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Circola in rete un brano di Minima Moralia di Adorno. «La bugia ha il suono della verità, e la verità il suono della bugia. La verità - che vorrebbe ribellarsi - non reca solo il marchio dell'inverosimile, ma è altresì troppo debole, troppo povera per potersi affermare». Sicuramente giusto, ma anche espressione di uno stato d'animo, che a me ricorda «Sulle scogliere di marmo» di Ernst Junger, l'élite assediata dalla plebe. Il narcisismo della rassegnazione è il peggiore. Bisogna sfidare la fidelizzazione pro Berlusconi operata dai Tg Rainvest, rientrando dentro la politica, spiegando le conseguenze dell'amore proclamato.

La parte del programma di Emma Bonino per il Lazio forse più debole è (purtroppo) quella per la cultura. Poiché penso sia centrale - in generale e soprattutto nel Lazio - vorrei provare a migliorarla, impegnandomi fin da ora a collaborare alla sua realizzazione. Bisogna partire da un'intenzione chiara che la riassuma. Roma non è mai riuscita ad affermarsi come capitale effettiva d'Italia. «Capitale corrotta nazione infetta», o «Il Marziano a Roma» o «La Dolce vita» piuttosto. In che modo Roma può finalmente assumere questo ruolo (sarebbe necessario contro il vento leghista)? Già Quintino Sella parlava di Università principalissima. La capitale dovrebbe essere il valore aggiunto fondamentale per la cultura del paese. Questo significa tutt'altro che unificarla, piuttosto bisogna promuovere la diversità e il conflitto delle opinioni dentro la Costituzione.

Oggi l'Italia, al contrario, è spaccata tra senso comune orientato dalla tv controllata da Berlusconi e la strisciante depressione sgomenta delle élite culturali che scoprono la perdita di autorevolezza. Roma ha oggi tre Università pubbliche e numerose private; è la sede del Cnr; di un'azienda fondamentale per la formazione culturale italiana come la Rai. Se questa ricchezza oggettiva facesse sistema con il resto del Lazio (e, perché no, con le regioni confinanti, come l'Abruzzo e l'Umbria). E soprattutto con la Campania; penso al possibile passaggio di Bagnoli dall'Italsider all'industria dell'audiovisivo, ad un terzo polo televisivo...).

Condizione fondamentale è l'autonomia, dallo stesso potere politico, delle istituzioni culturali (Teatro di Roma, Teatro dell'Opera, Auditorium, Festa del Cinema, Sistema Bibliotecario, Azienda Palaexpò, Macro, Maxxi, Rai, editoria, etc.). La cultura, settore ad alta intensità di occupazione e insieme segmento alto, immateriale per definizione, della domanda di servizi, legato a questioni fondamentali come lo spazio pubblico e la governance delle grandi città, all'integrazione ed all'uguaglianza dei diritti degli immigrati, della formazione e dell'innovazione, può dimostrare, come e anche più di una diversa gestione della sanità pubblica, i vantaggi una democrazia fondata sulla separazione dei poteri, rispetto al presidenzialismo. Si tratta di due culture diverse: una che persegue il controllo e la fusione (Rainvest, basta quest'esempio), la chiusura dei piccoli e la censura; l'altra che ritiene essenziale essere sempre sottoposta alla libera critica di tutti. Se considerassimo cinema, tv, teatro, libri, audiovisivi, rete, università, centri di ricerca come le tante parti di un unico progetto nel segno della produzione di immaginario, esteso fino ai musei, ai musei aperti che sono le città del Lazio - tutte, per ragioni diverse, fino alle città di bonifica del fascismo, città d'arte; all'altro, il grande museo aperto che è il territorio; ai paesaggi del Lazio (coinvolgendo altre figure professionali come gli architetti, gli storici, i paesaggisti, i sociologi, gli urbanisti, nuove forme di comunicazione come i flash mob o il teatro di paesaggio), che grande possibilità di sviluppo avrebbe il Lazio! Quanti nuovi posti di lavoro, così, si potrebbero creare!

Questo sogno -come i sogni di tanti altri che seguitano a credere che politica e cultura siano due facce dello stesso progetto - passa per il voto di domenica e lunedì di Emma Bonino, che ha la bella faccia di una che almeno ti sta a sentire. Forse non lo sa, ma l'ascolto è il requisito fondamentale della democrazia, secondo Sofocle dell'Edipo a Colono. Mi fido davvero; e mi auguro che a fidarci saremo la maggioranza.

1. La città è diventata privata

Nel mese di gennaio Il Sole 24 Ore ha chiarito i motivi per cui –a distanza di cinque anni dall’approvazione del progetto- non prendono ancora avvio i lavori di ristrutturazione dei Mercati generali dell’Ostiense. Afferma il giornale che il gruppo Lamaro sta attendendo l’erogazione di un prestito di 200 milioni di euro da parte della Cassa Depositi e Prestiti.

La prassi di accensione di mutui per realizzare qualsiasi intervento di interesse pubblico è interdetta a tutti i comuni italiani a causa di continui provvedimenti bipartisan tesi –ufficialmente- a limitare l’indebitamento delle amministrazioni locali. Le regole non valgono pertanto allo stesso modo: il settore pubblico non può compiere le stesse operazioni che sono invece consentite ai privati, con l’aggravante che la Cassa è un istituto di credito pubblico (il 70% appartiene allo Stato): la collettività presta soldi a tassi ridotti ai privati ma non alle amministrazioni pubbliche.

Non c’è nessun altro paese occidentale che abbia avviato politiche così inique e penalizzanti per le amministrazioni pubbliche: lì rimane infatti il senso dello Stato e della fondamentale importanza delle azioni delle amministrazioni pubbliche. Da noi le amministrazioni locali sono state messe in ginocchio, sottoposte a tagli di bilanci insensati soprattutto se confrontati con l’allegra prassi che lo scandalo della Protezione civile sta mettendo in luce.

Attraverso una campagna mediatica efficacissima ci è stato detto che “non c’erano più risorse pubbliche” e in questo modo i comuni sono stati costretti da un lato a svendere il patrimonio pubblico e dall’altro lato a incentivare l’unica fonte di entrata su cui non si attua nessuna politica di controllo, e cioè quella legata all’aumento di concessioni edilizie. Si aumenta a dismisura l’edificazione per sopperire ai mancati trasferimenti di risorse pubbliche che vengono invece sperperate nei modi che la magistratura fiorentina ha messo sotto gli occhi degli italiani.

E, purtroppo, non è vero neppure che il comune di Roma in particolare soffra in ogni settore dei tagli alla finanza pubblica. Dobbiamo questa preziosa ricerca a Vittorio Sartogo e all’associazione Calma: da quando (agosto 2006) l’ultimo governo Prodi ha fornito di poteri speciali in materia di mobilità il sindaco di Roma al novembre 2009 sono state emesse 246 ordinanze per una spesa totale di 760 milioni di euro senza rispettare le regole di affidamento europee. Come vedete, ognuno ha la sua protezione incivile. Intanto all’ospedale Pertini di Pietralata viene chiesto ai parenti dei ricoverati di portare le siringhe. Alcuni di essi collaborano alla pulizia del nosocomio. Analoghi fenomeni avvengono nelle scuole dell’obbligo e in ogni altro comparto della sfera pubblica, ad iniziare dal settore giudiziario.

A distanza di quindici anni dal suo trionfo, il neoliberismo si svela dunque per quello che è: una gigantesca costruzione ideologica che ha coperto la vendita delle città alla peggiore speculazione parassitaria e che sta distruggendo alla radice il ruolo dello Stato moderno. Negli altri paesi europei che pure hanno subito la ricetta economica neoliberista sono stati privatizzati settori importanti dell’economia e venduti imponenti quantità di beni e aziende pubbliche. Ma hanno preservato il ruolo delle amministrazioni pubbliche. Da noi, per i ritardi storici, la cura ha prodotto un disastro di dimensioni incalcolabili. Viviamo ormai in un paese senza più una guida pubblica, lasciato in mano a scorrerie di avidi predatori. Oggi tutti possono vedere e spero che la buona politica -di cui non si vede ancora traccia- recuperi in fretta il tragico baratro in cui siamo caduti. Che questi temi vengano affrontati dalla Cgil che ha svolto coerentemente in questi anni un ruolo di difesa di alcuni ruoli dello stato nelle dinamiche sociali. Si tratta di estendere questa azione anche alla città, perché è qui che maggiormente si misurano i disastri dell’aver cancellato ogni regola affidando le sorti delle città ai privati.

2. La gigantesca area metropolitana di Roma

Cercherò dunque di sintetizzare quali siano stati i fenomeni che hanno investito la capitale e come esse abbiano provocato l’aggravamento delle condizioni di vita della parte debole della società. Il primo grande fenomeno riguarda la creazione di un’area di gravitazione metropolitana di dimensioni gigantesche che non hanno alcun confronto con le capitali europee notevolmente più grandi di Roma. Afferma la provincia di Roma che sono oltre 400 mila gli spostamenti pendolari quotidiani dall’area metropolitana ai luoghi di lavoro che non si è voluto decentrare in questi anni. La dimensione fisica dell’area è gigantesca: ci si muove quotidianamente anche da distanze superiori ai cinquanta chilometri, come ad esempio la pendolarità da Civitavecchia, Aprilia o Anzio-Nettuno soltanto per citare i casi più eclatanti. Anche dalla grande conurbazione londinese (12 milioni di residenti) ci si sposta da distanze superiori ai 50 chilometri per andare nella city. Ma ci si va con treni comodi e moderni che viaggiano a 200 chilometri orari. Lo scorso anno è stata inaugurata una nuova linea ferroviaria che dalla regione del Kent impiega 30 minuti per percorrere 70 chilometri. Per arrivare dalla conurbazione Tivoli-Giudonia (150 mila abitanti) si impiega circa un’ora su treni indecenti che viaggiano su binario unico. In Gran Bretagna ha governato a lungo Margaret Thatcher, ma nessuno ha mai pensato, come da noi, di divorare lo Stato.

Anche nella regione dell’Ile de France (11 milioni di abitanti) ci si sposta in treno per raggiungere Parigi. E nonostante la diffusione capillare della rete ferroviaria nel 2004 il sindaco di Parigi Bertrand Delanoe ha deciso di costruire una nuova line tranviaria a nord della città. E’ stata progettata, costruita e inaugurata in tre anni, senza aggirare alcuna regola.

A Roma si è consentita una gigantesca diffusione residenziale senza realizzare linee ferroviarie: ci si sposta dunque in automobile. Ecco perché abbiamo 800 automobili ogni mille abitanti e un numero patologico di scooter. Del resto la media italiana è di 61 auto per mille abitanti rispetto alla media europea di 46. Ed è anche questo storico ritardo della città ad aver influito in questi tempi di crisi alla scomparsa della presenza di alcune imprese internazionali da decenni presenti sul territorio.

3. La grande espulsione

Quest’enorme diffusione residenziale è avvenuta per il grande processo di rivalutazione del comparto immobiliare che abbiamo conosciuto e su cui esiste molta letteratura. E’ forse più interessante ragionare sulle differenze dei valori immobiliari tra le varie zone di Roma e la Provincia sulla base dei dati dell’Agenzia delle Entrate. I valori immobiliari rilevati nel primo semestre 2009 si attestano a 9.000 euro/mq nei rioni più qualificati come Campitelli. Quando si inizia ad allontanarsi dal centro si raggiungono i seguenti valori immobiliari:

- periferia storica: valori medi di 7.000 euro/mq;

- periferia interna al Gra: valori medi di 5.500 euro/mq;

- periferia esterna al Gra: valori medi di 4.000 euro/mq;

- prima corona dei comuni metropolitani: valori tra 1.700 e 3.300 euro/mq (v.medio 2.500);

- seconda e terza corona dei comuni dell’area romana: valori tra 1.500 e 2.300 euro/mq (1.900);

- comuni più lontani e a basso livello di accessibilità: valore medio di 1.400 euro/mq.

E’ noto a tutti che i valori reali delle transazioni immobiliari sono superiori a quelli appena elencati: non varia però l’andamento relativo. Più di centomila famiglie sono state espulse da Roma perché non ce l’hanno fatta a sostenere l’impennata dei valori delle case e quelli degli affitti.

Una delle obiezioni che ci è stata spesso rivolta quando abbiamo denunciato lo svuotamento residenziale di Roma è che la città appariva al contrario piena. E’ vero. Le case delle famiglie che si sono trasferite lontano sono stata affittate a studenti e immigrati in numero superiore al numero dei componenti delle famiglie che le abitavano. Insomma, i 100 mila studenti fuori sede che frequentano le università romane e i 400 mila immigrati che vivono in città sono stati una delle cause della grande espulsione. Si guadagna di più ad affittare una stanza o un posto letto e ciò ha fatto lievitare ulteriormente i valori degli affitti. Le statistiche che fornisce l’Istat ci dicono che nel Lazio esistono 2.431.000 abitazioni, mentre il numero delle famiglie è di 1.985.487. E' dunque certo che rispetto al fabbisogno teorico ci sono già 450 mila alloggi in più. E' un numero enorme, di cui Roma detiene la gran parte, circa 250 mila alloggi. Ma è ragionevole pensare che 100 - 150 mila alloggi siano occupati ma non risultano alle statistiche ufficiali. La bella campagna promossa dalla Cgil contro l’evasione fiscale dovrebbe aprire anche questa importante questione.

4. Quattro progetti pubblici per l’area metropolitana

Roma dunque non è vuota, ma le famiglie economicamente deboli sono dovute andare a grandi distanze dalla città. Le loro condizioni di vita si sono aggravate. Dal punto di vista della qualità della vita perché perdono 3 ore di vita al giorno soltanto per spostarsi, un mese e mezzo della propia vita in fila. Dal punto di vista economico perché spendono molto di più di un “romano” per spostarsi. Si tenga in questo senso conto che la prospettiva di istituire pedaggi nella rete stradale primaria porterà un ulteriore decurtazione del reddito di queste famiglie, come è già avvenuto per gli abitanti di Ponte di Nona e Case Rosse che pagano per percorrere il tratto urbano dell’A24. Dal punto di vista della prospettiva sociale perché la qualità dei servizi scolastici, sociali e sanitari sono notevolmente minori –in genere, ovviamente- di quelli di Roma. Non è soltanto la generazione che si è trasferita furori Roma ad aver diminuito la sua prospettiva di riscatto sociale, ma sono anche le generazioni future che ne risentiranno. Una prospettiva iniqua e inaccettabile che può essere attenuata attraverso la pianificazione urbanistica. Era quello che affermava 60 anni fa un grande personaggio come Adriano Olivetti: il territorio è la proiezione esterna della vita dei salariati e l’urbanistica è il metodo pubblico che permette di migliorarne la vita.

Oggi che l’urbanistica contrattata, i diritti edificatori e le compensazioni hanno abolito ogni regola dobbiamo ricostruire il volto pubblico della nostra città e dell’area metropolitana. A partire dal perseguire quattro indispensabili obiettivi. Quattro progetti di chiaro impianto pubblico: le città sono beni comuni e bisogna tornare a questa semplice acquisizione storica, abbandonando ogni riproposizione mascherata di idee che hanno fallito nel ventennio liberista.

Il primo è quello di creare in temi rapidissimi una rete di trasporto su ferro efficiente e moderno. A partire dal 1993 fino all’anno prossimo l’Italia avrà speso 51 miliardi di euro per realizzare l’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Torino. Serve il 5% degli utenti delle ferrovie. I quattro milioni della popolazione della provincia di Roma sono invece il 5% della popolazione italiana e meritano un investimento altrettanto adeguato.

Il secondo progetto è quello di definire le ipotesi di decentramento delle attività direzionali dello Stato, unico potente strumento di riequilibrio territoriale e di qualificazione dei territori. Cito soltanto il tema, ben sapendo quanto sia complesso oggi porre questa questione, sia per le occasioni mancate sia per le troppo diffuse resistenze e incomprensioni a questa prospettiva. Ma il fallimento delle centralità del piano regolatore di Roma obbliga a riaprire la questione.

Il terzo progetto è relativo alla soddisfazione del problema abitativo di almeno 100 mila famiglie che hanno il problema dello sfratto o vivono in alloggi impropri. Anche qui è necessario di operare una soluzione di continuità con il passato. In quasi anni, come noto, non sono state costruite case pubbliche, se si fa eccezione di un piccolo gruppo a Ponte di Nona. Era considerato un affronto dalla dirigenza romana dell’Acer poi promossa a livello nazionale: il pubblico si ritragga, ci pensiamo noi, in coerenza con gli indirizzi del neoliberismo. Sono stati spesi molti soldi pubblici sia per finanziare il comparto dell’edilizia convenzionata, sia per acquistare abitazioni per la popolazione romana in luoghi impensabili, Aprilia, Pomezia e tanti altri comuni. E’ indispensabile invece tornare all’edilizia pubblica senza aggettivi.

Quarto e ultimo la riqualificazione delle immense periferie urbane e metropolitane, questione che deve essere presa in carico dalle amministrazioni pubbliche perché non può esserci interesse privato. A guardarli bene, i quattro obiettivi che ho elencato sono gli stessi che delineò Antonio Cederna nella sua lucida proposta per la legge “Roma capitale”. Una legge pubblicistica in palese controtendenza nel momento in cui (siamo nei primi anni ’90) la presentò alla Camera dei Deputati. E’ stata abbandonata e il disastro che ne è seguito impone di riprenderla nella sua interezza.

5. La questione istituzionale

Manca soltanto, per concludere il mio intervento, di ragionare sulla questione istituzionale, e cioè quale sia l’istituzione più adeguata in termini di sussidiarietà a governare le trasformazioni urbane dell’area metropolitana romana, ma il compito è facilitato da quanto abbiamo fin qui argomentato. Non c’è infatti nessuna trasformazione urbana che possa essere analizzata e risolta all’interno dei confini comunali della città. Le relazioni territoriali sono così strutturate e interconnesse che non si comprende nulla di quanto sta avvenendo a Roma se non si guarda dal punto di vista della sua area metropolitana.

Ed è evidente che se non si comprendono i fenomeni non si riesce neppure a governarli. Considero dunque un grave errore quello commesso dal Governo nell’indicare nell’attuale città di Roma l’istituzione più adatta a governare i processi d’area. E’ solo tornando allo spirito del legislatore del 1990, anno di istituzione delle città metropolitane, che si può tentare di risanare i mali di Roma e della sua area. E’ solo su una nuova scala territoriale di intervento che si può invertire la china rovinosa causata dalla cancellazione delle regole.

Certo, dover constatare che la legge 142 è stata disattesa per venti anni non induce a facili ottimismi. Credo però che di fronte ad una crisi istituzionale così profonda ci siano forze, ad iniziare dalla Cgil in grado di indicare un percorso chiaro per risolvere i mali di Roma.

Ormai nel cuore di Roma succede di tutto. Se da piazza Navona, ridotta a parcheggio, andate verso Sant’Apollinare, vi verrà incontro un gigantesco cameriere di cartapesta colorata sullo sfondo di Palazzo Altemps. Un nuovo arredo urbano pensato dal vice-sindaco Cutrufo? Poco più in là vedrete una pizzeria ficcata in una delle torri medioevali superstiti: Tor Sanguigna. Possibile che il raro manufatto non sia vincolato e che vi si possano venire ricavati locali con mattonelle coloratissime (ma ’sti progetti chi li vista?) occupando con tavoli e seggiole anche piazza Zanardelli sin qui libera? Non ha nulla da dire la soprintendente Federica Galloni segnalatasi nella tutela dell’Agro?

In pochi mesi i pedoni sono stati scacciati dall’«isola» di Sant’Apollinare dalle varie pizzerie. Il gigantesco cameriere annuncia forse la prossima «valorizzazione» enogastronomica davanti a Palazzo Altemps (con Resca non si sa mai). Perché a Bologna le occupazioni di suolo pubblico sono vietate in piazze o edifici vincolati e a Roma no? Colpa del Comune o della Soprintendenza?

La città storica è ormai una mangiatoia ininterrotta, da via in Arcione a Fontana di Trevi, a Vicolo di Pietra (si salva la piazza perché c’è la Camera di Commercio, ma col nuovo presidente…), a via dei Pastini (i più orribili e invadenti empori di souvenir), al Pantheon dove i tavolini fra un po’ «se magneno» pure fontana e obelisco, e dopo piazza Navona c’è Tor Millina luogo-simbolo della degradazione totale. Gli esperti dicono che soltanto l’alta qualità potrà salvare il turismo italiano; il Campidoglio promette regolamenti severi, multe a raffica. Però la marea di locali avanza e Roma imbruttisce sempre più. I «bottegari» hanno votato in massa Alemanno ed ora esigono mano libera. Totalmente.

Il fatto

Le gincane del progettato Gran premio di Formula 1 di Roma, che si dovrebbe snodare tra i parchi dell´Eur, dovranno cambiare forse tracciato. E anche la sequenza di edifici pensati lungo il decantato "Boulevard delle Tre Fontane" comincia a vacillare. Per non parlare delle feste notturne che ogni estate romana riempiono i giardini intorno alla Cristoforo Colombo. Sul verde del quartiere iniziato per l´Esposizione universale del 1942, e portato a termine negli anni Cinquanta, è stato infatti appena apposto il vincolo del ministero dei Beni culturali.

Dopo lo strumento di tutela deciso sull´Agro romano, un altro tassello nella difesa statale del paesaggio della Capitale. Con il risultato che d´ora in poi Comune ed Eur spa prima di decidere se e come intervenire sui giardini progettati dall´architetto Raffaele De Vico, dovranno chiedere e coordinarsi con la Soprintendenza statale guidata da Federica Galloni.

È stata infatti istruita dalla soprintendente la pratica del decreto, firmato dal direttore regionale Mario Lolli Ghetti, che stabilisce: «Il complesso di aree verdi denominato "Parchi dell´E. U. R. sito in Roma» è «di interesse storico artistico». In base al cosiddetto Codice Urbani (2004) il parco è «conseguentemente sottoposto a tutte le disposizioni di tutela».

Il procedimento risale al 18 marzo 2009. E già allora le "clausole di salvaguardia" proteggevano con il vincolo il Parco del Turismo e quello del Ninfeo, quello delle Cascate, tutto il verde intorno al Laghetto e il suo invaso, il Giardino degli Ulivi e quello delle Cascate, il Teatro all´aperto, fino al Bosco degli eucalipti, «piantato nell´Ottocento - si legge nelle nove pagine della relazione che accompagna il dossier fatto di foto, piante, documenti d´epoca - dai frati trappisti dell´abbazia delle Tre Fontane allo scopo di aver e a disposizione la materia prima per i loro prodotti farmaceutici». Queste sono le architetture verdi, del più giovane e fino al 2009 ancora non vincolato, parco della Città Eterna. Parco che il decreto ministeriale emanato il 16 dicembre (le notifiche sono partite il 12 gennaio) finalmente protegge.

Tra gli allegati al vincolo, c´è anche la mappa (degli anni Quaranta) con l´esatta dislocazione delle 44 specie arboree previste nei "Parchi del Ninfeo e del Turismo". Dal «Pinus» al «Cedrus Atl. Glauca», passando per quello del Libano e per l´acanto, la robinia, i cipressi, le querce, il «myrtus communis». Anche la disposizione dei fusti è segnata nel progetto dell´epoca. E, in attesa di un restauro ambientale, ci si chiede come questa zona possa sopportare i box, le gradinate, le protezioni per i piloti lungo la pista, indispensabili per una corsa di Formula 1.

Anche le manifestazioni organizzate lungo i tre mesi estivi - fino a cinque contemporaneamente, e che a causa dell´eccessivo rumore hanno prodotto almeno una novantina di esposti da parte degli abitanti, in particolare degli inquilini di via di Val Fiorita - dovranno passare ora al vaglio della Soprintendenza. I palchi, i bar, le passerelle e le cancellate, dovranno - se autorizzati - rispettare il decoro e la salvaguardia di quei giardini e di quegli alberi che all´Eur sono riconosciuti ora «di valore artistico». E tutelati come il Colosseo quadrato, il palazzo dei Congressi o i mosaici futuristi di Prampolini e Depero.

I commenti

Non sta nella pelle Matilde Spadaro, 37 anni, piccola e combattiva, un cuore rosso-verde che batte per il quartiere del XII Municipio del quale è consigliere d´opposizione. «Siamo felici per il vincolo sul verde dell´Eur, ma il merito è tutto del ministero che ha dotato il nostro quartiere di un formidabile strumento di tutela». Più compassata la sua compagna di battaglie, Cristina Lattanzi, 61 anni, un passato da imprenditrice tessile e un presente da vicepresidente del combattivo manipolo di cittadini del comitato («apolitico», ci tiene a sottolineare) "Salute e ambiente Eur": «È una vittoria di tutti i cittadini, non una guerra contro qualcuno. Del vincolo goderanno tutti, nessuno escluso». Intorno a loro si è mossa una galassia che va dal Consiglio di Quartiere Eur all´Associazione Colle della Strega, dal Comitato di Quartiere Torrino Decima a Cecchignola vivibile, a Viviamo Vitinia. E da questo movimento è nata la richiesta di vincolo.

Matilde Spadaro, come iniziò la vostra battaglia?

«Quando nel 2006 ci rendemmo conto che sui parchi dell´Eur pesava la minaccia di edificazioni stabili per un totale di 18mila metri cubi di cemento».

Non si trattava solo di "gazebo"?

«In realtà si trattava di strutture di ristorazione previste lungo via di Tre Fontane e del tutto incompatibili con l´architettura verde prevista da De Vico nel parco del Ninfeo e del Turismo. La delibera comunale del 2008, la 72, ci diede però torto. E arrivò il permesso a costruire 12mila metri quadri lungo il Boulevard. Ma nel frattempo, insieme con Italia Nostra e altre associazioni ambientaliste, chiedemmo allo Stato di porre il vincolo sul verde dell´Eur. E, ora che è arrivato, esultiamo perché è confermato il valore storico artistico dei nostri parchi. E perché viene ribadito il ruolo di protagonista della Soprintendenza nella tutela».

Ma perché una gara di automobilismo è incompatibile con i parchi dell´Eur, non sono previste nuove strade, vero Cristina Lattanzi?

«Sembrerebbe di no. Ma i problemi sono due. Primo, c´è la questione dell´inquinamento atmosferico e acustico che un Gran Premio porta con sé. E secondo, soprattutto, c´è l´impatto che le strutture di contorno della gara avranno certamente ai bordi del tracciato. Infine, vorrei segnalare che il sottopasso sotto la Colombo è indispensabile per la gara ma non ha nessun senso per la viabilità quotidiana: lì sotto, a via delle Tre Fontane, non si creano mai ingorghi».

Eppure a Monza la Formula 1 attraversa il parco, perché a Roma no?

«A settembre siamo andate con Matilde a prendere visione del circuito. Eravamo ospiti degli "Amici dell´autodromo". Ma lì, per l´appunto, si tratta di un autodromo vero. A Roma, invece, sarebbe un circuito cittadino. E non è pensabile che le piante, gli alberi e i prati del parco del Turismo, del Ninfeo o degli Eucalipti, non verrebbero toccati qualora si dovessero inserire le vie di fuga per le auto di soccorso, i box per i team, le recinzioni per la tutela dell´incolumità dei piloti e del pubblico. Le gradinate per la folla, poi, andrebbero messe lungo le strade. Ma sono le strade di un parco tutelato, ora».

Che rapporto c´è tra i 9-10mila abitanti dell´Eur e questi giardini di mezzo secolo fa?

«La gente dell´Eur è molto affezionata al verde tra i grandi viali e i magnifici palazzi dell´E42. E il vincolo, lo ripeto, è una vittoria di tutti».

la Repubblica, 27 gennaio 2010

Agro, tagliato 1 milione di metri cubi di cemento

Il vincolo del ministero tutela 5400 ettari di verde tra Laurentina e Torvaianica - Prg da rivedere Alemanno: "Attenzione per i diritti già acquisiti"

È un vincolo "vestito" quello del ministero Beni culturali che definisce di «notevole interesse pubblico paesaggistico ampi compendi dell’Agro romano meridionale nell’ambito del Comune di Roma». Ma è un abito che va parecchio stretto sia ai costruttori sia agli amministratori locali. Lo strumento di tutela prevederebbe un taglio secco ai due milioni di metri cubi di cemento che si sarebbero dovuti riversare sui 5400 ettari dell’area compresa «tra le vie Laurentina e Ardeatina e, in senso Nord-Ovest - Sud-Est, tra la Cecchignola e il confine comunale meridionale costituito dalla strada provinciale Albano-Torvaianica, fino ad est dell’Ardeatina, verso la fascia pedemontana del vulcano laziale». Secondo le indiscrezioni ci sarà spazio invece per un milione di metri cubi, e basta.

La nota tecnica che entra nel dettaglio del vincolo preparato a luglio dalla Soprintendenza statale ai beni architettonici e paesaggistici di Roma è nel computer della Direzione regionale del Lazio: la firma al decreto è del direttore Mario Lolli Ghetti. Ma nei prossimi giorni il dossier dovrebbe andare online sui portali del ministero. Si potrà così saperne di più del vincolo che ha spaventato Campidoglio e Associazione dei costruttori romani.

«Prima di esprimere un giudizio bisogna fare una valutazione molto attenta di come il vincolo è stato corretto in base alle osservazioni» ha detto ieri il sindaco Alemanno, facendo eco al presidente dell’Acer Eugenio Batelli. Ma poi il primo cittadino ha annunciato che dopo l’analisi «prenderemo una posizione molto netta e definita perché vogliamo che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Qualsiasi correzione rispetto al piano regolatore approvato dalla giunta Veltroni, e non dalla nostra, rappresenta comunque un problema di diritti acquisiti che vengono violati».

Certo, il Piano regolatore generale del 2008 va rivisto. Il vincolo del ministero - che ha ricevuto il plauso dell’opposizione attraverso il vice presidente della commissione Ambiente Athos De Luca, e che è passato dopo l’analisi (una per una) delle più di novanta controdeduzioni - in realtà non prevede nessuna barricata nei confronti degli edili. Neanche nella zona centrale, dove l’identità paesaggistica è più integra.

Mentre nelle parti più vicine al Gra e ai quartieri storici della periferia, le compensazioni ottenute dai costruttori romani non vengono toccate (cantieri e progetti insomma vanno avanti) nel cuore antico dell’Agro romano il vincolo è più stringente. Ma permette comunque agli imprenditori agricoli presenti di espandersi, anche attraverso nuove costruzioni, a patto che rispettino l’ambiente e precise norme edilizie. Ed è in questo senso che - spiegano gli architetti del ministero - il «vincolo è "vestito"», come ha detto l’altro ieri il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. Diversamente dagli strumenti di tutela del paesaggio messi a punto in passato, quello sull’Agro romano ha una visione globale che fornisce anche un corpus di norme dettagliate, strumenti che ne permettono in ogni momento l’attuazione e la difesa.

Repubblica online, 28 gennaio 2010

Vincolo sull'Agro, il Comune ricorre al Tar

L’assessore all’Urbanistica Corsini: "Contro i divieti ci appelliamo ai magistrati". I Verdi: "Difenderemo noi il decreto di Bondi"

Eccola la mappa del vincolo della discordia [i punti rossi indicano i luoghi dove era consentita l'edificazione - ndr]. Il perimetro esatto degli ettari dell’Agro romano intorno ai quali è scoppiata una guerra tra Campidoglio e ministero Beni culturali a suon di ricorsi al Tar. L’assessore all’Urbanistica Marco Corsini ieri ha annunciato: «Dopo una approfondita valutazione dell’iter seguito, il Comune ha deciso di far valere le sue censure davanti all’autorità giudiziaria». «Abbiamo sempre detto che il metodo seguito dalla Soprintendenza lasciava molte perplessità» ha aggiunto, sottolineando che «il Prg del Comune è stato approvato con il parere favorevole della Soprintendenza e che il tavolo istituzionale costituito dal ministro non è mai stato convocato».

Una prima difesa della bontà dell’operato del soprintendente Federica Galloni arriva dal leader nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli: «Il ricorso del Comune è un atto contro l’ambiente e i cittadini. Difenderemo presso il Tar il decreto del ministro Bondi per impedire la cementificazione di una parte importante dell’Agro». Il dossier sul decreto che stabilisce di «notevole interesse pubblico» l’area «sita nel Comune di Roma, Municipio XII, qualificata "Ambito Meridionale dell’Agro Romano compreso tra le vie Laurentina e Ardeatina» è da ieri sul sito della Direzione regionale guidata dal firmatario del decreto, Mario Lolli Ghetti.

La mappa dell’area tutelata ha la forma di un cuore. E al suo interno prevede diversi punti in cui erano state rilasciate o si prevedevano autorizzazioni a costruire. Le compensazioni di Prato Smeraldo 2, vicino alla Cecchignola, e di Valleranello più avanti sulla Laurentina, ad esempio. E poi gli insediamenti di edilizia popolare (legge 161) a Porta Medaglia, Trigoria, o a Falcognana (Divino Amore). Più i cosiddetti "toponimi" (altre concessioni di metri cubi di

Nel rapporto scaricabile dal sito laziobeniculturali.it ci sono anche le bellissime foto di casali e torri messi al riparo dalla speculazione: Falcognana, Torre Medaglia, Donna Olimpia. E c’è il quadro completo delle osservazioni al vincolo: 124. Con le risposte, una per una, della Soprintendenza. «Rigettato» è ad esempio il «parere genericamente contrario» della Provincia. «Rigettate» sono le «osservazioni varie» del Comune. «Accolta con prescrizioni» invece l’osservazione dell’Acea per la «rete infrastrutturale» su un quarto di ettaro. «Rigettata» la richiesta di «trasformazione urbanistica» su 10 ettari presentata dalla Immobiliare Domizia. «Rigettata» anche quelle della Cecchignola Immobiliare srl che chiedeva lo «stralcio dell’area dal vincolo» per più di 110 ettari di Agro. E se il «parere complessivo sul vincolo» della Regione Lazio ha avuto come controdeduzione «motivatamente disatteso», «rigettata» è la «previsione edificatoria del comprensorio di Castel di Guido» avanzata dalla Gestione ristoranti romani srl.

In attesa di analizzare bene le carte, il comitato "Liberagro", per voce di Massimiliano Di Gioia, difende l’operato della Soprintendenza statale: «Ha svolto un lavoro di grande importanza nella pianificazione del territorio, un ruolo mortificato per troppo tempo dalle amministrazioni locali».

A proposito di "diritti edificatori" vedi l'articolo di Edoardo Salzano e il parere pro veritate di Vincenzo Cerulli Irelli

Il cartello messo da qualche fan del comune annuncia urbi et orbi: 'Dal 19 febbraio potati 5.500 alberi!'. Tra cui, si sottolinea, '416 lecci'. Sotto la pubblicità un secondo cartello, appiccicato dai fascisti di Casa Pound. Lapidario. 'E 'sti cazzi! I cittadini di via Mastrigni vivono ancora sopra una discarica abusiva!'. Ecco qua. La diatriba un po' scurrile tra destra al potere e contestatori che più neri non si può, sintetizza alla perfezione lo scontento che serpeggia tra le strade e i vicoli della città eterna. Traffico, smog, spazzatura, trasporti e buchi nelle strade, "la Capitale più che a Milano sembra avvicinarsi sempre più a Napoli". Lo si sente dire sempre più spesso tra gli stranieri in visita al Colosseo, dai settentrionali costretti a scendere per lavoro sotto il Po e pure dai romani 'de' Roma', cittadini della capitale più degradata dell'Europa occidentale. Una vox populi che monta, passa di bocca in bocca, diventa quasi un luogo comune, praticamente certezza quando si parla di sporcizia, mobilità da manicomio e sicurezza urbana.

Non sono solo chiacchiere, ma insofferenze che trovano conforto nell'esperienza quotidiana dei forzati dell'Urbe e, soprattutto, negli indicatori formulati da studi di ricerca e istituti specializzati super partes. Al di là delle classifiche di fine anno sulla qualità della vita (in quella del 'Sole 24-Ore' Roma migliora di quattro posizioni, 'Italia Oggi' parla invece di "allarme" e la fa sprofonda dal 29esimo all'83esimo posto) i dati disegnano una città che sembra aver messo la retromarcia. O che, quando va bene, resta inchiodata sul posto.

Partiamo dal settore 'igiene e decoro'. L'Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali del Comune qualche settimana fa ha snocciolato le tabelle del rapporto annuale, dicendo, fuor di metafora, che le strade sono sporche da far schifo. L'aveva anticipato Silvio Berlusconi lo scorso maggio: "Roma sembra una città africana". Lo ripetono a novembre i cittadini intervistati dall'Agenzia: il loro indice di soddisfazione si ferma a un misero 4,4 su 10. I marciapiedi sono un letamaio perfino in centro, i cassonetti debordanti, mentre la raccolta differenziata è immobile, ancora sotto il 20 per cento. È una delle percentuali più basse registrate in Italia, nonostante i romani paghino tariffe del 35 per cento più alte rispetto alla media delle grandi città.

Viva l'automobile

Venerdì 4 dicembre. Causa mal tempo, la presenza di due cortei e di un qualsiasi piano anti-traffico, Roma si è bloccata. Accartocciata su se stessa in un delirio di macchine, scooter e taxi paralizzati nel peggior ingorgo degli ultimi anni. 'Il giorno del giudizio', recitano i titoli dei giornali locali. Un delirio che si ripete in scala ridotta altre volte nelle settimane successive, a ogni stormir di sciopero dei mezzi pubblici o per colpa di qualche goccia di pioggia. I vigili, nonostante siano stati muniti di pistola, non possono domare il Mostro, e si dichiarano sconfitti. Anche sul versante della mobilità, la Roma di fine 2009 resta anni luce da Berlino, Parigi, Londra o Madrid. Il giudizio dei residenti sulla metro è migliorato, ma la rete - che resta ridicola in termini chilometrici - per l'Agenzia non assicura "l'efficacia effettiva rispetto alle esigenze dei cittadini".

In attesa che il governo metta in piedi l'utopica colletta da 12 miliardi di euro, cifra necessaria secondo i tecnici del ministero dei Trasporti a liberare per sempre la Capitale dal traffico, quasi tutti sono costretti a ficcarsi sull'autobus e l'auto. Tram e affini (che pesano sul 70 per cento del trasporto pubblico) godono però "di scarso apprezzamento". Troppo pochi e affollati, troppo lunghi i tempi di percorrenza, troppo rare le corsie a loro riservate. Spesso congestionate di Suv e utilitarie, che complice l'apertura spesso indiscriminata dei varchi Ztl, sono le vere dominatrici dell'asfalto romano. Asfalto pieno di buche, come tradizione: archiviato mesi fa il maxi-appalto dell'imprenditore Romeo, non sono stati ancora assegnati gli otto lotti per i lavori di manutenzione ordinaria del manto stradale. Si viaggia a vista, sull'emergenza.

Risultato del combinato disposto: il pandemonio totale. E lo smog finito sopra ogni livello di guardia: secondo uno studio dell'Asl di fine 2008 mai pubblicizzato, i decessi da inquinamento 'evitabili' sarebbero migliaia. Ogni anno. Le polveri sono colpevoli di "una quota piccola ma rilevante di mortalità", e uccidono soprattutto anziani, donne e cardiopatici. L'analisi degli scienziati si conclude mestamente: "A Roma l'inquinamento ambientale costituisce un problema di sanità pubblica ancora molto rilevante". Alternative all'orizzonte non se ne vedono: secondo l'Agenzia l'urbe è "fanalino di coda nello sviluppo del car sharing", i parcheggi di scambio sono ai minimi. Anche la nuova organizzazione tariffaria delle strisce blu è disastrosa: se nel 2009 i furbi che non pagano la sosta sono rimasti stabili (circa il 12 per cento), sulle nuove strisce bianche a disco orario sono saliti al 22 per cento.

Trionfo dell'insicurezza Anche sul tema caldissimo della sicurezza non sono rose e fiori. I campi rom non sono stati ancora trasferiti fuori dal Grande Raccordo (il piano era della giunta Veltroni, Alemanno aveva promesso in campagna elettorale di rimpatriarli tutti) e i recenti episodi di violenza non hanno aiutato a rasserenare il clima. Gli effetti dell'ordinanza antiprostitute sono durati poco: le lucciole sono tornate presto sulla Salaria, sulla Colombo e sulla Tiburtina; gli eventi di via Gradoli e di Marrazzo hanno svelato la penosa situazione 'indoor' del fenomeno. Gli ultimi indicatori sono quelli dei carabinieri: nel 2009 segnalano per la provincia un calo del 12 per cento dei reati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Molti hanno gridato al miracolo, ma secondo il sociologo Marzio Barbagli, "per capire davvero il trend, è necessario sempre e comunque analizzare serie storiche più lunghe". Miglioramenti e peggioramenti possono essere repentini e contingenti: il 2003, per esempio, è di gran lunga il periodo migliore dell'ultimo lustro, e per molti delitti il 2008 è stato peggiore del 2007.

Di certo, quest'anno è enormemente cresciuto il senso d'insicurezza dei cittadini: secondo il Rapporto Eures-Upi pubblicato a novembre, la metà esatta dei romani si sente meno protetta rispetto a 12 mesi fa. Solo un misero 4,1 per cento dichiara di sentirsi 'più sicuro'. Colpa, probabilmente, delle gesta omofobe di Svastichella e dei suoi epigoni, delle tragiche vicende degli stupri su minorenni e delle risse che caratterizzano le notti romane. Niente di strano, visto che le 'ronde' non si sono messe in moto, le periferie restano in stato di abbandono, la polizia non ha mezzi per presidiare a dovere il territorio. Intanto la criminalità organizzata si sta insediando dappertutto, da via Veneto ai ristoranti di Fiumicino: un analisi riservata della Direzione centrale della polizia criminale descrive le infiltrazione di Cosa Nostra, in particolare la famiglia Stassi e la 'ndrina calabrese dei Parrello, mentre la camorra resta campione del "traffico di droga, dell'usura, del riciclaggio, del gioco d'azzardo".

Il futuro è nero In tempo di crisi, l'angoscia principale, dice l'Eures, resta il lavoro. Le parole d'ordine sono 'sviluppo' e 'occupazione', che dovrebbero essere priorità assoluta dell'azione politica. Dal 2005 al 2008 Roma ha tenuto meglio di altre, perché strutturata da sempre sul pubblico impiego e il lavoro dipendente. Ma secondo Confindustria le prospettive per il futuro sono negative: il 5 dicembre gli economisti dell'associazione, valutando vari indicatori (dai posti di lavoro ai depositi bancari, dalla grande distribuzione alla 'consistenza' delle imprese, fino alle spese per spettacoli e alle esportazioni), hanno tolto la Capitale dalla top ten. Ora è 13 , lontana da Milano, Aosta e Bologna.

Anche il turismo, settore chiave dove lavorano decine di migliaia di romani, soffre da cani. I tourist angels, 16 ragazzi dotati di monopattini elettrici, maglietta rosa e logo Spqr spediti a Fiumicino e Termini a dare informazione agli stranieri, non hanno potuto da soli far molto. Nemmeno il promo-video firmato da Franco Zeffirelli, costato centinaia di migliaia di euro, ha cambiato il trend. Sarà la crisi economica e il dollaro debole, un Festival del cinema senza lustrini, l'Estate romana ridimensionata, la Notte bianca cancellata, fatto sta che il numero di presenze in albergo nel 2008 è crollato del 7 per cento, mentre nei primi sei mesi del 2009 (dati dell'ente bilaterale del turismo) le presenze totali sono scese di altri 5 punti.

Calma piatta pure a Natale, dove ci si aspetta circa 200 mila arrivi in meno rispetto al 2007, con un fatturato per gli hotel in picchiata, ha detto il presidente di Federalberghi Giuseppe Roscioli, "del 20-30 per cento". Se le botticelle anacronistiche (Michela Brambilla dixit), ristoranti e taxi piangono, il settore commerciale, a causa della recessione e di affitti alle stelle, non ride: più di un migliaio di negozi sono stati chiusi nel 2008, altrettanti abbasseranno le saracinesche nel 2009.

Tante promesse Alemanno è sindaco da quasi due anni. Un tempo in cui è riuscito a farsi un po' di nemici, e una schiera sterminata di delusi. Retromanno, Lupomanno, Alè-danno, re Tentenna, sono alcuni dei nomignoli con cui viene sbeffeggiato dai critici di ogni colore. "Un uomo solo al potere, circondato da una schiera di incompetenti. Un sindaco che più che a un secondo mandato lavora per diventare futuro leader del Pdl", sospettano nel Pd e congiurati del centro-destra, tendenza Forza Italia. Alemanno è accusato da più parti di governare non con atti concreti, ma con promesse e parole. Sfogliando le pagine del libro dei sogni, in effetti, c'è di tutto: un "accordo preliminare" con Bernie Ecclestone per portare la F1 all'Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il centro città da pedonalizzare "entro 5 anni", il raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino, il waterfront del litorale di Ostia, i parchi tematici, i campi da golf, la costruzione di case popolari, il polo turistico sulle campagne dell'agro-romano.

Annunci sfornati anche dai tanti componenti della celebre Commissione Marzano (per il restauro della sede di via Baccelli si prevedeva una spesa di 271 mila euro, più altri 30mila per gli arredi), ma mai diventati operativi. Alcune delle loro idee sono state rilanciate qualche giorno fa attraverso il Progetto Millennium, sorta di Stati generali che a maggio dovrebbero realizzare un nuovo piano strategico per la città.

Secondo le opposizioni si tratta di "fuffa pura", progetti destinati a rimanere sulla carta. Nel mondo reale, il gradimento sugli asili e l'assistenza agli anziani scende, i fondi della legge Roma Capitale non sono stati ancora ri-finanziati (gli ultimi denari li ha messi Prodi), i miliardi del Cipe per le opere pubbliche sono finiti quasi tutti al Nord. Le casse comunali piangono, e molte delle 20 società del Campidoglio sono in profondo rosso. Non solo per il 'buco' lasciato da Veltroni, ma anche per le performance mediocri delle municipalizzate, Acea su tutti. Senza l'Ici tolta dal governo, è poi mancata una fonte di gettito essenziale. Tanto che il bilancio per la prima volta da lustri non verrà approvato a Natale: si vocifera che sia in cantiere l'aumento della Tarsu, delle rette degli asili e del biglietto della metro.

Qualche euro è stato ovviamente speso, e i pochi appalti assegnati disegnano parte della nuova mappa del potere. I costruttori dell'Acer, attraverso Patrizio Furio Monaco, hanno per ora incassato la commessa da 140 milioni per la tramvia che collegherà l'Eur con Tor de' Cenci, mentre Franco Gaetano Caltagirone ha all'attivo gli accordi su Acea (oggi l'uomo forte nella ricca azienda elettrica è un suo fedelissimo, Marco Staderini). Un subappalto da circa 20 milioni per alcuni servizi dentro gli asili comunali è stato invece assegnato alla Team Service, co-proprietaria di Obiettivo Lavoro, la società collegata alla Compagnia delle Opere dentro cui è confluita anni fa la Lavoro Temporaneo, un tempo diretta dall'amico del sindaco Franco Panzironi, attuale amministratore di Ama. Emilio Innocenzi, ex presidente di Team Service, non ha però potuto festeggiare: è stato arrestato lo scorso giugno in un'inchiesta su tangenti e appalti nella sanità. Alemanno sembra voler emulare il governatore lombardo Formigoni: a un'altro consorzio vicino alla Cdo ha concesso qualche milione per il servizio di apertura, "anche forzosa", degli alloggi degli sfrattati. Si tratta di Labor, ovviamente partner anche lui di Obiettivo Lavoro.

Offresi poltrona Qualche mese fa il Comune aveva contestato 'L'espresso' perché aveva svelato come, in meno di un anno, sindaco e assessori avessero assunto 182 collaboratori esterni, per una spesa tra stipendi e oneri previdenziali di 18 milioni e mezzo. Ebbene, quei numeri erano esatti, presi pari pari dalle delibere di giunta. Non solo: Alemanno non ha smesso di assumere. Quasi un vizietto, un tic che ha contagiato anche gli amministratori messi dal primo cittadino a capo delle municipalizzate. Sommando contratti a termine e a tempo indeterminato, tra Comune, Ama, Trambus, Metro e altre società in house, in meno di due anni sono stati assunti ad personam circa 500 tra ex precari, professionisti ed esperti veri e presunti, amici, amici degli amici e famigli. Molti, ça va sans dire, con il cuore che batte a destra.

Ormai l'ufficio stampa del Campidoglio è composto da ben 64 unità, di cui 23 esterni. Una cosa mai vista prima. Segreteria e uffici di gabinetto costano come non mai. Con la scusa del risparmio i vecchi dipendenti lamentano di non poter fare più straordinari, ma di recente i magnifici 182 sono stati raggiunti da altri 25 fortunati. Il Gastone è Antonino Turicchi, nuovo 'direttore esecutivo' che pesa sul bilancio per 349 mila euro l'anno, figura che secondo Alemanno "avrà il compito di assicurare la coerenza, l'efficacia e l'economicità dell'attività di gestione". Un doppione, dicono invece i critici, del potente segretario generale Antonio Lucarelli e del (già pagatissimo) capo di gabinetto Sergio Gallo. Il 4 novembre sono stati assunti il professore appassionato di poesie Fabrizio Giulimondi (110 mila euro l'anno), Giovanni Formica, l'ex vicepresidente della Cdo di Roma Paolo Gramiccia (136 mila) e Marco Cochi (fratello del consigliere delegato allo Sport).

Non si bada a spese nemmeno all'Ama, la municipalizzata che raccoglie spazzatura, dove Panzironi ha assunto oltre 60 persone. Nonostante un rosso record che nel 2008 ha toccato i 256 milioni, un buco che ha costretto il comune ha regalare all'ente il Centro carni, mega complesso immobiliare ancora da costruire. Ebbene, all'Ama sono entrati gli amici di Alemanno come Luca Panariello, l'ex naziskin Stefano Andrini, il genero di Panzironi Armando Appetito (2.904 euro lorde al mese), Carmela Gallo (una sua omonima ha lavorato con il sindaco quando era ministro), Fabio Massimo Fumelli (licenziato dai veltroniani nel 2007 è stato riassunto con uno stipendio da 6.431 euro al mese), e decine di altri contratti a tempo indeterminato. In tutto, i nuovi stipendi viaggiano intorno al milione e mezzo l'anno. Stessa linea anche alla Me.tro spa, dove si segnalano tra le decine di assunzioni quella di un consigliere municipale di An (Giuseppe Sorrenti), di un ex candidato di Forza Italia alle comunali 2006 (Emanuele Pesciaroli) e di Giuliano Falcioni, ora autista dell'amministratore delegato, ieri taxista e sindacalista vicino all'Msi.

"Quando è troppo, è troppo" sostiene qualcuno, senza sapere che il medico personale e gran consigliere di Alemanno, Adolfo Panfili, è stato designato delegato alla Salute, mentre la di lui consorte Valeria Mangani è diventata vice-presidente della società AltaRoma. Le indiscrezioni parlano di consulenze al giornalista Enrico Cisnetto (chiamato dalla Fiera di Roma, per 'Italia Oggi' incasserebbe 280 mila euro) e all'intramontabile Maurizio Costanzo. L'anchor-man è consigliere personale per la 'comunicazione sociale', ma ha precisato che svolgerà la mansione a titolo gratuito. Speriamo: nelle casse del Campidoglio non c'è davvero più un euro.

Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando la popolazione della capitale è già più che raddoppiata rispetto a quella del 1870 e veleggia oltre il mezzo milione di abitanti, i borghi abusivi degli immigrati (manovali, muratori, scaricatori, popolo minuto) si chiamano “villaggi abissini”. Nei borghetti, ha scritto Mario Sanfilippo nel suo esemplare volume Le tre città di Roma, uscito da Laterza nel 1993, “si rifugiano i nuovi immigrati poveri, attratti dalla ‘febbre edilizia’, ma anche gli espulsi dalla città regolare e coloro che possono costruirsi soltanto un riparo di fortuna”. Sono gli effetti dei grandi sventramenti umbertini che Mussolini riprenderà potenziandoli, fra via dell’Impero, corso Rinascimento, Spina di Borgo, Augusteo e creando le prime borgate del regime, a cominciare da Primavalle. Nel 1911 si contano già almeno una trentina di insediamenti precari. È cominciata a Roma la lunga e dolorosa storia dell’edilizia illegale la quale ha per decenni, fino agli anni Settanta del Novecento, una radice e una ragione sociale profonda. Sulla capitale si rovesciano infatti masse di immigrati – anche centomila all’anno un quarantennio fa – che vengono dal Lazio interno misero e affamato, dal Sud, in particolare da Campania e Sicilia.

Nel 1938, quando Adolf Hitler viene in visita a Roma, il corteo ufficiale deve sfilare davanti al Verano, e allora le baracche abusive dei diseredati vengono celate da un grande pannello dipinto con pini a ombrello. Neppure il fascismo, la cui attività edilizia risulterà intensissima, riesce ad affrontare, pur coi grandi mezzi che Mussolini mette a disposizione della città-immagine dell’Impero tornato sui colli fatali, il nodo dell’abusivismo edilizio. Del resto proprio il duce ha fatto saltare i conti demografici della metropoli evitandole, caso unico, l’applicazione delle leggi fasciste contro l’immigrazione spontanea. Per emigrare, bisogna avere un lavoro e una casa e nessuno dei poveri che lasciano campagne e paesi ce l’ha. Così, rispetto al 1921, la Roma della Liberazione ha più che raddoppiato gli abitanti giunti al milione e mezzo di persone.

Nel dopoguerra, con le maggiori città ridotte spesso a macerie, il fenomeno dell’edilizia illegale dilaga in tutta Italia, anche nelle aree più sviluppate del Nord. Sono abusive intere “città della domenica” alla periferia di Milano, nei comuni della “cintura” settentrionale, come Limbiate e Paderno Dugnano, dove le chiamano “coree”, affollate di immigrati veneti, calabresi, siciliani, campani. Nel 1959 collaboro con Camilla Cederna (il fotografo è Ugo Mulas) a una inchiesta per l’“Espresso”. Passiamo attraverso incredibili periferie “spontanee” alle quali poi bisognerà portare tutti i servizi, primari e secondari. Il fenomeno, di proporzioni impressionanti, si riassorbirà, grazie all’azione dei governi e dei comuni di sinistra e di centrosinistra, soltanto negli anni Settanta. Lì come a Torino o a Venezia Mestre. Ma già sulle riviere liguri e lungo la costa romagnola o toscana l’abusivismo è diventato il grimaldello della speculazione edilizia, che fa saltare i piani regolatori e pone le basi per la cementificazione delle nostre coste. Di litoranea in litoranea, di lungomare in lungomare, dei 1240 chilometri di dune sabbiose in faccia all’Adriatico, ne sopravviveranno, alla fine del secolo scorso, appena 120, cioè meno del 9 per cento. Per la Liguria Giorgio Bocca conia sul “Giorno”, dove conduce inchieste informate e taglienti, due neologismi: “Lambrate sul Tigullio” e “rapallizzazione”.

Quando vengo, nel 1974, a lavorare a Roma, al “Messaggero”, mi occupo molto e molto liberamente di urbanistica. Vado in Umbria e lì l’assessore regionale alla partita, il comunista Ottaviani, mi garantisce che l’abusivismo edilizio, da loro. è ormai del tutto sconosciuto. È così anche al Nord che ho appena lasciato, tranne i “punti neri” di alcune riviere. A Roma invece va avanti come una fiumana: le inchieste giornalistiche del tempo fissano in 800 mila il numero dei romani i quali risiedono in case illegali. Sono quindi 800 mila stanze abusive, non allacciate alle fognature, fra l’altro, e che quindi determinano un inquinamento terribile delle marane, delle falde idriche e del Tevere. Una sorta di anti-città che viene ben descritta nel volume-inchiesta che Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta dedicano alle Borgate di Roma, dove si dimostra, fra l’altro, che autentiche “colonie” di immigrati si sono fermate – e formate – all’ingresso delle vie consolari a Roma: campani sull’Appia, abruzzesi sulla Prenestina, marchigiani e umbri sulla Flaminia e così via. Sono gli anni dell’epos drammatico e populista dei pasoliniani Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959). Di quegli stessi anni è il film Il tetto di De Sica e Zavattini, uno dei più deboli forse e però da ricordare come documento cinematografico delle “case della domenica”, dell’autocostruzione nel decennio Cinquanta nella capitale, e non solo. Ma, accanto alle case, ai borghi e ai borghetti abusivi, si cominciano a sviluppare intere lottizzazioni non meno abusive che, sulla pelle dei più poveri, della stessa micro-borghesia e del Comune, si ramificano nell’Agro cementificando intere zone verdi e lucrando profitti enormi. Come testimoniano le inchieste e le fustigazioni continue di Antonio Cederna, sul “Mondo” e poi sul “Corriere della Sera”, le campagne dell’“Espresso”, di “Paese Sera” e dell’“Unità”, e i libri del sociologo Franco Ferrarotti, come Roma da capitale a periferia. Ci vorrà lo sforzo enorme delle prime amministrazioni di sinistra dopo tanti anni di sgoverno (Argan, Petroselli, Vetere) per sanare, a carissimo prezzo, la ferita immane dell’abusivismo e per dare forma di città a quella anti-città.

Nel 1984, nell’imminenza di nuove elezioni amministrative comunali, facciamo svolgere, al “Messaggero”, una inchiesta sull’abusivismo edilizio affidandola al Censis di Giuseppe De Rita. Cosa ne emerge? Che l’abusivismo “sociale” o “di necessità” è ormai poca cosa rappresentando il 4,5 per cento dell’edilizia illegale a Roma. Ecco emergere quindi i protagonisti del nuovo abusivismo romano: speculatori i quali imboccano la solita scorciatoia per costruire villoni da quattro appartamenti almeno, uno per sé, uno per gli altri membri della famiglia e due almeno da vendere o da affittare. Tutto rigorosamente in “nero”. E spesso con finanziamenti facili che venivano dal racket, dalla malavita. Ma cosa fanno i notai, le aziende pubbliche dell’elettricità, dell’acqua, del gas? Nulla di nulla.

È, per l’appunto, il nuovo abusivismo romano che viene raccontato in questo importante libro, scritto in presa diretta come una cronaca vera e viva, dalla giornalista Chiara Lico, e che ha come protagonista positivo Massimo Miglio, titolare per molti anni dell’Ufficio comunale antiabusivismo, esposto a minacce, attentati, initimidazioni e però sempre sulla breccia quando le amministrazioni di centrosinistra s’impegnano a fondo. Un dirigente essenziale, prezioso, per competenza e coraggio che invece la giunta di centrodestra guidata da Gianni Alemanno ha praticamente sollevato dall’incarico e che, per fortuna, ha trovato nuovi spazi d’azione e di tutela dell’interesse generale presso la Regione Lazio su di un territorio devastato da abusi di ogni tipo, ovunque arrivi un po’ di sviluppo, dalle città dell’interno al litorale, campo di esercitazione prediletto. Anni fa lo scrittore Alberto Moravia espose una sua insolita teoria: l’abusivismo diffuso nasceva, a suo dire, soprattutto dalla totale assenza di cultura urbana che caratterizzava immigrati meridionali i quali – gli abruzzesi in particolare – erano in origine pastori nomadi. Non so quanto fondamento avesse. Certo esiste una “cultura dell’abuso edilizio e urbanistico” che, negli anni Settanta, riguardava essenzialmente la grande area da Roma alla Sicilia e che oggi, dopo i condoni edilizi del 1984, del 1994 e del 2003 (governi Craxi, Berlusconi 1 e 2), è risalita anche al Centro-Nord dove risultava quasi estinta o comunque limitata a piccoli abusi (lo stenditoio, che diventa, ad esempio, mansarda). Una autentica tragedia nazionale. La quale ha concorso a estendere le ramificazioni del crimine organizzato, sotto forma di racket o di “assistenza” interessata.

In questo libro, utile in sé e per sé, frutto di una ricerca sul campo penetrante, è decisamente interessante l’analisi della natura dell’abusivismo romano, delle sue diverse fasi storiche nonché la descrizione dei vari tipi umani che ne sono stati o ne sono i protagonisti: l’abusivo semplice, “storico”, e cioè quello della “casa della domenica” a blocchetti di tufo; l’abusivo speculatore, i cosiddetti “speculatori mediani” che diventeranno spesso famosi come i furbetti del mattone; l’abusivo scientifico, quello che fa leva sul condono del 2003, con intenti speculativi molto mirati godendo di assistenza legale e tecnica continua (e che magari ha nel centro storico uno dei suoi terreni privilegiati di azione illegale); l’abusivo arrogante che si avvale anche di appoggi e di omertà decisamente allarmanti, di segno malavitoso. Ma non mancano pure casi stupefacenti di abusivismo “istituzionale” legato ad alcuni centri di potere politico-istituzionale che pensano di fare, più o meno, quello che vogliono. Certo è che, indebolitesi ormai le tracce di una “necessità sociale”, l’abusivismo sceglie i propri nuovi insediamenti nelle aree più pregiate della capitale, ai margini delle zone archeologiche o di grandi parchi, quello di Veio, in specie, che “entra” dentro Roma. Ma senza trascurare naturalmente l’Appia Antica dove tante sono state le demolizioni, specialmente sotto la presidenza di Gaetano Benedetto. Nel libro fanno impressione cifre da capogiro, capannoni da tre-quattromila metri cubi.

Un fenomeno che non si riesce a estirpare, anche per la progressiva riduzione (fino alla sparizione) dell’edilizia pubblica, in specie quella sociale in un Paese che è di nuovo finito ai primi posti di una classifica europea della vergogna. Un fenomeno del quale, anche per stanchezza (oggi è un po’ troppo facile, in verità), l’informazione si interessa a cicli, a ondate, senza fare il suo mestiere di scandaglio continuo, incessante, di ogni legalità, a partire da questa che somma illegalità urbanistica, edilizia, occupazionale, contributiva, fiscale, con ripercussioni negative sull’intero arco dei beni primari di una città e di un Paese. L’augurio è che una ricerca come questa – che fra l’altro contiene una cronistoria di casi di grande leggibilità e pertanto ancor più scioccante – concorra a risvegliare le coscienze intorpidite, a porre le basi per una ripresa dell’impegno civile e democratico per la legalità in generale e contro un groviglio micidiale di illegalità, di abusi, di mafiosità. Davvero in questa battaglia – che è una battaglia di civiltà – non possiamo mollare, non possiamo rassegnarci a subire il corso delle cose. Siamo sempre più i peggiori dell’Europa sviluppata e avanzata, retrocediamo agli ultimi posti. Stiamo stuprando, imbruttendo e dissipando, oltre tutto, un patrimonio di bellezza paesaggistica e ambientale che dovremmo invece conservare con la massima cura, anche soltanto per ragioni economicistiche, di tipo turistico-commerciale. Siamo stupidi e ciechi. Ma stiamo pure appannando una identità culturale nazionale, subendo quei “profani e scelerati barbari” dei quali Raffaello, primo soprintendente alle antichità dell’era moderna, denunciava nel 1519 i guasti orrendi. A forza di edilizia legale e illegale, in questi “anni di cemento” (e di asfalto), abbiamo consumato tanta buona terra agricola o a bosco e a pascolo dell’Agro Romano da far retrocedere il pur vastissimo comune di Roma dal primo al terzo posto (dopo Cerignola e Foggia) nella classifica dei comuni agricoli italiani. E senza aver affrontato seriamente l’emergenza-casa che si ripropone e che sposta i problemi della città oltre il gran raccordo anulare, addirittura oltre i confini della stessa provincia di Roma. V’è di più, in regioni ipersviluppate, come la Lombardia e il Veneto, la libertà di ogni pianificazione fondata sulla salvaguardia dell’interesse pubblico sta diventando tale che, paradossalmente, non ci sarà neppure più bisogno di costruire abusivamente. Il rapporto passa già, direttamente, fra i comuni e i maggiori detentori di aree, con la cancellazione di quella conquista di civiltà che erano stati, con la legge-ponte del 1968, gli standard urbanistici coi quali si prescriveva la dotazione, nei piani regolatori, di una certa quota per abitante di verde, di scuole materne e primarie, di strutture culturali, di quanto insomma fa della civile Europa, dalla Svezia all’Olanda, alla Germania, la civiltà dell’abitare di un popolo. Noi regrediamo ad un tale imbarbarimento urbanistico che edilizia legale e illegale finiscono praticamente per confondersi. E con un presidente del Consiglio tragicomico che, di fronte alle macerie del centro storico dell’Aquila, straparla per giorni di “new town” (poi, al solito, smentirà), pensando non a quelle volute, tanti anni fa, dai laburisti inglesi, ma alla “sua” Milano 2.

Roma, giugno 2009

Al Collatino erano previste opere pubbliche e campi sportivi regolamentari, un polo espositivo e una biblioteca. Ora invece il sindaco regala ai costruttori il venti per cento in più di residenziale.

«Adesso è chiaro quale è la ricetta di Alemanno per le periferie romane». «Una colata di cemento». La voce del consigliere di opposizione Massimiliano Valeriani è indignata, se possibile sconcertata, ma i dati che snocciola sono oggettivi. Al Collatino, periferia sud-est di Roma, intorno al nuovo centro carni si era articolata una importante trasformazione urbana, che puntava sulla riqualificazione.

Ora invece nello schema di assetto preliminare elaborato dalla giunta di centro-destra si passa, per l’edilizia residenziale da 4000 abitanti a 10.000. Nel piano elaborato dalla giunta Veltroni il mix urbanistico prevedeva il 32% di residenziale, il 51% di funzioni pubblice e il cosiddetto flessibile (cioè nella disponibilità del costruttore se ci sono problemi di costi o altro) al 15%. Nella previsione attuale i rapporti sono capovolti: il 42 per cento è destinato ad appartamenti, quantità a cui va aggiunta la quota flessibile aumentata al 23%; mentre scendono al35%le opere di interesse pubblico.

NIENTE IMPIANTI SPORTIVI

Oggi alle 12 è convocata una conferenza stampa di protesta a cui parteciperanno i presidenti del V, VI, VII municipio, perché la riqualificazione urbana dell’area intorno al Centro carni aveva coinvolto tutti: cittadini, istituzioni, squadre sportive. E il piano accolto dalla giunta Veltroni proprio grazie alla condivisione delle scelte prevedeva cose ben precise: una biblioteca di livello metropolitano,un polo espositivo delle scoperte archeologiche della zona ricchissima di reperti, impianti regolamentari di pallavolo e di pallacanestro, anche perché al Collatino ci sono due squadre che si collocano ai livelli alti della classifica nazionale.

Tutto questo è sparito o trasformato in generici impegni, mentre chiarissime sono le indicazioni che vengono dalla quantità di metri cubi: una colata di cemento finalizzata al massimo della «valorizzazione».Ma c’è di più: il Campidoglio ha ceduto la proprietà dei terreni pubblici ad Ama, l’azienda di smaltimento dei rifiuti che affoga nei debiti. Anche la giunta precedente intendeva utilizzare i profitti ricavati dalla valorizzazione per ripianare una parte del debito Ama. Ma una cosa è mantenere l’interesse pubblico, «che è quello di fare asili e opere di riqualificazione del territorio, un’altra è cedere tutto a chi ha solo interesse a guadagnare il più possibile».

Il Centro carni, per di più, non è la sola realtà su cui si concentrano gli appetiti speculativi. A poche centinaia di metri di distanza, il piano particolareggiato “casilino” prevede un indice di edificabilità dell’uno e quaranta per cento, quasi triplicato rispetto alle previsioni del piano regolatore.

«La mobilitazione comincia solo ora. - dice Valeriani - Quello che succede con il Centro Carni non è inaccettabile solo per noi,ma per tutti i cittadini, tutti i comitati. È inaccettabile anche per gli elettori di Alemanno

A un anno dalla chiusura, l’ospedale San Giacomo di Roma appare come un nobile decaduto, un vetusto edificio del centro storico condannato ad un futuro di abbandono. Gli ingressi sono sbarrati e nessuno è in grado di dire se e quando là dentro rientrerà un po’ d’aria. Il portone su via Canova viene aperto ogni tanto per permettere agli operai lo smontaggio di qualche residuo pezzo sanitario pregiato e per consentire ai facchini di imballarlo, caricarlo sui camion e portarlo chissà dove. L’altro ingresso su via di Ripetta è addirittura inchiodato con le assi di legno come usa con quegli immobili che per una ragione o per un’altra finiscono nel dimenticatoio, lasciati ai topi e ai piccioni. Per i romani è un colpo al cuore vedere il vecchio San Giacomo ridotto in quelle condizioni.

Ai non romani quel nome forse dice poco o nulla perché non conoscono le vicende che hanno portato al triste abbandono, e se le conoscono probabilmente le hanno catalogate in fretta tra i cento e cento brutti episodi della sanità contestata. In effetti è così, di malasanità si tratta, ma fino ad un certo punto, perché la storia del San Giacomo è anche qualcosa di diverso e di peggio.

Più passa il tempo e più prende corpo l’idea che l’affare dell’ospedale chiuso sia legato da mille fili alla storia del caso Marrazzo, l’ex governatore del Lazio travolto dallo scandalo delle trans e prima ancora finito impigliato in una rete vischiosa di ricatti. Intorno a quella vicenda frullano interessi immobiliari giganteschi su cui si affacciano personaggi di spicco. Ci sono i soliti costruttori romani, l’onnipresente Franco Caltagirone, proprietario del Messaggero e di una catena di quotidiani, e Domenico Bonifaci, editore del Tempo, l’altro giornale romano. E poi gli Angelucci, i self made men per antonomasia della sanità, creatori dal nulla di un impero di cliniche nel Lazio, in Abruzzo e Puglia. Anche gli Angelucci sono editori di due giornali collocatiin aree assai distanti: il Riformista nel centrosinistra e dall’altra parte Libero, il quotidiano che per primo a metà luglio ha visionato i video di Marrazzo e le trans.

La carrellata di big affacciati sull’affare San Giacomo non è finita. Nella lista compare anche Alfredo Romeo, imprenditore campano già condannato a 4 anni ai tempi di Mani Pulite e un anno fa di nuovo coinvolto in una storia legale di appalti irregolari per la manutenzione delle strade a Napoli e Roma con contestazioni da lui sempre respinte. Romeo ha in gestione il patrimonio immobiliare pubblico capitolino ed è, come si usa dire, un affarista di area, ammanicato con tutti, ma in particolare confidenza con Claudio Velardi, personaggio poliedrico, manager, editore, politico, fino a qualche mese fa assessore nella giunta Bassolino in Campania e ancor prima uno dei più stretti consiglieri di Massimo D’Alema.

E poi, dulcis in fundo, ecco l’ex governatore Pd del Lazio, Piero Marrazzo. È stato Marrazzo ad esporsi più di tutti per la chiusura del San Giacomo a dispetto di qualsiasi considerazione di ragionevolezza e anche a costo di contraddire se stesso. Perché la serrata dell’ospedale romano non solo è avvenuta a passo di carica, in appena 70 giorni, un record mondiale, ma è stata attuata dalla Regione Lazio dopo che la stessa Regione si era fatta carico di una gigantesca operazione di ristrutturazione dei 32 mila metri quadrati dell’immobile, con una spesa di circa 20 milioni di euro, come se la chiusura fosse un evento impensabile. Per mesi Marrazzo ha continuato ad inaugurare in pompa magna padiglioni e laboratori modello di un ospedale che poi di punto in bianco, come se niente fosse, ha deciso di sprangare. Tanto che oggi visto da fuori quell’immobileha l’aria vecchia, ma dentro è un gioiellino tutto nuovo e lucente, con macchinari costosi ed efficienti, dalla Tac alla risonanza magnetica ad una farmacia completamente computerizzata.

C’è un momento in cui Marrazzo ha fatto l’inversione ad U sul san Giacomo ed è il 15 luglio 2008, giorno in cui è stato nominato dal governo Berlusconi commissario per la Sanità laziale, proprio con il mandato di riparare ai suoi stessi errori oltre a quelli dei predecessori, controllore di se stesso, in pratica, un caso da manuale di conflitto di interessi indotto. Diciotto giorni più tardi il governatore-commissario firma la delibera di soppressione del san Giacomo. Motivazione ufficiale: la sanità del Lazio è in braghe di tela, indebitata fino agli occhi, l’ospedale romano costa troppo, è fuori dai parametri posti letto/abitanti e deve essere venduto per fare cassa. All’apparenza è un ragionamento serio, anche se molti addetti del ramo lo contestano punto per punto, cifre alla mano. Ma è anche un ragionamento che fa a pugni con le delibere di spesa firmate dallo stesso Marrazzo fino a cinque minuti prima e soprattutto lascia interdetti alla luce di ciò che fino a quel momento per la Regione ha significato fare cassa con l’immenso patrimonio della sanità.

Dal 2004 al 2007 nel Lazio è stata perpetrata in silenzio la più grande svendita di beni pubblici posseduti dalle aziende sanitarie e in parte riconducibili allo stesso San Giacomo: 950 immobili della Asl Rm A nel centro di Roma, area del Tridente tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, 100 mila metri quadrati ceduti ad un prezzo ridicolo, poco più di 200 milioni di euro, 2 mila euro a metro quadro in media, a fronte di un valore di mercato più che doppio, forse triplo. Una gigantesca operazione di cui sono stati protagonisti l’imprenditore Romeo, la sezione immobiliare della Banca nazionale del Lavoro e la Gepra Lazio, società che, secondo quanto scritto dal Sole 24 Ore, avrebbe un’appendice in Irlanda, paese con un regime fiscale favorevole.

Il complesso del San Giacomo con molta probabilità avrebbe dovuto essere il secondo tempo di quella gigantesca partita immobiliar-sanitaria. Ma, a differenza degli immobili di piccola taglia, finiti presumibilmente in mano a tanti fortunati Gastone, essendo l’ospedale un blocco unico, anche il pretendente all’acquisto non poteva che essere unico o al massimo pochi, i soliti immobiliaristi, i cavalieri del mattone capitolino interessati a trasformare il nosocomio in un residence. GLI STESSI che ora stanno puntando su un altro boccone dell’abbuffata immobiliar-sanitaria laziale, il patrimonio dell’ex Pio Istituto S. Spirito e degli Ospedali riuniti di Roma, 18 mila ettari di tenute in zone di pregio, comprese alcune affacciate sul mare a nord della Capitale, a Santa Severa e Palidoro. Più altri 41 stabili a Roma suddivisi in 266 appartamenti e un palazzo nella centralissima via del Governo Vecchio. E poi decine di fabbricati e palazzi a Monteromano, Tarquinia, Castelguido, ancora Palidoroe Santa Severa.

Sarà difficile che qualcuno possa fermarli. Le proteste per il San Giacomo, per esempio, non sono state neanche prese in considerazione. A nulla un anno fa valsero le 60 mila firme raccolte, le contestazioni, i sit-in di uno schieramento composito ma unito nella denuncia di quello che considerava un inspiegabile sopruso. Si mobilitarono i pazienti in primo luogo, soprattutto i 100 in dialisi, che da un giorno all’altro vedevano sparire una struttura valida su cui avevano fatto affidamento per anni. E i 1.700 malati del reparto di oncologia poi costretti a rivolgersi al Nuovo Regina Margherita dove non erano pronti per un afflusso del genere. Scesero in piazza i residenti della zona e protestarono anche i medici, i quali fecero presente quanto fosse irrazionale una scelta così drastica in assenza di un piano sanitario generale regionale che decidesse cosa, dove e come tagliaresulla base di esigenze studiate e condivise.

Marrazzo non volle sentir ragioni dimostrando una faccia di sé fino ad allora sconosciuta: quella del decisionista testardo. La macchina della chiusura e del successivo business immobiliare si mise in moto e sarebbe arrivata fino in fondo se non fosse spuntato l’imprevisto: il testamento del cardinale Antonio Maria Salviati scoperto da Oliva, una sua discendente. Quel documento risalente al lontano 1592 stabiliva in modo chiarissimo che il cardinale regalava l’immobile alla città di Roma a patto che il suo uso di ospedale fosse conservato nei secoli. A un passo dalla meta il grande affare immobiliare saltava. Dal cilindro ecco che spunta allora un piano B. Lo illustra il viceministro alla Sanità, Ferruccio Fazio, alla irremovibile Oliva Salviati consegnandole un’“ipotesi di ridestinazione/riconversione dell’ospedale San Giacomo” che sembra una proposta di mediazione.

Al punto 2 c’è scritto: “Mantenere per la struttura una finalizzazione sanitaria a carattere extraospedaliero compatibile con il vincolo di destinazione d’uso”, un modo arzigogolato per dire, in sostanza, che il San Giacomo potrebbe diventare una Rsa, residenza sanitaria per anziani. Sembra un’idea studiata apposta per gli Angelucci, specializzati proprio in cliniche di quel tipo. Il progetto bis procede sotto traccia per mesi e rispunta a pagina 203 del piano sanitario regionale 2009-2011 preparato da Marrazzo e presentato un mese e mezzo fa. Con il gergo burocratico-sanitario tipico si prevede una “riconversione del San Giacomo in ospedale del territorio a forte integrazione socio-sanitaria”. E’ una frasetta all’apparenza innocua, ma per molti è il segnale atteso, per altri, invece, è come una miccia accesa. Tre giorni dopo scoppia lo scandalo delle trans e Marrazzo salta.

Agro romano, sulle tutele è scontro Montino-Giro

Il Tempo, 2 dicembre 2009

Vincolo sì, vincolo no. Anche ieri è stata una giornata di annunci e smentite in tema di tutele al Piano territoriale paesistico regionale e di conseguenza al Prg capitolino. Dallo scontro tutto interno al Pdl tra Alemanno (An) e la premiata ditta Bondi-Giro (Fi) si è tornati a quello "bipolare" destra-sinistra. Da una parte il vice presidente del Lazio Esterino Montino, dall'altra il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro che proprio giorni fa, alla domanda de Il Tempo se fossero vere le indiscrezioni sulla possibilità dell'apposizione di nuovi vincoli su aree agricole nel quadrante Nordovest del Comune, aveva risposto con un «nì» che non lasciava ben sperare. Ieri Montino è tornato a fare la voce grossa confermando, ma sempre «per sentito dire», la volontà del Mibac di apporre quei vincoli su un territorio compreso tra Cassia e Aurelia, fino ai confini con il Comune di Bracciano.

Notizia smentita da Giro, questa volta, con un secco «no». Il sottosegretario, che ora non sembra gradire l'idea di passare da "uomo nero", ha aggiunto, seccato, «quelli di Montino sono solo proclami elettorali» in vista, aggiungiamo noi, delle regionali di primavera. Ieri, però, Montino, riferendosi al vincolo che riguarda l'area compresa tra Laurentina e Ardeatina, procedimento in avanzata fase di discussione in sede ministeriale - anche se al Mibac c'è stata una sola riunione durante la quale, come ricorda l'assessore all'Urbanistica capitolino Marco Corsini, «si è parlato di stadi» - Montino, dicevamo, ha ribadito l'intenzione della Regione «di presentare ricorso». Ma ricorso a che - domanda - se l'apposizione di quel vincolo da 1 milione e 540mila metri cubi non è ancora stato ufficializzato dal Mibac?

Proprio pochi giorni fa, infatti, Regione, Comune e privati hanno depositato al Ministero le osservazioni alla proposta di vincolo. Ora il Mibac dovrà controdedurre e decidere se dare il «la» o meno al decreto. La nuova alzata di voce di Montino, a soli due giorni dalla consegna delle osservazioni, suona quindi stonata. Con il prossimo cambio della guardia in Regione, inoltre, l'ipotesi ricorso - che non potrà che essere fatto alla Corte costituzionale - è destinata a perdere significato. Se vincoli saranno, saranno di certo un problema del prossimo governatore del Lazio. Per questo anche il Comune - nella persona dell'assessore Corsini - aspetta e spera criticando le posizioni del Mibac non tanto sul metodo, «il ministero è disponibile al confronto», quanto sul merito: «la concertazione non è ancora iniziata». Del resto, in caso di vincoli, il danneggiato Campidoglio avrebbe le mani legate. Al massimo potrebbe rivolgersi al Tar. È normale quindi che lo scontro - o meglio la farsa - si sposti ora tra Regione e ministero dei Beni culturali. Così, mentre loro si scannano, i costruttori accendono ceri a San Vincenzo Ferrer, protettore degli edili. E visto che da qui alle elezioni ci passano 4 mesi, viene loro anche il dubbio che le norme di salvaguardia nel frattempo decadano e con esse la possibilità di apporre vincoli. Un sospiro di sollievo per la città, certo, ma anche una beffa: un anno perso dietro alla solita politica.

Vincoli sull’Agro, scontro sull’Urbanistica

Chiara Righetti – la Repubblica, ed. Roma

Sull’urbanistica lo scontro è aperto. Il primo attacco, preventivo, lo ha sferrato ieri il governatore reggente Esterino Montino. Annunciando l’intenzione di presentare ricorso contro un vincolo paesaggistico che il ministero dei Beni culturali non ha ancora introdotto: quello fra Laurentina e Ardeatina che bloccherebbe un milione 540 mila metri cubi di nuove costruzioni. Non solo: «Ho sentore - ha aggiunto - che sia in arrivo un secondo decreto, in un’area che va dalla Cassia all’Aurelia» (dove tra l’altro dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma, ndr). Per Montino sarebbe «un atto unilaterale, da evitare» avendo «un piano regolatore approvato nel 2008, non nel 1960, che ha avuto un percorso lungo e complesso».

Dichiarazioni che il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro bolla come «proclami elettorali». Peggio: «Parole in libertà per nascondere il fallimento di una Regione che non è riuscita ad approvare il Ptpr». Cioè il Piano paesaggistico territoriale regionale, adottato ma mai approvato; e ostacolato, all’inizio del suo percorso, anche per il mancato accordo dell’allora ministro Rutelli. Poi l’affondo: «È evidente che Montino si sente già in campagna elettorale, e si pone come paladino degli interessi garantiti dal Prg di Veltroni. È un vecchio gioco, ma gli imprenditori non ci cadranno ancora».

Sul vincolo tra Ardeatina e Laurentina è scaduto il 26 novembre il termine per le osservazioni di enti locali e associazioni. Ora il ministero dei Beni culturali ha due mesi per decidere e in sostanza tre opzioni. Può adottarlo integralmente, rinunciarvi del tutto o ammorbidirlo: sarebbe questo l’orientamento prevalente, e a guidare la scelta potrebbe essere la qualità architettonica dei progetti. Il più impegnativo nell’area in discussione è quello da 900mila metri cubi a Paglian Casale, tra Roma e Pomezia. Quanto all’ipotesi di un nuovo vincolo a nord, Giro la smentisce con decisione: «All’orizzonte non ci sono nuovi vincoli nella zona nord e nordest di Roma».

Dura la replica a Montino delle associazioni ambientaliste, con Lorenzo Parlati, di Legambiente Lazio, che afferma: «Basta cemento sull’Agro» e bolla come «assurdo» il ricorso annunciato. Sulla stessa linea l’assessore Sl Luigi Nieri: «L’Agro è un bene della città che va salvaguardato». Sull’urbanistica comunque lo scontro è aperto, con paradossi e inedite alleanze: contro il vincolo si è schierata da tempo anche la giunta Alemanno.

E' stato presentato alla stampa con toni trionfalistici il megaprogetto di distruzione di altri 88 ettari della Riserva di Decima-Malafede. Dove oggi pascolano i daini ed i cinghiali, dove è possibile sorprendere voli di pavoncelle e beccacce, sullo splendido altopiano che domina il mare, dove venivano girati di film wetern degli anni 60, sorgerà l'ennesimo inutile scempio.

Quattro milioni di presenze, 2.500 occupati. per un investimento che supera i 500 milioni di euro - sono queste le cifre della rovina, presentati da un'asse trasversale istituzionale tra i quali Nicola Zingaretti e Gianni Alemanno, come a dire che ormai non c'è alcuna distinzione fra i fautori del cemento selvaggio. Una classe politica ormai impegnata nel solo succedere a se stessa, ha deciso da tempo di annientare l'ultimo polmone verde e selvaggio della capitale.

da un comunicato stampa:“La prima fase si estenderà su 23 ettari e comprenderà 3 attrazioni “adrenaliniche", 16 attrazioni riservate ai più piccoli e 19 attrazioni per la famiglia, in una sorta di Family Entertainment Center. E' poi prevista nel 2012 l'apertura del Village con negozi e servizi di ristorazione per il pubblico. Nel 2013 aprirà Cinecittà World2, una nuova area con attrazioni, quindi nel 2014 sarà visitabile il grande spazio verde nel quale vengono ambientate le riprese di numerosi film, “Cinecittà Natura”. A realizzare la struttura è Cinecittà Parchi, società costituita nel 2009 e partecipata per l’80% da Cinecittà Entertainment e per il 20% da Generali Properties. Cinecittà Entertainment fa capo alla IEG – Italian Entertainment Group i cui principali azionisti sono Luigi Abete, Andrea e Diego Della Valle, Aurelio De Laurentiis e la Famiglia Haggiag.”

Ogni commento è superfluo. Verrà un giorno in cui ci si domanderà come mai la demenza abbia colpito, all’inizio del Terzo millennio, un’intera popolazione. I pochi rimasti, indenni dal morbo, a testimoniare delle epoche precedenti (nel frattempo avranno distrutto anche i musei, trasformati in parcheggi, e le biblioteche, trasformate in casini) non riusciranno a far comprendere ai visitatori di queste terre devastate perché tutto ciò sia potuto accadere.

Qui il link a google map con l’indicazione del perimetro della Riserva naturale

Nella storia di Roma, politica ma non solo, il 28 aprile 2008, elezione del "nero" Gianni Alemanno al soglio capitolino, è stato e resterà un giorno decisivo per comprendere cosa sia cambiato nel Paese. Come. Perché. E con una scelta evidentemente voluta, che gioca con la ricorrenza dei calendari, nell’ottantasettesimo anniversario della marcia su Roma (28 ottobre 1922), è arrivato in libreria La presa di Roma (Rizzoli, pagg. 208, euro 9.80) l’ultimo lavoro di Claudio Cerasa, eccellente giornalista del Foglio, cronista vivace e solido. «Cosa si nasconde - si chiede Cerasa - dietro la straordinaria ascesa di Gianni Alemanno? Per quali ragioni una città decide di affidare la propria sorte a un uomo dal passato così movimentato? Perché la destra sa parlare di sicurezza meglio della sinistra? Quali affari miliardari si nascondono dietro al governo dei diversi sindaci di Roma?».

Con il passo dell’inchiesta e metodo da entomologo, a queste domande Cerasa dà delle risposte. E - ciò che più importa - con nomi e cognomi, date, numeri, circostanze. Restituendo un quadro del Potere che muove la città, i suoi nessi, i suoi snodi, utile non solo a chi la abita, ma anche ai molti e confusi osservatori che, non conoscendone né l’anima, né la geografia, né le profonde discontinuità sociali e culturali che l’hanno attraversata negli ultimi vent’anni, si ostinano a semplificarne il tratto, aggiornando periodicamente il rosario di luoghi comuni che si è guadagnata nei secoli.

La "Presa di Roma" ha il pregio di illuminare, chiamandolo con il suo nome, il tratto politico della vittoria di Alemanno e, più in generale, del centro-destra che si è fatto maggioranza nel Paese. Alemanno vince con la Plebe che preme alle porte del fortilizio patrizio ormai identificato come la vera costituency della Roma di Veltroni. Racconta dunque il capovolgimento dei canoni dell’appartenenza politica, proletaria e borghese. Con una vittoria che, non a caso, comincia e viene costruita in quella cintura periferica, Ponte di Nona, che le amministrazioni del centro-sinistra avevano immaginato come monumento moderno e urbanisticamente sostenibile in cui alloggiare proletariato, piccola e media borghesia, storicamente "rosse" e da tempo espulse dal cuore della città. Abbandonate al loro senso di insicurezza materiale e fisica (reale e "percepita"). Alla prossimità imposta con gli ultimi degli ultimi (Rom e nuova immigrazione rumena).

Dopo un quindicennio di governo del centro-sinistra, la destra ha la fame, la forza e la disperazione degli esclusi. E vince non per un nuovo progetto o idea di città, di cui nel libro non a caso non c’è traccia. Vince per consunzione naturale dell’avversario e soprattutto perché i veri padroni di Roma, i suoi poteri forti - costruttori, manager delle municipalizzate, circoli Vaticani, lobby dei tassisti - nella migliore tradizione trasformista e cinica della città si liberano di un cavallo sfiancato (il Pd di Veltroni e Rutelli) da cui hanno ottenuto tutto quello che potevano ottenere e salgono sul nuovo, disposto, pur di vincere, a qualunque patto.

Il mantra di Alemanno e della sua campagna - "Sbullonare Roma" - se suona musica alle orecchie della Plebe, diventa così l’anticamera del suo inganno. Perché nelle scelte del nuovo Sindaco, nella sua nuova geografia del Potere - come Cerasa documenta - in realtà, quella Plebe viene (ri)consegnata allo stesso blocco Patrizio di cui, a parole, il neo sindaco ha promesso di volersi sbarazzare. Insomma, di rivoluzionario, nella nuova Presa di Roma c’è solo il rumore e la forza delle parole, la straordinaria suggestione della Storia, la prima volta degli esclusi da sempre. C’è soprattutto un presagio. Che una volta finito di "sbullonare" con furia la città i suoi nuovi padroni politici ne vengano rapidamente digeriti.

1. Roma nella crisi dell’urbanistica

La crisi dell’urbanistica italiana ha avuto dagli anni ’90 molte risposte. In assenza della legge quadro nazionale le regioni hanno tentato ciascuna per proprio conto di innovare la legislazione e i comuni hanno continuato a pianificare sulla base di quelle leggi. Le due maggiori città italiane, Roma e Milano, hanno invece avuto l’ambizione di sperimentare modelli che si ritenevano estendibili all’intero territorio nazionale. Milano lo ha fatto nel modo conosciuto, e cioè cancellando esplicitamente l’urbanistica e sostituendola con una serie di progetti urbani ritagliati sulle grandi proprietà immobiliari mediante processi basati sulla discrezionalità. Più complesso il caso romano, dove si è avuta l’ambizione di tracciare una strada equidistante dallo schema derogatorio milanese e della pianificazione pubblica tradizionale.

Per delineare il nuovo modello, Roma aveva la necessità di sottoporre a critica i contenuti delle due polarità opposte e definire conseguentemente il nuovo percorso dell’urbanistica. La critica risultava abbastanza agevole nel caso milanese, dove non era difficile evidenziare le opacità insite nella contrattazione continua, condotta senza regole valide universalmente. Più difficile risultava la stessa operazione nei confronti dell’urbanistica tradizionale dove insieme a tanti casi criticabili si potevano trovare casi di buone pratiche pianificatorie[1].

Nei casi di difficoltà, come noto, il ricorso all’ideologia è provvidenziale. E in tal senso la complessa vicenda della pianificazione comunale viene dipinta con considerazioni di comodo, appiattita sotto giudizi di “estremismo”, di “rigidità e staticità”, di “subordinazione alla proprietà fondiaria”. Ad esempio: “Volendo essere schematici ma concreti, credo che per l’urbanistica italiana ci siano soltanto tre strade da percorrere. La prima è la più vecchia e nota, quella che abbiamo finora percorso e che oggi, però, non sembra avere sbocchi. E’ la strada scelta dai custodi delle regole del passato, secondo i quali l’unico piano possibile è quello rigido….. Questa è la strada di un piano che non è un piano, ma un’astrazione ideologica. La seconda via è, in fondo, uguale e contraria alla precedente; è la soluzione del rifiuto ideologico delle regole….La terza via d’uscita per l’urbanistica italiana è, invece, caratterizzata dalla coraggiosa serietà del riformismo: ed è quella scelta per il piano di Roma[2].

Il caso romano va dunque analizzato proprio per questa sua ambizione. La sua affermazione avrebbe infatti rappresentato un fatto nuovo nel panorama nazionale. E le condizioni per una sua affermazione c’erano tutte. In primo luogo per i protagonisti politici dell’operazione che sono stati in ordine di tempo il sindaco Francesco Rutelli, in carica tra il 1993 e il 2000 e Walter Veltroni, in carica fino al 2008, quando, a causa dell’anticipato scioglimento del Parlamento, decise di candidare nuovamente il suo predecessore alla carica di primo cittadino, consegnando così alla destra la guida della città. Alla carica di sindaco si sono succeduti per quindici anni due dei principali artefici del “rinnovamento” del fronte progressista, il primo leader della Margherita e il secondo primo segretario del Partito democratico costituitosi nel 2008. Era dunque inevitabile che anche sul terreno delle città e del territorio si giocasse una partita più complessa e i due protagonisti del centrosinistra abbiano utilizzato il governo della città per stabilire rapporti con il sistema di potere e di interessi che gravita intorno al mondo dell’edilizia.

La seconda condizione derivava dal clima di attesa che circondava l’azione del governo di centro sinistra (1996-2001) inizialmente presieduto da Romano Prodi per approvare una nuova legge per il governo del territorio[3].

La terza condizione era relativa al fatto che furono i vertici stessi dell’Istituto nazionale di urbanistica ad assumere la guida dell’urbanistica romana. Il nuovo corso urbanistico romano ha infatti avuto come indiscusso protagonista il suo presidente onorario, Giuseppe Campos Venuti, che fino alla fine ne ha difeso l’impostazione culturale ed anche l’attuale presidente nazionale, Federico Oliva, ne è stato uno dei protagonisti

L’ultima condizione per la riuscita del tentativo era quella di essere sostenuti da un convinto consenso mediatico. Operazione agevole a Roma, per il fatto che i principali quotidiani della capitale sono di proprietà di attori economici con grandi interessi nel mondo dell’edilizia e proprietari di vasti compendi immobiliari[4]. Intorno al piano di Roma era stato insomma costruito un ambizioso tentativo di inaugurare un nuovo corso dell’urbanistica italiana.

2. Il Piano delle certezze e la nascita dei diritti edificatori e della compensazione

Questo insieme di motivazioni, di per se sufficienti a fornire una quadro molto favorevole, erano ulteriormente sostenute dalle caratteristiche della città agli inizi degli anni ’90, quando cioè inizia il corso della nuova amministrazione guidata da Francesco Rutelli. Nel 1993 siamo nel pieno del ciclone tangentopoli che aveva azzerato il personale politico del centrosinistra e anche parte del mondo imprenditoriale dell’edilizia. Il mondo delle costruzioni era sostanzialmente fermo e ci sarebbe stato tutto il tempo per voltare pagina e inaugurare la stagione di una nuova urbanistica come del resto era stato delineato all’interno del suo programma elettorale.

Vennero invece avviati due distinti provvedimenti in aperta contraddizione con le posizioni premiate dal risultato elettorale. Il primo fu il sostanziale svuotamento di una delle principali conquiste del movimento riformatore romano, e cioè la Variante di salvaguardia che aveva tagliato circa quaranta milioni di metri cubi di previsioni edificatorie, attraverso la redazione del Piano delle certezze. Nelle premesse teoriche di questo provvedimento non si riesce a trovare alcun motivo convincente che avrebbe reso indispensabile la revisione del piano precedente. Non c’era allora -come non esiste a tutt’oggi- nessun provvedimento della magistratura che avesse censurato la facoltà pubblica di cancellare espansioni in ambiti giudicati preziosi dal punto di vista ambientale. La redazione della Variante delle certezze non era dunque un provvedimento imposto dall’adempimento a sentenze della magistratura.

Nella relazione di piano vengono esplicitate due questioni. La prima afferma che uno dei suoi limiti era quello di non aver ancora concluso –insieme alla coeva Variante per il verde e i servizi- il proprio iter legislativo. Argomentazione singolare, poichè il comune di Roma aveva tutte le possibilità di sollecitare la Regione Lazio ad approvare i due strumenti, ma decise di scegliere la strada della redazione di un nuovo strumento[5].

La seconda questione affrontata nella relazione del piano delle Certezze è invece relativa al fatto che esso “non aveva interamente chiarito i rapporti tra pubblico e privato”. Ed è questa la questione cruciale. Siamo nel pieno della grande offensiva ideologica neoliberista che teorizza il declino della funzione pubblica e il passaggio di prerogative e poteri al privato. La variante di salvaguardia era dunque fuori moda. Si voleva dunque superare il rigore pubblicistico contenuto in quel provvedimento e non a caso proprio all’interno del piano delle certezze nacque la compensazione urbanistica: una parte delle previsioni edificatorie cancellate dalla variante di salvaguardia vennero recuperate, lasciando all’operatore privato la scelta di individuare un nuovo ambito urbano su cui poter realizzare le previsioni edificatorie cancellate dallo strumento di salvaguardia[6]. Per la prima volta nel panorama nazionale si afferma che la tutela paesistica non ha la facoltà giuridica di cancellare preesistenti destinazioni urbanistiche, né che attraverso i processi urbanistici si possa estendere la salvaguardia su aree precedentemente destinate all’edificazione. Nasce il concetto di “diritto edificatorio” che avrebbe accompagnato tutto il percorso dell’urbanistica romana.

Contro questa gravissima posizione che per la prima volta stabiliva l’intangibilità della rendita fondiaria, ci furono prese di posizione di grande autorevolezza scientifica che demolivano alla radice i cosiddetti diritti edificatori[7]. Anche questi suggerimenti, ovviamente, non furono tenuti in considerazione. Interessava evidentemente di più dare segnali di discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista.

3. Il pianificar facendo e il trionfo dell’accordo di programma

Parallelamente alla Variante delle certezze fu avviata una vasta sperimentazione dei cosiddetti programmi urbanistici complessi codificati appena pochi anni prima dal Ministero dei Lavori pubblici, e cioè proprio di quegli strumenti basati sulla discrezionalità urbanistica che provengono dal filone culturale dell’urbanistica milanese. Quando nacquero i programmi complessi, oltre allo scontato consenso di coloro che ne sottolinearono il salto culturale, e cioè la sostituzione della logica del piano con quella del progetto urbano, ci fu anche chi ne accolse favorevolmente la valenza sperimentale. Di fronte alla crisi dell’urbanistica, si disse, una risposta possibile era anche nel pragmatismo e nel recupero della cultura del progetto.

Il limite dell’urbanistica romana è stato quello di non aver compreso il pericolo del loro uso sistematico e di averne fatto addirittura il simbolo del nuovo. Con questo secondo segmento di azione pianificatoria si afferma infatti il “pianificar facendo”. “Appare evidente il senso del pianificar facendo. Lo slogan esplicita in metodo dialettico di costruzione del piano: dal generale al particolare e dal particolare al generale. Definiti uno schema generale di riferimento………è stato possibile avviare progetti urbanistici considerati strategici…….In questo contesto appare evidente il ruolo giocato dalle cosiddette procedure innovative: dai programmi di riqualificazione e di recupero alla individuazione del progetto urbano[8].

Emerge in modo evidente la contraddizione: mentre si affermava di voler cercare un altro percorso rispetto a quello milanese, si usano gli stessi istituti derogatori. Roma rende anzi sistematico l’uso della contrattazione urbanistica. Quello che Milano sperimenta in un limitato numero di aree, Roma lo applica sulla scala dell’intera città. Roma applica insomma il modello restauratore disegnato dalla legge Lupi, e cioè la proposta di variazione della legge del 1942, pensata da uno dei protagonisti dell’urbanistica milanese e fondata proprio sul concetto di continua contrattazione tra amministrazioni pubbliche e proprietà fondiaria[9].

La capitale istituisce addirittura un assessorato ad hoc, unico comune italiano in cui oltre ad un assessorato alla pianificazione si crea un assessorato alla deroga[10]. La giunta municipale romana con l’acquiescenza della Regione Lazio ha approvato negli ultimi dieci anni oltre cento accordi di programma in variante agli strumenti urbanistici vigenti (Prg 1962-65 e successive varianti) ed anche dello stesso piano in costruzione. Il piano regolatore non esiste più, con l’accordo di programma si può edificare dappertutto, su aree destinate a verde, a servizi pubblici o all’agricoltura.

Ma oltre al tema del rapporto tra piano e progetto, l’uso dei nuovi strumenti di intervento ha avuto una ben più grave conseguenza. I programmi complessi vengono infatti approvati non più attraverso la procedura di evidenza pubblica prevista dalla legislazione urbanistica nazionale, ma attraverso l’uso dell’accordo di programma, previsto dall’articolo 49 del Decreto legislativo 267/2000 con cui viene cancellato il processo di trasparenza democratica. La decisione sulla validazione delle varianti urbanistiche appartiene, come noto, ai consigli comunali dove esiste almeno dal punto di vista formale il controllo istituzionale e la partecipazione. L’accordo di programma viene invece approvato dalla giunta comunale e soltanto “ratificato” –pena la decadenza- dai consigli comunali. Si salta insomma un passaggio democratico e partecipativo fondamentale per l’esercizio delle prerogative democratiche delle amministrazioni locali.

4. Il capovolgimento della gerarchia legislativa: l’urbanistica prevale sulla pianificazione paesistica

Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. E quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatta più concreta, sono arrivate nuove norme legislative.

Nelle leggi 2 e 18 del 2004, la Regione Lazio ha stabilito che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”. Il comma successivo precisa poi che “gli accordi di programma aventi ad oggetto piani o programmi di intervento finalizzati all’acquisizione pubblica di aree ricadenti in aree naturali protette o con rilevante valore paesaggistico possono comportare variazioni a Ptp vigenti”. Per favorire la nuova urbanistica romana, la Regione Lazio capovolge un principio legislativo fondamentale: la gerarchia delle fonti che vede la pianificazione urbana subordinata a quella paesistica, viene capovolta. E’ la tutela ambientale ad essere subordinata ai progetti urbanistici.

L’urbanistica romana del primo dopoguerra è stata nella storia della disciplina un punto di riferimento per l’intero paese. Sono numerosi i piani regolatori redatti sull’esempio metodologico del piano del 1965. Anche in questo caso Roma diviene il modello di riferimento per tutta la nazione: sono innumerevoli le città che hanno seguito l’esempio dell’utilizzazione dell’accordo di programma come strumento per governare il territorio. E proprio in questi giorni, le intercettazioni telefoniche condotte dalla magistratura relative alla vicenda del piano strutturale fiorentino hanno finalmente mostrato all’intera nazione quali siano i meccanismi insiti nell’urbanistica contrattata[11].

5. Il carattere flessibile delle norme tecniche di attuazione

La sostituzione della pianificazione urbanistica con la discrezionalità insita nell’uso dell’accordo di programma ha comportato inevitabilmente un elevato grado di flessibilità dell’impianto normativo del piano. Il numero gigantesco degli articoli delle norme tecniche e della loro faticosa stesura, richiederebbe ampio spazio per un’analisi sistematica e non mancheranno occasioni maggiormente adatte[12]. In questa sede è sufficiente riportare le tre più vistose lacune dell’impianto normativo nei confronti dei tre principali ambiti in cui il piano urbanistico ha suddiviso Roma: la città storica; la città della trasformazione; l’agro romano.

Per la città storica la principale censura riguarda la sostanziale assenza di una vera tutela del patrimonio insediativo classificato “storico”. Se infatti occorre dare atto al nuovo prg di aver ampliato notevolmente gli oggetti da sottoporre a tutela storica fino a ricomprendervi alcuni recenti quartieri di edilizia pubblica, è altrettanto vero che la normativa di riferimento contiene formulazioni che contraddicono le stesse ragioni della tutela.

Due recenti esempi hanno svelato esplicitamente la vicenda: il compendio dell’ex Ministero delle Finanze all’Eur e l’edificio utilizzato quale museo del cinema a pochi passi dalla storica Porta Portese. In entrambi i casi la destinazione del nuovo piano era univoca: siamo all’interna nella città storica, dove la norma afferma che “gli interventi edilizi e urbanistici, nonché le iniziative di promozione sociale ed economica sono finalizzate alla conservazione e valorizzazione delle qualità esistenti, nel rispetto delle peculiarità di ciascuna delle componenti insediative”. Per entrambi questi immobili è stata invece ammessa la demolizione e ricostruzione sulla base di una possibilità offerta da altri articoli delle stesse norme tecniche. Una serie di rinvii, eccezioni e possibilità di deroga hanno reso infatti possibile ciò che apparentemente veniva rigorosamente vietato[13].

Analogo è il caso degli interventi di trasformazione urbanistica ammessi nelle aree periferiche. Lo strumento fondamentale individuato per la riqualificazione di queste aree, infatti, è il Print, programma integrato di intervento e la normativa di riferimento fissa in prima istanza i parametri urbanistici da rispettare. Subito dopo, però, lascia ampio spazio alla contrattazione. Si prevede anche il raddoppio delle volumetrie inizialmente definite attraverso le procedure di concertazione tra pubblico e privato. E’ del tutto evidente che nessuno è in grado di misurare in modo certo e univoco il dimensionamento del piano regolatore. Il numero dei Print previsti dal prg supera infatti il numero di 150: il dimensionamento di 70 milioni di metri cubi contenuto negli elaborati di piano è dunque soltanto un’approssimazione di larga massima, poiché tiene conto delle possibilità incrementali consentite dalle norme di piano.

Infine le aree agricole, l’ambito urbano che nelle dichiarazioni ufficiali appare come il fiore all’occhiello del nuovo piano. A leggere la normativa di riferimento si resta invece colpiti dal numero e dalla portata delle possibilità derogatorie che vengono create per aggirare il vincolo di destinazione agricola. Alcuni esempi. Tra gli usi consentiti nelle zone agricole sono previsti (art. 69): “ricettività all’aria aperta; attività ricreativo-culturale e sportiva a cielo aperto; discariche inerti; reti tecnologiche private; impianti di produzione di energia elettrica; attività estrattive e altre attività connesse, complementari e compatibili con l’uso agricolo”.

In buona sostanza se da un lato si afferma che l’agro romano è tutelato come categoria, dall’altro si consente la realizzazione di cava o di produzione di energia. Ad esempio, è molto attuale la produzione locaòe di energia solare e molti comuni italiani stanno favorendo la realizzazione di aree di produzione. La loro estensione supera di spesso le decine di ettari: occupano dunque molto spazio che sottraggono all’uso e al paesaggio agricolo. Il piano regolatore di Roma permette invece che si possono fare in zona agricola[14].

E’ un processo sostanzialmente analogo a quello lucidamente descritto sulle pagine di Contesti da Paolo Baldeschi riguardo ai contenuti del piano strutturale fiorentino. Nel sottolineare la vacuità, o per meglio dire il carattere di vero e proprio diversivo rispetto allo specifico disciplinare, di alcune affermazioni contenute nella normativa tecnica di piano, afferma:”Il Ps porta questa filosofia alle estreme conseguenze, presentandosi come un atto meramente politico, senza averne né competenze né poteri rispetto agli obiettivi proposti….Rimandando tutti gli aspetti urbanistici di governo del territorio al Ru e rendendo pleonastico lo statuto del territorio, l’amministrazione si lascia le mani libere sulle decisioni che saranno assunte nello strumento operativo.“[15]. La normativa del piano di Roma cade nello stesso paradigma. La flessibilità lascia infatti ampi margini di operatività nella fase della gestione urbanistica.

6. L’idea di città e il modello spaziale del nuovo piano

Il piano regolatore del 1965, come noto, delineava una fisionomia della città imperniata sulla realizzazione della “nuovacittà pubblica” nella periferia est della città. La realizzazione del Sistema direzionale orientale era infatti la chiave del rinnovamento urbano da raggiungere in primo luogo con lo spostamento delle attività ministeriali dal centro storico della città. Con il nuovo piano regolatore lo Sdo è stato cancellato. Vengono confermati i due comprensori terminali (Pietralata a nord e Torre Spaccata a est), ma l’idea strutturante viene sostituita con 18 ambiti destinati alla funzione di “centralità”. Il nuovo piano affida dunque le speranze di definizione della struttura urbana del terzo millennio a quasi due decine di poli sparsi a raggiera nel territorio romano senza alcun legame tra di essi.

Il primo gruppo delle centralità appartiene a quelle già esistenti alla data di redazione del nuovo piano: si tratta del secondo polo universitario di Tor Vergata ad est di Roma e quello della terza università di Ostiense a sud, già realizzati e funzionanti da molti anni prima della stessa elaborazione. Ad esse si aggiungono i due citati comprensori terminali dello Sdo. Le tre principali centralità, Eur Castellaccio (sud) e Acilia Madonnetta (ovest) e Anagnina Romanina (est) sono invece vecchie destinazioni a servizi pubblici del precedente piano: si passa con disinvoltura dal regime pubblico a quello privato confermando le cubature precedentemente destinate alla realizzazione di attrezzature pubbliche. In questa stessa categoria si colloca anche la centralità di Saxa Rubra (nord) nata a ridosso del centro di produzione Rai.

Due altre centralità sono state individuate su aree pubbliche Ponte Mammolo (est) e Santa Maria della Pietà (nord), ma mentre la prima è caratterizzata da una serie di vincoli morfologici e infrastrutturali tali da caratterizzarla come nodo di scambio della mobilità, la seconda è caratterizzata da un quadro storico-ambientale straordinario che non consente alcuna trasformazione. La Storta e Cesano (nord) e Massimina (ovest) sono riconducibili ad esclusivi obiettivi di valorizzazione di aree precedentemente destinate ad uso agricolo.

Cinque ulteriori centralità individuate sono infine eredità del “pianificar facendo”, sono cioè aree la cui trasformazione è stata decisa attraverso l’uso dell’accordo di programma: Alitalia-Magliana e Fiera di Roma (ovest); Bufalotta a nord; Polo tecnologico e Ponte di Nona-Lunghezza a est. Tre di esse sono caratterizzate dalla realizzazione dei numerosi centri dell’iperconsumo nati a Roma in poco tempo. In poco più di dieci anni, infatti, grazie alla disinvoltura dell’urbanistica romana, indotta anche nei comuni limitrofi sono stati costruiti 28 giganteschi centri commerciali diffusi in ogni quadrante urbano che si vanno ad aggiungere ai 4 di più modeste dimensioni preesistenti[16]. Calcoli prudenti parlano della chiusura in breve tempo di oltre tremila attività commerciali di vicinato: con il pianificar facendo è stata decretata la desertificazione della periferia romana.

E’ soprattutto nel caso del comprensorio della Bufalotta che si misura il fallimento della visione liberista del nuovo piano regolatore. Il contenuto della centralità era assicurato dalla articolazione funzionale del nuovo insediamento. Erano previste residenza per poco più di un terzo dei previsti 3 milioni di metri cubi (circa 12.000 nuovi abitanti), un altro terzo era dedicato alla realizzazione di terziario (la centralità, appunto). La restante parte era destinata alla funzione commerciale ed è stata la prima ad essere realizzata. Esaurita anche la costruzione delle residenze, era finalmente arrivato il momento di delineare il volto della centralità.

Ma i proprietari del comprensorio fanno infatti sapere al comune di Roma che conseguentemente alla crisi del comparto terziario non è dunque in grado di realizzare la prevista quota di uffici, e cioè la centralità. La giunta comunale non oppone alcuna resistenza, non cerca cioè di mantenere fede al programma sottoscritto richiamando il consorzio al rispetto della convenzione stipulata. Nel novembre 2008 vota una deliberazione che accetta di mutare le restanti volumetrie da terziarie a residenziali. Con il fallimento del progetto urbano della Bufalotta cade la convinzione principale su cui si è basata l’urbanistica romana, e cioè di affidare il destino della città al “mercato”. Una convinzione su cui è stato costruito il piano regolatore e su cui si è investito moltissimo in termini di immagine. A partire dal 2002, infatti, il comune di Roma è stato entusiasta attore nella fiera della speculazione immobiliare internazionale che si svolge annualmente a Cannes, il Mipin, Marché international des professionels de l’immobilier. Nel 2007, pochi mesi prima che iniziasse il crollo dell’economia di carta creata anche dagli stessi geniali devolopers registi del Mipin, Roma insieme alla regione Lazio aveva organizzato un padiglione di 800 metri quadrati in cui mettere la città in vendita.

E se la Bufalotta è un fallimento, l’intervento pubblico dimostra invece la capacità di essere ancora il motore delle trasformazioni. Le uniche vere centralità realizzate nell’ultimo ventennio a Roma sono infatti proprio due grandi progetti pubblici: le due università di Tor Vergata e di Ostiense che, pur nella diversità, rappresentano esempi concreti di come le amministrazioni pubbliche possono influire sul destino urbano.

7. La “nuova” urbanistica e il sacco urbanistico di Roma

Il 13 e 14 aprile 2008 il centrodestra vince con ampio margine le elezioni politiche anticipate causate dalla caduta del secondo governo presieduto da Romano Prodi. Candidato premier dello schieramento di centrosinistra era Walter Veltroni. Il 4 maggio la trasmissione televisiva Report manda in onda un servizio sull’urbanistica romana, I re di Roma, firmato da Paolo Mondani che rende finalmente evidenti le contraddizioni dell’urbanistica romana[17].

Nel ballottaggio delle elezioni amministrative svoltosi l’11 giugno 2008 il candidato della destra, Giovanni Alemanno diventa sindaco di Roma con il 53,7% dei votanti. Lo sfidante dello schieramento contrapposto, Francesco Rutelli, si ferma al 46,3%. Dopo quindici anni di ininterrotto governo di centrosinistra, Roma volta pagina.

Nei lunghi anni di governo urbano, la sinistra ha costruito una sconfitta culturale senza appello. Le speranze che avevano accompagnato le ambizioni della nuova urbanistica romana si sono dissolte progressivamente. Nel merito, in primo luogo. Il pianificar facendo ha fallito la sua sfida. Centralità, cura del ferro e tutela dell’agro erano gli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere. Del fallimento delle centralità abbiamo già parlato.

Sulla “cura del ferro”, e cioè il legame tra le trasformazioni urbane e il sistema di trasporto pubblico si è di recente soffermato Walter Tocci, vicesindaco della città nel periodo di Francesco Rutelli e ideatore del potenziamento della rete di trasporto pubblico. Il giudizio espresso è senza appello: la cura del ferro è stata abbandonata[18].

Ed anche la salvaguardia delle aree agricole si sta dimostrando una chimera. Oggi a Roma vivono circa 2 milioni e seicento mila abitanti, eppure già nel 2002, il comune di Roma aveva misurato l’estensione dell’urbanizzato in 46 mila ettari poco meno di quanto previsto nel precedente piano, pensato per un popolazione due volte più grande. Segno evidente che l’urbanizzazione è sfuggita da ogni controllo, con la conseguente cancellazione di preziose aree destinate all’agricoltura e all’equilibrio naturale. Ma, per paradossale che possa sembrare, è oggi che si corre il rischio concreto della cancellazione della campagna romana. Il paradosso sta nel fatto che nonostante siano circa due decenni che Roma si sta spopolando, il nuovo piano regolatore prevede l’urbanizzazione di ulteriori 15 mila ettari, così da arrivare a cancellare oltre il cinquanta per cento della campagna romana. Quindici anni di nuova urbanistica hanno lasciato 70 e oltre milioni di metri cubi di cemento: il nuovo sacco urbanistico[19].

Ma il fallimento del disegno egemonico dell’urbanistica romana è rintracciabile anche nel quadro nazionale. La possibilità di veder approvata in tempi brevi una moderna legge quadro per il governo del territorio si è dimostrata vana. Nei cinque anni della prima esperienza governativa nazionale e nei due anni del secondo governo Prodi, il centrosinistra non ha avuto la convinzione di arrivare a quell’importante risultato. Eppure il 70 % dei comuni era amministrato dal centrosinistra e anche l’Anci, associazione dei comuni italiani era diretta dal sindaco di Firenze. Se non si è arrivati all’approvazione del provvedimento è perché si è preferita l’urbanistica contrattata. Oggi in discussione alla Camera dei deputati c’è la legge Lupi e una parte della stessa opposizione si è dichiarata pubblicamente a favore della sua approvazione.

L’Istituto nazionale di urbanistica vive dal canto suo un momento di evidente involuzione. Se occorre dare atto che ultimamente ha corretto i positivi giudizi espressi sulla legge Lupi, è al tempo stesso evidente il suo progressivo spostamento su una visione mercatistica della città, dimostrata dall’impegno profuso negli annuali appuntamenti “Urbanpromo”, dedicati al “marketing urbano e territoriale”, pallide emulazioni della più robusta fiera della speculazione di Cannes[20].

Solo un segmento dei quattro iniziali che hanno consentito il delinearsi dell’urbanistica romana ha conseguito in questi anni un trionfo: la proprietà immobiliare. I due quotidiani romani, Il Messaggero e Il Tempo, hanno potenziato le testate, capitalizzando evidentemente le immense plusvalenze conseguite con il pianificar facendo. In particolare Il Messaggero ha giocato una partita aperta durante le elezioni amministrative, schierandosi contro l’urbanistica del centrosinistra. Un paradosso apparentemente, se si pensa che in questi anni la proprietà fondiaria non ha trovato ostacoli a concretizzare ogni suo progetto. Ma inevitabile conseguenza della visione economicista che si è affermata: se la città è ridotta a mero fattore economico, è comprensibile che anche i suoi protagonisti principale, la proprietà fondiaria, cerchi in ogni modo di incrementare i suoi affari a prescindere dagli schieramenti in campo.

La parabola della nuova urbanistica romana sta nella sproporzione tra le ambizioni iniziali e i suoi esiti. Aver cancellato le regole in nome di una flessibilità senza scopo si è dimostrato un errore gravissimo. Le radici della sconfitta romana sono dunque culturali. Ed è soltanto con una coraggiosa opera di revisione critica delle sue posizioni sulla città che lo schieramento progressista potrà superare la sconfitta del 2008.

[1] La più significativa delle esperienze recenti è senza dubbio quella di Napoli negli anni 1993-97. Oltre alle numerose pubblicazioni del comune di Napoli, va segnalato il bel volume di Gabriella Corona, I ragazzi del piano. Donzelli editori, 2007.

[2] Giuseppe Campos Venuti, Il piano per Roma e le prospettive dell’urbanistica italiana, in Urbanistica n. 116-2000. Alcune altre citazioni: “E dal comune di Roma, che dopo 40 anni ha elaborato un nuovo piano regolatore, viene la risposta forse più significativa alla deregulation e alla passività, all’antipiano e all’estremismo”, Giuseppe Campos Venuti, Adottare il piano per Roma, Comune di Roma, 2002; “Mi sembra che l’amministrazione e i suoi consulenti rifiutino il vecchio modello del piano rigido e statico”, Giuseppe Campos Venuti, Urbanistica in evoluzione, in Capitolium, dossier Verso il nuovo piano regolatore, 1999; “Introduzione di meccanismo compensativi e la perequazione urbanistica, che superino l’impasse quasi ventennale dei meccanismi di apposizione dei vincoli preordinati all’esproprio e la subordinazione della progettazione urbanistica alla struttura della proprietà fondiaria”, Domenico Cecchini, relazione al Piano delle Certezze, Roma, 1997.

[3] Durante il 1998 la competente commissione della Camera dei Deputati aveva iniziato la discussione su un testo organico redatto principalmente da Guido Alberghetti, ex parlamentare e responsabile dell’urbanistica del Pds. Inerzie e divisioni all’interno della stessa maggioranza non consentirono l’approvazione della legge, ma furono numerosi gli interventi del gruppo degli urbanisti incaricati in cui affermavano che i contenuti del nuovo piano romano erano un’anticipazione di quelli della legge nazionale.

[4]Il più diffuso quotidiano locale, Il Messaggero, è di proprietà di Francesco Gaetano Caltagirone, titolare, tra l’altro, di una grande società di produzione di cemento e proprietario di molte aree ed edifici. Il quotidiano locale di destra, Il Tempo, è anch’esso di proprietà di un soggetto con rilevanti interessi immobiliari, Domenico Bonifaci. Nel consiglio di amministrazione del gruppo Rcs-Corriere della Sera, infine, siede Pier Luigi Toti, importante e autorevole costruttore romano.

[5]La variante di Salvaguardia fu adottata con delibera n. 279 del Consiglio comunale di Roma il 23-24 luglio 1991. Le controdeduzioni furono approvate il 21 febbraio 1995. L’approvazione da parte della regione Lazio si ebbe con deliberazione di Giunta regionale n. 596 del 17.5.2002. La variante delle Certezze fu adottata dal Consiglio comunale in data 29 maggio 1997. Il 9 novembre 2000 fu approvata la deliberazione di precisazione delle compensazioni ivi contenute. L’approvazione regionale si ebbe con dgr n. 856 del 10. 9. 2004. Va anche sottolineato che nei quindici anni di gestione urbanistica non sono stati difesi neppure i vincoli sulle aree pubbliche, poiché alla metà degli anni 2000 in alcune aree sottoposte a piano attuativo essi vennero di nuovo a scadenza. Da allora iniziò nuovamente lo stillicidio di richieste di edificazione sulle aree a vincolo scaduto. Molte sono state compromesse con il rilascio di permessi di costruzione, ma a differenza di quanto avvenne negli anni ’90 nessuno ha pensato di lanciare il minimo allarme all’opinione pubblica.

[6]Infine il piano delle certezze introduce con una prima applicazione l’istituto della compensazione edificatoria….Già oggi con il piano delle certezze esso trova applicazione rispetto alle aree edificabili che vengono cancellate sulla base di criteri urbanistici e non sulla base di vincoli cogenti di inedificabilità”. E’ invece noto che la lottizzazione di Tormarancia, la cui edificazione fu cancellata sulla base dell’apposizione di un vincolo paesaggistico, insieme ad altri casi, furono ugualmente inserite all’interno dei comprensori da compensare.

[7] Vincenzo Cerulli Irelli, Edoardo Salzano. Relazione introduttiva al convegno di Italia Nostra sui diritti edificatori. Roma, 10. 1. 2003. Sulla rilevanza giuridica delle nuove formulazioni vedi Luca De Lucia, La perequazione nel disegno di legge sui Principi in materia di governo del territorio” in La controriforma urbanistica. Alinea editrice 2005.

[8]Verso il nuovo piano regolatore. Le città di Roma. Comune di Roma, Dipartimento politiche del territorio. Roma, novembre 1999.

[9] Sulla legge Lupi si veda: La controriforma urbanistica, a cura di M.C.Gibelli, Alinea editrice 2005. Dall’inizio di questo anno (2009) la legge Lupi ha iniziato di nuovo ad essere discussa all’interno della competente commissione della Camera dei Deputati e, data l’assenza di una convinta opposizione, il provvedimento rischia di essere approvato.

[10] Dal 1999 al 2008 a Roma è esistito l’assessorato ai “Grandi eventi” che diretto ininterrottamente dall’assessore Claudio Minelli è stato l’ispiratore di decine di deroghe approvate mentre si redigeva il piano urbanistico.

[11] Le intercettazioni ambientali fanno infatti comprendere appieno il nuovo meccanismo. La costruzione della variante che intendeva trasformare nello stadio di calcio della Fiorentina e nelle strutture commerciali correlate la destinazione a parco pubblico preesistente, viene infatti decisa da incontri ristretti svoltisi in vari ristoranti della città dal sindaco Leonardo Domenici, dal proprietario dell’area, Salvatore Ligresti, e dal proprietario della squadra di calcio, Diego Della Valle. La città era all’oscuro di tutto.

[12] In questa sede è forse utile limitarsi a riportare le date delle numerose stesure formalizzate della normativa. Prima adozione di Gm. nel settembre 2000. Versione provvisoria del 19 aprile 2002. Stesura approvata dalla Gm. il 18. 6. 2002. Versione variata approvata dalla Gm. il 3. 12. 2002. Stesura adottata dal consiglio comunale il 19-20. 3. 2003. Stesura approvata in sede di controdeduzioni approvata il 5 dicembre 2005. Ad ogni stesura si introducevano notevoli mutamenti.

[13] La citazione riportata nel testo è tratta dall’articolo 20, Città storica, Definizione, obiettivi e componenti., comma 2 delle NTA. Al comma 5 del successivo articolo 21 si afferma ad esempio: “Nelle aree libere non gravate di vincolo di pertinenza a favore di edifici circostanti sono ammesse la nuova edificazione su singoli lotti liberi o parzialmente edificati interposti tra lotti edificati dello stesso isolato, e risultanti da demolizioni totali o parziali di preesistenti edifici”.

[14] Vezio De Lucia, Il nuovo Prg di Roma e la dissipazione della campagna romana. In Meridiana 4-2005. I dati sul consumo di suolo a Roma sono contenuti in Paolo Berdini, La cancellazione della campagna romana. In No Sprawl, Alinea editrice, 2006.

[15] Paolo Baldeschi, Il piano strutturale di Firenze, estrema torsione della politica toscana di governo del territorio. In Contesti, supplemento n. 2-2007.

[16] Nel quadrante nord sono stati realizzati i centri di Torresina; Bufalotta-Porta di Roma nord; Fiano-Capena; Sant’Oreste. Questi ultimi due sono ubicati in area metropolitana. Nel quadrante est sono stati realizzati i centri di Casal Bertone; Collatina; Casilina; Palmiro Togliatti; Cinecittà (preesistente); Lunghezza-Porta di Roma est; La Rustica (preesistente); Polo tecnologico; Tor Vergata; Romanina; Anagnina; Osteria del curato; Valmontone; Ciampino-J-F. Kennedy. Nel quadrante sud sono stati realizzati i centri di Navigatori; Granai di Nerva (preesistente); Euroma2; Laurentino 38; Tor Pagnotta 1; Tor Pagnotta 2; Mezzocammino; Castel Romano. Navigatori, Laurentino 38 e Mezzocammino sono in corso di completamento. Nel quadrante ovest sono stati realizzati i centri di Selva Candida; Aurelia; Pescaccio (preesistente); Portuense; Ponte Galeria-Commercity; Fiumicino-Da Vinci; Fiumicino-Leonardo.

[17] Uno dei meriti della puntata di Report sta nel fatto di aver infranto il muro del silenzio durato nei quindici anni di amministrazioni di centrosinistra. Nonostante in quegli anni non fossero mancati conflitti o studi, il controllo del sistema mediatico non aveva lasciato spazio alla città reale. Alcuni esempi. Il 14 novembre 2002 si svolge un corteo organizzato da numerosi comitati di periferia fino al Campidoglio. Sempre nel 2002 esce Lezioni di piano, per un altro piano regolatore di Roma, volume curato dal consigliere comunale alla partecipazione, Nunzio D’Erme. Nel 2006 esce Modello romano, l’ambigua modernità, Odradek editore, in cui viene evidenziata l’inconsistenza del modello romano. Non si contano invece le vertenze aperte da moltissimi comitati di cittadini che dal centro storico alla periferia hanno chiesto invano una inversione di tendenza dell’urbanistica romana.

[18] Italo Insolera, Domitilla Morandi, Walter Tocci, Avanti c’è posto. Donzelli editore 2008.

[19] Paolo Berdini, La città in vendita, centri storici e mercato senza regole. Donzelli editore 2008.

[20]Urbanpromo nel 2008 era giunta alla sua quinta edizione. Sulle vicende dell’Inu va segnalato il recente volume di Franco Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana. 1930-2000. Ediesse, 2008.

Cancellato. Trasformato in tante villette a schiera come ne è pieno l’entroterra del XIII Municipio. Ci troviamo in Via Antifonte di Ramnunte, nella zona Nuova Palocco, di fronte alla scuola elementare Palocco ’84. All’angolo con Vicolo Canale della Lingua, uno splendido casale si erge solitario a ricordo della vocazione agricola del XIII Municipio. Ma quanti ne esistono in tutto il nostro territorio ? Almeno 53, da una prima stima. Infatti la Carta dell’Agro Romano, che dovrebbe tutelare le presenza storiche, archeologiche e paesistiche presenti appunto nell’Agro Romano, non li censisce tutti (come il caso del Casale del Porro, all’Infernetto, nei cui pressi non solo è presente un acquedotto romano, ma esiste numeroso materiale archeologico in superficie). Scompare la storia del territorio, scompaiono gli spazi verdi ex-agricoli, ma soprattutto scompaiono gli spazi pubblici. Di recente, il 6 agosto, il Consiglio della Regione Lazio ha approvato il Piano Casa con 36 voti a favore e 9 contrari, consentendo (inizialmente) ai proprietari di ristrutturare i casali oppure di trasformarli in piccole abitazioni da affittare a prezzo concordato, consentendo così un cambio di destinazione d’uso. Addirittura si è parlato di aprire sul posto asili nido. Si utilizzano, in questo modo, strutture oggi abbandonate, come stalle e vecchi magazzini, per farne, grazie alle loro cubature, alberghi, ristoranti, discoteche e finti agri-turismo, distruggendo l’unico elemento conservativo della campagna così com’era fino a 50 anni fa. Per fortuna, sempre il 6 Agosto, è stato votato l’emendamento all’articolo 2 della proposta di Legge Regionale che tutela i casali storici dell’Agro Romano e del territorio laziale. Potrebbe sembrare apparentemente una conquista e sulla carta effettivamente lo è. Ma se un casale come quello di Nuova Palocco (censito nel foglio 30S della Carta dell’Agro al numero 63) è comunque destinato a sparire, cosa ne sarà degli altri? E soprattutto cosa ne sarà di questi potenziali spazi pubblici a servizio dei quartieri dell’entroterra ostiense, nati come una città diffusa che hanno consumato ormai quasi tutto il territorio con le loro villette tutte uguali? Niente strade, piazze e giardini. Adesso neanche più gli spazi verdi agricoli.

Il suolo, su cui si sviluppa una città, è patrimonio della collettività anche se di proprietà di un singolo. E’ necessario dunque recuperare la memoria storica, ma soprattutto dare risposte alle nuove richieste di spazi pubblici che non possono tradursi in un aumento artificioso di ‘consumo di merci’. La politica deve ridurre il peso della rendita immobiliare che è in stretto rapporto con la rendita finanziaria e dunque con la speculazione, che non è imprenditoria.

L’azione che Italia Nostra sta portando avanti a sostegno della battaglia della Sovrintendenza Archeologica per la difesa e tutela dell’Agro romano ci auguriamo che non sia limitata solo ad alcuni municipi, ma estesa anche a tutti gli altri, compreso il XIII Municipio che ha conservato, meglio di altri, il patrimonio paesaggistico e storico di quella parte dell’Agro conosciuta come Marittima e che presto vedrà una delle cementificazioni più pesanti di Roma. Il Litorale infatti ha ricevuto premi di cubatura nel nuovo piano casa fino al 60% e il rischio fondato che si attui la visione fascista di espandere Roma “sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno” diventerà una promessa mantenuta.

L’autrice è Vice presidente del Comitato civico entroterra XIII

La Magliana è un luogo di Roma singolare. Di abbastanza recente formazione urbana (più o meno una palude fino al 1960) è diventata il terreno in cui si sono accumulati nel tempo tentativi, plurali e dissimili tra loro, di costruzione di un forte immaginario. Prima come luogo di forte radicamento e protagonismo sociale, capace di sconfiggere la forza di chi aveva autorizzato e costruito case sotto il livello del fiume. Un luogo che una volta che queste case, strappate alla rendita, venivano in massa occupate e fatte proprie da chi quella lotta aveva condotto, si è voluto subito quale “ghetto” per antonomasia. Una location metropolitana. Per ogni delitto sempre più efferato e la messa in scena di mostri urbani descritti nelle cronache cittadine. Dal “canaro”, ai protagonisti della banda di quel romanzo criminale che, per oltre vent’anni avrebbe partecipato, come braccio armato, al dispiegarsi di quella ragnatela di episodi locali capaci di intrecciare e renderli oscuri gli avvenimenti più dolorosi della politica del nostro paese.

La storia è sembrata continuare, con un altro capitolo all’alba di qualche giorno fa. Le forze di polizia, al comando addirittura di un generale, (come sottolineano tutte le cronache) sono state impegnate nello sgombero di una scuola occupata da alcuni anni abitata da precari, migranti, sfrattati, giovani. Più o meno “terroristi” per la stampa di proprietà dei costruttori cittadini. In realtà parte di quel mondo che non può varcare la soglia dei 240 mila appartamenti tenuti sfitti a Roma; quel mondo per cui non esiste nessun alloggio popolare perché non se ne costruisce; quel mondo che è costretto a vagare in una città senza case (popolari) e fatta di case che, senza città, sono cresciute quale informe melassa edilizia, una accanto all’altra.

Decidendo di trasformare, mostrando i muscoli, un’emergenza sociale in problema di ordine pubblico, cosa di meglio che la Magliana. Un ghetto che più ghetto non si può. Dove saldare il ricordo di tensioni antiche, costruite su inesistenti paure, con le nuove che si vorrebbero addossare, fino a farli diventare portatori, ai movimenti di lotta per la casa.

Non era stata “buona la prima”, tuttavia. Non ci si era riusciti, infatti, cacciando chi occupandolo ci viveva, anche qui con un’operazione spettacolare, oltre cinquecento persone dall’ospedale abbandonato Regina Elena perché, non solo si era scoperto che si trattava nella maggior parte di donne e bambini che lì avevano, ottenuta dallo stesso Comune, la loro residenza ufficiale, ma soprattutto perché subito era stato evidente a tutti che la residenza che Alemanno aveva pensato per loro era un lager come manufatto architettonico; un campo di concentramento per come viene gestito; un inferno per chi, lì è, ora, deportato e costretto a vivere e a coabitare.

Non è casuale che tutto questo non sia avvenuto con la città chiusa per ferie, ma si sia aspettato il rientro per varare il primo atto “politico” di Alemanno. Come se si fossero aspettati “i più” per farglielo vedere. Alemanno non ha, con gli sgomberi, sparato ad alzo zero contro i movimenti di lotta per la casa. Ha fatto anche questo certo. Ha inteso prendere realmente possesso della città, dopo un anno di surplace in cui l’aveva assediata. Come tutti i nuovi padroni lo ha fatto ridisegnando le mappe della sua proprietà.

Avendo letto Moby Dick Alemanno sa che le mappe devono mentire sempre, affinché i veri luoghi non vengano mai trovati. Alemanno deve iniziare, cancellando i molti spazi liberati alla rendita, a tenere alta l’emergenza, trasformarla in ordine pubblico. Solo così potrà assicurare, al pacchetto di mischia dei medi e piccoli costruttori che hanno contribuito a costruirlo come Sindaco, di candidarsi a risolvere l’emergenza abitativa da loro stessi provocata. Semplice il loro ragionamento. Le case –per il Sindaco- costano troppo perché a Roma il costo delle aree (nelle mani dei grandi costruttori) fa salire il prezzo finale di vendita sul mercato di oltre il 40% del prezzo di costruzione. Dateci aree agricole e vedrete- dicono al Sindaco i suoi partners di cemento- e faremo case anche per l’affitto. Loro chiamano aree a “saldo” quel vasto territorio chiamato in realtà “agro romano”. In quelle aree, si dicono disposti a realizzare sì case in affitto, ma quale quota edilizia di un pacchetto residenziale assai più consistente. Come hanno sempre fatto: drenando finanziamenti per l’edilizia residenziale pubblica (sovvenzionata e convenzionata) e ritagliandosi i soliti convenienti spazi di manovra con queste nuove case da vendere (molte) e da affittare (poche) quale compenso per il disturbo.

A questo servono le truppe e i generali dislocati sull’argine del Tevere, schierate contro una ciclofficina e una scuola abbandonata fatta diventare casa: alla costruzione dell’immaginario. A dire basta con l’abitazione collettiva, con il luogo dell’abitare eguale, al sottrarsi al mercato e al capestro dell’indebitamento senza fine su cui loro hanno vissuto lucrando e su cui vorrebbero continuare a farlo. Un no esplosivo. Non scritto, ma reso ancora più evidente dalle nubi di polvere sollevate dallo sferragliare dei mezzi e dal battere sugli scudi degli uomini in tenuta antisommossa. Attaccare un luogo occupato, cercando di “finirlo” poi dalle pagine dei giornali compiacenti, vuol dire smontare, mattone dopo mattone, e definitivamente sotterrare nelle sue stesse macerie, l’idea stessa di una città dove pensare all’abitare prima del costruire e ribadire, come evidente, esattamente l’opposto: il costruire sempre e ovunque prima ancora di considerare l’abitare.

Questo dice la nuova cartografia urbana voluta dal sindaco. Per questo la facciata michelangiolesca dei musei capitolini è stata scalata dai movimenti. Ma la resistenza, l’occupazione del tetto affacciato sulla piazza del Campidoglio, il possedere la città dall’alto del desiderio, ha fatto esplodere, anche, la solitudine dei movimenti di lotta per la casa. In un attimo tutto è sembrato disperdersi.

Eppure era quella la strada giusta, nessuno deve sentirsi solo nel difendere e rivendicare i propri diritti. Non possiamo pensare di costruire spazi di conflitto, che siano separati e disposti secondo graduatorie di merito, la lotta per la casa non può essere vincente se non si lega a quella per una mobilità sostenibile, o a quella per la difesa delle aree agricole, all’abitare.

La mappa di Alemanno ha funzionato: disegnando quei corpi, che vivevano sulla sommità dell’edificio michelangiolesco, all’interno della rete della “marginalità sociale”. Ecco allora circondare Marc’Aurelio con il lunapark: dal carro attrezzi, ai vigili che contavano i turni degli scalatori, al pallone anticadute, alla richiesta di staccare o, almeno ridurre, qualche manifesto; a volte turisti e sposi avessero mai alzato gli occhi al cielo…

Il tetto dei musei capitolini era diventato un altro luogo vero; più delle tende montate ai fori. Non un “presidio degli antagonisti”, ma un modo di spendere la propria vita capace di alludere alle tante vite sottratte a chi la casa non ce l’ha. Solo a quelli?

Perché i“climbers for housing” non sono riusciti a trasformarsi in “ climbers for freedom”? A parlare ai tanti ai quali, pur vivendo in una casa, si impedisce di abitare la città. A riuscire a opporsi al fatto che le mappe di Alemanno si trasformino in altrettanti spazi dove non sarà più possibile “pensare” a un altro modo di vivere la nostra vita. Per questo atto dopo atto, vediamo dispiegarsi l’odio che a seconda dei casi, colpisce con contenuti omofobi (e coltelli) la comunità gay; negare il grande square di piazza Vittorio alle celebrazioni della fine del ramadan alla comunità che lì vive, costruire “ teoremi “ su presunti racket all’interno delle occupazioni delle comunità resistenti.

Vogliono farci vivere, creando continue emergenze, all’interno di nuove mappe dove, ogni luogo venga annullato all’interno di un territorio destinato a produrre rendita attraverso la rendita. Una “vice vita” costruita sull’appropriazione di quel che è comune a tutti e di cui, proprio la rendita, si impossessa. A partire dalla distruzione delle risorse e attaccando la capacità di relazione che, in ogni bene, caratterizza la propria identità.

Sta ora ai movimenti romani ridisegnare nuove mappe, partendo dalla convinzione che solo costruendo un grande progetto comune, che veda protagonisti tutti nel disegnare una città che non sia più luogo dell’esclusione, sarà possibile sconfiggere la solitudine. Un “insieme” che non sia la sommatoria di esperienze cresciute separatamente, ma la costruzione paziente di una cultura dell’abitare che garantisca non solo un tetto a chi non ce l’ha, ma restituisca a tutti la dignità di abitanti della città. Se al contrario si rafforzeranno comunità identitarie impegnate in singole rivendicazioni, la solitudine e la perdita di ogni diritto saranno inevitabili.

A Roma la scuola «8 marzo» - da tempo abbandonata - era occupata dai senza casa. Ho avuto la fortuna di conoscerne qualcuno. Ho ancora impresso il ricordo di due bellissime bambine che la madre teneva ordinate e sorridenti pur in quelle condizioni difficili. Dopo lo sfratto subito ad Ostia quella soluzione promiscua e difficile sembrava loro un sogno. Quasi come le case vere che abitano i pitbull della carta stampata che dalle colonne dei due quotidiani Il Messaggero e Il Tempo si accaniscono da giorni contro «l'illegalità delle occupazioni nella città».

Sono questi due giornali che hanno creato ad arte il clima per gli sgomberi. In loro soccorso è puntualmente arrivato il sindaco Alemanno. Basta con le occupazioni e con l'illegalità è la parola d'ordine. Quindici giorni fa sono stati sgomberati cinquecento senza tetto che abitavano l'ex ospedale oncologico della capitale. Un luogo fino a ieri di dolore dava un tetto a gente civile. Avrebbero dovuto essere premiati, sono stati invece sgomberati con la forza. Anche l'edificio pubblico di via Salaria, altra pacifica occupazione a nord della città, è stato chiuso con la forza.

Ma visti i due proprietari dei due giornali, viene voglia di alimentare la campagna contro l'illegalità anche da queste colonne. Francesco Gaetano Caltagirone e Domenico Bonifaci sono infatti tra i principali protagonisti delle vicende dell'urbanistica romana che più di qualche ombra ha proiettato in questi anni.

Solo case private

Le forze dell'ordine potrebbero, con identica solerzia dimostrata in questi giorni, sequestrare all'alba le carte presso il comune di Roma e la regione Lazio per vedere per quale motivo pur essendo vigente una legge che obbliga a destinare almeno il 40% delle abitazioni da costruire ad edilizia pubblica, in questi anni siano state costruite solo case private. È obbligo costituzionale rimuovere le cause delle disuguaglianze sociali. Il diritto alla casa per primo. Perché, dunque, questa civile esigenza non è stata adempiuta?

Il problema vero, a Roma come in tutta Italia, è che mancano case per famiglie a basso reddito. E questa gigantesca sfida non si risolve con le forze dell'ordine. Si risolve finanziando l'edilizia pubblica, come si fa in tutti i paesi dell'Europa occidentale. Si risolve utilizzando al meglio l'immenso patrimonio pubblico che in questi anni è stato svenduto (svenduto) a pochi immobiliaristi privati che hanno fatto immense fortune.

La Regione cambia le regole

In questi stessi giorni la regione Lazio e il comune di Roma hanno deciso di rendere edificabili 150 (centocinquanta) ettari di agro romano per realizzarvi il nuovo stadio della Roma. Il piano regolatore di Roma è in vigore da soli due mesi essendo stato sottoposto al vaglio del Consiglio di Stato. La Regione è l'istituzione che deve vigilare sul rispetto di quel piano che ha valore di legge. Invece di farlo si mette a cambiare le regole. Non è questa una palese fattispecie di illegalità?

Per uno strano strabismo, sia Il Messaggero che Il Tempo non hanno chiesto ai carabinieri di andare negli uffici di via del Giorgione e sequestrare le carte per verificare quali siano gli interessi pubblici che hanno portato a questa decisione e se non ci fossero altre zone nel Prg su cui realizzare il nuovo stadio. Al contrario hanno entusiasticamente accolto la notizia. E si capisce: verranno costruiti oltre 300.000 metri cubi di edifici: un'area che valeva al massimo 30 milioni di euro ne vale oggi oltre 150! È illegale soltanto occupare edifici pubblici abbandonati o c'è anche qualche altro capitolo da aprire?

Ma oltre ad una vergognosa insensibilità sociale, i veri motivi di tanto accanimento sono anche altri. Nella scuola della Magliana l'occupazione ha fin qui impedito che si realizzasse un'assurda speculazione. Attraverso la società Sviluppo Italia (altro «gioiello» di rigore), infatti, si voleva mettere le mani sull'edificio, crearvi un grande parcheggio e una funivia per portare le persone all'Eur, manco fossimo a Cortina. 12 milioni di euro buttati al vento senza risolvere alcun problema del difficile quartiere.

Perché fanno paura

Il secondo motivo è che la Regione Lazio ha approvato una legge sul «piano casa» che, pur con molti gravi errori, sceglie almeno la strada pubblicistica e tenta di finanziare l'edilizia sociale. Il terzo motivo è che in queste settimane si stanno raccogliendo le firme su una proposta di legge «sul diritto all'abitare», promossa da comitati di cittadini, sindacati di categoria e movimenti di lotta per la casa.

La rabbia dei due giornali nasconde la preoccupazione che si sia incrinato nell'opinione pubblica e nella città l'acritica accettazione della favola che i problemi urbani li risolvono gli speculatori.

Ci sono ormai troppe persone che affermano che le città sono beni comuni e devono essere guidate dalla mano pubblica. È questo che fa paura.

L’intervento introduttivo alla tavola rotonda conclusiva del Simposio scientifico internazionale “Roma, la città eterna in mutamento”, Università di Karlsruhe 18-20 aprile 2008

1. I processi di riconversione urbana avviati intorno agli anni ’80 al fine di ridurre la disoccupazione derivante dalla chiusura o crisi delle industrie, e portati a compimento in questi ultimi anni in termini di turismo, cultura e creatività, sono stati un prodotto di complesse strategie di marketing della città, finalizzate ad attrarre visitatori-consumatori, investimenti e flussi finanziari. In Italia i primi esempi di questa riconversione li abbiamo in città tradizionalmente industriali, Torino, Genova, Milano. Soprattutto le prime due oggi rappresentano complessivamente un esempio significativo di trasformazione e un modello di riferimento per altre città italiane, proprio perché sono riuscite a coniugare la riqualificazione urbana con il patrimonio architettonico e le imprese culturali (Bovone, Mazzette, Rovati 2005). Roma, invece, richiede un ragionamento a sé perché non ha vissuto i passaggi dal fordismo al post-fordismo e perché è una ‘classica’ città amministrativa a chiara vocazione turistica.

È in questo contesto che le città storiche italiane stanno assolvendo ad un importante ruolo attrattivo in termini di attività creative, di nuove popolazioni, di consumatori/visitatori. La bellezza (soprattutto quella ereditata dal passato) è diventata uno dei i fattori principali di questa rinnovata centralità. In altri termini, il passato non solo non è più ingombrante e residuale come lo è stato nella modernità (città industriale) ma è diventato una risorsa immediatamente spendibile in termini materiali e simbolici, in quanto elemento che rende unico e riconoscibile il paesaggio urbano.

E se la bellezza concorre al successo urbano in quanto elemento fondamentale di attrazione urbana, la città nel suo complesso è diventata una macchina multimediale che si organizza per produrre eventi e per diventare essa stessa evento (Sgroi 1997; 2001). In questa direzione si sono mosse gran parte delle città italiane, qualunque sia la dimensione e a seconda del patrimonio architettonico e culturale di cui ognuna dispone. Direzione che si alimenta di una forte competizione che tra le grandi città è finalizzata a diventare sede di importanti appuntamenti e che può trasformarsi in ‘lotta senza esclusione di colpi’ - si pensi per ultimo a ciò che Milano ha fatto per aggiudicarsi l’Expo del 2015 -, perché esporre l’immagine della città allo sguardo del mondo, significa riportare alla città concreti risultati in termini di pubblicità, di investimenti finanziari, di rivitalizzazione urbana (in poco tempo si realizzano grandi opere urbanistiche e architettoniche), di riscoperta dell’efficienza e delle capacità organizzative. Mentre la competizione tra le medie e piccole città si esprime inventando mostre e iniziative culturali locali di vario genere, per lo più collocate in palazzi di pregio riconvertiti a questo fine. L’elemento accomunante è che la bellezza come bene culturale è ormai considerata in tutti gli insediamenti urbani (ricchi e poveri, grandi e piccoli) una risorsa economica spendibile.

Ma il successo di questa formula finora è stato possibile soprattutto in quelle città dove si sono verificate almeno alcune delle seguenti condizioni: a) rigenerazione del vecchio ambiente costruito; b) miglioramento infrastrutturale; c) costruzioni di installazioni ‘simbolo’; d) cambiamento della cosiddetta landmark strategy; e) creazione di eventi sempre più nuovi; f) investimenti nel marketing territoriale e locale (place marketing), ovvero tutte quelle attività di comunicazione interne alla città e proiettate verso l’esterno. Investimenti e flussi finanziari possibili solo con un elevato grado di collaborazione tra amministrazioni pubbliche e imprese private (strategie di governance).

Alla luce di ciò, soprattutto le città storiche sono diventate la sede ‘naturale’ di attrazione per un pubblico vasto e composito, dove musei, opere di risanamento e opere costruite ex-novo, luoghi tradizionali di cultura (università, teatri e sale concerti) e nuovi luoghi di produzione culturale si mescolano ai luoghi di consumo e del divertimento, per diventare ‘la cartolina’ da esibire e vendere (Ingersoll 2004). In relazione a tutto ciò, negli ultimi anni si è diffuso un fenomeno di ‘dilatazione’ del centro, nel senso che aree sorte nella prima metà del Novecento, a ridosso dei centri e che fino a pochi anni fa erano considerate semi-periferie, tendono oggi a rappresentarsi come centro storico: un esempio significativo a Roma sono le aree attorno alle mura aureliane.

E se l’urbanistica continua ad essere assente da questi processi, l’architettura è ridiventata il collante principale di questa rivitalizzazione e costituisce il marchio (Amendola 1997) che può rendere unico il luogo e gli avvenimenti che vi si organizzano. Così, le singole opere architettoniche diventano esse stesse ragione di rivitalizzazione e di attrazione. Un esempio per tutti è la Biosfera di Renzo Piano a Genova.

2. Questo complesso processo di attrazione e competizione si accompagna al fatto che i paesi a sviluppo avanzato sono diventati paesi dal punto di vista sociale e territoriale estremamente mobili, e una delle cause principali della mobilità è il consumo, materiale e immateriale.

I due tipi di consumo non sono separabili, anzi, l’uno non può esserci senza l’altro perché il consumatore è diventato un soggetto sociale estremamente abile che, quanto più esplica grandi capacità di accesso e di selezione - è, per così dire, un soggetto blasé nel senso simmeliano del termine - tanto più accede alle risorse urbane.

In questo gioco di attrazione e di competizione gran parte delle città italiane, seppure non abbiano le caratteristiche delle città globali (Sassen 1991), hanno adottato politiche e strategie di rivitalizzazione urbana (urban regenaration), utilizzando come motore principale il nesso produzione culturale, servizi, consumo. Al centro di questo nesso va ricompreso il patrimonio architettonico, l’arte, il saper fare delle culture locali, il variegato sistema dei servizi tradizionali ed avanzati e, in modo particolare, il consumo di beni materiali e immateriali, a partire dal consumo di territorio. Grazie a tutto ciò, le città sono riuscite a produrre trasformazioni specificamente in tre tipi di aree: a) quelle centrali e con patrimonio storico-architettonico, più o meno ricco a seconda della lunga durata della singola città; b) quelle semiperiferiche e dismesse dove vi erano gli insediamenti industriali; c) i vasti territori di congiunzione tra un insediamento urbano e l’altro. E se nei primi due casi vi è stata una riconversione funzionale ed estetica che ha avuto un’immediata ricaduta economica e ha rinviato un’immagine di successo urbano (Sgroi 2001), nel terzo caso vi è stata la proliferazione di un insieme composito di periferie e che Koolhaas ha definito città generica, ovvero la città senza storia (2006). Questa apparente dualità tra centro e periferie ha a che fare direttamente con questioni controverse come ‘segni identitari’, ‘passato/presente’, ‘appartenenza territoriale’ e così via.

Vorrei però sottolineare il fatto che solo le città che hanno adottato e saputo applicare le politiche di rigenerazione hanno mantenuto il loro potere di monopolio e di ‘esclusività’ (target) e hanno trasformato in beni economici quell’insieme di caratteri che appartengono al passato e alla storia locale urbana - come esigenza rinnovata del cosiddetto ‘postmodernismo’ – e che si basa su quella che Urry ha definito “disease of nostalgia” (1990). Il tutto mescolato con tutte quelle attività che appartengono al tempo da dedicare allo svago e al consumo seguendo quelle note dinamiche, che coniugano i termini divertimento e intrattenimento (entertainment) con un insieme di attività ad essi complementari racchiusi in quattro sistemi di consumo: lo shopping, il mangiare, le attività educative nel loro significato più tradizionale e la cultura (Hannigan 1998). Dinamiche che non riguardano più soltanto le città più avanzate - come Roma e Milano -, ma che hanno contagiato tutti i territori.

Il binomio turismo/consumo lo si ritrova ormai ovunque, seppure con livelli differenziati di successo, ma tutti i territori (urbani ed extra-urbani) hanno adottato strategie attrattive simili, modificandosi nelle funzioni e nella forma giacché hanno assunto il consumo e lo svago come funzioni primarie, mentre le altre funzioni, soprattutto quelle abitative e quelle produttive nel senso materiale del termine, hanno subito un processo di periferizzazione o un valore di nicchia, a seconda dei casi.

3. Quali sono stati gli effetti più eclatanti di questi cambiamenti?

Innanzitutto, la città si è trasformata da luogo da vivere a luogo da consumare prevalentemente in senso turistico, trasformazione che ha accentuato i processi di spopolamento delle aree centrali, o città storiche, proprio perché le esigenze del mercato urbano sono nei fatti incompatibili con quelle di chi vi abita stabilmente. All’interno di questa trasformazione si possono individuare i segni di gentrificazione all’italiana e di folklorizzazione del centro (Mela 1996; Strassoldo 2003) che si affermeranno pienamente a partire dagli anni ’80 e ’90, al di fuori di qualunque programmazione urbanistica. Gentrificazione e folklorizzazione che in Italia fanno perno sulla bellezza, qui intesa nel senso estetico del termine.

In secondo luogo, il fatto che nella nostra epoca l’individuo da homo politicus sia via via diventato homo consumens (Bauman 2007), significa che i nuovi nomadi, i visitatori/consumatori, si sono appropriati della città pur essendo per definizione estranei ad essa, nel senso che il loro senso di appartenenza al luogo è provvisorio, così come è provvisorio il loro stare nel luogo. Questo determina una sorta di dissesto sociale e culturale i cui effetti sono ancora sottovalutati e poco studiati, non ultimo perché è difficile calcolare i costi della perdita dell’anima sociale di una città, o di parti di essa. In questo quadro, la bellezza è una merce al pari di qualunque altro prodotto, e perciò suscettibile di obsolescenza.

In terzo luogo, si è andato estendendo il consumo del suolo in senso urbano. Mi riferisco al fenomeno dello sprawl che riguarda il consumo del territorio e che rinvia sia al fatto che i mutamenti funzionali degli insediamenti non rispondono più a un’immagine di città compatta ed articolata per ambiti specializzati e rispondenti a un ordine razional-funzionalista, sia al fatto che lo sprawl è causa ed effetto della crescita della mobilità privata e individuale. Ossia, non si sarebbe potuto creare sprawl se non fosse stato portato a compimento il duplice processo di acquisizione della mobilità come una delle funzioni centrali e di dilatazione sociale del consumo tout court. Nel caso italiano lo sprawl è anche il prodotto di una mai dichiarata forma di deregulation, ovvero, le regole del mutamento sono state in buona misura dettate dalle forze economiche e dai nuovi protagonisti sociali di questi spazi urbani (Salzano 2006).

In quarto luogo, si è stabilito un difficile rapporto tra consumo e cittadinanza, perché acquisire come prevalenti le regole del consumo, significa avere come interlocutori individui che hanno una forte capacità di rappresentanza degli interessi di cui sono direttamente o indirettamente portatori; mentre, adottare gli strumenti di governo pubblico significa avere come interlocutori i cittadini, portatori di diritti e di doveri che prescindono dalle loro capacità individuali economiche e di rappresentanza politica.

4. In riferimento a questo processo generale Roma si colloca in modo originale, anzitutto, perché non ha dovuto subire la crisi cosiddetta post-fordista e perché i primi segni di folklorizzazione della bellezza vi sono già intorno alla seconda metà degli anni ’70 con la rapida affermazione di quella che venne definita ‘politica dell’effimero’, inaugurata a Roma dall’allora assessore Nicolini nel tentativo di ‘far incontrare’ i giovani delle borgate con le bellezze del centro e utilizzando il divertimento come medium culturale al fine di rendere il centro una zona sicura; inoltre, perché le ragioni dell’attrazione e del consumo sono legate alla sua storia certamente unica nel mondo (e non solo perché è capitale di due Stati); infine, perché l’architettura contemporanea ha un ruolo attrattivo - se si vuole - marginale perché le architetture del passato continuano ad essere la ragione centrale di attrazione: l’esempio della teca di Richard Meier per l’ARA PACIS, è significativo, giacché, nonostante tutte le polemiche che ha sollevato quel tipo di opera, i visitatori vi si recano per vedere il contenuto (l’Ara Pacis), più che il contenitore seppur ideato da un architetto-star.

Nonostante ci siano profonde differenze tra Roma e le altre città italiane, gli effetti sono abbastanza simili in termini di cambiamento delle funzioni, di spopolamento della città storica, di mobilità ed estensione urbana, di consumo, a partire da quello del suolo. Il PRG recentemente approvato non solo non coglie questi nodi critici, ma sembra volerne accrescere le criticità (in merito rinvio al ricco dibattito presente nel sito di Edoardo Salzano eddyburg.it) (De Lucia 2003; AA:VV. 2007). Il che significa che mobilità, spopolamento e sprawl diventeranno per Roma fattore emergenziale e non di governo ordinario, ma su questo entrerò nel merito nella tavola rotonda.

5. Riferimenti bibliografici

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La "terza via" della Cgil. Perché "tra la minaccia di un fermo dell’edilizia e il superamento dei vincoli ambientali, c’è un’altra soluzione". La indica Claudio Di Berardino, il segretario della camera del Lavoro di Roma e del Lazio, prendendo una posizione diversa sia da quella dei costruttori ("si rischia il blocco degli investimenti privati"), sia da quella a oltranza degli ambientalisti.

Con i nuovi proposti dalla sovrintendenza non temete anche voi un fermo nelle costruzioni?

"No, perché non si può approfittare della crisi per proporre uno stravolgimento delle regole o dei vincoli ambientali. Non può passare l’idea che lo sviluppo di Roma coincida solo con nuove urbanizzazioni: bisogna invece parlare di investimenti produttivi, di rilancio del turismo, dei servizi, di economia e di qualità del lavoro".

Ma i costruttori sostengono che l’edilizia muove il 25 per cento dell'economia romana.

"È vero. Edilizia, però, non è solo nuove urbanizzazioni. Ripeto esiste una 'terza via'".

Quale?

"Dare inizio ad un nuovo ciclo (in genere i cicli edilizi durano dai 10 ai 15 anni) fatto di piani di recupero, di riqualificazione della città iniziando dalle periferie, come il completamento degli interventi dei così detti articoli 11, e di contratti di quartiere".

Qualifichiamo quello è già urbanizzato e non pensiamo solo a nuove urbanizzazioni?

"Esatto. Come ad esempio la costruzione di nuovi alloggi di edilizia sociale. In una proposta che abbiamo avanzato, con le attuali norme del Piano regolatore si possono costruire subito 7.000 alloggi di edilizia sociale, le ex case popolari".

Anche senza i 5.400 ettari fra l'Ardeatina e la Laurentina?

"In quella zona era edilizia privata e agevolata: ovvero l’impresa costruisce, poi applica canoni particolari. Ma non sono case popolari come quelle che vengono costruiti dal Comune su finanziamenti regionali o statali. E questi alloggi sono previsti su tutta Roma: questi 7.000 alloggi si possono costruire al di là dei vincoli".

Quindi siete perché i vincoli rimangano?

"Diciamo che il Prg e i vincoli sono parte delle regole, che servono a fare in modo che ci sia uno sviluppo armonico e sostenibile ".

Tifate per la sovrintendenza?

"Per le regole. La sovrintendenza è un’istituzione, se il vincolo è giusto va messo. E il tavolo interistituzionale dovrebbe servire per progettare lo sviluppo della città e attuare le norme".

Regole che non impedirebbero il lavoro dei costruttori?

"No, possiamo aprire un ciclo di recupero e di riqualificazione, mettere in sicurezza il patrimonio edilizio, costruito nel dopoguerra in cemento armato, che quindi ha subito un deterioramento. Pensiamo alle infrastrutture che non devono più rincorrere l’espansione edilizia ".

E per gli alloggi popolari?

"Sono state individuate aree intorno alle stazioni ferroviarie, c’è il recupero di scuole abbandonate e delle caserme dismesse. E facciamo ripartire i cantieri pubblici: con l’attuale crisi l’economia romana non gira se non si riparte dal pubblico. Va rimessa al centro la linea strategia della qualità urbana e del lavoro.

La soprintendente di Roma mette i vincoli su un pezzo di agro romano, dove il Piano regolatore prevede oltre un milione di metri cubi di nuova edificazione. Il ministro Bondi la sostiene, Pdl e Pd di Regione, Provincia e Comune la attaccano e si schierano con i costruttori

La soprintendenza ai beni architettonici del comune di Roma sta tentando di mettere i vincoli a una porzione di agro romano e scatena le reazioni dell’amministrazione capitolina [Pdl], della Provincia di Roma [centrosinistra] e della Regione Lazio [centrosinistra]. Si costituisce così un fronte trasversale a sostegno dei costruttori romani che rivendicano i diritti acquisiti con il Piano regolatore targato Veltroni, che lì prevede oltre un milione di metri cubi di nuove edificazioni. E’ questa, in estrema sintesi, la vicenda generata dal recente provvedimento della soprintendente Federica Galloni, che ha apposto la tutela su 2.700 ettari di campagna romana nella zona fra via Laurentina e via Ardeatina, su terreni di proprietà dei due fratelli Caltagirone, Francesco Gaetano e Leonardo, e del gruppo di Paolo Santarelli, potentissimi costruttori della capitale. L’azione della soprintendente era partita già lo scorso anno, con la presentazione di 120 osservazioni al Prg della capitale, evidentemente ignorate. Da qui la recente apposizione dei vincoli su terreni di pregio ricadenti nelle zone Cecchignola, Tor Pagnotta, Castel di Leva, Falcognana, Santa Fumia e Solforata, ex borgate già ampiamente massacrate dalla speculazione edilizia e dalle previsioni del Piano regolatore di Veltroni. La soprintendente è sostenuta dal ministro dei beni culturali Sandro Bondi, coordinatore nazionale del Pdl, al quale il sindaco Gianni Alemanno a un certo punto ha fatto appello anche in nome della comune appartenenza politica. Invece, il ministro Bondi per ora tiene e concede solo un tavolo di concertazione con le istituzioni competenti, cioè comune e Regione. E c’è già chi parla di uno “sgarbo” ad Alemanno ben meditato all’interno del Pdl, per creare problemi al sindaco e alla sua area politica con i “grandi elettori romani” in vista delle elezioni regionali nel 2010.

Chi invece non tiene proprio e sembra essere sull’orlo di una crisi di nervi è il Pd, nelle autorevoli figure del capogruppo in comune Umberto Marroni, del presidente della Provincia Nicola Zingaretti e del vice presidente della Regione Esterino Montino. Manco fossero in campagna elettorale. O invece sì. Evidentemente sono in corso le grandi manovre per il congresso del partito a ottobre e per le prossime regionali: tentano di portare in dote i poteri forti romani, i “palazzinari”. Gli stessi corteggiati da Alemanno. Così facendo il Pd continua a confondere le idee a una parte consistente del suo elettorato, non a caso in costante erosione, che vede il centrosinistra insieme al centrodestra a raccogliere “il grido dei costruttori” e degli “interessi locali”, tralasciando ogni attenzione per gli interessi generali, per una qualità di vita che precipita e per un territorio massacrato dal cemento. Dalla loro parte c’è il sindaco Alemanno, che si candida come interlocutore più credibile per i palazzinari: dice che il Piano regolatore di Veltroni non gli è mai piaciuto, ma che non accetta di perdere gli investimenti e i posti di lavoro che i costruttori promettono per quelle aree. Intanto, una parte del centrosinistra cerca di nobilitare la battaglia contro i vincoli sostenendo che in quel pezzo di agro romano sono previste case “popolari”.

Centrodestra e centrosinistra insieme parlano della necessità di rilanciare lo sviluppo e fronteggiare la crisi con le consuete colate di cemento. Sarà così anche il Piano casa che la Regione si appresta ad approvare? Solo le associazioni ambientaliste, Wwf, Legambiente e Italia nostra innanzitutto, difendono il vincolo della soprintendenza e parlano di ignoranza delle leggi da parte dei vari amministratori quando lamentano l’ingerenza del ministero dei beni culturali che esercita il potere di tutela sull’agro romano: il fatto che nessun ministro prima se ne sia fatto carico non vuol dire che non si possa fare. Dal resto della sinistra un silenzio assordante.

Disegnare il futuro di Roma in sei mesi. Questo era il compito che il sindaco Gianni Alemanno aveva dato alla «Commissione per il futuro di Roma capitale». In 180 giorni non solo è stata rifondata Roma, ma si è rivoluzionata la storia dell'umanità. A pagina 12 del rapporto conclusivo si elencano le antiche capitali del mondo protagoniste della civiltà. Insieme ad Alessandria, Atene e Roma non compare Menfi, ma Memphis. Secoli di studi sulla civiltà egizia sono stato demoliti. Quello che abbiamo conosciuto nei primi anni della scuola dell'obbligo era falso. L'unificazione dei due regni egiziani non avvenne a pochi chilometri a sud dal Cairo, a Menfi appunto, ma nel lontano stato del Tennessee. Degli oltre cinquanta esponenti della commissione, tre volontari guidati dal presidente Antonio Marzano inizieranno tra breve una coraggiosa risalita del corso del Nilo alla ricerca degli antenati di Elvis Presley.

Antonio Marzano è attualmente presidente del Cnel, istituzione che in tempi di crisi economica potrebbe pure portare qualche contributo alla ripresa del sistema Italia. Con queste premesse dubitiamo fortemente che da lì verranno segnali. Ed anzi, visto che ci siamo, suggeriamo all'inflessibile ministro Brunetta di metterci il naso e di ampliare gli orizzonti della sua inflessibilità. Dal divieto della spesa per gli impiegati normali al divieto di dire corbellerie ai gruppi dirigenti sarebbe un buon salto di qualità.

Con queste premesse verrebbe da concludere che Alemanno aveva posto il futuro di Roma nelle mani di apprendisti stregoni e che dunque la commissione non ha cavato un ragno dal buco. Ma, purtroppo, non è vero. La più solida industria romana, la speculazione immobiliare, era ben rappresentata all'interno della commissione ed ha raggiunto tutti i suoi scopi. Del resto, era stato quello il motore del «sacco di Roma» veltroniano ed oggi prosegue indisturbata il suo ferreo dominio sulla città. Ecco alcuni esempi. Uno degli obiettivi principali è quello «di ampliare l'offerta abitativa, anche tramite l'implementazione del piano regolatore». Evidentemente l'eredità dei 70 milioni di metri cubi di cemento previsti dal prg da poco approvato non soddisfano ancora gli appetiti della speculazione.

Nel merito, dopo aver imposto la creazione del sistema direzionale occidentale invece del previsto sistema direzionale orientale (i due enormi edifici per uffici in via di ultimazione ai margini dell'autostrada Roma-Fiumicino), si intende completare l'opera. In primo luogo costruendo altri uffici e ministeri (decisione 3), poi inaugurando il sistema Roma-Civitavecchia basato su un «district park» di 80 ettari, di un aeroporto cargo e il potenziamento del sistema porto-interporto (decisione 20) e di pontili turistici (68). È del tutto evidente che se passassero queste previsioni sarebbe inevitabile mettere mano al passante autostradale tirrenico dentro la città. Anche perché nella parte sud di Roma, a Castel Romano, sta per partire la realizzazione di un polo dello spettacolo che occuperà altri 50 ettari di campagna romana.

Ma è sul fronte ambientale che vengono i maggiori rischi. Dopo aver denunciato ciò che tutti vedono, e cioè l'erosione del litorale romano, viene trovata una soluzione peggiore del male. Si afferma che «una corona di isole artificiali può fissare definitivamente una nuova linea costiera e la delimitazione di tutta l'area potrebbe essere recuperata per funzioni naturalistiche, didattiche e turistiche di qualità» (decisione 7). Tutti gli esperti del settore dicono che è stata la disinvolta costruzione del porto turistico di Ostia nel 2000 (in deroga del prg) ad aver aggravato i fenomeni erosivi. Ma per gli insensati cantori dello sviluppo senza limiti la soluzione è aumentare la dose del male: costruire addirittura isole artificiali.

Ma forse l'idea delle isole artificiali risolverebbe almeno qualche questione aperta. Proponiamo pertanto che ne siano realizzate cinque. La prima ospiterà il mausoleo di Elvis che verrà trafugato da Memphis: milioni di turisti in più. La seconda un gigantesco albergo con pista artificiale per lo sci di fondo, altri turisti. La terza la nuova sede del Cnel, compresa una lussuosa suite per il presidente Marzano. La quarta un meraviglioso luogo per le feste di compleanno delle adolescenti così da permettere al papi di tutti noi di non dovere andare a Casoria, risparmiando così tempo da dedicare al paese. La quinta infine la nuova sede del Bagaglino.

Sullo stesso argomento vedi anche l'articolo di Antonello Sotgia

Un disastro. La sentenza del Tar del Lazio che annulla la procedura di approvazione del Piano regolatore di Roma del 2008 avrà effetti devastanti su una città già provata dal sacco urbanistico degli ultimi dieci anni.

Chiediamoci in primo luogo come sia potuto accadere. E’ avvenuto che l’allora sindaco Veltroni doveva dimettersi anticipatamente per poter avere il diritto a partecipare alla sfida elettorale nazionale contro Silvio Berlusconi. Così quello stesso piano regolatore che è stato condotto con passo di lumaca (oltre 10 anni di elaborazione!) doveva essere approvato in pochi giorni per poter vendere propagandisticamente l’evento. Le date fanno impressione. Il 6 febbraio 2008 si chiude la conferenza istituzionale tra Comune e Regione che approva il piano. Due giorni dopo la Giunta regionale del Lazio ratifica quello stesso accordo. Il 12 febbraio il Consiglio comunale di Roma lo ratifica a sua volta. Il 13 e 14 aprile si sarebbe votato per il primo turno delle elezioni comunali.

Fosse sempre questa l’efficienza della macchina amministrativa pubblica, non avremmo rivali in tutta Europa. Ma questa accelerazione insostenibile ha trascurato un passaggio essenziale. Afferma il Tar che essendo state in quella prima sede apportate alcune variazioni, esse dovevano essere rese pubbliche alla cittadinanza. Avremo tempo per leggere la sentenza e comprenderla fino in fondo. I dati che abbiamo sono però già sufficienti per affermare che la “gioiosa macchina del piano” del cosiddetto “modello Roma” faceva acqua da tutte le parti.

La sentenza dovrà essere letta attentamente anche per un altro ben più importante motivo: comprendere come si potrà ripristinare un sistema di regole in grado di scongiurare il far west urbanistico che si annuncia. Le dichiarazioni di alcuni esponenti del centrodestra lasciano presagire un futuro pericolosissimo. Manifestano una incontenibile soddisfazione per poter rimettere le mani sulla redazione di un nuovo piano regolatore: la diffusione della rendita fondiaria è un ottimo strumento per avere consenso. E, del resto, era questo l’intento del bando Alemanno per realizzare case popolari in campagna: riaprire l’eterno gioco della speculazione. Se ciò avvenisse sarebbe il colpo di grazia per questa sventurata città in cui sono stati approvati e realizzati un centinaio di “accordi di programma” in variante di quello stesso piano regolatore che si stava costruendo.

I principi del foro e del mattone non hanno impugnato nessuno di questi scellerati atti di urbanistica contrattata: facevano diventare edificabili terreni prima agricoli, musica per le loro orecchie. In questi casi solo i comitati di cittadini, come nel caso paradigmatico di Colle della Strega, hanno cercato di difendere la legalità e il diritto ad una città umana. Appena l’urbanistica ha tentato di mettere un argine al cemento, come nel caso della Bodicea property services, i legulei hanno tirato fuori le unghie. L’obiettivo era quello di distruggere la credibilità delle pubbliche amministrazioni a governare il proprio territorio.

Ma ora la città che in questi anni si è opposta all’urbanistica liberista romana deve farsi carico del disastro. Le regole approvate non esistono più e si torna al vecchio piano regolatore. Per fortuna che su comprensori come Tormarancia erano posti in essere vincoli paesistici che la sentenza del Tar non scalfisce. Se non ci fossero stati, sarebbero tornate in vigore le enormi previsioni edificatorie contenute in quel piano. Ma se Tormarancia è salva, la città è senza difese e dovremo impegnarci a chiedere un atto urgente che ripristini la legalità.

Ma abbiamo davanti un panorama devastante. Il primo viene dal quadro nazionale. L’aumento generalizzato delle cubature degli edifici esistenti (anche di quelli dei centri storici o vincolati, come afferma il disegno di legge anticipato dalla regione Veneto) voluto da Berlusconi, rischia di dare un colpo di grazia alla bellezza delle città storiche e di quel che resta del paesaggio agricolo. A seguire c’è il rischio dell’approvazione della famigerata legge Lupi.

Il secondo viene dalla povertà culturale della giunta Alemanno. Per dare lustro alla più bella città del mondo si vogliono cementificare trecento ettari di aree agricole per realizzare il “parco a tema della Roma imperiale”. La crisi internazionale si fa quotidianamente più grave, tutti i paesi si interrogano sul futuro possibile e la risposta è un circo da strapaese.

La sfida per la cultura progressista è questa. Dobbiamo avere capacità e forza per imporre un modello di città che abbandoni il cemento e metta al primo posto la vivibilità delle periferie. Trasporti efficienti e non inquinanti. Case popolari vere da costruire dove c’è la città senza consumare altra campagna. Scuole sicure e moderne. E’ questo lo scontro cui ci chiama la sentenza del Tar.

Nei giorni di Natale Roma era tappezzata da manifesti del Pdl che vantavano una drastica diminuzione dei reati. Qualche giorno fa un altro annunciava trionfante «tolleranza zero» verso gli immigrati. Parole vuote, a giudicare dall'ennesimo dolorosissimo caso di violenza sessuale contro un'adolescente. Eppure sono parole che incutono spavento, perché mancando una cultura alternativa, Alemanno e il governo nazionale daranno sfogo alla frustrazione dei loro fallimenti incrementando intolleranza e sentimenti razzisti. Siamo costretti a difendere i pochi spazi di ragionevolezza contro un imbarbarimento fatto di castrazioni chimiche, di "cattiveria" e di ronde. Basterebbe invece analizzare le motivazioni di potere che hanno alimentato il clima di paura.

Per ripristinare la "sicurezza", Alemanno ha messo in atto tre provvedimenti. Il primo è stato quello di vietare l'ingresso al centro storico di immigrati con i borsoni. Un provvedimento miope, teso a colpire non già l'illegalità del commercio di griffe contraffatte ma soltanto a scongiurare che quelle vendite avvenissero nel "salotto buono". Così i venditori si sono spostati in periferia. Il centro è diventato un modello di convivenza? Le cronache testimoniano un degrado crescente: vicoli e strade sono vuote di merci ma piene di bottiglie rotte delle interminabili notti di baldoria. In compenso la potentissima categoria dei commercianti del centro è stata accontentata.

Il secondo provvedimento è quello della rabbiosa opera di demolizione delle baracche e dei ricoveri di fortuna che sorgono in ogni luogo della città. La crescita urbanistica di Roma è la più anarchica del mondo occidentale e questi luoghi abbandonati sono infiniti. Lotti inedificati, aree verdi mai realizzate o in stato di abbandono. E così via. La cecità di questa politica sta nell'assenza di qualsiasi forma di assistenza alloggiativa. Si demolisce e basta. Così le baracche vengono ricostruite a qualche centinaio di metri di distanza o anche sugli stessi posti di prima. Il degrado si diffonde a macchia d'olio e non saranno le demolizioni a fermare la disperazione. Ma, anche qui, il dovere è compiuto: un regalo ai fedeli costruttori romani prevedendo una gigantesca espansione nell'agro romano. Invece di risanare l'esistente completando tutti i luoghi incompiuti, ci si espande, così da creare tanti altri luoghi adatti per le baraccopoli. La lobby del mattone è accontentata.

Il terzo provvedimento è simbolico e terribile al tempo stesso: restituire le armi ai vigili urbani dopo che ne erano stati privati oltre vent'anni fa dal clima culturale allora egemone. Un pensiero alto sulle città costruito da sindaci come Argan o Novelli a Torino, da grandi urbanisti come Salzano a Venezia, da intellettuali come Piero Della Seta e Maria Michetti. Quel pensiero complesso è stato buttato alle ortiche per abbracciare una visione economicistica delle città. Le persone sono scomparse: sono rimasti solo affarismo e cinismo. Non è per questo che Renato Soru è stato sconfitto in Sardegna?

E si stenta ancora, nonostante il crollo mondiale del neoliberismo, a fare i conti con la stagione della deriva culturale. In questi giorni a Roma è stato dato il via allo svolgimento di una gara del campionato mondiale di Formula 1. Non stupisce che il centro destra creda ancora nelle sorti del neoliberismo. Stupisce il silenzio della sinistra. Manca dunque una convincente cultura urbana fatta di tolleranza e inclusione. Un grave limite che non permette di riacquistare consenso e fiducia in un elettorato disorientato. E finché non saranno stati fatti i conti con l'acritica accettazione della concezione urbana liberista, dovremo rassegnarci al trionfo della paura, dell'intolleranza e del razzismo.

"Il personale della soprintendenza per i beni archeologici di Ostia Antica si riconosce e fa proprio il comunicato della soprintendenza archeologica di Roma...". L'opposizione al decreto voluto dal ministro Bondi, che mette sotto tutela l'insieme dei funzionari delle sovrintendenze archeologiche di Roma, si è allargata dunque anche agli scavi di Ostia Antica. "La nostra area - scrivono gli archeologi di Ostia - , come può constatare qualsiasi visitatore, non si trova in situazioni oggettive di degrado e di emergenza tali da giustificare il ricorso a poteri straordinari (anche di protezione civile)". "Il preannunciato provvedimento - prosegue il comunicato - che, giova ricordarlo, ha per oggetto le aree archeologiche più prestigiose e considerate a più alto "reddito" della nostra regione, mortifica, inoltre, la professionalità di tutto il personale di Ostia e svuota, di fatto, di contenuti l'attività della soprintendenza impegnata da sempre sui due aspetti fondamentali ed inscindibili del proprio lavoro: la tutela dei beni e la valorizzazione della aree archeologiche e dei monumenti di competenza. Ci uniamo, dunque, all'appello dei colleghi della soprintendenza archeologica di Roma affinché chi condivide le nostre opinioni, dal singolo cittadino sino ai rappresentanti istituzionali, faccia sentire la propria voce a difesa del patrimonio comune".

Venerdì alla Sapienza, nell'aula di archeologia di Lettere, anche gli studenti dell'ateneo hanno deciso di promuovere un incontro alle 17, a cui è stato invitato il Comitato 2 febbraio.

Stando agli accenti accesi, vera novità per il mondo ovattato dell'archeologia, si annunciano momenti aspri di di confronto. "Abbiamo lavorato per anni alla salvaguardia dei beni, non possiamo finire in un cantuccio per il capriccio di un governo", ha detto ieri un insigne archeologo. Tra le contromisure presa in considerazione anche una prossima chiusura dei monumenti della città.

Per firmare l’appello contro il commissariamento

Quando giovedì scorso la riunione del Comitato di presidenza dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori, si è trasformata in un "j’accuse collettivo" contro le inadempienze del governo sul fronte delle infrastrutture, la voce dei romani non si è praticamente sentita. C’erano già i nordici (lombardo-veneti in testa) che attaccavano i ministri Tremonti, Matteoli e anche Sacconi. Ma non è un caso che i romani abbiano scelto un profilo basso e tendenzialmente silenzioso. Nelle ultime settimane, infatti, tra il sindaco Gianni Alemanno e i costruttori capitolini si è ricominciato a tessere la tela del dialogo. Ma soprattutto quella degli interessi. Gli screzi scoppiati subito dopo la bocciatura del parcheggio del Pincio sono rapidamente rientrati. Il neo presidente dell’Acer, Eugenio Batelli, ha incontrato più d’una volta Alemanno. Il "piano casa" (20-30 mila nuovi alloggi), accompagnato dalle varianti al piano regolatore, arriverà e il sindaco - a scanso di equivoci – l’ha detto chiaro: "Il Campidoglio intende valorizzare i medi e piccoli imprenditori, non i grandi". Insomma è alla massa critica dei costruttori romani che guarda Alemanno, quella che ha visto crollare ben oltre la media nazionale del 30 per cento la propria attività, che stenta a ottenere finanziamenti dalle banche, e che, infine, non è più in condizione di assumere.

Una ragione per non farsi notare troppo nelle critiche al governo, sta anche nel fatto che alla Capitale (e solo alla Capitale) è stata concessa una deroga biennale - che ha fatto infuriare i sindaci del nord - per il rispetto dei vincoli del patto di stabilità interno. Lo "sforamento" libererà risorse che i costruttori immaginano destinate alle opere pubbliche, grandi e piccole. Infine c’è la "commissione Marzano" che farà arrivare a marzo la sua ricetta per la Roma del futuro: nelle bozze ci sono già due proposte pro-costruttori. Prima: destinare al social housing le piccole aree pubbliche (fino a 10 mila mq) inutilizzate e spesso trasformate in discariche abusive. Seconda: prestiti a tasso zero da parte del Comune alle imprese che costruiscono in social housing. Insomma, meglio non protestare.

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