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Giorgio Napolitano
Lezione sulla democrazia e la costituzione
23 Aprile 2009
Difendere la Costituzione
Il testo integrale della lezione del Presidente della Repubblica alla “Biennale Democrazia”, Torino, 22 aprile 2009, dal sito della Presidenza della Repubblica

Spero non vi stupirà che io parta, in questa mia riflessione, da un racconto personale. Sono in effetti convinto che non sia superfluo ricordare – anche col contributo di chi può darne testimonianza – di quale storia sia figlia la nostra democrazia repubblicana, e quella Costituzione che ne rappresenta insieme lo spirito, l’impalcatura e la garanzia. Non è superfluo vista la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia un’acquisizione sofferta collocandola nel grande solco del pensiero e del progresso liberale e democratico dell’Europa e dell’Occidente.

Parto dunque dal racconto personale.

Avevo appena compiuto diciott’anni quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini. Imprevedibile anche nella forma, che aveva un sapore di rito antico, da lungo tempo dimenticato: accettazione, da parte del Capo dello Stato, delle dimissioni del Capo del governo. Si seppe poi che il dimissionamento di Mussolini era stato provocato dal fatto, anch’esso inaudito, di un voto di sostanziale sfiducia adottato, con sorprendente procedura democratica, dal massimo organo dirigente del Partito al potere, di cui Mussolini era sempre stato arbitro assoluto. Al fondo di quei pur imprevedibili eventi vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell’andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione. Di questo ero stato anch’io testimone e partecipe vivendo l’odissea dei cento bombardamenti che avevano colpito la città di Napoli.

La notizia della caduta di Mussolini e del suo governo suscitò perciò un immediato senso di liberazione: dal fascismo e, ci si illuse, dalla guerra. Torno con la mente alla sera del 25, e ancora ricordo come condivisi con l’amico che mi era più vicino quel momento di eccitazione e di euforia. Avevamo già da tempo maturato, insieme con altri della nostra generazione, non solo la più radicale contrapposizione al fascismo ma anche la convinzione, cui pure non era stato facile giungere, che la salvezza per l’Italia potesse venire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate. E in effetti fu determinante l’avvicinarsi delle forze anglo-americane, dalla fine del 1942, al territorio italiano fino ad invaderlo e percorrerlo a partire dal Sud, dalla Sicilia.

Le posizioni cui ero venuto aderendo da quando nel primo semestre del 1942, frequentando l’ultimo anno di liceo a Padova, avevo scoperto la politica e l’antifascismo, potei ritrovarle e approfondirle nel gruppo di giovani di cui entrai a far parte iscrivendomi all’Università di Napoli. Ma quelle posizioni non potevano abbracciare le conseguenze che avrebbe avuto il ritiro dell’Italia sconfitta dalla alleanza con la Germania nazista. All’indomani della liberazione di Napoli dal terrore tedesco e dell’arrivo delle truppe alleate alla fine di settembre del 1943, ebbi la percezione più diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, chiamata a vivere, dopo la liberazione, l’esperienza dell’occupazione americana: un’esperienza caotica e febbrile, per il “saltare del coperchio” – secondo il ricordo e la descrizione dell’allora giovanissimo scrittore Raffaele La Capria – per il cessare della lunga “costrizione (parole, sempre, di La Capria) del regime, della guerra, dei bombardamenti quotidiani, della paura, della fame, dell’isolamento.”

La realtà del paese era questa – non facile oggi da immaginare per chi non ne abbia personale memoria come me, e perciò ho voluto rievocarla – ed era quella della guerra che (lungi dal concludersi secondo le speranze del 25 luglio) continuava a flagellare il resto dell’Italia rimasta nel cerchio dell’oppressione nazista, da Roma in su, lasciando dovunque un’eredità di lutti e di macerie.

Fu dunque da una realtà disperante che si dové partire per rifondare la democrazia in Italia. Valgano le scarne, drammatiche frasi annotate nel suo diario, il 15 dicembre 1943, da un grande intellettuale antifascista, Benedetto Croce, identificatosi da studioso con la causa dell’unità italiana e con la storia dello Stato unitario :

“Sono sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, è distrutto. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire, senza più guardare indietro, frenando il rimpianto.”

In effetti, quelle forze ideali si manifestarono nello stesso non breve tempo dell’occupazione tedesca nel Centro-Nord – in una Italia “tagliata in due” – attraverso lo sviluppo della Resistenza in armi e di una generosa mobilitazione di popolo in nome della libertà, dell’indipendenza, della dignità della patria italiana.

Ma, finita la guerra, l’avvenire andava affrontato avviando la ricostruzione materiale del paese paurosamente sconvolto e immiserito, e ripristinando condizioni essenziali di governabilità democratica. E questa prima tappa fu percorsa sotto la guida dei governi di coalizione antifascista che si succedettero tra l’aprile del 1944 e il 1945 a Liberazione dell’intera Italia ormai conclusa. Le tappe successive furono quelle che scandirono un impegno di ricostruzione, non meno necessaria e vitale, sul piano politico e statuale. Con la creazione della Consulta nazionale si diede vita a un organismo rappresentativo – ancorché non elettivo – del risorto pluralismo politico. Con l’istituzione del Ministero per la Costituente si gettarono le basi di quella che avrebbe dovuto essere la missione di un’Assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare una Carta Costituzionale. Infine, con il riconoscimento del diritto delle donne a votare, e ad essere elette, già nelle prime libere elezioni amministrative, si predisposero le condizioni perché le decisive prove del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente si svolgessero finalmente, per la prima volta nella storia d’Italia, a suffragio universale.

Così rinacque la democrazia in Italia, su basi più ampie e solide che mai nel passato; e rinacque in pari tempo con il ricostituirsi dei partiti, dei sindacati, di altre organizzazioni sociali e libere associazioni, di organi di stampa indipendenti e rappresentativi di una pluralità di opinioni; rinacque con il crescere di una partecipazione senza precedenti dei cittadini alla vita pubblica. Non voglio, sia chiaro, suggerire un’immagine idilliaca di quegli anni da cui sarebbero scaturite la scelta della Repubblica e la Costituzione; l’acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata; e dinanzi al rinascente ruolo dei partiti sorse anche un movimento per contestarlo, (il cosiddetto “Uomo Qualunque”) e non senza successo. Ma non c’è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall’alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l’elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l’avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall’antifascismo – della Costituzione repubblicana.

Il confronto in Assemblea Costituente e il suo approdo finale, il testo votato da una maggioranza del 90 per cento il 22 dicembre 1947, furono, certo, profondamente segnati dalle dure lezioni del passato – il crollo dello Stato liberale, l’avvento di una dittatura personale e di partito, la scelta fatale delle guerre di aggressione. Ma essi rispecchiarono nello stesso tempo il tendenziale dinamismo della società italiana in condizioni di ritrovata libertà, e lo slancio popolare verso un nuovo e più giusto ordine economico e sociale, verso un assetto autenticamente democratico.

La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere. Essa fu preparata da indagini a tutto campo e cospicue pubblicazioni del Ministero per la Costituente, che esplorò tra l’altro le Costituzioni e le leggi elettorali dei principali altri paesi, mettendo a confronto le esperienze altrui e le condizioni del nostro paese. La Carta che scaturì dall’Assemblea Costituente, nacque dunque guardando avanti, guardando lontano: essa seppe – partendo da esperienze drammatiche, di cui scongiurare ogni possibile riprodursi – dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell’Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche; quelle prospettive furono affidate a uno sforzo sapiente, nelle formulazioni e negli indirizzi della Carta, per tenere aperte le porte del nuovo edificio alle imprevedibili evoluzioni e istanze del futuro.

I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola.

Principi cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati; diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili.

Questo è un punto sul quale vale la pena di insistere. La Costituzione non è una semplice carta dei valori. Essa ha certamente una forte carica ideale e simbolica, capace di ispirare e unire gli italiani. Ma i suoi ideatori mirarono a farne un corpo coerente di principi e norme che avessero, senza eccezione alcuna, “un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione per il giudice”. Con quelle parole si espresse il Presidente della Commissione dei 75 che in seno all’Assemblea Costituente aveva predisposto il progetto di Costituzione; e la prima sentenza della Corte Costituzionale istituita nel 1955 stabilì che anche le disposizioni cosiddette programmatiche contenute nella Costituzione avevano rilevanza giuridica.

Insomma, la Costituzione repubblicana non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte; ma nemmeno si limitò a formulare valori nazionali, storico-morali, unificanti. La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata: applicata non una volta per tutte, ma in un processo inesauribile di adesione a nuove realtà, a nuove sensibilità, a nuove sollecitazioni. Così l’hanno intesa ed applicata governi e Parlamenti della Repubblica, così l’ha intesa, e ha vegliato sul suo rispetto, la Corte Costituzionale.

E’ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito e viene “disciplinata” la stessa volontà sovrana del popolo (Fioravanti 2009). Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l’elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone. Questa è caratteristica essenziale della moderna democrazia costituzionale, quale si è voluto fondarla in Italia, con il più ampio consenso, alla luce delle esperienze del passato e con l’occhio rivolto ai modelli dell’Occidente democratico. Comune a quei modelli, pur nella loro varietà, è il senso dei limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.

Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa: ben al di là di una superficiale e generica attestazione di lealtà. Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell’espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.

Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l’affermazione della sua intoccabilità. Ho già detto delle potenzialità che presentano principi e indirizzi introdotti nella Costituzione repubblicana in termini tali da tenere le porte aperte al futuro: è perciò giusto e possibile avere della nostra Carta una visione dinamica, scavare in essa per coglierne tutte le suggestioni attuali. Si deve così far vivere la Costituzione: come in sessant’anni si è già, attraverso molteplici contributi, teso concretamente a fare.

Nello stesso tempo, va ancora una volta ripetuto che gli stessi padri Costituenti vollero prospettare possibili esigenze e precise procedure di revisione della Costituzione. Il testo entrato in vigore il 1° gennaio 1948 è stato d’altronde già toccato, già riveduto in decine di articoli, qualcuno dei quali, in anni recenti, di notevole rilievo, e in un intero Titolo della Seconda Parte. E su ulteriori revisioni il discorso è non solo pienamente legittimo, ma per generale riconoscimento obbiettivamente fondato. Ad una revisione più ampia della Costituzione si lavorò concretamente in Parlamento nel 1993-94, nel 1996-97 e nel 2004-2006, sulla base di procedure esse stesse integrate rispetto a quelle segnate nell’art. 138.

Nessuno di quei tre tentativi di riforma – relativi alla seconda parte della Costituzione, e cioè all’“ordinamento della Repubblica” – è, in diverse circostanze e per diverse ragioni, andato a buon fine. Ma le forze politiche presenti in Parlamento convergono largamente sulla necessità che quell’“ordinamento” richieda di essere riveduto e adeguato in più punti. Non si può solo denunciare il rischio che esso sia stravolto. Si ricordi che se ne postulò, nel modo più autorevole già dopo le elezioni del 1992, una revisione che incidesse “nell’articolazione delle diverse istituzioni”: ridefinendone i caratteri, le prerogative, il modo di operare dell’una o dell’altra, e ridefinendo gli equilibri tra esse.

Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo – nell’esercizio del ruolo attribuitomi dalla Costituzione – esprimere indicazioni di merito, suggerire ipotesi di soluzione, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata “stagione costituente”. Non c’è da ripartire da zero; non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, da tendere a conflittualità rischiose e improduttive; occorre che da tutte le parti si dia prova di consapevolezza riformatrice e senso della misura.

Non c’è da ripartire da zero, anche perché sia attraverso revisioni parziali della Carta del 1948, sia attraverso innovazioni nelle leggi elettorali e nei regolamenti parlamentari, nonché in rapporto a cambiamenti prodottisi nel sistema politico, i termini di diverse questioni sono già sensibilmente mutati. E’ in corso una visibile evoluzione – in senso regionalistico federale – della forma di Stato; e in quanto alla forma di governo, pur essendo essa rimasta parlamentare, non trascurabili sono le nuove modulazioni che ha già conosciuto.

Nell’ambito della forma di governo parlamentare, che è quella di gran lunga prevalente in Europa, sono possibili, e in effetti si sono espressi, equilibri diversi tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e potere legislativo, e anche tra questi due poteri e quello giudiziario. La Costituzione italiana del 1948 fu certamente contrassegnata da un’accentuazione delle prerogative del Parlamento rispetto a quelle del governo. Le esigenze di stabilità e di efficienza decisionale di quest’ultimo rimasero allora in secondo piano. Ma molte cose sono via via cambiate, già negli anni ’80 con le riforme dei regolamenti parlamentari, e sempre di più a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare (in un suo recente scritto) “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.

E allora, è del tutto legittimo politicamente, ma partendo da questi dati di fatto, e dunque senza cadere in enfasi polemiche infondate, verificare quali concreti elementi di ulteriore rafforzamento dei poteri del governo, e di chi lo presiede, possano introdursi sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti.

Quel che è risultata, anche di recente, condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale. Ne scaturirebbe anche una razionalizzazione del processo legislativo, e con essa quel “legiferare meglio” che viene giustamente sempre più spesso invocato.

Vorrei però a questo punto allargare la visuale della mia riflessione per cogliere – al di là dello specchio spesso deformante delle dispute politiche strettamente italiane – questioni e dilemmi che attraversano, e già da tempo, il discorso sulla democrazia in Occidente. Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche: nelle quali, a una crescente complessità dei problemi e a un tendenziale moltiplicarsi delle domande e dei conflitti, non corrispondono capacità adeguate di risposta, attraverso decisioni tempestive ed efficaci, da parte delle istituzioni.

Nell’affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all’inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia “il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza”, esso stava finendo per assumere un segno opposto, “non l’eccesso ma il difetto di potere”. E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema: “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie”. Un monito, quest’ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.

Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull’altare della governabilità, in funzione di “decisioni rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.

Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento: a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.

In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare. Grande è certamente la difficoltà del governare in condizioni di pluralismo sociale, politico e istituzionale, e ancor più in presenza, oggi, della profonda crisi che ha investito le nostre economie. Ma non c’è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l’apporto della rappresentanza.

E a ciò non si sfugge nemmeno nei sistemi politico-istituzionali che sembrano assicurare il massimo di affermazione del potere di governo affidato a una suprema autorità personale. Mi riferisco naturalmente a sistemi e modelli autenticamente democratici come quello presidenzialista degli Stati Uniti d’America: dove, al di là del mutare o dell’oscillare, nel tempo, dell’equilibrio tra Presidente e Congresso, a quest’ultimo, cioè alla rappresentanza parlamentare, nella sua netta separazione dall’esecutivo, viene riservata sempre un’ampia area di influenza e di intervento – e in definitiva l’ultima parola – nel processo deliberativo. Anche nei momenti, aggiungo, di emergenza e urgenza nazionale, come ci dicono le recenti vicende del complesso rapporto – sul terreno legislativo – tra il nuovo Presidente, la nuova Amministrazione americana, e il Congresso degli Stati Uniti.

Si parla da tempo, e spesso, di crisi della democrazia rappresentativa, in riferimento all’indebolirsi delle sue istituzioni e della fiducia che in esse ripongono i cittadini. Ma da più parti si sono venute positivamente proponendo concezioni più ampie, che vedono – si è scritto – “la rappresentanza come processo che connette la società e le istituzioni”, che affidano alla politica le responsabilità di un legame operante “tra l’interno e l’esterno delle istituzioni politiche”, l’attivazione di una “corrente comunicativa” – espressione che a me pare molto felice – “tra società civile e società politica” (Urbinati, 2006). E in questo senso si è in effetti venuto aprendo il campo di ricerche e proposte interessanti per giungere a forme concrete di democrazia partecipativa e deliberativa diffusa: forme concrete sperimentabili in particolar modo attraverso il raccordo tra assemblee elettive regionali e locali e realtà associative e canali di consultazione e di coinvolgimento dei cittadini in trasparenti processi decisionali. Non una datata contrapposizione ideologica, cioè, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ma uno sforzo d’integrazione tra istituzioni, nell’esercizio delle loro funzioni e prerogative, ed espressioni di un più vasto moto di partecipazione democratica a tutti i livelli.

L’esigenza di suscitare la vicinanza e l’adesione, non passiva ma vigile e propulsiva, dei cittadini alle istituzioni democratiche, l’esigenza di evitare un fatale indebolimento di queste ultime per effetto di tendenze al distacco, alla sfiducia, all’indifferenza da parte dei cittadini, appare complessa come non mai nell’attuale fase storica – ed è questo l’ultimo punto che vorrei brevemente toccare.

E’ in atto da tempo un passaggio dalle dimensioni nazionali della sfera decisionale a dimensioni ultranazionali, europee e globali: e c’è da chiedersi se sia praticabile in questo nuovo contesto quella che si è venuta costruendo in Occidente come democrazia rappresentativa. Questa si impose – ha osservato un eminente studioso dei sistemi democratici, Robert Dahl – con il passaggio storico dalle città-Stato agli Stati nazionali: si è ora in presenza di un “cambiamento altrettanto importante per la democrazia” per effetto del passaggio delle decisioni pubbliche a dimensioni transnazionali.

Vengono di qui interrogativi di fondo sulla possibilità di controllare democraticamente le organizzazioni internazionali, le decisioni prese a quel livello. E questi interrogativi stanno assumendo – appare chiaro – una stringente attualità. Sulle risposte ipotizzabili il dibattito è aperto in tutta la sua complessità. Ma io desidero richiamare l’attenzione su un processo che è già in atto e che può rappresentare un approccio fecondo al discorso sul governo della globalizzazione: parlo del processo delle integrazioni regionali, continentali o sub-continentali, che si è concretamente prodotto in Europa ma tende a prodursi anche fuori d’Europa.

La Comunità e quindi l’Unione Europea hanno rappresentato forme originali, da oltre cinquant’anni a questa parte, di esercizio condiviso della sovranità al livello sovranazionale. Ed è peraltro un fatto che alla crescita di questa esperienza, dai primi Trattati tra i sei paesi fondatori in poi, si è accompagnata la preoccupazione di un deficit democratico, in quanto le decisioni si concentravano in istituzioni come la Commissione e il Consiglio che sembrarono a lungo sfuggire a un controllo democratico. A differenza, si diceva, delle istituzioni tradizionali degli Stati nazionali. Ma essendo un fatto irreversibile la perdita da parte di questi ultimi di quote crescenti della loro sovranità, imponendosi sempre di più – e mai come oggi questa ci appare un’esigenza imperiosa – decisioni e politiche comuni al livello europeo, non poteva non sorgere la questione del dar vita a istituti e forme corrispondenti di democrazia sovranazionale.

Ebbene, questa esigenza dopo essere rimasta, per non breve tempo, largamente insoddisfatta, ha via via trovato sbocco nel rafforzamento dell’investitura e del ruolo del Parlamento europeo. Non si può certo dire che ogni insufficienza, ambiguità e contraddizione, sia stata risolta. Ma passi in avanti decisivi sono stati compiuti, dall’elezione diretta, a suffragio universale, del Parlamento europeo all’attribuzione, che gli è stata sempre più riconosciuta, di poteri determinanti nella formazione delle leggi dell’Unione, e anche di più incisive funzioni di indirizzo e di controllo nei confronti dell’esecutivo, identificato nella Commissione di Bruxelles. Il Parlamento europeo si sta dunque affermando come l’istituzione sovranazionale per eccellenza e come garante della legittimità democratica dell’Unione: dovrebbero esserne consapevoli gli elettori chiamati di qui a poco a votare per il Parlamento di Strasburgo.

Nello stesso tempo, con il Trattato costituzionale poi abortito ed egualmente, però, con il Trattato di Lisbona di cui si sta completando la ratifica, si sono aperte nuove possibilità di cooperazione e sinergia tra istituzioni europee, segnatamente il Parlamento europeo, e i Parlamenti nazionali; e nuove possibilità di comunicazione e di dialogo strutturato tra istituzioni europee e società civile. Non a caso dunque l’esperienza dell’integrazione europea viene ormai assunta come riferimento – anche sotto il profilo della governabilità democratica – per gli analoghi processi che si avviano in altri continenti e per le strade da intraprendere sul piano globale.

L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta. Per consolidare, far vivere e crescere la democrazia in Italia e in un mondo in così impetuosa trasformazione, bisogna non solo “presidiare” la Costituzione, tutelare e riaffermare i principi e i diritti che essa ha sancito alla luce di dure lezioni della storia; bisogna di continuo calarla nel divenire della società italiana e anche della società internazionale.

Sappiamo quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese: orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano via via nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.

In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane – vere e proprie, preziose riserve di energia – su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale. Se ne può trarre, io credo, un buon auspicio anche per il manifestarsi, più in generale, di quella sensibilità democratica e di quell’impegno dei cittadini, a sostegno dei principi e degli indirizzi costituzionali, di cui ho appena indicato la necessità. Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri – perciò, oggi, di lì ho voluto partire – si è mostrata capace. L’occasione per mostrarcene ancora capaci è data dalla crisi profonda che ha investito, in un contesto mondiale nuovo e complesso, l’economia e la società italiana. L’appello è ad esserne, ciascuno di noi, pienamente all’altezza.

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