invece no: per scelte politiche pilotate dagli interessi di grandi costruttori, vedi la Società Generale Immobiliare, come denunciato da Manlio Cancogni e dalle inchieste de “l’Espresso”, Roma si espanse ovunque, a «macchia d’olio».
Oggi ne misuriamo le conseguenze. Un esempio plastico: Bufalotta. Dove l’agro cingeva la città a nord, allo sbocco dell’autostrada A1, oggi, lo ricorda anche Francesco Erbani in Roma. Il tramonto della città pubblica (Laterza), c’è una nuova «centralità». È Porta di Roma: una città-dormitorio semivuota su terreni privati da due milioni di metri cubi, residenze schierate intorno ai templi commerciali Auchan, Decathlon, Ikea, Leroy Merlin, 220 negozi, 7 mila posti auto. La domenica, anziché a messa, a MediaWorld. Porta di Roma è un emblema: la privatizzazione della campagna. Il piano delle centralità è decollato con le giunte Rutelli e Veltroni e costruttori d’area, poi Alemanno ha spostato il cemento verso la nuova edilizia abitativa.
Ma il fenomeno è nazionale: è lo “sprawl”, o dispersione urbana. Templi dell’iperconsumo sono sorti ovunque in aree libere. A Marcianise (Caserta), dove Il Campania copre 200 mila metri quadri con un chilometro di negozi; a Bergamo con l’Oriocenter (nel 2014, 14 milioni di persone), che con la futura Extension diverrà il più grande d’Italia, 275 negozi, 8 mila posti auto; in Piemonte il Serravalle Outlet, che da solo crea code sull’autostrada. Tra Fidenza Village, Castel Romano, Valmontone Outlet, l’era dello sprawl lascia monumenti che verranno studiati dagli etnologi del XXII secolo. Roma, però, dopo tot chilometri finisce. Milano e Napoli no.
Lo dicono gli urbanisti, e le foto satellitari: Milano e Napoli sono le uniche metropoli policentriche d’Italia. La prima sale a trapezio verso Brianza, Lario e confine svizzero. Sebastiano Brandolini, docente al Politecnico Eth di Zurigo, calcola che i confini amministrativi del Comune, se spostati e ricalcati pochi chilometri a nord, sull’hinterland, raddoppiano la popolazione (due volte 1,3 milioni): Milano non è che il quartiere Centro di una Milano-metropoli tra i 5 e gli 8 milioni, a seconda dei calcoli. Napoli si slabbra soprattutto a sud-est, da Afragola a Torre Annunziata. Terre difficili, camorra, discariche, abusi, nudi scheletri accanto a facciate barocche e viste stupende. Nella Zona rossa vesuviana risiedono 700 mila abitanti; il dopo-terremoto ha mangiato le campagne.
Ma lo sprawl metropolitano è diffuso anche altrove: la città lineare intorno a Genova, l’asse Cervia-Cattolica, il triangolo Vicenza-Treviso-Padova. Meno del 3% da 3% a 5% da 5% a 7% da 7% a 9% oltre 9% Suolo consumato Fonte: ISPRA Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale Consumo del territorio negli anni 1950 Consumo del territorio nel 2013 Con l’eccezione di Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, in tutte le Regioni il consumo del suolo è fortemente cresciuto negli ultimi 60 anni. Le percentuali più alte in Lombardia e in Veneto, dove il territorio costruito eccede il 10 per cento La mappa del suolo consumato Il cosiddetto Mostro di Alimuri, a Meta di Sorrento, poco prima di essere abbattuto. A destra: la scogliera dopo la demolizione 22 ottobre 2015 19 PIÙ
Aree protette
In parallelo si registra un fenomeno virtuoso. Crescono le aree naturali protette. Il Parco nazionale d’Abruzzo fu fondato nel 1923. Ma dagli anni del Sacco di Roma il progresso impressiona, e non teme il confronto europeo. Oggi l’Italia conta 24 Parchi nazionali. Dal Golfo di Orosei al Pollino, dal Gran Paradiso alle Dolomiti Bellunesi. È peccato che allo Stelvio sia in atto uno smembramento amministrativo tra Regione Lombardia e Province di Bolzano e Trento; o che il Parco dell’Aspromonte, Calabria infelix, sia meno efficiente di altri. Malgrado ciò, la linea è di progresso. Abbiamo 27 Aree marine protette, 147 Riserve naturali statali e 134 Parchi regionali, 130 Oasi del Wwf, e le tutele del Fondo ambiente italiano si allargano al Mezzogiorno: ultima novità, la straordinaria Abbazia Santa Maria di Cerrate, fondata nel XII secolo, in mezzo alle campagne sopra Lecce.
Tra i giovani cresce la cultura del territorio. Come la tutela della biodiversità, tema che l’Expo 2015, col suo successo superiore agli anatemi, non ha ignorato. Su 51 località italiane classificate “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco, dieci sono paesaggi: dalla Laguna Veneta (1987) fino all’Etna e a Langhe-Monferrato (2014). «E potrebbero essere 50», chiosa Brandolini: «L’Unesco si adegua sia alle ragioni culturali del paesaggio sia alle ragioni del turismo. Ma il turismo è strumento ambiguo, che insieme conserva e consuma».
Il ritorno del bosco
Tema trascurato, e invece centrale. L’Italia, dagli anni Trenta, ha perso 12 milioni di ettari di terre agricole; il bosco è cresciuto da 4 a 11 milioni di ettari. «E ha accelerato dagli anni Sessanta», spiega Mauro Agnoletti, cattedra di Pianificazione del territorio a Firenze: «In Toscana, dimezzati i terreni agricoli, oggi abbiamo 1,1 milioni di ettari di bosco. È stato un processo di semplificazione.
La Toscana era un puzzle di campi di grano, vigneti, boschi; oggi si è perso il 40 per cento di diversità del paesaggio. Gli stessi inglesi, che coniarono il termine Chiantishire, denunciano la perdita di autenticità». Nel Chianti, lasciati i terrazzamenti, la foresta cresce anno dopo anno.
Nel patinato Montalcino, dall’agricoltura promiscua, vite misto olivo, si è giunti alla monocoltura vinicola, «a rittochino», con i filari paralleli dal basso verso l’alto. Anche sulle Apuane, terra di marmi, il bosco ricopre campi e pascoli, ma castagneti secolari regrediscono. Il rischio incombe sui cosiddetti paesaggi storici. La Val d’Orcia, le colline di Fiesole, il Montalbano, la Montagnola Senese, i Castagneti dello Scesta, angoli di Garfagnana. È nato un Registro nazionale, che ne conteggia 120. La politica li terrà da conto?
Il bosco avanza forte anche in Liguria. Tipiche le Cinque Terre. Disboscate per le linee ferroviarie, rimboschite a pino marittimo, distrutte dagli incendi e dalla cocciniglia, ogni volta ripartite. «Oggi il castagneto storico è riconvertito in bosco ceduo», osserva Mauro Mariotti, botanico all’Università di Genova, «e il bosco si è espanso anche in zona-pascolo, a effetto mantello. Al posto di viti e oliveti, macchia e leccete». Con l’istituzione del Parco delle Cinque Terre (1999) è ripresa la cura dei terreni, ma i costi di manutenzione restano alti.
Diverso il Ponente, dove il paesaggio è marchiato dalla floricoltura intensiva. Oltre ai fiori di serra, alle piante aromatiche e alle succulente, una tendenza che emerge è la riconversione delle serre in pannelli fotovoltaici.
Montagne vicine e lontane
Un altro paradosso. Più la montagna si avvicina, la montagna si allontana. Turismo di massa e voli low cost hanno democratizzato, reso più accessibili le nostre Alpi. Sono sorti comprensori assai competitivi: la Via Lattea in Piemonte, Monterosa Ski, Cervinia-Zermatt, Dolomiti Superski sono hub turistici di rilievo europeo. Il nuovo impianto SkyWay rende più “comodo” il Monte Bianco (troppo, per i protezionisti). Crescono il trekking sulle Alte vie, l’alpinismo organizzato, il climbing, il running d’alta quota.
Ma se anche l’uomo innova, la natura segue il proprio corso. E il cambiamento climatico è arduo da governare. Il Nuovo catasto dei ghiacciai italiani ci rivela che dal 1962 a oggi la loro superficie totale è diminuita del 30 per cento, da 527 a 370 chilometri quadrati. Gli apparati glaciali si sono frammentati, oggi sono 903, oltre un terzo è in Val d’Aosta. Si sono ridotti tutti fortemente, anche i maggiori, l’Adamello, i Forni dell’Ortles-Cevedale e il Miage del Monte Bianco. La stessa Marmolada misurava 3,1 kmq nel 1962, oggi è scesa a 1,9. E dalle nevi in ritirata spuntano ogni anno, macabra sorpresa, i resti mummificati dei soldati della Grande Guerra.

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L’attenzione per i problemi ambientali, quelli della scarsità di materie prime, degli inquinamenti, delle modificazioni climatiche e delle alluvioni, mobilita intellettuali, scrittori, giornalisti. Uno degli sport più diffusi fra questi formatori dell’opinione pubblica consiste nell’inventare nuove parole o attribuire nuovi significati a vecchie parole. Pensate alla parola “ecologia”: da austera scienza dei rapporti fra esseri viventi e ambiente circostante, viene usata come strumento di pubblicità per deodoranti, biciclette e mozzarelle; “bioeconomia”, un termine che indica la revisione dell’economia in modo che rispetti le leggi biologiche, è diventata il nome dei processi per produrre i sacchetti di plastica; l’aggettivo insostenibile, che in italiano indica una cosa difficilmente sopportabile, ha generato il nome “sostenibile” che sta ad indicare che si può continuare a produrre merci senza fine con un po’ di pannelli solari; adattamento e resilienza indicano la possibilità di far fronte alle alluvioni e alle frane costruendo muraglioni di cemento invece di pulire e regolare il corso dei fiumi, e così via.

Una recente invenzione è l’”economia dell’abbastanza”, titolo di fortunati libri, articoli e dibattiti. E’ oltre mezzo secolo che viene ripetuto che i disastri ambientali deriva dalla “eccessiva” produzione di merci e edifici e macchine e relativi rifiuti. Un celebre e dimenticato libro del 1973 avvertiva che “Piccolo è bello”, poi gli stessi concetti sono stati riscoperti dalla filosofia della decrescita e ora dall’”economia dell’abbastanza”.

Al di là dei discorsi, è bene ricordare che decrescita e “abbastanza” si riferiscono alla produzione e all’uso di cose materiali: patate e frigoriferi, elettricità e ferro, carta e edifici, plastica e carri armati: chi deve diminuire i suoi consumi e quanto è “abbastanza”? Di oggetti, di merci, di macchinari le persone hanno bisogno per vivere, per mangiare (occorre grano e olio), per abitare (ci vuole cemento per le case), per muoversi (ci vuole acciaio per automobili e biciclette e treni), per conoscere (occorre carta per i libri), per curarsi (occorrono letti di ospedale e siringhe per le iniezioni). I settemila milioni di abitanti delle Terra hanno tutti gli stessi bisogni fondamentali, cibo, salute, conoscenza, ma li soddisfano in maniera molto diversa; i “primi mille” milioni hanno abbondanza di “cose”, anzi di cose sempre più raffinate e costose e ci pensa la pubblicità delle imprese a proporre spazzolini da denti elettrici, motociclette “ruggenti”, mode e lusso spesso sguaiati. A questi ”mille” milioni si racconta che i consumi crescenti giovano all’economia e assicurano l’occupazione. Circa quattromila milioni di terrestri hanno consumi così-così, in parte simili a quelli dei “primi mille”, in parte molto minori e modesti e insufficienti.

Gli “ultimi duemila” milioni hanno una modesta o modestissima quantità di beni materiali, insomma sono più o meno “poveri” o “poverissimi”, e sono spinti, per imitazione delle condizioni di vita dei “primi mille”, decantate dalla televisione che ne porta le immagini in tutto il mondo, a possedere sempre più “cose”, a qualsiasi costo, anche emigrando, anche con la violenza. Questa “disuguaglianza” è stata denunciata da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, ricordando che “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare (ha proprio scritto così) alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere” (n. 95).

A questo punto sorge la domanda: che cosa è “abbastanza” e per chi; la risposta viene non da chiacchiere, ma da un serio lavoro culturale e scientifico di sociologi e ingegneri, filosofi e cultori di ecologia (di quella vera) e di merceologia (la disciplina che indica come produrre e caratterizzare le “cose” oggetto di produzione e di consumo): quali consumi e sprechi e inquinamenti sono molto al di là dei limiti dell’”abbastanza”, e con quali materie e processi è possibile assicurare “abbastanza” beni a chi ne è privo, fra gli “ultimi duemila” milioni di poveri e poverissimi, per soddisfare i bisogni reali e fondamentali.

Il bisogno di acqua e di cibo, tanto per cominciare: sta per chiudere i battenti l’EXPO di Milano che avrebbe dovuto suggerire come sfamare il pianeta e si è risolto in grandi dichiarazioni e fiere gastronomiche che incantano folle sazie e magari anche obese, ma non fanno fare un passo avanti per soddisfare i bisogni alimentari di chi non ha “abbastanza” cibo, anche perché le sue terre sono sfruttate per far ingrassare i “primi mille” milioni di terrestri. L’igiene personale è un bisogno fondamentale per fermare le epidemie che uccidono ogni anno quei milioni di persone, soprattutto bambini, che sguazzano nelle pozzanghere di rifiuti per mancanza di gabinetti, mentre tanti, fra i ”primi mille”, dispongono di gabinetti raffinati e vasche e idromassaggi ad alto consumo di acqua e di energia. Gli esempi possono continuare per altri bisogni essenziali: salute, acqua pulita, istruzione, abitazioni decenti, eccetera.

Per assicurare “abbastanza” beni essenziali ai poveri e poverissimi occorrono tecnologie appropriate, chimica, innovazioni, una “ingegneria della carità” da cui verrebbero anche numerose e durature occasioni di lavoro e di impresa. Non si tratta di fare delle opere buone; se non saranno attenuate le disuguaglianze, anche attraverso un contenimento degli sprechi dei “primi mille” milioni, gli “ultimi duemila” milioni chiederanno di eliminarle con la violenza. La lotta alla disuguaglianza è (sarebbe) interesse anche dei ricchi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

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EnricoRossi, governatore della Regione Toscana, ha annunciato di volere sfidareMatteo Renzi per la segreteria del partito nel 2017. Si potrebbe pensare chesia solo una mossa tattica. Oppure no. Per quel che conosco di Rossi, sono piùpropenso a prendere sul serio le sue intenzioni, salvo poi ripensamenti. Ma lanotizia è interessante in sé: un'alternativa di sinistra a Renzi, con un Rossi cheannuncia: «di avere un progetto da inseguire: quello di una sinistra chenon veda in Renzi il proprio nemico». Che Renzi veleggi verso destra e siacontinuatore politico di Berlusconi, credo sia al di là di ogni dubbio.
Unalegge elettorale e una riforma costituzionale che diano tutti i poteri all'esecutivoera un obiettivo di Berlusconi e, prima ancora, di Licio Gelli. L'occupazionedei centri di potere e delle società controllate dallo Stato da parte di amicie paesani corrisponde alla stessa presa berlusconiana con gli uomini diPublitalia. La detassazione della casa, che implicherà uno spostamento delreddito dal lavoro al patrimonio, segue la politica di Arcore. E anche lecontinue comparsate in Tv e ovunque sia possibile mettersi in mostra hanno lastessa logica di conquistare il cuore del popolo della Tv commerciale e del Grandefratello; anche questa è politica.
Ma, allora, cosaintende Rossi per 'sinistra', se è d'accordo sulla riforma del Senato,d'accordo sull'Italicum, d'accordo con la legge "Sblocca Italia" e la"riforma Madia", se ha solo qualche riserva sulla detassazione pertutti della Tasi? Una politica di sinistra, non della vecchia sinistraimpersonata da Bersani e da D'Alema, ma di una sinistra moderna e innovatrice,Rossi la può fare proprio nella Regione da lui governata e questa politicasarebbe il miglior viatico per la sua candidatura alla guida del Pd (o diquello che sarà nel futuro). Può iniziare subito: la prima cosa da fare ècancellare il sottoattraversamento della Tav nel sottosuolo di Firenze, operapericolosa e criminogena.
La seconda: dare priorità al Parco agricolo della Pianae porre su un piano di assoluta chiarezza il progetto del nuovo aeroporto diFirenze, con una seria valutazione di costi e benefici (per la collettività); opponendosiai tentativi di eludere le regole e le norme poste a garanzia dei cittadini; promuovendo,come da impegno preso, un vera partecipazione del pubblico. Potremmo aggiungere- sempre come politica di sinistra - il necessario ripensamento di molte altre grandiopere, a partire dagli inceneritori, quello previsto a Case Passerini verrà adaggravare le già critiche condizioni ambientali della Piana. Se questa fosse la'sinistra' di Rossi, anticipatrice di una futura politica nazionale, ilgovernatore toscano guadagnerebbe molti voti alle primarie che designeranno ilprossimo segretario, molti consensi dei cittadini che militano nei comitati e nelleassociazioni ambientaliste.

E' evidenteche il 'non voto' che ha offuscato i presunti trionfi elettorali di Renzi e diRossi dovrà necessariamente trovare uno sbocco politico. Al di là degliannunci, la gente guarda all'agire pratico. Ad esempio, a Livorno, il SindacoNogarin sta mostrando come si può unire ragionevolezza a sviluppo. No alfaraonico nuovo ospedale, sì a ristrutturare quello esistente. Inutile unfondale di 20 metri nel nuovo porto per un traffico navale non previsto néprevedibile; ecc.. Si può innovare senza diventare schiavi del colossale edispendioso (ma profittevole per l'establishment). Chi dissente fermamente dalleprese di posizione e dalle intemerate di Grillo e della sua cerchia a livellonazionale non può, tuttavia, non riconoscere che, a livello locale, ilmovimento Cinque stelle è l'unico attore - Sel purtroppo è fuori gioco - che fauna politica di sinistra. A meno che non la faccia Rossi.

Siracusa e l’orgoglio delle sue antiche fortificazioni. Costruite nell’Epipoli dal tiranno Dionigi nel V sec. a.C., costituiscono il più esteso sistema difensivo dell’antichità classica, maggiore delle mura di Atene e delle mura aureliane di Roma. Le cosiddette Mura Dionigiane, culminanti nel grandioso Castello Eurialo, insieme alle Latomie definiscono ancora oggi i confini settentrionali della città moderna. E infatti dopo oltre duemila anni, servite egregiamente a tenere a bada i Cartaginesi e gli altri nemici, si trovano oggi a dover fronteggiare una nuova prova di resistenza, questa volta all’interno delle stesse mura, proprio sul pianoro che le separa dall’abitato.

Non sono bastati i vincoli archeologici imposti fin dal 1959 ai luoghi dal grande Soprintendente dell’epoca, Luigi Bernabò Brea, né è bastata l’iscrizione di Siracusa nella World Heritage List dell’Unesco anche per la quantità di fonti “archeologiche tuttora presenti, caratterizzate da un eccezionale livello di conservazione”, a fermare il Comune di Siracusa dal varo, nel 2007, di un nuovo Piano Regolatore che ha stabilito l’edificabilità commerciale e ricettiva della zona.

E così, tra i privati proprietari delle aree interessate e il Comune, vennero stipulate due convenzioni urbanistiche con le quali i primi cedevano al secondo vasti appezzamenti di terreno da destinare a parco e servizi, in cambio di cospicua possibilità edificatoria sui terreni rimasti in proprietà privata.

Ma al progetto edilizio la Soprintendenza opponeva il diniego di autorizzazione, proprio per l’esistenza dei vincoli prima citati. Ne sortiva una impugnativa dei privati innanzi al TAR che dava ragione alla Soprintendenza, onde gli stessi privati si sono appellati al Consiglio di Giustizia Amministrativa, cui hanno anche richiesto un risarcimento per centinaia di milioni di euro per il fallito investimento immobiliare. Il C.G.A. ha quindi disposto perizia tecnica per accertare la possibile risoluzione delle convenzioni con gli eventuali danni economici per il diniego della Soprintendenza.

Intanto, nel febbraio del 2012, veniva adottato dalla Regione il Piano Paesaggistico di Siracusa che, per le aree interessate, ha previsto la massima tutela - attualmente con le sole norme di salvaguardia - cioè l'inedificabilità assoluta. Il giudizio in corso ha così coinvolto anche lo stesso Piano Paesaggistico, che si trova ancora nella fase antecedente l’approvazione definitiva.

Come si può capire, tra risarcimenti da paperone e vincoli a rischio in un’area di delicata valenza paesaggistico-archeologica, la posta è altissima e chiama in causa anche le responsabilità del Comune e la corretta pianificazione urbanistica in luoghi così importanti della Città.

Intendimento dell’Autore dello scritto in pubblicazione è quello di argomentare - attraverso la ricostruzione analitica dei vincoli e dei vari passaggi urbanistici della vicenda - la nullità radicale, piuttosto che la possibile risoluzione, delle convenzioni urbanistiche da cui i privati derivano oggi le loro pretese.

È chiaro infatti che, da una declaratoria di nullità per fatto imputabile ai contraenti (causa contrattuale contraria a norme imperative), non deriverebbero conseguenze modificative sulla destinazione dei luoghi. Anzi, secondo le regole generali del codice civile, tali conseguenze non si sarebbero mai potute produrre ab origine.

DELLO STRAORDINARIO CASO DELL'INTERVERSIONE RISARCITORIA DI UN VINCOLO PAESAGGISTICO NON INDENNIZZABILE

La querelle infinita nell’Epipoli, tra la solita Proprietà privata (connotata nei diversi assetti societari) e il Patrimonio Culturale della città di Siracusa, vede svolgersi in questi mesi, e negli immediati prossimi, un altro complesso capitolo giudiziario presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa, ove è approdato l’appello dei privati avverso la sentenza del TAR Catania che ne aveva rigettato il ricorso. L’impugnativa al TAR era stata proposta nel 2011 per l’annullamento del diniego di nulla osta della Soprintendenza di Siracusa al corposo progetto edilizio (settantuno villette, un complesso commerciale e uno turistico-ricettivo) che la predetta Proprietà ha intenzione di realizzare nel pianoro dell’Epipoli immediatamente sottostante le Mura Dionigiane e il Castello Eurialo. L’appello è corredato di pesante richiesta risarcitoria, avendo lamentato, i privati, pure presunte difformità provvedimentali (id est: più largheggianti), poste in essere dalla Soprintendenza, in precedenti contesti, nella stessa area interessata dal progetto.

Con un articolato e motivato pronunciamento, anche a confutazione delle asserite disparità di trattamento, la Soprintendenza aveva spiegato le ragioni del diniego, in primo luogo con la sussistenza, in situ, del vincolo archeologico ex art. 21 l. 1089/1939 apposto con il Decreto Ministeriale 15 dicembre 1959, convalidato da un Decreto del Presidente della Regione fin dal 1966, pure trascritto nei registri immobiliari, quindi opponibile erga omnes, che espressamente inibisce l’esecuzione in quell’area di opere che non siano limitate alla “ordinaria conduzione del fondo” e alle “normali opere di trasformazione agricola eventualmente necessarie”.

Si parla qui del cd. “vincolo indiretto”, preordinato a “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”, oggi normato in totale continuità con la Legge Bottai, dall’art. 45 del vigente “Codice Urbani”, D.Lgs. n. 42/2004, che anzi, ne ha reso più stringente la disciplina, stabilendo altresì che le relative “prescrizioni… sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici”.

Il vincolo indiretto - è utile darne qui brevi nozioni ai fini della migliore intelligenza di quanto seguirà - viene imposto su specifici beni immobili, non costituenti di per sé “beni culturali” ai sensi del Codice, tuttavia indispensabili per integrare la tutela di un distinto immobile, ad esso vicino, ma non necessariamente contiguo, costituente il vero e proprio “bene culturale” (nella fattispecie il complesso delle fortificazioni dionigiane) a guisa di cornice archeologica, ambientale, storica, paesaggistica (prospettiva e luce) e di decoro anche urbanistico. Va evidenziato infine che il vincolo indiretto non è indennizzabile, pur potendo spingersi a sacrificare anche del tutto l’aspettativa edificatoria della proprietà da esso gravata.

A questo punto è necessario spiegare subito, rinviando più avanti la trattazione del profilo urbanistico-edilizio della vicenda, che la controparte privata della Soprintendenza di Siracusa esperisce due tesi logiche alternative, allo scopo di superare la validità del vincolo indiretto del 1959. Con la prima tesi, di tipo interpretativo, la Proprietà assume che l’espressione “ordinaria conduzione del fondo” contenuta nel dispositivo vincolistico vada letta attualizzandola alla situazione socio-economico-urbanistica dei luoghi, i quali, da meramente agricoli al tempo dell’emissione del vincolo (1959), si sono urbanizzati, edificati e quindi trasformati in terreni a vocazione commerciale e ricettiva, come per altro verrebbe sancito dal sopravvenuto P.R.G. che infatti ha impresso alle aree in argomento la destinazione edilizia. Dal predetto assunto deriverebbe anche la lettura attualizzata al presente, della successiva espressione “opere di trasformazione agricola” nel senso di opere di trasformazione urbana.

In conseguenza di questa “attualizzazione” del vincolo indiretto, oggi la Soprintendenza non potrebbe più negare il proprio nulla osta alle nuove edificazioni, ma, tutt’al più, dettare le sole prescrizioni sulle modalità dell'edificazione. Con la seconda tesi, ancora più drastica, la Proprietà assume che il parere favorevole del C.R.U. (Consiglio Regionale dell’Urbanistica), col voto conforme del componente Soprintendente p.t., sul P.R.G. di Siracusa consenziente all’edificabilità delle aree interessate, aveva comportato il superamento (cioè la caducazione) di quel vecchio vincolo del 1959 e l’ultroneità del diniego soprintendentizio di nulla osta del 2011 sul progetto edilizio.

Si arriva così all’approvazione del nuovo Piano Regolatore di Siracusa, nell’agosto del 2007, previo il sopra citato parere favorevole C.R.U. del 5 dicembre 2006, in seno al quale la Soprintendenza di Siracusa ebbe ad esprimere avviso favorevole sulla compatibilità fra le previsioni di Piano ed il vincolo in argomento. Più in dettaglio le aree interessate ricadono, ai sensi del P.R.G., in un unico comparto di intervento edificatorio, soggetto alla disciplina degli artt. 55 e 56 e 89 delle Norme Tecniche di Attuazione e della connessa “scheda norma” b12b, la quale subordina la possibilità edificatoria alla cessione al Comune di Siracusa delle aree denominate F2 ed F3 (da destinare in parte a “parchi e giardini privati sottoposti a tutela” ed in parte a “viabilità di Piano Regolatore Generale”).

In forza di quella “scheda norma” la Proprietà, il 1° marzo 2011, stipulava con il Comune di Siracusa due convenzioni: con la prima, la N. 6920, si pattuiva la cessione al Comune di un vasta estensione (mq 939.490) di terreni da destinare alla realizzazione del Parco Territoriale delle Mura Dionigiane; con la seconda, la N. 6925, si pattuiva la cessione al Comune di un’ulteriore cospicua (mq 205.537) quota di terreni da destinare a servizi pubblici, viabilità e parcheggi. Come corrispettivo della cessione la Proprietà riceveva dal Comune la “potenzialità edificatoria” sulle aree residue rimaste nella disponibilità.

Cosicché la Proprietà presentava istanza al Comune per la concessione edilizia e alla Soprintendenza per il nulla osta di competenza. La storia è andata come detto all’inizio di questo scritto ed oggi siamo al punto che il C.G.A. ha disposto perizia tecnica per accertare: 1) se il progetto edilizio sia compatibile col vincolo archeologico/paesaggistico indiretto, anche in relazione alle nuove destinazioni urbanistiche impresse alle aree dal vigente P.R.G.; 2) l’entità dell’eventuale danno economico causato ai privati dal denegato nulla osta; 3) l’eventuale risolubilità delle convenzioni urbanistiche de quibus e gli effetti sulla possibilità o meno di retrocessione dei terreni con esse ceduti al Comune.

Fin qui i fatti. È dunque venuto il momento di tentare un succinto esame giuridico degli stessi, scindendo partitamente gli istituti coinvolti, attesa la complessità delle questioni sub iudice.

I. Il vincolo indiretto ex art. 21 l. 1089/1939

La tesi che vorrebbe attualizzare il vincolo indiretto del 1959 da “filorurale” a “filoindustriale” per decorso del tempo e trasformazione edilizia (quanto legittima o illegittima e quanto invece sanata e condonata non vien detto) dei luoghi, appare una mera petizione di principio e non trova alcun fondamento, né nella lettera e ratio delle fonti normative e prescrittive sulla fattispecie, né tantomeno nella costante giurisprudenza del massimo organo di giustizia amministrativa, che, con riferimento proprio alle prescrizioni della tutela indiretta ex art. 45 D.Lgs. n. 42/2004, ha anzi evidenziato che “In tema di vincoli paesaggistici la compromissione della bellezza naturale ad opera di preesistenti realizzazioni … maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto” (Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2014, n. 3262). Questa stessa giurisprudenza, per altro, ha pure affrontato il tema specifico della pretesa trasformazione urbana, de facto, da agricola a residenziale/commerciale, statuendo che “non ha pregio l’argomento per cui l’area (di pertinenza del complesso immobiliare agricolo) sarebbe inserita in un contesto urbanistico fortemente antropizzato e tale da rendere illogica la tutela imposta” (ex plurimis Cons. Stato cit. ed ancora, in terminis, Cons. Stato, sez. VI, 3 luglio 2014, n. 3355).

Non meno arbitraria appare la tesi (tutt’altro che subordinata) secondo la quale il voto favorevole in seno al C.R.U. del componente Soprintendente p.t. sul P.R.G. di Siracusa che aveva previsto l'edificabilità delle aree interessate, aveva comportato il superamento (cioè la caducazione) di quel vecchio vincolo del 1959 e l’ultroneità, nel 2011, del diniego soprintendentizio di nulla osta sul progetto edilizio. A tal fine la parte privata si affida al dettato dell’art. 59 u.c. della legge urbanistica regionale 27 dicembre 1978 n.71, a tenore del quale “In materia di urbanistica, il parere del consiglio regionale dell'urbanistica sostituisce ogni altro parere di amministrazione attiva o corpi consultivi”.

Orbene, in primo luogo occorre delimitare la precettività della disposizione al suo corretto ambito e cioè “in materia di urbanistica”. Restano dunque esclusi gli atti promananti dai Rami di amministrazione diversi dall’Urbanistica. Non a caso, anche statutariamente, in Sicilia, Urbanistica e Beni Culturali, costituiscono distinti Rami di Dicastero e Amministrazione.

Ciò precisato, in questa sede si preferisce tralasciare per brevità ogni altra più specifica osservazione - che pur sarebbe stata legittimata dalla teoria dell’atto amministrativo - sulle reali possibilità caducatorie di un provvedimento amministrativo perfetto, ad opera di un atto consultivo collegiale.

Orbene, nel merito concreto, si rileva che il riportato disposto normativo fa riferimento solo all’idoneità del parere C.R.U. a sostituire un omologo “parere di amministrazione attiva o corpi consultivi” e dunque appare piuttosto ardito il tentativo di accreditare come “pareri” (pretesamente sostituiti dal voto C.R.U.) il Decreto Ministeriale 15 dicembre 1959 e il conseguente Decreto del Presidente della Regione siciliana 7 marzo 1966 n.1832.

Per altro il predetto decreto ministeriale, di imposizione del vincolo indiretto, è stato trascritto nei registri immobiliari e ciò non appare possibile a realizzarsi a norma degli artt. 2643 e ss. cod. civ., ove si fosse trattato di “parere”. Non a caso il Codice dei Beni Culturali stabilisce, con l’art. 128, un procedimento apposito per la revisione del vincolo indiretto, attribuendone la competenza al Ministero (in Sicilia all’Assessorato Beni Culturali), onde, anche sotto tale profilo non può in alcun modo configurarsi una potestà caducatoria in capo al voto espresso dal Soprintendente dell’epoca in seno al C.R.U., che sia competente a sostituirsi alle attribuzioni del massimo vertice amministrativo.

In larga parte le medesime considerazioni appena svolte valgono ad escludere una capacità caducatoria del voto C.R.U. anche sul diniego di nulla osta espresso nel 2011 dalla Soprintendenza di Siracusa, oggetto del giudizio, per le motivazioni già esaustivamente dissertate dalla sentenza del TAR Catania, attualmente appellata. In questa sede però vale la pena aggiungere che l’impugnato diniego della Soprintendenza di Siracusa non ha solo natura di parere, ma di vero e proprio atto (della categoria delle autorizzazioni), ai sensi degli artt. 21 e 146 del Codice, considerato anche lo speciale assetto amministrativo dei Beni Culturali in Sicilia. Pertanto, anche sotto tale profilo non sembra ammissibile alcuna capacità caducatoria del parere C.R.U. sul diniego di nulla osta della Soprintendenza di Siracusa, in quanto atti di natura soggettivamente ed oggettivamente diversa.

II. La proposta di vincolo paesaggistico ex l. 1497/1939 lungo le Mura Dionigiane di cui al verbale 9-28 aprile 1999 della Commissione Provinciale delle Bellezze Naturali di Siracusa.

La Commissione ex art. 2 l. 1497/1939, nell’aprile del 1999, aveva approvato il vincolo paesaggistico proprio nell’area delle Mura Dionigiane, a “completamento del più vasto progetto di tutela e di pianificazione paesistica delle aree vincolate della intera città, in parte attuato con l’emanazione del vincolo del Porto Piccolo e del vincolo del Porto Grande, con i quali la proposta in discussione viene a ricongiungersi”.

La proposta di vincolo, completa in ogni sua parte (storica, paesaggistica, archeologica, geologica, naturalistica, antropica, etc.) e redatta secondo il procedimento degli elenchi di cui all’art. 1 l. 1497/1939, venne quindi pubblicata per tre mesi all’Albo Pretorio del Comune. Non seguì il decreto regionale di approvazione definitiva, ma quella Proposta risulta oggi definitivamente trasfusa nel Piano Paesaggistico della provincia di Siracusa adottato con D.A. 1° febbraio 2012 n. 98, avverso il quale si è parimenti indirizzata l’iniziativa giudiziaria dei privati, in uno all’impugnativa del diniego di nulla osta per il vincolo indiretto.

L’obiezione sarebbe quindi che, nell’interregno tra la pubblicazione della suddetta Proposta del 1999 e la pubblicazione del Piano Paesaggistico del 2012, quasi 13 anni, non ha operato alcuna prescrizione (a parte il vincolo indiretto ex art. 21 L. n.1097/1939) idonea a “conformare” il Piano Regolatore del 2007 al rispetto delle destinazioni urbanistiche volute dalla Proposta di vincolo. Quindi legittima sarebbe la previsione di Piano che, per le aree interessate, ha previsto la possibilità edificatoria.

In realtà le cose stanno alquanto diversamente. L’art. 157 del Codice dei Beni Culturali rubricato “Notifiche eseguite, elenchi compilati, provvedimenti e atti emessi ai sensi della normativa previgente”, stabilisce al primo comma che “Conservano efficacia a tutti gli effetti … gli elenchi compilati ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497…”, mentre, al secondo comma, esplicitamente statuisce che “le disposizioni della presente Parte [n.d.r.: la Parte III “Beni Paesaggistici”] si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.

La riportata norma transitoria, fin dall’entrata in vigore del Codice (1° maggio 2004) insomma, ha direttamente dotato la Proposta di vincolo del 1999 degli stessi effetti di salvaguardia, vincolanti e conformativi, che oggi sono attribuiti al Piano Paesaggistico, in particolare dagli artt. 143 u.c. e 145 comma 3 del Codice.

Codice che, sia al tempo della preparazione (incluso il voto C.R.U. del 2006) che della definitiva approvazione del P.R.G. di Siracusa, era pienamente vigente in Sicilia, come attestano fonti qualificate della stessa Regione [1]. Sorprendente appare, dunque, l’indifferenza o disattenzione mostrata dal Soprintendente p.t. deliberante in seno al C.R.U. all’istituto vincolistico qui ricordato e reso cogente dall’art. 157 del Codice.

La tesi appena sostenuta è avvalorata, nella giurisprudenza più recente, da ben due pronunce della Suprema Corte, Cass. Sez. III 28 aprile 2010, n. 16476 e Cass. Sez. III 17 febbraio 2012, n. 6617 quest’ultima resa proprio sulla Proposta del 1999 riguardante Siracusa ed eloquentemente concludente, anche con riferimento al lungo tempo trascorso dall’adozione della Proposta di vincolo, senza seguito di decretazione [2] .

III. Le Norme Tecniche di Attuazione - artt. 55 e 56 - del P.R.G. di Siracusa e le Convenzioni Urbanistiche 01 marzo 2011 nn. 6920 e 6925. Nullità e altri effetti.

Gli artt. 55 e 56 delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del P.R.G. disciplinano rispettivamente le zone F2 (Parco territoriale di valenza archeologica delle Mura Dionigiane) e F3 (Parco territoriale di valenza ambientale delle Mura Dionigiane), stabilendo destinazioni ed interventi compatibili con la peculiarità dei luoghi, specificando che, in assenza di Piano Particolareggiato di Esecuzione “è consentito l’uso agricolo del suolo con divieto di edificazione...” (addirittura nell’art. 56 si dà atto che nella zona F3 grava il vincolo indiretto) salvo però a prevedere, tra le “norme particolari” (punto 5.2) “il riconoscimento ai proprietari di una potenzialità edificatoria... quale corrispettivo dell’indennità di espropriazione”, secondo quanto disposto nella scheda norma” b12b, che è lo strumento contenente le vere prescrizioni di dettaglio urbanistico edilizio (quanta superficie lorda ammissibile, quanta volumetria, quanta area di cessione, quanta area per servizi, parcheggi, viabilità, etc.).

La “scheda norma” cita perfino espressamente il gravame, sul comparto, del vincolo paesaggistico e del vincolo indiretto (rispettivamente indicati con gli artt. 149 e 49 del D.Lgs. n. 490/1999), il che avrebbe dovuto indurre già qualche scrupolo istruttorio nel dirigente dell’Ufficio Urbanistica, in sede preparatoria alla stipula delle Convenzioni di cui appresso.

Orbene, sulla base della predetta “scheda norma”, che, a detta dei privati, vale come “prescrizioni esecutive”, le quali, a loro volta “costituiscono a tutti gli effetti piani particolareggiati di attuazione” ex art. 2 L.R. n. 71/1978, il Comune e la controparte privata, il primo di marzo del 2011 stipularono le due Convenzioni in epigrafe, con le quali - ritenuta la Scheda Norma b12b legittimante a procedere - pattuirono la cessione di circa 120 ettari al Comune in cambio della “potenzialità edificatoria” ai privati sui terreni residui, in luogo dell’indennità di espropriazione, ciò "ancorché l'Ente Pubblico non abbia ancora provveduto a redigere i Piani Particolareggiati per le zone F2 e F3, così come previsto dal punto 2 degli artt. 55 e 56 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G." (così nelle premesse della Convenzione n. 6920).

La via si riteneva così spianata per l’edificazione, bypassato il Piano Particolareggiato, sarebbero bastate - secondo le intenzioni - solo una o più concessioni edilizie da rilasciarsi dallo stesso Ente ... che aveva già sottoscritto la Convenzione.

Ma prima occorreva acquisire il nulla osta della Soprintendenza. Hic Rhodus …

Nullità delle Convenzioni urbanistiche nn. 6920 e 6925

Dottrina e giurisprudenza, sia pure con vari distinguo, sui quali non ci si attarderà in questa sede, sono concordi nella sussunzione delle convenzioni urbanistiche tra gli Accordi pattizi pubblico/privato, sostitutivi di provvedimenti ex art. 11 L. 241/1990, categoria alla quale si applicano, in quanto compatibili, gli istituti del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, anzi, in quanto “consentono l'esercizio in forma contrattata dei poteri autoritativi di controllo dell'attività edilizia, anche sotto forma d'impegno ad un futuro atto di esercizio del potere di pianificazione urbanistica, conservano il loro carattere contrattuale” (Cass. Civ, sez. I, 10.01.2014 n. 364).

È stato esattamente rilevato che “mediante l’accordo, la Pubblica Amministrazione sostituisce il contenuto discrezionale di un provvedimento e, di conseguenza, essendo tenuta ad attenersi ai parametri di tipicità e di nominatività del potere, non è legittimata a inserire nell’accordo ciò che la legge vieterebbe al provvedimento unilaterale..” [3], come per altro aveva già da tempo statuito il Giudice delle Leggi, per il quale “la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo … si vale di tale facoltà … la quale, tuttavia, presuppone l'esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990 …” (Corte Costituzionale 06/07/2004 n. 204).

Orbene, l’osservazione che sorge, a questo punto, naturale e conseguente, è che nella vicenda giudiziaria in commento, più che la risolubilità delle convenzioni, evocata dal Giudice d’appello nei quesiti al CTU, viene in evidenza la stessa validità ab origine delle stesse, atteso che la fattispecie non pare affatto integrare la funzionalità dell’operazione contrattuale (inadempimento, eccessiva onerosità, sopravvenuta impossibilità della prestazione) o un improbabile vizio del consenso ai fini dell’annullabilità, quanto piuttosto la questione radicale della stessa causa dei negozi urbanistici.

Considerato infatti che il P.R.G. di Siracusa, al tempo delle stipulate Convenzioni, era già inefficace nella parte delle N.T.A e relativa Scheda Norma che assentono l’edificabilità su aree gravate dai preesistenti vincoli già documentati e giuridicamente argomentati ai precedenti capitoli I e II, si conclude, come da dottrina e giurisprudenza costituzionale appena citate, nonché come da pacifica giurisprudenza amministrativa, che il dirigente dell’Ufficio Urbanistica si trovasse in assoluta carenza di potere a promettere e stipulare la “potenzialità edificatoria” ai privati. Anzi, vista la previsione del comma 4 bis del citato art. 11 L. 241/1990 [4], sarebbe quanto mai utile accertare quale organo e con quali procedure e contenuti abbia trasferito al dirigente una così grande potestà dispositiva di interessi pubblici in realtà poco o nulla disponibili. La questione appare di grande rilevanza e meritevole delle opportune valutazioni nella sede giudiziaria, atteso che, come si apprende da fonti giornalistiche [5], il 23 febbraio 2011 si era tenuta, tra Soprintendenza e Comune di Siracusa una delle sedute istruttorie di concertazione ai fini della adozione del Piano Paesaggistico, nel corso della quale era stata comunicata ai rappresentanti del Comune l’apposizione del massimo livello di tutela ai luoghi interessati e comunque ribadita la preesistenza degli altri vincoli. La prosecuzione della seduta di concertazione, fissata a breve per il successivo 1° marzo, non ebbe luogo, ma giusto il primo marzo risultano stipulate le convenzioni urbanistiche dal predetto dirigente, per conto del Comune.

Quanto alla parte privata, si rileva che anch’essa, per conto proprio, era consapevole quanto meno della trascrizione del vincolo indiretto, quindi non avrebbe potuto negoziare con l’animus dominicale effettivamente libero dall’impedimento in questione. Analoghe considerazioni valgono per l’ufficiale rogante che nonostante sembri edotto degli stessi vincoli ex D.Lgs. 42/2004, tuttavia nei rogiti li derubrica a meri adempimenti sulla denuntiatio ex art. 59 del Codice, per altro non dovuta in caso di terreni interessati da vincolo indiretto.

Ritiene pertanto lo scrivente che la fattispecie abbia classicamente integrato un caso di nullità contrattuale sotto vari profili, innanzitutto perché la causa specifica voluta dalle parti (cessione contro ius aedificandi) era impossibile in quanto indisponibile in capo alla parte pubblica, come prima spiegato, poi perché la causa è contraria a norme imperative e dunque illecita secondo la nozione dell’art. 1418 del codice civile. Inoltre sotto il profilo della condizione sospensiva dell’autorizzazione soprintendentizia (condicio iuris), cui le parti hanno rinviato l’efficacia delle convenzioni, stante che la già illustrata contrarietà di tale condizione alle norme imperative e quindi l’impossibilità del suo verificarsi, rende nulle le convenzioni anche ai sensi dell’art. 1354 del codice civile.

Non si trascuri neppure che il vincolo indiretto ex art. 45 D.Lgs. n. 42/2004 è assistito dalla norma penale di protezione di cui all’art. 172 dello stesso Codice [6], circostanza che ne rende quindi più pregnante la valenza imperativa e di ordine pubblico e pone ulteriori interrogativi scientifico-ricognitivi sulle diverse ipotetiche fattispecie di nullità per causa illecita, per i quali non può che rinviarsi alle più penetranti valutazioni nel potere della sede giudiziaria.

Si dubita qui, per altro, che la fattispecie possa essere inquadrata come un caso di “presupposizione”, giacché, secondo la giurisprudenza pretoria sull’istituto, questa ricorre quando il presupposto (nel nostro caso il nulla osta soprintendentizio) sia, non solo indipendente dalle parti e determinante del loro consenso, ma altresì che “sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti” (Cassazione civile sez. II 14.06.2013 n. 15025). E certamente le parti della nostra vicenda non potrebbero sostenere – senza con ciò suscitare nuove gravi perplessità – di essere state certe di acquisire il positivo nulla osta soprintendentizio!

Ove non bastasse, le convenzioni, non avendo avuto esecuzione, risultano nulle anche sotto il profilo della sopravvenuta impossibilità, ancora una volta sia della causa che della condizione sospensiva, con riferimento all’entrata in vigore del Piano Paesaggistico, nel febbraio 2012, con i relativi effetti di salvaguardia e conformativi disposti imperativamente dagli artt. 143 e 145 del Codice, come al riguardo, inequivocabilmente, ha statuito di recente anche il C.G.A. [7].

Orbene, deve a questo punto ritenersi che, nonostante la delimitazione dei quesiti all’area della risolubilità delle convenzioni, con le conseguenti indagini risarcitorie, il Giudice dell’appello, per i rilevanti interessi pubblici in gioco, ben possa in ogni momento scrutinare il diverso e dirimente profilo della nullità, stante che “limitare l’area di rilevabilità officiosa alle azioni di adempimento … svilisce la categoria della nullità, l’essenza della quale... risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali, o che comunque trascendono quelli del singolo”. (Cass. Sez. Un., 4 Aprile 2012 n. 2012).
***
La nullità rende inefficace e privo di effetti il regolamento negoziale che pertanto non è mai stato neppure idoneo a trasferire la proprietà dei terreni privati nella sfera demaniale e, trattandosi di nullità cui sono convergentemente incorse le due parti contraenti, ne deriva la conseguente esclusione di ogni ipotesi di risarcimento, tantomeno a carico di terzi estranei, potendo tutt’alpiù residuare quella sola ipotesi risarcitoria inter partes che sia addebitabile alla responsabilità precontrattuale di una delle due parti contraenti verso l’altra, ai sensi degli artt. 1337 e 1338, ammesso che possa realisticamente configurarsi una tale ipotesi, nella fattispecie. A parte il diritto alle eventuali restituzioni – altra cosa dal risarcimento – e sempre nei limiti stabiliti dagli artt. 2033 e ss. cod. civ., anche sotto il profilo della buona fede.

Un caso speciale di nullità

L’Amministrazione regionale dei Beni Culturali potrebbe disporre, in ipotesi, anche dello speciale strumento dell'eccezione della nullità relativa, cioè esperibile dalla sola Amministrazione, per rendere inefficace e a sé inopponibile il trasferimento immobiliare.

Stabilisce l’art. 164 comma 1 del Codice che “Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli”. Anche l'istituto del vincolo indiretto ex art. 45 del Codice figura ricompreso tra le “disposizioni del Titolo I della Parte seconda”. Si può argomentare che le convenzioni de quibus, avendo come propria causa esclusiva quella della concessione della possibilità edificatoria, si pongono in contrasto col combinato dell’art. 45 cit e del D.M. 15 dicembre 1959, recanti appunto le condizioni e modalità esplicitanti le sole trasformazioni possibili (opere di conduzione agricola) nei luoghi.

Il secondo comma dell’art. 164 lascia salva al Ministero (leggasi in Sicilia Assessorato BB.CC.) la facoltà di esperire la prelazione ex art. 61 comma 2, ma la migliore dottrina [8] è concorde nell’evidenziare la finalità autonoma e precipuamente sanzionatoria della nullità, indipendentemente dall'esercizio della prelazione, considerata meramente facoltativa dalla legge. Per altro, nella fattispecie, la denuntiatio risulta effettuata e la prelazione non esercitata, ma, oltre alla già citata indipendenza tra nullità e prelazione, occorre anche ricordare che la norma di cui all’art. 164, testualmente include anche il vincolo indiretto, il quale incide su un bene non direttamente culturale che, in quanto tale, non è assoggettabile a denuntiatio e prelazione (cfr. TAR Veneto, sez II, 08.09.2006, n. 2901).

Sempre sul punto in argomento, aggiunge acutamente un altro Autore che in ogni caso, "denuncia e prelazione presuppongono la sottostante esistenza di atti di trasferimento idonei ... Ma tali non sono gli atti nulli. Onde in questo caso manca il presupposto per lo stesso esercizio della prelazione..." (M.A. Sandulli, cit. in nota 8).

Detto altrimenti, in forza dell’art. 164 comma 1 del Codice, l’Amministrazione dei Beni Culturali, essa sola, potrebbe sempre eccepire - nel giudizio - la nullità delle convenzioni urbanistiche de quibus, per violazione dell’art. 45 cit. e del D.M. 15 dicembre 1959, a ciò non ostando la già ricevuta (e riscontrata) denuntiatio, in quanto la prelazione non è contemplata in materia di vincolo indiretto e in ogni caso ne mancherebbero i presupposti per gli altri vizi di nullità, aliunde radicati e opponibili da tutte le parti, oltre alla già evidenziata rilevabilità officiosa del Giudice.

Siracusa, 2 ottobre 2015

Salvo Salerno è avvocato e dirigente regionale, consigliere dell’ufficio legislativo e legale della regione siciliana; già responsabile dell’area affari legali dell’Azienda regionale foreste demaniali.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a Carte in regola e a Patrimoniosos.

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1 Pareri dell’Ufficio Legislativo e Legale n. 88/2004 e n. 7231/2004; decreto assessoriale n. 9280 del 28-07-2006; circolari assessoriali n. 7 del 09-03-2006; n. 15 del 06-07-2006; n. 39503 del 20-04-2007; n. 7 del 23-07-2008).

2 “Si osserva, inoltre, che la conservazione di efficacia di detti provvedimenti non prevede il silenzio-rigetto né termini perentori per l’adozione di provvedimenti definitivi. …In realtà, ad avviso del Collegio, è proprio il tenore della norma [n.d.r.: l’art. 140] che esclude la perentorietà del termine che, quando stabilita dal legislatore, è espressamente indicata come avviene, per la Parte Terza del D.Lv. n.42/2004, negli articoli 146, comma 9, 159, comma 2, 167, comma 5 e 181, comma 1 quater; …la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte era costantemente orientata nel ritenere, sotto la vigenza della Legge 1497/39, che il vincolo di protezione delle bellezze naturali sorgesse con l’inclusione della località nell’elenco approvato dalla competente commissione provinciale e, quindi, anche prima del provvedimento definitivo di approvazione dell’elenco stesso da parte del Ministero dei beni culturali e ciò in quanto l’articolo 7 della legge richiamata faceva coincidere con la sola pubblicazione degli elenchi il divieto, per i proprietari, i possessori o i detentori a qualsiasi titolo dell'immobile che vi era compreso, di distruzione o di modificazioni che recassero pregiudizio all’aspetto esteriore tutelato. …Alla data di entrata in vigore del D.Lv. n.42/2004 il provvedimento spiegava, pertanto, piena efficacia indipendentemente dall’esaurimento del relativo procedimento e di tali effetti ha, infatti, tenuto conto il legislatore nel regime transitorio, con il già richiamato disposto dell'articolo 157, comma secondo D.Lv. n.42/2004. Ciò rende pertanto del tutto superflua ogni ulteriore riflessione sulla natura dei termini previsti dalla legislazione previgente, comunque non indicati come perentori…” (Cass. Sez. III 17 febbraio 2012, n. 6617).

3 A. Bertoldini, Le Convenzioni Urbanistiche, in Sanzioni Amministrative in materia di Urbanistica, a c. di A. Cagnazzo, Torino, Giappichelli, 2014.

4 Art. 11 comma 4 bis l. 241/1990: “A garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi… la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”.

5 “Il problema viene fuori durante le sedute di concertazione con il Comune di Siracusa per l’approvazione del Piano Paesaggistico (seduta del 23 febbraio 2011), quando si rileva che la Soprintendenza ha giustamente imposto un livello di tutela 3 (inedificabilità secondo le prescrizioni del vincolo) sull’area in cui invece il Comune ha previsto il comparto denominato b12b che contempla una ZCV. Si fa presente in maniera formale la sussistenza dei vincoli. La successiva riunione, fissata per il primo marzo 2011, slitta e intanto, in quei giorni, l’ing. Mauro Calafiore firma le convenzioni con la Ditta AM Group, convenzioni con le quali, in cambio delle cessione di aree di proprietà della ditta ricadenti in zona F2 ed F3 di P.R.G., viene riconosciuta alla ditta una SLA (Superficie lorda ammissibile) aggiuntiva per le zone ZCV del comparto b12b (la cessione era condizione necessaria per l’attuazione del comparto)” (“La Civetta di Minerva”, Siracusa, 30 giugno 2015, cf.)

6 L’art. 172 del Codice dei Beni Culturali, secondo i commentatori, punisce ogni “condotta astrattamente pericolosa, con riferimento alla messa in pericolo dell’integrità, si tratta di una ulteriore anticipazione della soglia di offesa al bene vincolato, che descrive i tratti di un reato di pericolo indiretto (di pericolo di pericolo: Marinucci-Dolcini, Corso di Diritto penale, 1, III ed., Milano 2001, pp. 592 ss.)”, così Gian Paolo De Muro a commento della sentenza della Cassazione Sez. III 22.09.2011 n. 36095 per la quale il vincolo indiretto ha pari valenza di quello diretto: “il vincolo di tutela indiretta può rientrare nel generale novero dei vincoli imposti per la conservazione e la protezione dei beni culturali, assolvendo a scopi analoghi a quelli concernenti i vincoli diretti né, peraltro, il legislatore sembra aver assegnato a tale misura di protezione una minore rilevanza rispetto questi ultimi, come si desume dalla previsione, nel D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 172, in caso di inosservanza delle prescrizioni di tutela indiretta, di una pena identica a quella prevista dai precedenti artt. 169, 170 e 171 per gli interventi illeciti sui beni culturali”.

7 Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd. 27.09.2012, n. 811: “Già da tempo era jus receptum come il contenuto degli strumenti urbanistici fosse conformato dai vincoli paesaggistici indicati nel relativo piano, donde l’illegittimità d’ogni assetto del territorio che risultasse incompatibile con detti vincoli. Ai piani paesistici è devoluta la funzione di dettare norme… non derogabili da ogni vicenda di gestione del territorio di qualsiasi livello, a salvaguardia dei beni vincolati e con riferimento a qualsiasi attività umana pur diversa da quella puramente urbanistico edilizia. Oggidì l’art. 145, c. 3 prevede espressamente che le previsioni dei piani paesaggistici ex artt. 143 e 156 “... non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici..., sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente (colà) contenute..., stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono... vincolanti per gli interventi settoriali... ”. Ai fini della tutela essenziale di tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici prevalgono sul quelle contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale, previsti dalle normative di settore…”.

8 Cfr. F. Florian e A. Mansi in Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, a c. di M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2012, 1225.

Perché inseguire un'idea esclusivamente tecnologica di "smart city" non ha alcun senso, se tutti i settori municipali non collaborano fattivamente alla costruzione di spazi pubblici di qualità adeguati ai nuovi stili di vita e lavoro urbani. Today, 28 settembre 2015

La questione aperta dalla truffa emissioni della Volkswagen, riporta in primo piano i problemi della mobilità sostenibile, e degli spazi entro cui è possibile organizzare nuovi stili di vita e lavoro. A questo primo aspetto se ne somma un altro apparentemente indipendente, quando con la recente presentazione del cosiddetto iPadPro, la Apple di Cupertino riprova l'ormai usuale strategia di largo respiro inaugurata dal fondatore Steve Jobs: non inseguire i bisogni consapevoli del consumatore, ma in una specie di logica fantascientifica al contrario inventarne di nuovi sulla base di scenari futuribili. Nel caso specifico del nuovo trabiccolo, questi scenari futuribili altro non sono che certi sviluppi sociologici e urbani in parte già delineati negli studi di Richard Florida con la sua «creative class», soprattutto negli sviluppi pratici così come si iniziano a intravedere nei tanti quartieri che amministrazioni in cerca di spunti per le riqualificazioni promuovono ormai a man bassa. Per adesso prevale il modello capitalista-esclusivo, ovvero ciò che offre il convento del puro mercato: le aree dismesse o degradate sono invase da costruttori archistar e immobiliaristi, schizzano in alto i valori delle case, ma in cambio si realizzano zone a funzioni miste qualificate, e soprattutto molto post-moderne nella sostanza: appartamenti relativamente piccoli destinati a giovani o a stili di vita giovanili, alta densità di innovazioni tecnologiche a partire dal wireless ad alta capacità, forte mescolanza degli spazi residenziali, commerciali, per il tempo libero e il lavoro.

Nella logica di puro mercato con cui vengono al momento gestite oggi la maggior parte delle operazioni (per esempio promosse dalla vecchia amministrazione Bloomberg a New York), accade che essendo la «creative class» solo in minima parte composta da veri giovani prodigio, che guadagnano come un pascià prima dei trent'anni, si ricorra all'espediente del microappartamento, 20-30 metri quadrati a cui adattarsi, ma economicamente accessibili, sapendo però che l'offerta vera urbana si arricchisce degli spazi condivisi e pubblici del quartiere, in una logica ben diversa dal suburbio privatizzato delle villette. È qui che si dispiega la potenza ergonomica dell'iPadPro, fortissimo quanto a portabilità per funzioni eminentemente lavorative, inaccessibili allo smartphone e anche ai tablet attuali. Ma appunto a questa estrema portabilità deve corrispondere una ampia e diffusa disponibilità di spazi pubblici attrezzati a svolgere il compito. Cosa vuol dire spazi pubblici attrezzati? Ecco, qui si intrecciano in modo interessante molte questioni del tutto aperte nel dibattito internazionale e locale sulla cosiddetta «smart city», che ci fanno capire quanto lontani dalla realtà possano essere certi nostri amministratori convinti che basti l'approccio tecnologico a risolvere tutto.

Recentemente, per questioni del tutto personali legate alla connettività e alle tariffe degli operatori mobili (a cui ci obbliga tra l'altro la scarsa disponibilità sul territorio di reti wireless ad accesso gratuito), ho provato a sperimentare brevemente di persona il divario, attuale e potenziale, fra gli scenari socio-spaziali delineati dalla Apple col suo nuovo prodotto, e lo stato dell'arte di una città relativamente moderna e internazionale come Milano, che da qualche anno ha iniziato a dotarsi di una propria rete wireless. Quale rapporto c'è, in altre parole, fra lo spazio fisico dei quartieri e la teorica disponibilità tecnica della connessione? Spiace dire che pare non ne esista nessuno, se non quello del tutto casuale determinato dalla collocazione degli impianti «dove c'è la gente», ovvero ogni tanto si, ogni tanto no, vicino o dentro a qualche spazio pubblico. La cui qualità però sembra del tutto indipendente e slegata rispetto alla nuova infrastruttura, praticamente come se i distributori di benzina fossero lontani dalle strade, difficili da raggiungere con vari ghirigori, e poi le pompe fossero piazzate qui e là senza un piazzale, il pagamento fosse laborioso salvo buona volontà del gestore, eccetera eccetera.

Lo testimonia un rapido sopralluogo sia nelle zone dei quartieri servite dalla rete comunale, sia in quei vagheggiati «poli di eccellenza urbana» delle cosiddette Isole Digitali varate qualche anno fa con un certo clamore mediatico, e di cui era forse lecito aspettarsi qualche evoluzione oltre il puro simbolo di efficienza. Immaginiamoci un rappresentante di questa classe creativa di massa, ovvero una evoluzione dei tanti che già oggi si improvvisano postazioni di lavoro dagli abitacoli di auto o furgoni, alla ricerca di un ufficio pop-up nella metropoli. Scoprirebbe che lavorare col suo iPadPro o modello analogo della concorrenza, nelle strade e nelle piazze così come sono non-attrezzate oggi, è pressoché impossibile. Indipendentemente dalla qualità tecnica della connessione, e anche indipendentemente dalla sua diffusa disponibilità, anche là dove il collegamento risulta facile, immediato, stabile, è l'ambiente urbano a presentare le più vistose carenze diciamo così ergonomiche: mancano posti a sedere (o mancano del tutto, o sono così pochi da non andare oltre il simbolico), non c'è alcuna cura nel definire spazi dotati di qualche carattere o intimità, schermati dal traffico, dal rumore, dall'inquinamento nel senso superficiale di fumi fastidiosi, e via dicendo. In altre parole, la famosa immagine del giovane professionista che guadagna digitando dal bordo della piscina resta solo una caricatura pubblicitaria, se proviamo a proiettare l'idea sul territorio e la società locale. Chi lavora sul serio in trasferta, è ancora costretto a cercarsi il classico rifugio dell'ufficio, per quanto improvvisato in una stanza d'albergo, in un atrio commerciale, o nell'anticamera di qualche posto dove ha un appuntamento. Campi nomadi digitali, frutto di una specie di post-urbanistica del disprezzo, o più probabilmente di pura trascuratezza, e mancata collaborazione tra settori municipali. Speriamo che se ne accorgano, prima o poi: il post-industriale non è solo chiacchiere e distintivo.

Su La Città Conquistatrice anche un racconto più articolato del rapporto fra spazi metropolitani e nuove professioni: Startupper metropolitani assortiti

La sempiterna «questione periferie», mai seriamente affrontata con strumenti adeguati, produce reazioni spontanee di alcuni abitanti, che si prestano solo a tristi e inutili strumentalizzazioni. Today, blog Città Conquistatrice, 21 settembre 2015

Sarà la vaga eco della questione rifugiati vaganti per l'Eurasia, sarà l'avvicinarsi della prossima scadenza amministrativa in tante situazioni chiave per gli equilibri nazionali, ma pare si stiano moltiplicando le iniziative locali dei soliti mai placati «cittadini per l'ordine». Anche i più placidi e miti candidati e rappresentanti del popolo, più o meno tirati per la giacchetta da comitati o consulenti elettorali, non mancano di scimmiottare pateticamente qualche accenno di muso duro da Ispettore Callaghan, mettendo la solita «sicurezza percepita» in primo piano negli slogan programmatici e nelle dichiarazioni alla stampa. Forse però, la cosa da percepire prima della sicurezza percepita sarebbe la realtà, dai dati statistici sui reati (la quantità, la qualità, la localizzazione) a ciò che davvero inquieta i cittadini dei quartieri nelle loro esperienze quotidiane di fruizione dello spazio urbano. E distinguere così con chiarezza quanto appartiene propriamente alla sfera poliziesco-giudiziaria, da quanto invece riguarda altri interventi, o informazione, o prevenzione o altro. La politica, la società nel suo insieme, gli organi di informazione, proprio quello dovrebbero fare, e invece si intorbidano le acque, a volte per pura trascuratezza.

Un caso recente, piccolo piccolo ma emblematico, è quello di un incidente stradale avvenuto a Milano alcune sere fa. Un'auto accelera al semaforo giallo, una bambina qualche passo più avanti della mamma che aveva già iniziato ad attraversare viene travolta, carambola sul cofano, la macchina sbanda ma sgommando si allontana nella notte. Per la cronaca siamo in piena sindrome da caccia al pirata, e gli articoli successivi si concentreranno sulla cittadinanza (straniera) di tutti i protagonisti, macchine intestate a prestanome, alloggi occupati abusivamente, analisi della polizia scientifica per inchiodare i responsabili. Il pubblico, così come guidato da questa narrazione, guarda orripilato il dito, sentendosi oppresso da incombente pericolo (tutti travolti da un'auto guidata da criminale venuto dallo spazio esterno), ma non vede la luna. Che in questo caso, tornando dalle vertigini iperboliche dei bassifondi urbani in superficie, sta semplicemente nell'idiozia di quel semaforo in cui è avvenuto il misfatto, che non è il primo, né il più grave, e non sarà neppure l'ultimo se continuiamo a guardare altrove, e ad agire solo altrove. Insomma oltre ai poliziotti agli investigatori e ai magistrati ci vorrebbero degli ottimi geometri per risistemare l'incrocio: poi, solo poi ed eventualmente, ragioniamo anche su immigrati, assegnazione di alloggi popolari, permessi di soggiorno. Perché quelle cose in sé con quell'incidente c'entrano poco.

E la stessa cosa poi si può dire con la gran massa delle cose sventolate da ronde e comitati di «cittadini per l'ordine» di solito messi in piedi da qualche politicante per raccogliere consensi di bassa lega, soffiando sul fuoco di paure ataviche vagamente suscitate dal nuovo, da ciò che non si conosce, dall'inusuale, o dal semplice disordine. Perché indubbiamente di disordine e confusione ce ne sono in abbondanza nelle nostre città: dal punto di vista delle forme di convivenza, dell'uso degli spazi collettivi e dei servizi, degli stili di vita e abitudini che confliggono. Ma resta da chiedersi perché mai ad esempio l'orribile degrado indotto dalla cosiddetta «movida» susciti reazioni del tutto diverse, da cose microscopiche come un paio di disgraziati senza casa che parcheggiano un camper nell'angolo del piazzale del mercato, magari stendendo i panni tra un albero e l'altro. Intendiamoci: in entrambi i casi il degrado, nel senso di sottrazione di spazio e tempo all'uso corrente della città da parte degli abitanti, esiste, è innegabile, ma perché i ragazzotti urlanti, i deejay fracassoni, gli ettolitri di birra e montagne di spazzatura non generano la «emergenza sicurezza» di qualche povero sfigato accampato in un angolo? Bisognerebbe chiederlo a quelli delle ronde a caccia di consensi elettorali, che di sicuro non ci risponderebbero se non urlando anche contro di noi. Perché davvero stavolta, per usare una frase fatta: «il problema è un altro». Sono loro, il problema.

p.s. Il consigliere comunale di Milano ed esperto di sicurezza urbana Gabriele Ghezzi, mi scrive rivendicando il copyright del titolo «Una Ronda non fa Primavera», nel suo programma elettorale di qualche anno fa, copyright che riconosco senza alcun problema, per carità. Sul sito La Città Conquistatrice numerosi articoli trattano criticamente il tema della Sicurezza Urbana

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre... (continua a leggere)

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre incorniciate, modanature della trabeazione o cornicione, linea di gronda netta indiscutibile conclusione dell’edificio contro il cielo, particolari di una rappresentazione unitaria severamente equilibrata – vedono ergersi là in alto un opaco volume come un camicione che nasconde un cantiere di lavori per sopralzare di un piano l’edificio. Non sanno, non sono informati di una nuova costruzione sulle loro teste. D’altronde sopralzi di ogni genere, e non di un solo piano, da quasi vent’anni stanno marchiando brutalmente la linea del cielo milanese.

Il rivolgimento, a cominciare dalla deregolazione voluta dalla legge regionale del 1996 per il «riutilizzo dei sottotetti» (veri e finti) e continuato attraverso ulteriori sfrenate liberalizzazioni allo scopo, mentivano, di contenere l’espansione edilizia (si vedrà come, quando l’edificazione delle «nuove Milano» ammucchierà metri cubi a milioni), non rispetta nulla della storica dote architettonica e urbana della città. Palazzi dell’Ottocento e del Novecento, intatti nella loro forma coerente, sono violentati due volte: la prima, nel «personale» valore architettonico; la seconda, nel loro contributo a costituire organiche cortine edilizie di altezza costante, in cui l’unità dei fondamentali urbanistici genera, attraverso uguaglianze e differenze di forma e stile, architettura di ordine superiore, che siamo soliti chiamare architettura urbana.
Incredibile: sopralzi sono concessi persino, giustificati con minimi visibili arretramenti, nei palazzi della più nota strada della città, via Dante, realizzata a metà dell’Ottocento secondo un piano urbanistico per una cortina prospettica inquadrante la visione centrale del Castello, e articolato in prescrizioni architettoniche vincolanti per ogni edificio da erigere su fondo di proprietà privata. Migliaia di progetti approdano a realizzazioni mostruose, giacché nessuno, né architetti, né critici, né comitati di quartiere, né generica opinione pubblica sembra disposto a discutere il problema dell’addizione di parti nuove in sopralzo su costruzioni d’epoca la cui bellezza è acquisita da tempo nel catalogo dei beni da conservare. Sembra che il caso appaia trascurabile, non rilevante dal punto di vista dell’estetica urbana perché l’accostamento avviene per così dire «in verticale».
Invece, quando avviene «in orizzontale» nuove dispute si aggiungono a quelle corse incessantemente nella storia dal dopoguerra, con qualche anticipazione degli anni Trenta. Così oggi balza in primo piano l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara a Venezia, con discussioni senza sbocchi in base al principio, falso nonché indice di asineria, «mi piace/non mi piace».
Intanto i nostri concittadini cominciano a preoccuparsi. Cosa copre il camicione? Lo sapranno presto, quando esso si affloscerà come un pallone bucato e loro guardando verso il cielo si sentiranno colpiti da una mazzata sulla testa e contro il petto (diranno dopo). Lassù, sopra il bel cornicione, appare «una cosa dall’altro mondo». Quasi tutti recepiscono subito: inconcepibile devastazione del volto della loro casa, come se questo non detenesse bei lineamenti e anche caratteri profondi durevoli nel passato e da tramandare integri al futuro. Perché abbiamo atteso la fine dei lavori e non ci siamo mossi prima? dicono alcuni. Allora scatta come una molla di ritorno e tutti decidono di invitare a valutare l’orrendo sopralzo l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata, insomma il potente personaggio da cui dipendono le concessioni a costruire (e gran parte delle scelte comunali riguardanti il destino del territorio di Milano e dintorni).
L’assessore viene, osserva come fosse estraneo alla vicenda del palazzo, e si esprime proprio secondo quel gioco duale tanto da sbalordire gli ospiti e chi propende a sopravvalutare la statura culturale dei nostri amministratori: può piacere o non piacere, è una questione di gusto; ossia: non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. Tiè, direbbe il principe Antonio De Curtis.
Ecco servita la risoluzione del difficile problema, che infine dovrebbe allargarsi alla discussione su bellezza e bruttezza. A questo riguardo, soprintendenti, sindaci, assessori, eminenti istituzioni pubbliche e private si allineano nella lunga rassegna dei giudizi contrastanti. La scelta, in un senso o nell’opposto, appare quasi sempre stravagante, mai motivata in maniera convincente poiché mancante della doppia prerogativa: una multiforme preparazione che superi l’antagonismo o l’estraneità fra «le due culture», l’umanistica e la scientifica; una sensibilità acquisita attraverso l’esercizio, il movimento di tutti i sensi. Allora la scelta si configura liberamente nel rifiuto inoppugnabile dell’insulsaggine di «mi piace/non mi piace». Eppure ammissioni o negazioni anche inerenti a situazioni fortemente risonanti nella società civile accadono come fossero vincolate a questa alternativa. Perciò capita regolarmente che l’istituzione o il personaggio appaiano incoerenti e incomprensibili dinnanzi a circostanze simili o differenti.
Ritorniamo all’amata Venezia. Ora l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara, anzi l’intero edificio nuovo appiccicato al vecchio genera discussioni senza capo né coda. Ognuno dice la sua nel modo insensato. L’equivoco perdura. Non sembra nemmeno scontata la negazione della soluzione mimetica – fare architettura «in stile» (benché, visti certi esempi di arrogante disinteresse, succeda talvolta di rimpiangere le intelligenti falsificazioni…). Il linguaggio non può che rappresentare il nostro tempo. Ma non possiamo fissare le parole «giuste». A questa stregua s’impone la ragione della sensibilità che, in conclusione del procedimento descritto, approda a identificare i due campi estremi della realtà formale, quello della bellezza e quello della bruttezza, inframmezzati dal terreno accidentato dell’ambiguità e dell’inganno, o dell’illusione.
La completezza e ricchezza delle sensazioni significano preparazione a impiegare un superiore linguaggio contemporaneo dell’arte, dell’architettura, della musica e così via, tanto da permettere a chi lo possiede di avvicinarsi umilmente e benevolmente al «glorioso retaggio». Come possiamo spiegare tale sensibilità? Non possiamo; essa è un’attribuzione spontanea, intrinseca, sottratta a pressioni dall’esterno; imposta dalla dotazione sensoriale personale sorretta dalla conoscenza indipendente, cioè libera da schemi del tipo, come (discutibilmente) nella lingua, «vince l’uso vince la consuetudine». Ancora una volta dichiariamo di detestare lo slogan «è bello ciò che piace».
Non può che essere misero l’estratto apprezzabile dall’enorme massa di opere destinata a coinvolgere, anzi travolgere presente e passato nel tumultuoso processo finalizzato alla costruzione della bruttezza totale del mondo, quanto mai conveniente agli interessi delle classi dominanti. E’ contro questi che James Hillman, fautore della simbiosi fra psicologia ed ecologia, accusa che il Grande Represso di oggi è effettivamente la bellezza, soggiogata dalla bruttezza titanica, il Moloch che distrugge i luoghi storici e il paesaggio.

L’edificio aggiunto del Santa Chiara non può di certo esser compreso nell’estratto. Non basta rivendicare una pretesa semplicità delle forme, siglata anche da timoroso soprintendente: che invece si riduce a un infecondo malthusianismo traditore consapevole dell’umanitarismo dell’antenato. Né sarebbe valsa una via di mezzo, l’azione in quel terreno intermedio fra i due poli. Ce lo dimostrano certi dolorosi risultati in edificazioni importanti, ormai digeriti, se così posso dire, dalla città. Per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, l’hotel Bauer a San Moisè, la Cassa di risparmio in Campo Manin… Ma, allora (approssimativamente fino a cinquanta anni fa), la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva ancora perso per sempre la guerra contro i vandali. Il Moloch stava quatto nella tana sotto l’acqua in attesa delle occasioni per scatenarsi. Man mano arriveranno, ora sappiamo che non avranno mai fine.

Eppure, riguardo all’inserimento di nuove architetture entro un forte e fitto contesto storico, Venezia avrebbe potuto esibire la più straordinaria testimonianza di inclusione di un’opera moderna di immenso valore in un tratto della cortina lungo il Canale. Come altre volte, poiché la protesta urlata ci è rimasta in gola, ritorniamo al progetto di F. L. Wright per il Memoriale Masieri, un piccolo edificio commovente per l’evidente vocazione a collegarsi amorevolmente al vicinato in cortina (che del resto contiene forme di cinque o sei secoli saldate insieme dalla continuità e dalla specchiante partecipazione della strada d’acqua).
Le istituzioni locali e no, compresa la soprintendenza, con alla testa il municipio tenacemente caparbio nella negazione, accecate dal pregiudizio e dalla grettezza amministrativa, bocciano il progetto, quel meraviglioso saggio ispirato alla storia, alla natura, ai sentimenti artistici. Come se fosse un’offesa a un inesistente “stile” del Canale. L’architetto forse più grande del ventesimo secolo doveva subire l’ingiuria, lui custode del principio di bellezza più netto e risolutivo: l’artista vede più lontano e più chiaramente del suo popolo. Egli è l’unico a saper creare la bellezza.
È falso che il buonsenso sia peculiare dote di qualsiasi persona, che dunque sarebbe in grado di adottare le distinzioni giuste. Non possiamo calcolare l’esatta percentuale di responsabilità del popolo rispetto a quella di altri attori, sappiamo però che la distruzione della bellezza del nostro paese è avvenuta anche a causa dell’acquiescenza, spesso la spinta, delle popolazioni. Questo non significa che ogni cittadino non possa esprimere la sua opinione. I bravi milanesi che convocano l’assessore sono mossi da una visione secondo loro di impressionante bruttezza. La loro scelta è chiara. Purtroppo la realtà percepita e valutata è surclassata dalla presunzione del potente che ha scelto prima sulla base del più stolto criterio che si dia. A lui il sopralzo piace, da qui la decisione convalidante il reato già commesso di abuso e vessazione.

Riferimenti
Si veda in eddyburg di Lodo Menegnetti Pirani non docet, L’architettonica commedia di fine estate, L’opinione contraria, AIZENEV. La città rovesciata, Nnpp.

Lodo Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese 1, in «eddyburg» 10.12.2003. Idem 2,
24.06.2004. Poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg.
Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005.
Lodo Meneghetti, Anno 2000. La memoria la bellezza, in «il Grandevetro», XXXI, n. 80 (186), ottobre-dicembre 2007. Poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2008.
James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, Bergamo 1999.Milano, 13 settembre 2015

Il destino riservato al Palazzo del Lavoro di Torino (su progetto di Nervi per “Italia ‘61”), al di là del giudizio di merito sull’opera (alla forse troppo facile sua iscrizione a capolavoro fondamentale dell’architettura del secolo scorso, personalmente rispondo suggerendo di andarsi a ripassare l’opera, tipologicamente corrispondente, del salone uffici della sede della Johnson Wax, di F.L. Wright, antecedente di 15 anni) ripropone il destino di tutti gli edifici ritenuti patrimonio artistico e culturale –imperdibile- dalle amministrazioni torinesi. E si ripropone, con indubbia monotonia, la loro trasformazione – in tutto o in parte- in shopville di vario taglio e rango.

A me si ripropone l’interrogativo di sempre e cioè: se l’ente locale non fosse con il coltello alla gola per i suoi debiti, riserverebbe lo stesso destino ai suoi capolavori, ritenuti tali (che sono pubblici, di tutti)? Nel caso specifico: sarebbe disposto a scegliere - quale immagine d’ingresso della sua città (metropolitana!)- quella di un supermercato annunciato da quattro torri con le sue sfavillanti insegne? E’ l’interrogativo lecitamente da porsi per altri siti di riconosciuto valore di ricerca della forma e dell’organizzazione di questa città nella sua storia recente e meno recente.

Va detto che il problema riguarda in più larga parte l’architettura del cosiddetto Movimento Moderno e successive tendenze ma non solo (non è detto che ne sarà esente, ad es., la ‘Cavallerizza Reale’ risalente a tre secoli fa e da un anno oggetto delle cronache). Dunque, siccome non si è in grado di far fronte al degrado di un simbolo dell’arte, per quanto considerato capolavoro, non resta altro destino che vendere ai privati e assistere allo snaturamento del suo significato e ruolo urbani. E si continua ad assistere all’indegna distinzione/ separazione tra forma esteriore e contenuto con vergognose giustificazioni -anche teoriche (!)- su tale indipendenza. Il risultato lo conosciamo ed è diventato ormai un ‘format’: ci si preoccupa di salvaguardare la ‘scatola’ (nel caso del ‘Palazzo a Vela di Rigotti, neanche quella: si è salvata solo la grande volta, utilizzata come un capannone per infilarci sotto un ‘palaghiaccio’) e, dentro, succeda quel che deve succedere. Così, l’architettura che è stata sede e simbolo della storia del lavoro di una nazione (prima riunita da Nord a Sud e poi capace di risollevarsi da una seconda e più devastante guerra); l’architettura che ha voluto essere espressione della forza -della fiducia nella propria forza- di un intero popolo ed eretta a spese delle istituzioni di quel popolo, viene spogliata e defraudata del suo contenuto storico per essere abbandonata, svenduta, per finalmente liberarsi del suo insopportabile peso, del suo fastidio. La separazione vuol dire questo, è strumentale a questo.

Ma non si può certo chiedere all’investitore privato di spendere i suoi denari per assicurare la continuità di una funzione pubblica. La separazione tra involucro e finalizzazione interna sono l’inevitabile conseguenza della rinuncia da parte pubblica. Gli utilizzi del Palazzo del Lavoro –decisamente parziali e costantemente improntati alla provvisorietà- esperiti in passato dal Comune, non sono mai stati il frutto di un piano organico di riassetto generale delle pubbliche proprietà volto ad assegnare, in modo stabile, la destinazione d’uso anche del Palazzo del Lavoro. Non ho notizie in tal senso che testimonino l’esistenza di proposte di utilizzo da parte di Regione, ex-Provincia, Comune. Perché scartare, ad es., l’idea di farne la sede amministrativa della costituenda ‘Città metropolitana di Torino’ ergendola ad immagine del potere e dell’amministrazione pubblici ? L’esempio, citato, della Johnson Wax (1944, Wisconsin) avrebbe potuto validamente indicare il possibile sfruttamento ad uffici open-space di tutto il primo livello tra i possenti pilastri (oggi tecnicamente molto più realizzabile dei decenni passati), oltre le balconate perimetrali già presenti . Invece, no. Si lasciano deperire migliaia di mq disponibili e, ad es., si buttano montagne di soldi in un grattacielo per la nuova sede della Regione. E dire che l’ipotesi di sede amministrativa metropolitana potrebbe contare proficuamente anche delle ‘palazzine’ in riva al Po che erano state sede della mostra delle regioni -sempre di “Italia ‘61”- progettate da Renacco. Palazzine –a suo tempo oggetto di alti riconoscimenti- alle quali è stato riservato lo stesso utilizzo parziale con lo stesso carattere di provvisorietà.

Ma, ripeto, la ‘separazione’ contenitore-contenuto è la conseguenza della decisione, politica, dell’abbandono, della vendita. Come qualunque meretrice di mestiere, non avendo altra possibilità economica, anche l’ente locale vende il proprio corpo. Ogni persona di buon senso, raccomanda sempre la costante manutenzione di ogni bene che si vuole conservare. Chiunque sa che, altrimenti, l’onere della conservazione diventerà ripristino e facilmente diventerà insostenibile. Ed è esattamente quel che –con imperdonabile miopia- ha continuato a succedere, in questo caso per mezzo secolo. Succede, per forza di cose, che alla profusione (spesso incontenibile) di giudizi positivi sul valore dell’opera per dimostrarne la preziosità (unicità) non corrisponda , in decine d’anni, un solo euro per la sua manutenzione e che quindi quella preziosità, quel gran valore siano, di fatto, la copertura solo verbale della più chiara quanto detestabile irresponsabilità nei fatti. Se, nello scorrere degli anni, confrontassimo le dichiarazioni dei politici sul valore culturale e storico di questo come di altri beni di Torino con lo stato di abbandono in cui loro li hanno continuamente lasciati (non di rado si arriva alla fatiscenza), qualche dubbio sul cambio di strategia e di atteggiamento dovrebbe assalirli. C’era -e c’è- un modo semplice: prevedere una voce di bilancio per l’accantonamento –programmato e costante- di somme per la conservazione e tutela, anno dopo anno, dei propri ‘gioielli’. Quanti sono i gioielli da tutelare? Se era veritiero l’interesse alla tutela, si doveva stabilire l’elenco delle opere considerate irrinunciabili da parte pubblica e programmare una linea di copertura finanziaria che consentisse il raggiungimento dell’obiettivo.

Che io ricordi, è da prima delle ‘giunte Castellani’ (1993) che si parla del degrado del Palazzo del Lavoro e di cosa farne. L’irresponsabilità è stata così pervasiva da farci arrivare a questo punto in cui giovani amministratori attuali ci vengono a dire, con sfrontato candore, che non resta altro che ricorrere alla vendita ai privati perché “..la stagione degli interventi a debito è finita..”. Ora, senza voler abusare del dilemma, nudo e crudo, se era meglio devolvere i miliardi spesi (a debito) per una olimpiade invernale o, invece, per il restauro di tutta la ex ‘zona di comando’ sei-settecentesca ( Juvara , Alfieri) di tutto il complesso di “Italia ‘61” (evitando così di disonorare la memoria di un valido collega come Rigotti) ) e degli altri gioielli della ‘lista’ che era da definire (es: To-Esposizioni, O.G.R., O.G.M.,. ecc.), mi pare legittimo ricordare ai nuovi politici di scuola liberista che è stata responsabilità della politica (la loro) e non della malasorte se si è giunti al punto di dover vendere il proprio corpo pubblico come qualunque merce. Il restauro della Reggia di Venaria -ciò che oggi essa rappresenta e significa- è la miglior risposta al ‘dilemma’ tra olimpiadi della neve e cura del patrimonio pubblico. Non siamo passati da un periodo più favorevole ad uno meno per cause indipendenti dalle decisioni di chi ha amministrato e governato. Con premesse di tale colpevole curriculum, non è permesso ai politici torinesi di mettersi in cattedra su come si salva e tutela la cosa pubblica. Anzi, con doverosa umiltà, dovrebbero partecipare, con noi, all’analisi dei gravi errori commessi e tentare di mitigare la pesante eredità da loro lasciataci e per la quale, secondo loro, altro non si potrebbe che affidarsi al mercato ed alle sue richieste/esigenze.

Al contrario, la nuova linea della politica locale è quella di riversare le colpe sulle lungaggini burocratiche (!), ulteriore dimostrazione che all’irresponsabilità -che è all’origine del dramma- non c’è limite. Non è certo sbagliato pensare –come fa l’assessore all’urbanistica- all’aggiornamento o al rifacimento del PRG torinese i cui studi preliminari risalgono a quasi trent’anni fa. Diverso è far discendere la necessità del suo superamento dallo snellimento delle pratiche così da mettere i supermercati nei capolavori dell’architettura senza troppe storie. Di semplificazione in semplificazione, la pubblica amministrazione segue la direzione del progressivo disinteresse e de-responsabilizzazione (niente più VIA e VAS, niente più freni dalla Sovrintendenza, niente più concorsi (tanto meno per opere di privati) ma solo ‘accordi di programma’ e formule derivate..) seguendo l’obiettivo dell’annullamento delle varianti (del dovervi ricorrere) perché ogni intervento sarà una variante di per sé, costitutiva del ‘Nuovo Piano’. Sono certo che avremo il catalogo dell’applicazione di tale principio-linea ispiratrice nonché guida, nella futura realizzazione della cosiddetta ‘variante 200’ nella parte Nord di Torino.

Abbiamo sentito ripetere il ritornello che non ci sono i soldi, che bisogna trovarli e che quindi bisogna fare quel che chiede chi quei soldi li mette. Quindi si aspetta che “Esselunga”, “Coop”, ecc. si facciano avanti perché a questo siamo ridotti. Con sicurezza (anche baldanza) ci viene dato questo destino come privo di alternative. E’ vero che i soldi pubblici –in base all’attuale sistema fiscale- non ci sono più. L’altra cosa vera è che i privati–certi privati- i soldi li hanno (più di prima). Pertanto, credo ci si possa riferire all’esempio fornito da Della Valle ed il restauro del Colosseo. Non è ripetibile e, in buona misura, generalizzabile? Quanti sono coloro in grado di rinverdire il mecenatismo a vantaggio del pubblico interesse? Non pochi, credo, già dal livello locale. A cominciare dal tanto osannato Marchionne, altri sono sicuramente coinvolgibili in operazioni di sponsorizzazione del loro nome e del loro brand per la rinascita di opere che offrirebbero un grande ritorno pubblicitario proprio per la loro levatura artistica e civile. L’incentivo alla detassazione –anche totale- dei novelli magnati si risolverebbe in un’operazione sicuramente in attivo per l’ente pubblico considerando che, facilmente, i maggiori possidenti sono anche i maggiori evasori. Per questa via si otterrebbe un risultato opposto a quello attualmente perseguito: verrebbe favorito e valorizzato l’apporto del capitale privato per la salvaguardia della proprietà e della funzione pubbliche! A questo impegno dei privati dovrebbe corrispondere quello pubblico di fissare, comunque, la voce permanente nel bilancio del/degli enti pubblici per il risanamento e recupero dei propri capolavori architettonici, non escluso il ricorso ad una tassa di scopo per deficit residuali dalle sponsorizzazioni. Spiegata e motivata alla cittadinanza come facente parte di un tale sistema di comprovata responsabilità (una vera new entry), penso che non sarebbe affatto respinta, soprattutto se accompagnata, di volta in volta, dall’evidenza delle realizzazioni compiute anche con quei fondi. Un tempo, il territorio partecipava alla costruzione delle cattedrali, in lavoro e donazioni. Sono convinto che anche oggi, se si proponesse a chi vive e lavora nel territorio del torinese (e non solo) di devolvere una giornata -o anche poche ore- del proprio lavoro al risanamento e recupero dei capolavori della sua città, ben pochi si rifiuterebbero.

Ciò che risulta insopportabile dell’atteggiamento -e delle scelte, ovviamente- dei nuovi responsabili della’urbanistica cittadina è il sentirli parlare di qualità urbana che, tra i suoi caratteri fondanti non può non avere proprio la partecipazione, il coinvolgimento della cittadinanza. Fondare la qualità della città sulla conversione di opere spiccatamente pubbliche -geneticamente pubbliche- come quelle di “Italia ‘61”, in centri commerciali privati non dà il diritto a chicchessia di parlare di qualità. La qualità inizia, semmai, dall’impegno ad evitare la decadenza, il vergognoso degrado delle opere che della città hanno fatto la storia, quella antica e quella moderna. La qualità si sviluppa, poi, evitando di provocare la scomparsa di funzioni care alla vita quotidiana come il commercio di prossimità, dei negozietti sotto casa. E continua realizzando luoghi d’incontro, di socialità come vere piazze sul modello di quelle che tutto il mondo ci invidia e che rendono Torino una delle città più belle al mondo.

Tutti, i turisti ma anche chi abita in periferia, vogliono vivere le piazze che ci ha lasciato in eredità il regno sabaudo, non la ‘piazza’ dell’IperCoop o quella futura pensata all’interno del Palazzo del Lavoro dal progetto per il supermercato. Siamo ormai abituati ad una tale lontananza dalla qualità urbana che accettiamo che ambiti e spazi che nulla –o quasi- hanno in comune, abbiano lo stesso nome. Chiederei di evitare di farsi scudo dei vagheggiamenti di Nervi (sull’utilizzo post “Italia ‘61” del suo palazzo) perché mi piacerebbe sentire dalla sua voce la reazione all’idea di fare della ‘porta Sud ‘di Torino un colosso del commercio anziché l’imponente -e coerente- simbolo di un’intera, straordinaria città. Invece, anche in un punto tanto strategico, ancora una volta, ci si deve rassegnare a veder sorgere l’ennesimo centro commerciale: non si sa se chiamarlo destino o condanna. Un altro, fondamentale, requisito della qualità urbana è andare incontro ai veri bisogni dei suoi abitanti ed è arduo dimostrare che a Torino scarseggino i supermercati. E’ rimasto insoddisfatto, invece, tanto bisogno di bellezza. Dopo le deludenti prove offerte dall’architettura delle ‘Spine’ non c’era proprio bisogno che fosse manomessa anche la bellezza -già realizzata- del Palazzo del Lavoro che richiedeva di essere almeno conservata nella sua interezza: non manomettendola (come è vietato per qualunque opera d’arte, se ritenuta tale) e non espropriandone la comunità locale e nazionale per la quale è stata costruita solo cinquant’anni fa.

Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate... (continua a leggere)

Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate, che chiamerei senz’altro biotecnologiche: hanno usato il legno come combustibile e materiale da costruzione; hanno imparato a far fermentare e a cuocere il pane; con la fermentazione degli zuccheri hanno prodotto bevande alcoliche; hanno imparato a conservare la carne col sale o col caldo o col freddo, a seconda dei climi, a estrarre coloranti e fibre tessili da molte piante e animali, e cuoio dalla pelle degli animali macellati. Anzi la chimica e la biologia sono nate come scienze proprio dai tentativi di comprendere e perfezionare tali processi naturali. Ancora oggi gli alimenti, usati dai sette miliardi di persone del mondo in ragione di circa dieci miliardi di tonnellate all’anno, vengono dalla trasformazione di esseri viventi, vegetali o animali.

Molte delle materie prime naturali richieste dalla crescente industria dei paesi emergenti, Europa e poi Stati Uniti, provenivano, però, dai campi di paesi coloniali lontani nei quali serpeggiavano aspirazioni di indipendenza: cotone dall’Africa, carne dall’Argentina, indaco dall’India, gomma dal Brasile e dall’Indocina. I chimici dei paesi industriali si misero perciò di buona lena a cercare di produrre dei surrogati partendo dai combustibili fossili esistenti sul posto: carbone in Europa, petrolio in America, e per circa un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, la parola magica è stata: “sintetico”. “Sintetico” rappresentava la rivoluzione, l’aspirazione a liberarsi dalla schiavitù dei prodotti naturali. Il prof. Giuseppe Testoni tenne la prolusione al corso di Merceologia nell’Università di Bari nel 1929 con una conferenza dal titolo Le merci sintetiche e lo stesso titolo scelsi per la prolusione al mio corso di Merceologia nella stessa Università nel 1959.

Con la scoperta dell’”ecologia”, dagli anni sessanta del Novecento, si è visto che i prodotti sintetici, in quanti estranei alla natura, non erano biodegradabili, anzi erano fonte di inquinamento delle acque, che l’uso dei combustibili fossili era fonte di inquinamento atmosferico e dei relativi mutamenti climatici. Il concetto di “sintetico” è stato parzialmente sostituito dalla nuova parola magica “bio”: tutto quello che è bio è nuovo e buono e ecologicamente virtuoso e lo sanno bene molti venditori che appiccicano il prefisso “bio” a tutto quello che capita. “Biotecnologia” è il nome dato ai processi che dovrebbero salvare il pianeta producendo merci alternative a quelle sintetiche e prive degli inconvenienti prima ricordati.

La svolta si è avuta probabilmente con i tentativi di sostituire i carburanti per autoveicoli di origine petrolifera con alcol etilico ottenuto da zucchero o amido, usando tecniche microbiologiche note da millenni. Tali tentativi, favoriti dagli agricoltori che potevano così smaltire eccedenze agricole e usufruire di sovvenzioni statali, hanno incontrato l’opposizione sia dell’industria petrolifera, che temeva di vedere ridotte le vendite di benzina e gasolio, sia dei movimenti ecologisti che hanno accusato i sostenitori dell’alcol carburante di bruciare nei motori delle auto, un prodotto ricavato da materie agricole che avrebbero potuto sfamare gli abitanti dei paesi poveri. Come alternative alle materie plastiche petrolifere. che restano indistruttibili, nei rifiuti e nei fiumi e nel mare, sono stati studiati processi per ottenere, da sottoprodotti agricoli, le “bioplastiche” che dovrebbero essere biodegradabili e decomponibili, più o meno presto, nel suolo.

Nello stesso tempo, dagli anni sessanta del secolo scorso si è scoperto che, attraverso la conoscenza della struttura genetica degli esseri viventi, era possibile modificare artificialmente il patrimonio genetico di piante utili per renderle resistenti agli agenti esterni, ai parassiti, alla siccità, ai pesticidi, e per aumentarne le rese nei campi. E’ nata la ingegneria genetica che permette, a molte imprese di “vendere” sementi brevettate, di piante geneticamente modificate (OGM), agli agricoltori che vogliono godere dei vantaggi della loro coltivazione. Questa “biotecnologia” ha stravolto l’agricoltura di molti paesi del mondo e ha fatto sollevare dubbi sulla innocuità degli alimenti derivati da piante OGM (come è quasi tutto il mais che l’Italia importa per l’alimentazione del bestiame) e degli animali che se ne nutrono. Sono però così nati anche nuovi problemi analitici e merceologici, come la necessità di disporre di tecniche che consentono di riconoscere se un alimento contiene, o è privo di, parti provenienti da organismi OGM.

Un dibattito che vede acidamente contrapposti studiosi che sostengono le virtù degli alimenti derivati da vegetali e animali OGM, e altri che ne contestano la utilità non solo sul piano della salute dei consumatori, ma anche sul piano umano e sociale; le coltivazioni con piante OGM fanno concorrenza a quelle ottenute con sementi tradizionali, più rispettose della biodiversità.

Vi sono infine le biotecnologie per le coltivazioni “naturali” o “biologiche”, senza impiego di concimi artificiali, pesticidi, sementi OGM, e per gli allevamenti di animali nutriti soltanto con mangimi di coltivazioni biologiche. I relativi alimenti “bio” sono più apprezzati da molti consumatori e anche qui si presentano problemi analitici per riconoscere se gli alimenti venduti come “biologici” sono stati realmente ottenuti in conformità con le norme.

Il cammino delle varie biotecnologie è appena iniziato e sta mobilitando nuove ricerche di chimica, biologia, microbiologia e merceologia. Davvero la natura e la vita sono le vere fonti di cose utili, purché se ne rispettino le ineludibili leggi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzoggiorno

Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace ... (continua a leggere)

Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace e della giustizia; tale attenzione è andata crescendo a mano a mano che si sono fatti più vistosi i segni della violenza delle attività umane contro l’ambiente, confermati, in questi ultimi anni, dagli eventi climatici disastrosi che hanno colpito tante parti della Terra e che sono imputabili al lento continuo riscaldamento del pianeta. Una attenzione che ha ricevuto nuovo impulso con la recente enciclica di Papa Francesco, Laudato si’ che ha trattato in maniera organica e unitaria le radici e i rimedi della crisi, non solo climatica, del pianeta Terra, nella società industriale e consumistica odierna.

Questo fermento si sta diffondendo anche nei seguaci delle religioni non cristiane. Il 17-18 agosto scorso, per esempio, si è tenuta a Istanbul una riunione di credenti musulmani che hanno redatto una Dichiarazione islamica sulle modificazioni climatiche mondiali, anche in vista della conferenza internazionale che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre alla ricerca di azioni comuni per rallentare il riscaldamento planetario. In Europa abbiamo dell’Islam una visione miope sulla base delle violenze manifestate da gruppi che dichiarano di parlare in nome dell’Islam, e dei conflitti politici e militari fra comunità sunnite (circa 85 percento dei credenti musulmani) e sciite (circa 15 percento dei credenti). Ma il mondo musulmano conta 1600 milioni di credenti, la seconda religione dopo quelle cristiane con 2000 milioni di credenti di cui 1200 milioni cattolici. I credenti nell’Islam hanno come riferimento il libro sacro del Corano, così come i cristiani hanno la Bibbia, e il Corano, come la Bibbia, comincia con la creazione dei cieli e della terra e di tutti i viventi da parte di un solo Dio (Allah, per i musulmani), che ha fatto bene tutte le cose, che sono buone. I beni della creazione appartengono a Dio e l’uomo ne è soltanto il custode (khalifah, nel Corano). Lo stesso concetto che si trova nel secondo capitolo del libro della Genesi: la Terra è stata data all”uomo” perché la coltivi e la custodisca. Una delle molte analogie fra i libri sacri delle due religioni monoteiste.

La dichiarazione islamica di Istanbul ricorda che il riscaldamento planetario, causa dei mutamenti climatici, è dovuto sia al crescente uso di combustibili fossili, sia alla distruzione delle foreste e ai mutamenti della struttura del suolo dovute alla estensione di monocolture per prodotti da esportare nei paesi industriali, fenomeni che si manifestano vistosamente, per esempio, in Indonesia, popoloso paese islamico. La dichiarazione passa poi ad elencare molte raccomandazioni di buon governo ambientale. E’ opportuno risparmiare l’acqua, anche questo un aspetto a cui sono sensibili molti paesi aridi abitati da musulmani, istituire delle aree protette di particolare valore naturalistico, riparare e riciclare le cose usate. La dichiarazione invita a vivere in modo frugale per consentire agli abitanti dei paesi poveri di avere accesso ad una maggiore frazione dei beni naturali e invita le organizzazioni economiche e produttive a diminuire i loro elevati consumi di risorse, la loro ”impronta ecologica”, e a finanziare una economia verde. Viene auspicato anche che si possa arrivare ad un uso al 100 percento delle energie rinnovabili, un tasto delicato dal momento che alcuni paesi islamici sono fra i maggiori produttori ed esportatori di petrolio, il cui uso è una delle principali fonti dei mutamenti climatici. E' comunque interessante che gli esponenti di comunità musulmane, nei cui paesi si hanno i maggiori contrasti fra pochi abitanti ricchissimi e moltitudini abitanti poverissimi, auspichino l’avvento di un nuovo modello di benessere.

L’enciclica e l’insegnamento di Papa Francesco vanno però al di là dei rimedi tecnici o finanziari per contrastare la crisi climatica e riconoscono le vere origini delle violenze ambientali nell’egoismo dei paesi industriali e consumisti, nella ineguaglianza nella distribuzione dei beni materiali, per cui i paesi poveri diventano sempre più poveri essendo costretti a vendere a basso prezzo sia le loro risorse naturali minerarie, agricole e forestali, sia i loro stessi abitanti, costretti a migrare per cercare condizioni decenti di vita. L’enciclica denuncia una politica focalizzata sulla crescita a breve termine, e i governi che, rispondendo a interessi elettorali, non si azzardano a irritare la popolazione con misure, come potrebbero essere più severe iniziative per la protezione dell’ambiente, per la sicurezza dei lavoratori e per i diritti degli immigrati, che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.

In un’altra occasione Papa Francesco ha detto che la vera ricetta per la crisi anche ambientale contemporanea, è offerta dalla solidarietà, che significa pensare, agire e anche lottare in termini di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni, far fronte agli effetti distruttori dell’impero del dio denaro. Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si possono separare o trattare singolarmente. I problemi economici, sociali, umani, ambientali che abbiamo di fronte sono enormi, comportano il superamento di grandi contraddizioni ed egoismi, ma, come dice il Papa, “L’amore è più forte”.

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La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando... (continua la lettura)

La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando nel nostro pianeta. Aumenta la temperatura dei mari con mutamenti delle correnti, comparsa e scomparsa di specie marine, modificazioni del pescato; diminuisce la superficie dei ghiacci presenti sul pianeta con aumento del volume e diminuzione della salinità dei mari; cambia il ciclo planetario dell’acqua, per cui lunghe siccità mettono in ginocchio l’agricoltura e la vita in molte parti del pianeta, accompagnate da estesi incendi, mentre altrove piogge intense allagano campi e città.

Anche il nostro paese appare sempre più “fragile”; è il titolo di un recente libro del prof. Ugo Leone, docente di geografia nell’Università di Napoli e instancabile autore di scritti e libri sullo stato dell’ambiente in Italia e nel mondo. Il titolo completo è “Il rischio ambientale in Italia”, Carocci, 2015, e il libro ricostruisce le cause di tale fragilità italiana e planetaria da quando i nostri predecessori, pochi milioni di persone, sono diventati agricoltori e allevatori, fino alla rivoluzione industriale e tecnologica, iniziata dueento anni fa. Il progresso tecnico-scientifico ha permesso, al 20 percento degli attuali settemila milioni di terrestri, di avere case calde d’inverno e fresche d’estate, cibo e energia e merci, di muoversi e di conoscere altre persone e paesi e andare in vacanza. Purtroppo l’aumento del benessere economico e merceologico è inevitabilmente accompagnato da una modificazione dell’ambiente sotto forma di prelevamento dalla natura di acqua, minerali, rocce, combustibili, di diminuzione della superficie delle terre coltivabili e delle foreste, di immissione nella natura di fumi, liquidi inquinati, rifiuti solidi nocivi, di alterazione delle valli, delle colline e delle coste per far spazio a edifici e strade, spesso costruiti in luoghi che intralciano il moto naturale delle acque, con conseguenti frane e alluvioni.

Il libro del prof. Leone elenca l’aumento del rischio territoriale in Italia e soprattutto fornisce delle ricette per diminuirlo. La prima ricetta consiste nella necessità di conoscere la base fisica del territorio sui cui si svolgono le attività umane, e qui la geografia rappresenta un insostituibile strumento; la seconda consiste nel “prevedere e prevenire” un tema a cui è dedicata la seconda metà del libro, e nel comunicare l’esistenza dei rischi.

La conoscenza del rischio può, in molti casi, suggerire di “non fare”, nel nome della sicurezza presente e futura degli abitanti, certi interventi che sembrano desiderabili per il progresso economico, cioè per l’aumento del Prodotto Interno Lordo PIL italiano che invece impone di fare nuove opere e innovazioni e aumento delle produzioni e dei consumi di beni materiali. Per mettere a tacere chi chiede una maggiore precauzione nelle scelte economiche, i governi e gli imprenditori devono convincere i cittadini che molte delle denunce di rischi ambientali sono immotivate o sopravvalutano fatti poco rilevanti, o addirittura sono dovute ad ignoranza e ad un’irragionevole sfiducia verso il progresso scientifico e tecnico. Alcuni studiosi sostengono, per esempio, che le stranezze climatiche ci sono sempre state e non sono dovute ai gas immessi nell’atmosfera dalle centrali e dalle automobili, che le coltivazioni con piante geneticamente modificate producono alimenti del tutto sicuri, e anzi consentono di aumentare le rese agricole e quindi contribuiscono a sfamare le popolazioni povere, eccetera. E’ un delicato ed eterno scontro fra valori, quello del “benessere” attraverso l’aumento della produzione di merci e di denaro e quello del dovere di assicurare alle persone, oggi e in futuro, un mondo più sicuro.

Quasi mezzo secolo fa l’enciclica ”Populorum progressio”, sullo sviluppo dei popoli, di Paolo VI ricordava che: «Non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare» un pensiero ribadito ancora più energicamente nell’enciclica di Papa Francesco ”Laudato si’”. Da alcuni viene obiettato che i papi si occupino delle cose del cielo, perché delle cose della terra si occupano economisti e governanti e imprenditori; questi peraltro faranno bene a non sottovalutare, o irridere, le voci del dissenso perché non è detto che essi abbiano sempre ragione, che tutte le scelte del “fare” siano sempre “buone” e prive di effetti negativi.

Se è vero che in alcuni casi gli allarmi sono o si sono rivelati infondati, è altrettanto vero che si può fare un lungo elenco di scelte apparentemente “economiche” che si sono tradotte in disastri ambientali e anche finanziari. E’ troppo facile citare i fallimenti delle centrali nucleari e dei depositi di scorie radioattive: fra le scelte sbagliate ci sono strade che hanno tagliato le colline e sono state spazzate via dalle frane; villaggi turistici e quartieri urbani costruiti nei luoghi sbagliati e allagati da alluvioni; laghi artificiali che si sono riempiti di fango anziché di acqua; processi industriali che hanno provocato incendi e inquinamenti dell’aria e delle acque; inceneritori inquinanti e discariche di rifiuti che hanno avvelenato le falde idriche sotterranee. Ogni volta qualcuno aveva protestato ed è stato zittito come nemico dei governanti e del progresso. Il prof. Leone raccomanda giustamente una buona informazione per distinguere fra rischi reali e rischi immaginari; qualche volta qualcuno grida “al lupo al lupo” e il lupo non c’è, ma molte volte il lupo c’è davvero.

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Le recenti polemiche sulla ricostruzione dell’arena del Colosseo, riattivate dalla decisione del ministro di destinare solo a quest’opera quasi il 25% dei fondi 2015-2016 del così detto “Piano strategico Grandi Progetti Beni culturali”, hanno riproposto alcuni stereotipi duri a morire. Come ad esempio la contrapposizione – sempre citata dai fautori della ricostruzione - fra presunti conservatori élitari, laudatores temporis acti fuori tempo massimo e chi invece si sforzerebbe di aggiornare il nostro patrimonio culturale destinandogli usi più moderni ed adeguati alla contemporaneità.

Si tratta di un’abusata coperta di Linus con cui si cerca di ovviare all’incapacità conclamata della nostra classe politica e accademica di pensare – anche solo per sommi capi – una politica dei beni culturali degna di questo nome, ovvero sia una politica che abbia una chiara cognizione della loro importanza e ne sviluppi finalmente le potenzialità di strumento di conoscenza (del rapporto presente-passato), di acquisizione degli strumenti critici e, per questo, di innovazione. In una parola una politica che abbia una qualche idea su cosa farci di questi beni culturali che non si limiti al loro sfruttamento turistico. O che, al minimo sindacale, si ponga almeno l'obiettivo di una redistribuzione dei flussi turistici più sostenibile, in grado di valorizzare non sempre solo i blockbusters, ma il museo diffuso sempre decantato a parole e sempre negletto nei fatti.

Di fronte all’incontrovertibile dato dello squilibrio delle risorse a favore della sola ricostruzione dell'arena, il ministro ha replicato - prontamente rilanciato dal codazzo dei clientes - che nei prossimi anni saranno fatte altre elargizioni e che si terrà conto di casi come quello della Domus Aurea, la fastosa dimora di Nerone, snodo della cultura figurativa dal Rinascimento in poi, abbandonata da anni in uno stato di difficilissima sopravvivenza.

Peccato che sarebbe esattamente compito di una politica e di una amministrazione adeguata saper stilare – tanto più di fronte alla fragilità complessiva e ai problemi che gravano sui nostri beni culturali – delle priorità secondo una linea di intervento trasparente, scientificamente motivata, amministrativamente conscia dei rapporti costi-benefici.

Al contrario il ministro ha deciso esclusivamente secondo propri criteri mentre il Consiglio Superiore è stato chiamato semplicemente a ratificare l’elenco proposto.

Questa completa distorsione della funzione del Consiglio e degli organi di consulenza scientifica testimonia il nuovo livello cui è stata abbassata la gestione del nostro patrimonio culturale: siamo dunque arrivati, in maniera conclamata, ad un uso politico – in senso personalistico – dei monumenti pubblici.

Per giustificare la spesa di 18,5 milioni si invoca una maggiore comprensibilità del monumento: stranoto al grande pubblico nelle sue funzioni e nella sua forma, il Colosseo di tutto ha bisogno tranne che di essere spiegato con la ricostruzione del piano dell’arena. E su questa linea, perché allora non ricostruire le gradinate? E il velarium? E i clipei bronzei?

Le migliaia di turisti che si ammassano quotidianamente per entrare nell’Anfiteatro avrebbero piuttosto bisogno di servizi adeguati: dai bagni al book shop – caffetteria, ad una maggiore efficienza degli ingressi. O, se vogliamo rimanere nell’ambito della didattica, di materiali informativi multilingui più aggiornati dei pochi cartelloni ora presenti, con ricostruzioni complessive e una storia del monumento che – ben più di un semplice piano di calpestio – ne farebbe comprendere l’importanza.

Altri sono invece i siti e i monumenti che necessiterebbero di una valorizzazione tesa finalmente ad una fruizione più informata e consapevole.

Invece si continua ossessivamente a intervenire sul grande feticcio, sull’icona turistica per eccellenza, nella speranza di spremerne ancora più soldi (i diritti televisivi per gli spettacoli futuri).
E perché è molto più semplice intervenire su di un monumento che non ha ora più bisogno di costosi e lunghi restauri (troppo lunghi per i tempi della politica…).

Certo gli 80 milioni non potevano sanare tutti i problemi del nostro patrimonio, ma occorreva fare delle scelte lungimiranti che, soprattutto in questa prima tornata, rendessero ragione di un programma non estemporaneo e raccogliticcio quale è quello che appare.

L’enormità del compito – la gestione del nostro patrimonio - avrebbe dovuto attivare una pianificazione complessiva e soprattutto un’azione politica di ampio raggio capace, ad esempio, di raccogliere le risorse disperse nei tanti rivoli delle amministrazioni pubbliche per un programma di emergenza nazionale (obiettivo troppo lungo e complesso per coesistere con i criteri di semplificazione e rapidità, valori cardine dell’attuale governo).

L’accanimento sul Colosseo, al contrario, testimonia in modo esemplare l’ormai avvenuta scissione fra i beni culturali di serie A, economicamente fruttuosi, mediaticamente spendibili, su cui vale la pena investire e beni di serie B, destinati ad un abbandono sempre più accelerato. La bad company così come l'ha definita Salvatore Settis anche recentemente.

E’ lo stesso criterio che ha guidato la “riforma” del sistema museale statale, il cui unico obiettivo appare ristretto all’accensione dei riflettori sulle “eccellenze” (peraltro discutibilmente designate).
Con il velleitario presupposto che un megadirettore possa magicamente risolvere la marea di problemi organizzativi, amministrativi, avendo peraltro le mani legate sulla gestione del personale.
Megadirettori che saranno scelti, alla fine di un iter concorsuale a dir poco improvvisato, dallo stesso ministro, come ai tempi di Bottai.

Si replica, anche in questo caso, quell’uomo solo al comando stigmatizzato dal Presidente della Repubblica qualche giorno fa.

E’ al Presidente Mattarella che ci rivolgiamo ora – da ultimo con la lettera aperta di un gruppo di costituzionalisti – perché presidi, come gli compete, il rispetto dei principi costituzionali, in primis dell’articolo 9.

Perché attraverso la legge delega Madia viene esplicitata – con la sottomissione delle Soprintendenze ai prefetti e in generale con l’abolizione de iure della primazia dell’interesse del patrimonio culturale sopra ogni altro (sul tema cfr. Tomaso Montanari) – la vera posta in gioco di questa stagione politica: l'estromissione delle Soprintendenze e del Mibact dalla gestione e dal controllo del territorio.

In maniera ancor più sistematica che attraverso lo Sblocca Italia, gli unici organi ormai in grado di esercitare un controllo, attraverso l’esercizio di tutela del paesaggio, gli unici ancora dotati di un’autonomia – almeno formale – dal potere politico, sono definitivamente sottoposti ad un potere, quello del prefetto, di diretta emanazione politica.

L’opposizione ad un disegno simile dovrebbe essere la priorità per ogni Ministro dei Beni Culturali, in nome della più importante innovazione che il nostro territorio attende da sempre, ovvero sia il coordinamento della pianificazione paesaggistica.

Al contrario, a ribadire l’irrilevanza del Ministro in questo settore, i piani sono in gravissimo generalizzato ritardo e gli unici due casi della Puglia e della Toscana si devono quasi esclusivamente alla determinazione e alla competenza di singole figure di assessori regionali (Barbanente e Marson).
A tutt’oggi il Ministero non ha mai esercitato quel ruolo di guida e di indirizzo prescritto dal Codice (art. 145) e si è dimostrato – soprattutto a livello centrale – sempre pronto alla mediazione al ribasso, come nel caso dello splendido paesaggio Apuane, sfregiato dalle cave i cui proprietari hanno imposto – contro lo stesso Assessore, ma con l’acquiescenza del Mibact – un radicale “ammorbidimento” delle regole di piano.

Privo di competenze interne consolidate e diffuse in quest’ambito cruciale, invece che dotarsene per governare questa partita vitale, il Ministero si è quindi ritirato in un ambito sempre più circoscritto, limitandosi quasi sempre a correzioni di rotta marginali senza mai riuscire ad imporre una visione autonoma «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», così come hanno scritto i giudici della Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986).

E’ questa radicale inversione di atteggiamento politico e culturale che manca da sempre in chi ha guidato il Mibact, ridotto, nell’ultimo ventennio, su posizioni di mera difesa e, troppo spesso, di compromesso.

L'azione dell’attuale ministro si è sinora rivelata incapace sia di elaborazione innovativa, sia almeno di un contrasto efficace a tutela delle prerogative del proprio Ministero.

E fra poco, rischia di essere davvero troppo tardi.

In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile ... (continua a leggere)

In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile con cui ci muoviamo, il cellulare o il tablet con cui comunichiamo, eccetera, contengono materie plastiche e metalli, della cui provenienza sappiamo ancora meno. Vengono dal fabbricante di pentole e automobili e cellulari, ovviamente, ma il fabbricante li ha prodotti a sua volta da idrocarburi e minerali estratti in paesi anche lontanissimi, da persone che non conosceremo mai, forse liberi lavoratori con salari equi e adeguata sicurezza, forse miserabili schiavi costretti a lavori estenuanti, lontani dalle loro case.

Qualcosa su queste condizioni di sfruttamento umano fu denunciata dal film Diamanti di sangue, del 2006, con Leonardo Di Caprio, che descriveva l’estrazione di diamanti, insanguinati, appunto, da parte di migliaia di lavoratori schiavi, nella repubblica africana della Sierra Leone. Meno note, ma altrettanto dolorose, sono le condizioni di lavoro in altre zone dell’Africa, in cui milizie locali si guerreggiano con armi acquistate col ricavato dalla vendita dei minerali estratti col lavoro infernale di minatori schiavi. Senza contare che questi metodi violenti di estrazione clandestina si lasciano alle spalle montagne di scorie tossiche per l’ambiente e le popolazioni locali.

A qualcuno, sia pure nel disinteresse generale, sta a cuore la diminuzione di tutta questa violenza umana e ambientale: il Palamento europeo, qualche settimana fa ha votato a maggioranza una risoluzione che impone agli industriali di denunciare se i metalli che usano provengono da minerali estratti in zone in guerra. E’ una iniziativa ispirata da una simile legge americana del 2010, e già alcune industrie, soprattutto nel settore dell’elettronica di consumo, dichiarano, come dimostrazione della loro correttezza e come occasione di pubblicità, che i loro prodotti non contengono “metalli insanguinati”. La risoluzione europea specifica che la denuncia riguarda gli importatori di stagno, tungsteno, tantalio e dei loro minerali, e di oro, provenienti da una zona dell’Africa equatoriale che comprende la parte orientale della Repubblica Popolare del Congo e i paesi limitrofi Burundi, Ruanda, Sud Sudan e l’Angola.

I minerali e i metalli specificati sono particolarmente importanti per i loro usi industriali e perché in parte provengono proprio dalla zona africana travagliata da conflitti locali. Il principale minerale di stagno è la cassiterite e lo stagno trova impiego nelle saldature e in molti prodotti chimici. Per la sua capacità di proteggere i metalli contro la corrosione, lo stagno è utilizzato per il rivestimento di sottili lamiere di acciaio: si ottiene così la banda stagnata, quella delle lattine per prodotti alimentari conservati; una lattina media di tonno in scatola o di conserva di pomodoro contiene da 100 a 200 milligrammi di stagno.

Il tantalio viene estratto dal minerale columbite-tantalite, il coltan, nel quale si trova insieme al niobio. Il tantalio è un metallo molto resistente alla corrosione, è buon conduttore del calore e dell’elettricità e viene usato nelle apparecchiature elettroniche come telefoni mobili, tablet, computers, e anche per la preparazione di speciali leghe per jets civili e militari.

Ancora più importante è il tungsteno che si trova in natura nei minerali wolframite, tungstato di manganese e ferro, e scheelite, tungstato di calcio; il suo principale uso è la preparazione del carburo di tungsteno, un materiale duro quasi come il diamante con cui si ottengono utensili da taglio per la lavorazione dei metalli, nelle escavazioni minerarie e per segare i blocchi di marmo. Leghe a base di tungsteno estremamente resistenti sono usate nella produzione di proiettili penetranti e delle corazze di navi e carri armati. Nel film Gilda (1946) il marito della bella Rita Hayworth era un avventuriero che, durante la II guerra mondiale, organizzava per i nazisti il contrabbando del tungsteno estratto dalle miniere sudamericane. Il tungsteno viene impiegato anche in leghe per le pale delle turbine degli aerei a reazione e delle centrali elettriche.

Infine l’oro, di cui esistono miniere ”insanguinate” nell’Africa centrale, serve per la fabbricazione di monete e di gioielli, ma soprattutto per le saldature nelle apparecchiature elettroniche. Ogni cellulare o tablet contiene circa 20-25 milligrammi di oro, una quantità che diventa grandissima se si pensa che la Unione Europea importa ogni anno 350 milioni di pezzi fra telefoni mobili e computers, e che in Italia si vendono circa 40 milioni di cellulari all’anno.

L’iniziativa del Parlamento europeo ha suscitato differenti reazioni: favorevoli da parte delle organizzazioni che si battono per i diritti umani e per la difesa dell’ambiente, le quali sperano che la diminuzione dei profitti delle bande in guerra contribuisca a ristabilire una qualche pace e a combattere la corruzione inevitabilmente associata al contrabbando delle preziose materie prime. Contrarie, e non fa meraviglia, le imprese che temono che le norme contro i “metalli insanguinati” facciamo diminuire i loro profitti e che tirano fuori anche la commovente preoccupazione per i minatori africani che potrebbero perdere la loro, sia pure supersfruttata, occupazione. L’iniziativa europea potrebbe essere una occasione per una maggiore informazione dei consumatori sui materiali impiegati in quello che comprano, materiali che “costano” acqua, energia, risorse naturali e anche fatica e dolore e spesso violenza. C’è anche della violenza nelle merci.

Articolo inviato contemporaneamente a La Gazzettetta del Mezzoggiorno

Sventrare con un immenso tubo il sottosuolo di Firenze. Costruire un aeroporto che funzionerà da diga e comporterà il rifacimento, con soldi pubblici, del sistema idraulico della piana limitrofa alla città. Piazzare accanto all’aeroporto un inceneritore i cui effetti inquinanti si sommeranno a quelli dello scalo aereo. Sono le tre operazioni fortemente volute dai nostri governanti, a partire da Matteo Renzi, per scendere ai vari Nardella (sindaco di Firenze), Carrai (presidente di Toscana Aeroporti Spa), Naldi (presidente di Corporacion [sic] America Italia), Rossi (Presidente della Regione Toscana). Mescolo amministratori pubblici e privati perché non vi è alcuna differenza negli interessi e nei comportamenti. O meglio: gli interessi pubblici sono subordinati a quelli privati, mentre quelli politici riguardano soprattutto le carriere dei diversi protagonisti.Il sottoattraversamento di Firenze per l’alta velocità è bloccato da più di due anni, perché non è riuscito il tentativo di declassare il materiale di scavo da rifiuto speciale a terre e rocce riutilizzabili senza trattamenti, nonostante le pressioni esercitate dai politici Pd e per l’eroica resistenza di un dirigente regionale; ne sa qualcosa l’ineffabile Lorenzetti, Presidente della Regione Umbria e successivamente di Italferr per ignoti motivi di competenza; rinviata a giudizio dalla Procura di Firenze per avere messo a disposizione “le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici e una vasta rete di contatti nell’interesse e a vantaggio della controparte da cui poi pretendeva favori per il marito nell’ambito della ricostruzione dell’Emilia”; e, insieme alla Lorenzetti, altre 32 persone tra tecnici e politici. Un autentico verminaio che evidentemente ha lasciato indifferenti gli amministratori toscani.

Quanto al progetto del nuovo aeroporto di Firenze, ora sottoposto a VIA, è un concentrato di illegalità, già ampiamente segnalate e tali da portare l’Università di Firenze a concludere nelle proprie osservazioni “Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente”. Ma si va avanti lo stesso. Anzi, in un articolo apparso il 28 luglio sull’edizione locale della Repubblica, viene annunciata l’intenzione di Matteo Renzi (che ha perso la pazienza, sic!) di stravolgere con un proprio decreto le procedure di garanzia dei cittadini per accogliere nel nuovo aeroporto i capi di stato in occasione del G7 del 2017. Peccato che nessuno abbia designato Firenze come sede dell’avvenimento e che l’idea che l’aeroporto possa essere pronto tra due anni è una pura follia, cui evidentemente l’articolista presta fede. E poiché qualcuno deve pur avere avvisato il nostro Presidente del Consiglio che i tempi saranno dell’ordine, se tutto va bene, dei cinque – sette anni, l’eventuale G7 è solo un pretesto per invocare quelle circostanze eccezionali che giustificherebbero l’ennesimo strappo alle regole. Mentre l’Università, sempre secondo l’articolista, dovrebbe accontentarsi di qualche duna che proteggerebbe il Polo scientifico dai rumori del limitrofo aeroporto (operazione proibita per motivi di sicurezza, ma favola buona per gli ingenui). Quanto all’iter di approvazione dell’inceneritore, che dovrebbe concludersi con un ultima Conferenza di Servizi ad agosto, il Sindaco Nardella ha ricevuto i comitati della piana fiorentina che si oppongono con validissime ragioni all’ennesima opera inutile e dannosa (ma non per i costruttori e per Quadrifoglio), ribadendo la ferma volontà di andare avanti, magari con qualche albero e qualche rilevatore di inquinamento in più.

Vi è un filo che unisce ideologicamente e praticamente le tre opere: la loro dannosità non solo per gli impatti diretti e indiretti, ma perché insieme concorrono ad aumentare in modo drammatico il livello di artificialità del sistema territoriale fiorentino, in particolare di quello idrogeologico. E qui si può misurare tutta l’arretratezza dello sviluppo ciecamente perseguito dai nostri governanti. Mentre le città del nord Europa si stanno attrezzando per contrastare i fenomeni indotti dal cambiamento climatico, rinaturalizzando il proprio territorio, fuori e dentro le città, trasformando gli spazi asfaltati e cementificati in parchi e vasche di raccolta, noi pigiamo il pedale sui tubi, le condutture forzate, le soluzioni ingegneristiche che, ammesso che funzionino, implicheranno enormi costi di gestione, rendendo fragile il sistema e comunque altamente vulnerabile a eventi calamitosi sempre più probabili.

Avanti a tutta come kamikaze! Salvo che non saranno i nostri governanti a suicidarsi, ma “suicideranno” le popolazioni da loro amministrate. E quando si scoprirà che il tunnel sotto Firenze non è fattibile se non a costi triplicati e facendo gli scongiuri; che il completo rifacimento del reticolo idraulico della piana a contatto con Firenze è un’avventura rischiosa ed enormemente costosa (per i contribuenti, come è ovvio); che gli effetti inquinati dell’inceneritore insieme a quelli dell’aeroporto, dell’autostrada (con corsia aggiuntiva) e delle tante altre fonti di inquinamento già presenti, formeranno un cocktail micidiale. Quando i nodi verranno al pettine, nessuno sarà responsabile: non Adf, solo proponente; non ENAC, solo consulente; non la Commissione VIA nazionale che è solo un organo tecnico; non la Regione Toscana che ha solo espresso un parere. Colpevoli saranno i cittadini ammalati o alluvionati, perché nessuno li ha obbligati ad abitare nella piana e quindi che se ne stiano buoni e zitti.

“A Venezia, gli stranieri sono bene accolti se hanno molto denaro”, dice un personaggio del Candide di Voltaire. Forse è vero dappertutto, ma qui l’intreccio... (continua a leggere)

“A Venezia, gli stranieri sono bene accolti se hanno molto denaro”, dice un personaggio del Candide di Voltaire. Forse è vero dappertutto, ma qui l’intreccio di soldi e razzismo permea ogni programma e intervento delle istituzioni di governo. Nei giorni scorsi, il ministro della cultura Franceschini (basta bivacchi, vogliamo turisti di qualità), il governatore del Veneto Zaia (nessun profugo nelle località turistiche), e il sindaco di Venezia Brugnaro (non c’è posto per profughi e accattoni) ce ne hanno dato una bella prova.

1. Un ministro “di qualità”.
Alle chiacchiere sul turismo sostenibile - fiaba con la quale i governanti convincono i cittadini a lasciarsi rubare i residui spazi pubblici, affinché privati investitori li facciano fruttare a loro vantaggio- si è aggiunta quest’anno una polemica internazionale. Il pretesto è stato fornito dalla dichiarazione del nuovo sindaco di Barcellona che, presentando alcune misure per limitare gli effetti devastanti del turismo, ha spiegato di “non voler fare la fine di Venezia”. Invece di chiedersi perché ormai Venezia sia il modello negativo a cui in tutto il mondo si guarda per evitarlo, il ministro ha reagito dicendo che a Barcellona “dovrebbero baciarsi i gomiti per poter diventare come Venezia”. Ha anche spiegato che il problema non è il numero di turisti, ma la loro qualità, che per definizione viene valutata in base alla quantità di denaro che spendono. Ed è perché questi turisti di qualità non vengano disturbati da turisti poveri né da abitanti poveri, che si stanno trasformando le nostre città e si erigono recinti attorno ai “luoghi più pregiati”. Facile, ancorché inutile, sarebbe usare lo stesso linguaggio elegante del ministro- che dà una buona idea del livello culturale di chi gestisce l’omonimo dicastero- e dire che volentieri ci baceremmo i gomiti per poter avere un sindaco come quello di Barcellona. Inutile è, anche, spiegare al ministro che il problema non sono i turisti, acquirenti finali di una merce sempre più contraffatta, avariata e venduta a caro prezzo, ma chi tale merce vende, anche se non è sua (del resto anche “il problema” dell’Ilva non è la fabbrica, ma i suoi padroni e i loro amici), perché lo sa già, ed è proprio per proteggerne gli interessi che è stato messo al posto che occupa.

Assolutamente d’accordo con il ministro si è detto il sindaco Brugnaro, che non ha “escluso azioni a tutela del nome e della reputazione di Venezia”. Intanto, mentre valuta se fare causa al sindaco di Barcellona, e speriamo che non ci metta un’addizionale irpef per pagare le spese legali, ha adottato una serie di ordinanze per il decoro e l’immagine della città. “Dobbiamo togliere dalle strade un sacco di gente che gira e bighellona, si ubriaca…” ha spiegato, ma non si riferiva ai turisti, che per l’appunto bighellonano ubriachi, ma ad “accattoni, mendicanti e persone moleste”. Così ha aumentato il numero di vigili urbani armati che si aggirano per le calli a caccia di venditori di strada, ma niente fanno per impedire gli osceni picnic al cimitero, dove anzi appositi cartelli indirizzano i turisti verso gli angoli ritenuti più suggestivi, né per limitare l’ingresso nell’atrio dell’ospedale costantemente invaso da turisti che, forse pensando che sia già stato trasformato in albergo come molti luoghi di cura e ricovero della città, si divertono a fotografare i parenti dei degenti. Ovviamente, ha confermato il divieto, istituito a suo tempo dal sindaco Cacciari, di sosta davanti alle porte delle chiese per chiedere l’elemosina. “Ripuliremo la città”, è il suo slogan, “è ora di dire basta con questa gentaglia che gira per le strade!” .

2. Un governatore “ghandiano”.

Le manifestazioni di razzismo in Veneto, regione operosa e campione di evasione fiscale, non sono una novità. I fatti di Quinto di Treviso ed Eraclea, però, che nei giorni scorsi hanno attirato l’attenzione della stampa anche nazionale, mostrano con inequivocabile chiarezza come i politici consapevolmente usino le preoccupazioni economiche della “gente” per consolidare e giustificare il razzismo istituzionale.

In entrambi i casi non si tratta di guerra fra poveri, da una parte abitanti legali e dall’altra clandestini o occupanti abusivi. A Quinto, i profughi contro i quali si è scatenata la furia degli abitanti, sono arrivati perché lì le autorità li hanno portati, dopo la firma di una convenzione fra una società immobiliare, proprietaria di un certo numero di immobili sfitti, e la cooperativa che gestisce la sistemazione di profughi. Al loro arrivo i pullman sono stati presi a sassate dai civili abitanti di Quinto, ai quali si sono aggregate le squadracce di Forza Nuova. Insieme, hanno poi bruciato materassi e suppellettili (di proprietà pubblica, cioè pagati con le tasse di chi le paga) e impedito ai volontari di portare le ceste con il cibo dei profughi. Nessun provvedimento di polizia è stato eseguito nei loro confronti; al contrario sono stati fermati alcuni giovani di un centro sociale che manifestavano a favore dei profughi. Il governatore Zaia si è recato di persona a Quinto per dar man forte agli insorti. La gente, ha spiegato, è giustamente preoccupata perché l’arrivo dei profughi può far scendere il valore degli immobili.

Le minacce al governo - “lo stato non deve romper le palle a chi protesta” ha detto Zaia - e al prefetto hanno funzionato e i profughi sono stati spostati in una ex caserma. Nessuno ha chiarito se i contribuenti dovranno pagare una penale all’immobiliare con la quale era stata firmata la convenzione, né è stato reso noto se e quanti simili accordi siano stati siglati con altre società, e con quali costi. Intascata la vittoria, il governatore Zaia si è premurato di spiegare alla stampa che “noi non siamo razzisti e siamo contrari alla violenza”, ma qui “si sta africanizzando il Veneto”. Non si possono scaricare “un centinaio di persone che non sanno nulla del Veneto!” e pensare che la gente non reagisca, ha aggiunto, e comunque quella che stiamo facendo è “una guerra ghandiana contro gli incapaci che sono a Roma e ci governano”.

Anche ad Eraclea le motivazioni economiche sono state l’elemento scatenante del rifiuto ad ospitare temporaneamente 54 profughi in un residence. Ed anche qui Zaia è intervenuto di persona e ha attaccato direttamente Renzi che “mi aveva promesso che nessun profugo sarebbe stato mandato in località turistiche, di mare, di montagna, termali, città d’arte”, ma che dopo le elezioni avrebbe ordinato una “rappresaglia contro il Veneto!” . Comunque “se Renzi e Alfano vogliono distruggere l’economia del Veneto con i suoi 70 milioni di presenze” glielo impediremo, ha ribadito per rassicurare gli operatori del settore che gli hanno rivolto “un accorato appello per la salvezza dei territori e della stagione turistica”.

A Renzi ha scritto anche il sindaco Brugnaro, per mettere nero su bianco che noi non siamo razzisti e siamo disposti ad ospitare una conferenza internazionale sul tema, ma il governo deve prendere atto che a Venezia “non c’è posto” per nessun profugo e che “in Italia, l’Africa non ci può stare”. Poi si è recato all’aeroporto, insieme a Zaia e con uno stuolo di dignitari al seguito, ad inchinarsi allo sbarco della signora Obama.

Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del '900, l'UE ritorna... (continua a leggere)

Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del '900, l'UE ritorna sui suoi passi. Torna ad alimentarli con rinnovato vigore. E lo fa per iniziativa del paese che avviò, ogni volta, la carneficina: la Germania. Oggi il nuovo nazionalismo egemonico tedesco possiede tutti i presupposti per durare ed espandersi. L'Unione tutte le condizioni materiali e politiche per disintegrarsi. Come tutti i vedenti han potuto osservare, la vicenda greca l'ha mostrato in maniera esemplare.

Alla base dell'egoismo nazionalistico tedesco, ben orchestrata dai media, opera infatti una narrazione ideologica potente: la leggenda che la Germania, seria e laboriosa, stia a svenarsi per sostenere una vasta platea di popoli debosciati. Sappiamo che l'opinione pubblica tedesca è una delle più colte, se non la più colta, d'Europa. Ma nella patria di Lutero il messaggio di una nazione del Nord, laboriosa e risparmiatrice, che si contrappone ai popoli del Sud, oziosi e dissipatori ha una capacità di presa difficilmente resistibile. Tanto più che in soccorso di tale convinzione viene una serie di stereotipi lunga diversi decenni, una Grande Retorica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere separate dello spirito umano. E a rendere materia di senso comune tale divisione contribuisce anche il linguaggio popolare, che separa i popoli in cicale e formiche. Antica metafora del regno animale nobilitata dalla letteratura del mondo classico. Chi non conosce la favola di Esopo, tradotta da Fedro nel suo elegante e musicale latino? Olim cicada in frondosa silva canebat / laboriosa formica autem assidue laborabat. Non è necessario tradurre.

Ora, questa favola, comprensibile in un'epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie interessante di errate conoscenze. E soprattutto condensa oggi la metafora di un capitalismo che ha smarrito ogni senso e progetto e corre verso la propria autodistruzione. Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all'autorità degli antichi: «Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l'avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala». Ma oggi noi possiamo aggiungere che la favola non è più proponibile innanzi tutto sul piano biologico. Le operose formiche, e soprattutto le operaie e i maschi fecondatori, vivono pochi mesi. Le cicale hanno un ciclo più complesso e possono vivere 4-5 anni, nel terreno, allo stato di larve, prima di mettere le ali. La cicala nord americana – ci informano gli entomologi - può superare i 15 anni di vita. Anni passati sugli alberi, non a raccattare cibo da accumulare nelle tane come accade alle formiche. I maschi e le operaie, i lavoratori alla base della piramide del formicaio, non godono gran che dei beni accumulati durante i lavori dell'estate. Proprio come tanti operai poveri delle società avanzate di oggi. Tanto lavoro, poco reddito. D'inverno, in genere, muoiono.

Occorre aggiungere che le formiche, impegnate tutto il tempo della loro breve esistenza in lavori faticosissimi, sono inquadrate in una società gerarchica e castale, una caserma piena di soldati, sempre alla ricerca di beni e di prede, una monarchia assoluta in cui comanda una dispotica regina. Le cicale, all'ombra di ulivi o di pini – i loro alberi preferiti - riempiono del loro incanto il cielo dell'estate, per il puro piacere del cantare, senza alcuna finalità utilitaria. Offrono gratuitamente, a tutti gli altri viventi e perfino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luoghi invisibili, fanno sentire anche noi partecipi, se sappiamo ascoltare, della misteriosa ventura che è la vita sulla Terra.

Perché dovremmo preferire la formica alla cicala? Il senso della favola antica va rovesciato. Il male non tanto oscuro del capitalismo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del formicaio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale. Il modello di vita più avanzato, carico di futuro, è quello di questo insetto cantore, che lavora sempre meno, è libero di esercitare i suoi talenti creativi, non è divorato dalla febbre usuraia dell'accumulazione e del risparmio. Queste virtù del capitalismo delle origini, così ben interpretate dall'ordoliberismo tedesco, sono adatte per una società che guarda al passato, ancora prigioniera di paure di un mondo di scarsità che non c'è più, che non ha più nulla di affascinante da proporre alle generazioni venture.

Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano...(continua a leggere)

Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano, erano a tavola negli alberghi di Stava, frazione del Comune di Tesero in provincia di Trento, quando una valanga di circa 200.000 metri cubi di fango ha spazzato via la loro vita e quella di altri abitanti della zona, 258 in tutto. La massa di acqua e detriti era scesa su Stava, a 90 chilometri all’ora, in seguito alla rottura degli argini di due grandi bacini artificiali che si trovavano poco sopra il paese, pieni dei residui del lavaggio della fluorite estratta dalla vicina miniera di Prestavel.

La fluorite è il minerale costituito da fluoruro di calcio, impiegato come fondente nella produzione dell’alluminio e dell’acciaio, per la preparazione di ceramiche e per la produzione di composti chimici fluorurati. La fluorite greggia, estratta da quella e da altre miniere del Trentino, era frammista ad altri minerali; per purificarla la roccia veniva macinata in fine polvere e veniva sottoposta a lavaggio con acqua e agenti chimici sospendenti; per quella particolare miniera, in Val di Fiemme, venivano utilizzate le acque dei piccoli torrenti nei quali erano anche reimmesse le acque residue del processo.

La miniera di Prestavel aveva una lunga storia; era stata aperta nel 1935 in concessione alla Società Atesina per Esplorazioni Minerarie; nel 1941 la concessione era stata ceduta alla società Montecatini la quale, nel 1961aveva ottenuto l’autorizzazione a costruire un primo bacino di decantazione del fango di lavaggio della fluorite; nel 1969 era subentrata la Montedison che aveva ottenuto l’autorizzazione alla costruzione di un secondo bacino, più grande e a monte del primo. Nel 1974 la Montedison passò la concessione alla propria società Fluorite e fra il 1974 e il 1978 la miniera venne ceduta ad una società del gruppo ENI, la quale, infine, nel 1980 la trasferì alla società Prealpi Mineraria di proprietà di certi fratelli Rota. Questi passaggi di proprietà avrebbero avuto importanza nel processo aperto dopo il disastro per accertare le responsabilità della costruzione e dei controlli sulla stabilità dei due bacini e degli argini il cui crollo aveva provocato la fuoriuscita del fango e la morte di tante persone.

La tragedia di Stava ebbe allora grande risonanza nazionale, tanto più che era avvenuta quando era ancora vivo il ricordo e il dolore della tragedia del Vajont, del 1963, con la morte di duemila persone ed erano ancora in corso i lenti processi contro i responsabili, con il palleggio di responsabilità fra la Edison che aveva costruito la diga e il lago artificiale, l’ENEL che ne era diventata da poco proprietaria, gli imprevidenti progettisti che non avevano tenuto conto del pericolo che dal monte Toc, sovrastante la diga, potesse scendere nel lago la frana che fece sollevare l’onda di acqua e fango che, scavalcata la diga, aveva sepolto il paese di Longarone.

Anche nel caso di Stava ci fu un lungo e lento processo, con testimonianze e perizie, le famiglie delle vittime furono difese, fra gli altri, dall’avvocato Sandro Canestrini, che era stato il difensore delle famiglie dei morti del Vajont, oggi novantenne, e dal geologo Floriano Villa che mise in evidenza che il crollo dei bacini della miniera di Prestavel era stato la conseguenza di macroscopici errori di localizzazione e di costruzione. Nel corso del processo apparve che ne erano responsabili i vari proprietari della miniera, i dirigenti susseguitisi negli anni, i progettisti dei bacini, i tecnici degli uffici pubblici che, tutti, avrebbero dovuto vigilare e non lo avevano fatto. Il processo si concluse nel 1992 con una prima sentenza e nel 2003 con il ricorso in cassazione; furono condannati dieci imputati, ma nessuno fece mai un solo giorno di detenzione. Vi furono dei risarcimenti, ma quanto vale, in soldi, la vita umana ?

La catastrofe avvenne quando la miniera di Prestavel era ormai quasi esaurita e destinata alla chiusura, ma le scorie delle lavorazioni erano ancora li e forse vi sarebbero rimaste per sempre, se non ci fosse stato il tragico crollo degli argini dei bacini. Anche qui si trattava della coda avvelenata di una delle tante attività industriali le cui fabbriche sono scomparse lasciandosi dietro rifiuti e contaminazioni ambientali.

Se veramente si volesse pensare e operare in termini di sostenibilità, come è di moda dire adesso, lo Stato dovrebbe lanciare un vasto programma di informazione sulle attività industriali passate e presenti che generano e lasciano scorie pericolose di cui spesso, col tempo, si dimentica perfino la composizione. Sono quei “siti contaminati”, solo in parte identificati e la cui bonifica, pur imposta per legge, procede tanto lentamente.

Voglio concludere con le parole incise sulla lapide dei morti di Stava che fu benedetta da Giovanni Paolo II il 17 luglio 1988: “La loro perenne memoria sia di monito perché la superficialità, la noncuranza, l’approssimazione, l’incuria, l’interesse non debbano più prevalere sulla cura per l’uomo, la sacralità della vita umana, la coscienza delle personali responsabilità”. Parole commoventi che invitano a non dimenticare i morti di quella lontana mattina d’estate, ombre ormai nella fila delle migliaia di morti nelle fabbriche, nelle città, nei campi, uccisi nel nome del profitto.

Questi primi giorni di riflessioni politiche seguiti al drammatico accordo sulla Grecia indicano, a mio avviso, tre cose: la grandezza di Tsipras, l’inconsistenza di visione economica e istituzionale di una certa sinistra alternativa (oltre a quella, scontata della destra, di simile vaniloquenza) e infine la possibilità di un percorso di uscita dalla crisi, non solo greca, che passi per una ridefinizione degli obiettivi e delle istituzioni europee.

Tsipras si è trovato in un contesto di estrema difficoltà negoziale: un paese indebitato, con una economia debole e indebolita per anni da cure sbagliate, con gran parte della popolazione sotto la soglia di povertà o in miseria; un paese ancora segnato da istituzioni pre-moderne, corporativismi lobbistici e comportamenti sociali di ampiezza inaccettabile (corruzione, evasione fiscale). Ed è stato posto di fronte a un chiaro ricatto orchestrato dall’oltranzismo tedesco: accettare condizioni non solo pesanti ed economicamente irrazionali, ma soprattutto politicamente insultanti, proposte con l’intento esplicito di spingerlo ad abbandonare l’euro, e cioè al suicidio politico ed economico.

La sua risposta è stata politica: mostrare all’Europa un risultato di democrazia politica prendendosi il rischio del referendum (uno strumento non certo tecnico, che non lo avrebbe aiutato nella negoziazione quale che fosse il risultato); accettare condizioni che non avevano alternative ma aprire una frattura all’interno dei paesi e delle istituzioni europee sulle strategie di salvataggio e sul giudizio sui comportamenti politici dei maggiori governi nella vicenda.

In Germania, molte critiche – invero tardive ma comunque efficaci – si stanno levando nei media contro l’abbandono della linea dell’”umiltà” tedesca in Europa, in favore di una arroganza che evoca pesanti eredità; Jürgen Habermas sostiene che il “governo tedesco si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che una Germania migliore aveva accumulato in mezzo secolo”.

Sul fronte economico, la insostenibilità delle condizioni imposte sul debito viene esplicitata dal Fondo Monetario in modo drastico, con la minaccia della sua non partecipazione al rifinanziamento, e viene sottolineata da Draghi che anticipa aperture di credito alle banche greche; la impossibilità di attuare alcune misure fantasiose previste dall’accordo verrà facilmente a galla nell’immediato futuro; la posizione assunta nel negoziato da Hollande, Junker e in parte da Renzi, ma rimasta ampiamente minoritaria al momento, non potrà che crescere in termini di appoggio mediatico e politico; le risorse messe a disposizione, al di là di quelle per il rinnovo dei prestiti internazionali, sono per la prima volta consistenti e tanto la Commissione quanto l’IMF potranno aiutare il paese a spenderle in modo più rapido e più razionale che in passato per investimenti infrastrutturali, produttivi e di formazione.

Sul fronte interno, Tsipras potrà concentrarsi sul tema di una più equa distribuzione dei sacrifici fra le classi e i ceti sociali, che è il vero tema per ogni governo di sinistra, sul contrasto alle posizioni di monopolio e alle rendite, grandi e piccole, e sulla lotta all’evasione, ben più efficace di un innalzamento dell’IVA su un settore, quello turistico, dove l’evasione è facile e assai praticata.

Ma veniamo alla nostra sinistra. Fuorviata da idoli che si pensava superati, come quello della sovranità monetaria nazionale; fuorviata anche dalla posizione aspramente critica assunta da Varoufakis sull’accordo, incomprensibile umanamente e inconsistente economicamente; sempre pronta ad imputare all’euro problemi veri ma che discendono da rapporti di forza economica e da leadership politiche; mai veramente impegnata su una linea europeista di riforma federale dell’Unione, la nostra sinistra sta mostrando una preoccupante confusione di idee e di visione.

A questa conclusione mi spinge la lettura del manifesto di ieri 17 luglio: tre articoli di riflessione sulla vicenda greca di Guido Viale, Stefano Fassina e di una ahimè sfiduciata Luciana Castellina. Il sottotitolo, e una delle tesi principali di Viale, è: “Draghi il vero regista del dramma”, “non Schäuble”. Un giudizio tecnicamente sballato (Draghi non ha scritto le regole che escludono alcuni paesi dal quantitative easing, guarda caso la Grecia, o i limiti di ELA ai finanziamenti di emergenza per le banche) ed economicamente insensato. Draghi è fino a oggi il solo Governatore della Banca Centrale Europea che ha imposto alla Bundesbank politiche che essa non condivideva, che ha forzato l’interpretazione dei trattati e delle regole sempre in favore degli stati più deboli (cosa che alcuni paesi nordici non smettono di rimproverargli) e di politiche di supporto all’economia reale; colui che con una frase (“faremo tutto ciò che è necessario”) nel settembre 2012 ha spiazzato la speculazione finanziaria contro i paesi indebitati dell’area euro. Assumere un punto di vista così lontano da non poter distinguere i nemici da anche solo potenziali alleati significa nichilismo e irrilevanza.

Per Fassina “le necessarie correzioni di rotta per rendere sostenibile l’euro appaiono impraticabili” e “continuare a invocare gli Stati Uniti d’Europa … è un esercizio astratto”. In conseguenza, “nella gabbia liberista dell’euro … la sinistra … è morta”! Quale sinistra? Certamente quella che oggi si balocca di sedicenti “piani B”: non l’Europa e l’euro di oggi; non l’uscita dall’euro di singoli paesi, che Viale giustamente indica come “insensata e grottesca”; ma, nelle parole di Fassina, “il superamento concordato, senza atti unilateriali, della moneta unica e del connesso assetto istituzionale, innanzitutto per il recupero dell’accountability democratica della politica monetaria”. A parte la bella convergenza con le ricette degli irresponsabili demagoghi nostrani, Salvini e Grillo, un insieme di insensatezze.

Quale dovrebbe essere lo strumento della liberazione monetaria (e democratica)? L’emissione di una moneta parallela, i pagherò di Varoufakis o i certificati di credito fiscale proposti da Grazzini e Gallino, con valore mantenuto alla pari con l’euro da non si capisce quale elemento di fiducia collettiva. Nel caso greco, una moneta emessa per pagare dipendenti pubblici e imprese da un paese in dissesto, a corto di riserve pubbliche e di risparmio privato, sarebbe certamente e immediatamente rifiutata dal mercato, perderebbe subito valore e si risolverebbe in una brutale tassa sui salari interni. Per non parlare del limitato effetto di questa svalutazione sulle esportazioni di un paese che non produce beni ma soprattutto servizi, che esporta pochissimo (meno della provincia di Reggio Emilia, come ha ricordato recentemente Romano Prodi) e che dovrebbe al contrario aumentare qualità e prezzo dei suoi servizi turistici e non diminuirli.

Nel caso italiano, credo che i certificati di credito fiscale avrebbero simile destino: perché le imprese dovrebbero scambiarli 1-a-1 con euro attuali in cambio di uno sconto fiscale futuro, promesso da uno stato come il nostro, che per far fronte al suo nuovo debito magari alzerà le tasse? Meglio lasciare la gestione della moneta e della liquidità a un principe forte e ben più credibile – come una Banca Europea, che peraltro già lo fa - in una Europa magari migliore.

Quali dunque le strategie da qui al medio termine, per Tsipras e per le sinistre europee? Innanzitutto un esplicito hair cut sul debito greco, già implicito nelle moratorie concesse su rimborsi e interessi, ma assai più chiaro sia per i debitori che per i paesi creditori. Un taglio che possiede una sua logica politico economica a fronte della maggiorazione degli interessi sin qui pagati ai creditori come premio al rischio-paese: essendosi il rischio di insolvenza manifestato nei fatti, anche se congelato consensualmente, si riconoscerebbero ai creditori i soli interessi “normali”, tagliando la parte speculativa maturata in passato e aggiungendo ulteriori riduzioni concordate sugli interessi. Quanto alla costituzione di un fondo in cui far convergere asset reali a garanzia del debito, non trovo così insultante e irrazionale la sua richiesta, se essa può servire ad alleggerire le condizioni di austerità imposte al paese. Ma ciò solo a due precise condizioni: che la sua dimensione non sia assurda come quella dei 50 miliardi attuali e soprattutto che non si pongano vincoli temporali a dismissioni e privatizzazioni, pena il rischio se non la certezza di svendite di patrimonio pubblico.

In secondo luogo, serve un riorientamento drastico delle politiche di austerità, che non preveda ulteriori riduzioni di salari e di occupazione ma che, insieme a un sensato equilibrio del bilancio pubblico primario per evitare di allargare il debito complessivo, avvii decise riforme istituzionali e fiscali, lotta ai privilegi, alle rendite e all’evasione fiscale, nonché politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza, un tempo cavalli di battaglia della sinistra, poi abbandonati strada facendo. In terzo luogo, occorre operare per un ritorno a uno spirito di coesione e solidarietà europea che si è chiaramente frantumato nelle ultime vicende. Occorre un rilancio del processo di integrazione politica dell’Europa, con la convergenza delle politiche fiscali e di spesa, la socializzazione del costo del debito dei diversi paesi innanzitutto attraverso l’emissione degli euro-bond garantiti dalla BCE per nuovi investimenti infrastrutturali e produttivi, una maggiore vigilanza e una tassazione comune sulle transazioni finanziarie e speculative, l’avvio finalmente di un percorso di creazione di un’Europa federale.

Per gli altri paesi altamente indebitati – molti! – il taglio del debito non dovrebbe essere applicato, almeno nel breve termine, e il suo alleggerimento dovrebbe provenire dalla riduzione degli spread conseguenti alla ritrovata coesione europea e alla auspicabile socializzazione del costo dei debiti sovrani (che non aumenta il costo del servizio del debito per i paesi forti ma riduce le aspettative di profitti su attacchi speculativi contro i paesi più deboli o più indebitati).

La sinistra, anziché defungere o defezionare, potrebbe avere un ruolo traente in questo lungo e difficile percorso politico. Merito di Tsipras quello di averci indicato, dal fronte incandescente del negoziato greco, oltre ai limiti e all’inganno dell’attuale metodo europeo di compromesso inter-governativo, anche questo cruciale obiettivo per le sinistre.

Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo... (continua a leggere)

Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo, era corrisposta una così perdurante impotenza da parte delle grandi masse popolari e delle forze antagoniste che vogliono combatterle. Le analisi e le sistemazioni storico- teoriche del capitalismo contemporaneo hanno raggiunto negli ultimi anni una vastità e intensità forse sconosciuta perfino nei momenti politici più effervescenti del '900. Marx è ritornato ad essere un nostro contemporaneo. E una ricchissima costellazione di analisti - da Bauman ad Harvey, da Piketty al nostro Gallino, per citarne pochissimi - ci consegna una radiografia dei meccanismi profondi della società capitalistica di rara ricchezza e densità.

Quanto alla consapevolezza , l'ultima enciclica di papa Francesco ci fa facilmente immaginare quanta vasta sia nel mondo cattolico, fra centinaia di milioni di persone, la cognizione sulle cause fondative delle disuguaglianze, sulle storture di un capitalismo che ormai minaccia la vita sulla Terra. Che cosa rende allora possibile tale palese contraddizione, tra i molti che sanno e i pochi vessatori che comandano, tra i più che soccombono sotto il peso di una società ingiusta e le élites che la controllano, tra il 99 e l' 1 per cento?
Le ragioni sono tante, ma quella fondamentale è negli strumenti di lotta.Le grandi masse un tempo possedevano forme organizzate di conflitto all'altezza dell'avversario. Potevano fronteggiarlo e combatterlo.Oggi, le hanno perduto. Partiti e sindacati sono stati, in parte o in tutto, divorati dal capitalismo.I vecchi partiti comunisti e socialdemocratici, di fronte all'imballo sistemico delle economie pianificate dell'Est, a partire dagli anni '90 ,si sono fatte parassitizzare dalla cultura neoliberistica. Ne hanno sposato gli obiettivi e il linguaggio. Si sono “rinnovati” indossando i panni dell'avversario.
Ma oggi siamo già in una nuova fase. Non è più l'ideologia neoliberista, azzoppata da una disfatta storica di vasta portata, a guidare i processi, ma sono le forze materiali in campo. Il capitalismo sopravvive intatto alla sua sconfitta culturale grazie alla potenza della sua organizzazione, alla sua forza materiale, ma anche grazie alla dispersione dei suoi antagonisti. Questo modo di produzione e di consumo tende perciò, per sua intima necessità, a invadere ogni campo della vita, a sottomettere a un processo di estrazione di profitto ogni angolo del vivente.
Così, anche i partiti, macchine elettorali prive di progetto di trasformazione sociale, sono sempre più fagocitati negli affari delle attività imprenditoriali ( appalti, grandi opere, società di servizi, consigli d'amministrazione, ecc) ed entrano sempre più pienamente nell'industria dello spettacolo, nelle sue logiche, nei suoi linguaggi . Diventano, a vario titolo, segmenti del mercato.

Appare oggi dunque evidente quale sia, in Italia e nel mondo, l'imperativo della nostra epoca: rimettere in piedi le forme organizzate del conflitto. Il capitale possiede i generali e vari altri gradi di comando, perfino dei caporali (spesso molto loquaci), ma noi possediamo l'esercito, siamo l'esercito potenziale. Questa gigantesca sperequazione è alla base delle disuguaglianze crescenti tra le classi e tra i popoli, della sofferenza di milioni di persone, dell'usura progressiva degli spazi della democrazia, dell'ingovernabilità del sistema, del disordine politico mondiale.

Che cosa si aspetta dunque a fare di questa assenza gigantesca, di questa dispersione frammentata della nostra potenza, l'oggetto fondamentale delle nostre cure, il centro su cui far convergere il nostro pensiero, il nostro impegno immaginativo? Costruire una nuova forza capace di organizzare il conflitto sociale, che non somigli ai vecchi partiti, che ne erediti le esperienze migliori ma che sappia attivare meccanismi di trasparenza, democrazia e partecipazione sconosciuti al passato e all'oggi: ecco la sfida che abbiamo di fronte.

Del capitalismo sappiamo ormai tutto e certamente continueremo a studiarlo. Ma oggi e' l'ora dell'iniziativa, l'ora della costruzione paziente ma celere delle armi politiche. Com'è noto, in Grecia e in Spagna, su tale terreno la sinistra ha già conseguito risultati importanti. Ma noi? Il paese che ha visto il più grande Partito comunista dell'Occidente, che ha un sinistra fra le più significative d'Europa? Anche qui occorrerebbe rispondere alla domanda: perché tanto ritardo? Non sono mancate, nel dibattito corrente degli ultimi tempi, risposte sensate. Ma un paio di considerazioni rapide si possono aggiungere.
Manca spesso nel nostro ambito, anche tra dirigenti di provata esperienza, il senso della temporalità dei fenomeni. Sergio Cofferati, ad esempio, a proposito della nascita di una formazione politica a sinistra del Pd – ma in questo rappresentando l'opinione di altri esponenti politici – ha dichiarato che il processo, necessario, avrà tuttavia tempi lunghi. Ora, come sappiamo, la gatta frettolosa fa i figli ciechi. E la formazione dei partiti è stata sempre un processo storico più o meno lungo. Ma è anche vero , come ironizzava Keynes, che nei tempi lunghi saremo tutti morti. La soggettività politica ha per l'appunto il compito di forzare le inerzie che il corso della storia trascina con sé, di far nascere ciò che potenzialmente esiste ma non prende forma perché manca l'iniziativa creatrice della politica.
Ora, nelle nostre file, e spesso tra le migliori intelligenze, si annida una incomprensione che è alle fondamenta più recondite delle nostre divisioni, della nostra frammentazione, della nostra inerzia. Non sono pochi nella file della sinistra coloro che concepiscono la lotta politica come una mera pratica culturale. E' sufficiente produrre buone idee per mettere olio nelle ruote della storia. Purtroppo questo non basta, meno che mai nella nostra epoca, quando una buona idea deve farsi spazio nell'etere fra mille menzogne o tra la pubblicità dei pannolini. Naturalmente, le idee sono poi fondate su convincimenti profondi, investono principi etici e ciò crea passione - propellente necessario alla lotta - ma anche intransigenza. Altra virtù necessaria. Ma a tutto questo manca spesso un ultimo elemento, forse il più raro, il più scarso in natura: il senso della realtà. E' un tipo di intelligenza delle cose, un sapere che non si insegna in nessuna Università. E dentro ad esso c'è la percezione dei rapporti di forza in campo, la consapevolezza dei propri mezzi, la visione della situazione presente, la valutazione del possibile. Una capacità di sguardo che genera l'esigenza del raccordo organizzativo tra le persone, la ricerca delle soluzioni , il gusto della mediazione, la vista di passaggi intermedi.

Rompendo una inerzia non più tollerabile, Nichi Vendola e Sel hanno avviato in questi giorni una iniziativa lodevole e necessaria. E' auspicale che essa venga condotta nelle forme più aperte, trasparenti, inclusive che l'attuale cultura politica della sinistra radicale pretende. Ma nel popolo frammentato dei movimenti, tra i dispersi, nel generoso e disilluso popolo della sinistra, deve scattare oggi il senso della realtà che l'epoca richiede. Non solo ognuno deve fare la propria parte.Ma ognuno deve saper rinunciare a parte delle proprie ambizioni, anche intellettuali, in cambio di una unità organizzata che fa la forza di tutti. Il più temibile nemico da battere è oggi la nostra divisione, e senza una forza plurale ma unitaria nessuna idea ha gambe per camminare. Si dice che abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico.Ma per realizzarlo avremmo bisogno di una nuova soggettività politica, la consapevolezza che il nostro ombroso e intransigente individualismo è spesso il calco vittorioso della cultura avversaria.

Nei giorni scorsi è morto a 83 anni l’attore egiziano Omar Sharif, interprete di molti film di successo fra cui il Dottor Zivago (1965). Ma c’è un suo ultimo film che sarà in distribuzione nel prossimo autunno, 1001 invenzioni e il mondo di Ibn al-Haytham, dedicato al contributo dell’Islam alla cultura tecnico-scientifico mondiale. L’Islam, nato come movimento religioso monoteista, fondato da Maometto in Arabia, nel corso di tre secoli si era esteso dai confini con la Cina, a oriente, all’Europa e all’Oceano Atlantico a occidente. I musulmani governavano l’Egitto e i paesi dell’Africa settentrionale e occidentale, la Spagna e la Sicilia, il Medio Oriente, la Mesopotamia, la Persia, parte dell’Asia centrale, una grande “nazione” i cui popoli in breve raggiunsero un elevato livello di vita e di benessere economico.

L’Islam fu temuto e anche ammirato dall’Occidente cristiano medievale; San Francesco, mentre erano in corso le sanguinose crociate fra cristiani e musulmani, non esitò ad incontrare, con reciproco rispetto, nel 1219 il “nemico” Califfo al-Malik al-Kamil, lo stesso incontrato, dieci anni dopo, da Federico II, l’imperatore cristiano che ebbe ministri e soldati musulmani; per inciso Lucera, in provincia di Foggia, è stata a lungo una città ”saracena”. Nella loro “età dell’oro, dall’800 al 1200 dell’era cristiana, migliaia di studiosi musulmani hanno tradotto in arabo le opere degli scienziati greci, molte delle quali sconosciute nel mondo latino, e ne hanno rielaborato le conoscenze nel campo della matematica, della fisica, della medicina, dell’ingegneria. Ben presto molti di questi scritti sono stati tradotti dall’arabo in latino e, attraverso il mondo musulmano, la cultura greca è tornata, arricchita, in Occidente, ulteriormente diffusa poi dopo l’invenzione della stampa.

Gli abitanti di un così vasto territorio, in cui circolavano e si incontravano popoli diversissimi, avevano dovuto risolvere innumerevoli problemi tecnico scientifici ed ecologici; diffusero la coltivazione di nuove piante alimentari come la canna da zucchero (che arrivò fino in Sicilia) e nuove tecniche di trasformazione dei prodotti agricoli; per dare acqua ai campi e alle popolose città furono inventati metodi di sbarramento dei fiumi con dighe e di trasporto e sollevamento dell'acqua dai pozzi. Occorrevano macchine e fonti di energia e gli Arabi inventarono dispositivi per trasformare il moto rotatorio in moto lineare, quelle norie che sono sopravvissute fino a poco tempo fa nelle campagne pugliesi; e poi macchine azionate dall’energia del moto delle acque e dal vento, proprio le fonti rinnovabili di energia a cui siamo costretti a rivolgerci noi oggi, dopo aver dissipato enormi quantità di petrolio. Nelle città gli Arabi sapeva risolvere problemi di smaltimento delle acque usate e dei rifiuti; in difesa dell’igiene pubblica esistevano ospedali presso cui veniva praticata della medicina e chirurgia di avanguardia. Attraverso le traduzioni dall’arabo sono arrivate in Europa le conoscenze della chimica, il cui stesso nome deriva da una parola araba, come di derivazione araba sono i nomi degli alambicchi, dell’alcol, degli alcali, eccetera. Nelle città musulmane esisteva un servizio pubblico di repressione delle frodi alimentari; nel mondo islamico esistevano vivaci scambi commerciali anche fra paesi lontanissimi, e con le merci i viaggiatori musulmani hanno portato in Occidente le invenzioni cinesi della carta e della bussola, le spezie e la giada.

Dopo un lungo declino, da molti decenni, soprattutto con i profitti assicurati dal petrolio, in molti paesi islamici, pur con mille contraddizioni, stanno nascendo modernissime università, biblioteche, centri di ricerca scientifica e soprattutto sta nascendo un senso di orgoglio per il contributo che l’Islam ha dato alla civiltà universale.

Una ventina di anni fa è stato lanciato il programma “1001 invenzioni” (il numero si riferisce alle “Mille e una notte”, la famosa raccolta di racconti arabi) per ricordare le tante innovazioni di scienziati, medici e “ingegneri” arabi medievali, passate in Europa e che sono alla base di molte delle nostre conoscenze; tali invenzioni sono descritte in un bel volume illustrato che ha già avuto tre edizioni (non tradotto in italiano). In questo ambito è stato realizzato anche il film con Omar Sharif, citato all’inizio e dedicato ad Ibn al-Haytham (965-1040), il grande fisico e medico (noto in Occidente come Alhazen), a cui siamo debitori di scoperte fondamentali, come le leggi del movimento della luce, della rifrazione, cioè di come la luce “cambia di direzione” passando dall’aria all’acqua, le leggi della concentrazione della luce solare mediante specchi, proprio quelli usati oggi in molte grandi centrali solari, la scoperta della “camera oscura”, il fenomeno ottico alla base delle macchine fotografiche e cinematografiche, la struttura e la fisiologia dell’occhio, la soluzione di delicati problemi matematici. Un doveroso tributo in questo “Anno internazionale della Luce”.

A titolo di curiosità, nel millesimo anniversario della nascita di Alhazen, esattamente cinquant’anni fa, si tenne anche nell’Università di Bari una conferenza che fu poi trasformata in un lungo articolo pubblicato nella rivista Physis, fondata a Firenze da Vasco Ronchi (1920-2012), il grande studioso di ottica e di storia dell’ottica.

Il riconoscere il contributo dell’Islam alla nostra civiltà ha anche lo scopo di ricordare e insegnare che soltanto le conoscenze e il rispetto reciproco neutralizzano i conflitti politici ed economici e la violenza e fanno progredire i paesi, tutti, in questo mondo globalizzato.

Inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Siamo nell’epoca dell’opera d’arte infinitamente riproducibile e fruibile con infiniti supporti tecnici: ha qualche senso che una squallida lobby di speculatori (e decisori analfabeti) voglia compiere l’ennesimo passo verso la privatizzazione di tutto quanto? Corriere della Sera, 4 luglio 2015, postilla (f.b.)

Una monumentale sciocchezza. Come definire, altrimenti, la proposta di vietare la condivisione delle fotografie di celebri edifici e opere d’arte, in nome della protezione del diritto d’autore? È difficile crederci, ma di questo discuterà il Parlamento europeo il 9 luglio, in seduta plenaria. Come si è arrivati a questa delicata follia? Un’eurodeputata tedesca, Julia Reda, chiedeva che la «libertà di panorama» fosse sancita ufficialmente dalla Ue. Ma un eurodeputato francese, Jean-Maria Cavada, ha proposto un emendamento che prevede l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore, in caso di utilizzo commerciale della riproduzione. E i tre gruppi principali (socialisti, popolari, liberali), in commissione, l’hanno sostenuto.

Oggi la «libertà di panorama» esiste in molte parti d’Europa. Non in Italia, però: il codice Urbani (2004) impone autorizzazioni sui beni culturali storici. Non in Francia: fotografare la Torre Eiffel di notte pare sia vietato (informare legioni di innamorati e battaglioni di turisti giapponesi). Ma scattare una foto-ricordo sul decumano di Expo, e caricarla sul profilo Facebook? Potrebbe violare il diritto d’autore di qualche dozzina d’architetti. Per pubblicare un’immagine di Buckingham Palace su Instagram dovremo scrivere alla Regina Elisabetta? L’Europarlamento voterà solo un documento d’indirizzo. Ma come siamo finiti qui? Semplice: affrontiamo problemi nuovi con strumenti vecchi.

«Riproduzione di opere d’arte» è un termine che profuma di pellicole, riviste ed enciclopedie; mentre oggi ognuno di noi viaggia con una formidabile fotocamera digitale dentro il telefono. «Utilizzo commerciale dell’immagine» presuppone qualcuno che vende e qualcuno che compra. Facebook, Google & C. non vendono e non comprano: fanno soldi su tutti e su tutto (è diverso). Il Parlamento si appresta a votare, quindi, una misura antistorica, inapplicabile e — diciamolo — ridicola. Come reagire? Semplice. Smettiamo d’andare nelle grandi capitali. Rinunciamo a visitare le città d’arte. Basta fotografie davanti ai monumenti e con lo sfondo dei grattacieli. Tempo una settimana, e verranno a chiedercelo in ginocchio. Tornate! Fotografate! Renzo Piano, Richard Rogers, Norman Foster, siete persone di buon senso: avanti, battete un colpo. Eiffel, Bernini e Vespasiano non lo possono più fare.

postilla

Quante volte qualcuno fra chi legge, proprio per intricate questioni di copyright poste da un editore o da una redazione, ha per così dire tagliato la testa al toro pescando uno scatto proprio dall’hard disk, o addirittura da una bustina di plastica di vecchie stampe a colori, via scanner? Ma non è certo finita qui, perché tutto il nuovo valore d’uso sociale dello spazio pubblico, oggi, si accoppia proprio alla sua libera disponibilità virtuale anche in quanto immagine, oltre che luogo virtualmente condiviso con chi si collega a noi solo attraverso reti immateriali. Coglie benissimo il senso generale di questa stupida e autoritaria spinta lobbistica, l’Autore dell’articolo, quando parla sostanzialmente di spazio collettivo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, totalmente ribaltata dal nuovi strumenti di comunicazione. E sbaglia di grosso chi crede davvero che il tentativo di «uniformare le normative sui diritti di immagine», come ci spiegano saccenti alcuni personaggi (e come è anche circolato sui social network in risposta alla petizione), abbia qualche senso. Certo, le vecchie normative sull’uso commerciale di alcune riproduzioni qualche senso ce l’avevano, ma non è sicuramente piallando in malafede tutto secondo quegli arcaici criteri che si vada da qualche parte. Basta pensare cosa è accaduto in tempi recentissimi alle riproduzioni di suoni, su cui si continuano a combattere battaglie analoghe, per capire che è proprio l’idea di spazio pubblico liberamente disponibile, ad essere in gioco e non certo qualche raro «diritto d’artista» profumato di lastre, acidi, inchiostri, tanto vintage quanto il cervello di chi non ha proprio colto la posta in gioco (f.b.)

La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone...(continua)

La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone un uomo solitario si è avventurato sull’Oceano Pacifico per un volo di 8300 chilometri fino alle isole Hawaii, su un aereo che utilizza soltanto l’energia solare. Per il pilota, André Borschberg, è l’ottava tappa del giro del mondo sull’aereo Solar Impulse 2, un volo senza carburante iniziato a Dubai e che finirà a Dubai. Questa è la tappa più lunga e difficile: 120 ore, cinque giorni e cinque notti, di volo consecutivo, dormendo 40 minuti al giorno in due turni di venti minuti ciascuno. Da solo. Sarebbe facile ricordare l’ingenuo entusiasmo del Parini (ricordate: “Quando Giason dal Pelio, spinse nel mar gli abeti”, quel Giasone che aveva costruito la prima nave di legno per affrontare le onde tempestose del mare e scoprire nuovi paesi) per onorare il nuovo esploratore dell’ignoto, Étienne Montgolfier, che nel 1783 per primo si sollevò nel cielo appeso ad un pallone gonfiato di aria calda. O ricordare l’entusiasmo che accolse nel 1927 Charles Lindbergh al suo arrivo a Parigi dopo un volo solitario di 33 ore attraverso i 5800 chilometri dell’Atlantico su un fragile aereo ad elica. Anche se qualcuno potrà ricordare che, ”grazie” agli aeroplani, i tedeschi riuscirono a bombardare e spianare interi quartieri di Londra, o gli americani a distruggere Hiroshima con una bomba atomica, o ricordare i dannosi mutamenti climatici provocati, fra l’altro, dai “gas serra” immessi nell’atmosfera dalle migliaia di aeroplani civili e militari che affollano ogni giorno i cieli.

E’ la gioia e la punizione del destino dell’uomo da quando ha mangiato il frutto vietato dell’albero della conoscenza e della tecnica. La nuova sfida riguarda oggi la possibilità di percorrere i cieli usando l’energia solare al posto degli inquinanti carburanti derivati dal petrolio. L’energia solare ha l’inconveniente di avere una bassa densità, sufficiente per coltivare frumento nei campi e per coprire di foglie gli alberi, ma troppo poca rispetto al fabbisogno energetico delle macchine umane abituate al carbone o al petrolio. In termini di elettricità un metro quadrato di pannelli fotovoltaici fornisce, in un giorno d’estate, al massimo circa 1 chilowattora di elettricità e niente di notte e quasi niente quando il cielo è coperto.

All’impresa di costruire un aereo capace di fare il giro del mondo soltanto con l’energia solare si è dedicato l’ultimo, in ordine di tempo, dei Piccard, una famiglia di pionieri del volo e delle esplorazioni oceaniche. Nel 1932 August Piccard (1884-1962) ha stabilito il primato di altezza (17.000 metri) a bordo di un pallone aerostatico; il figlio Jacques Piccard (1922-2008) nel 1953 ha costruito, in collaborazione con i cantieri italiani, il batiscafo “Trieste”, un sottomarino abitato che nel 1960 ha stabilito il primato di profondità raggiungendo 11.000 metri nella fossa delle Marianne, nel Pacifico, il punto più profondo degli oceani. Bertrand Piccard, figlio di Jacques, dopo aver effettuato nel 1999 il giro del mondo in pallone senza scalo, si è dedicato alla costruzione di aerei alimentati con l’energia solare, capaci di volare sia di giorno sia di notte.

L’aereo Solar Impulse 2 è il risultato di molte innovazioni tecnico-scientifiche: si tratta infatti di un aereo molto leggero, circa 2300 chilogrammi, più o meno il peso di una auto di grossa cilindrata, con sottili ali lunghe 72 metri e aventi una superficie di circa 270 metri quadrati, ricoperta di 17.000 speciali celle fotovoltaiche capaci di produrre circa 350 chilowattore di elettricità solare al giorno. Fi giorno tali celle azionano quattro motori a elica elettrici, appesi sotto le ali, della potenza di circa 15 chilowatt ciascuno, più o meno quella di una grossa motocicletta. Per poter volare di notte, quando è assente la radiazione solare, una parte dell’elettricità prodotta di giorno dalle celle fotovoltaiche viene accumulata in quattro batterie a ioni di litio con elettrolita di speciali polimeri, del peso di 630 chilogrammi con una capacità di circa 150 chilowattore, in grado di erogare una potenza di 15 chilowatt, che fanno funzionare di notte i motori dell’aereo.

Nei voli lunghi il Solar Impulse 2 vola a 9000 metri di altezza di giorno, per catturare la massima quantità di energia solare, e a circa 2000 metri di altezza di notte, ad una velocità variabile fra 50 e 100 chilometri all’ora. Per il velivolo sono stati utilizzati nuovi materiali da costruzione in fibre di carbonio capaci di alta resistenza meccanica con il minimo peso e sono stati risolti problemi di aerodinamica.

Il pilota solitario ha aperto nuove strade le cui ricadute avranno effetti tecnici, economici e ambientali, sulla strada della liberazione dai combustibili fossili e dalla crescente emissione di gas responsabili dei mutamenti climatici.

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