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I ritratti si fanno con le luci e con le ombre, poichè di ombre e luci è fatta la realtà. Ripubblichiamo qui un interessante dibattito tra due persone che si stimavano, e perciò si criticavano: Valentino Parlato e la nostra collaboratrice Carla Ravaioli. Ci sembra che questo dialogo riveli le ombre del "veterocomunismo".

”Il disastro ambientale. Ne discutono molto animatamente Carla Ravaioli, e Valentino Parlato”. Su il manifesto del 4 febbraio 2007" (in eddyburg il 9 agosto 2008)

Carla Ravaioli e Valentino Parlato, un'ecologista e un economista, disputano da molti anni sui problemi centrali della nostra vita

Valentino. D'accordo, avete ragione. Però tra voi ambientalisti c'è una componente di fondamentalismo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta succedendo, ti sembra il caso di parlare di fondamentalismo?
V. Mi riferisco a quelli che mi annunciano di continuo la fine del mondo. E se domando quando accadrà, mi rispondono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nessuno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha parlato del 2050, data da cui cominceremo a consumare il Pianeta, non più i suoi frutti. La Commissione Europea pone i prossimi cinquant'anni come lo spazio entro cui dovremo darci molto da fare per contenere l'effetto serra, se no saranno guai tremendi...

V. Ma voglio insistere sui lati deboli dell'ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mercificazione dell'ecologia, attraverso la pubblicità o che altro...
C. Ma non vedo come questo possa apparire un lato debole dell'ecologismo. E' invece la denuncia di un fenomeno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e moltiplicandone all'infinito la produzione, crea lo squilibrio ecologico.

V. Cioè, l'economia capitalistica riesce a integrare, a trasformare in merce anche le vostre posizioni?
C. Accade, sì. Pensa al business verde che oggi tutti inseguono furiosamente... ti pare un fatto positivo? Che riduca il rischio ambientale?

V. No.
C. Appunto. Io cito questo fatto per sottolineare la pervasività, l'onnipresenza, la capacità di raggiungere ogni espressione della realtà che sono tipiche del neoliberismo. Il consumismo, una delle cause prime della crisi ecologica, nasce così, con una manipolazione continua dei cervelli.

V. Avete un atteggiamento strano. Lo trovo anche scorrendo i tuoi scritti... L'economia, che era la radice del progresso e del benessere, è diventata cattiva.
C. L'economia capitalistica...

V. Voi enfatizzate in modo fondamentalistico l' idea che la distruzione dell'ambiente dipende dal capitalismo, dai meccanismi di accumulazione.
C. Non c'è proprio bisogno di enfatizzare. E' l'accumulazione in sé che contraddice la realtà naturale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi ribadire i punti fondamentali del problema. 1) Il nostro pianeta è una quantità finita e non dilatabile, incapace quindi di alimentare un'economia in continua crescita (ricordando che tutto quanto si produce è «fatto» di natura, minerale, vegetale, animale); 2) Analogamente, il pianeta non è in grado di assorbire, metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, derivanti da ogni tipo di produzione. I quali inquinano terra, acque, aria, causando lo squilibrio dell'ecosfera.

V. Rifiuti che diventano un'altra base di speculazione capitalistica...
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno collaterale».

V. Sei tu che ne parli. C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, neanche tanto piccolo. A me pare che tu, da sempre notoriamente in posizione di drastico rifiuto verso l'ambientalismo, oggi che è ormai impossibile negare l'esistenza del problema, tendi a cogliere gli aspetti più discutibili della militanza verde. Che esistono, come no, ma che inseriti innanzitutto nel discorso generale acquistano un altro valore... Non è così che potrai negare o sminuire la gravità della crisi ecologica.

V. Secondo me l'ambientalismo attuale è romantico. Se dite che i guasti dell'ambiente sono causati dal capitalismo, dovete dire di conseguenza: il nemico principale da abbattere è il capitalismo.
C. Io lo dico. Anche in questi pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qualificati che si occupano della materia, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Giovenale, a Passet, a Foster, a Beck, a Cini, (per limitarmi a pochi nomi) accusano il capitalismo. Ma anche chi non lo nomina direttamente, lo dice quando indica la crescita illimitata come responsabile del dissesto ecologico. Certo, c'è anche un bel po' di ambientalisti che evitano con cura di accusare il capitalismo.

V. Io sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole un potere.
C. Faccio fatica a seguirti su questa strada...

V. Insomma come lo blocchi il disastro del mondo?
C. Io credo che occorra una rottura culturale, una discontinuità storica. Il mondo cambia senza sosta. Le vecchie rivoluzioni non servono più. Oggi bisognerebbe liberare i cervelli: il consumismo è una delle peggiori forme di corruzione mentale, anzi esistenziale, oltre che una delle prime cause del guasto ecologico.

V. Il consumismo non è colpa dei consumatori, ma dei produttori che spingono i consumatori a consumare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.

V. Allora, siccome i produttori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le risposte (che io ovviamente non ho, che credo nessuno oggi abbia) forse si dovrebbe cercare di porre le domande giuste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa riferimento ai modelli storici delle sinistre, che non servono più. La storia è una lunga serie di fatti che prima non c'erano stati. La Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Sovietica, sono stati eventi mai accaduti prima. E se oggi l'intera comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione.

V. Allora anche Kyoto è stata una rivoluzione ...
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timidezza delle proposte, e soprattutto l'ostilità dei grandi potentati economici, e la mancata firma di numerosi stati, Usa in testa, l'hanno di fatto vanificata. E' rimasta però un preciso antefatto per tutte le direttive a seguire. Ma, permettimi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attaccheresti? Dato e non concesso che in difesa dell'ambiente tu voglia abbattere questo potere, da dove cominceresti?

V. Comincerei dagli oppressi. Un'organizzazione forte e anche violenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Perché combattere il consumismo, significa fronteggiare interessi fortissimi, e ci vuole un forza enorme per vincerli.
C. Quali oppressi? Ce n'è di tanti tipi... Io proverei a fare un altro discorso. Tra le sinistre e l'ambientalismo, non' c'è mai stato un feeling positivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sinistre innanzitutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peggio di sé. L'errore delle sinistre è innanzitutto aver trascurato il fatto che a pagare più pesantemente i danni ambientali sono sempre i poveri. Sono gli operai che lavorano su processi tossici e cancerogeni. I morti della Montedison, di Seveso, di Bohpal, te li ricordi? Sono quelli che non riescono a salvarsi dalle alluvioni, i ricchi se le cavano sempre in qualche modo... E i profughi da terre desertificate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi sommersi nella costruzione di centrali idroelettriche... Oggi si calcolano sui 50 milioni i profughi ambientali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti questi?

V. Ma voi questo aspetto sociale lo mettete poco in rilievo...
C. Io l'ho sempre detto. E scritto, anche sul manifesto. Ma le sinistre sono rimaste ferme a una miope difesa della fabbrica, anche inquinante, in nome dell'occupazione. Che è un problema reale, chi lo nega, ma non cancella la gravità del problema ecologico, anche in rapporto al benessere dei lavoratori.

V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scempiaggini di un antindustrialismo indiscriminato. Gli ambientalisti seri devono darsi da fare per superare queste posizioni.
C. E le sinistre devono capire che la crescita da loro invocata ogni tre parole non solo distrugge l'ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il prodotto ha continuato a salire, ma sono aumentate, e fortemente, anche le disuguaglianze. Lo dicono tutti, persone al di là di ogni sospetto di estremismo, come Stiglitz, Fitoussi, e Soros, perfino Lutwak... Allora perché proprio le sinistre debbono intestardirsi su questa strada?

V. Ma insomma per i poveri Cristi, che si fa? Chávez, ad esempio, è socialista, per prima cosa vuol dar da mangiare agli affamati, e che fa, aumenta lo sfruttamento del petrolio, cerca di venderlo bene... E' un circolo vizioso.
C. Usa gli strumenti disponbili. Che altro può fare? Oggi tutti i massimi problemi hanno assunto una dimensione sovranazionale, che però condiziona anche i singoli paesi. Sono problemi che soltanto a livello sovranazionale si potranno risolvere, forse. E non dimentichiamo un altro fatto: La Fao, che non è un organismo antisistema, afferma che la produzione mondiale di cibo basterebbe a sfamare tutti. Ma circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difendere varie categorie di produttori, ecc. Non si tratta dunque di produrre di più, ma di distribuire in modo meno iniquo.
V. I verdi di distribuzione non parlano. Inoltre la distribuzione avviene in questo modo perché ci sono poteri forti interessati a questo. come fare senza abbattere quei poteri? Tra voi ambientalisti, l'idea di abbattere un potere non c'è. Vogliamo costruire un potere contrapposto, vogliamo che insieme al problema dello sfruttamento proletario, tema fondamentale di tutti i vecchi socialismi, anche la distruzione dell'ambiente diventi fondamentale per le sinistre d'oggi. Quello che ci vorrebbe è un nuovo comunismo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stantibus, riduciamo la produzione, noi facciamo solo disoccupazione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi progressi, scientifici e tecnologici, oggi saremmo in condizione di sconfiggere la povertà, di dare benessere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di persone affamate, mentre in Occidente l'obesità da sovralimentazione è diventata una malattia sociale: una sorta di tremenda metafora della società attuale. Saremmo in grado di produrre il necessario e anche non poco superfluo per l'intera popolazione del globo, lavorando tutti un tempo molto limitato. E invece abbiamo masse di disoccupati e di precari, gente soggetta a sfruttamenti da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati. Il tutto per produrre quantitativi crescenti di merci inutili, di durata sempre più breve, per lo più destinate nel giro di poche settimane a finire in discarica. E si torna all'inquinamento del mondo: tutto si tiene. Queste sono le tue res. Per esempio, riprendere l'idea della riduzione degli orari di lavoro, riprenderla seriamente, non sarebbe un buon inizio per smuoverle?
V. La riduzione degli orari non mi pare al centro del discorso ecologista...
C. Certo che no. Ma in fondo l'ambientalismo è un movimento, compito dei movimenti è porre una questione. La sintesi politica è compito delle forze politiche. E d'altronde l'ambientalismo indica soluzioni...
V. Sì, la decrescita. La decrescita, scusami, è una scemenza totale.
C. Non sono d'accordo. Certo, la decrescita non è un programma. Però indica inequivocabilmente quella che è la causa principale della crisi ecologica, cioè l'accumulazione capitalistica. E in un mondo che sa dire solo crescita crescita, gridare decrescita significa mettere la crescita, il Pil, la produttività, la competitività, tutti i totem dell'economia neoliberista, in rapporto con il disagio e le paure che lo squilibrio ecologico ha ormai creato tra la gente. Il movimento della decrescita riflette su un tipo di vita che non continui a mettere a rischio l'ecosistema e la nostra stessa sopravvivenza. Perché questo bisogna fare: ripensare radicalmente il nostro vivere.
V. No, contro tutto questo o il movimento ecologista diventa comunista o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sinistre che debbono diventare ambientaliste, facendo proprio tutto il positivo che l'ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una politica completamente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella storica, che pur combattendo e spesso vincendo grosse battaglie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discussione l'ordine dato. Tu vorresti che i verdi diventassero comunisti... Ma quanti sono i comunisti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.
C. Tu prima avevi ragione parlando di un nuovo comunismo. Ma le sinistre, nel loro non facile rapporto con i Verdi, non si sono accorte della dimensione eversiva che l'ambientalismo contiene. Che consiste appunto nella critica dell'accumulazione, che nessun comunismo, da Lenin a D'Alema, ha mai messo in discussione. Ma, il mondo è cambiato e diventa sempre più piccolo. Come dice Wallerstein, non ci sono nuovi spazi da occupare e utilizzare per la produzione di plusvalore, mentre la crescita, oltre ad essere ecologicamente distruttiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risultati apprezzabili. Sarebbe necessario rileggere in questa chiave i problemi del mondo per tentare di mettere a fuoco un nuovo comunismo.
V. Fino a che voi Verdi non vi metterete in testa che occorre qualcuno che comandi, sarete solo dei predicatori inutili. Non basta dire cose giuste. Attorno agli obiettivi giusti bisogna organizzare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivoluzione armata, insomma...
V. Non penso alle armi, ma a un partito, a una forza sociale e anche politica e di cultura.
C. Io alla necessità della forza non ci credo, non ci voglio credere. La forza, anche usata per i fini migliori, finisce per imporre all'operazione un'impronta negativa, un'ipoteca che la snatura. E però, sono d'accordo, sarebbe necessario un soggetto forte che si facesse carico del problema. Io da tempo penso all'Europa. L'Europa con la sua storia, la sua cultura... L'Europa certo colpevole di orrendi misfatti, dal colonialismo alla shoah, ma anche patria dell'illuminismo, del socialismo, dei diritti del cittadino, dello stato sociale... potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orientare il mondo, o quanto meno di sollecitarlo a farsi carico di un problema sempre più urgente. Certo, con questi industriali che non capiscono che stanno distruggendo la base stessa della loro attività....Se il mare cresce, il deserti avanzano, i cicloni si moltiplicano...
V. Tra quanti anni questo accadrà?
C. Sta già accadendo. E un domani che pareva lontano è ormai qui.
V. Ma anche le energie rinnovabili... Se fai andare lo stesso meccanismo col sole o col vento invece che col petrolio, le cose non cambiano. E i Verdi puntano solo su questo...
C. Con energie rinnovabili attive su vasta scala i gas serra diminuirebbero, e questo non è trascurabile. Ma, sono d'accordo, è necessaria una strategia molto più complessa. I Verdi propongono anche molte altre cose, ma un compito di questa portata, come arrestare la catastrofe ecologica, cioè necessariamente cambiare il modello di produzione, distribuzione e consumo, non è cosa che possano fare i Verdi. Questo è un compito che tocca alle sinistre.
V. Sono d'accordo. Il difficile è il come...
C. Se ci fosse una precisa, consapevole, volontà politica delle sinistre, sarebbe una buona base di partenza. E ci sono anche cose che si potrebbero fare subito. Ad esempio, riscaldamento e refrigerazione: invece di soffrire il caldo d'inverno e il freddo d'estate, come accade oggi, regolare le temperature sui 20-21° d'inverno e 28-29° d'estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un risparmio energetico niente male, eh?
V. Hai detto che si possono fare più cose...
C. Sì. Fabbricare merci destinate a durare di più, come accadeva una volta, e non programmare automobili, frigoriferi, lavatrici, da sostituire nel giro di quattro-cinque anni. E' una cosa che non richiederebbe riconversioni industriali, solo volontà politica.
V. Con caduta dei consumi...
C. Appunto. Si parlava di rivoluzione, no? Ma si potrebbe pensare a una cosa che proponevo nel mio ultimo libro. Oggi le amministrazioni di sinistra, centrali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse confrontasse le proprie scelte economiche con una serie di norme da osservare, domandandosi ogni volta se si tratti di cosa necessaria, se non esistano più urgenti priorità, quali siano le ricadute dell'opera sul piano ambientale, sociale, sanitario, ecc. In Sicilia, ad esempio, non sarebbe il caso di risanare ferrovie vetuste o addirittura abbandonate, di riparare acquedotti che perdono quantitativi enormi di un liquido sempre più prezioso, o magari di fornire cancelleria ai tribunali, lenzuola agli ospedali, ecc. prima di ostinarsi sul ponte di Messina? Certo, se le sinistre fossero vere sinistre... O ancora: se il mondo decidesse di non fabbricare più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni pacifiste o semplicemente umane. Pensiamo solo a quanto inquina la produzione di quantitativi sempre crescenti di armi, il loro trasporto, e il loro «consumo». Ma, se mi consenti, vorrei finire con un'altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il manifesto in tutto ciò potrebbe avere una funzione non trascurabile. Perché il manifesto è un giornale, ma è anche un soggetto politico. Ecco, perché il manifesto non fa propria la battaglia ambientalista, con dibattiti anche duri, magari con sedute di autocoscienza, ma anche con pubblici confronti con le sinistre istituzionali? Sono convinta che la cosa potrebbe risultare utile. Anche alla diffusione del giornale. Perché no?
V. «Sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole
un potere...»
C.«La storia è una sequenza di fatti nuovi. E se oggi la comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione»

Una famiglia modello, forte perfino di ascendenze nobiliari legate alla storia risorgimentale. Un amore modello, nato nei banchi del liceo e cresciuto nella collaborazione professionale, stesso studio in pieno centro dietro piazza delle Erbe, commercialista lui avvocata lei finché lei non decide di fare solo la mamma. Un indizio da psyco-noir, lui era rimasto orfano a sei anni di tutti e due i genitori morti in un incidente stradale, e sei anni aveva il secondo dei suoi tre figli freddati con un colpo di pistola. Due colpi ci sono voluti invece per lei, che forse ha provato a schivare il primo. Uno solo per se stesso. Dicono gli esperti, snocciolando i precedenti di analoghe stragi, che si chiama «suicidio allargato» e che può essere causato da un attacco di depressione o di paranoia persecutoria: ci si uccide portandosi appresso i propri cari, in modo che la famiglia modello resti tale anche nell'aldilà.

Altri esperti, dell'Eures, però fanno notare altre circostanze. In Italia, nei cassetti o nelle cantine delle case delle famiglie modello, ci sono dieci milioni di armi da fuoco: corte o lunghe, da caccia, da tiro a segno, da difesa, tutte legali, alcune ereditate o inservibili, molte perfettamente efficienti. E dopo l'approvazione, nel 2006, della sciagurata legge che ha ampliato il perimetro della legittima difesa, le richieste per il porto d'armi dilagano, specialmente nelle grandi città. Anche per questo gli esperti hanno una diagnosi: è la risposta alla «insicurezza percepita». La depressione e la paranoia qui non c'entrano: il mandante è lo stato, il parlamento che promulga queste leggi, i partiti che rubano voti alimentando e sfruttando la paura degli immigrati, le televisioni che ci campano e ci marciano.

Che sia la depressione, la paranoia o l'insicurezza percepita, le famiglie modello continuano a vincere l'oscar annuale in omicidio. Un omicidio su tre, una vittima ogni due giorni, 1.300 in sei anni, un aumento percentuale del dodici per cento nel 2006 rispetto al 2005: ne uccide più la famiglia che la mafia e la tanto «percepita» microcriminalità. Ne uccide più al Nord, Sodoma, che al Sud, Gomorra. Uccide preferibilmente le donne, 134 su 195 vittime nel 2006, e preferibilmente le casalinghe fra i 25 e i 54 anni, quelle stesse madri, mogli, figlie, sul cui lavoro di cura si reggono in Italia il mercato del lavoro disintegrato e il welfare smantellato. Le uccide generalmente in casa, nove volte su dieci per mano di un uomo, usando le suddette armi da fuoco ma anche più caserecci coltelli. Le donne che oggi manifestano in tutta Italia contro la violenza sulle donne conoscono e denunciano questi dati da anni, senza altra risposta che le geremiadi e le promesse di rito della giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Forse la strage di Verona, come quelle identiche che l'hanno preceduta e che seguiranno, non c'entra nulla con tutto questo. Forse è stata solo un attacco di depressione o di paranoia di un povero uomo. Forse invece questi attacchi di depressione e paranoia convocano una responsabilità ben più larga. È sempre la nave dei folli che traccia la rotta di una società.

Aspettando la rivoluzione, di Antonio Ghirelli è un libro di straordinaria utilità (dico utilità) in questa brutta e lutulenta stagione nella quale gli ideali si riducono a interessi o si esasperano nella disperazione autolesionista. Antonio Ghirelli, che è duttile e tenace compagno, un socialista di qualità in poco meno di duecentocinquanta pagine ci racconta - senza distacco «scientifico», ma con partecipazione umana - cento anni di storia della sinistra italiana.

A cominciare dagli anarchici, da quello straordinario e tragico personaggio che fu Carlo Cafiero, dalla banda del Matese, e poi ancora ad Andrea Costa, a Filippo Turati (forse il più intelligente protagonista del socialismo italiano), fino a Pietro Nenni e ai sui incontri con Benito Mussolini.

Il leit motiv è l'attesa della rivoluzione, sempre aspettata e sempre rinviata. Il che potrebbe costituire la vera sostanza della rivoluzione («il movimento è tutto» aveva detto qualcuno), ma nel libro c'è l'amarezza dell'attesa sempre prolungata e anche il rovello del perché. Perché la rivoluzione, più precisamente la trasformazione della società, la conquista dell'eguaglianza e della libertà non è stata possibile. Perché i capitalisti continuano a comandare, perché il capitalismo impone i suoi meccanismi anche in Cina, dove ci sarebbe un potere comunista e dove una rivoluzione indubbiamente c'è stata?

Franco Rodano scriveva che il capitalismo era il nuovo Proteo, capace di cambiare continuamente di forma tanto da essere inafferrabile. Rodano, con intelligenza, era un po' fatalista e ci diceva che se continuiamo ancora ad aspettare la rivoluzione non è tanto colpa nostra, quanto piuttosto merito del Proteo-Capitalismo. Antonio Ghirelli, forse meno fatalista e più fiducioso, sta attento agli errori e ai limiti di tutti quelli, che, come noi, aspettavamo e aspettano ancora la rivoluzione.

Piero Craveri nella sua recensione, sul Sole 24 Ore di domenica 11 febbraio, individua la causa della vana attesa «nell'irriducibile contrasto interno alla sinistra tra la sua componente riformista e quella più radicale». Certo, nella narrazione di Ghirelli, che è piena di riferimenti storici approfonditi, questo contrasto è messo in evidenza molto bene, ma resta - a mio parere - un interrogativo. Perché in Italia ci sono state più riforme nella situazione descritta da Craveri, che non nei tempi di trionfante riformismo?

Certo, aspettavamo la rivoluzione, ma nel frattempo quante riforme ha prodotto la pressione del Pci, che poi, quasi sempre, votava no? Giorgio Amendola, per il quale io ero un ragazzo di bottega, cercò (con successo) di spiegarmelo. Il Pci votò contro la Cassa del Mezzogiorno, ma senza le lotte del Pci la Cassa del Mezzogiorno non ci sarebbe stata. E così l'Iri e addirittura il ministero per la programmazione con Antonio Giolitti, e i patti agrari e l'equo canone e il Piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio e poi ancora lo Statuto dei lavoratori di Gino Giugni, che, certo, fu gambizzato dai «rivoluzionari».

Tutto questo per dire che, certo, il contrasto tra riformisti e rivoluzionari non è buono, ma ancora peggio stanno le cose quando si scende al riformismo debole, oppure - anche con qualche buona intenzione - (penso al ministro Bersani) al riformismo liberale, quello che dice di volere liberare il mercato dai vincoli corporativi.

Il punto è che oggi non c'è più contrasto tra riformisti e rivoluzionari, c'è la morta gora e c'è (Antonio Ghirelli consentirà) un tale impoverimento e corporativizzazione della politica che i contrasti del passato tra riformisti e rivoluzionari ci sembrano un motore da Ferrari.

Il libro di Ghirelli è - lo ripeto - ottimo e di grande utilità per chi lo legga, ma non condivido affatto l'ultima frase: «La ragione profonda della crisi sta, tuttavia, nell'incertezza in cui si dibatte la sinistra tra il richiamo alla vecchia cultura del movimento, compresi naturalmente i rancori e i risentimenti del passato, e l'esigenza di misurarsi con la nuova società e il suo incontenibile dinamismo».

Dove Ghirelli vede questo dinamismo non lo so, ma lui che è un vecchio e serio compagno, proprio nei giorni scorsi sul Riformista ha scritto un articolo dal titolo «Saremo il primo paese senza socialisti?». Appunto. È l'incontenibile dinamismo.

I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.

Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?

I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.

Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.

I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?

La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provinc

L’internazionalizzazione dei mercati ci sta accanto come uno spettro cui non sappiamo ancora dare un nome perché il suo volto è ambiguo e le menti non sono esercitate a pensare in grande: la globalizzazione promette ai poveri l’uscita dalla miseria, e ai ricchi promette ottimi affari di alcuni industriali ma un impoverimento generale delle società. Le cose si fanno più chiare quando si guarda al nostro pianeta malato, alla possibile bancarotta dell’abitare umano sulla terra: 2 gradi di riscaldamento in più sono rovinosi, il livello del mare che si alza pure. Se continua lo scioglimento dei ghiacciai antartici e della Groenlandia scompaiono Londra, New York, Miami, Olanda, Bangladesh, Venezia. Qui veramente siamo di fronte a un tutto che rende vana ogni illusione di poter vivere da soli, difendendo il proprio particolare. Qui i più svariati eventi nazionali e mondiali s’intrecciano come mai in passato, e obsoleta è ogni distinzione tra vicino e lontano.

La Conferenza che si è conclusa a Bali è un piccolo passo avanti, anche se parziale. Prevale la resistenza di dirigenti intrisi d’inerzia, contrari a obiettivi cifrati di riduzione del gas serra, ed è straordinario come gli Stati Uniti, icona del moderno, appaiano la più inerte, retrograda delle potenze. A Bali hanno però suscitato ira, e alle spalle di Bush c’è un’America che vuole agire sul clima (500 sindaci e la metà degli Stati): l’amministrazione può sprezzarla, non ignorarla.

L’Europa non ha strappato obiettivi cifrati ma è percepita come avanguardia e può sperare che la conferenza di Copenaghen nel 2009 riconosca i fallimenti di Kyoto e fissi più severi traguardi. Ha anche ottenuto che i Paesi poveri e in sviluppo partecipino allo sforzo, ma che i ricchi contribuiscano di più e aiutino, avendo ridotto il pianeta a quello che è.

Una cosa comunque è chiara: c’è un legame tra l’evento di Bali e quel che viviamo ogni giorno; non sono sconnessi i negoziati sul clima, la collera dei camionisti per l’aumento del gasolio, gli aumenti di pasta, latte, grano, carne. Siamo assuefatti all’energia a buon prezzo che emette anidride carbonica, e toccherà disintossicarsi. Abbiamo alle spalle un trentennio di cibo poco caro (1974-2005), e anch’esso appartiene al passato, come ha scritto l’Economist. «La festa è finita!», afferma l’accademico Richard Heinberg in un libro omonimo (ed. Fazi, 2004). Secondo alcuni il punto critico, di non ritorno, è imminente e forse già passato. È tempo di cessare le dispute e di agire. È tempo di cambiare parole cui eravamo avvezzi, dottrine che sembravano sicure, abitudini.

Una delle prime conseguenze è il ritorno della politica, dopo anni di perentoria certezza liberista. I governi sono diventati comitati d’affari di lobby industriali, sulla scia di quest’ideologica certezza: ma sono industrie che dovranno trasformarsi, e sono sindacati che non hanno minimamente pensato il clima mutato. Anche la festa liberista è finita, perché le virtù d’un mercato senza regole né interferenze si son rivelate illusorie. Lasciato a se stesso, esso ha generato catastrofi. «Siamo davanti al più grande fallimento del mercato che il mondo abbia mai visto», ha detto in una conferenza a Manchester del 29 novembre l’economista Nicholas Stern, che nel 2006 aveva presentato a Blair un rapporto sul clima. E si è spiegato così: «Coloro che danneggiano gli altri emettendo gas serra generalmente non pagano». Nessuna mano invisibile ha permesso che le condotte irresponsabili, sommandosi, producessero vantaggi. Per questo c’è di nuovo bisogno di Stato, di forza della politica. Solo la politica può frenare il precipizio, perché frenarlo vuol dire pagare prezzi ben salati, tassare la gente in nome del pianeta, spendere meno, consumare diversamente, tener conto del mondo e non solo di se stessi. D’un tratto, alla luce del naufragio terrestre, la politica liberista sembra vecchissima, pre-moderna. È prigioniera di lobby che hanno tuttora un potere soverchiante ma destinato all’anacronismo: lobby petrolifere e di vario tipo. È significativo che Obama, candidato democratico alla presidenza Usa, riscuota sempre più successo con un discorso tutto incentrato sull’autonomia del politico da lobby e sondaggi.

Smarriti davanti a quel che accade, ci mancano le parole e quelle che usiamo sono false e diseducative. Dovranno sparire parole come manovra, perché dire manovra anziché risanamento rimanda a loschi affari di corridoio, che screditano il governante. Sparirà la certezza di poter ridurre le tasse facilmente. Sparirà anche la retorica sulla libertà (del popolo, dell’individuo) contrapposta allo Stato: i margini di libertà si restringono, non è vero che possiamo produrre, consumare come vogliamo. Sparirà, si spera, lo sguardo solo nazionale sulla politica: la fine del cibo a buon mercato è mondiale. I produttori ci guadagneranno, e non bisogna dimenticare che tre quarti dei poveri sulla terra abitano zone rurali; che il nefasto divario cinese tra campagne e città sarà mitigato. I prezzi alti sono per i poveri una dannazione quando consumano, una manna se producono. Anche la fine del petrolio a buon mercato aiuta a cercare fonti alternative. In fondo lo Stato dovrà organizzare un impoverimento costruttivo, mirato. Solo lo Stato può accingersi a sì ciclopica impresa.

Il ritorno della politica è colmo di pericoli autoritari e pur essendo ineluttabile non avverrà senza traumi. Perché sarà difficilissimo per tutti: per gli stati, i sindacati, gli industriali e per ogni cittadino, soprattutto nei Paesi ricchi. È un processo che comporta importanti metamorfosi del modo di pensare la politica.

La prima metamorfosi riguarda il rapporto tra politica, mezzi di comunicazione e scienza: rapporto torbido, distorto. La politica sa che esiste ormai una verità scientifica sul destino terrestre, ma per inerzia continua a disputare come se il clima fosse una discriminante fra destra e sinistra: è una cecità condivisa dalla stampa. Nelle riviste scientifiche esiste oggi un consenso pressoché totale sul clima. Non nei giornali generici, dove contano più le lobby e i politici reticenti che gli scienziati. I politici temono di apparire impotenti, impopolari: per questo si concentrano su fatti contingenti (i camionisti, in Italia) pur di non spiegare come il rincaro degli alimentari sia ormai strutturale e duraturo. Perché non dire il vero? Il cibo costa ovunque di più, per precisi motivi. I raccolti in alcune regioni del mondo sono più vulnerabili al clima (Australia, Africa, Brasile, Kazakistan). C’è poi negli Stati Uniti la spregiudicata corsa all’etanolo, unita al solipsistico sogno d’indipendenza energetica. L’etanolo ha ingigantito i prezzi del mais con cui è prodotto, e spinge al rialzo tutti i cereali. La corsa è spregiudicata perché l’America è intervenuta con sovvenzioni pubbliche per coltivare più mais (7 miliardi di dollari l’anno), e questo ha decurtato le scorte cerealicole mondiali, scoraggiato il più pulito etanolo brasiliano (estratto da zucchero), esteso la deforestazione.

Nel rapporto con la scienza i politici si comportano come il cardinale Bellarmino con Galileo: non vogliono vedere il reale, invitano gli scienziati a parlare ex suppositione, «per ipotesi», purché sia salva la Sacra Scrittura. Per il politico sono sacri i sondaggi, ma il rifiuto di guardare nel cannocchiale di Galileo è lo stesso. Non stupisce la doppia dipendenza di Bush dalle lobby e dai fondamentalisti cristiani.

La seconda metamorfosi, legata alla prima, riguarda i costi di riparazione del pianeta. Anche qui, il politico dovrebbe sapere che essi infinitamente minori rispetto ai benefici futuri. Secondo Stern, urge tagliare l’1 per cento del prodotto lordo nel mondo, ogni anno, per decenni, se si vuol evitare che i costi dell’inazione si quintuplichino. Ma quell’1 per cento resta pur sempre gravoso: 600 miliardi di dollari. Significa più tasse, e posti di lavoro perduti. Le misure dovranno esser «radicali, urgenti e costosissime», scrive John Lanchester sul London Review of Books del 22 marzo scorso. Tutte le invettive contro tasse e stato converrà rimeditarle, davanti all’enormità dei prezzi da pagare per riparare il clima.

La terza metamorfosi riguarda ciascuno di noi: produttori o consumatori. Anche il nostro rapporto con la scienza è religioso: ci crediamo ma senza conoscere, dunque crediamo male. Immaginiamo di poter fare a meno della politica, dello Stato, convinti magari che i forti vinceranno. Non è così. I forti di oggi domani s’indeboliranno. Alcune nostre abitudini diverranno talmente costose, a causa del carbonio emesso, che un giorno saranno proibitive. Avremo case meno scaldate, pagheremo alte imposte, saremo un po’ più poveri. Prima o poi smetteremo la costruzione frenetica di aeroporti, visto che gli aerei emettono quantità gigantesche di anidride carbonica. Verrà il giorno in cui si rinuncerà ai Suv, queste auto assassine del clima. La situazione non cambia se dalla benzina si passa all’etanolo e si garantisce un’«energia più efficiente»: secondo la Banca Mondiale, il mais che serve per un Suv può nutrire una persona per un anno.

I prezzi alimentari sono la cosa che capiamo di meno, perché è colpito il nostro quotidiano, e per questo è essenziale che la pedagogia occupi il centro della politica e estrometta il voler compiacere sempre. Se i prezzi aumentano è perché il mondo, meno iniquo, ha cominciato a divenire più ricco. Un’ingente parte dell’umanità - Cina, India - mangia carne oltre a cereali. Lamentarsene è insensato oltre che scandaloso moralmente. C’è bisogno di molto più grano per alimentare gli animali che per fabbricare pane: ci vogliono tre chili di cereali per un chilo di carne di maiale, 8 per un chilo di carne di bue. Questo è tutto.

La tentazione è grande di parlare di apocalisse. Ma nell’apocalisse sono due le vie. Una è quella del tutto è permesso: festeggiamo, visto che non avremo discendenti. L’altra prepara il futuro, trattiene il disastro con l’azione. Nel secondo capitolo della Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi, si parla del katèchon che trattiene la venuta del Male con mezzi terreni, in attesa di interventi divini. Il katèchon per gli stoici è qualcosa di più semplice: è fare il proprio dovere, rispettando l’altro e la natura anche se la terra viaggia verso la conflagrazione.

Nel terzo anno in cui si celebra la "giornata del ricordo" delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano – nella data del Trattato di Pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, sessant’anni fa - è forse possibile comprendere ciò che l’iniziativa ha stimolato e ciò che ha lasciato ancora in ombra. Indubbiamente ha contribuito al superamento di una prolungata rimozione, ha permesso il riemergere della memoria dolente e ferita di una lacerazione significativa: eppure qualcosa sembra ancora sfuggire, la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente.

Certo, è cresciuta la consapevolezza che il dramma del secondo dopoguerra è parte di una storia più lunga, e su questo si sofferma ora in modo puntuale un saggio di Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale (Il Mulino, pagg. 392, euro 27). Da tempo gli studi della Cattaruzza hanno richiamato l’attenzione su questo nodo, e hanno contribuito al tempo stesso a inscrivere il tragico epilogo della vicenda istriana in una vicenda più ampia, anch’essa largamente rimossa. Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo era il titolo di un volume da lei curato qualche anno fa assieme a Marco Dogo e Raoul Pupo che collocava l’esodo giuliano all’interno dell’Europa del 1945: con particolare riferimento alle feroci espulsioni di milioni di tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, e alle ancor più feroci espulsioni reciproche di polacchi ed ucraini da aree che li avevano visti convivere per secoli.

L’Italia e il confine orientale è interamente dedicato alle vicende specifiche e di lungo periodo di quest’area: l’acutizzarsi delle tensioni fra nazionalità già all’interno dell’impero asburgico; la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale e l’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e poi la politica del regime; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941 e poi l’operare – dopo l’8 settembre del 1943 - della "Zona di operazioni Litorale Adriatico", alle dirette dipendenze della Germania. In questo quadro incandescente – in cui gli odii fra nazionalità erano già portati all’estremo - si inserì la politica di Tito, volta esplicitamente ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia. Di qui i traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.

Una storia di lungo periodo, dunque, tratteggiata efficacemente molti anni fa in uno dei tanti, densi romanzi dello scrittore istriano Fulvio Tomizza, La miglior vita. Su questa stessa storia rifletteva già nel 1947 Ernesto Sestan, il grande storico di origine istriana, che dedicava «alle ceneri dei miei vecchi, là nel cimitero di Albona» un libro di straordinaria e dolente finezza intellettuale, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale. Il dolore non faceva velo alla lucidità critica dello storico, capace di tratteggiare magistralmente l’inasprirsi dei nazionalismi ottocenteschi, e poi le responsabilità del fascismo. «Un fascista giuliano che sarà poi ministro di Mussolini», annotava Sestan, «ha riassunto così "il programma di snazionalizzazione: "Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (…). Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie"». I più, nella popolazione italiana, "applaudirono o assentirono tacendo".

In questo quadro irrompe la guerra, e nel 1941 vi è l’occupazione della Jugoslavia da parte della Germania, dell’Italia e dell’Ungheria: quell’aggressione congiunta, osserva Marina Cattaruzza, «implicava per il popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione», provocava «un senso di giustificata angoscia» per la possibilità stessa di sopravvivere come entità collettiva.

Abbiamo da tempo documentati studi sulla crescente ferocia dell’occupazione fascista della Slovenia, così come sul trauma dell’8 settembre e poi sul controllo nazista del territorio. Per una breve fase in Istria, in quel settembre, sono i partigiani jugoslavi a tenere il campo, e si ha allora la prima esplosione di violenze anti-italiane. Si svolge in quei giorni anche il dramma di Norma Cossetto, uccisa barbaramente a ventitré anni: un libro di Frediano Sessi, Foibe rosse (Marsilio, pagg. 149, euro 12) lo ricostruisce con sensibilità e partecipazione. Ai molti studi sulla tormentata e complessa fase che porta al dopoguerra si aggiunge ora uno sguardo non riducibile a schemi e a odii, una "anomalia" di grande umanità: Borovnica ‘45, al confine orientale d’Italia. Memorie di un ufficiale italiano, di Gianni Barral (a cura di Renzo Timay e con penetranti Note di inquadramento storico di Raoul Pupo). Il testo è pubblicato dalle Edizioni Paoline (pagg. 303, euro 16), ma era già comparso nella rivista Zaliv (Il golfo), fondata e animata dallo scrittore sloveno di Trieste Boris Pahor.

È davvero una testimonianza particolare. Agli inizi del 1943 Barral è un giovane studente di origine provenzale, ufficiale degli alpini, inviato a presidiare la Valle dell’Isonzo: scopre qui il mondo sloveno, nella cui cultura e nella cui lingua si immerge con passione. Conosce, anche, la ragazza che poi sposerà. Il suo sguardo ci avvicina a un caleidoscopio di culture e di vicende, ci fa scoprire inaspettati momenti di solidarietà umana e di pietas anche all’interno delle diverse fasi di una guerra feroce, e di un feroce dopoguerra: nel maggio del 1945, dopo un complesso percorso, Barral è deportato appunto nel campo di concentramento di Borovnica, un inferno. Per la sua conoscenza dello sloveno è utilizzato nell’amministrazione del campo, e ce ne riferisce. Il maggio del 1945 è anche il mese che segna il culmine delle violenze anti-italiane a Trieste, Gorizia e nelle zone controllate allora dai partigiani jugoslavi, con migliaia di persone gettate nelle foibe o uccise nelle prigioni e nel corso di disumani trasferimenti (muoiono in questo modo anche sloveni e croati ostili al nuovo regime).

Inizia allora la fase che porta alla Conferenza di Parigi, cui Alcide De Gasperi si presenta con amara e lucida consapevolezza: «Prendendo la parola a questo congresso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me» (è il tema de L’Italia e il trattato di pace del 1947 di Sara Lorenzini, pubblicato ora da Il Mulino, pagg. 218, euro 12). Prende avvio in quei mesi il grande esodo: «I fuggiaschi di Pola e dell’Istria», scriveva Giani Stuparich, «sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie». Si alternano allora speranza e disperazione, alimentate sino al "Memorandum di intesa" del 1954 dalle discussioni fra le potenze sulla definizione dei confini: e l’esodo non conosce più freni quando quei confini appaiono ormai tracciati.

È la vicenda che ci è stata raccontata con grande intensità da Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, o dall’Enzo Bettiza di Esilio, e da una miriade di altre voci. A lungo inascoltate, o quasi, ci hanno riproposto straniamenti e sofferenze, non solo materiali. Hanno disegnato l’immagine di un’Italia che «all’inizio è stata una matrigna», per citare una delle testimonianze proposte da Enrico Miletto in Istria allo specchio (Franco Angeli, pagg. 288, euro 16). Utilizzando con intelligenza e attenzione un’ampia mole di fonti orali Miletto ricostruisce le molteplici vie che disperdono istriani e dalmati nell’umiliante esperienza dei campi profughi e altrove, in un’Italia che mostra spesso estraneità, incapacità di accogliere. Continuando un lavoro precedente (Con il mare negli occhi, pubblicato sempre da Angeli) Miletto pone quella Italia, in realtà, di fronte a uno specchio impietoso.

Una storia lunga, dunque, un intrecciarsi di dolori e lacerazioni che possiamo comprendere appieno solo ponendo a confronto punti di vista differenti, facendo dialogare le diverse e opposte memorie che in questa storia si sono sedimentate, al di qua e al di là di confini che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Questo in larga misura ancora ci manca, e a colmare questa lacuna occorre lavorare. Possono acquistare ulteriore, positivo significato in questo quadro quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia che sono ancora allo studio, e di cui si è parlato anche di recente. All’interno della costruzione di un’Europa più ampia atti pubblici di questo tipo sono stati compiuti da tempo in paesi segnati da lacerazioni del passato ancor più profonde. E naturalmente atti simbolici diventano realmente fecondi se li accompagnano processi culturali capaci di coinvolgere in profondità la società, la scuola, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo ancora lontani da questo. Siamo lontani da un confronto diffuso di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime, e che permetta a ogni comunità nazionale di riconoscere anche le proprie responsabilità. Alcuni anni fa una commissione storico-culturale italo-slovena ha segnato comunque un avvio importante, mentre nei rapporti con la Croazia le rigidità e le difficoltà sembrano maggiori anche su questo terreno. È solo piccola parte, naturalmente, del più ampio confronto culturale che riguarda un’Europa segnata sotterraneamente più di quanto si creda da traumi lontani: lo hanno segnalato l’estate scorsa le accese polemiche suscitate in Germania, in Polonia e altrove da una mostra berlinese sulle espulsioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale del 1945. Misurarsi con ferite talora nascoste, rimuovere sordità, far dialogare memorie ancora tenacemente divise appare oggi aspetto non secondario e non superfluo di un impegno culturale.

Sulle foibe, altre letture consigliate anche al Quirinale: Corrado Staiano, Claudia Cernigoi e Galliano Fogar.

Poltiglia di massa, indifferente al futuro e ripiegata su se stessa. Mucillagine inerte e inconcludente. Coriandoli individualisti che galleggiano solo per appagato imborghesimento. Aspirazioni senza scopo e senza mordente che separano e non uniscono. E su tutto, istituzioni incapaci di riattivare processi di coesione sociale. Sono citazioni testuali dal Rapporto Censis 2007, che stavolta non risparmia né i sostantivi né gli aggettivi per descrivere lo stato di vulneralbilità della società italiana. E non risparmia neppure l'autocritica. De Rita ci aveva provato, negli anni passati, a battere sul tasto dell'ottimismo: mentre altri piangevano sul declino, lui puntava sul «silenzioso boom». Che c'è stato e continua, grazie anche alle astute strategie di consumo post-Euro degli italiani e malgrado sia sabotato dai salari scandalosamente bassi e dal debito pubblico. Però, e questo è il punto, il silenzioso boom non fa sviluppo, non fa legame, non fa progetto, non fa speranza. A differenza che sotto il boom fragoroso degli anni Cinquanta, la società italiana non vola e non decolla: «antropologia senza storia», è intrappolata nell'inerzia di un presente depresso e senza futuro che progressivamente uccide la sua - per il Censis proverbiale - vitalità.

L'economia non è tutto, e questo ogni buon sociologo lo sa. Ma stavolta anche il sociologo vacilla: «Il benessere piccoloborghese degli ultimi decenni ha creato un monstrum alchemicum che ci rende impotenti, come di fronte a una generale entropia». La sensazione diffusa di una deriva verso il peggio in tutti i campi della vita individuale e collettiva, dalla politica allo smaltimento dei rifiuti, non si spiega solo con gli indicatori sociali. Il sociologo fa ricorso alla psicologia: le pulsioni frammentate che vincono sulle passioni unificanti, il «masochismo ansiogeno» che trapela dall'ansia di comparire in tv. Ma anche questo non spiega tutto. La crisi, De Rita deve dirlo a chiare lettere citando Melanie Klein, è di ordine simbolico: sta nella regressione individualistica di tutti i valori di riferimento - laici e religiosi, dalla libertà al lavoro all'etica pubblica - un tempo interpretati collettivamente. E si sa, citiamo invece Julia Kristeva, che quando crolla l'ordine simbolico sale il sole nero della malinconia.

Come sconfiggere questa malinconia? Non, dice il Censis, con i giudizi morali, o moralistici. Non con l'invocazione dell'uomo forte. Non con i riti fondamentalisti che resuscitano i simulacri di identità sepolte. Ma nemmeno resuscitando il simulacro di una politica sfinita. Qui il Rapporto si fa spietato: «l'offerta culturale e politica che oggi tiene banco è un'offerta taroccata dalla logica vuota degli schieramenti». Se c'è un antidoto alla malinconia, sta nelle «minoranze attive» che crescono, al riparo del sole nero, nel sottosuolo: lì c'è ancora vita e senso. Lì, può ancora esserci politica. Diventare minoranza, come diceva un filosofo, è l'unico progetto, se la maggioranza è diventata poltiglia.

E' l'antipolitica che parla per bocca di un sociologo impolitico? O è solo uno sguardo non professionalmente politico che può cogliere come la politica professionale muore, e dove c'è ancora politica sorgiva? Stona, di fronte a una diagnosi tanto allarmante sullo spirito del tempo, il silenzio o la pochezza dei commenti dei politici deputati. Quelli che oggi si riuniscono alla Fiera di Roma, tentando di ridare senso alla parola «sinistra», speriamo meditino questa diagnosi. Qualcosa s'è rotto nel profondo della società italiana. L'entropia non domanda aggiunte ma tagli. Il sole dell'avvenire non basta a sconfiggere il sole nero. I simboli contrattati a tavolino non stuccano le crepe dell'ordine simbolico. Il passaggio è stretto, ma è solo nei passaggi stretti che qualcosa può venire al mondo.

Lo sappiamo. "Ne uccide più la lingua che la spada", "le parole sono pietre", "i cattivi maestri"... Ma il passaggio dalla saggezza popolare, dall´indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è complicato, e può risultare distorcente.

Hanno ragione gli storici con il loro Manifesto di critica alla proposta del ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un problema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia della galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una tensione morale.

Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero certamente, dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all’articolo 21 della nostra Costituzione, all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma siamo di fronte anche a interrogativi che riguardano il ruolo della politica, la distribuzione di poteri e responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche sociali, l’uso corretto dello strumento giuridico. E tutto questo deve essere anche valutato tenendo conto che nel mondo tira una brutta aria di censura, che si coglie subito considerando le molte manifestazioni di fastidio verso Internet, che si ritiene veicolo di contenuti inaccettabili. Se Popper aveva chiamato la televisione "cattiva maestra", molti sono inclini a ritenere che la Rete come maestra sia pessima. Sottolineo questo punto perché l’introduzione di un reato (o di una aggravante) di negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre opinioni ritenute socialmente non accettabili.

Le critiche degli storici non sono soltanto sacrosante nel segnalare i rischi per tutti di una "verità di Stato", che può tirarsi dietro un’etica di Stato e altro ancora. Sono rafforzate da molti altri elementi, a cominciare da quelli tratti dall’esperienza dei paesi che già hanno introdotto il reato di negazionismo e che, malgrado ciò, continuano a conoscere manifestazioni gravi di antisemitismo e presenze politiche di gruppi variamente espressivi di spiriti nazisti. L’Austria ha condannato David Irving, ma non era riuscita a evitare Haider.

Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi.

Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno radici culturali e sociali profonde, che non possono essere recise con un gesto formale. L’approvazione di una norma, anzi, può trasformarsi in un alibi o in un diversivo.

Vi è un problema grave, gravissimo come il negazionismo? Ma io ho le carte in regola e la coscienza pulita: ho usato lo strumento giuridico più potente, la definizione di quel comportamento come reato. E quindi avverto meno, faccio diventare secondaria quella che, invece, è la vera strategia di contrasto: l’informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. Voto in Parlamento una legge e mi salvo l’anima. E poi, se qualche gruppetto intriso proprio di quelle convinzioni mi serve per vincere le elezioni, non esito a farlo entrare nella mia coalizione. La vera lotta al negazionismo passa attraverso la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze e alla tentazione di non condannare alcune manifestazioni perché "minori", attraverso l’intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d’ogni suo argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.

Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia del fascismo a impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie a una azione politica e culturale che ha avuto nell’antifascismo un riferimento forte, che ne ha fatto un valore simbolico e un criterio di valutazione dei comportamenti, isolando soggetti politici ed impedendo anche che i contatti, più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero legittimazione pubblica. So bene di dire cose che non sono in sintonia con lo spirito dei tempi. Ma le cose sono andate proprio così. E forse anche gli eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi tenacemente li volle fuori dall’arco costituzionale e, così facendo, impedì loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad approdare in qualche modo ai lidi della democrazia.

La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e moralmente condannabili. L’alt agli estremismi non passa attraverso leggi speciali. Lo ha visto bene il rabbino Elio Toaff, con la memoria di chi ha conosciuto i guasti prodotti da questo uso delle norme.

Il Governo e il Parlamento non possono ritenere che il problema si risolva dislocandolo in un’altra area istituzionale, facendolo divenire un affare dei giudici. Vi è una sapiente, e non nuova, schizofrenia istituzionale in tutto questo. Si scaricano sui giudici conflitti sociali e culturali, e poi ci si lamenta che i giudici hanno troppo potere, che "fanno politica". E che altro dovrebbero fare, quando la politica non fa la sua parte?

Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del negazionismo, né paura della libertà. L’impegno nella ricerca, l’interminata fatica della critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai suoi concittadini americani: «I mali della democrazia si curano con più democrazia».

Sociologi, statistici e governanti sono tutti d’accordo: il Prodotto interno lordo non è più in grado di rappresentare il benessere delle nazioni. Il problema è con che cosa sostituirlo. Molti ci riflettono da tempo; adesso un convegno organizzato dalla Ue a Bruxelles sembra preparare una svolta anche istituzionale

Il tema della felicità non è nuovo nella storia del pensiero economico. Economisti classici come Stuart Mill hanno spiegato come la felicità non consista nell’abbondanza delle cose, ma nella loro qualità. In Italia Antonio Genovesi e Pietro Verri definirono alla fine del Settecento l’economia politica come «la scienza della pubblica felicità».

Di recente il tema è stato riproposto partendo da un dibattito promosso da Richard Easterlin sul «paradosso della felicità», e cioè sulla scarsa correlazione tra reddito e felicità, sia nello spazio (all’interno di ogni Paese o tra Paesi) sia nel tempo. Contributi particolarmente seri sono stati offerti da sociologi ed economisti come Daniel Kahneman e Richard Layard, e in Italia da Stefano Zamagni, Luigino Bruni e da altri economisti della Università della Bicocca di Milano.

A che cosa si deve questa riapparizione in una disciplina tuttora dominata dall’economicismo ultra? Questo paradosso è spiegato in più modi. Con l’aumento delle aspirazioni, che annulla l’aumento del piacere (dell’utilità, avrebbe detto Bentham). Con l’effetto dell’invidia e della rivalità, che fa dipendere la felicità propria da quella degli altri, in un continuo inseguimento.

Mentre questi fattori impediscono che all’aumento del reddito si accompagni un proporzionale aumento della felicità, non si dà spazio sufficiente al "consumo" di beni relazionali e cioè a quelli che ci arricchiscono gratuitamente. Come nello scambio delle idee: se ci scambiamo un dollaro, ciascuno resta con un dollaro; se ci scambiamo un’idea, ciascuno resta con due idee.

Dobbiamo però chiederci anzitutto perché quel tema è per tanto tempo impallidito. Ai suoi primordi la scienza economica si occupava di società che col nostro metro giudicheremmo povere e ristagnanti, nelle quali i problemi della allocazione e della distribuzione ottimale delle risorse prevalevano su quelli dello sviluppo. Con la rivoluzione industriale l’economia dell’Occidente è stata investita da un’onda di crescita, tranne alcune pause critiche, praticamente continua. Nelle società coinvolte dalla crescita quantitativa dei beni prodotti sul mercato, dopo secoli, anzi millenni di ristagno era comprensibile che il concetto di benessere fosse associato con la quantità di beni disponibili.

Dopo due secoli di crescita quantitativa, però, è emersa una specie di nausea della crescita. Dappertutto, i sondaggi sul grado di felicità delle persone rivelano che la felicità non cresce più con l’aumento della produzione. A partire grosso modo dagli anni Settanta del secolo scorso le due curve, quella della quantità di beni disponibili, misurata dal Pil (Prodotto interno lordo) e quella della felicità, misurata da indagini condotte sull’umore dei singoli individui, si sono separate. La prima ha continuato a crescere, la seconda è diventata piatta. La ragione sta nella differenziazione dei bisogni, dei costi e dei gusti tipica di una società complessa, la quale non può essere riflessa in un indice rozzamente quantitativo che ci dice soltanto quanti beni sono stati prodotti e consumati nel mercato.

Detto nei termini più semplici possibile, l’ormai famigerato Pil comporta tre ordini di gravi difetti. Primo: somma solo i beni prodotti nel mercato, quindi esclude quelli forniti nelle relazioni gratuite tra le persone, nelle famiglie o nelle comunità, mentre conteggia come beni i mali che sono prodotti e consumati nel mercato (droga, guadagni criminali, sfruttamento della prostituzione, consumo irreversibile dell’ambiente, inquinamento, effetto serra eccetera). Secondo: non dà alcuna importanza al modo, più o meno equo, col quale i beni sono distribuiti. Nel Pil vige la legge di Trilussa: due polli a me, nessuno a te, dunque un pollo a testa. Terzo: non dà valore ai beni forniti dalla natura, che considera dissennatamente gratuiti e dei quali fa scempio, distruggendo in pochi mesi risorse accumulate per tre miliardi di anni e trattando (peccato singolare per un economista) il capitale naturale come se fosse un reddito.

C’è un quarto "difetto" cui abbiamo accennato, che però non dipende da come è costruito il Pil, ma da come si sta trasformando l’economia capitalistica. Il mercato è sempre più trascinato dalla pressione competitiva che investe non solo la produzione ma, attraverso la pubblicità, anche i consumi, verso i cosiddetti consumi "posizionali" o competitivi: quelli che non esprimono bisogni originali ma bisogni che dipendono da quelli altrui. Si tratta di bisogni per loro natura insaziabili, che generano infelicità. Un esempio? Lo prendiamo da una divertente vignetta del famoso disegnatore Steinberg pubblicata tanto tempo fa dal New Yorker. Era composta di scene successive, Nella prima lui, uscendo di casa in bicicletta, vede il suo vicino uscire dal garage su una utilitaria. Nella seconda lui esce con una utilitaria, ma il vicino con un’auto poderosa. Nella terza lui esce trionfante, affrontando un traffico congestionato, con una ingombrante e costosa auto; ma il vicino scorre via sereno attraverso il traffico su una bicicletta, Qui l’impulso mimetico è diretto e circolarmente frustrante. Se ci si mette la pubblicità, è moltiplicato per mille.

Insomma, man mano che «la crescita cresce», crescono i suoi sprechi e le sue magagne che si riflettono in un Pil bugiardo come misura della felicità. Queste magagne e questi sprechi emergono e sono percepiti sempre più diffusamente, grazie anche al contributo di economisti non ossessionati dalla crescita e non contaminati da tendenze apologetiche verso il potere.

Dobbiamo quindi abbandonare il Pil? Come dice un libro recente, «depilarci»? (Depiliamoci, di Maurizio Pallante, Editori Riuniti). Alcuni autorevoli economisti, come Amartya Sen, col suo Indice dello sviluppo umano adottato dalle Nazioni Unite e come Herman Daly con il suo Indice dell’economia sostenibile, si sono provati a "depilarlo", depurandolo dalle sue più evidenti insensatezze. Sforzi meritori che tuttavia incontrano la difficoltà insita nel sostituire, quando i conti del Pil risultano manifestamente infondati, i prezzi del mercato con dei prezzi "imputati". L’inconveniente è evidente: i prezzi di mercato sono, con tutte le loro storture, realtà oggettive. Gli altri sono giudizi soggettivi, quindi opinabili.

E allora? C’è chi propone di sostituire il Prodotto interno lordo con la Felicità interna lorda: il Pil con la Fil. Per esempio il re del Bhutan, un piccolo Paese asiatico dove mancano l’acqua potabile e i diritti civili. In quel caso, la felicità coincide con quel che ne pensa il re.

C’è poi chi tenta di misurare oggettivamente la felicità con metodi artigianali (per esempio, infilare la mano del "paziente" nell’acqua calda: pare che i più felici resistano di più) oppure con calcoli neurologici e psicologici sofisticati che danno luogo a certe graduatorie, esibite senza vergogna. Secondo Andrei Oswald, per esempio, la frequenza dei rapporti sessuali o un matrimonio solido sono "quotati" 100mila dollari all’anno, mentre un lutto di famiglia "vale" una perdita di 245mila dollari. C’è una quotazione per un sorriso, e un’altra per una preghiera. Così, i prezzi del mercato sono sostituiti dai prezzi Oswald. Meglio i primi! La lettura di questi testi può essere, in termini di felicità, deprimente. Si rischia di simpatizzare con Wilfredo Pareto che respingeva decisamente ogni confronto tra diverse felicità (lui diceva utilità).

Pure, il problema resta. Come si fa a valutare, diciamo meno enfaticamente, il benessere di una società senza incorrere nell’arbitrarietà degli esperti o del re del Bhutan? Secondo me, in due modi. Primo, rinunciando a una misura unica. Non si può ridurre il benessere a un numero. Esso è costituito da una serie di fattori irriducibili meccanicamente l’uno all’altro. Bisogna tenere separati questi fattori - ambiente, sicurezza, salute eccetera, - misurandoli con altrettanti indici specifici, come fanno le Nazioni Unite con il loro Isu. Secondo, affidando la scelta ottimale tra le loro possibili combinazioni, non agli statistici, ma al giudizio politico democratico.

Non esiste infatti un optimum di felicità eguale per tutti i Paesi, da scoprire. Può invece esistere una combinazione di fattori di benessere diversa per ciascun Paese, da scegliere. In tal caso, la misura del benessere-felicità, diventa, non una constatazione "positiva", ma una scelta "normativa". Non un dato, ma un obiettivo. Ogni Paese dovrebbe scegliere democraticamente il suo quadrante di felicità, valido per un certo periodo, costituito da una combinazione di traguardi che darebbero senso a una discussione politica che lo sta perdendo. Il giudizio se stia meglio l’Italia o l’Inghilterra non sarebbe possibile come lo è tra squadre in un campionato, secondo un Pil insignificante. Sarebbe esso stesso un giudizio discutibile. Niente però potrebbe impedire a entità sovranazionali, come l’Unione europea, di mettersi d’accordo su un quadrante comune. Anzi, questo sarebbe il miglior modo di perseguirla.

All'inizio il processo aperto contro di me dal procuratore capo di Sisli non mi aveva preoccupato. Non era il primo. Sono sotto processo a Urfa, dal 2002 per aver detto di non essere turco, ma armeno di Turchia. Mi hanno accusato di aver offeso l'identità turca. Quando sono andato a testimoniare a Sisli l'ho fatto senza troppa preoccupazione. Perché ero sicuro che ciò che avevo scritto non poteva essere male interpretato. Il procuratore, ho pensato, non crederà che io abbia voluto offendere l'identità turca. Sono stato rinviato a giudizio. Non ho perso la speranza. A chi mi accusava di aver insultato il popolo turco, ho detto che non avrebbe potuto gioire: non mi avrebbero condannato. Se fossi stato condannato avrei lasciato il paese. Gli esperti chiamati a giudicare i miei scritti hanno detto che non c'erano in essi elementi di offesa. Ero tranquillo: il torto sarebbe stato riparato, tutto sarebbe finito in una bolla di sapone. Ma così non è stato. Mi hanno condannato a sei mesi di carcere. La speranza che mi aveva accompagnato e sostenuto durante tutto il processo è crollata. Ma mi ha anche dato nuova forza. Prima della sentenza, al termine di ogni udienza venivano date in pasto all'opinione pubblica notizie false su di me. Dicevano che avevo dichiarato che il sangue dei turchi è avvelenato, mi dipingevano come nemico dei turchi. Queste cattiverie hanno cominciato a fare breccia nel cuore di tanti miei connazionali. Alle udienze adesso venivo aggredito dai nazionalisti, si inscenavano violente manifestazioni nei miei confronti. Ho cominciato a ricevere telefonate e mail di minaccia, a centinaia. Ma io continuavo a dire, pazienza, la decisione finale renderà giustizia di tutto ciò e saranno loro a vergognarsi. L'unica mia arma era la mia onestà. Ma mi hanno condannato. Il giudice aveva deciso in nome del popolo turco che avevo offeso l'identità turca. Posso tollerare tutto, ma non questo. Mi trovavo a un bivio: lasciare il paese oppure restare. Alla stampa ho detto che mi sarei consultato con i miei avvocati, che avrei fatto ricorso in appello e anche alla Corte europea per i diritti umani. Ho detto anche che se la condanna fosse stata confermata avrei lasciato il paese perché una persona condannata per aver discriminato suoi connazionali non ha diritto di continuare a vivere con loro.

E' chiaro che le forze profonde che operano in questo paese vogliono darmi una lezione. Così per aver detto alla stampa queste cose è stato aperto contro di me un nuovo procedimento penale. Mi hanno accusato di aver cercato di influenzare la corte d'appello. Mi vogliono isolare, far diventare un facile obiettivo. Mi processano perché, imputato, cerco di difendermi. Devo confessare che ho perso la mia fiducia nello stato turco e nella giustizia di questo paese. La magistratura non è indipendente, non difende i diritti del cittadino ma quelli dello stato. La condanna che mi è stata comminata non è stata pronunciata in nome del popolo turco, ma in nome dello stato turco. Abbiamo fatto ricorso. Il capo procuratore del processo di appello ha detto che non c'erano gli estremi per confermare la condanna. Ma il consiglio superiore ha deciso in maniera diversa. E anche in appello mi hanno condannato.

E' chiaro che mi vogliono isolare, indebolire, lasciare privo di difese. Hanno ottenuto quello che volevano. Oggi sono in tanti a pensare che Hrant Dink sia uno che insulta i turchi. Ogni giorno mi arrivano sull'email e per posta centinaia di lettere di odio e minacce. Quanto sono reali queste minacce? Non si può sapere. La vera e insopportabile minaccia, però, è la tortura psicologica cui mi sottopongo. Mi tormenta pensare che cosa la gente pensa di me. Ora sono molto conosciuto: «Guarda, non è l'armeno nemico dei turchi?» Sono come un colombo che si guarda sempre intorno, incuriosito e impaurito.

Che cosa diceva il ministro degli esteri Gul? E il ministro Cicek? «Suvvia, non esagerate con questo articolo 301. Quanta gente è finita in prigione?» Ma pagare è solo entrare in carcere? Signori ministri, sapete che cosa vuol dire imprigionare il corpo e la mente di un uomo nella paura di un colombo? In questo momento, così difficile anche per la mia famiglia, mi sento sospeso tra la morte e la vita. Ci sono giorni in cui penso di lasciare il mio paese, specie quando le minacce sono rivolte ai miei cari. Mi dicono che mi seguiranno se deciderò di andare, resteranno se deciderò di restare. Posso resistere, ma non posso mettere i miei cari a rischio. Ma se andiamo, dove andremo? In Armenia? Io che non tollero le ingiustizie, sarei forse più sicuro lì? L'Europa non fa per me. Tre giorni in occidente e il quarto voglio tornare a casa. Lasciare un inferno che brucia per un paradiso già confezionato? Dobbiamo cercare di trasformare l'inferno in paradiso. Spero che non saremo mai costretti ad andarcene. Farò ricorso alla Corte di Strasburgo. Quanto durerà questo processo non lo so. Ma mi conforta un po' il fatto che fino al termine del processo potrò continuare a vivere in Turchia. Il 2007 sarà un anno molto difficile. Vecchi processi continueranno, nuovi processi si apriranno. Chissà quali ingiustizie mi troverò davanti. Ma nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Perché qui non si fa male ai colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti, come me, ma come me liberi.

Nel «nuovo che avanza» e cui bisognerebbe abituarsi viene messa la precarietà del lavoro. I media portano abbondante acqua a questo mulino. Ah ah, soltanto gli inetti pretendono la sicurezza dell'impiego o, peggio, del posto: inetti, pigri e spesso fannulloni. Il rischio invece è il sale della vita come ben sa l'imprenditore. La Montezemolo francese, boss del Medef, ha avuto la seguente uscita: «La vita, la salute, l'amore sono a rischio, il lavoro non dovrebbe esserlo?».

La signora Parisot ha molti titoli nel suo portafoglio, per cui rischiarne una parte le è agevole. Ma come accusare coloro che non sono proprietari di nulla, salvo talvolta i tre locali in cui abitano, di avere timore dell'avventura, cioè di restare disoccupati? Non si è mai sentito questo ragionamento da un «atipico», soltanto (e di rado) da chi ha un posto fisso.

E quel posto fisso se lo tiene con cura, o una professionalità così forte - architetto, medico, George Clooney -, da poterla spendere sul mercato con tranquillità e ad alto compenso. Il precario normale - e sono da quattro e mezzo a cinque milioni emezzo - conosce lunghi periodi di inattività, che può reggere soltanto con il paracadute dei genitori, generazione a posto fisso. Non può amare il rischio chi ha bisogno di un lavoro e non può trovarlo, o non decentemente compensato, neanche se ha un titolo di elevata qualità; sono ormai una folla i precari nella ricerca, nell'università, negli ospedali, privati e pubblici. E non amano affatto il rischio le banche e i proprietari di immobili cui ci si deve rivolgere per avere un mutuo o un alloggio, e non ti concedono né l'uno né l'altro se non mostri una solida busta paga o solide proprietà.

Nessuno ha coraggio di negarlo. L'astuzia sta nel non parlarne. O nel cambiare le carte in tavola, come quando si dice: «Ma come, vuoi avere lo stesso posto tutta la vita? Che noia. Non ti piacerebbe cambiare, giocare sulla flessibilità?». Sicuro che piacerebbe, lo scriveva anche Fourier (se uno ha voglia di leggerlo troverà nella Nuova società industriale divertenti osservazioni sull'umana inclinazione a produrre di più e con più gusto sfarfallando serenamente da un'attività all'altra). Solo che per cambiare con allegria devi essere sicuro di trovare un altro posto. E questo avviene soltanto in periodi di pieno impiego. Fa impressione dirlo, ma un'elevata mobilità sociale, il passaggio da un lavoro all'altro, c'è stata negli Stati uniti e nell'Unione sovietica, dove sino agli anni '80 trovavi ai cancelli delle fabbriche o negli atrii delle aziende elenchi di richiesta di manodopera. E' precarietà quando si subisce, flessibilità quando si sceglie.

Ma il lavoratore dipendente, e la maggior parte dei piccoli autonomi, può scegliere? I salariati devono in genere «prendere o lasciare». E infatti si sono battuti oltre cento anni per strappare qualche forma di contratto che non li lasciasse esposti a salari invivibili o a zero salari da una settimana all'altra. Possiamo fare un poco, pochissimo, di storia? E' solo dopo la Rivoluzione Francese che si sancisce - udite udite - il «diritto a lavorare», non il «diritto ad avere un lavoro», cioè il diritto di accesso a un reddito in cambio di prestazione d'opera. La prima legislazione sul lavoro dichiara che «ogni uomo è libero di lavorare dove desidera, e ogni datore di lavoro di assumere chi desidera, concludendo un contratto il cui contenuto è liberamente determinato dai due interessati» (1791). Si intende allora che nessuno appartiene più a nessuno, feudi e corporazioni sono aboliti, ed è un passo avanti. Ma si dà per ovvio che c'è una simmetria fra le parti, padrone e lavoratore che si presenta alla sua porta in cerca di impiego - tesi che è alla base del liberismo e viene spacciata anche oggi. Subito dopo la legge di cui sopra, sono dichiarati reato l'organizzarsi dei lavoratori e lo sciopero. Hanno da essere uno a uno, l'uno con il suo capitale e l'altro con le sue sole braccia o la sua mente, come se fossero uguali le loro possibilità di scelta. Questo sistema è durato fino ai primi del Novecento. Ancora nel 1906, giusto un secolo e un anno fa, il regolamento delle fabbriche Renault prescriveva: «Gli operai potranno lasciare la Casa con un'ora di preavviso al caporeparto. Reciprocamente la Casa si riserva il diritto di licenziare senza indennità gli operai facendoli avvertire dal caporeparto un'ora prima».

Sono l'organizzazione solidale della manodopera salariata e lo sciopero, pericoloso per essa ma anche per il padrone, che permettono agli operai di stabilire un rapporto di forza che li protegge dal licenziamento - se uno di loro è mandato via, i suoi compagni di lavoro staccheranno, e una volta su due sarà riassunto. Per questo si parla di «lotte» del lavoro, lotte sono state. Ma «staccare» è un rischio e tale resta. In Italia la Costituzione legalizza lo sciopero ma soltanto la legge Giugni toglierà al padrone il diritto di licenziare «senza giusta causa», e sarà votata solo negli anni Sessanta del Novecento - è il famoso articolo 18. Che il padronato tenta di metter in causa, alzando il numero dei dipendenti delle aziende in cui può non venire applicato. Dalla fine degli anni Settanta comincerà a giocare sulla tenuta dei lavoratori e dei sindacati, la paura di perdere il posto di lavoro per scomparsa dell'azienda - considerata giusta causa se mai ce n'è una. Infatti le «ristrutturazioni» che accompagnano i cambi di proprietà, le fusioni, la maggior parte della «esternalizzazioni» comportano una riduzione del personale.

I teorici del libero mercato sostengono che le imprese reggono gareggiando nel produrre a prezzi bassi, e così rendendo felice il consumatore. Per un certo tempo avevano predicato che con le nuove tecnologie il costo del lavoro era sempre meno importante nel bilancio. Da un paio di decenni hanno precisato che grazie alle tecnologie il lavoro dell'operaio è diventato assai più rapido, e quindi è d'obbligo ridurre il personale, il cui costo è tornato ad essere importante, anzi importantissimo, perché è la voce di bilancio più comprimibile (oltre al profitto). Il ragionamento si può rovesciare: la tecnologia permetterebbe di ridurre per ciascuno il tempo di lavoro a parità di salario, perché la produttività è diventata assai più grande. Se prima delle tecnologie di questi ultimi decenni la differenza di produttività era da uno a uno e mezzo o due, con essa è diventata da uno a uno a dieci o cento. Il salario sarebbe dovuto crescere in proporzione, o ridursi in proporzione il tempo di lavoro a salario uguale. L'esatto opposto di quel che avviene. La produttività sale e ilmonte salari scende.

A questo scopo servono precipuamente gli «atipici» che riportano il diritto del lavoro a oltre un secolo fa. Alla faccia della modernizzazione. I diritti del lavoro sono stati sempre in qualche misura elusi o circuiti. Li eludono la miseria e la disoccupazione, che costringono al lavoro nero, i lavori domestici o «alla persona», che si tende a retribuire poco e a non pagarne i contributi sociali, li elude legalmente il precariato. Il padronato italico ha sempre cercato di sfuggire al contratto, prima di tutto con il lavoro nero, che specie nel mezzogiorno accompagna la piccola e media azienda: lo sanno gli ispettori dell'Inps, al cui arrivo con la guardia di finanza gran parte della manodopera corre a nascondersi. Specie con la manodopera immigrata, e non solo nel sud ma nell'operoso nord, dove intere villette nascondono opifici e il caporalato, che pareva un residuo del XIX secolo ed è tornato a prosperare. Funziona all'interno stesso della manodopera immigrata, specie asiatica, dove uno funge da padrone, o lo diventa, e sottopone gli altri a salari e orari senza regole. Lo schiavismo che Hannah Arendt denunciava negli Stati uniti (il massimo della libertà politica con il massimo della schiavitù sociale) è ripreso in occidente su larga scala.

La legge non ha inventato il precariato, gli ha messo regole legittimandolo. Questo è il problema. Ha accettato che la forza di lavoro venisse considerata come la più obsoleta o banale delle macchine. Questa è una trasformazione di mentalità che rappresenta un colossale passo indietro nei rapporti sociali. Non ha alcuna giustificazione funzionale, è soltanto risparmio sulla forza di lavoro. Che attua anche lo stato usando dei precari negli ospedali e nelle università, mentre a fil di logica dei diritti umani, se fossero una cosa seria, il precario dovrebbe essere pagato almeno il doppio di chi ha un contratto a tempo indeterminato. L'utilizzo del capitale cognitivo si somma a quello sul tempo di lavoro, cercando di «mettere fuori calcolo» l'uno e l'altro, e tende a diventare la forma principale delle nuove assunzioni. Quanto all'articolo del Protocollo sul welfare, secondo il quale per essere assunti occorrono 36 mesi di precariato è una vera presa in giro. Non diversa da quella che nel contratto di primo impiego, il famoso Cpe, il governo di destra voleva imporre in Francia e la mobilitazione degli studenti ha mandato in tilt.

Questo è il processo reale che passa come «fine della classe operaia» o «declino operaio». Quel che è declinata in occidente è la grande fabbrica, forma «sociologica » della produzione che viene decentrata e frantumata grazie alle tecnologie dell'automazione e poi dell'informatica. Ma fuori della fabbrica il salariato si è moltiplicato, industria culturale, dell'informazione e dello spettacolo inclusa. E ha stravinto l'idea che l'accumulazione del capitale, e per di più privato, è inevitabile, è condizione dell'economia, ne è «legge oggettiva». Stravince anche perché il sindacato arretra o si pone sulla semplice difensiva (della quale il sovversivismo, che pretende di opporsi alla timidezza del sindacato, è una variante).

Ma è obbligatorio difendere una trincea indebolita o arrendersi? Non mi pare. Il sindacato svedese non si è opposto all'innovazione tecnologica, ma l'ha contrattata sul serio. Il mutamento che si è verificato con la globalizzazione non è dovuto alla tecnologia, che potrebbe liberare tutti, ma ai rapporti di forza fra le parti sociali su scala mondiale. Mentre il capitale viaggia, come si usa dire, in tempo reale, la forza di lavoro materiale o intellettuale, corpi e vite, resta necessariamente ferma e niente affatto necessariamente scollegata fra un paese e l'altro: per cui la stessa mansione è pagata fino a dieci, cento volte di meno da un paese, specie asiatico, rispetto all' Europa occidentale. E' questo che rende il prodotto cinese così a buon mercato rispetto a quello europeo, ma è indecoroso che financo i sindacati europei chiedano misure protezioniste invece che tentar di collegare i lavoratori.

Già lo spazio europeo sarebbe una regione contrattuale forte. Come non è decente che in nome della competitività i governi permettano la delocalizzazione delle imprese verso i mercati del lavoro a basso costo. Una delle ipocrisie più flagranti della Costituzione europea è che essa garantiva la libertà delle imprese di andarsene, mentre il diritto della persona di accedere concretamente a un reddito decente era del tutto ignorato.

Il padronato, più o meno spersonalizzato nelle grandi multinazionali in concorrenza, non è tenuto a proteggere i lavoratori, protegge azionisti e il suo top management. E' il sindacato che è tenuto a proteggere i lavoratori, vi si affiliano per questo. Ma stenta a pensarsi fuori dello stato nazionale in cui è nato ma i cui confini sono stati sfondati dal movimento mondiale dei capitali, al quale i governi, di destra o di centrosinistra che siano, si adeguano. A questo si aggiunge la pochezza dell'imprenditore italiano il cui motto sembra «prendi i soldi e scappa» - investimenti a lungo tempo, necessari per la ricerca e l'innovazione di prodotto, non ne fa. Né lo induce a farlo la filosofia della Ue, che invita il nostro governo a non occuparsi di economia e spendere sempre meno in quel salario indiretto che sono la previdenza e la sicurezza sociale, trittico che le lotte del lavoro si erano conquistate.

Il congegno del precariato ne fa parte, per il governo di centrosinistra è una bella responsabilità.

A chi spetta il compito di arrestare il mutamento climatico? Qualche tempo fa sembrava che fosse una sfida nella quale tutti devono fare la loro parte, tutti in quanto individui. In questo modo la lotta contro il mutamento climatico si trasformò nel modello – molto irriso – di uno stile di vita "verde" (la bicicletta al posto dell´auto, andare in giro a casa propria anziché volare in vacanza). Ma attenzione: il mutamento climatico è evidentemente un problema troppo grande per essere risolto dai singoli individui riuniti – in base al motto "bus anziché auto" –. Esso chiama in causa i governi. Ma anche questi ultimi, se agiscono in modo "individualizzato", sono alquanto inermi.

Ormai tutti sanno che l´anidride carbonica non conosce confini e che qualsiasi tentativo che non venga intrapreso a livello transnazionale, ossia contemporaneamente sul piano locale e su quello globale, è destinato a fallire. Poiché potrebbe passare ancora un po´ di tempo prima che l´umanità riesca a mettere d´accordo l´umanità a questo fine, è necessaria una soluzione temporanea di medio periodo. Anche gli euroscettici più incalliti devono riconoscere che l´Ue rappresenta il soggetto ideale di una politica di contrasto al mutamento climatico e che ora il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha colto questa opportunità prescrivendo ai Paesi europei una "rivoluzione postindustriale" – anche nell´intento di rilanciare l´utilità dell´Europa per gli interessi vitali dei suoi cittadini. Solo con il bilancio europeo di molti miliardi di euro si possono effettivamente avviare innovazioni tecnologiche, dalle energie alternative alle tecnologie per il risparmio energetico. Si può dar vita a una nuova alleanza tra gli Stati e l´economia. E, infine, l´Ue con i suoi strumenti giuridici può anche perseguire efficacemente coloro che peggiorano la situazione. A questo punto al lettore verrà un´idea eretica: i governi non sono affatto capaci di fare questo, perché da tempo non controllano più le decisioni economiche.

Naturalmente, si può confidare nella "virtù magica del mercato". Anche nel caso del più grande successo immaginabile tutto ciò avverrebbe assai lentamente. Il tempo, però, è dannatamente ridotto. A fissare la "deadline" – per usare la cruda espressione inglese – non sono i governi, ma la natura.

Giusto, non è possibile ritornare all´economia di piano, nemmeno nell´Ue. Ma non meno forte è la consapevolezza che se mai la "sovranità del mercato" ha rappresentato una minaccia mortale, ciò avviene ora – di fronte all´incombente collasso climatico e ai costi inimmaginabili che esso comporterebbe. Pertanto, i governi che si sottraessero al principio della nuova politica energetica e climatica per l´Europa evidenzierebbero una volta di più l´inadeguatezza dei singoli Stati nazionali a fronteggiare i pericoli globali e quindi anche nazionali.

Questa domanda sul ruolo dello Stato e del mercato nella civiltà globale del rischio comincia a scuotere anche l´autocomprensione americana dopo l´11 settembre 2001 e dopo le conseguenze dell´uragano Katrina del 2005, ma anche in seguito al dibattito riaccesosi sul mutamento climatico. Ciascuno di questi casi dà o ha dato luogo a una discussione in cui ci si chiede se queste esperienze e prospettive traumatiche siano da ritenersi una confutazione della concezione neoliberista dello Stato minimale. Si cristallizza un nuovo contrasto sinistra-destra: da una parte si sottolinea che è compito del governo federale americano ridurre al minimo le minacce e i rischi ai quali gli individui sono esposti; dall´altra, questa definizione dello Stato viene liquidata come sbagliata e fuorviante.

Ma, parallelamente al dibattito sulla politica climatica in Europa, anche negli Stati Uniti la politica verde viene scoperta come una nuova politica geostrategica: "Una delle ragioni per le quali il presidente Bush ha fallito nel tentativo di diventare la guida dell´Occidente", scrive Thomas L. Friedman, uno dei principali commentatori politici americani "sta nella sua incapacità di pensare e agire in verde, mentre ciò è diventato estremamente importante per tutti gli alleati dell´America. Dubito che negli ultimi due anni del suo mandato egli ridefinirà la politica americana. Ma l´importanza dei problemi legati al mutamento climatico e al risparmio energetico è cresciuta in modo tanto impressionante che è impossibile immaginare che il suo successore – chiunque egli sia – non li affronti e non li ponga al centro della propria politica. Se così fosse, sarebbe impossibile immaginare che il vivere, il pensare e l´agire in verde – anziché il combattere contro il rosso – non diventi il nuovo mastice dell´alleanza atlantica".

Una risoluta politica ambientale della Ue potrebbe effettivamente introdurre un cambiamento nell´autocomprensione dell´Occidente. Con il crollo del muro di Berlino sono sorti Stati senza nemici alla ricerca di nuovi spauracchi. Qualcuno teme o spera che lo spauracchio del "terrorismo" sostituisca lo spauracchio del "comunismo", per tenere unito l´Occidente. Ma questa illusione è svanita al più tardi con il fallimento della guerra in Iraq. Nello stesso tempo si profila un´alternativa storica: il mastice senza spauracchio che in futuro terrà assieme l´Occidente potrebbe essere costituito dalle sfide della crisi ecologica, che fondano la comunanza del pericolo. Infatti, non c´è minaccia più grande allo stile e alla qualità della vita occidentale che la combinazione tra il mutamento climatico, la distruzione dell´ambiente, l´approvvigionamento energetico e le guerre che ne possono derivare. Secondo la concisa formulazione del ministro degli Esteri tedesco Walter Steinmeier: «La sicurezza energetica determinerà in modo decisivo l´agenda della sicurezza del ventunesimo secolo». Qui si delinea il modello ultramoderno di una politica interna mondiale, che potrebbe sovrapporsi al modello ormai obsoleto della politica estera nazionale: postnazionale, multilaterale, acronimico, economico, superpacifico sotto tutti gli aspetti, esso predica le interdipendenze in ogni direzione, spinge a cercare amici ovunque, a non immaginare nemici in nessun luogo, solo spauracchi che è meglio cancellare. In questo mondo retorico gli "interessi nazionali" rimangono discretamente nascosti sotto un velo pesante, nel quale sono intessute le parole-chiave "mutamento climatico", "diritti umani" e "interventi per la pace". Kant non avrà avuto in mente proprio questo con il suo titolo dall´ironico doppio senso: "Per la pace perpetua?".

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

«LO Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.

L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».

L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.

Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.

Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.

La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società - non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.

Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice - non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.

Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»

Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.

Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.

È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l’odierno Stato secolare basato sulla libertà -, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.

L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.

Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?

Come usare la parola riformista e quando: è tra i compiti più importanti che abbiamo di fronte, se si vuol riportar ordine nel linguaggio e salvare l'idea stessa di un miglioramento delle nostre democrazie. La parola in questione è adoperata in economia e nelle questioni etiche, in politica internazionale e nelle scelte di pace e guerra. Il suo uso è divenuto a tal punto smodato, dilagante, che un dubbio è lecito: forse il riformismo attraversa una crisi grave, che i sedicenti riformisti occultano con le loro grida. Forse è divenuto l'alibi di chi non sa più pensare in profondità le trasformazioni. Forse nasconde tentazioni utopistiche che ieri contrassegnavano i rivoluzionari. Ci sono parole che sono come governate dalle Erinni, divinità della vendetta: riappaiono e dilagano quando il loro significato si snatura, o s'ingarbuglia sino a svanire. Hanno un'esistenza simile a quella delle persone, fluttuante e fragile: non a caso i greci antichi personalizzavano concetti e cupe passioni, aggiungendo nuovi dèi agli abitanti dell'Olimpo. Un destino analogo è capitato a parole come identità, liberazione, diritti umani, memoria. Sono vocaboli che andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. In attesa della loro resurrezione si potrebbe ricorrere a termini supplenti. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate dall’uso.

L’Italia non è l'unica a esser affetta da questa sindrome, e l'economia non è l'unico terreno che vede ingarbugliarsi il concetto di riforma. Falsi riformisti son presenti ovunque, con personalità forti.

Son presenti in Germania, dove il riformismo s'accumula spesso senza costrutto e produce una malattia chiamata Reformitis. Hanno dominato per anni la politica americana, influenzando la sua politica estera e l'offensiva contro lo Stato sociale annunciata dalla Rivoluzione repubblicana. In Italia si son moltiplicati da quando Prodi ha formato la sua coalizione e vinto le elezioni. Chi è riformista si sente sperduto e inerme, di fronte alle difficoltà del centro-sinistra. Ha l'impressione di non esser ascoltato e ama descrivere se stesso come solitario errante, sempre sull'orlo di divenire un perdente, anche quando una vasta maggioranza di giornali lo sostiene. Ogni mossa governativa viene esaminata alla luce di questa battaglia fraseologica (il riformista dice raramente le riforme concretamente fattibili) e perderla è un sottile motivo di gloria se non di piacere. Perché chi perde è vittima, e chi è vittima non ha responsabilità: è come se avesse una fedina penale assolutamente pulita, e gli fossero dovuti un risarcimento o una caparra o un monumento.

Il riformista italiano non ha quasi nessuna caratteristica che lo apparenti al riformatore autentico. Non possiede la pazienza di quest'ultimo, né la sua umiltà. Ha fretta di giungere allo scopo che si prefigge, come Orfeo che nella poesia di Rilke vorrebbe salvare Euridice ma guarda innanzi a sé colmo d'impazienza, e «divora la strada col suo passo a grandi morsi, senza masticarla». Masticare la strada è fare sul serio riforme, pagarne il prezzo, divenire vulnerabile, mettersi in gioco e non tenersi in riserva per fantasticate missioni di salvataggio. Il falso riformista non si sporca le mani e se possibile resta fuori dal gioco; consiglia riforme impopolari ma teme in realtà l'impopolarità come la peste. Il più delle volte sceglie lo scranno del commentatore: i giornali sono ghiotti di esporlo in vetrina perché in tal modo diventano essi stessi attori della politica. Ma ci sono anche le volte in cui il riformista opera dal di dentro, condividendo col riformista esterno il fato di vittima. Luigi La Spina lo ha descritto bene su questo giornale, dopo Caserta: «I riformisti di Margherita e Ds non possono far finta di aver perso quando non hanno mai combattuto, se non tra di loro». E la guerra non è stata tra estremisti e moderati ma tra Ds e Margherita attorno a chi, liberalizzando per primo, possa definirsi più riformista dell'altro.

I riformisti frettolosi godono di alcuni vantaggi considerevoli. Come commentatori godono dell'impunità, perché non son costretti a fare e nemmeno a rispondere di quel che scrivono. Non devono dare dimostrazioni pratiche della propria presunta superiorità, perché molti di loro sono in riserva e non giocano ancora. Non pagano prezzi, perché la loro influenza non è costruita sulle servitù dell'azione. Essendo sempre potenzialmente perdenti possono denunciare gli impedimenti che nascono da continui complotti radical-conservatori, di Rifondazione o Diliberto. Se solo potessero governare loro, tutto sarebbe più facile: di questo son sicuri. Ma non possono (forse non vogliono) provarlo, e proprio quest'impossibilità li rende invulnerabili. Possono contraddirsi senza timori, possono difendere il bipolarismo e al tempo stesso auspicare governi centristi di volenterosi, che escludano i radicalismi. Usano l'estrema sinistra come alibi della propria inconsistenza. In Italia sono oggi assai numerosi e spesso si comportano come se la sconfitta di Berlusconi fosse una sciagura. Nei dettagli delle riforme non entrano, perché la loro vera natura è rivoluzionaria. Solo i rivoluzionari danno priorità allo scopo finale, rispetto alla strada che deve esser pazientemente battuta. I falsi riformisti hanno qualcosa di giacobino, di utopistico, decretano presto la morte di una leadership, e in questo somigliano non poco ai falchi della rivoluzione liberista americana e della guerra in Iraq.

In un articolo su Foreign Policy, l'economista-psicologo Daniel Kahneman (premio Nobel 2002) e il politologo Jonathan Renshon si domandano come mai, nella storia politica e umana, i falchi finiscano quasi sempre col prevalere sulle colombe. Hanno la meglio perché posseggono pregiudizi più forti, opinioni inflessibili, e soprattutto illusioni più semplificatrici. Si nutrono di preconcetti non dimostrati e tanto più persuasivi. Primo, il preconcetto a proposito dell'avversario, giudicato fondamentalmente ostile. Secondo, il preconcetto che nasce da un ottimismo sconfinato, cui Kahneman e Renshon danno il nome di «illusione di controllo»: i falchi son convinti di essere più bravi, più brillanti, più attraenti della media. A volte lo sono, come avvenne nella guerra contro Hitler. Ma spesso il loro primato è un vizio: il vizio di chi sopravvaluta i propri successi, esagera il controllo che può avere sugli eventi, nasconde le debolezze dell'avversario o rivale. Il falco è convinto di vincere la guerra in Iraq allo stesso modo in cui il falso riformista in Italia è convinto che - se solo comandasse lui - le riforme si realizzerebbero tutte e subito.

Per capire la natura del vero riformista conviene risalire il tempo, e ricostruire il dibattito che divise la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell'800 e il '900. Eduard Bernstein ruppe con Karl Kautsky e Rosa Luxemburg su questi temi, preferendo la via riformista e revisionista. Disse che per lui il fine era meno importate del movimento che portava al fine: «Il movimento è tutto, il traguardo finale mi interessa di meno». Tra riforme e rivoluzione scelse le riforme, e ne precisò la natura. Nello sviluppo legislativo lento, elastico, egli vedeva operare l'intelletto, mentre nella rivoluzione vedeva il sentimento. La riforma era un metodo graduale di trasformazione, mentre il metodo rivoluzionario era rapido, sbrigativo, condensato. È quel che indignò la Luxemburg, che accusò Bernstein di scartare l'«atto politico creatore» della violenza rivoluzionaria e di privilegiare il miglioramento delle condizioni vigenti, il mero «vegetare della società». Se si guarda agli argomenti dei nostri riformisti, l'impressione è che essi siano più vicini alla Luxemburg che a Bernstein. L'unica cosa che non possiedono, dei rivoluzionari, è lo slancio o l'abnegazione. Il falso riformista è un rivoluzionario cool, che nel frattempo ha gustato il trasformismo o la celebrità.

Chi riforma davvero non divora il cammino a grandi morsi, ma lo percorre piano e lo mastica. Sa che la via più dritta che conduce allo scopo è spesso quella più serpentina. Sa che l'umanità è un legno storto, che si riforma con lentezza, negoziando patti sempre nuovi. In fondo son più riformatrici le sinistre radicali, oggi, che i riformisti. Rifondazione e i suoi ministri si dibattono, promettono di ostacolare, ma fanno anche grandi sforzi per correggersi e correggere le storture italiane. Hanno accettato l'intervento militare in Libano, hanno consentito a sacrifici non indifferenti in economia. Il cammino che compiono con Prodi è unico in Europa.

Torniamo a Orfeo. Nella poesia i suoi sensi appaiono come divisi in due: mentre l'occhio corre in avanti come un cane, tornando indietro sui suoi passi e poi rimettendosi a correre lontano per attenderlo alla prossima svolta, «l'udito restava, come un odore, indietro». Riconnettere lo sguardo all'udito - la visione del traguardo all'esperienza del cammino - è uno dei primi passi, se si vuol restituire al riformismo il significato sciupato.

Vedi anche, su eddyburg, Ida Dominijanni

Il discorso pronunciato a Parigi il 5 febbraio 1986 dal capitano Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, per la «Prima conferenza internazionale sull'albero e la foresta».



La mia patria, il mio Burkina Faso, senza dubbio ha il diritto di definirsi un concentrato di calamità naturali. Otto milioni di burkinabè hanno interiorizzato questa realtà in 23 terribili anni. Hanno visto morire le madri, i padri, i figli e le figlie, decimati da fame, carestia, malattie e ignoranza. Hanno guardato prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto il loro ambiente deteriorarsi, gli alberi morire e il deserto invaderli a passi da gigante, sette chilometri all'anno.

Solo questa realtà permette di comprendere la genesi della legittima rivolta che, maturata per lunghi anni, è finalmente esplosa in forma organizzata nella notte del 4 agosto 1983, sotto forma di rivoluzione democratica e popolare del Burkina Faso. Qui non sono altro che l'umile portavoce di un popolo che rifiuta di guardarsi morire per aver assistito passivamente alla morte del proprio ambiente naturale. Dal 4 agosto 1983, l'acqua, gli alberi e la vita dell'ambiente sono ritenuti fondamentali e sacri in tutte le azioni del Consiglio nazionale della rivoluzione che guida il Burkina Faso.

Da circa tre anni il popolo del mio paese combatte la sua guerra contro la desertificazione. Da circa tre anni in Burkina Faso ogni avvenimento felice viene celebrato piantando alberi. Nell'anno scolastico 1986 tutti gli studenti della nostra capitale, Ouagadougou, hanno costruito con le proprie mani più di 3.500 stufe migliorate (a basso consumo) per le proprie madri, che si vanno ad aggiungere alle circa 80.000 costruite dalle stesse donne negli ultimi due anni. Questo è il loro contributo allo sforzo nazionale di ridurre il consumo di legna da ardere e proteggere gli alberi e la vita. Il diritto di acquistare o prendere in affitto uno delle centinaia di alloggi pubblici costruiti dopo il 4 agosto 1983 è strettamente condizionato dall'impegno dei beneficiari di piantare un numero minimo di alberi e curarli come la pupilla dei propri occhi.

Dopo aver realizzato più di 150 perforazioni di pozzi che garantiscono l'approvvigionamento di acqua potabile alla ventina di settori della nostra capitale fin qui privati di questo bisogno essenziale; dopo aver portato in due anni il tasso di alfabetizzazione dal 12 per cento al 22 per cento, il popolo burkinabè continua la sua lotta per un Burkina verde. In 15 mesi sono stati piantati 10 milioni di alberi nel quadro del Programma popolare di sviluppo. Nei villaggi situati lungo le valli dei fiumi ogni famiglia deve piantare e curare 100 alberi l'anno.

Il taglio e la vendita della legna da ardere sono stati completamente riorganizzati e regolamentati con severità. Tra queste regole c'è l'obbligo di avere un patentino per fare il commerciante di legname, di rispettare le zone designate per il taglio del legno, fino all'obbligo di assicurare il rimboschimento delle aree disboscate. Ogni città e villaggio del Burkina hanno oggi un bosco avendo ripristinato così una tradizione antica. Tutti i criminali atti di piromania che distruggono le foreste sono giudicati e sanzionati dai tribunali popolari di conciliazione di ogni villaggio. Una delle punizioni previste da tali tribunali è l'obbligo di piantare e curare un certo numero di alberi. Dal 15 gennaio è in corso un'ampia operazione chiamata «Promozione popolare dei vivai», per creare 7.000 vivai di villaggio. Riassumiamo queste tre azioni sotto il vessillo delle «tre lotte».

Vorrei farvi partecipi della nascita e dello sviluppo di un amore profondo e sincero tra i burkinabé e gli alberi nella mia patria.Ci sembra in tal modo di applicare i nostri concetti teorici agli specifici modi e mezzi della realtà saheliana, nella ricerca di soluzioni ai pericoli presenti e futuri che aggrediscono gli alberi in tutto il mondo.

Vogliamo affermare che la lotta contro l'avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Sono venuto qui per denunciare quegli uomini che con il loro egoismo sono la causa della sfortuna del prossimo. Il colonialismo ha saccheggiato le nostre foreste senza nemmeno lontanamente pensare a lasciarle o a ripristinarle per il nostro domani. Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all'aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Chi ha i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non ha interesse a farlo, e chi ha quest'interesse manca dei necessari mezzi tecnologici.

La creazione in Burkina di un Ministero dell'acqua è segno della nostra volontà di porre chiaramente sul tavolo i problemi, per trovarne soluzioni. Dobbiamo lottare per trovare i mezzi finanziari necessari ad utilizzare le risorse idriche esistenti, per costruire pozzi, serbatoi e dighe. Noi denunciamo gli accordi unilaterali e le condizioni draconiane posti dalle banche e da altre istituzioni finanziarie che ci impediscono di realizzare molti nostri progetti. Sono condizioni proibitive che provocano un indebitamento traumatico dei nostri paesi privandoci della necessaria libertà di azione.

Il Burkina ha proposto e continua a proporre che almeno l'1% delle somme colossali destinate alla ricerca di forme di vita su altri pianeti sia destinato a finanziare la lotta per salvare gli alberi e la vita. Non abbandoniamo la speranza che il dialogo con i «marziani» possa farci riconquistare l'Eden; ma riteniamo nel frattempo, come abitanti della terra, di avere il diritto di rifiutare un'alternativa limitata alla sola scelta fra inferno e purgatorio.

Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Una quantità di forum ed istituzioni non rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c'è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Crediamo nel potere della rivoluzione per bloccare la morte del Burkina Faso e per aprirgli un nuovo luminoso futuro.

«E’ evidente che sul riformismo non la pensiamo tutti allo stesso modo. Un certo ’blairismo’ a me sembra davvero troppo datato. E mi permetto di chiedere a vecchi amici di mettere accanto alla parola ’riformismo’ il nome e il cognome delle cose, le grandi cose italiane di oggi che non sono solo le pensioni e il costo del lavoro. E non sono solo l’economia ma anche ciò che la condiziona sempre più, come la debole base culturale e etico-politica del paese, l’incapacità della plutocrazia dominante di pensare al di là della sua ’roba’, la mancanza di una grande forza nazionale». Tocca affidarsi all’intervento (sul Riformista di martedì) di Alfredo Reichlin, uno che nel Pci di diatribe sul riformismo ne ha vissute quanto basta e di più, per trovare un po’ di sensatezza sul termine che agita le acque del centrosinistra come un totem impazzito, che ciascuno agita e rivendica a modo suo, assolutizzandolo e guardandosi bene dal corredarlo di nomi, cognomi e aggettivi. "O riforme o morte", ha perfino titolato in questi giorni un grande giornale riferendosi a uno dei tanti ultimatum fra i leader della maggioranza; ma quali riforme, e quale riformismo?

Non che sia colpa solo della confusione e dell’approssimazione endemica del centrosinistra italiano. Un tempo era facile a dirsi, pur se sempre molto difficile a farsi: riformista era una prospettiva di trasformazione, o quantomeno di miglioramento, graduale del capitalismo e della liberaldemocrazia, contrapposta alla prospettiva rivoluzionaria. Una linea di conflitto, teorico e pratico, che ha fatto, più che segnato, la storia della sinistra e delle sue aspre divisioni nel Novecento. Poi vennero le rivoluzioni conservatrici di Thathcher e Reagan, e il senso delle parole si stravolse: riformisti diventarono loro e le loro politiche di smantellamento del welfare, conservatori tutti quelli che a sinistra vi si opponevano. Poi vennero ancora Tony Blair e Clinton (e prima, in Italia, c’era stato Craxi), e le loro «terze vie» che per smarcarsi dalle rivoluzioni conservatrici si smarcavano altrettanto dalla tradizione riformista socialdemocratica. E non basta, perché con i neo-teo-cons degli Usa d’inizio secolo da una parte, e il riformismo libertario di Zapatero in Europa dall’altra il quadro si è mosso e complicato ulteriormente. Nell’immobilismo però, e questo è il punto, della sinistra moderata (e per molti versi anche di quella radicale) italiana, la quale è riuscita a passare attraverso innumerevoli svolte rivendicando un profilo riformista ma senza mai definirlo. A partire dalla svolta occhettiana dell’89, quando con il definitivo approdo riformista venne annunciato anche il superamento della tradizione socialdemocratica: bisognava andare oltre. Dove, lo si vede adesso: nella terra di nessuno che è diventato il riformismo di oggi. Nel quale, neanche a dirlo, restano gli echi del blairismo «troppo datato» di cui sopra, ma non si sente risonanza alcuna dello zapaterismo. Che pure non è certo meno liberale, se davvero fosse il liberalismo il punto: ma si sa che dall’89 in poi, in casa (p)ds, fra liberalismo e liberismo la confusione non è mai mancata, e il secondo ha sempre prevalso sul primo. Sicché anche in quel di Caserta, in agenda c’è spazio per le liberalizzazioni ma non per i Pacs. Per riformare le pensioni ma non la legge Biagi né la struttura dei salari. E via dicendo: del riformismo c’è il totem e ci sono i tabu.

Nel frattempo, mentre Piero Fassino attacca le versioni giornalistiche «caricaturali» dello scontro fra riformisti e radicali, caricaturale è diventato il termine riformista e il palio che s’è aperto sul riformismo doc. Digeriti gli amarcord sul «blairismo alle vongole» dei dalemiani resuscitati (o reinventati) a commento del caso Nicola Rossi, ne vedremo delle belle il 18 prossimo venturo, «giornata riformista» indetta dai Dl all’insegna del convincente slogan «un po’ di coraggio e fiducia e torna il futuro». Un riformista indubitabile come Eugenio Scalfari, preso da comprensibile scoramento, ha avuto buon gioco a giocare sui piccoli slittamenti semantici fra riformismo e trasformismo. Di Nicola Rossi rimarranno vive le perorazioni su competitività e meritocrazia, ma è già stata sepolta la denuncia spietata dello stato in cui versano la politica e il principale partito della sinistra. Intanto, provate voi a spiegare a un qualsiasi studente che «riformismo» è anche quello che si è esercitato sull’università italiana, fra Berlinguer e Moratti.

Paul Ginsborg

È davvero migliore del Palazzo?

Una geniale vignetta di Altan di qualche settimana fa (la Repubblica, 4 settembre) raffigura un signore di mezz’età, in giacca e cravatta, chiaramente appartenente ai ceti medi italiani, che annuncia solenne alla moglie: «Dobbiamo aprirci alla società civile». E lei, forse maestra o impiegata, certamente casalinga, gli chiede, tra il perplesso e il titubante: «Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?».

Effettivamente, non è facile capire dov’è la società civile e neanche cos’è. Le definizioni abbondano e con esse le dispute accademiche. Suggerisco una prima distinzione operativa, molto anglosassone, fra società e società civile. La società è un contenitore vasto in cui si può trovare di tutto, dal cittadino onesto alla criminalità organizzata. La società civile, invece, è uno spazio più ristretto che si distingue sia per la sua forma organizzativa sia per il suo sistema valoriale.

Società civile vuol dire in primo luogo una vasta rete di associazioni, circoli, club - alcuni molto grandi e di forte impatto internazionale come Amnesty International, altri più modesti e meno stabili che operano soprattutto a livello locale, ad esempio un circolo di giovani auto-organizzati contro la mafia o un laboratorio per la democrazia. Ma società civile vuol dire anche determinati valori e ambizioni, che sono variati attraverso le epoche della storia contemporanea ma hanno un ceppo comune nell’Illuminismo.

Oggi in Europa si possono attribuire alla società civile ambizioni specifiche: promuovere la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indicare mezzi pacifici anziché violenti, agire per la parità di genere e l’equità sociale, costruire solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggiare la tolleranza e il dibattito anziché il conformismo e l’obbedienza. La società civile è lontana dall’essere una sfera perfetta, di rapporti idilliaci e armoniosi. Riflette fortemente la società di cui fa parte, il modo in cui le persone sono già state formate dalle loro esperienze familiari. Nondimeno costituisce una risorsa preziosissima per la democrazia e rispecchia l’impegno, profuso di solito a titolo gratuito, di una minoranza di cittadini per migliorare sia la società che le istituzioni.

Casa prediletta della società civile europea sono i paesi nordici – Olanda e Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sono loro che hanno il numero più alto di cittadini iscritti ad almeno una associazione di qualsiasi tipo – Svezia 53,4 per cento, Regno Unito 41,8 per cento, Italia 24,3 per cento. Ma sono anche i paesi con la più alta percentuale di cittadini iscritti alle associazioni che si riconoscono nel sistema valoriale della società civile appena descritta.

L’esperienza storica italiana della società civile durante i decenni della Repubblica è piuttosto eterogenea . Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L’Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni che produce questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segnali di placarsi.

In secondo luogo, la società civile italiana è come un fiume carsico. Non si distingue per il suo alto numero di associazioni ma per la sua capacità di irrompere improvvisamente sulla scena nazionale con grandissima forza e altissimi numeri. L’enorme raduno della Cgil del marzo 2002 al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, ne è un esempio eclatante.

Per contrasto, l’organizzazione territoriale della società civile italiana è più squilibrata rispetto agli altri paesi europei, con una grande concentrazione dell’associazionismo civico nel centro e nord del paese. Fu in queste regioni, nella seconda metà dell’Ottocento, che nacque la rete delle associazioni di mutuo soccorso, una rete che fece molta fatica a estendersi al Mezzogiorno. Ci sono stati momenti nella storia del Sud in cui questo quadro si è modificato, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento, ma oggi la situazione è di nuovo molto incerta, con la forte ripresa dell’immigrazione delle forze giovanili dal Sud.

L’Italia dunque è un paese cui le pre-condizioni per la società civile sono ben radicate, dove esiste una tradizione, come in Francia, di movimenti di cittadini che irrompono periodicamente con grande forza sulla scena politica, ma dove l’associazionismo è squilibrato in termini geografici. A queste caratteristiche di fondo, bisogna aggiungerne altre, purtroppo tutte negative. Manca in Italia una vera tradizione di autonomia della società civile. Quest’assenza, legata alla debolezza della tradizione liberale, ha permesso ai partiti di occupare i posti di comando delle istituzioni e della società, mossi non dal desiderio di democratizzare stato e società, come vorrebbe la società civile, ma con l’intento di imporre un modello ferreo di auto-perpetuazione, di origine democristiana.

Un ultimo e decisivo punto. Ho sempre avuto l’impressione che in Italia, a differenza dei paesi nordici europei, le famiglie contassero troppo e la sfera pubblica troppo poco. In questo campo l’insegnamento del Vaticano non è mai stato di grande aiuto. Era Pio XII che nel settembre del 1951 disse: «La famiglia non è per la società; è la società che è per la famiglia». Il messaggio che filtra dopo ventiquattro anni ininterrotti di televisione commerciale berlusconiana è piuttosto simile: «mettete al primo posto la vostra famiglia, i vostri interessi, i vostri consumi». Non deve sorprendere se la signora della vignetta di Altan pensa che la società civile sia un servizio a domicilio.

Chi ha in mente Repubblica quando parla di società civile?

Ieri la Repubblica nel suo nuovo R2 Diario ha pubblicato un interessante articolo di Paul Ginsborg dal titolo «Società civile. E' davvero migliore del Palazzo?» e, a seguito, due utili scritti di Filippo Ceccarelli e Carlo Galli, sempre sul valore o disvalore della «società civile». Il tutto molto interessante e stimolante. A noi del manifesto viene subito voglia di intervenire e, questa volta, con uno stralcio dell'articolo di Lucio Colletti (prima maniera) pubblicato sul primo numero della (eretica e condannata) rivista del manifesto: giugno 1969. Da allora sono passati quasi quarant'anni, ma non abbiamo cambiato parere: il Palazzo è ancora il figlio legittimo della società, che arbitrariamente si autodefinisce civile. Il passato è presente? Forse.

v.p.

Lucio Colletti *

Dizionario Politico. La società civile

Qualcosa di nuovo s'aggira nella sinistra italiana; non è lo «spettro» del comunismo: questa volta si tratta solo della riscoperta di una vecchia parola. La parola è «società civile». Nel calore della scoperta, sembra che si voglia costruirci sopra «un nuovo patto costituzionale».

La società civile. E' la società cui si accede con l'iscrizione all'anagrafe. Dal '700 in poi, ci siamo dentro tutti, quali che siano i mestieri o le professioni. Mandeville la descrive così: «milioni di esseri si sforzano d'appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni sono intenti a consumare l'ingegnoso lavoro di quelli. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciano in affari di gran guadagno, altri sono condannati alla falce e alla vanga e a quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si affaticano ogni giorno e logorano forza e braccia, per mangiare». La società civile, insomma, è la società della concorrenza e dei «poveri industriosi».

In superficie, una miriade di attività, un brulicame di interessi in competizione tra loro; al di sotto di questa superficie, un'interna e più severa struttura. L'anatomia della società civile - diceva Marx - è da cercare nell'economia politica. E l'economia politica, almeno a partire da Smith, ha identificato quest'anatomia in una struttura di classe. «In una società civile, i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori». Il lavoratore produttivo, che «sostiene sulle proprie spalle l'intero edificio della società umana», è - dice Smith - «schiacciato dal peso e tolto dalla vista altrui nelle più profonde fondamenta dell'edificio». «In una società di centomila famiglie, ve ne saranno forse cento che non lavorano affatto e che, tuttavia, o con la violenza o con la più regolare oppressione della legge, assorbono una quantità di lavoro sociale superiore a quella di diecimila famiglie. Anche la divisione di quel che rimane, dopo questa enorme defalcazione, non avviene affatto in proporzione al lavoro di ciascun individuo; al contrario, a quelli che lavorano di più tocca di meno».

Qui è già prefigurato l'essenziale. Il lavoro produttivo produce il salario e, oltre al salario, un «di più», da cui derivano profitto e rendita, entra a costituire i redditi delle classi fondamentali della società. La «società civile», in una parola, è la società borghese di classe. Perché allora si chiama così? In primo luogo, perché, a differenza di quella medievale, la società borghese è essenzialmente cittadina, urbana (civile da civis). In secondo luogo, perché il borghese è fatto così, che egli non riesce a immaginare che ci possa essere cultura, scienza e civiltà, se da una parte non c'è il profitto e dall'altra il lavoro salariato. Non che egli non veda le differenze di classe, l'ineguaglianza sociale. I grandi borghesi le vedono. Il punto è che le considerano il prezzo inevitabile da pagare alla civiltà. «L'abilità - dice Kant - non può essere bene sviluppata nella specie umana per mezzo dell'ineguaglianza tra gli uomini; perché il più gran numero di essi cura le necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno d'un'arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessari della cultura, la scienza e l'arte, tenendo i primi in uno stato d'oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della cultura della classe superiore. Il fine della natura stessa è raggiunto in questa maniera. La natura può raggiungere il suo scopo finale solo in quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che si chiama società civile». Per il borghese, insomma, la civiltà è impensabile senza oppressione e sfruttamento, proprio come per La Malfa è impensabile democrazia senza la FIAT e la Commerciale.

Vengo ora a Galloni e al suo articolo su Rinascita.

Dal '700 in poi, un grande sforzo d'analisi per risalire dalla superficie della «società civile» alla sua interna struttura: le classi. Oggi, un lavoro da Sisifo per ricoprire gli scavi di quell'analisi con quattro genericità liberali. Prima, uno sforzo di meningi per capire che la società civile è la società borghese; ora un articolo su Rinascita per presentare la società borghese come la società civile. La «società civile» vuole! La «società civile» comanda! Chi ha in mente Galloni così dicendo: Gianni Agnelli o l'emigrato calabrese?

* articolo tratto dal primo numero della rivista manifesto nel giugno 1969

Sul numero di Foreign Affairs che inaugura l'anno una ricercatrice francese, Dominique Moisi, analizza lo stato dei rapporti fra area occidentale, area islamica e area «emergente» asiatica sostituendo al celebre paradigma del clash of civilizations di Samuel Huntington quello del clash of emotions. Le tre grandi aree di cui sopra, sostiene Moisi, si configurano oggi, più che come tre culture compatte e l'una contro l'altra armate o pronte ad armarsi, come tre grandi aree emozionali: l'Occidente come area della paura, il mondo arabo e musulmano come area dell'umiliazione, l'asia cinese e indiana come area della speranza. Moisi mette in guardia dal prendere la sua ipotesi troppo alla lettera, com'è già stato sciaguratamente fatto con le tesi di Huntington: i tre mood emotivi non sono compatti e comportano significative eccezioni e qualche mix in aree eccentriche ma cruciali (ad esempio in Russia e in America latina). Ma vale la pena seguire il suo ragionamento..

Gli Stati uniti e l'Europa,, sostiene Moisi, sono divisi, più che uniti, da una comune cultura della paura. Mentre negli Stati uniti del dopo-11 settembre essa ha preso le note sembianze dell'ossessione securitaria all'interno e della preempive war all'esterno, in Europa si manifesta più sottilmente come paura dell'altro, paura del futuro, paura di perdere un'antica identità: l'incubo di essere «invasi» dall'emigrazione, la fantasia che l'Europa si trasformi in «Eurabia», la scoperta che le città europee sono non solo obiettivi ma anche basi del terrorismo internazionale, si mescolano negli europei a paure più endogene che riguardano la crisi dello stato sociale, la stasi economica e la possibilità di trasformarsi nel museo del mondo. E se per gli Stati uniti l'ossessione securitaria e guerra in Iraq si sono risolti in una disfatta d'immagine e di credibilità, in Europa queste micro e macro paure diffuse rischiano di riportare in auge antichi spiriti nazionalisti, come già s'è visto nella bocciatura della costituzione Ue.

La cultura dell'umiliazione che abita il mondo islamico ha dal canto suo radici lontane: già alimentata da una lunga decadenza culminata nella fine dell'impero ottomano, e poi inasprita dalla creazione dello stato d'Israele, oggi per un verso è incardinata al conflitto mediorientale, per l'altro è esacerbata dagli effetti penalizzanti della globalizzazione sull'intera area dei paesi arabi. Fatto sta che questo stratificato sentimento d'umiliazione assume sempre più i caratteri del conflitto religioso-identitario, fra islam e ebraismo, e fra islam e occidente, e rischia di assegnare all'estremismo sciita la bandiera della resistenza. Nessuna riconversione di questo sentimento è possibile, sottolinea Moisi, senza soluzione del problema palestinese.

Un quadro fosco, in cui l'unico vento di speranza sembra soffiare dall'estremo oriente, da dove vengono due messaggi chiari. Il primo dice che «la Cina è tornata» e sta ritrovando, dopo due secoli di relativo declino, uno statuto internazionale possente. Il secondo dice che l'India è la più grande e più popolosa democrazia del mondo, e che con le sue elite capaci di strategie di cooperazione con gli Stati uniti e con l'Europa ha ragione di guardare al futuro con ottimismo ancor maggiore della Cina.

Che fare in Occidente, e dell'Occidente, in questa situazione? A giudizio di Moisi, negare che il sentimento di umiliazione arabo-islamico sia per gli occidentali un problema e una minaccia è sbagliato tanto quanto affrontarlo con la guerra e la degenerazione della democrazia come fanno gli Usa. Né la soluzione può consistere solo nel sostenere l'Islam moderato contro quello fondamentalista: si tratterebbe piuttosto di instillare nelle società musulmane un sentimento di speranza e di fiducia nella crescita capace di contrastare rabbia e disperazione. Con la consapevolezza che senza soluzione dei problemi del mondo islamico, non può esserci dissoluzione della sindrome fobica in Occidente. E con la speranza che il clash of emotions si riveli per sua natura più mobile e volubile del clash of civilization.

La riproposizione della religione in una dimensione civile ha sullo sfondo – espresso o sottinteso – il motto dostoevskijano: «Se Dio non c’è, tutto è possibile» che sintetizza l’atteggiamento etico nichilista di Ivan Karamazov, esposto nel dialogo col fratello Alësha che introduce a Il grande Inquisitore (un testo tutt’altro che irrilevante per i nostri temi). Di fronte all’anomia che pervade la società, solo Dio, la sua religione e la sua chiesa darebbero ragione del bene e del male, del lecito e dell’illecito. I credenti, rispetto ai non credenti, godrebbero così di uno status di superiorità non solo morale ma anche civile. Il cittadino per eccellenza sarebbe l’uomo di fede in Dio. Detto diversamente: solo i credenti in Dio sarebbero capaci di atteggiamenti eticamente orientati nei confronti dei propri simili e, in generale, nei confronti del mondo. Dovremmo così dare ancor oggi ragione a Locke, quando considerava i senza-Dio soggetti pericolosi, perché «inidonei a mantenere le promesse»; a Dostoevskij perché incapaci di districarsi nel dilemma tra il bene e il male?

L’argomento di Dostoevskij non è quello triviale, e in fondo immorale, del premio o del castigo nell’aldilà per il bene e il male compiuti nell’aldiqua. È invece l’argomento di Kirillov ne I Demoni: senza Dio tutto è permesso, perché l’uomo stesso si fa Dio; e il demonio che visita Ivan Karamazov aggiunge che «per Dio non esistono leggi». L’argomento di Dostoevskij è dunque quello della superbia, del super-uomo: l’uomo senza-Dio sarebbe quello che vuol prendersi il posto di Dio. Presso i moralisti cattolici, è proprio questo l’argomento principe, usato per sostenere il valore civile della religione, come strumento per arginare gli effetti distruttivi della libertà insolente di chi non riconosce nulla al di sopra di sé. Ma è un argomento convincente?

Ha senso dire che chi nega Dio vorrebbe mettersi al suo posto? Se Dio non esiste, non può essere questione di rimpiazzarlo. L’argomento della superbia sta e cade con Dio e, se Dio non esiste, non vale più niente. Potrebbe essere addirittura rovesciato: se si crede in Dio, si può credere ch’egli sia con noi, Gott mit uns, e, su questa premessa, ci si può porre legittimamente al di là del bene e del male, avendo Lui al proprio fianco.

Il «Dio è con noi» è la superbia in sommo grado e percorre tragicamente e violentemente la storia dell´umanità fino ai giorni nostri: il ritornante rovello dei capi religiosi, di come privare la fede in Dio della sua carica violenta, è la riprova di un problema insoluto. Invece, chi non crede in Dio non dispone di nessuna sicurezza a priori e sa che il compito dell’umanità di districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui, insieme con gli altri. L’etica della modestia e della responsabilità ha qui la sua radice e qui trova un fondamento che a me pare più chiaro che non la fede in un Dio onnipotente e provvidente.

In ogni caso, almeno questo è da concedere: la fede in Dio non è di per sé garanzia di modestia, esattamente come la mancanza di fede in Dio non è di per sé presupposto di necessaria superbia. Tutti sono a rischio e nessuno può vantare assicurazioni, mentre la disistima verso i non-credenti in Dio, che quel motto dostoevskijano porta nascosto in sé, è propriamente e precisamente un frutto di quella superbia che vorrebbe condannare.

L’utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali auto-disgregatrici dipende forse anche dalla sua auto-comprensione, come religione della verità o come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente, nelle prime piccole comunità, come religione della carità (il discorso della montagna e i primi due comandamenti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso»: Mt 22, 37-37), quando la verità («Io sono la verità»: Gv 14, 6) era non un complesso di proposizioni teologiche né, tanto meno, teologico-politiche, ma semplicemente il riconoscimento e la confessione di Gesù, il Cristo. Progressivamente, però, il Cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l’uniformità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo, sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in comunione-confusione-competizione con il potere politico, quando il rapporto puramente d’amore, efficace nelle piccole cerchie, non bastava certo più a garantire l’unità. Le due concezioni del legame comunitario della fede coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della stessa storia della Chiesa nei secoli.

Ora, la questione da porre è se questa distinzione sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo spirituale della vita sociale. L´ipotesi da considerare è se non sia propriamente l’odierna insistenza sulla verità l’elemento che, nelle società pluraliste attuali, crea divisioni e conflitti mentre le cose andrebbero all’opposto se l’accento cadesse sulla carità, capace invece di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra i cristiani ma anche tra cristiani e non cristiani. «La scienza gonfia; la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualcosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita», dice splendidamente l’anonimo autore della Lettera a Diogneto (XII, 5-6) del II secolo d. C.

In breve, c’è qui in nuce la contrapposizione tra l’arroganza della verità e l’umiltà della carità. La prima - a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario da parte degli interessati - cerca la potenza e il potere, la seconda ne rifugge e, essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione e perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corre il rischio di alimentare tutto questo.

Con questo accenno alla religione della verità e alle sue inclinazioni, siamo giunti alla questione del «disagio democratico».

Condizioni primarie di ogni concezione della democrazia, non strumentale a poteri esterni che la usano come mezzo se e finché serve, sono la disponibilità alla ricerca di convergenze e, se del caso, l’apertura al compromesso, in condizioni di uguaglianza partecipativa. Su questo, non è il caso di insistere qui. Ma è proprio con queste condizioni che ogni religione della verità è potenzialmente in conflitto.

È in questione il numero due, inteso come unità divisa e come unità raddoppiata. Cerco di spiegarmi.

L’appartenenza tanto alla cerchia dei cittadini quanto alla cerchia dei credenti, ciascuna delle quali con le sue istituzioni, i suoi diritti e i suoi doveri di status, le sue condizioni di inclusione ed esclusione, determina la situazione che si denomina di «doppia fedeltà», una situazione che comporta nella realtà una scissione dell’unità. La democrazia si basa sull’autonomia di tutti i suoi partecipanti, autonomia che è un’offerta di disponibilità reciproca. Quando questo presupposto viene incrinato, si ingenera il sospetto degli uni verso gli altri, un sospetto distruttivo alla radice della convivenza democratica. La religione della verità, al contrario, anche con sanzioni ecclesiastiche, pretende obbedienza agli amministratori della verità, cioè alle istituzioni ecclesiastiche, da parte di quelli che, non a caso, si chiamano i «fedeli». Qui, può nascere il conflitto tra lealtà ai principi della sfera politica e obbedienza ai dettami religiosi, per evitare il quale, sia pure in tutt’altro contesto, Locke negava anche ai «papisti» (oltre che agli atei) il diritto alla tolleranza (nel senso di essere tollerati). Si dirà: ma tutti noi siamo il prodotto di tante appartenenze, della più varia specie (politica, culturale, sindacale, professionale, ecc.) e ciò non genera problemi, anzi arricchisce la democrazia. Sì, ma c´è una differenza tra queste appartenenze e l’appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità. Si dirà ancora: si è sempre liberi, quando lo si voglia, di uscire dalla comunità dei credenti e riacquistare la propria autonomia, non esistendo più Sante Inquisizioni. L’appartenenza a una confessione religiosa è dunque pur sempre un fatto di autonomia. Sì, ma questa replica, indegna di provenire da uomini di fede, svaluta assai il valore della fede e non considera la profondità del legame, connesso a questioni ultime come la salvezza dell’anima, che questa appartenenza determina. Non è la stessa cosa appartenere a un partito politico, a un’organizzazione sindacale, a una associazione culturale, oppure a una fede religiosa. Questo problema di lealtà democratica non è diverso rispetto alla Chiesa, alle comunità islamiche o a quella che era un tempo la «chiesa» dell’Internazionale comunista. Come lo si discute in questi casi, non dovrebbe essere taciuto con riguardo alla Chiesa cattolica.

Il raddoppio dell’unità consiste in un plusvalore che si determina a favore della Chiesa, in quanto essa opera nella società sia, dall’interno, come insieme dei fedeli, sia, dall’esterno, come soggetto istituzionale che intrattiene rapporti diretti con le istituzioni civili e ne condiziona le dinamiche. Questo sdoppiamento della personalità, comunità e istituzione, e il raddoppio dei tavoli su cui si svolge la partita sociale comportano la moltiplicazione dell’influenza politica, ciò che spiega forse il peso della Chiesa cattolica in taluni Paesi, dell’Europa o dell’America latina, un peso certamente, o probabilmente, sproporzionato a ciò che il dato numerico dei cattolici dalla fede attiva potrebbe indurre a pensare. Questo doppio peso è un problema per la democrazia.

Si diventa ripetitivi, ma non si saprebbe fare diversamente, ricordando che queste questioni sono state affrontate, nella prospettiva della conciliazione della Chiesa con la democrazia e del superamento della sua plurisecolare diffidenza, quando non aperta ostilità, dal Concilio Vaticano II. Il punto nodale è l’autonomia e la responsabilità dei fedeli nella sfera politica e sociale: qui è in gioco il rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Allora fu inibito ai laici di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, inibizione che, evidentemente, comporta il reciproco: la necessaria astensione della Chiesa da ogni iniziativa rivolta a impegnare, in quella stessa sfera, la coscienza dei suoi fedeli. Questo spirito del Concilio sembra oggi appannato, ma non abbiamo da perdere la speranza, poiché, come è detto, «lo Spirito spira dove vuole».

Sul sistema previdenziale, esistono, purtroppo, due diversi livelli di discussione. Se si parla di riforme, nel senso dell´Ocse - attento solo alla riduzione dell´intervento pubblico in ogni sua forma - allora non siamo veramente nella sfera di competenza del ministro del Lavoro. Se si vogliono ridurre le spese previdenziali allo scopo di risanare il disavanzo pubblico, si fa un´operazione che riguarda piuttosto il ministro dell´Economia, che dovrebbe però spiegare qual è il nesso forte che lega le pensioni ai parametri di Maastricht.

Non si vedono nessi, se non nel fatto che la spesa previdenziale è una componente molto grande della spesa pubblica totale, per di più perfettamente visibile e ben organizzata nel settore pubblico. Succede che l´osservatore esterno, guardando a un riassunto della spesa pubblica italiana, individua le voci più grosse e chiede che vengano ridotte: un esercizio di modesta intelligenza. Appena lo sguardo si fa più analitico, si noteranno alcuni fenomeni.

Il primo riguarda l´imperfetta separazione della spesa previdenziale da quella per l´assistenza pubblica - una vecchia rivendicazione Uil, mai sufficientemente presa in conto. Si tratta di trasferire al bilancio dello Stato la spesa Inps per una varietà di scopi assistenziali che non riguardano i lavoratori dipendenti: fatta questa operazione, il bilancio dell´Inps migliora grandemente e la quota della spesa previdenziale effettiva diminuisce rispetto al Pil. Un analogo effetto si ottiene se si escludono dalla spesa previdenziale i trattamenti Tfr, che non sono un istituto previdenziale (lo saranno, nel futuro, ma faranno aumentare più le risorse che le spese del sistema previdenziale). Tra l´altro, questi aggiustamenti attenuerebbero un´antica critica al sistema sociale italiano, accusato di dedicare troppe risorse alle pensioni e poche all´assistenza. Questo aspetto è diventato particolarmente antipatico, da quando il sistema pensionistico è passato dal metodo retributivo (nel quale la futura pensione non è strettamente legata ai contributi pagati dai lavoratori) a quello contributivo (nel quale sono i contributi che finanziano le pensioni): poiché è stato detto ai lavoratori che debbono pagarsi le pensioni, come giustificare che essi sussidiano il bilancio dello Stato nelle sue funzioni assistenziali?

La seconda osservazione consiste nel chiedersi perché si dovrebbe ridurre la spesa previdenziale. La risposta è nota. Si dice, infatti, che è necessario aumentare l´età pensionabile in quanto la vita si è molto allungata: se si allunga la vita al lavoro, si riduce l´effetto dell´invecchiamento sui conti della previdenza. L´invecchiamento equivale a una riduzione nel numero assoluto di lavoratori, e questa riduzione fa diminuire i contributi necessari per pagare le pensioni. Ma, allora, il tema non è quello di ridurre la spesa pensionistica, ma di aumentare l´occupazione - ad esempio dei giovani e delle donne, magari in forme non precarie, perché così contribuirebbero pienamente alla stabilità del sistema pensionistico.

Queste brevi osservazioni servono soltanto a chiarire che una vera riforma pensionistica viene dopo una vera azione di politica del lavoro (per un´occupazione piena e "buona"). È allora logico e formalmente più corretto lasciare da parte le raccomandazioni dell´Ocse e non fissarsi sul rapporto tra spesa previdenziale e deficit pubblico.

Per questo, credo, ha fatto bene Damiano a ridurre l´enfasi intorno a questo tema e a elencare elementi di «manutenzione» - dall´aumento dei contributi figurativi, alla rivalutazione delle pensioni, al finanziamento degli ammortizzatori sociali (per il mercato del lavoro com´è oggi, non per quello di domani), fino al finanziamento per la revisione dello scalone.

Quest´ultimo è il punto dolente nel rapporto con il sindacato, e riguarda precisamente l´età pensionabile, cioè uno degli elementi che va visto nel quadro di una politica generale dell´occupazione, non in quello della previdenza. Alcuni sindacalisti non vorrebbero toccare nulla dell´età pensionabile, qualche che sia il quadro del mercato del lavoro. Qualche esponente politico immagina, al contrario, una lotta tra giovani e vecchi e che occorrerebbe togliere a questi e dare a quelli - senza capire che al termine di una politica siffatta, né gli uni né gli altri voterebbero mai più il centro sinistra.

Se non si è ancora in grado di proporre un vero piano per l´occupazione e una riforma della normativa che si è accumulata negli ultimi dieci anni, se il conflitto tra giovani e vecchi è più un´astuzia che una dimensione della realtà, allora le ragioni che militano per non aumentare l´età pensionabile riposano tutte sulla "usura" che il lavoro determina nelle capacità delle persone. Per alcuni, l´usura è solo fisica e si applica ai lavori veramente pesanti - che oggi fanno gli immigrati - e dunque la riduzione dovrebbe applicarsi a piccoli numeri di lavoratori (i minatori, ad esempio). Per altri, l´usura è fenomeno più complesso e può riguardare invece grandi numeri (agricoltori, edili, colf, impiegati esecutivi, ecc.). Questo aspetto, già citato da Damiano in altre occasioni, non ha nulla a che vedere né con il sistema previdenziale né con il mercato del lavoro: è un elemento di civiltà, e ha lo stesso rango del divieto del lavoro minorile.

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ANTICIPIAMO alcune pagine da La virtù del dubbio di Gustavo Zagrebelsky, sottotitolo "Intervista su etica e diritto", a cura di Geminello Preterossi, in uscita oggi (Laterza, pagg. 170, euro 10). La virtù del dubbio si riferisce alla difficile convivenza tra chi ritiene di possedere verità assolute, negando dunque ogni dialogo, e chi invece pensa sempre che sia opportuno ascoltare anche le verità degli altri e metterle a confronto con le proprie. Ne nasce un discorso serrato che attraversa i punti nodali di una cultura giuridica che trova ancora nella nostra Costituzione la propria espressione più compiuta e aperta.

Pluralismo è una parola che ha avuto una straordinaria fortuna, anche se oggi, ormai, è usata con un certo fastidio, con la sensazione di avere a che fare con una vuota formula. Oggi va di moda, piuttosto, il multiculturalismo.

«Cerchiamo di definire i campi del discorso. Il primo compito del diritto costituzionale è l’unità, la convivenza pacifica se non addirittura la coesione sociale. Il problema, in una parola, è il pericolo dell’anarchia, la stásis greca. Allargandosi gli accessi al potere politico e avanzando la democrazia, aumenta il pericolo che fazioni politiche, movimenti sociali, coalizioni d’interessi, visioni del mondo divergenti, minino dall’interno la coesione del governo della società. È il pericolo dello stato di natura trasferito all’interno dello Stato, reso incapace di conciliare le posizioni particolari in vista di una convivenza generale. Nel passaggio dal XIX secolo al secolo scorso, in concomitanza con profondi processi di democratizzazione e di allargamento della partecipazione politica, l’estensione del diritto di voto, la formazione dei partiti di massa, l’organizzazione sindacale e l’arma dello sciopero, si verificò il primo momento di difficoltà. Si trattava allora delle tendenze che si dissero "corporatistiche" e "sindacaliste", operanti nella dimensione sociale e politica, di cui si temeva la forza disgregatrice. La reazione presso la scienza costituzionale fu di grande allarme. Non pochi si lasciarono andare a tentazioni reazionarie, rifiutando le novità e invocando l’avventura delle "maniere forti". È ciò che si è denominato il tentato "colpo di Stato della borghesia", di cui furono manifestazioni, di diversa qualità ma convergenti, la repressione violenta degli scioperi di fine secolo e il "Torniamo allo Statuto" di Sidney Sonnino del 1897, nel quale si prospettava, come soluzione, la messa in disparte della Camera dei deputati e dei partiti e il ripristino autoritario dell’ordine governativo, al servizio della restaurazione dell’ordine economico e sociale della borghesia. Chi con maggiore chiarezza e consapevolezza ha per primo registrato la portata storica delle trasformazioni così indicate in sintesi fu forse il grande giuspubblicista italiano Santi Romano, fondatore della dottrina del diritto come istituzione (una «dottrina giuridica concreta» che si contrappone alle concezioni esclusivamente normative, come quella di Kelsen) e di una dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici (che si contrappone all’idea del diritto come prodotto unico e unitario della sovranità statale, secondo le concezioni dominanti nel corso di tutto l’Ottocento).

«Nel 1909, quando fu pronunciato il discorso "Lo Stato moderno e la sua crisi", queste feconde concezioni del diritto erano ancora allo stato nascente, ma predisponevano già il loro autore a rendersi conto, con categorie concettuali adeguate, dei caratteri di quella crisi. La sua visione lo portava non a invocare la forza contro le forze della disgregazione dello Stato liberale, ma a riconoscerne la natura di ordinamenti parziali, sotto l’egida dello Stato, garante degli interessi generali. (...) Era una dottrina di cui la storia successiva avrebbe mostrato l’apertura a esiti divergenti. Uno fu il fascismo, con lo Stato totale corporativo. L’altro poteva essere il pluralismo, con lo Stato in funzione moderatrice e unificatrice delle divisioni, attraverso procedure democratiche. Avrebbe potuto astrattamente essere, ma non fu effettivamente. Le basi costituzionali materiali dello Stato liberale non ressero a questa sfida e fu il fascismo. La Costituzione del 1948, in fondo, si può considerare come il tentativo, sostanzialmente riuscito fino ad oggi, di governare il pluralismo attraverso la democrazia. Anzi, essa si aprì a un pluralismo assai più ricco. Alla dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici si ispirò esplicitamente, per opera di Giuseppe Dossetti, la disciplina dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. La visione pluralistica della società si estese alle forze politiche, culturali e sociali e alle comunità territoriali in una misura mai conosciuta in Italia, nella sua storia moderna».

Oggi, però, il pluralismo sembra essere un termine di un’altra epoca, un’epoca che non c’è più, quella degli Stati chiusi nei propri confini. Il multiculturalismo sembra invece un termine dell’epoca della globalizzazione.

«"Multiculturalismo" è parola comparsa la prima volta nel 1982, nella Carta dei diritti e delle libertà del Canada. Si è trattato, in origine, di una prospettiva propria degli Stati, come il Canada, accentuatamente federali, dove il federalismo corrisponde a profonde differenze tra le popolazioni, di cui la diversa lingua è testimonianza, e dove esiste il problema della garanzia dei diritti di comunità originarie. Nel 1992, Charles Taylor ha introdotto la parola in un dibattito che investe ormai l’intero mondo occidentale, sotto la pressione crescente dell’emigrazione da paesi lontani. In questo dibattito (basti leggere le considerazioni di Habermas), l’espressione ha assunto significati nuovi; si è, per così dire, universalizzata, alludendo a problemi di convivenza che non hanno più a che vedere col federalismo o con i diritti di comunità autoctone. Il multiculturalismo è effettivamente diventato una sfida alla convivenza tra gli esseri umani di portata globale».

Siamo stretti nell’alternativa tra il guardarci in cagnesco, come vogliono i separatisti, o il cercare di assorbire i più deboli, come vogliono gli integrazionisti?

«Non direi così. Prenda l’integrazione, faccia cadere una piccola lettera, la "g", e avrà l’interazione. Il postulato dell’interazione è la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto, per definire se stesse (e quindi difendersi dall’assimilazione), ma al contempo la disponibilità a costruire insieme e, eventualmente, a imparare l’una dall’altra. In questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo gli uni dagli altri (che non è ibridazione o meticciamento, come taluno dice senza rendersi conto del razzismo che c’è in queste parole applicate alle società umane, ma è consapevolezza della comune umanità) c’è il contrario del separatismo. Ma, nel reciproco riconoscimento del diritto di esistenza e di acculturazione, senza posizioni dominanti, c’è anche il contrario dell’integrazionismo. L’ethos dell’interazione è antifondamentalista, ma non relativista. Per aversi interazione non basta la mera tolleranza. Occorre che ciascuna parte riconosca le altre come controparte in una relazione orientata alla ricerca di soluzioni giuste ai problemi della convivenza, senza richiedere aprioristiche rinunce ai propri ideali e valori. Solo, nessuno deve assumere il monopolio di verità possedute una volta per sempre o, quanto meno, si deve distinguere il campo delle certezze e delle fedi che valgono nel privato dalle incertezze circa la condotta morale e i rapporti civili».

Il rischio è che si tratti solo di belle parole...

«Ha ragione. Sono parole. Ma che cosa possiamo fare qui se non pronunciarle, riconoscendo però quanto lontana ne sia la realtà? Sono parole che si dicono con difficoltà, perché vediamo bene quanto difficili siano da mettere in pratica e che, se dette in presenza di tanti sfruttati ed emarginati, suonano irridenti e senza pudore. Eppure, esse indicano un ideale che deve essere perseguito, non per moralismo ma per non tradire noi stessi e ciò di cui andiamo fieri».

Può approfondire questo tema dell’autocontraddizione che insidia l’Occidente, del tradimento che rischiamo di perpetrare verso noi stessi?

«I fautori della "guerra di civiltà" credono che si possa difendere l’Occidente chiudendo i confini e armandoli per tenere lontani gli alieni e, al tempo stesso, cercando di rafforzare la sua «identità» attraverso un’operazione ideologica che non trascura nessun mezzo utile, compreso il povero e inerme crocifisso, assurto, per l’occasione, a simbolo di questa identità contrapposta e sulla difensiva, rispetto ad altre. Su questo punto – l’abuso del Cristo in croce come simbolo di una parte del mondo, armata contro un’altra – mi preme segnalare un piccolo libro di Paolo Farinella, prete a Genova, anche perché forse non avrà la diffusione che merita. Credono di difendere la loro civiltà, ma si sbagliano di grosso. In realtà, la tradiscono su un punto essenziale, l’universalismo. Un pilastro della concezione morale dell’Occidente è il precetto kantiano già in precedenza ricordato: "agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale". La legge morale non può essere espressa da leggi diverse da luogo a luogo, da comunità a comunità. Si creerebbero divisioni ingiustificate rispetto alla comune natura morale dell’umanità. La "guerra di civiltà", per così dire, "particolarizza" principi di identità che, nella loro essenza, pretendono di valere per tutti. Per questo, la chiusura su se stessi non è la difesa, ma è la contraddizione dell’Occidente. Va da sé – non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire – che questo non esclude l’azione di polizia contro i comportamenti criminosi, ma esattamente come accade per i criminali di casa nostra».

Sono passati dieci anni (13 settembre 1997) dalla manifestazione dei diecimila a campo Santo Stefano in risposta ai meeting leghisti e haideriani. Sulla scorta di un appello lanciato da il manifesto (Carta era ancora nel suo grembo) e Liberazione , i centri sociali, Rifondazione, i Verdi, i gruppi pacifisti nonviolenti, una moltitudine di piccoli gruppi e compagnie di amici variopinte invasero il centro storico di Venezia sotto uno striscione: “Nostra patria è il mondo intero”, accompagnando due piccoli e giovanissimi chiapanechi zapatisti incapucciati e con gli occhi sognanti. A ben guardare fu la prima iniziativa che conteneva già tutte le caratteristiche di quel disgelo dei movimenti che poi – passando per Seattle - diventò Genova e – passando per Porto Alegre – Firenze. Vennero da tutta Italia ad aiutare noi, padani afflitti dall’onda greve montante del leghismo. Le analisi le avevamo già fatte tutte (Vittorio Moioli, Roberto Biorcio, Marco Revelli): il leghismo è barbarie, ma non arretratezza; nemico della convivenza civile, ma pienamente liberista; xenofobo, ma paternalista; populista, ma non antioperaio; localista, ma iperproduttivista; antistato, ma supernazionalista; maschilista e patriarcale, ma familista; bestemmiatore, ma clericale; antipartito, ma pilastro della corazzata berlusconiana.

La domanda che ci facciamo da allora è perché mai sia capitato proprio a noi. Dove stava scritto che il dissolvimento del colossale sistema di potere doroteo e socialista (dei Bisaglia, Bernini, Piccoli, Rumor, De Michelis…) dovesse trasferirsi nei mostri Galan, Tosi, Tomat…?

Le risposte che ci sono venute in questi anni dagli esperti sono tutte giuste, ma nessuna convincente. Gli studi sui flussi di voti di Gianni Riccamboni ci spiegano come la Casa della Libertà ricalchi l’impronta dc, persistente nei secoli, scavalchi guerre mondiali e rivoluzioni industriali. Insomma, le radici culturali sembrano segnare più di ogni cosa i nostri destini, specularmene a ciò che avviene nell’altra metà della bassa padania, sotto il Po, dove regna più o meno felicemente l’altra coalizione del bipolarismo avanzante italiano. Se questa tesi fosse vera, vi sarebbero almeno due questioni settentrionali; una per le sinistre – il leghismo – e una per le destre: la Lega delle Coop. Verrebbe a dire che al Nord vi è una spartizione geopolitica che si sovrappone “arbitrariamente” ad un tessuto socioeconomico e a una composizione di classe che appare strutturalmente del tutto identico. La competizione tra i due poli avviene cioè sullo stesso terreno: per esempio, a me pare che le differenze nelle concezioni economico-sociali di Tremonti e Bersani siano più sfumature che sostanza; allo stesso modo le politiche dei governatori Illy e Galan sono una rincorsa a chi chiede “più autostrade e meno tasse”. La missione del nuovo Partito Democratico (del Nord) è inserirsi e proporsi come sostituto al sistema di potere esistente. Ma fino a che questo funzionerà (e funziona bene; vedi qualsiasi classifica di redditi, depositi bancari, occupazione) non si capisce chi e perché dovrebbe cambiare cavallo. Spesso a sinistra si confonde la propaganda (il lamento rivendicativo) con la realtà: la Lega è figlia di un successo competitivo del sistema economico, non di una emarginazione. Certo, il rischio, l’insicurezza e l’instabilità sono connotati nel tipo di competizione in atto tra aree geografiche e sistemi produttivi, a tal punto da stressare anche le tempre più dure, oltre che distruggere relazioni sociali, paesaggi storici e ambienti naturali. Ma per evitare ciò, servirebbe, per l’appunto, un percorso di fuoriuscita dagli ingranaggi della megamacchina produttiva, a partire da una visione altra della società e del mondo.

Le analisi dei centri studi delle Fondazioni e dei sindacati, di Aldo Bonomi, Enzo Rullani, Daniele Marini… ci fanno pensare che la antropologia generata dal capitalismo popolare, diffuso, molecolare, individuale… della piccola e piccolissima impresa che “mette al lavoro” l’intera società, nonne e bambini compresi, e scandisce i ritmi biologici della vita, è quella della forma mentis dell’homo homini lupus. L’imprenditore, l’autonomo, colui che sa farsi i soldi da solo diventa la figura sociale di riferimento. Come un tempo, forse, lo era stato il proprietario terriero, poi il dottore e l’insegnate, persino l’architetto nell’italietta del boom, oggi, passando per l’artigiano (rileggere Meneghello), l’egemonia culturale e politica è quella del padrone. Così la platea a cui si riferisce la politica diventa “ceto produttivo”. Un indifferenziato miscuglio di lavori tenuto assieme da un unico obiettivo: il risultato d’azienda e il successo del suo sistema locale (distretto) o di filiera internazionalizzato fino in Cina (“dislungo”). Il compito della politica è di assicurare la necessaria coesione sociale, ma ci si accontenta anche solo di realizzare una “complicità” tra i diversi lavori e “mestieri”.

Il nuovo soggetto politico unitario che sta nascendo a sinistra, con il Cantiere tra Rifondazione, Pcdi, Sinistra Democratica, pensa che la “questione settentrionale” derivi da un deficit che si è acuito nel tempo nella capacità di rappresentare il lavoro dipendente salariato, gli operai. Verissimo, ma cosa pensiamo di offrire loro per ottenere credibilità e fiducia? Basta la resistenza su contratto nazionale di lavoro e pensioni per poter garantirgli potere d’acquisto e condizioni di vita migliori? Temo che gli operai abbiano capito che i padroni sono più bravi di qualsiasi “governo amico” nel distribuire paghe e anche mance. Temo che la ripresa di una idea di sinistra nelle nostre terre non possa fare a meno di prospettare cambiamenti di scenario più radicali. Ma questo cantiere non lo vedo ancora impiantato.

Settanta anni fa moriva in una clinica Antonio Gramsci. Al funerale non andò nessuno, fuorché la cognata Tatiana e la polizia. Era stato arrestato nel 1926 ed era libero da poche settimane, sfinito dalla malattia e non solo da essa. Se morire comporta un qualche assenso, deve averlo propiziato il rendersi conto che non era desiderato da nessuna parte - non a Mosca, dove erano la moglie e i figli e i compagni, non a Ghilarza, dove era la sua famiglia d’origine. Di questo nulla ha detto all’amorevole non amata Tatiana, e se lo ha confidato a Piero Sraffa, Piero Sraffa non ce ne ha lasciato testimonianza. Eppure, di quel che era successo al mondo dal ’26 al ’37 i due, in una clinica finalmente senza polizia, devono avere parlato a lungo, e Gramsci molto deve avere saputo di quel che aveva potuto intravvedere o adombrare. Nell’Urss la collettivizzazione delle terre, poi l’assassinio di Kirov e l’inizio della liquidazione del comitato centrale eletto nel 1934, e nel 1936, giusto un anno prima, il primo dei grandi processi. Fuori dell’Urss la crisi del 1929, l’ascesa del nazismo in Germania nel 1932, l’aggressione italiana all’Abissinia nel 1935 e nel 1936, il Fronte popolare in Francia ma l’attacco di Franco alla repubblica spagnola.

Che ne ha pensato? Che poteva attendersi dal ritorno alla libertà? Difficile immaginare un’esistenza più sofferente per le miserie del corpo, per la sconfitta, per la solitudine, per la lucidità. Non mi pare che in Italia sia ricordato con qualche calore. Forse solo da Mario Tronti alla Camera. Noi stessi ce la siamo cavata discutendo di un confronto con Edward Said - due teste, due culture, due epoche, due terreni - tutto diverso.Meno che mai poteva essere rievocato dal partito di cui Togliatti aveva detto che lui, Gramsci, era il fondatore, e che è stato interrato a Firenze la settimana scorsa. Per il defunto Pci era stato - alquanto depurato e deproblematizzato - la carta vincente nell’orizzonte dell’Italia del dopoguerra, prova di un’autonomia dall’ortodossia sovietica. Era un martire del fascismo, dunque da onorare e, spento, non avrebbe più perturbato la quiete dell’esecutivo della Internazionale comunista e del suo proprio partito.

Dopo il 1956, il suo ritratto sostituì quello di Stalin sulle pareti di via Botteghe Oscure. Ma era stato a lungo passato sotto silenzio che nel 1926, poco prima dell’arresto, aveva scritto all’esecutivo dell’Ic contro la decisione staliniana di tagliar fuori Trotzki, non perché fosse d’accordo con Trotzki ma perché trovava irresponsabile spaccare, nel fallimento delle rivoluzioni in Europa, l’unità del gruppo dirigente del 1917 o di quel che ne restava. E che tre anni dopo i compagni in carcere avevano condannato le sue tesi opposte alla linea del 1929, e lo avevano isolato. Ne aveva tratto l’amarissmo dubbio che Togliatti non solo nulla facesse per tirarlo fuori, ma lo desiderasse dentro. E se aveva conservato la speranza che la Ic fosse meno meschina del Pcdi, il sapere nel 1937 cheMosca gli era preclusa, gliela aveva tolta tutta.

Anche di questo non può non avere parlato con Sraffa, ma Sraffa rifiutò di discuterne con Tatiana e nulla ci ha lasciato detto.

Negli anni Sessanta Rinascita avrebbe pubblicato tutto, la lettera all’esecutivo dell’Ic di cui era stata negata l’autenticità, lo scontro con Togliatti, il rapporto di Athos Lisa sulla rottura in carcere. E sarebbe uscita l’edizione completa delle Lettere. E Paolo Spriano cercava di andare più a fondo, nell’ostilità di Amendola. Ma era tardi. Nessuno se ne infiammò nel partito, né fuori. Pochi anni dopo, ogni passione spenta, il Pci pareva vincente sulla scena elettorale e la generazione del 1968 non lo avrebbe neppure sfogliato, Gramsci. Aveva fretta, pensava a scadenze veloci e vittoriose e Gramsci era il pensatore della sconfitta delle rivoluzioni in Europa. In quegli anni lo si studiò più all’estero, nell’indifferenza degli ortodossi e delle nuove sinistre. In Italia è diventato oggetto di studiosi valenti più o meno separati dalla politica. Anche le sue ceneri restano deposte a parte, nel piccolo cimitero degli acattolici che i romani chiamano degli inglesi, vicino alla Piramide Cestia. L’uso che di Gramsci aveva fatto il Pci contribuì alla diffidenza del 1968 e seguaci. Dico uso e non abuso, perché non c’è stata in senso proprio una falsificazione - tanto che l’interpretazione corrente è rimasta quel che era anche dopo la pubblicazione rigorosa dei Quaderni fatta da Valentino Gerratana. C’è stata un’accentuazione degli elementi che andavano in direzione della linea del Pci dopo la guerra. Il cardine ne furono soprattutto i frammenti su guerra di posizione e guerra di movimento. Su questo punto le note hanno nei Quaderni uno sviluppo disuguale e vengono datate attorno al 1930. Il nocciolo è in sostanza questo: dove il potere della classe dominante poggia non solo sullo stato ma su una società civile avanzata e complessa, il movimento rivoluzionario non può vincere con un attacco al vertice dell’apparato statale (guerra di movimento) ma in quanto abbia conquistato le «casematte» della società civile (guerra di posizione). Soltanto dove è lo stato a detenere tutto il potere rispetto a una società civile debole e poco strutturata, può avvenire il contrario. Sotto l’occhio della censura Gramsci usa un linguaggio mascherato e «militare» - ne nota egli stesso il limite - ma la trasposizione non è difficile. Guerra di movimento è una rivoluzione che, anche se si impadronisse con una rapida mossa del vertice statuale, non reggerebbe alla resistenza d’una forte società civile, che occorre perciò penetrare, postazione per postazione, con una tenace guerra di posizione.

Esempi: l’occidente presenta società civili robuste, l’Est società fragili. Gramsci non lo può scrivere in termini espliciti, ma è una ragione per cui le rivoluzioni del primo dopoguerra in Euopa sono fallite, nell’Urss invece l’Ottobre ha vinto.

Qui si aprono una serie di problemi. Parrebbe preliminare la definizione, l’uno rispetto all’altra, di stato e società civile. Nei Quaderni i confini variano e a volte si intersecano e confondono, come nel caso del regime fascista. Tuttavia la tesi è chiara: il potere del capitale non sta tutto e solo negli apparati repressivi dello stato, e non solo perché - tema anche inMarx parzialmente equivoco - la «struttura» determinante è quella del modo di produzione che l’ideologia borghese vorrebbe distinta dalle istituzioni dello stato,ma perché anche come «comitato d’affari della borghesia» lo stato ha una sua sfera di autonomia, che peraltro è andata precisandosi e ridefinendosi nei decenni successivi. Soprattutto nei regimi che Arendt chiama «totalitari », sia quelli fascisti sia quelli detti comunisti (che non hanno estinto lo stato affatto). Non so se nei primissimi ’30 Gramsci fosse in grado di pensarlo; certo non di scriverlo. Tuttavia la distinzione fa problema tuttora, né si può cavarsela con un ricorso alla dialettica fra i duemomenti, che è (anche in Gramsci) più un sofisma che una spiegazione. Sta di fatto che all’epoca nessun comunista pensava che si potesse fare ameno di una rottura dell’apparato dello stato e nulla permette di credere che per Gramsci la guerra di posizione fosse altro che preliminare alla rivoluzione politica. Insomma, condizione necessaria ma non sufficiente. Era il distinguo dei comunisti rispetto alla socialdemocrazia e al parlamentarismo. E lo resta a lungo. Nel 1956, con il VIII congresso, il Pci accenna al salto teorico: forse della rottura rivoluzionaria dello stato si può fare a meno - ma non lo esplicita apertis verbis, e non è questa la sede per dirimere se, per via dei rapporti di forza, o per prudenza su una radicale svolta nei principi.

Certo la pratica politica sulla quale il Pci è cresciuto è stata un perpetuo richiamo al Gramsci della guerra di posizione, unito all’inclinazione a accusare di avventurismo chi avrebbe voluto andar oltre, in Italia e nel mondo. Il caso del 1968 è solo il più indicativo: dopo una certa esitazione, il Pci non ha neppure compreso che se a quella spinta non si dava uno sbocco, essa sarebbe degenerata in forme estreme e perdenti, come in Italia e in Germania è avvenuto negli anni successivi. Ma in linea teorica il discorso si limitava alla tattica - non era mai il momento, non ci si trovava mai di fronte a una «crisi generale»; nessun documento del Pci è giunto a negare l’esistenza di un conflitto di fondo fra le classi. A cancellarne il concetto non sono bastati neppure la svolta del 1989 e il sempre più frequente uso negativo, sulla base del Gramsci giovanile, della categoria di «giacobinismo». E’ perfino divertente - ammesso che ci sia una qualche ironia nella storia - che si debba approdare allo scioglimento dei Ds nel 2007 perché Walter Veltroni dichiari priva di ragione, e quindi da cancellare (o reprimere), la guerra di classe, anzi - il termine guerra essendo lasciato agli stati e alle loro imprese «umanitarie » - il conflitto.

Nel suo saggio del 1976 nella New Left Review, Perry Anderson esclude che di questa deriva del Pci vada imputatoGramsci, che ritiene essere rimasto alla tesi marxiana della necessità d’una rottura della legalità statale; da parte sua, insiste ancora nel difenderne il carattere «militare» (Trotzki) perché nessuna conquista della società civile (della quale non nega la necessità) può incidere sul monopolio statale della violenza e sull’essere il solo a detenerne i mezzi con la polizia, l’esercito, e la tecnologia avanzata delle armi.

In verità con gli occhi del 2007 la questione si ricolloca in tutti i suoi termini: nessuna rivoluzione socialista è avvenuta senza una rottura politica e, sia pur in diversa misura, violenta; ma tutte le rivoluzioni dette socialiste o comuniste sono fallite o degenerate o implose, il caso dell’Urss essendo soltanto il più imponente. Se ne può se mai dedurre, contrariamente da Anderson, che i frammenti di Gramsci non si riferirebbero soltanto all’occidente, ma tradirebbero una preoccupazione sull’evolversi della rivoluzione russa, dove una preliminare egemonia sulla società civile non aveva avuto luogo. Certo questo avrebbe comportato delle conseguenze sul grado di maturità o immaturità di una rivoluzione, cui nessuno in quel tempo, e poi di nuovo negli anni ’70, sarebbe arrivato, pena trovarsi collocato molti passi indietro perfino rispetto a Bernstein. Resta il fatto che il lavoro di Gramsci rappresenta la prima sortita dalle categorie sommarie in cui sono stati pensati nel Novecento non solo la rivoluzione ma la natura della società e il rapporto fra istituzioni dello stato e società civile. Oggi, quando con la cosiddetta globalizzazione il potere su scala mondiale sembra poggiare assai più sulla rete dei capitali che sugli stati nazionali, pur restando nel monopolio di questi l’uso della violenza, l’elaborazione gramsciana dei primi anni ’30 sarebbe più che mai da riprendere e aggiornare. Sempre che, naturalmente, non siano gettati alle ortiche sia il concetto di modo capitalistico di produzione, sia quello di libertà - abitudine peraltro diffusa nelle ex vecchia e nuova sinistra.

Che cosa è oggi l'Europa? E'uno spazio di libero mercato a moneta unica, governato da una banca centrale autonoma dagli stati con il sussidio d'una Commissione che vigila sulla libertà, concorrenza e competitività d'impresa. Non altro. Neanche in senso pieno una zona di «libera circolazione di capitali merci e persone», perché quest'ultimo termine è terreno di discussione: quali sono le «persone» che hanno libertà di circolarvi? D'altra parte, mentre la zona euro è definita e cogente, l'Unione Europea comprende ora27 stati (l'affollamento è seguito al crollo dell'Urss) parte dei quali sono ancora in lista d'attesa rispetto all'euro. Né la Ue copre il continente che nelle carte geografiche è definito Europa, vi mancano soprattutto i Balcani e la Russia, mentre scalpita alle porte una Turchia che geograficamente non ne farebbe parte e qualcuno propone Israele, idem,che peraltro non scalpita affatto. Questa zona è regolata da una sola legge comune tuttora valida, i ltrattato firmato a Maastricht nel1992, poi modestamente variato ad Amsterdam, e dai criteri di stabilità- cioè da un rigido monetarismo. Il malloppo di trattati, dichiarazioni e velleità che nel nuovo millennio è stato messo assieme, sotto la presidenza di Valéry Giscard d'Estaing,da 62 esperti nominati dai governi e avrebbe dovuto darle, sia pure a cose fatte, una Costituzione, cioè una fisionomia ideale e politica, attualmente è in mora perché bocciato due anni fa dai referendum dell'Olanda e della Francia, che erano fra i padri fondatori. Altrove infatti i governi, a cominciare dall'altro grande sponsor, la Germania, prudentemente non lo avevano sottoposto a referendum popolare: è stato votato perlopiù a maggioranza dai parlamenti, che si sono guardati bene dal dedicarvi ampi dibattiti e coinvolgere partiti ed elettori, e tanto meno i «popoli» evocati secondo la formula generosa ma alquanto vaga dal progetto per «Un'altra Europa» dal Forum sociale europeo.Un residuo di decenza ha impedito che il tutto passasse nonostante il no di Francia e Olanda. Tanto la creatura monetaria funziona, fine a se stessa, che ai giorni nostri non è poco, anzi è l'essenziale. Essa non si preoccupa gran che della crescita e men che meno del modello sociale e della sua coesione, e lascia un modesto margine di manovra ai singoli stati. Ancora meno all'ormai più annoso parlamento europeo,che ha ben scarsi poteri, e quanto al coordinatore della politica estera e sicurezza, detto il signor Pesc, Javier Solana, è un fedele raccomandatore di questo e quello, che può essere o non essere ascoltato. A un rivestimento costituzionale vero e proprio non si andrà finché le prossime elezioni decideranno della presidenza della repubblica francese, se socialista o di destra - Francia e Germania sono stati infatti l'asse e l'anima,se di anima si può parlare, del coagulo. Se vincono i socialisti è verosimile che su un progetto da rifare siano consultati, finalmente, non solo i governi e i parlamenti. Se vince la destra di Sarkozy è già stato annunciato che, dopo una robusta potatura, il Trattato subirà soltanto veloci passaggi a maggioranza parlamentare.

Esce in questi giorni e sarà presentato domani a Roma il lavoro di Luciana Castellina (Cinquant'anni d'Europa. Una lettura antiretorica, Utet Editore) che di questo farraginoso processo descrive l'itinerario. E' un lavoro prezioso, perché di esso poco si sa anche se molto si conclama nelle sedi ufficiali. L'Europa non ha mai destato una passione popolare, né la si è cercata da parte dei suoi, chiamiamoli così, costruttori. Per cui quando i cittadini sono costretti a pronunciarsi, come nelle elezioni del parlamento europeo, esprimono diverse diffidenze e moderata partecipazione. Le fanfare che accompagneranno il cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma terranno assieme vaghezze e non verità, perché tutto si può dire fuorché esso abbia indicato un percorso lento e difficile ma coerente con se stesso dalle origini all'attuale approdo. Perché un approdo c'è stato e rappresenta qualcosa di non facilmen tereversibile. Luciana Castellina ne indica molto bene le tappe, sia nel ricostruire il seguito di avvicinamenti,abbracci, rotture fra i governi nel variare della scena internazionale della seconda metà del Novecento e nelle accelerazioni del terzo millennio,sia nel mutare della soggettività dei protagonisti, analizzati nella seconda parte del volume per nazioni e correnti politiche. Certo l'approdo non realizza l'ideale di Spinelli e del suo gruppo di amici, tardivamente assunti come alleati dal Pci,che era nato come reazione alle due guerre mondiali. Un'Europa federale avrebbe chiuso con i sanguinosi conflitti fra paesi che ne avevano segnato da sempre il cammino e soprattutto con le feroci avventure del fascismo e del nazismo, formatesi nel suo seno negli anni Venti e Trenta,che avevano portato al più devastante conflitto della storia dell'umanità. Ma subito la guerra fredda faceva prevalere, fra gli alleati che avevano battuto Mussolini e Hitler e fra i partiti precedenti la resistenza o nati con essa, il discrimine fra il campo atlantico, che si andava organizzando anche con istituzioni sovranazionali, e il campo dell'Urss, che si era allargato nelle cosiddette democrazie popolari. L'Europa fu il terreno dello scontro o confronto: l'ex TerzoReich, che era uscito dalla sconfitta e separato in quattro zone di occupazione, sarebbe rimasto diviso in due fra la Repubblica federale tedesca all'ovest e la Repubblica democratica tedesca all'est, sotto l'ombrello atlantico l'una, sotto quello dell'Urss l'altra. In mezzo, territorio sempre sull'orlo di prendere fuoco, Berlino. E tale sarebbe rimasto finché l'ostpolitik di Brandt non fece balenare uno spiraglio di pacificazione. Ma ormai la crisi dell'Urss e del suo campo era più che matura,fradicia, e avrebbe in pochi anni portato al crollo del Muro e alla fine dell'esperienza sovietica.Castellina sottolinea l'intervento americano nel favorire i primi passi verso un'unità europea, concepita come baluardo anche militare contro l'Unione Sovietica, facendo pernosu una Germania riarmata. Insomma una strategia parallela a quella dell'Alleanza Atlantica che prendeva corpo nel 1949. Già questo mutava del tutto l'idea del movimento federalista di Spinelli, senonché un obiettivo militare, che non poteva non includere la Germania,era destinato a incontrare sul continente, ancora scottato dal nazismo, molte diffidenze mentre il piano Marshall non ne incontrava nessuna, anzi una vivace riconoscenza verso gli Stati uniti. E un'idea di qualche unificazione europea, che non poteva dirsi ancora esplicitamente liberista, era bene accolta anche perché faceva fronte alla presenza di alcuni poderosi partiti comunisti, quello italiano e quello francese, che uscivano dalla resistenza rafforzati in prestigio e che si temevano più come organizzatori del conflitto sociale interno che come longa manus di Mosca. Di fatto mentre le proposte della Ced e della Ueo faticarono a farsi strada, passava nel 1951 fra i sei paesi storici - Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo - la prima forma di stretto rapporto continentale, quella Comunità europea del carbone e dell'acciao(Ceca) che avrebbe rappresentato non solo la messa in comune dei due prodotti che tiravano nel lungo dopoguerra, ma avrebbe portato a una prima brutale divisione del lavoro, privando l'Italia della sua grossa siderurgia e Francia e Belgio degli imponenti charbonnages, con conseguenze sociali acute. I passi successivi, non senza andirivieni e non prima di un totale rincontro anche simbolico di Francia e Germania, che - ben decise a tenere in mano almeno in due, se non potevano farlo ognuna da sola, il bandolo della matassa - si sarebbero solennemente abbracciate nelle persone di Kohl eMitterrand. Come si legge nella precisa ricostruzione di Castellina,sono centinaia gli accordi, i trattati più o meno allargati, gli incontri anche con forze non continentali, i tavoli con presenze diverse a seconda degli umori e delle suscettibilità nazionali, ma una e riconoscibile è la rotta che avrebbe portato al governo del mercato e all'affidamento dello stato sopranazionale alla moneta. Né l'uno né l'altro si sarebbero realizzati senza la caduta dell'Urss e il mutare di rotta di sindacati e partiti comunisti occidentali. Questi - accusati di essere antieuropei per obbedienza a Stalin - lo furono di fronte alle perdite manifeste del peso contrattuale dei lavoratori man mano che gli elementi dell'ingegneria liberista, che emergevano dalla discussione sulla «crisi fiscale dello stato sociale», che sfondò inaspettatamente in settori insospettati della sinistra e fu un possente grimaldello per far saltare il medesimo.

Se l'Europa moderna aveva una sua caratteristica inconfondibile era il rilievo dato al conflitto sociale che dalla Rivoluzione francese sarebbe rimasto una dialettica aperta. E' questa che andava chiusa secondo i cervelli governativi che pilotarono sempre il cammino verso qualche forma di unione. E la Commissione valorosamente esige ogni due giorni, dovendo demolire un assieme di diritti e protezioni sociali assai forte nel Regno Unito, in Francia, e nella Germania e Italia postbelliche. Nel doppio attributo classico della sovranità, trarre l'esercito e battere moneta, è il secondo che ha vinto. Per le armi, gli stati europei hanno preferito mettersi sotto l'ombrello della Nato, cui non erano affatto obbligati, e il cui art.5, come ricorda Isidoro Mortellaro, non li obbliga neanche adesso fino al punto che si pretende (per esempio sulla base di Vicenza). Dalla Nato la Francia si tiene ancora fuori. Insomma è la storia d'Europa nel quadro dei rapporti est-ovest e, dopo il 1989, in quello della globalizzazione a dominazione americana che si legge nei tragitti verso l'Unione Europea. La loro accelerazione ha tre nomi, Delors, Santer e Prodi, e l'euro, assieme al trattato di Maastrichte e al patto di stabilità, costituisceil vero alloro riportato dal centrismo continentale. E riportato senza fatica da quando la sinistra ha cessato di esistere. Niente affatto rivoluzionaria in Europa dal 1945 in poi,essa era stata fermamente riformista nel senso che teneva ancora aperto il conflitto fra le classi in vista di mediazioni alte o basse. Oggi su chi punta ancora a questo cade l'accusa di sovranismo o protezionismo, sotto il cui nome va ogni tentativo di protezione dei propri cittadini,come ricorda Fitoussi, largamente consentita soltanto agli Stati uniti. Dire antieuropeo, scrive LucianaCastellina, è oggi un sanguinoso insulto, la più corrente sanguinosa insinuazione. Ma la sinistra italiana è stata antieuropea? Sì, ha diffidato di come l'Europa andava delineandosi. Non perché innamorata del proprio stato, nazione o etnia - fra i suoi moltidifetti questo non c'era - ma perché persuasa che un superstato europeo non avrebbe assicurato i diritti sociali che essa aveva scritto nella sua Costituzione del 1948. E infatti non ci sono, o assai annacquati e praticamente inesigibili. Va osservato che anche senza l'ingresso in Europa e nella zona dell'euro sarebbe stato duro difenderli: l'azzeramento della prima parte della Costituzione è chiesto da noi da parti politiche non piccole, perché il primato dell'impresa, con relativi codicilli, concorrenza e competitività e, per i salariati, flessibilità e precarizzazione è uno tsunami formatosi dalla metà degli anni '70 e precipitato con il crollo dell'Urss e dei partiti comunisti, nonché con l'indebolimento del sindacato. In altre parole, la natura della Ue è iscritta nella modificazione dei rapporti di classe (se ancora si può usare l'espressione) su scala mondiale. E questo le sinistre non l'avevano previsto. Non solo in Italia. Neanche là dove- come in Germania l'antica socialdemocrazia aveva cambiato colore da un pezzo, né nel Regno Unito dove la vittoria di Margaret Thatcher aveva preluso al rovesciarsi del Labour Party nel New Labour di Tony Blair. Ma sta di fatto che i diritti del lavoro, a lungo considerati in Europa come un fattore di coesione sociale e di sollecitazione allo sviluppo,non sono stati difesi affatto dalla diffidenza senza alternative che le sinistre hanno opposto al processo europeo. Lo dico anche per alcuni di noi - de me fabula narratur: vedevamo il pericolo ma ne abbiamo sottovalutato la natura strutturale, di processo mondiale dopo gli anni Sessanta, e non vi siamo intervenuti. Alla conduzione tutta dall'alto dei governi e dei grandi interessi finanziari non è stata opposta nessuna discussione della sinistra e nessun coinvolgimento delle società che ne sarebbero state percosse.

Non lo sono neppure adesso. Se,come è verosimile, i nuovi dirigenti degli stati d'Europa, proporranno una costituzione non dissimile da quella finora avanzata - l'entrata dei paesi dell'Est non può che peggiorarla- neanche le sinistre antiliberiste, e sono poche, sembrano in grado di presentare un dispositivo capace di indurvi spaccature e revisioni di fondo. Soltanto il Forum sociale europeo ha prodotto, assieme ad alcune associazioni della società civile, un serio pacchetto di principi diversi, ma senza entrare nel merito di una strategia di cambiamento. Molto di irreversibile è avvenuto, non è pensabile che si azzeri l'euro ma potrebbero essere modificati alcuni parametri del trattato di Maastricht, non è pensabile che si chiuda la Banca centrale ma se ne può ridiscutere la filosofia, e via dicendo. Quelli che il progetto del Forum chiama i popoli devono articolarsi anche in rappresentanze. L'assenza dei sindacati, la loro incapacità di unirsi almeno nell'Europa occidentale dove mantengono una loro forza, è una catastrofe. Come difenderanno i lavoratori se la zona euro è aperta alle scorrerie dei capitali? Non che soltanto su questo tema si definisca un'altra Europa, anche se su questo tema il Trattato costituzionale è stato bocciato, dove c’è stato il referendum. Ce ne sono molti altri che, segnalati dal Forum sociale europeo, si iscrivono in uno scenario opposto a quello dominante. Chi pensa che l'Europa ha da essere diversa e costituire nella globalizzazione un modello di controtendenza per metodi e fini, ha davanti a sé non molto più di un paio di anni per promuovere una campagna d'opinione che dovrebbe essere non meno vasta di quella che fece per un momento vacillare l'Italia alla scoperta di Tangentopoli. Là era in ballo la corruzione d'un ceto politico, qui è in ballo la perfetta e asettica inumanità di un sistema disuguagliante. Non so quale sia peggio.

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