Dopo il reato di clandestinità le ronde. Dopo le ronde l'esame di dialetto per i professori. Ogni giorno una nuova, piccola croce nell'elenco delle vergogne. E noi a guardare lo spettacolo dell'Italia civile che va giù, incerti tra l'indignazione etica e il disgusto estetico. Tra l'incredulità per la forzatura dei confini ritenuti fino a ieri invalicabili dei diritti umani violati, e lo schifo per l'esibizione di ignorante rozzezza ostentata in forma di legge e di proposta parlamentare. Di reazione politica, neanche l'ombra. Come se quanto accade non fosse in realtà vero. Non si misurasse effettivamente con la nostra vicenda storica. Non costituisse uno strappo reale, un attentato a quella costituzione materiale - e anche, a questo punto formale - che aveva trainato l'Italia tra i paesi all'onor del mondo.
A guardare i telegiornali, i volti bipartisan dei politici esternatori, degli eterni portavoce, con sullo sfondo l'immutabile facciata di Montecitorio, si direbbe che sia tutta finzione. Sceneggiata. Teatrino. Che sì, Bossi e Calderoli le sparano grosse, ma poi tutto si rivelerà per quello che è sempre stato. Farsa. Gioco delle parti per strappare un briciolo di visibilità. Per riequilibrare un rapporto interno. Per controbilanciare le simmetriche sparate «sudiste» di Lombardo e compagni. E nel «pacchetto sicurezza», è vero, molta della nostra civiltà giuridica cade a pezzi, ma solo sulla carta, nella pratica molto si aggiusterà da solo: le badanti «si salveranno» - proprio così, «si salveranno» intitolava un noto quotidiano indipendente nazionale, come se non fossero loro a salvare «noi» quando un famigliare diventa non più autosufficiente, e bisogna risolvere il problema dei nostri vecchi. I clandestini con davvero voglia di lavorare e di lasciarsi massacrare di fatica sul lavoro non finiranno dietro le sbarre, dove d'altra parte non c'è più posto nemmeno per i criminali veri. Le ronde saranno piccole e inoffensive, romperanno più le scatole alla Pubblica sicurezza vera che non ai magrebini o ai rumeni che si attarderanno per strada. Bravi ragazzi che magari giocheranno a fare le «SS» come quelli di Massa, ma «per gioco», appunto. Non esageriamo con gli allarmismi fuori tempo. Non gridiamo al lupo al lupo. Atteniamoci ai fatti!
Già, atteniamoci ai fatti. I fatti ci dicono che in pochi mesi si è realizzata per legge la privatizzazione - per ora interstiziale - dell'ordine pubblico (perché questo sono in effetti le «ronde»: una rottura gravissima del principio proprio della modernità costituzionale che assegna allo Stato il monopolio della forza e della tutela dell'«ordine pubblico»: pubblico non a caso, perché non «privatizzabile»). Si è proposta senza pudore in sede politica - trovando amichevole e compiacente ascolto nella ministra competente - la regionalizzazione della Pubblica istruzione, ridotta anche linguisticamente (il fondamento primo di ogni processo cognitivo) al raggio corto delle comunità locali. Al potere segregante dei muri lessicali. Si è attuata, nel silenzio pressoché generale, la «penalizzazione» dell'alterità: la commutazione dello «straniero» in «nemico». La rottura di quel diaframma che - fin dalla Roma antica - separava l'hospes dall'hostes, rovesciando l'ospitalità dell' «altro da noi» (in visita amichevole) in ostilità verso di esso (identificato come minaccia).
Sono, si dirà, per ora solo fatti «simbolici». Messaggi. Ma - lo ripeteremo fino alla noia - di effetti simbolici le democrazie muoiono. Perché il simbolo lavora su quel materiale incandescente che è l'immaginario collettivo. E il nostro immaginario collettivo si sta, passo dopo passo, avvelenando. Ci stanno abituando all'inaccettabile. Assuefazione, si chiama. Ed è, oltre un certo limite, un male incurabile. Quando poi l'effetto simbolico è veicolato in forma di legge - quando il simbolo mortale ha la potenza della Norma, e il Negativo assume la dimensione dell'Universale che la legge appunto possiede - il Male diventa estremo. In un passato non lontano, nel ventre d'Europa, lungo derive «simboliche» non così diverse, quel Male si è fatto addirittura «assoluto».
Sarebbe bene che i rappresentanti delle varie e disperse «sinistre» alzassero un momento gli occhi dalle loro faccende interne e dai loro tanti avversari «privati» e condividessero, non dico l'azione concreta di contrasto a tutto ciò (quella sembra riservata a minoranze estreme, un po' «fuori dal mondo»), ma quantomeno l'allarme. «Quante volte può un uomo volgere lo sguardo, e fingere di non vedere?», cantava in un tempo meno arreso Bob Dylan.
Quante volte ancora?
Avevo poco più di vent’anni quando arrivarono 50.000 operai delle fabbriche grandi e medie del nord Italia. Venivano a Reggio Calabria per solidarizzare con chi si sentiva accerchiato dai boia chi molla, con chi lottava contro il neofascismo montante, con chi, malgrado la sinistra (Pci e Psi) avesse sbagliato tutto in questo territorio, restava ancora di sinistra. Il corteo iniziò la mattina alle 11 e si concluse la sera: molti treni erano stati bloccati dalle bombe e alcuni compagni arrivarono dopo una intera giornata di viaggio quando ormai la manifestazione era finita. Era il 22 ottobre del 1972. Un altro secolo, un altro mondo.
La solidarietà tra nord e sud era una cosa concreta, era fatta di ideali comuni e di sacrifici condivisi, ed aveva una valenza bidirezionale. Oggi sarebbe assolutamente impossibile organizzare una manifestazione di quel tipo, con quella passione e a rischio della vita. Ma, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, eravamo in pieno clima post-’68 che aveva di fatto unificato il nostro paese, forse come non mai nella sua storia. Era ormai superata la storica alleanza auspicata da Gramsci, tra contadini del sud ed operai del nord, in quanto nel ventennio 1951-71 si erano svuotate le campagne meridionali e chi era rimasto era spesso entrato, per sopravvivere, nella rete tentacolare dei sussidi e sovvenzioni della Comunità europea. Il ’68 aveva coinvolto una intera generazione, attraversando le classi sociali e seminando una visione del mondo aperta, solidale, internazionalista e pacifista, in cui non c’era più spazio per la contrapposizione tra “terroni” e “polentoni”, anche grazie al fatto che gli extra-nordisti (immigrati meridionali al nord) avevano costituito una avanguardia nelle lotte di fabbrica di quegli anni e si erano guadagnati il rispetto di tutto il movimento operaio e della sinistra, parlamentare ed extra.
Come sappiamo, dagli anni ’80 inizia quel processo di normalizzazione politica e di frantumazione sociale che ha portato alla disintegrazione delle grandi organizzazioni politiche e sindacali che avevano giocato un ruolo di primo piano nel mantenere una visione unitaria dei problemi del nostro paese. Ancor più, sul piano economico, il Mezzogiorno perdeva progressivamente di ruolo nel modello di sviluppo italiano. Se negli anni’50 aveva funzionato da «serbatoio » di manodopera a basso costo per le industrie del nord, se negli anni ’60 e ’70 aveva giocato un ruolo importante come mercato di sbocco per la nascente piccola e media impresa della Terza Italia (centro-nord-est), alla fine degli anni ’80 era diventato superfluo, un peso, una escrescenza di cui liberarsi. La globalizzazione infatti avevareso marginale il mercato meridionale per il sistema industriale del centro-nord. Basti pensare che, come è stato dimostrato in uno studio dell’inizio anni ’90, un incremento di un punto percentuale nella domanda dei consumatori tedeschi era più importante, per il sistema industriale italiano, che dieci punti di aumento del Pil nel Mezzogiorno.
Senza cadere in un approccio deterministico, non è un caso che proprio in quella fase storica sia nata la Lega nord. Non un fenomeno folcloristico, come qualcuno aveva pensato e scritto, bensì la traduzione politica sul territorio italiano di un fenomeno mondiale: il delinking, lo sganciamento delle aree ricche del pianeta. La «secessione dei ricchi», come è stata definita, ha prodotto tragedie, come quella della ex Jugoslavia, o si è conclusa pacificamente, come nel caso della ex Cecoslovacchia. In ogni caso è un fenomeno con cui fare i conti. Finché il Mezzogiorno ha funzionato da serbatoio di voti per le maggioranze di governo, la secessione è stata scongiurata. Quando la Sicilia ha dato l’en plein dei voti a Forza Italia, involontariamente ha condizionato il premier a fare i conti con le esigenze dell’isola e della sua classe politica. Oggi anche questo ruolo del Mezzogiorno si sta esaurendo. La crisi economica da una parte e il federalismo fiscale dall’altra stanno mettendo in ginocchio il territorio meridionale. Nei prossimi anni, quando i decreti attuativi del federalismo fiscale diventeranno realtà, le regioni meridionali dovranno trovare qualcosa come 20 miliardi di euro per coprire i costi del welfare e fare funzionare al minimo la pubblica amministrazione.
Anche i famosi Por, fondi europei per le regioni arretrate, finiranno nel prossimo quinquennio, e non ci saranno altre risorse aggiuntive. E i giovani del Mezzogiorno che in quest’ultimo decennio sono emigrati in massa nel centro-nord (oltre settecentomila) avranno sempre più difficoltà a farlo: per la prima volta le regioni ricche avranno un serio problema di disoccupazione, che tenteranno di risolvere in parte con un assorbimento nella pubblica amministrazione.
La crisi globale che stiamo attraversando non è una crisi congiunturale: il milione di operai ed impiegati nel settore privato che sono usciti dalla produzione difficilmente ci ritorneranno. I giovani laureati meridionali non saranno più chiamati a colmare i vuoti, non avranno più spazio nel settore pubblico, che ha funzionato da spugna occupazionale. Risultato: il Mezzogiorno si sta trasformando in una gabbia da cui è difficile uscire.
Il malessere crescente e il disagio sociale senza risposte hanno indotto una parte della classe politica meridionale a cercare una via d’uscita: costruire il Partito del Sud per avere lo stesso peso della Lega nelle trattative con Berlusconi.
Una scorciatoia estremamente pericolosa che farebbe solo il gioco di Bossi: legittimare la divisione dell’Italia, dividerla in confederazioni sul modello della Svizzera. E chi governerebbe il Mezzogiorno? Non ci sono dubbi: la borghesia mafiosa. Questa è nuova classe emergente, che sa essere locale e globale, radicata nel territorio e capace di investire gli enormi profitti dei mercati illegali in tutte le aree del mondo, di avere una legittimità territoriale (grazie alle assunzioni in supermercati, grandi alberghi, aziende agricole ed edili, ecc.) che la borghesia industriale ha in gran parte perso con la delocalizzazione. Ed il fenomeno non riguarda solo il Mezzogiorno, ma un numero crescente di aree del centro-nord. Anzi, la crisi finanziaria offre uno spazio inedito alla borghesia mafiosa per impadronirsi di terreni, case, aziende ed ogni bene dove reinvestire le sue enormi risorse finanziarie. In questo quadro socio-economico e politico un Partito del Sud ci porterebbe molto vicino a una situazione del tipo Montenegro o altri stati-mafiosi che pullulano nell’universo della globalizzazione: dal Messico alla Nigeria, senza dimenticare la Russia di Putin. È questo il nodo centrale da affrontare.
Il Mezzogiorno ha sicuramente bisogno di una maggiore rappresentanza e presenza nell’agenda politica nazionale. Ma solo una forza di sinistra, all’altezza dei tempi che viviamo, potrebbe riannodare le fila di una unità nazionale, declinata come nuova alleanza tra lavoratori, imprenditori socialmente responsabili, reti del terzo settore e dell’economia no-profit in direzione di un progetto di rinascita del nostro paese in tutti i campi, a cominciare da quello dell’etica pubblica e della produzione di beni ad alto valore d’uso e basso impatto ambientale.
«Quando il sovrano va nudo per la piazza a prostitute c'è diritto di insubordinazione»: Baruch Spinoza, Trattato politico, cap. IV, citato da Toni Negri, che di Spinoza se ne intende, in un'intervista a Telelombardia riportata (alquanto falsata, per inciso, da titolo e sommario) sul Riformista di domenica. Negri lo dice chiaro, come al solito, altri usano toni più felpati, ma il fantasma dell'insubordinazione al Sultano italiano comincia ad aggirarsi insistentemente per l'Europa, se è vero che il problema dei media europei non è più il giudizio, ormai ampiamente scontato, su Berlusconi e sulla sua etica privato-pubblica e personale-politica, bensì quello sul tasso di reattività della società civile e dell'opinione pubblica italiane. L'Observer ne fa una questione di vigilanza democratica della comunità internazionale: può l'Europa tollerare «una società civile così evidentemente sottomessa alla volontà del premier» in un paese membro, per giunta attualmente presidente del G8? Altri, saggiamente, rovesciano il problema, segnalando gli elementi di degenerazione - populismo, demagogia, colonizzazione dell'immaginario, mobilitazione emozionale - comuni alla deriva democratica europea, di cui Berlusconi è la punta avanzata ma non unica (John Lloyd su Repubblica di domenica, e Spiegel che vede anche in casa propria tutte le premesse per un Berlusconi tedesco nel prossimo futuro). Altri ancora vanno meno per il sottile, procedono per stereotipi, trattano «gli italiani» come lo specchio fedele del premier senza né distinguere fra consenso e opposizione né inoltrarsi nelle piste del passato, recente e meno recente, della destra e della sinistra, che conducono alla situazione di oggi. Fatto sta che gira e rigira siamo arrivati al punto, il punto non essendo tanto la suddetta etica del premier quanto lo stato della democrazia e della sfera pubblica nell'Italia rifatta dal ventennio berlusconiano. Sì che fra veline, escort, prestazioni e ricompense monetarie ed elettorali del Sultano tocca ritornare ai punti di partenza del ventennio: uso e abuso della televisione a fini politici, conflitto d'interesse, manipolazione dell'opinione (Ezio Mauro rimette la questione al centro sull'Independent); declino dell'egemonia culturale della sinistra, colpevole peraltro di non aver capito nulla della questione mediatica per tutti gli anni Ottanta, e conquista dell'egemonia sul senso comune di massa della destra; svuotamento della rappresentanza politica a vantaggio della rappresentazione; esaurimento e fine della sinistra ufficiale; inesistenza (Negri) di una vera sfera pubblica, «alla Habermas o alla Daherendorf», in Italia. Catalogo noto al quale i noti fatti imporrebbero di aggiungere il capitolo sui rapporti fra stato della politica e stato del patriarcato, ma su questo si sa che le antenne scarseggiano.
Ma che il catalogo sia questo lo sa ormai anche la destra, o meglio l'apparato ultra-velinaro che sostiene il sultano dai suoi house organ, che per tre mesi ha negato l'evidente e sostenuto l'insostenibile e oggi si trova costretto a cominciare a venire a patti, palesando che una crepa s'è aperta eccome nel muro di complicità con il premier. Il Giornale di ieri prova a reagire all'offensiva della stampa estera (e di Repubblica e di Di Pietro) con due solenni editoriali di Mario Cervi e Giordano Bruno Guerri, solennemente presentate come firme «autonome e fuori dal coro» (tradotto: non al livello di Minzolini o Quagliariello), per «spiegare l'Italia agli Inglesi», ma finisce col lanciarsi un boomerang addosso. Intanto perché i due autonomi commentatori ne approfittano per togliersi vari sassolini dalla scarpe: il «libertario» Guerri, uno di quelli che s'imbarcarono in Forza Italia convinti che fosse davvero il regno della libertà, prende le distanze, nell'ordine, dalla legge elettorale vigente, dalle leggi proibizioniste sugli omosessuali e sulle staminali, dal lodo Alfano, e infine pure dalle «lecitissime ma problematiche per il ruolo istituzionale»attività sessuali del premier, dopodiché si fa paladino della Costituzione come garanzia della salute della democrazia italiana, dimenticando che gli attacchi alla Costituzione medesima sono stati dal '94 in poi la costante dell'agenda politica e ideologica di Berlusconi. E Cervi dal canto suo si dissocia dagli «incensamenti dei cortigiani», se la prende con le escort ma non con le «leggerezze d'alcova» del loro altolocato cliente, e si rifugia nella priorità del voto popolare sulla libertà d'informazione. Che cosa resta? L'inno alla funzione salvifica di Berlusconi, che con la sua «discesa in campo» del '94 rigenerò un sistema politico già sepolto sotto le rovine. O lo condannò a non rialzarsene più? Berlusconi il rivoluzionario, ci ricorda qualcosa. È l'ultimo mito di riserva, destinato agli archivi del ventennio.
Esattamente settant'anni fa, nel 1939, appariva, come romanzo ecologico e politico, "Furore", dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel 1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra l'altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane.
Il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento, nell'Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio ecologico; la coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo esposto all'erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una "scodella di polvere". Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una volta emigranti.
Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c'è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso "caporali" organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri.
Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della "Resettlement Administration", l'agenzia creata da F.D.Roosevelt (1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell'agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l'agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di disordini.
Il libro "Furore" finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto.
"Furore" è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall'Africa e dall'Asia verso l'Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli.Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch'essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi:"muoiono di fame perché noi si possa mangiare", oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro, lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.
Come nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi con odio, ai viaggi disperati dalle terre d'origine all'Italia, lascia marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero --- ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di stato --- e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua; solo poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa di "sicurezza" per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa, l'attuale maggioranza parlamentare respinge gli immigrati più indifesi, li rimanda alla loro miseria.
Eppure non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta, il "Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto", l'UNRRA-CASAS, col sostegno del "Movimento di Comunità" di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità. San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che "alcuni praticando l'ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo". Centinaia di migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il sedere.
Ma "Furore" è anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere un'Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell, capace di praticare l'accoglienza e assicurare giusti salari e dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera, come ha raccontato Steinbeck, furore.
La cultura politica che fa da collante delle norme che compongono la nuova legge sulla sicurezza è l’intolleranza e l’idea illiberale che la cittadinanza sia un privilegio che può essere usato a discrezione della maggioranza allo scopo di individuare e allontanare o colpire i nemici della nostra "civiltà". Chi abbia voglia e tempo di scorrere i vari blog che commentano (e molto spesso difendono) la legge potrà trovare due argomenti che tornano regolarmente: innanzi tutto che l’istituzione delle ronde è un provvedimento che intende far fronte non tanto alla sicurezza in senso generico, ma invece al rischio di insicurezza che viene dagli immigrati, un rischio che infatti si presume alto nelle aree metropolitane dove gli immigrati vivono più numerosi; in secondo luogo che questi provvedimenti "duri" siano una risposta legittima della nazione italiana nel tentativo di difendere la sua propria identità cristiana. Il paradosso di questi due argomenti è che contengono un messaggio che mette in evidenza la debolezza, non la forza, della nostra identità nazionale. L’esatto contrario di quanto la propaganda di governo proclama.
Il primo argomento è frutto di un ragionamento che è assolutamente pregiudiziale oltre che facilmente disposto al razzismo: esso presuppone una relazione causale tra la sicurezza e la presenza di persone riconoscibili come non italiani. Ma occorrerebbe riuscire a capire quali dati esteriori verranno utilizzati per decretare a occhio nudo - quello delle ronde - chi è italiano e chi no, visto che gli italiani non sono propriamente tutti alti, biondi e con gli occhi azzurri, né che d’altra parte tutti gli extra-comunitari sono vestiti con tuniche o turbanti. L’assunto che sta dietro questa brutta legge è che il dato esteriore è sufficiente a creare una situazione di allerta – e il dato esteriore è quello che pertiene a come un individuo si mostra al passante (e a chi fa parte delle ronde che cammina per le strade alla ricerca di fatti e persone sospette). Sarebbe utile sapere quali istruzioni verranno date ai rondisti; se per esempio verranno istruiti secondo "profili" razziali o etnici; e chi crea questi profili e su quali dati etnografici. E sarebbe ancora più interessante sapere se chi farà parte delle ronde debba essere edotto delle tradizioni regionali di tutta l’Italia per non incorrere nel rischio di considerare straniero e quindi meritevole di sospetto chi proviene, per esempio, dalla Lucania (come si legge in uno spassosissimo blog che propone che per iscriversi alle ronde lucane sia necessario essere dotati "di armi a proiettili sonori (zampogne, tamburelli, arpe, organetti, cupa cupa) e biochimiche (salsicce, aglianico, formaggio di moliterno, provolone di podolica, ecc...)... e essere in grado di fare secondo l’uso antico Strascinati e ragù, peperoni cruscchi, susamele, Zafarata e Strazzata". Se non fosse per le implicazioni illiberali e razziste, questa legge meriterebbe di essere sepolta con una risata.
Il secondo argomento è più serio ma anch’esso mostra quanto sia complicato definire in che cosa consista la nostra identità nazionale. A favore di questa legge e del pregiudizio contro la multiculuralità, si legge spesso che l’Italia ha il diritto di difendere la propria identità culturale la quale è cattolica. L’invasione di altre "razze" e "fedi" genera una pericolosa commistione che può alla lunga portare al relativismo ovvero alla fine dell’indiscussa "nostra tradizione cristiana" e quindi anche della "nostra civilità nazionale". Dove è interessante vedere che l’Italia pare avere una identità solo nella sua religione – del resto, come abbiamo visto sopra, le tradizioni nostrane sono così tante e diverse che parlare di una cultura nazionale omogenea è a dir poco insensato. Quindi, rispetto al nostro pluralismo culturale (sul quale i leghisti hanno costruito il loro successo), la religione pare la sola nostra unità di cultura. L’esito di questo discorso è molto dubbio perché può giustificare una politica dell’intolleranza religiosa (non è forse vero che in alcune nostre città chi vuole pregare Hallah deve arrangiarsi in capannoni e luoghi di fortuna perché non gli è concesso di avere un luogo di culto?). Alla base di questo argomento vi è la confusione o l’identificazione tra fede e tradizione culturale: per esempio si legge in un blog che "difendere la nostra tradizione cristiana significa difendere noi stessi, la nostra storia perché noi ci fermiamo la domenica e non il venerdì, perché non abbiamo ammesso nella nostra società la poligamia, perché non accettiamo l’infibulazione delle donne, i matrimoni combinati tra bambini, siamo per la parità tra uomo e donna, noi crediamo nella libertà religiosa. Siamo figli della nostra civiltà e la nostra civiltà è figlia di quelle radici giudaico-cristiane. Affermare queste radici non significa fare un atto di fede, significa difendere noi stessi".
Occorrerebbe uno spazio più ampio per confutare questo coacervo di contraddizioni e insensatezze. Ma alcuni punti almeno possono essere evidenziati. Primo punto: per essere contrari all’infibulazione, ai matrimoni combinati tra bambini, alla parità tra uomo e donna non è necessario essere credenti cattolici: sono i diritti individuali, di tradizione liberale e illuministica, che ci hanno dato questa civiltà (spesso imponendosi contro le religioni costituite). Allora, è la Costituzione la nostra vera tradizione unitaria di civiltà – la quale può essere abbracciata da tutti, anche da chi non è cristiano o credente. Secondo punto: che il diritto occidentale abbia radici giudaico-cristiane è non solo scorretto (ha anche radici greco-romane che sono precedenti alla cristianizzazione) ma anche irrilevante in questo caso. Perché il fatto che la tradizione liberale dei diritti sia (anche) l’esito storico della secolarizzione del cristianesimo non implica concludere che ci sia identità tra cultura religiosa e cultura liberale o laica, e che difendere le radici religiose sia lo stesso che difendere noi stessi e i nostri diritti.
Questa identificazione etnico-politica della religione (essere italiani equivale a essere cattolici) è estremamente problematica qualora si voglia davvero difendere la tolleranza. Usare la religione come arma per marcare la differenza tra la cultura nazionale della maggioranza e le culture degli altri (siano essi parti minoritarie della nazione o immigrati) può infatti facilmente trasformare la questione della tolleranza in una questione di intolleranza. E benché gli italiani non siano diventati col tempo più religiosi, tuttavia si assiste spesso all’uso della religione come strumento di lotta culturale. Un esempio eloquente è una decisione resa nel 2005 dal Tar del Veneto nell’atto di respingere la richiesta di alcuni genitori di rimuovere il crocifisso dalle aule della scuola elementare pubblica frequentata dai loro figli. Il Tribunale giustificó quella decisione dando un’interpretazione nazionalistica della tolleranza, ovvero sostenendo che il crocifisso è un simbolo non di una confessione semplicemente ma della cultura italiana e che inoltre è un simbolo di tolleranza perché rappresenta una denuncia dell’intolleranza religiosa. C’è da dubitare che un fedele che crede con sincerità desideri veder trasformato un simbolo religioso in un simbolo secolare (cultural-nazionale) e che accetti di buon grado che un’istituzione dello Stato si incarichi di dare una definizione autorevole su come interpretare un simbolo religioso. Ciò dimostra che lo zelo nazionalista non è di sostegno alla tolleranza neppure di chi è cattolico. La propaganda roboante che ha fatto da giustificazione alla nuova legge sulla sicurezza nasconde una debolezza identitaria della nostra cultura civile che la maggioranza cela dietro la radicalizzazione del confronto «duro» e «cattivo» con le minoranze culturali e religiose. Non è del resto ironico che a volere fortemente questa legge nazionalista sia stato un ministro il cui partito che ha fatto della propaganda anti-nazionale e anti-italiana le ragioni della sua stessa esistenza?
Sono venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l’una, la verità e, l’altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l’affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l’ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere.
Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione.
Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C’è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù.
La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l’intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta – 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e ‘600 in cui l’elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura.
Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all’apparenza contraddittori: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 36) e «siate avveduti (phronimòi) come serpenti» (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall’altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto …, ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza.
Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l’inganno è perché viviamo nell’ostilità e i regimi dell’ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l’uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d’una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento.
* * *
Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell’ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore.
Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell’altro. Quando c’è interferenza, non si può negare l’esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell’opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all’ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell’opinione pubblica?
Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l’eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti.
IL SUD AFFONDA NELLA CRISI PERENNE
di Riccardo Realfonzo
Le previsioni più pessimistiche sul Mezzogiorno risultano confermate. Questa amara conclusione si ricava dalla lettura del Rapporto Svimez 2009 il quale mostra inequivocabilmente che il reddito di un cittadino del sud rappresenta una parte sempre più risicata del reddito di un italiano del nord. Si tratta, quel che è peggio, di un dato non strettamente congiunturale, dal momento che negli ultimi dieci anni il sud è cresciuto la metà rispetto al resto dell'Italia. Ma il grado di sviluppo e di benessere non si misura certo solo in base al reddito. Se guardiamo alla qualità dei servizi pubblici o dell'ambiente, il Mezzogiorno perde ancora più terreno rispetto al resto del Paese. Con il risultato che, in Italia, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero si concentrano quasi esclusivamente nel Sud. Queste considerazioni impietose sullo stato dell'economia meridionale ci spingono a interrogarci sull'efficacia delle politiche per il Mezzogiorno di questi anni. Il riferimento purtroppo non è solo alle scellerate politiche leghiste del Governo in carica (per inciso lo Svimez stima in 18 miliardi la quota di risorse sottratta negli ultimi due anni al Mezzogiorno) ma anche agli interventi sostenuti dalle stesse coalizioni progressiste al livello nazionale e locale.
Assolutamente vane si sono infatti dimostrate le speranze di quanti, tra le fila progressiste, credevano nei virtuosi meccanismi spontanei del mercato che avrebbero dovuto attivarsi con la moneta unica, con l'apertura dei mercati, con la precarizzazione del lavoro. Così come del tutto illusori si sono mostrati gli effetti delle privatizzazioni. Bisognerebbe interrogarsi sugli esiti delle politiche che hanno sostituito l'intervento straordinario, teorizzate da economisti di moda anche nel centrosinistra benché irretiti dal fascino della concorrenza e dalle teorie neoliberiste. Politiche che hanno visto la sterile stagione degli incentivi automatici e l'erogazione a pioggia dei fondi Ue, degenerando troppo spesso in mere strategie del consenso.
Ed ora la gravissima crisi che stiamo attraversando assume nel Mezzogiorno i caratteri cupi dell'emergenza sociale e si abbatte sull'economia come una sorta di gigantesco moltiplicatore dei divari regionali. Come viene sottolineato dalla Svimez: «la diffusa percezione di una crisi che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzaste del Paese è purtroppo smentita dai fatti».
Per tutte queste ragioni, occorrerebbe una svolta nel quadro delle proposte progressiste capace di mettere a valore gli sviluppi recenti del meridionalismo e di recuperare la migliore cultura della programmazione economica e della pianificazione territoriale. Al centro di questa azione - come lo stesso Rapporto Svimez suggerisce - non possono che essere poste le politiche industriali specificamente indirizzate a spingere il tessuto produttivo meridionale verso un «salto» tecnologico e dimensionale. Forse è troppo sperarlo, ma sarebbe davvero il caso che il congresso del Partito Democratico si scuotesse dal torpore, stigmatizzasse qualsiasi ipotesi di aggregazione politica meridionale sul modello leghista, e riprendesse le fila di un dibattito vero intorno alle condizioni per un riscatto del Sud.
SE I MIGRANTI SIAMO NOI
di Alessandro Braga
Sud «cenerentola» di tutta Europa. Dal 1997 al 2008 700mila persone sono «scappate» dal Mezzogiorno per cercare lavoro nel nord Italia
Non attraversano il Mediterraneo a bordo delle cosiddette «carrette del mare», barconi stracolmi di esseri umani disperati. Al massimo percorrono tutta l'Italia da sud a nord su un treno espresso, con tempi medi di percorrenza, dalla partenza all'arrivo, di circa 22 ore, o se non ne trovano, visto che ormai le Ferrovie dello Stato prediligono i velocissimi Eurostar, si adagiano su comode poltrone targate Trenitalia. Non parlano idiomi sconosciuti, dialetti di posti lontani, ma un perfetto italiano, «macchiato» solo da una leggera cadenza meridionale.
A differenza dei loro padri e dei loro nonni, arrivati nelle ricche regioni del nord negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso con la valigia in mano tenuta chiusa dallo spago, in gran parte non cercano posti di lavoro alla Fiat o in un'altra delle grandi fabbriche di Piemonte e Lombardia, e neppure in quelle medie e piccole del facoltoso Nordest. Puntano a occuparsi nella pubblica amministrazione o come classe docente nelle scuole di ogni ordine e grado. Sono quasi tutti diplomati o laureati. Anche dopo l'approvazione dell'ultima legge razzista del governo voluta dalla Lega non sono diventati clandestini, e non necessitano di permessi di soggiorno o sanatorie. Ma sono, in tutto e per tutto, migranti.
700mila negli ultimi 11 anni
La fotografia di un'Italia «spaccata in due» l'ha scattata l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, che ieri ha pubblicato il rapporto 2009 sull'economia delle regioni meridionali. A fronte di un centronord che continua ad attirare e smistare flussi all'interno del suo territorio c'è un sud che non riesce a trattenere i suoi giovani e manodopera varia, senza neppure riuscire a rimpiazzarla con pensionati, stranieri o persone comunque in arrivo da altre regioni. Una vera e propria emorragia: negli ultimi undici anni, tra il 1997 e il 2008, ben 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno; solo nello scorso anno sono state 122mila contro la metà circa, 60mila, che hanno invece deciso di fare il percorso inverso. A farla da padroni in questa «classifica» emigratoria, tre regioni, che da sole raggiungono l'87% del totale: Puglia (12200 partiti), Sicilia (11600) e Campania (25mila).
Pendolari a lungo raggio
A questo già elevatissimo numero si devono poi aggiungere i cosiddetti «pendolari a lungo raggio», persone che continuano a mantenere la residenza al sud, nel paese di origine, ma che hanno un posto di lavoro al centronord o addirittura all'estero. Gente che rientra «a casa» solo nel fine settimana o un paio di volte al mese. «Cittadini a termine», li definisce il rapporto. Generalmente maschi, single, decidono di non cambiare la residenza a causa del costo della vita nelle aree urbane o perché hanno contratti di lavoro a tempo determinato. La causa della loro migrazione l'impossibilità di trovare lavoro, in particolare di livello medio-alto, nelle zone natie.
Gli «scoraggiati» e il Pil in calo
Aumenta anche quella «zona grigia» della disoccupazione che raggruppa «scoraggiati» e «lavoratori potenziali». Solo nel 2008 sono cresciuti di 95mila unità, dal 2004 allo scorso anno sono 424mila le persone in più che rientrano in questa categoria. Se si sommano anche loro, il tasso di disoccupazione effettivo nel meridione d'Italia sale al 22%, con un tasso di occupazione che di conseguenza scende al 46,1% (meno 34mila). La disoccupazione ha colpito in particolare le nuove leve: tra i giovani meridionali tra i 15 e i 24 anni solo due su tre trovano lavoro a fronte dei coetanei del centronord dove invece solo il 15% non ci riesce. E sono aumentati anche i disoccupati di lungo periodo. La crisi globale non ha fatto altro che peggiorare la situazione: il settore industriale ha registrato un calo del Pil del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere addirittura di oltre sei punti.
Giovani cervelli in fuga
La mancanza di una prospettiva lavorativa, in particolare di livello medio-alta, porta a una vera e propria fuga dei cervelli verso lidi più benevoli. Nel 2004 tra i ragazzi che si laureavano a pieni voti era il 25% che partiva per cercare fortuna al nord. Cinque anni dopo la percentuale è salita al 38. E molti neodiplomati decidono di partire subito dopo la fine delle scuole superiori, per prendere la laurea in atenei del nord e trovare lì un lavoro, più facilmente e meglio remunerato.
NUMERI
150 MILA I PENDOLARI residenti nel Mezzogiorno che nel 2007 sono stati costretti a lavorare nelle altre regioni.
Il 25,7% di loro è laureato;
il 43,5% ha la licenza superiore
27,9 PERSONE OGNI 100 usano Internet al Sud. Nel resto dell'Italia sono 38,5. Secondo i dati della Svimez, aA utilizzare il Pc nel Mezzogiorno è il 33,9%, contro il 44,1% del Centro-Nord
41,3 FAMIGLIE MERIDIONALI su 100 non sono in grado di sostenere una spesa improvvisa di 600 euro.
Al Centro-Nord la percentuale scende al 22,3%
«UN PEZZO D'ITALIA BUTTATO A MARE»
Manuela Cartosio intervista
il regista Mimmo Calopresti
Arrivato da Polistena a Torino quando aveva sette anni,il regista Mimmo Calopresti ha mantenuto con il Sud un legame forte. Sono immigrati di seconda generazione i protagonisti di Uno per tutti, il romanzo del siciliano Gaetano Savatteri che servirà da spunto per il prossimo film di Calopresti. Le cifre del rapporto Svimez non sorprendono il regista. Lo amareggiano e l'autorizzano a dire che il Sud è «un pezzo dell'Italia buttato in mezzo al mare» e a pronunciare parole gravi: «abbandono, disperazione, frustrazione, dissipazione».
Rispetto ai 700 mila emigrati dal Sud nell'ultimo decennio, pensa d'essere stato fortunato a immigrare al Nord all'inizio degli anni Sessanta, da bambino e con un padre operaio Fiat?
In mio padre, e in quelli come lui, c'era una spinta dinamica, direi quasi una felicità, seppur pagata con tante sofferenze. Di fronte a noi c'era qualcosa da conquistare. C'era un futuro.
L'idea d'avere un futuro è appunto quello che manca al Sud, ma ora anche al Nord.
Però Milano al Sud continua a essere vista come la città dove ci sono i soldi, dove si lavora. Magari con contratti scassati, però almeno quelli ci sono. Chi arriva adesso, rispetto alla generazione di mio padre, ha il vantaggio d'aver studiato. Ma è meno forte. Gli immigrati degli anni Sessanta erano forti perché partecipavano a un avvenimento collettivo che ha cambiato l'Italia. Emigrare dal Sud ora è un'esperienza vissuta individualmente.
Che governi la destra o il centro sinistra, le differenze per il Sud non si notano.
Succede perché non c'è più nessuno, neppure a sinistra, che sappia "pensare" il Sud. La politica su scala nazionale e locale è scaduta a occupazione di posti.
Le mafie quanto incidono nel mancato decollo del Sud?
Il peso della criminalità mafiosa è enorme. Ma appena lo si dice, si rischia d'assolvere la politica. E invece la politica ha mutuato le logiche spartitorie della mafia.
Cosa consiglierebbe a un giovane ventenne del Sud?
Gli direi di conoscere il mondo, di prendere un biglietto per New York che adesso costa come andare a Milano. Gli direi di usare la Rete, ma non come un giocattolino. E' servita a Obama per vincere le elezione, potrà servire anche per mettere in piedi qualcosa di serio e di non clientelare al Sud..
Ma al Sud con la conoscenza e la formazione non si alza un chiodo.
Per questo parlo di dissipazione e di frustrazione. I giovani sanno d'avere qualcosa da dare e non trovano dove metterlo.
Il Sud che si lamenta, che si piange addosso, è stato uno dei carburanti del leghismo. Prima di prendersela con i "clandestini", il nemico numero uno della Lega erano i "terroni" che vivono alle spalle del Nord produttivo.
Piangersi addosso non aiuta, è controproducente. I giovani del Sud devono smettere di farlo. Devono fare una rivoluzione personale, psicologica.
In Sicilia è già nato un leghismo del Sud, speculare a quello padano. In Puglia anche un pezzo del centrosinistra si sta mettendo sulla stessa strada. Cosa ne pensa?
Tutto il male possibile. E' solo un modo per contrattare e ottenere qualcosa in più dal governo nazionale, sia che a palazzo Chigi ci sia Berlusconi o un altro.
Il mondo della cultura e dello spettacolo è pieno di uomini e donne nati al Sud. Quasi tutti, per affermarsi, hanno dovuto trasferirsi a Roma o al Nord. E quasi nessuno, diventato famoso, è tornato a vivere al Sud.
Ho provato a mettere in piedi una scuola del documentario a Napoli. Sebbene ci tenessi moltissimo, non è arrivata al secondo anno. Tutto finisce nel piccolo cabotaggio del sottopotere e dei finanziamenti. Se queste sono le condizioni, lo scrittore, il teatrante, il regista va via e torna giù solo per fare un po' di mare. E' una tragedia perché la cultura, a mio parere, viene prima della politica.
«MA IL FENOMENO VERO È QUELLO DEL PENDOLARISMO»
Francesca Pilla intervista l
a sociologa Enrica Morlicchio
Le valigie di cartone sono state sostituite da trolley di nuova generazione. Un modo per dire che l'emigrazione interna del nostro paese è polarizzata e non è più prerogativa delle fasce più basse, ma anche di quei giovani con un alto livello di scolarizzazione che non trovando sbocchi volano nel nord del paese. «Anzi spesso chi ha più risorse, anche da un punto di vista emotivo, è più capace di resistere alle variabili ignote e più possibilità di spostarsi». A tracciare un quadro più particolareggiato dei dati Svimez è Enrica Morlicchio, professore di sociologia dello sviluppo della Federico II di Napoli, nonché vicedirettrice del periodico sociologia del lavoro, diretto da Michele La Rosa, che su questi argomenti sta preparando il prossimo numero monografico.
Professoressa, ci spieghi meglio cosa è cambiato.
Innanzitutto questi dati mi sembra che colgano solo il fenomeno dei trasferimenti definitivi, mentre il pendolarismo riguarda fette molto più ampie della popolazione. Flussi di persone che si spostano stagionalmente senza cambiare la residenza. Le novità riguardano appunto le fasce sociali che decidono di spostarsi e che se da un lato muovono le classi medio-alte, dall'altro i trasferimenti per la prima volta interessano anche le donne di bassa scolarizzazione che emigrano, per brevi periodi, magari per andare a lavorare nelle pizzerie o nei pub.
Qual è il profilo del giovane emigrante?
Faccio un esempio in base ai miei studi su Scampìa, un'area simbolo del degrado sociale di Napoli. A lasciare il quartiere non sono stati i ragazzi cosiddetti a rischio, dei ceti più poveri, ma quelli con più risorse e magari capaci di resistere al richiamo della criminalità. Persone che mantengono un legame emotivo con il luogo d'origine, tornando poi dalle famiglie per il loro matrimonio o per battezzare i figli pur essendosi trasferiti definitivamente. Questo significa che chi vede nei flussi migratori una scrematura di tipo sociale è fuori strada.
Ma i ne-laureati non possono essere attratti dal mito del cambiamento?
Secondo i nostri studi si spostano ancora per spinta e non per attrazione. Le politiche giovanili per il meridione e in particolare per la Campania sono inesistenti. Un vuoto che riguarda tutte le fasce d'età. Non ci sono interventi nel mercato dell'occupazione né per gli ultracinquantenni dove non vengono utilizzati nemmeno gli ammortizzatori sociali, né politiche formative per chi è in cerca della prima occupazione. Il sostegno oggi è diretto solo verso fasce specifiche di disoccupati, e mi permetto di dire che resta pervaso da fenomeni di corruzione.
Su questo scenario quanto pesa la crisi economica? Molto, anche se per altri aspetti. Secondo una nota Istat sui rilevamenti della forza lavoro nel I trimestre del 2009 emerge per la Campania un dato allarmante: su 33 mila persone che hanno perso il lavoro i disoccupati sono aumentati solo di mille unità. Questo evidenzia lo scoraggiamento e l'uscita dal mercato di grosse fette della popolazione, in maggioranza donne. La crisi però sta colpendo anche il centro-nord del paese che, se prima era una valvola di sfogo per il meridione, ora si trova in una stasi pericolosa. Credo che ci sia la necessità di leggere in maniera più approfondita i dati e fare studi specifici ai quali far corrispondere politiche concrete.
Anticipiamo un brano dall’introduzione di Lo scettro senza il re, il nuovo libro di Nadia Utbinati che esce in questi giorni (Donzelli, pagg. 138, euro 15)
li antichi consideravano la democrazia come il governo dei poveri. Si ha democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo è nelle mani della moltitudine dei nati liberi (in alcuni casi, sia da parte di padre che da parte di madre), i quali sono in maggioranza poveri. Ma per i moderni la democrazia è il governo della classe media, come Alexis de Tocqueville aveva appreso nel corso del suo viaggio americano (1831). È corretto affermare che la storia della cittadinanza moderna prende avvio dalla fine del lavoro servo e che i moderni abbiano adattato la democrazia a una società fondata sul lavoro retribuito e lo scambio monetario, un ordine economico che ha bisogno di una moltitudine di consumatori, gente né troppo ricca né troppo povera.
Una conseguenza importante di questa conquista di civiltà è che nella democrazia moderna i cittadini e le cittadine devono essere responsabili in modo diretto del proprio sostentamento, con la conseguenza di disporre di un tempo limitato per la cura degli affari pubblici. Ciò ha indotto alcuni pensatori a sostenere, come ha fatto Montesquieu, che il governo dei moderni assomiglia a un governo misto, perché l’elezione – come ci hanno tramandato Erodoto e Aristotele – è un’istituzione «aristocratica», in quanto discrimina tra i cittadini (chi elegge deve scegliere e quindi escludere) e soprattutto non consente loro, a tutti loro indistintamente, di governare ed essere governati a turno. Ma dalla diagnosi di Montesquieu si può trarre anche un’altra conclusione: ovvero che, invece di essere alternativa alla partecipazione, la rappresentanza rende quest’ultima più complessa e l’esclusione meno appariscente.
L’eguaglianza universale ha arricchito il valore normativo della democrazia dei moderni facendola più inclusiva di quella antica, ma nello stesso tempo ha ristretto la possibilità della partecipazione e, soprattutto, ne ha modificato le modalità. Autorevoli filosofi politici hanno per questo considerato la rappresentanza un espediente necessario ma non un’istituzione democratica (...). Tuttavia la rappresentanza non è semplicemente un ripiego per ciò (la sovranità diretta) che noi moderni non riusciamo più ad avere, è invece un processo politico capace di attivare nuove forme di partecipazione politica, diverse ma non meno importanti delle forme dirette degli antichi.
È senz’altro vero che la rappresentanza è stata concepita come un espediente per limitare e non per realizzare la democrazia. Per secoli, del resto, la democrazia ha goduto di pessima fama, come governo dei peggiori perché governo della moltitudine, vendicativa contro i benestanti e incolta, perciò facile alla manipolazione da parte di demagoghi e tiranni. Anche nell’era democratica per eccellenza, quella iniziata dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante la retorica contemporanea della globalizzazione della democrazia, molte istituzioni (certamente la rappresentanza) sono ancora giudicate secondo la stessa prospettiva degli architetti settecenteschi del governo rappresentativo, la cui agenda politica non contemplava certo l’obiettivo di facilitare la partecipazione delle moltitudini. Le premesse non-democratiche (e perfino anti-democratiche) difese dagli autori dei Federalist Papers (James Madison, Alexander Hamilton e John Jay) o da Emmanuel-Joseph Sieyès sono diventate luoghi canonici per molti studiosi di istituzioni politiche. Come si legge nel Federalist n. 63: «Il vero elemento distintivo tra queste forme politiche e quella americana è rappresentato dal fatto che quest’ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i rappresentanti del popolo dall’amministrazione». La pratica del suffragio universale non ha scalfito questa idea anti-democratica del ruolo della rappresentanza. Come ha scritto di recente uno studioso francese, Bernard Manin, le strutture portanti del governo dei moderni «sono rimaste le stesse» dal tempo delle rivoluzioni settecentesche, da quando cioè quello rappresentativo era ancora un governo di notabili eletti da pochi cittadini
La fuga dall’Africa ha inizio centomila anni fa, quando un primo drappello di uomini varca l’istmo di Suez e si spande nel mondo. Lo storico John Reader sostiene che non erano più di cinquanta, su un milione di uomini. L’homo sapiens aveva mosso i primi passi nel continente nero, e per evolvere aveva avuto bisogno di quel clima impervio, scottante, dove insetti, parassiti, batteri minacciavano l’uomo dopo averlo addestrato al peggio. Per i primi fuggitivi il nomadismo non era la soluzione. Quel che il filosofo Deleuze dirà nel Novecento - "Nulla è più immobile di un nomade" - era per loro tragica evidenza. Il clima di umidità e batteri era stato fonte ieri di vita, oggi di morte. Per questo il drappello preferì l’esodo al nomadismo. L’aumento straordinario della demografia comincia allora, ma fuori dall’Africa: i fuggitivi si riproducono, gli antenati dell’uomo stagnano.
In realtà fuggiamo tuttora dall’Africa: per istinto ci rifiutiamo di vederla, conoscerla. La grande madre dell’umanità attira e respinge, il matricidio è incessante. Il continente ha una sua storia, sue tradizioni, ma chi lo fugge continua a trattarlo come uno specchio, in cui non vede che se stesso. Anche oggi è così. L’Africa è l’unico continente che ha bisogno della globalizzazione come del pane, che da oltre un decennio ha preso a crescere e a cercare forme di governo meno caotiche, e tuttavia insistiamo a guardarla con le lenti della storia europea. È il dizionario dei nostri luoghi comuni: la maggior parte delle sue caratteristiche sono invenzioni dell’Europa che dal XV secolo l’ha colonizzata. Un tempo breve, se paragonato alla storia dell’uomo eretto iniziata in quelle terre 3,5 milioni di anni fa. Un tempo brevissimo, se contempliamo il periodo in cui gli europei si spartirono l’Africa sbranandola: appena vent’anni, alla fine dell’800. Ma sono vent’anni decisivi; le prigioni mentali europee e africane si formano in quell’era di conquista-spartizione. La chiamarono Scramble for Africa: e in effetti fu una corsa ai primi posti, una "sgomitata" che travolse e mutò popoli. L’Africa divenne un’invenzione europea.
Nel frattempo sappiamo che tra le invenzioni spicca il tribalismo. Certo i clan sono essenziali in Africa, ma contrariamente a quel che si pensa non esiste una congenita vocazione a dividersi in tribù impermeabili, identitarie. Gli europei idolatravano lo Stato-nazione assolutamente sovrano e in Africa cercarono qualcosa di equivalente, non trovando regni monolitici ma fragili staterelli. L’equivalente dello Stato ottocentesco (coscienza identitaria esasperata, chiusura al diverso) erano le tribù, che la Corsa all’Africa ossificò. Fu la monarchia belga a lacerare il Ruanda in tribù hutu e tutsi, attizzando un odio che sfocerà nel genocidio del 1994. Furono gli inglesi a esaltare le diversità fra etnie Shona e Ndbele, per meglio dominare lo Zimbabwe (Rhodesia). Il ritorno al tribalismo, di cui il continente nero è accusato, è ritorno all’invenzione europea dell’Africa.
È un’invenzione dell’Ottocento, questo secolo europeo non meno terribile del Novecento. Gli esseri umani trattati come cose, la crudeltà sadica, i genocidi: la prova generale viene fatta nello Scramble for Africa. Sono orrori di cui si parla meno perché avvenuti lì. L’Africa è la palestra dove l’occidentale ha collaudato e anticipato gli stermini, i campi di concentramento. La Germania imperiale collauda il genocidio nell’Africa tedesca del Sud-Ovest (oggi Namibia), annientando gli indigeni Herero e Nama fra il 1904 e il 1907. Tre quarti degli Herero e metà dei Nama perirono nei Lager o nei deserti, dove il generale Lothar von Trotha li scacciò avendo avvelenato, prima, tutti i pozzi. L’ordine di liquidazione (Vernichtungsbefehl) è emanato da Trotha nel 1904. Poi vi furono i massacri e i campi nel Regno del Congo, per volontà di Leopoldo II del Belgio, re dell’orrore. Nel 1906, gli inglesi ordinano l’"annientamento" di un villaggio contadino ribellatosi in Nigeria (2000 uomini, donne, bambini uccisi). Nel costruire l’immensa ferrovia dall’Atlantico a Brazzaville nel Congo, i francesi provocano la morte di 17.000 forzati neri.
Non sono solo gli Occidentali a fuggire l’Africa, per vergogna di sé o indifferenza. Anche l’Africa fatica a liberarsi dagli stereotipi che la definiscono, a ritrovare se stessa, a vedersi protagonista responsabile e non solo vittima, a darsi una storia. L’invenzione europea del tribalismo, l’ha interiorizzata come fosse sua. Il sogno di creare Stati accentrati, coltivato negli anni dell’indipendenza, impedisce le cooperazioni transfrontaliere che scongiurerebbero tante guerre in apparenza civili, in realtà regionali. La storia della schiavitù è ricordata come inferno coloniale - e senz’altro lo fu: 13 milioni di africani furono trapiantati fra il XV e XIX secolo - non come una cultura servile sorta in Africa per far fronte alla scarsa natalità. Sono trascurate perfino le più originali invenzioni del continente: prime fra tutte le Commissioni per la verità e la giustizia in Sud Africa, che hanno inaugurato inedite, esemplari politiche della memoria.
Ma lo stereotipo più resistente è quello secondo cui l’Africa è senza storia, in fondo maledetta. Lo ha formulato Hegel all’inizio dell’800, nella Filosofia della Storia Universale: "L’Africa non è un continente storico, non ha movimento né sviluppo". Ancora nel 1963, in una conferenza a Oxford, lo storico Trevor-Roper ne ripete la stupida arroganza: "Forse in futuro ci sarà una storia africana. Ma al momento non ce n’è: esiste solo una storia degli europei in Africa. Il resto è tenebra, e la tenebra non è soggetto di storia". La storia dell’Africa esiste se comincia a vedere l’uomo dietro le tribù, ad aprirsi all’altro che non ci somiglia. Se occidentali e africani smettono l’idolo del vecchio Stato sovrano. L’aspirazione di tanti africani a forme politiche meno accentrate è un’emancipazione dall’immagine che noi ci facciano di loro, e che loro hanno finito col farsi di sé.
Questa crisi della sinistra è una crisi italiana, con Berlusconi, oppure è europea?
Direi che, seppure con molte differenze tra un paese e l'altro, è una crisi europea che ha molte forme. Basti pensare al caos del Partito socialista francese o alla deriva verso posizioni di centrodestra del labour britannico o dei socialdemocratici tedeschi. Nell'insieme direi che è una sindrome europea.
Negli anni '70 questa sinistra era forte in Italia e in Europa. Quali possono essere le cause di questa crisi? La miopia dei dirigenti?
Il crollo dell'Unione sovietica è stato un fattore di grande importanza, non foss'altro perché ha rafforzato fortemente il centrodestra e la destra. Teniamo presente che le conquiste dei lavoratori tra gli anni '60 e '70 - salari decenti, prolungamento delle ferie, sabato festivo, servizio sanitario nazionale, nel nostro paese come in altri - sono stati possibili anche perché la classe egemone vedeva con grande preoccupazione l'Urss, naturalmente per il suo peso sulla scena mondiale ma anche per quello che poteva significare come sostegno - ideologico oltre che materiale - ai partiti di sinistra dell'occidente. Caduta l'Unione sovietica, la destra ha preso forza e fiato e le sinistre si sono trovate un po' l'erba tagliata sotto i piedi. C'è un altro aspetto che in parte spiega la sconfitta, cioè il totale fraintendimento da parte delle sinistre, dei partiti socialdemocratici in particolare, del processo di globalizzazione. Mi riferisco allo scambio che è effettivamente avvenuto fra l'Occidente che ci ha messo capitali e tecnologia, e la Cina, l'India ecc. che ci hanno messo la manodopera pagata una miseria. Non hanno capito, quindi sono caduti in una prospettiva che io chiamo adattazionista: la globalizzazione c'è, perciò non resta che adattarsi ad essa. Che significa aver perso la partita ancor prima di cominciare.
Ma non ci sono anche un cambiamento nel mondo del lavoro e una perdita di importanza di esso, la fine del fordismo, la società post-industriale... si può dire una società post-industriale?
No, per due motivi. Intanto l'industria continua ad essere un settore di grande importanza in tutte le economie sviluppate. In secondo luogo i modelli di organizzazione dell'industria, messi a punto nell'arco di un secolo dall'industria manufatturiera, sono stati applicati anche ad altri settori. L'agroindustria, la ristorazione rapida, i call center utilizzano modelli di organizzazione del lavoro che sono quelli inventati un secolo fa.
Secondo lei il terziario si è industrializzato?
Gran parte del terziario ha adottato modelli organizzativi dell'industria che si fondavano, e in gran parte ancora si fondano, sull'imperativo taylorista: voi lavorate, noi pensiamo.
C'è una frase di Marx che ogni tanto viene citata: «Lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza». C'è una perdita di valore nel lavoro?
Certamente sì. Perché a partire dalla fine degli anni 70 si è avuta una straordinaria finanziarizzazione dell'industria e dell'attività produttiva in generale. Quindi si sono sempre più sviluppate tecnologie complesse per produrre denaro mediante denaro, scartando per quanto possibile il passaggio attraverso le merci o facendo fabbricare le merci dai cinesi o dagli indiani. Quindi la produzione di denaro per mezzo di denaro ha portato con sé - e per certi aspetti è stata anche scientificamente cercata - la svalutazione, la sottovalutazione del lavoro manuale, del lavoro industriale.
Non potevano resistere dei partiti, il Pci soprattutto, che già avevano preso le distanze dall'Unione sovietica? Sono stati «capitolardi»?
Debbo dire, con mio rincrescimento, che sono del tutto d'accordo con questa interpretazione. La capitolazione dei partiti comunisti è stata precipitosa, e per certi aspetti inconsulta, anche se il crollo dell'Urss è stato un trauma colossale. Che il socialismo realizzato avesse crepe profonde si sapeva da tempo. Temo quindi che la definizione di «capitolardi» sia azzeccata.
Insomma, a questo punto le sinistre hanno rifiutato l'identità passata ma non si sono date una identità nuova.
Certo, perché - l'ho detto all'inizio - non avevano capito nulla del processo di globalizzazione. Non avevano capito che la globalizzazione è un aspetto di una guerra di classe globale. È una espressione che da noi fa saltare sulla sedia, anche molti a sinistra. Ma io la prendo da un libro che ho sul tavolo, un libro americano che si intitola The global class war di Jeff Faux, fondatore dell'Economic Policy Institute, che da buon americano liberal non teme di usare le parole che occorre usare, cioè conflitto di classe. Mentre le nostre sinistre hanno rimosso l'idea stessa di classe sociale.
Cosa fare per tornare forti e protagonisti?
Dall'89 sono passati 20 venti anni. Quello che si è smontato in vent'anni non è che si possa rimontare in poco tempo. Sicuramente un recupero della teoria critica, intesa non soltanto come recupero dei francofortesi che, comunque, avevano molte cose da dire. Ma anche come capacità di analizzare a fondo il processo dell'economia globale, come ad esempio sanno fare molti centri studi liberal americani, perché se uno vuol capire qualcosa finisce che deve passare di lì. Gran parte del nostro centrosinistra è molto più a destra dei liberal americani, quindi bisognerebbe partire dall'analisi delle classi, da una analisi seria del processo di globalizzazione.
Adesso Bertinotti dice confluiamo nel Pd.
Il Pd è certo un aggregato un po' singolare. Debbo dire che nelle conferenze, nei seminari che faccio, negli incontri ai quali sono spesso invitato anche dal Pd, scopro che molti interlocutori sono di sinistra. È vero che sapendo che io sono di sinistra c'è una sorta di pre-selezione, comunque credo che nel Pd ci sia davvero una componente di sinistra. Però il confluire nel Pd non mi parrebbe una soluzione.
E per esempio l'unificazione fra Sinistra e libertà e Rifondazione... a me non convince. Non potrebbero mettersi insieme e cercare di definire un programma di sinistra, sulla base di un programma poi unificarsi, mettersi d'accordo...
Sì. Credo che la partenza dovrebbe essere l'analisi, la critica, l'opposizione intellettuale, gli approfondimenti e un programma. E poi su questo vedere come ci si può aggregare. Però da qualche parte bisogna pur cominciare.
Dovrebbero smettere di litigare...
E sì, questo fa veramente cascare le braccia.
L'ultima domanda. Io faccio questa intervista e chiedo articoli per aprire una discussione sul che fare della sinistra. Come si rinnova e si unifica la sinistra? È utile che il manifesto cerchi di diventare un forum di questa discussione?
Direi di sì, anche perché non ce ne sono altri. Il manifesto si vede, gira, è letto. Inventarsi nuovi forum, nuovi mezzi di comunicazione mi pare - oggi come oggi - molto difficile. È chiaro che le voci, gli umori, le sensibilità sono molto diverse, quindi bisogna restare assai aperti. Però mi pare che lo spazio ci sia e che in ogni caso qualunque sforzo di allargarlo può essere utile.
Il tuo è un contributo a questo lavoro e ti ringrazio molto.
Egregio sig. Cardinale,
viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E’ il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.
Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.
Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di «frequentare minorenni», dichiara che deve essere trattato «come un malato», lo descrive come il «drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio». Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell’omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull’inazione del suo governo e sulla sua pedofilia. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.
Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la «verità» che è la nuda «realtà». Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell’Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi «principi non negoziabili» e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono «per tutti», cioè per nessuno.
Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all’integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi. Non date forse un’assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi «parlate per tutti»? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l’immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E’ forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l’attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l’8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell’inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.
I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra all’accusa di pedofilia, stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull’odio dell’avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con «modelli televisivi» ignobili, rissosi e immorali.
Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l’altro 50% sotto l’influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d’interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa? Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita «dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale»? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall’eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l’etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant’Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché «anche l’imperatore è nella Chiesa, non al disopra della Chiesa». Voi onorate un vitello d’oro.
Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da «mammona iniquitatis», si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d’oro? Quando il vostro silenzio non regge l’evidenza dell’ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: «troncare, sopire … sopire, troncare».
Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo … si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una «bagatella» per il cui perdono bastano «cinque Pater, Ave e Gloria»? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: «Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix» (La Stampa, 8-5-2009).
Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l’integerrimo sant’Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell’imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 5).
Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei «per interessi superiori», lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.
Lei ha parlato di «emergenza educativa» che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei «modelli negativi della tv». Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l’arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del «velinismo» o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull’altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l’Italia.
Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all’Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: «Non licet»? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro «tacere» porta fortuna. In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.
Genova 31 maggio 2009, Paolo Farinella, prete
Don Paolo Farinella è lareato in Teologia Biblica e Scienze Bibliche e Archeologiche. Ha studiato lingue orientali all’Università di Gerusalemme: ebraico, aramaico, greco. I suoi ultimi libri: Bibbia, parole, segreti, misteri e Ritorno all’antica Messa, editore Gabrielli.
La lettera è stata pubblicata anche sul sito Arcoiris
Penso che sarebbe opportuna una riflessione sul ruolo del ridicolo nella storia. Ridicolo: «Che suscita il riso, che induce a considerazioni derisorie e spregiative perché manca di ragionevolezza, di buon senso o di giudizio...; che espone al dileggio chi lo compie, lo mantiene o lo prova in quanto provocato da assurde convinzioni o privo di ragionevoli motivazioni...; sciocco, irragionevole, insensato, stolto» (Grande Dizionario della lingua italiana, detto il Battaglia, XVI).
Mi venivano in mente tutte queste considerazioni, e altre ancora, visionando mesi fa uno di quei bei documentari, ricchi di filmati d'epoca, che Nicola Caracciolo ha dedicato al Novecento italiano: e precisamente quel mazzetto di fotogrammi, destinato a durare una manciata di secondi, ma di straordinarie eloquenza (è il caso di dirlo), in cui Benito Mussolini, in fez, divisa e decorazioni, annunzia dal balcone di Palazzo Venezia a Roma la conquista dell'Impero: gli occhi spiritati, i pugni piantati sui fianchi, la mascella immarcescibile che, levata al cielo, ondeggia, tre o quattro volte avanti e indietro per asseverare alla folla, intensamente e persuasivamente, il pensiero appena espresso. Dio mio, ho pensato, come ha potuto questo osceno buffone, questo artistucolo da avanspettacolo, bandato con quelle volgari camuffature carnevalesche, sedurre per anni la grande maggioranza di una popolazione dal passato non del tutto inesperto e primitivo? Come, di fronte ad un tale spettacolo, la folla che gremiva la storica piazza, invece di acclamarlo forsennatamente, non lo ha liquidato all'istante con una colossale risata?
Altrettanto si potrebbe dire del suo più caro collega e amico, il forsennato tedesco Adolf Hitler: la cui oratoria alla nazione tedesca, dall'alto della tribuna notturna dello stadio di Norimberga, di fronte a migliaia di uomini schierati disciplinatamente nel quadrato «ordo» nazista (la «differenza tedesca»!), non può non imporci oggi la stessa domanda: come hanno potuto quell'isterico condizionamento, quella sorta di parossistica verve istrionica, quell'esibizione facciale-gestuale da saltimbanco, non suscitare la reazione che il ridicolo, - nelle sue molteplici forme di buffoneria, inverosimiglianza, dissennatezza - dovrebbe sempre suscitare? Ma su questo punto specifico - il ridicolo e la storia tedesca - tornerò più avanti.
Ora è inevitabile - me ne rendo conto - che il pensiero del lettore corra ai tempi nostri: i capelli finti, la bandana stretta, i tacchetti veri, le barzellette spinte, le corna dietro la testa di uno dei Primi Ministri più autorevoli d'Europa, le ossessioni sessuali, le storielle pruriginose, l'eloquio approssimativo e scarsamente italiano, l'interazione ossessiva della menzogna, il disprezzo urlato delle regole, le manie persecutorie, le battute alla vecchietta abruzzese terremotata: «vada, vada a nostre spese in uno degli alberghi della costa e si porti la crema solare!», l'esagerazione e l'irrealismo favolistico delle promesse, l'incultura esibita perfino nel modo di gestire e di vestirsi, il sorriso stereotipato e buffonesco, - insomma, tutto ciò che ci sta tutti i giorni sotto gli occhi dalla mattina alla sera, - compongono i tratti della figura più ridicola che la nostra contemporaneità abbia prodotto, il «ridicolo italiano» nella sua versione più alta e smaccata. Eppure non se ne ride: anzi, nel bene come nel male, la si prende fin troppo sul serio.
Se il quadro è questo, si pongono alcune domande e/o questioni. Innanzi tutto: esistono evidentemente tipi diversi di ridicolo nella storia: da quello grottesco, imperial-reboante, di tipo fascistico, a quello funereo, anzi tendente al macabro, del nazismo, a quello commercial-mediatico dei nostri tempi italiani, variante piccolo-borghese emergente e arrampicatrice della categoria esaminata. Ma tutti hanno, come vedremo, qualcosa in comune. Naturalmente, il ridicolo non si limita alla figura del Capo, da cui tuttavia promana. Si pensi al carnevalesco corteggio dei gerarchi nazisti: a Göring! a Hesse! Si pensi al suo (innegabilmente più guittesco) corrispettivo italiano; Starace Segretario del Pnf! Si pensi all'oggi: Gelmini Ministro della Pubblica Istruzione! La Russa Ministro della Difesa! Carfagna Ministro delle Pari Opportunità! Brunetta Ministro!
Il ridicolo del Capo, usato notte e giorno come fondamentale strumento di captazione del consenso, s'allarga a macchia d'olio, si collega con il ridicolo embrionalmente già presente nelle profondità della società circostante, contamina in qualche caso anche l'opposizione (vi risparmio gli esempi possibili, per non allungare troppo il discorso, ma vi assicuro che ne ho). Poniamo un limite storico-politico alla nostra esposizione: mi pare assolutamente innegabile che il tipo, intellettuale o politico, che potremmo definire democratico o liberal democratico, generalmente si sottrae alla categoria e alla pratica del ridicolo. Non è ridicolo Giovanni Giolitti. Non sono ridicoli Aldo Moro ed Enrico Berlinguer: ovvero lo sono lo stretto necessario che serve loro ed assicurarsi il favore della gente (dunque il ridicolo è connaturato all'esercizio stesso della politica, di qualsiasi politica? Bella domanda: bisognerà tornarci su). Se mai, per una prevalente da parte loro ricusazione dell'esibizionismo attoriale e delle pratiche camuffative, essi sono o appaiono grigi. E infatti di questo loro grigiore li si accusa come di una colpa ed un limite da parte di coloro che scelgono, come pratica politica e culturale, l'esibizionismo e la scena: basti pensare alle offese invereconde lanciate contro uomini come Giolitti e Nitti da un altro grande, grandissimo «ridicoloso» («degno di derisione», ibid) del Novecento italiano, Gabriele d'Annunzio.
La domanda principale di questo ragionamento dovrebbe dunque, se non erro, essere questa: come mai quello che ragionevolmente, e in condizioni normali, avrebbe suscitato soltanto il riso, in certi momenti della storia europea del Novecento (ma fondamentalmente, ahimè, tedesca e italiana), è divenuto una componente essenziale del successo politico di un individuo e della catastrofe culturale che ne è seguita? (e viceversa, beninteso: più esattamente, il processo si muove contemporaneamente in ambedue le direzioni). C'è chi ha già provato a definire le dinamiche di questa che, al limite, va considerata una vera e propria perversione storico-sociale, un morbo dei popoli: e, si parva licet, ci azzardiamo a chiamarlo direttamente in causa. Thomas Mann ha avuto presente ab origine il carattere ridicolo e grottesco dell'esperimento nazista: per lui Hitler, il Grande Dittatore, è in realtà «un oscuro cialtrone», «un infame ossesso», «un brigante», l'«astuto sfruttatore di una crisi mondiale», un «cane rabbioso alla catena», un «artiglio da isterico stretto a pugno», un «infernale vagabondo» (noto di sfuggita: nulla di simile è mai uscito dalla penna d'un grande intellettuale italiano del tempo, ciò non basta a marcare indelebilmente caratteri e vocazioni delle due culture).
Ci sarebbe da aggiungere qualcosa, - per restare al passato -, a proposito di quello che i grandi comici, da Petrolini a Chaplin, hanno detto sull'impura, degradata comicità dei miserabili buffoni che tentarono di fare loro concorrenza, ma lo rimanderemo alla prossima puntata.
Per spiegare come questo spropositato e sovreccitato «ridicoloso» abbia potuto sedurre un popolo dalla grande cultura come quello tedesco, Mann ricorre a due ordini di motivazioni, che possono tornare utili anche a noi. Da una parte, c'è la crisi della democrazia: la sua incapacità a risolvere i problemi di quella società in quella determinata fase storica.
È questa incapacità che apre la strada, a livello di massa, alla perdita di ogni senso del ridicolo (cioè, in altri termini: ad ogni ragionevole percezione dei valori). Dall'altra, c'è quella che io definirei la degenerazione di massa della stessa opzione e logica democratica, il rovesciamento delle normali pratiche di consenso, regolate della legge, in una sorta d'esplosione d'istinti neobarbarici, che non è più in grado di distinguere la luce della ragione (anche in questo caso, come si vede, il processo si muove contemporaneamente nelle due direzioni, dall'alto al basso e dal basso all'alto). Ascoltiamo le parole lucidissime di Mann: «L'immensa ondata di barbarie eccentrica e di volgarità primitiva, plebeamente democratica, prodotto d'impressioni violente, sconcertanti e insieme stimolanti dei nervi, inebrianti, da cui è sopraffatta l'umanità» (da Appel and die Vernunft: ossia «Appello alla ragione», un titolo che è già un programma, tenendo conto che lo scritto apparve nell'ottobre 1930, quando i tedeschi avrebbero ancora potuto tenerne conto, e non lo fecero). Dunque, parafrasando, se ci riesce, si potrebbe dire: il ridicolo come strumento di seduzione politica è il segno infallibile dell'abbandono della tradizione e del campo democratici e dell'apertura di una nuova e inquietante fascia di esperienze che, dittatura o democrazia autoritaria che sia, tendono in un modo o nell'altro a travalicarli; la perdita del senso del ridicolo a livello di massa è la prova più certa della degenerazione di un popolo in un coacervo d'individui staccati, inebriati dal fascino di un qualsiasi, - sostanzialmente replicante anche se formalmente mutante, - «infame ossesso». Intendiamoci: il ridicolo è un po' come la puzza: non tutti l'avvertono nel medesimo istante, qualcuno mai. Cioè: per definizione (definizione culturale e politica) essere in grado di avvertirlo, - vale a dire quel che solitamente definiamo senso del ridicolo, - è un fatto di per sé elitario: è difficile che le masse lo trovino per conto proprio. Però quando le masse lo hanno perso totalmente questo vuole dire che le élites sono state totalmente sconfitte, e questo apre la strada all'egemonia del «buffone»: insomma, è sempre lo stesso discorso, anzi, lo stesso processo, che però risulta declinabile in vari modi.
Per ridere dei loro impareggiabili «ridicolosi» d'un tempo, tedeschi e italiani hanno avuto bisogno d'una terribile guerra, nel corso della quale gli orpelli sono caduti uno ad uno, le divise carnevalesche si sono lacerate e il ghigno nascosto dietro la maschera si è rivelato in tutta la sua terribilità: non si poteva ancora tornare a riderne, - come è accaduto solo più tardi, del tutto a posteriori, quando, a dire la verità, non ce n'era neanche più bisogno, - per il buon motivo che non c'era più niente da ridere. Quale catastrofe dobbiamo aspettarci (e augurarci) perché gli italiani riescano a ridere del «ridicoloso» che oggi li governa?
Circola on line (lo si può leggere in www.donnealtri.it) un testo scritto da un gruppo di femministe (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) che si intitola «Il coraggio di finire» e sarà discusso domenica prossima alla Casa delle donne di Roma. E' un testo che incrocia la questione della fine della sinistra e della politica che abbiamo conosciuto nel secolo scorso con quella della politica della fine, ovvero con il modo in cui di questi tempi viene dibattuto il problema della fine della vita. A chi legge sembrerà forse un incrocio improprio o azzardato, ma invece è del tutto proprio: la coincidenza fra un certo stato terminale della politica «classica» e una biopolitica che sempre più frequentemente finisce di occuparsi, più che della vita, della morte (guerra, testamento biologico, eutanasia etc.) non dev'essere casuale, o può comunque essere sintomatica.
Come un sintomo della crisi della politica le autrici leggono infatti il dibattito sul caso Englaro: sia la risposta della destra - tenere in vita Eluana a tutti i costi - sia quella della sinistra - l'invocazione di una nuova legge a tutti i costi - mascherano una resistenza a confrontarsi con i problemi di senso che le tecnologie biomediche di allungamento della vita e di sospensione della morte comportano. E che richiederebbero un salto di pensiero sull'esperienza della fine e sulle modalità del congedo e del lutto nelle nostre società.Ma a sinistra il sintomo vale doppio, perché evoca la difficoltà della sinistra a fare i conti con l'eventualità della «propria» fine, ovvero con la possibilità di nominare come «fine» quello stato che da troppi anni continua invece a essere nominato, senza più pregnanza, come interminabile «crisi». Il testo ha l'indubbio merito di mettere coraggiosamente a tema questa eventualità, chiamando tutti, donne e uomini, a discuterne sulla base della pratica femminista del «partire da sé». Raccontano le autrici che il loro stesso gruppo, sulla questione della crisi della sinistra «girava a vuoto» finché non l'ha intercettata con la riflessione sull'esperienza personale della fine: l'esperienza del lutto per la morte di persone care o per una separazione o per la fine di un progetto, l'ansia per la fine della giovinezza, per l'invecchiamento e per la morte. E come sempre nel pensiero femminista, il sapere del corpo e dell'esperienza fa luce sulla politica. Rivelando ad esempio le segrete simmetrie con cui «la crisi della politica mima le crisi del corpo fisico» e della psiche individuale: bulimia (di parole) e anoressia (disseccamento delle radici e del senso), cupio dissolvi (ripetizione degli errori) e accanimento terapeutico (nel tenere in vita sigle e organizzazioni esaurite); depressione e prometeismo. Nevrosi che segnalano che il problema, venti anni dopo il grande terremoto dell'89, è ancora e sempre lo stesso: l'incapacità della sinistra di elaborare il lutto delle proprie perdite, rimuovendolo e rinviandolo con una ritualità ripetitiva e ossessiva che non cessa di «fare e disfare partiti, coalizioni e sistemi elettorali, chiudere e aprire fasi e cicli, invocare leader, proclamare 'nuovi inizi' senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto senza nemmeno degna sepoltura». Ma ciò che muore senza sepoltura, si sa, si aggira spettralmente nel presente, lo ingombra, ne impedisce l'apertura su nuovi eventi e nuovi avventi. Senza una consapevolezza e un pensiero della fine, la sinistra si sottrae contemporaneamente la possibilità di lavorare sulla perdita, ossia di mettere a fuoco «di cosa patisce la mancanza, di cosa ha bisogno e di cosa invece può fare a meno», e la possibilità di fare spazio a nuovi desideri, passioni, urgenze, eventi e avventi.
«Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire», concludono le autrici e non si può che essere d'accordo. Con tre aggiunte, come contributo al dibattito che esse stesse domandano. La prima è questa, che anche l'invocazione dell'elaborazione del lutto nella sinistra post-'89 - tema grande e grandemente messo a tema nel ventennio: due nomi per tutti, Derrida e Wendy Brown - rischia di restare un'invocazione o, peggio, un dover essere autoreferenziale, se non comincia ad essere accompagnata dalla stesura del catalogo di «che cosa» è perduto o finito, «che cosa» permane di irrinunciabile, «che cosa» ingombra il campo in forma di «attaccamento appassionato» (Brown) a un'identità fittizia e in cambio di quali rendite di posizione. La seconda è che nella stesura di questo catalogo l'asimmetria femminista rispetto alla sinistra vale non solo a livello di metodo e di pratica, come nel testo è fatta valere, ma anche come dispiegamento già in atto di una politica non ammalata della stessa malinconia della sinistra, che invece nel testo sfuma. E infine: l'elaborazione del lutto è una pratica riflessiva, ma non è solo una pratica riflessiva. Ci sono resistenze che la impediscono, ma anche atti, salti, pulsioni che la aiutano. E forse, cito ancora Wendy Brown, quello che alla sinistra dovrebbe proprio capitare è «imparare di nuovo ad amare».
Leggere anche lo scritto di Alain Touraine
Stefano Rodotà
Se la politica dei barbari cancella i diritti di tutti
Servono 10, 100, 1000 Rosa Parks all´incontrario per reagire alle proposte segregazioniste nella metropolitana milanese (Rosa Parks era la donna nera che, nel ´55 in Alabama, andò a sedersi nella parte di un autobus riservata ai bianchi, fu arrestata, ma il suo gesto avviò la fine della segregazione).
Si può organizzare una pacifica marcia su Milano di cittadini italiani di pelle bianca e capello liscio che vadano a sedersi in metropolitana accanto agli immigrati, anzi cedano loro il posto? Si può chiedere al sindaco Moratti di usare i suoi colloqui su YouTube con Red Ronnie per una serie di convinti elogi degli immigrati brutti, sporchi e cattivi, e tuttavia indispensabili? Si può andare a Bergamo e esigere che si possa mendicare per più di un´ora? Si può andare nelle città che hanno inaugurato un protezionismo nazional-gastronomico (suppongo a difesa delle schifose pizze surgelate con pomodori cinesi e cascami di formaggio) e ordinare ad alta voce kebab, cibi aztechi e altri piatti etnici? Si può essere d´accordo con Vaticano e Onu nelle critiche alle politiche di "respingimento" selvaggio dei disperati che cercano di approdare sulle nostre coste? Si può chiedere ai mezzi d´informazione decenti di dedicare uno spazio specifico e ben identificato per segnalare gli episodi di strisciante o palese razzismo quotidiano?
E infine (o prima di tutto): si può dire al presidente del Consiglio che il suo «no all´Italia multietnica» da una parte è un´insensatezza, perché basta guardare i volti delle persone per strada e si vede che l´Italia è multietnica senza possibilità di ritorno, e dall´altra che questo modo di parlare è l´ennesimo, pericolosissimo rifiuto di dare al nostro paese strutture e cultura rispettose dei diritti di tutti? Capisco che a Berlusconi la Costituzione non piaccia. Ma è il caso di ricordargli che l´articolo 3 vieta le discriminazioni basate proprio su razza, lingua e religione e che la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, da lui votata, non solo ribadisce questo principio ma, all´articolo 22 afferma anche la necessità di rispettare "la diversità culturale, religiosa e linguistica". Questi sono appunto i tratti di una società multietnica. Negandola, Berlusconi si pone una volta di più fuori dal quadro costituzionale italiano e europeo.
Si deve essere intransigenti per impedire che si consolidi ancora di più un perverso senso comune che non è eccessivo chiamare razzismo. Certo, si possono accogliere con compiacimento la scomparsa delle norme sui medici-spia e i presidi-spia o le bacchettate di Gianfranco Fini a Matteo Salvini, inventore dei vagoni "riservati" agli immigrati nella metropolitana di Milano. Ma il semplice fatto che queste proposte vengano ormai avanzate a getto continuo, e arrivino fino alla soglia della loro trasformazione in norme di legge, è sconvolgente, è il segno di una regressione civile che rischia di cambiare nel fondo il modo d´essere della società italiana.
Quando parlamentari, presidenti di Regione, sindaci, persone con responsabilità pubbliche fanno schiette dichiarazioni di razzismo, si producono almeno due effetti. Il primo riguarda il fatto che il cosiddetto "cittadino comune" si senta legittimato non solo a pensare nello stesso modo, ma a tenere comportamenti che rispecchiano appunto la linea dettata dai suoi rappresentanti, innescando forme di rifiuto dell´immigrato che arrivano, come tristemente ci ricordano le cronache, fino all´assassinio. La società, in questo modo, conosce la barbarie, alla quale rischia di assuefarsi.
Il secondo effetto riguarda la raccolta del consenso, "lo stare sul territorio", l´essere in sintonia con il "popolo". Non ho dubbi sul fatto che la sinistra, nelle sue varie declinazioni, abbia gravemente indebolito le sue capacità di "leggere" e interpretare trasformazioni e bisogni della società italiana seguendo le chimere del partito leggero, affidando la propria capacità rappresentativa alla presenza nei talk show televisivi, divenendo oligarchica, accettando la logica della pura "democrazia d´investitura" che interrompe proprio il circuito della comunicazione continua con i cittadini. Ed è vero che la Lega si è insediata anche in questo vuoto. Ma, fatta questa constatazione e considerata la necessità di tornare ad altre forme di rapporto con i cittadini, si può poi sottovalutare il modo in cui tutto questo è avvenuto, la sollecitazione continua di pulsioni verso identità aggressive, in una parola la costruzione dell´"altro" come nemico?
Una lunga condiscendenza ha fatto sì che questo atteggiamento si consolidasse. Sono state degradate a folklore le parole pesanti e irriferibili di sindaci e parlamentari della Lega, i maiali trascinati sui terreni destinati alla costruzione di una moschea. Si è pensato che le cene del lunedì ad Arcore tra Berlusconi e Bossi servissero davvero a disinnescare le "bravate" dei capi leghisti. Invece la deriva è continuata, si è trasformata in linea politica sempre più esibita (perché lamentarsi poi delle reazioni dell´Unione europea, che mi auguro sempre più vigili e dure?), ha trovato nelle ultime parole di Berlusconi una sorta di benedizione finale.
Non è mai troppo tardi per reagire, per impegnarsi seriamente nel contrastare questa resistibile ascesa. Bisogna farlo essendo consapevoli di quel che stiamo perdendo. Il rispetto della dignità delle persone, degradate ad oggetto da accettare o respingere come un carico più o meno avariato, a merce da sfruttare da parte di imprenditori rapaci. Il rispetto del principio di eguaglianza, quando l´immigrato è discriminato davanti alla legge per questa sua condizione personale (lo vieta l´articolo 3 della Costituzione). Il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, quando salute, istruzione, possibilità di sposarsi vengono negati o compressi, cancellando così una idea di cittadinanza che consiste in un insieme di diritti che ci appartengono in quanto persone e che ci accompagnano quale che sia il luogo del mondo in cui ci troviamo. Quando si aprono questi varchi, ci si riferisce formalmente agli immigrati, ma in realtà si creano le premesse per mettere in discussione le libertà di tutti. È già avvenuto. Possiamo rassegnarci a vivere in un paese incivile?
Dionigi Tettamanzi
Perché dobbiamo dire grazie allo straniero che è tra noi
Dal nuovo libro del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, "Non c'è futuro senza solidarietà. La crisi economica e l'aiuto della Chiesa", edizioni San Paolo, in libreria dal 15 maggio (pp.143, 14 euro)
MI VERREBBE d'iniziare con l'antica citazione biblica: "Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Deuteronomio 10,19). Come a dire, che il fenomeno migratorio, sia pure in modalità e intensità diverse, accompagna sempre la storia dei popoli.
E che esso deve suscitare, come prima e più immediata forma di solidarietà, la condivisione obiettiva di una medesima situazione. (...) Ma qual è la situazione da noi oggi, nelle nostre città e nei nostri paesi? Potrei rispondere in termini quanto mai sintetici dicendo, anzitutto, che troppe volte e con troppa insistenza negli ultimi tempi si è pensato agli stranieri soltanto come a una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere.
Con l'immediata conseguenza che il peso dei pregiudizi e degli stereotipi hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, finendo per causare spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza. Ma la realtà presenta anche un'altra faccia: noncuranti delle tante e, troppe, eccessive polemiche, molte persone - in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario - hanno operato e continuano ad operare per assistere questi "nuovi venuti " nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo o, degli indumenti, la cura dei più piccoli.
In concreto, penso alla Caritas e alle sue molteplici emanazioni, alla "Casa della Carità " in Milano, a quegli interventi delle amministrazioni locali che hanno saputo distinguersi per intelligenza, umanità e creatività. Penso al "buon cuore" anche di tanti semplici cittadini e ai loro piccoli ma sinceri gesti di aiuto. Siamo così di fronte a una solidarietà in atto, che si fa "dialogo" concreto: un dialogo forse ancora troppo flebile - e per questo da incoraggiare e da sostenere - ma che dice il riconoscimento della comune condizione umana cui tutti, italiani e stranieri di qualsiasi etnia, apparteniamo.
Cade qui una riflessione elementare, la cui forza razionale invincibile conduce all'adesione, anche se poi la prassi, purtroppo, può divenirne una smentita. Ci sono così tante "etnie" e "popoli" diversi, ma tutte le etnie hanno la loro radice e il loro sviluppo nell'unica etnia umana, così come tutti i popoli si ritrovano all'interno del tessuto vivo e unita - rio dell'unica famiglia umana. (...) Troviamo qui l'approccio culturale nuovo che deve caratterizzare la nostra valutazione e il nostro comportamento - certo nel segno della solidarietà ora affermata - nei riguardi dei migranti.
Lo indicavo così nel Discorso alla Città per la Vigilia di sant'Ambrogio 2008: "Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l'originalità della propria identità".
Riprendendo ora la riflessione generale, vorrei riproporre qualche spunto nel segno di una concretezza quotidiana e con un riferimento più specifico alle due realtà della famiglia del lavoro. Il primo passo da compiere dovrebbe condurci a superare una paura: quella che ci impedisce di riconoscere in pienezza l'uguale dignità sul lavoro degli immigrati. In realtà, per non pochi di noi essi sono visti come una minaccia, non solo perché considerati come uomini e donne che disturbano la tranquillità del nostro quieto vivere e del nostro paese, ma anche perché a noi "rubano" il lavoro. E se invece vengono accolti, rischiano di essere trattati come una forza lavoro a buon mercato, in particolare per quelle attività che noi ci rifiutiamo di compiere perché ritenute troppo faticose o poco dignitose. Ma, anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni, diverse forze sociali danno prova di solidarietà attiva con i migranti, creando nuove forme di accoglienza e di inclusione sociale, a cominciare dal lavoro.
Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di fin troppo facile contrapposizione. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare una integrazione all'insegna della solidarietà e della legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da città spaventate e non poco preoccupate, anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana. Una testimonianza che deve interpellare tutti e ciascuno. (....) Non è spontaneo per nessuno in queste occasioni rifarsi e ispirarsi allo spirito più radicale del Vangelo e c'è per tutti il rischio di chiudersi in una eccessiva preoccupazione di se stessi, che ci fa scoprire sovente la nostra più grande miseria morale.
È importante allora acquisire innanzitutto una reale conoscenza della situazione e delle persone, nelle loro qualità positive, nei loro limiti e nelle loro differenze. Solo così riscopriremo gli aspetti positivi della loro nuova presenza, le risorse culturali e religiose di cui sono portatori, la loro capacità di essere protagonisti in diversi ambiti, non appena offriamo loro l'opportunità di farlo. (..) È onesto - ed è bello - riconoscere l'apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e, in termini certo più ristretti ma quanto mai concreti ed efficaci, alla vita delle nostre famiglie. Tanti - in assoluta prevalenza donne - appena giunti in Italia da paesi stranieri si fanno carico - nelle case degli italiani d'origine - dei servizi della casa, della cura dei bambini, dell'assistenza agli anziani e malati.
Ed è con spirito di ammirazione e di gratitudine che dobbiamo riconoscere che queste stesse donne - le chiamiamo "badanti" - con i loro figli sono le prime persone che pagano il costo di una separazione forzata, dell'esclusione dai diritti, della privazione per se stesse e per i propri familiari. Di conseguenza, come non chiedere che - insieme ai vantaggi che vengono a noi dalla loro presenza e attività - si giunga presto a riconoscere i loro giusti diritti e a migliorare le loro condizioni di lavoro?
Vi sono segni che la parola «eguaglianza» - con tutto il lessico di moralità politica che comporta - possa uscire dall’oblio in cui molti, anche a sinistra, prigionieri o subalterni della fallace ideologia neoliberista, l’avevano lasciata colpevolmente cadere. Trovano oggi accoglimento i moniti del cattolicodemocratico Ermanno Gorrieri e del liberaldemocratico Ronald Dworkin i quali, a lungo inascoltati, hanno considerato l’eguaglianza come «virtù sovrana» tra la libertà e la solidarietà. Se così è, non può sfuggirci che nei processi inegualitari provocati dal neoliberismo - e di cui la crisi economica mostra, negli ingiustificati supercompensi dei manager, gli effetti parossistici - agiscono non una ma due componenti. Siamo di fronte, infatti, a un duplice fenomeno: a) sul valore aggiunto diminuisce la quota dei redditi da lavoro - essa si riduce addirittura fra i 10 e i 5 punti in tutti i paesi sviluppati - e aumenta quella dei redditi da capitale; b) crescono le diseguaglianze fra le retribuzioni, lungo tutta la scala distributiva, ma con un peso decisivo esercitato dall’aumento di quelle dei ricchissimi. Dunque, vanno sottolineati due aspetti: 1) responsabile primaria del peggioramento della distribuzione famigliare del reddito è la «componente di mercato»; 2) la crescita delle disparità è dovuta, più che al peggioramento della posizione relativa dei poveri, a un forte miglioramento della posizione dei ricchi e, fra di essi, dei superricchi. La situazione della diseguaglianza a livello mondiale è stata a lungo trattata con la tesi che prioritaria fosse la crescita, che vi fosse una correlazione stretta tra crescita e liberalizzazioni, che dalla crescita sarebbe spontaneamente scaturito anche un lenimento della povertà e delle diseguaglianze. Così, però, non è stato ed, anzi, la situazione è diventata così seria che anche le istituzioni - IMF, WB, OCSE - che hanno a lungo trascurato di farne oggetto prioritario della loro attenzione hanno iniziato a prestare più ascolto alle problematiche della diseguaglianza. La situazione è destinata, peraltro, ad aggravarsi con l’esplosione della crisi economica odierna che è tutto tranne che «psicologica», come irresponsabilmente dice Berlusconi. L’ultimo rapporto dell’OIL dà la disoccupazione in crescita nel 2009 da 190 milioni fino a 240 milioni di unità, il numero di lavoratori poveri che guadagnano meno di due dollari al giorno in aumento fino a 1,4 miliardi di unità (il 45% degli occupati mondiali), il numero di quelli con lavoro «vulnerabile», cioè privo di reti di salvataggio, in incremento fino al 53% del totale. Il punto cruciale è che povertà e diseguaglianze non sono né un incidente né un’appendice dei processi economici in corso, ma ne sono un elemento strutturale, rimovibiliesolo con un forte intervento pubblico di tipo altrettanto strutturale, un intervento di equità che investa tanto la sfera allocativa che quella redistributiva.
La grande delega sul "federalismo fiscale" entrerà a regime nel 2016, fra sette anni. Occorre infatti riempirla di così tante cose da farla apparire, oggi come oggi, inconsistente: anche soltanto come legge che stabilisca principi e criteri direttivi. Neppure legge-manifesto, dunque, ma legge-scommessa che presenta almeno sette vuoti di sostanza. Quali sono questi sette peccati di omissione?
1. La indeterminatezza del "livello essenziale" delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che la legge dello Stato, secondo la Costituzione deve garantire "su tutto il territorio nazionale" (ma se questa è la punta della piramide, e se non c´è, tutto il resto poggia sul nulla: o no?).
2. La dubbia procedura per calcolare il costo standard delle prestazioni sociali, cioè, secondo lo stesso progetto, "l´indicatore rispetto al quale comparare e valutare l´azione pubblica" (ma se, a parere della Ragioneria generale dello Stato, vi sono "enormi difficoltà" per calcolare questo costo standard, come valutare il fabbisogno complessivo e gli obiettivi delle politiche pubbliche?).
3. La omessa indicazione delle "funzioni fondamentali" dei comuni e delle province (quelle funzioni che, in base alla Costituzione, devono essere "finanziate integralmente": ma se non si sa quali sono, come si fa a calcolare quanto costano?).
4. L´assenza di nuovi principi e regole per gli enti locali, cioè del "codice" delle loro autonomie (ma se non è chiara l´organizzazione essenziale di base, come se ne può calcolare capacità di entrate e di spese?).
5. Il mistero sui criteri e sugli effetti delle associazioni tra i piccoli comuni (il sistema fiscale è lo stesso per i micro-comuni e per le unioni intercomunali? E se è diverso, in che cosa lo è?).
6. La deficiente disciplina delle "città metropolitane" (si sa che, ope legis, anche Reggio Calabria è diventata una "metropoli": ma si può parlare di entrate e spese per soggetti territoriali "incompiuti"?).
7. La fuga dall´azzeramento o almeno dalla riduzione degli iniqui vantaggi fiscali delle cinque regioni speciali (non vale anche per esse la tutela dell´unità giuridica ed economica, "prescindendo dai confini territoriali dei governi locali", di cui parla l´art. 120 della Costituzione?).
Con queste omissioni, è persino inutile cercare nel progetto la risposta alle tre fondamentali domande che si pone ogni vero federalismo fiscale: chi fa cosa? quanto deve essere fatto? quanto costa farlo?
E´ vero. Il governo rimanda per alcuni di questi interrogativi a disegni di legge nel frattempo in preparazione. Ma a parte la bizzarria di questo mosaico legislativo, a formazione progressiva, in tempi incerti, se si va a leggere qualcuno di questi progetti "ulteriori" si scoprono aspettative deluse. Come per la strabiliante definizione delle "funzioni fondamentali" degli enti locali (capitale, come si è visto, per la tenuta territoriale di base) che suona così: "funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascuno tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell´ente e per il soddisfacimento dei bisogni-primari delle comunità di riferimento, anche al fine della tenuta e della coesione dell´ordinamento della Repubblica". E´ un singolare esempio di produzione di formule a mezzo di formule, di deleghe a mezzo di deleghe: oltretutto con possibilità di contraddizioni, di sovrapposizioni, di sconnessioni.
Una scommessa sul futuro, dunque, e una scommessa ad alto rischio. Privo di basi istituzionali e di prospettive contabili essenziali, un "federalismo fiscale" così concepito non avvia a soluzione né la "questione settentrionale" né la "questione meridionale". E può aprire una rilevante questione nazionale.
Statistici ed economisti ci hanno, infatti, avvertito, da tempo, di due cose. La prima, è che la quota di spesa e di tributi già ora sotto la responsabilità diretta degli enti territoriali corrisponde a quella degli Stati federali (come Spagna e Germania). In uno Stato indebitato come il nostro è il massimo possibile (se no, chi pagherà il debito pubblico italiano?). La seconda cosa è che le regioni ordinarie del nord ricevono già in spesa sociale per abitante più di quanto ricevono le regioni ordinarie del sud. Da questi due dati non contestati risulta che la prospettiva di un miracoloso "ritorno" di risorse al nord è assai fantasiosa. Tutto l´esaltato armamentario di sanzioni contro gli amministratori responsabili di sperperi può servire ad un uso corretto di quel "di più" che le regioni del sud ricevono rispetto a quanto versano al fisco. Ma questo residuo fiscale è poco significativo al fine di una consistente redistribuzione geografica del denaro pubblico.
Ecco: tutta la propaganda per un riequilibrio "settentrionale" può essere fondata solo se certi meccanismi "occulti" del progetto rivelassero, alla fine, il volto di un federalismo ferocemente competitivo: malgrado ogni affermato principio di perequazione e di solidarietà nazionale. E il sospetto si fonda su tre punti.
In primo luogo, sulla possibilità che il calcolo dei livelli essenziali per le prestazioni sociali sia compresso a quote minimali. Che questo pericolo ci sia, lo suggerisce quella norma del progetto che fissa un "livello minimo assoluto" per le aliquote fiscali che dovrebbero assicurare "il pieno finanziamento del fabbisogno" (art. 8, comma 1, g). In secondo luogo, sulla prospettiva, assai sottolineata , di ricorrere a politiche fiscali di vantaggio (da poco ammesse dall´Unione europea) non solo per le zone storiche di sottosviluppo del Paese ma per tutte le aree "sottoutilizzate" (art. 2, comma 2, mm). In terzo, e più importante, luogo, sulla possibilità per le regioni – in un quadro di sostanziale tenuta del principio di territorialità e senza vincoli di destinazione – di ampie manovre delle aliquote fiscali, di esenzioni, deduzioni, detrazioni (art. 7, c).
Sono tre sospetti che pesano sull´equilibrio complessivo del sistema che si introduce e che, se fondati, porrebbero in crisi lo stesso principio di eliminazione delle disuguaglianze territoriali fondato sugli articoli 3 e 119 della Costituzione. Certo, nessuno può ragionevolmente difendere le scandalose disparità di spesa sanitaria in Lazio, Campania, Molise e Sicilia, né la pletora di impiegati pubblici nelle regioni del sud (almeno il dieci per cento in più di ogni altra regione italiana). Ma davvero si pone rimedio a questa malamministrazione facendo più forti le regioni forti e recidendo il cordone con la zattera del Mezzogiorno?
Il che può avvenire: per le cose che si sono dette e, in più, per la debolezza e l´equivocità con cui il progetto traduce le procedure di perequazione solidale, fissate in Costituzione. Forse sarebbe più intelligente e più efficace pensare a forme di controllo effettivo, affidate ad un Istat "costituzionalizzata", connessa con le diramazioni regionali della Corte dei conti: in un sistema compartecipato di verifiche che veda in Parlamento il protagonismo delle regioni "che danno" (ma l´esposizione per 35 miliardi ai rischi della finanza derivata non è stata solo di territori del sud…).
Creare in Italia cunei di diseguaglianza, giuridicamente legittimati – che approfondiscono quelli esistenti di fatto – non è nell´interesse di nessuno: e meno che meno del nord. E qui si intende un interesse meramente mercantile (non patriottico e neppure europeista: che pure potrebbero essere richiamati con una certa fondatezza).
Comunque, il progetto, per ora indefinibile, ma convenzionalmente detto di "federalismo fiscale", sta per arrivare in porto (sia pure solo per aprire i suoi moltissimi cantieri). Ci si è accaniti, con lunga elaborazione (aperta, lodevolmente, anche all´opposizione) sulle problematiche formule fiscali e sulla loro doppia lettura. E´ difficile però che queste siano messe "in sicurezza" senza serie fondamenta istituzionali. Siamo in uno Stato che, da quando è nato, cerca la difficile combinazione tra unità e autonomie. Sui soldi è ancora più difficile, ma è un discorso da fare.
E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola "Liberazione". A partire dal 25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l´ultima Festa della Liberazione, la sostituirà un´altra parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto naturale, di fatto già avvenuto, come bere un bicchier d´acqua, come trovare la definizione adatta per riempire le caselle di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente. Tanto piccola e innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto, l´accoglienza è stata benevola, perfino un po´ distratta. Una parola, nient´altro. I pochi, prevedibili dissensi sanno più di blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta per difendere valori non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a cui dà voce un editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È – vi si legge – «una ferita che si chiude».
C´era dunque una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la chiude. Caso singolare, degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare, l´altra – pur della stessa famiglia – magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa scomparire l´ultimo riflesso delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin da quando era nata: perché erano quelle passioni che l´avevano generata nella mente di una minoranza di italiani. Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto vedevano l´urgenza di un´azione da compiere, un´azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» – come scriveva il 25 settembre del 1945 il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l´azionista e futuro storico Roberto Battaglia. Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua di allora, che cosa le ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà – ha scritto Marc Bloch – è uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile rimaneggiare "Liberazione" – quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato momento della storia italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l´Italia tra il 1940 e il 1945? C´era allora il "Consolidated B-24 Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a bombardare un´Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi, dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati. Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all´organizzazione di Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione tutta americana, insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d´Italia altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande Rivoluzione francese esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco coniò il termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi. Ma almeno in un caso l´Italia è stata attiva e creativa: nell´invenzione del regime fascista, guidato da un capo che si presentò agli inizi come rivoluzionario. Lo storico che sottolineò questo aspetto, Renzo De Felice, fu anche colui che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni della storia italiana del ´900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l´adesione degli italiani al regime fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella polemica ideologica a sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra di liberazione condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al fascismo, un altro e opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità? Nella stanchezza di un´Italia lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel linguaggio l´ultima traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie. Questo termine sta a ricordare che c´è stata una lotta di una parte del paese contro un´altra, che quella parte pur minoritaria seppe allora raccogliere l´esito della fine del consenso al regime e conquistarsi nel paese un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere elezioni e nella dialettica di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette vita e forma alla Costituzione repubblicana. Lo si cancelli, se si vuole, se si può. Vediamo bene che c´è un patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona moneta: tale è il ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di Liberazione, tale è la possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza. E il prezzo che si chiede è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una cosa deve essere tenuta presente: il banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di iscriversi nel linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della vita collettiva. E non è solo nell´universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si salva.
La democrazia italiana sta correndo il rischio d’essere schiacciata tra il "presidenzialismo assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l’alto e severo monito del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una maggiore efficienza dell’azione di governo. Pretende una radicale ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli, alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano, Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l’America" e il passaggio a un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato "Contratto con gli italiani". Ora si indica una strada per delegittimare il Parlamento, già minacciato d’una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti, il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d’elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira l’azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato nell’accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora attende il suo compimento finale, con l’accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di questo modo d’intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della Libertà, ha descritto l’intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave, abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l’insofferenza per ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo, costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse attribuito al governo fuori d’ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006, quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole cancellarne l’indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata. Dopo il referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l’opposto di quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d’essere libero da ogni controllo nell’emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato assoluto dell’esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema costituzionale vigente. Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria, ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell’articolo 15 dello statuto sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l’ordinato funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e presiede l’ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne stabilisce l’ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e, d’intesa con l’ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di autocrazia.
Conosco già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere più efficiente l’azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l’iter parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato l’assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti" all’opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L’ipotesi del sondaggio permanente dei cittadini dà l’illusione della sovranità e la sostanza della democrazia plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal populismo, converrà parlare più distesamente.
Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell’autocrate. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo.
Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi», il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue "maledizioni" (Is 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro».
I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l’arte, la scienza o l’attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un’epoca politica», ancora parole di Orwell. «La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse è forse l’esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico", cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d’ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch’essa è sottoposta a "rovesciamenti" di senso, quando se ne parla non come governo del popolo, ma per o attraverso il popolo: due significati dell’autocrazia.
Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all’altro, il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
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Affinché sia preservata l’integrità del ragionare e la possibilità d’intendersi onestamente, le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc. Sono l’estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c’è manifestazione d’arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori – è vero - ma la democrazia vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia sia scritta fuori delle stanze del potere. Sono regimi corruttori delle coscienze fino al midollo, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell’ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la realtà non è più l’insieme di fatti duri e inevitabili, ma una massa di eventi e parole in costante mutamento, nella quale ciò che oggi vero, domani è già falso, secondo l’interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica – dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell’altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici ma come corruttori della politica.
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La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c’è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c’è un grande pericolo, che ci espone a ogni genere d’inganno. Le nostre parole e le cose non devono "andare su e giù". Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l’ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione.
Nelle nostre società invecchiate, indebolite e allo stesso tempo addolcite, emerge con forza l’esigenza collettiva di combattere gli effetti negativi della modernizzazione, che ha creato forme di dominio estreme e ha distrutto la natura conquistandola. Noi cerchiamo di ricomporre un’esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata. Si tratta di ristabilire una relazione tra i termini che le fasi anteriori della modernizzazione avevano contrapposto gli uni agli altri: il corpo e la mente, l’interesse e l’emozione, l’altro e il medesimo. È questo il grande progetto del mondo attuale, il progetto da cui dipende la nostra sopravvivenza, come ripetono i militanti dell’ecologia politica. Ma chi sono gli attori di questa ricostruzione? Chi occupa il posto centrale che nella società industriale fu degli operai, e, in un passato più lontano, dei mercanti che distrussero il sistema feudale?
La mia risposta è che sono le donne a occupare questo posto, perché sono state più di altri vittime della polarizzazione di società che hanno accumulato tutte le risorse nelle mani di un’élite dirigente costituita da uomini bianchi, adulti, padroni o proprietari di ogni specie di reddito e i soli a poter prendere le armi. Le donne sono state considerate allora come non-attori, private di soggettività, definite tramite la loro funzione più che la loro coscienza. Per verificare questa ipotesi, ho ascoltato voci di donne, un modo di procedere poco frequente poiché di solito si parla di vittime ridotte al silenzio piuttosto che desiderose di far ascoltare la propria voce. Il metodo seguito, che deve essere valutato sia per i suoi limiti che per la sua originalità, consiste nel mostrare che la nuova affermazione di sé da parte delle donne è direttamente e profondamente legata al rovesciamento culturale. Questo fa delle donne le attrici sociali più importanti, ma ha come contropartita il fatto che la loro azione non presenta le caratteristiche tipiche dell’azione dei movimenti sociali, fra i quali rientrava, in un passato ancora recente, lo stesso movimento femminista. Coscienza femminile e mutazione sociale non sono più separabili: le donne costituiscono un movimento culturale più che un movimento sociale.
Mi viene rimproverato di attribuire un’eccessiva importanza alla coscienza femminile proprio nel momento in cui le lotte femministe avrebbero ormai perso la loro radicalità e la loro visibilità. Perché scegliere le donne come figura centrale della nostra società quando le disuguaglianze crescono, la violenza si intensifica a livello internazionale ed eserciti e terrorismo si affrontano? Perché non accordare ai grandi dibattiti politici l’importanza che meritano nella misura in cui cercano di tenere insieme unità e diversità, innovazione e tradizione? In fin dei conti, coloro che, uomini e donne, rifiutano nel modo più completo il mio modello di approccio, sono proprio quelli che credono che la dimensione del genere stia a poco a poco perdendo importanza nella vita sociale.
(***)
Il rovesciamento che ci conduce da una società di conquistatori del mondo a una incentrata sulla costruzione di sé ha portato alla sostituzione della società degli uomini con una società delle donne. Non c’è ragione di pensare che la precedente riduzione delle donne in uno stato di inferiorità lasci ora il posto all’uguaglianza. Le donne, oggi, hanno, rispetto agli uomini, una capacità maggiore di comportarsi come soggetti. Sia perché sono loro a farsi carico dell’ideale storico della ricomposizione del mondo e del superamento dei vecchi dualismi, sia perché mettono più direttamente al centro il proprio corpo, il proprio ruolo di creatrici di vita e la propria sessualità. Per un lungo periodo sono stati gli uomini a determinare il corso della storia e a manifestare una forte coscienza di sé. Ma da alcuni decenni ormai, e per un tempo indeterminato (forse senza una fine prevedibile), siamo entrati in una società e viviamo vite individuali il cui "senso" è sempre più nelle mani, nella testa e nel sesso delle donne, e sempre meno nelle mani, nella testa e nel sesso degli uomini.
Riassumendo: l’importante è scegliere. La categoria delle donne, dato che non si può dare di essa una definizione interamente sociale, deve forse essere considerata più debole di una categoria che ha un significato più specificamente sociale, economico o culturale? O, al contrario, bisogna ritenere che al di sopra dei gruppi sociali reali, dei loro interessi e delle loro forme di azione collettiva è necessario collocare le donne intese come categoria e allo stesso tempo come agenti più di quanto non lo siano gli uomini, perché in grado di mettere in discussione i problemi e gli orientamenti fondamentali della cultura? La prima risposta è stata scelta da molti, in particolare dai marxisti, soprattutto, oggi, dagli uomini e dalle donne che difendono il multiculturalismo. Ovviamente io sono tra quelli che hanno scelto la seconda risposta. L’universalismo, che so essere un attributo centrale della modernità, è sinonimo di difesa dei diritti individuali e dei risultati della scienza. E l’importanza fondamentale del femminismo è che, al di là delle lotte contro la disuguaglianza e l’ingiustizia, ha formulato e difeso i diritti fondamentali di ogni donna, ovvero: il diritto di essere un individuo libero, guidato dai propri stessi orientamenti e dalle proprie capabilities, per usare la formula di Amartya Sen che Paul Ricoeur ha ben tradotto con l’espressione «poter essere».
© Librairie Arthème Fayard,2006; © Il Saggiatore, 2009. Traduzione di Monica Fiorini
Ezio Mauro La rivolta dei nuovi esclusi
Prima di criticare l’uso della violenza domandiamoci quanta violenza c’è in questa crisi: condanniamo i colpi prima dei contraccolpi. La Repubblica, 3 aprile 2009
Come una legge meccanica, prima o poi la crisi economica che stiamo vivendo doveva produrre effetti culturali, politici e sociali: ci siamo. I nodi che vengono al pettine, l’altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo, l’altro giorno in Francia, domani in Italia o dovunque nelle capitali del Primo Mondo - tutte uguali e indifferenti come paesaggio della crisi - sono l’inizio del secondo atto di questa rivoluzione in corso nella vita dell’uomo occidentale. Proviamo a misurarne cause, ragioni ed effetti liberandoci subito dal ricatto che ogni volta pesa sulla discussione pubblica, dicendo per oggi e per domani che gli atti violenti sono sempre inaccettabili, da qualunque motivazione siano sorretti. Ma subito dopo domandiamoci: quanta violenza c’è in questa crisi che brucia lavoro, valore, progetti di vita incompiuti, destini? La politica, la cultura, qualcuno di noi si è preoccupato di misurarla, di darle un peso e quindi un nome e un significato di cui tenere conto?
E’ difficile negare l’impressione che i grandi della terra riuniti a Buckingham Palace davanti alla Regina e poi a cena a Downing Street fossero ieri leader senza rappresentanza. Da qualche parte – da qualunque parte nei nostri Paesi – ormai si muove una massa sommersa di persone che fanno separatamente i conti individuali con la crisi, non solo e non tanto in termini di perdita di valore, ma in termini di vita, di sussistenza, di identità e di ruolo sociale. Per loro è tornata centrale, nella nebbia globale della crisi, nello stordimento della finanza, la grande questione novecentesca del lavoro: lo hanno perso, lo stanno perdendo, o non riescono nemmeno a trovarlo una prima volta. E scoprono che senza lavoro, perdono d’importanza i diritti post-materialistici, come li chiamano i sociologi, quelli dell’ultima modernità, che vengono dopo la piena soddisfazione dei bisogni primari.
Anzi, senza lavoro, con ciò che ne consegue, viene meno un interesse per ogni discorso pubblico, per il paese, per la vicenda collettiva. Senza il lavoro, ecco oggi il punto, queste persone si sentono ex cittadini. E quei ragazzi per strada, a Londra svolgevano paradossalmente l’unica rappresentanza oggi visibile di quel mondo che non sa a chi rivolgersi per farsi sentire.
La politica è in difficoltà perché aveva superato la questione del lavoro come se fosse antica. La cultura l’aveva resa impronunciabile, eufemizzandola con parole che non vogliono dire niente, "saperi", "competenze", "professionalità". Il capitalismo aveva addirittura creduto di poter rompere il nesso che per tutto il secolo scorso lo aveva legato al lavoro, liberandosene per proseguire da solo.
Il capitale senza il lavoro è così diventato uno dei motori di questa crisi, perché ha ridotto la complessità della globalizzazione ad una sola dimensione, quella economica, ha sostituito l’autonomia della finanza all’autonomia della politica, resa marginale o servente fino a consumare il nesso che nelle democrazie ha sempre legato i ricchi e i poveri.
Col risultato di far saltare il tavolo della responsabilità democratica che in Occidente teneva insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione e che nello Stato-nazione era anche il tavolo di compensazione dei conflitti, il nucleo stesso del progetto occidentale di modernità, con l’incontro regolato e consapevole tra il capitalismo, il lavoro, lo stato sociale e la democrazia.
É quell’alleanza che oggi è andata in crisi, con devastazioni prima culturali e politiche, poi per forza di cose sociali. Qui è cresciuta la nuovissima separatezza delle élite, che le rinchiude in una legittima aristocrazia dei talenti, incapace però di riconoscere obblighi generali, doveri pubblici, di produrre un dibattito che parli all’insieme del paese e distribuisca valori collettivi.
Attraverso questo meccanismo l’élite si trasforma in classe separata invece di diventare establishment, cioè gruppo dirigente testimone di regole che valgono per tutti e dunque parlano a tutti, esercitando pubblicamente il privilegio di avere responsabilità.
Da qui nasce la frattura sociale che abbiamo davanti e che la crisi porta per strada. Senza questa alleanza occidentale tra capitale e lavoro, tra responsabilità e democrazia può succedere che l’orgia speculativa non solo distorca il mercato finanziario, ma acquisti come già prima del disastro del ‘29 – lo notava Galbraith – una stupefacente centralità culturale nel nostro tempo, dunque una legittimazione collettiva. Col risultato denunciato da Michael Walzer quando «il denaro oltrepassa i confini» e senza più alcuna barriera culturale prova ad acquisire beni sociali come fossero merce, privilegi, favori, esenzioni, ruoli, incarichi, corrompendo. Ecco perché la crisi economica rischia di diventare crisi di legittimità, deficit di uguaglianza, problema di democrazia. Mai il sentimento di esclusione degli sconfitti è stato così forte. Mai l’impotenza della governance mondiale è stata così evidente, aggravata dalla crescita dei bisogni reali, che con i ritmi della disoccupazione sta diventando emergenza. Va in crisi il principio stesso di cittadinanza, il rapporto con lo Stato, la relazione tra libertà e potere, mentre i nuovi perdenti della globalizzazione non hanno più nemmeno un sovrano certo e un territorio definito per muovere la loro protesta.
Dopo aver vinto la sfida del Novecento l’Occidente rischia di perdere qui, di fronte all’unica domanda che conta per gli esclusi: qual è infine l’efficacia della democrazia, la sua capacità di risposta, la sua soglia di sensibilità e di attenzione? Quanta nuova povertà può sopportare in casa sua, dopo aver guardato alla televisione per decenni la povertà atavica degli altri? Quale politica sa produrre? E capace di condivisione, la democrazia, o solo di compassione, cioè di qualcosa che ha valore morale ma certo non politico?
Di fronte a questo malessere democratico che stiamo vivendo nulla è fuori corso come il pensiero di una "rivoluzione conservatrice", centrata su soggetti forti e sull’assenza dello Stato e delle sue regole. Bisognerebbe che la sinistra lo capisse, si ricordasse dei suoi obblighi verso l’uguaglianza, del lungo cammino per l’inclusione, per i diritti, per coniugare le libertà politiche con la sicurezza materiale. Il secolo scorso è stato, alla resa dei conti, lunghissimo, se il progetto della modernità democratica occidentale è durato fino ad oggi, vivo. Gli strumenti della sinistra sono i più adatti a conservarlo, modificandolo sotto la spinta della crisi, ma salvandolo. Basta saperlo. Anche perché se quel progetto salta, non ci sarà più sinistra, nella post-democrazia in cui rischiamo di vivere.
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E´ nell´Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto. L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione. Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta. Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso. È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente. Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione. Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce". Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico � sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo � se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso. Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
La fine delle classi
di Michele Serra
Le vecchie e assurde figure che si trovavano nei sussidiari della nostra infanzia: il solerte mugnaio, l´astuto contadino l´operoso artigiano, il valoroso soldato
Claudio Villa era molto popolare, uno del popolo anche lui, per modi e gusti: impeccabile interprete della tradizione, voce di strada, voce di cortile. Ma ancora più popolari furono i Beatles, popolari in senso planetario e trans-epocale (li ascoltano anche adesso milioni di teen-agers): innovatori geniali, capofila della più grande rivoluzione nella cultura popolare del Novecento. Il popolo è conservatore o progressista?
È popolare, ovviamente, la televisione, ma siamo appena sortiti, qui in Italia, da una accesa discussione sulla popolarità travolgente di Roberto Saviano, in opposizione alla popolarità altrettanto cospicua dei reality-show: e dunque, questo benedetto popolo, preferisce ricordare o dimenticare, impegnarsi o fregarsene, stare in piedi come Saviano o sdraiato come gli stravaccati cronici del Grande Fratello? (Parentesi: popolarissima è anche la radio, con il vantaggio che quasi nessuno se ne è accorto. Se proprio si deve essere popolari, meglio esserlo clandestinamente).
Popolari furono molte rivoluzioni (non tutte), popolari le restaurazioni (quasi tutte). Il popolo è il composto e commovente incedere di Pellizza da Volpedo, ma è anche la sbracata canea delle curve di stadio.
Potremmo continuare all’infinito, giocando sull’ambiguità oramai conclamata del concetto di popolo e di popolare. Gli inglesi se la cavano meglio, usano la parola "people" che è più o meno sinonimo di "gente", possiede già una moderna indeterminatezza, interclassista e neutra, buona per tutti gli usi, meno per gli abusi: perché in nome della gente è meno facile farsi venire le strane idee germinate "in nome del popolo". A noi italiani, invece, impiccia ancora parecchio la storia di questa parola, specie la sua storia politica, il popolo in lotta, le masse popolari, la saggezza del popolo italiano (Berlinguer), el pueblo unido, l’unità popolare (la Banca popolare arriva a ridosso di queste irrequietudini minacciose, e le riconduce sapientemente ai suoi sportelli), le contraddizioni in seno al popolo, il popolo comunista (e per gemmazione quello democristiano, quello socialista, perfino quelli juventino e interista)
Ce n’è abbastanza per capire, specialmente adesso che un miliardario autocrate ha chiamato il suo partito "Popolo della libertà", e per giunta lo ha fatto a furor di popolo, che la parola è vuota come un sacco vuoto. Che indica una quantità e non una qualità, pur possedendone di infinite e di opposte.
È dunque una parola infida e malfunzionante, buona per ogni virtuosa innovazione come per ogni losco calcolo, e sarebbe meglio, molto meglio, arrendersi alla sua fine e imparare a farne a meno.
Forse è solo un caso (magari addirittura un caso clinico) ma la parola "popolo" a me fa venire in mente, per istinto, soprattutto alcune vecchie e assurde figurette del sussidiario delle elementari: il solerte mugnaio, l’astuto contadino, l’operoso artigiano, il valoroso soldato. Un presepe melenso e ruffiano, che suonava insensato già allora e già lì, in quella scuoletta faticosamente post-fascista.
Lo sfarinarsi delle classi sociali, il disfarsi degli alfabeti ideologici almeno qualche vantaggio dovrà pure averlo: per esempio rassegnarsi alla morte di alcuni concetti e di alcune parole, e costringersi a trovarne di nuovi e di adeguati. Ne rimpiangiamo parecchie, di parole, non questa, troppo abusata in passato e nominata quasi sempre abusivamente nel presente. Ci dispiace per Pellizza da Volpedo, meno per altri autori.
Cosa resta del populismo in letteratura
di Alberto Asor Rosa
Di questa massa informe emergono qua e là visioni frammentarie come su una spiaggia marina dopo una tempesta
C’era una volta il populismo. E noi lo combattevamo. A ragione: perché, letterariamente, ci appariva un’espressione arretrata, subalterna e nostalgica rispetto ai grandi filoni decadenti italiani ed europei dell’Otto e Novecento; perché, ideologicamente, rappresentava una visione edulcorata e compromissoria della lotta di classe, la quale invece, quella sì, avrebbe rimesso le cose al loro posto nel nostro paese e nel mondo. E però: Conversazione in Sicilia, Cristo si è fermato a Eboli, Cronache di poveri amanti, persino Speranzella e Quel che vide Cummeo, fino a Ilcapofabbrica e Il taglio del bosco, fino a, apogeo e crisi del neorealismo, Ragazzi di vita e Una vita violenta... Mica male, per un movimento retrogrado e sbagliato.
Qualcuno disse un giorno: non moriremo democristiani. Mai in Italia azzardare previsioni ottimistiche. Quel che abbiamo vissuto poi è un’esperienza diversa da come ce l’eravamo immaginata. Pensavamo classe operaia e popolo nozioni e pratiche politiche nettamente contrapposte, e inconciliabili. Abbiamo scoperto, a spese nostre, ma, quel che più conta, a spese del paese, che il tramonto della classe operaia, – tramonto politico e ideale, beninteso, non sociologico, ché di classe operaia ovviamente ce n’è ancora tanta, in Italia e in Europa, solo che sembriamo accorgercene solo quando si verifica una tragedia in fabbrica o si scopre che vota Lega, – avrebbe trascinato con sé il tramonto e la crisi del "popolo", nozione più evanescente e ondivaga di quella di "classe", e che ha bisogno d’un nocciolo duro per costituirsi e resistere, – per resistere, voglio dire, non solo politicamente ma anche culturalmente.
Di questo transito dalla consistenza al nulla qualcuno, acutissimo, persino s’accorse: Volponi, Memoriale (proletariato industriale) e La macchina mondiale (proletariato agricolo). Qualcun altro, invece (Balestrini, Vogliamo tutto), recependo entusiasticamente, com’era giusto, la spinta operaia in ascesa, invece di andare avanti, tornò, – e non era possibile altra scelta, – al populismo originario.
La situazione ora mi sembra questa: siccome viviamo da berlusconiani, non possiamo constatare che il dominio "demomediodittatoriale" del Nuovo Tipo di Capo poggia sulla definitiva messa in mora della classe operaia come classe politica generale e sulla neutralizzazione e frammentizzazione del popolo come categoria fondativa di ogni sistema democratico correttamente inteso: non più soggetti collettivi di qualsivoglia natura, ma una moltitudine di soggetti individuali che assurgono a politicità solo se si riferiscono al Capo motore immobile del sistema. Questo è il Popolo delle libertà, checché ne pensi, anche lui ottimisticamente, Gianfranco Fini.
Ora la domanda è: la letteratura ha bisogno dei miti? Se no, allora sta facendo il suo mestiere. Di questo popolo disperso e degradato, ridotto a massa informe (quella che a maggioranza vota il Capo), emergono qua e là visioni frammentarie, come su di una superficie marina che, dopo essere stata a lungo in tempesta, si spiana in una calma mortale: in Gomorra di Saviano; nelle periferie catatoniche e selvagge di Lodoli; sugli incerti margini della piccola borghesia in Un giorno perfetto di Mazzucco; in Io non ho paura di Ammaniti; nella Torino post-industriale di Culicchia; nella Napoli sempre più stremata di Da Silva. Il post-populismo è la moltitudine negriana (da Antonio Negri, intendo: Empire), ma tutto in negativo: l’implosione dell’esplosione, se si può dir così, cioè quel che resta di un sogno, quando noi (noi, proprio noi) l’abbiamo costretto ad autonegarsi a favore delle potenze infernali. Il resto è immaginario puro (tipo La solitudine dei numeri primi).
Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato sul testamento biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore, ma la presa di possesso oltrepassa l’organico. È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso intreccio tra materia e spirito, corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere bene, che non è mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo viver bene, il pensiero della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale segmento della strada terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima impara a esser "tutta raccolta in sé"; s’abitua a vivere "senza impacci", più liberamente sceglie la virtù.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.
Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.
La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma "fa vivere": complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: "Adesso lo Stato si crede Dio". Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.
Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: "La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola". Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma "forme di sostegno vitale", dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica.
Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.
Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.
Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, "gettato lontano" nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità.
È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: "A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole" (Kant, Risposta alla domanda: cos'è l'Illuminismo?).
Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.
I lettori dello «Stylus» chiedono particolari sulla demenza rutula. Eccoli, cominciando dai 617 giorni nei quali la cosiddetta sinistra commette uno sbalorditivo suicidio. Mancano solo i berretti a sonagli che gli xilografi del Narrenschiff (Nave dei folli), Basilea 1493, mettono in testa ai matti naviganti: l’ondivago ministro della povera giustizia (che scherzo affidargliela) dissente quand même; estremisti verbosi litigano, gonfi come pavoni; nomenclature del partito futuribile coltivano freddo cannibalismo; il rifondatore comunista, presidente della Camera, discute le scelte governative, cerca Dio, disserta in erre moscia nel lugubre salotto televisivo; tiene la ribalta un minuscolo capopartito sentendosi in pugno le sorti del ministero appese a due voti, quanti sono i parlamentari che gli stanno dietro. In tali acque Leviathan nuota padrone e il governo cade nel tripudio sguaiato della destra.
In sella finge d’essere un altro, senza i denti, la pelle e la coda del Caimano, raccogliendo applausi anche ex adverso, imperdonabili, ma la prima mossa è uno scacco a Dike: il voto servile delle Camere lo consacra immune; finché duri in carica, non è perseguibile, qualunque sia l’accusa; lo scudo copre passato e futuro, lungo futuro perché dopo i cinque anni della legislatura, ne calcola almeno sette, rinnovabili, presidente d’una repubblica da farsa nera. I Rutuli sono eguali davanti alla legge: lodo invalido, dunque; la questione sarà risolta da una Corte ed è prevedibile il pandemonio nell’ipotesi virtuosa, che la dea senza benda sgomini denaro, paura, esche; sarebbe la seconda volta. Pro domo sua batte bandiera garantista, rectius criminofila, col disegno d’una giustizia manovrabile dall’esecutivo: le intercettazioni, ad esempio, vanno proibite dove risultano più utili, affinché i colletti bianchi delinquano tranquilli; e cosa non succederà appena abbia rimosso l’ultimo ostacolo. Il suo Giovanni Battista, patrono, attuale sponsor, è tal Licio Gelli, Venerabile d’una famosa loggia criminalmassonica. La politica diventa stato d’eccezione permanente: vuol comandare con dei decreti che il parlamento converta in legge sull’attenti; l’ultimo istituisce ronde volontarie (seppellendo Stato e diritto, deprecava un monsignore: voce seria; i superiori lo smentiscono, fulminei). La Carta impone dei limiti? Non gli fanno caldo né freddo: basta riscriverla; è vecchia, affetta da vizi congeniti. Monco dell’organo morale ed estetico, ignorante, sopraffattore, offre spettacoli del genere narrato da Ammiano Marcellino nella Roma IV secolo: balla, strepita, ride, plagia, azzanna, froda; gli serve una Rutulia istupidita, gaglioffa, questuante, sbracata, ridanciana, e da trent’anni se la lavora mediante ipnosi televisiva seminando un’asfissiante volgarità. L’ha nell’ugola e viene fuori, incoercibile come i versi d’Ovidio. Nella conferenza stampa col capo d’uno Stato straniero biascica dei fonemi. Praticanti d’alfabeto labiale leggono: «moi je t’ai donné ta femme»; no, informano gli addetti all’augusta parola, ricordava d’avere «étudié à la Sorbonne». Allora parliamo latino, «risum teneatis».
«Stylus» è rivista colta. I lettori domandano se abbia precedenti nella storia rutula. Sì, molti. Non erano meglio i signorotti la cui fine miserabile, per mano del duca Valentino, Niccolò Machiavelli racconta ai Dieci, die prima ianuarii 1502, testimone diretto in Senigallia, ma Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Francesco e Paolo Orsini (gli ultimi due strangolati 18 giorni dopo, quando Sua Santità Alessandro VI s’era impadronito del cardinale Giambattista), nonché l’antagonista Cesare Borgia, usavano armi povere, in piazze esigue dagli equilibri instabili, mentre i media posseduti da costui lavorano midolla, neuroni, ghiandole. Frollati al punto giusto, i sudditi non percepiscono più quel che avviene, né avvertono le contraddizioni: dimenticano l’appena accaduto; intrattengono falsi ricordi; odiano a comando; parole, frasi discorsi, gesti, sono materia regolata dal Cervello collettivo. L’icona del regime è uno spegnitoio: quel cono nero sulla punta della pertica con cui i sacrestani estinguevano le candele; «abajo la inteligencia», gridava un capobanda franchista
Siamo nel laboratorio d’Alcina, vecchia fattucchiera: in pubblico compare sotto varia cosmesi, artefatto dai capelli ai tacchi, mentre lo schermo dei meeting presenta un enchanteur, giovane, magro, sorridente; fotografie d’alto valore clinico lo fissano nella posa della soubrette, braccia levate, palme in fuori, un piede avanti, l’altro sulla punta, e spalanca le fauci a salvadanaio. Lo spirito scende nelle parti molli del ventre. La Rutulia però è l’unico paese evoluto dove lo Stato paga i preti perché insegnino dogmi nelle sue scuole, e la religione farà media con lingue, storia, filosofia, matematica, scienze naturali. Particolare curioso: in articulo mortis quel Vitellozzo Vitelli invoca l’assoluzione plenaria dal papa, complice del figlio nell’agguato mortale; ancora adesso qualcuno crede che i papi abbiano le chiavi del cielo. Pochi giorni fa un tribunale condanna a quattro anni e sei mesi l’avvocato londinese falso testimone D.M.; era reo spontaneamente confesso; una sua lettera al consulente fiscale spiegava la fonte dei 600 mila dollari: regalo d’un cliente affinché nascondesse pericolosi affari fiscali. Risarcirà i danni alla presidenza del consiglio, costituita parte civile. Qui saltano fuori i berretti a sonagli: presidente del consiglio e corruttore unus et idem sunt, Leviathan, allora (1998) ex capo del governo, rivincitore predestinato, ora intoccabile.
La xilografia da cui è tratta l'icona, e che è riportata nell'articolo, "illustrava il poema morale e satirico di Sebastian Brant La nave dei folli (1494). Due stolti accolgono sulla propria barca Adamo ed Eva, accompagnati dai simboli della loro vicenda nel Paradiso Terrestre (l'albero delle mele proibite e il serpente tentatore)" (da encarta).