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Indire a Roma le primarie per il candidato sindaco sarebbe per il PD un grave errore, dopo aver calpestato le scelte dei cittadini e aver cacciato il sindaco eletto a grande maggioranze con il pesante atto di prevaricazione compiuto nei confronti del consiglio comunale. La Repubblica, 22 gennaio 2016

Caro Direttore, le primarie sono uno straordinario strumento di partecipazione e di democrazia. Io stesso vi ho preso parte per ben due volte: nel 2009 contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, per la carica di segretario del Pd, e nel 2013, quando venni scelto come candidato sindaco di Roma, staccando di quasi 30 punti David Sassoli e di 40 Paolo Gentiloni. A quelle consultazioni, avvenute meno di tre anni fa, parteciparono più di 100 mila romani, che mi scelsero con oltre il 55% dei voti. Immediatamente dopo mi dimisi da senatore per correre senza alcun paracadute.

Ma le primarie hanno un senso a patto che chi le propone e chi vi partecipa ne rispetti il valore e poi l’esito. Se si calpesta la scelta dei cittadini, com’è successo a Roma, si svuota il significato stesso di quelle consultazioni. Per questo ho trovato sconcertante la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di indire nonostante tutto le primarie per la candidatura a sindaco di Roma. Mi chiedo come possa Renzi non vedere il danno arrecato al Pd e all’istituto stesso delle primarie dalle sue decisioni e pensare di andare avanti come se niente fosse. Non capisco come ritenga credibile chiedere alle elettrici e agli elettori romani di sacrificare una domenica mattina, mettersi in coda, versare i due euro e indicare il nome del proprio candidato sindaco, dopo che egli ha eliminato con un atto di forza chi quelle primarie aveva vinto l’ultima volta.

Il Presidente del Consiglio non si rende conto che con la sua interferenza sull’Amministrazione cittadina, interferenza che in altri casi egli stesso ha definito inaccettabile perché “il sindaco lo eleggono i cittadini”, ha reso le primarie, almeno a Roma, un rottame inutilizzabile. Convocando gli assessori della Giunta nella sede del Partito Democratico per imporgli di dimettersi e costringendo tutti i consiglieri comunali del Partito Democratico ad allearsi con la destra e a rimettere in blocco il mandato da un notaio, con il solo scopo di provocare la caduta del sindaco, Renzi e chi lo rappresenta a Roma hanno violato l’etica di una sana politica e il rapporto di fiducia fra il Pd e i suoi sostenitori, che il 7 aprile 2013 affidarono a me l’onore di candidarmi alle elezioni che poi vinsi con il 64% dei voti.

Rotto quel patto, le primarie non hanno più alcun valore, perché il loro esito può essere capovolto per ordine del vertice del partito. Dirò di più: il Pd a Roma non dovrebbe nemmeno partecipare con il proprio simbolo alle elezioni amministrative del 2016. Troppo lacerante è stata l’eliminazione del sindaco scelto dagli elettori, troppo contraddittori i comportamenti e le dichiarazioni dei vertici del Pd, troppo pretestuose e in malafede le giustificazioni. Troppo evidente l’inganno perpetrato ai danni delle cittadine e dei cittadini di Roma, troppo lampanti i benefici delle lobby e dei potentati. Eliminando il sindaco, i consiglieri del Pd hanno eseguito un ordine del capo, e forse qualcuno ne beneficerà personalmente, ma hanno destinato il Pd alla dannazione politica.

Almeno a Roma, almeno per questa tornata elettorale, oggi il Pd è ormai diventato il problema e non la soluzione. Non a caso, si susseguono in questi giorni indiscrezioni su candidati del Partito Democratico alle primarie romane. Molte persone si sono rifiutate. Il vicepresidente della Camera dei Deputati, con le spalle coperte dal suo ruolo di garanzia istituzionale, ha alla fine ceduto ed ha dato, seppur malvolentieri, la propria disponibilità. Ma non lascerà il suo incarico parlamentare, a riprova che non ci crede nemmeno lui fino in fondo, perché è facile candidarsi quando si ha un paracadute d’oro sulle spalle.

Non sorprende tuttavia che nessun esponente di spicco del Pd abbia finora accettato la sfida. Candidarsi per ordine di Renzi significherebbe accettare una logica secondo cui, in caso di vittoria, a governare Roma sarà il capo del partito e del governo, mentre il sindaco sarà ridotto a una sorta di commissario esecutore.

Con la sua sciagurata gestione, la credibilità del Pd romano ha subito e inferto un grave danno: la pretesa di giocare un ruolo da protagonista in questa fase non è oggettivamente credibile.
Ma il partito ha ancora margini per dare un contributo, se avrà il coraggio e l’onestà di ammettere il grave abuso commesso e di compiere un gesto di serietà, umiltà e di lungimiranza. Solo così potrà aiutare le forze civiche di Roma a trovare la motivazione necessaria per dire no all’avanzata del Movimento 5 Stelle che si propone come raccoglitore del malcontento e della protesta, ma che appare privo, almeno per ora, di un candidato.

Per concludere, caro Direttore, molti in queste settimane mi hanno chiesto cosa farò io. Posso solo dire cosa non farò, e cioè: non parteciperò alle primarie del Partito Democratico.

«Campidoglio. Fassina: se c'è il senatore pronto a ritirarmi. Ma a casa dem è scontro ruvido. Il commissario: chi vuole si presenti alle primarie» Nel PD non sono tutti uguali: chissà perchè resistono. Il manifesto, 17 gennaio 2016

Non c’è pace nel Partito democratico romano, neanche ora che il vicepresidente della camera Roberto Giachetti ha accettato di correre alle primarie come candidato con il crisma di Matteo Renzi. Ora al Pd serve almeno un altro nome per dare una parvenza di competizione ai gazebo. Un altro nome capace di tenere dentro gli antirenziani e gli scontenti. Ma un altro nome stenta a saltare fuori, soprattutto dopo che il presidente della regione Nicola Zingaretti ha ’endorsato’ Giachetti, con una rapidità sorprendente: deludendo le speranze di tutti quelli che guardavano a lui come sostenitore di un nome della minoranza.

Ieri Walter Tocci, invocatissimo senatore dissenziente ed ex assessore a Roma, da tempo candidato del cuore di una parte della sinistra capitolina ben oltre il Pd, sul suo blog ha rilanciato la proposta di «una lista civica di centrosinistra», mettendo «da parte il simbolo di partito», «non una rinuncia, ma un investimento per la riscossa». Per Tocci in questi giorni «si ripete il vecchio copione. Il Pd romano si ripresenta alle elezioni senza un programma credibile. Affida alle primarie il compito improprio di sciogliere i nodi politici. Seleziona i candidati nel recinto di partito, sempre più angusto. Sono gli stessi errori del 2013. È sconcertante ripeterli oggi». Tocci chiede un congresso prima del voto e giudica esaurita la funzione del commissario del Pd romano Matteo Orfini. «Sarebbe il momento di tentare soluzioni nuove, di immaginare scenari inediti, di alzare lo sguardo intorno a noi. Ci vorrebbero umiltà e coraggio».

Ma il senatore chiarisce una volta per tutte che non si candiderà: «La mia candidatura non è mai esistita, è un’invenzione del chiacchiericcio politico-giornalistico». La sua proposta piacerebbe a sinistra, innanzitutto a chi non si rassegna alla morte del centrosinistra. Piace persino a Stefano Fassina che da sempre, pur bocciando in blocco il Pd romano, fa un’eccezione per il compagno di tante battaglie. Fassina, che per oggi ha organizzato un incontro in ogni municipio della capitale, in questi giorni ha dovuto difendersi dall’accusa di voler rompere la coalizione ’a prescindere’. Ieri, con un tweet, ha mostrato di aprire uno spiraglio: «Se il Pd Roma raccogliesse la proposta di Tocci per lista civica di centrosinistra, pronto a ridiscutere tutto».

Ma la schiarita è durata poco, appunto, lo spazio di un tweet. Al quale a stretto giro il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha risposto con un no secco alla lista civica. «Il Pd è orgoglioso del suo simbolo. Soprattutto a Roma dove dopo un anno di rigenerazione c’è un Pd diverso da quello che non si accorgeva di mafia capitale. Con quel simbolo ci presenteremo alle elezioni». La decisione è presa, l’aveva anticipata anche il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Le primarie saranno il luogo delle scelte che, come sempre, spetteranno ai nostri elettori e non ai caminetti. Se qualcuno vuole misurare opzioni e proposte differenti si candidi alle primarie e si confronti con loro», chiude il commissario. Che con l’occasione, per ribadire il concetto non solo a Tocci ma anche a Sinistra italiana, ingaggia un ruvido scambio di tweet con Vendola e i suoi che dall’assemblea di Sel lo accusano di aver rotto il centrosinistra: «Dunque caro @NichiVendola, tu puoi scegliere nel chiuso di una stanza un candidato, mentre uno che si candida alle primarie divide?». La rispostaccia arriva dal giovane Marco Furfaro: «Parlò quello che nel chiuso di una stanza decise di dimissionare dal notaio il sindaco eletto dai cittadini romani».

«Questione romana. Defenestrazione dall’alto di un sindaco inviso al potere. Marino, ostacolo democraticamente rappresentativo, viene sostituito con la figura del commissario. E il Vaticano scarica sulla città la sua forza. Senza misericordia». Il manifesto, 3 novembre 2015

Adesso basta. Roma ha più del dop­pio degli abi­tanti di Milano (2.869.169 con­tro 1.342.385). Quanto ad esten­sione, il con­fronto non è nean­che pen­sa­bile (1.287,36 kmq con­tro 181,67; se si parla delle due città metro­po­li­tane, il diva­rio si allarga a dismi­sura: 5.363,28 kmq, con­tro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quar­tic­ciolo e arriva a Porta San Gio­vanni: non entra nean­che nella por­zione sto­rica e monu­men­tale della Capi­tale. Non si capi­sce quale senso abbia la vana chiac­chiera di tra­sfe­rire il modello dell’una (se c’è) sull’altra.

Natu­ral­mente, si può gover­nare bene una città di medie dimen­sioni (come Milano) e male una metro­poli (come Roma), come anche vice­versa. Le dimen­sioni e i rap­porti, però, sono incom­men­su­ra­bili. Roma è al quarto posto fra le grandi città euro­pee, dopo Lon­dra, Ber­lino e Madrid, non a caso tutte capi­tali dei rispet­tivi Stati. Milano si col­loca nel campo delle città di medie dimen­sioni (al tre­di­ce­simo posto al livello euro­peo, credo). Se si deve ipo­tiz­zare un rap­porto a livello mon­diale, l’unica città ita­liana degna d’esser presa in con­si­de­ra­zione è Roma (per que­sti, e soprat­tutto per altri motivi, sui quali tor­nerò più avanti).

Milano “capi­tale morale”? Qual­che anno fa apparve un bel libro, Il mito della capi­tale morale, forse recen­te­mente ristam­pato, di Gio­vanna Rosa (non ci sono paren­tele, nean­che a metà, fra me e l’autrice): libro che nes­suno cita, e nes­suno mostra di aver letto. Il “mito”, appunto: non “la capi­tale morale”. Un lungo per­corso dal Risor­gi­mento a oggi, fatto di fatti, illu­sioni e disil­lu­sioni, cadute e riprese, riprese e cadute.

Del resto, se pren­des­simo alla let­tera per Milano la defi­ni­zione di “capi­tale morale”, dovremmo chie­derci sul piano sto­rico come sia stato pos­si­bile che da sif­fatta realtà politico-urbanistico-civile siano pre­ci­pi­tate sull’Italia le due scia­gure politico-istituzionali ed etico-politiche più ter­ri­fi­canti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mus­so­lini e Sil­vio Ber­lu­sconi. Che Torino, culla della nostra unità nazio­nale, per que­sto e per altri motivi, sia più degna di tale definizione?

Su Roma, la Capi­tale, l’unica città ita­liana in grado di entrare in una com­pe­ti­zione e clas­si­fi­ca­zione inter­na­zio­nale, sono pre­ci­pi­tate nel tempo tutte le con­trad­di­zioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o inca­pace) que­sto disgra­ziato paese, — l’Italia.

Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Pre­si­denza della Repub­blica, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, il Senato, la Camera dei Depu­tati, i Mini­steri, gli orga­ni­smi diri­genti della Magi­stra­tura, della scuola, dell’Università, dei corpi sepa­rati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovvia­mente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orien­tati a difen­dere inte­ressi che con Roma non ave­vano niente a che fare.

Roma, per quanto mi con­cerne, è se mai vit­tima, non carnefice.

Quando ha preso demo­cra­ti­ca­mente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Ale­manno ha dato il peg­gio di sé, sul piano etico, civile e ammi­ni­stra­tivo. Anche que­sto oggi è ampia­mente e visto­sa­mente dimen­ti­cato e accan­to­nato, per non inter­fe­rire nean­che men­tal­mente con le pro­ce­dure di ese­cu­zione som­ma­ria dell’ultimo Sindaco.

A Roma, poi (anche que­sto avete dimen­ti­cato?), c’è il Vati­cano. Il Vati­cano è al tempo stesso una grande potenza reli­giosa e una grande potenza tem­po­rale, ter­rena. E, — lo dico con asso­luta per­sua­sione, — non può essere che così. Non può essere che così, nes­suno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impe­dirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getse­mani e poi sulla croce).

La pro­cla­ma­zione del pre­sente Giu­bi­leo ne è la più vicina e lam­pante testimonianza.

Esprimo il mio stu­pore: non c’è com­men­ta­tore di qual­che por­tata che si sia sof­fer­mato come meri­tava su que­sto pas­sag­gio. Un bel giorno Papa Fran­ce­sco pro­clama un Giu­bi­leo straor­di­na­rio della Mise­ri­cor­dia. E’ l’ultima maz­zata: trenta milioni di pel­le­grini e migliaia di ceri­mo­nie nella Capi­tale, molto immo­rale forse, ma di certo molto, molto stra­paz­zata. Sic­come è impro­ba­bile che il Giu­bi­leo si svolga den­tro le mura dello Stato Vati­cano, che del resto non acco­glie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intiera ne sarà travolta.

Ci sono state con­sul­ta­zioni pre­ven­tive in pro­po­sito? Qual­cuno, al di qua del Tevere, ha rispo­sto che andava tutto bene? Impro­ba­bile. Dun­que, il Vati­cano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già acca­duto altre volte nella sto­ria, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti ine­vi­ta­bil­mente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un mes­sag­gio universalistico-religioso di tale por­tata? Ma il mes­sag­gio universalistico-religioso si tra­sforma rapi­da­mente in una serie di Ukase politico-temporali sem­pre più assil­lanti e per­sino da un certo momento in poi anche vio­lenti: avete chiuso le buche? Avete rat­top­pato le metro­po­li­tane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garan­tire il ristoro? E la sicu­rezza, la sicu­rezza, come va?

Il grande evento di Mise­ri­cor­dia vale dun­que per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cit­ta­dini, né per i suoi ammi­ni­stra­tori, che infatti, in tutte le occa­sioni pos­si­bili, sono trat­tati a pesci in fac­cia, coo­pe­rando ine­vi­ta­bil­mente (e diciamo con­sa­pe­vol­mente) alla distru­zione della loro cre­di­bi­lità e del loro prestigio.

A Roma non ci sono gli “anti­corpi”? Sì, que­sto è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse set­ti­mane, e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni, si è con­su­mata la più impo­nente e capil­lare distru­zione di anti­corpi che si sia mai vista in Ita­lia dalla Libe­ra­zione a oggi.

Anche qui esprimo il mio stu­pore: osser­va­tori, avete colto dav­vero quel che è acca­duto a Roma nelle scorse set­ti­mane e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni? Il giu­di­zio sul com­por­ta­mento e le atti­tu­dini diri­gen­ziali del sin­daco Marino, — un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, da un certo momento in poi anche uno poco cor­retto, — non ha niente a che fare con lo svol­gi­mento e la con­clu­sione della faccenda.

Se si doves­sero rimuo­vere dai loro inca­ri­chi Sin­daci, Pre­si­denti delle Regioni, Mini­stri, Diret­tori Gene­rali, Ret­tori, ecc. ecc., — per­ché “mar­ziani”, inetti, inca­paci, sup­po­nenti, poco cor­retti, ecc. ecc, — assi­ste­remmo in poco tempo al crollo ver­ti­cale dell’intera mac­china politico-istituzionale ita­liana (sarebbe comun­que affare della magi­stra­tura, come tal­volta già accade, non dei politici).

Quel che invece è acca­duto a Roma è la defe­ne­stra­zione dall’alto, — per vie poli­ti­che, non legali, intendo, — di un uomo poli­tico che non era in grado (e pro­ba­bil­mente non voleva) garan­tire le attese dei prin­ci­pali poteri inte­res­sati alla vicenda: la nuova forma della poli­tica oggi domi­nante in Ita­lia, il Vati­cano, i poteri eco­no­mici all’arrembaggio della nuova torta.

Il risul­tato di tutta la vicenda è che esi­ste oggi in Ita­lia un Potere Supremo il quale è in grado di sba­raz­zarsi di qual­siasi osta­colo demo­cra­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivo, sosti­tuen­dolo con la figura fin qui ano­mala ed ecce­zio­nale del Com­mis­sa­rio, il quale ovvia­mente è, e non potrebbe non essere, un dele­gato al ser­vi­zio di quel mede­simo Potere Supe­riore. Il quale, essendo anch’esso non deter­mi­nato dal voto popo­lare ma, diciamo, da una sorta di auto­com­mis­sa­ria­mento del mede­simo (com’è noto, il nostro Pre­si­dente del Con­si­glio non ha goduto di tale inve­sti­tura), tende a ripro­dursi per gemi­na­zione secondo le mede­sime modalità.

Roma, se è e resta la Capi­tale d’Italia, la quarta città euro­pea, una delle più impor­tanti del mondo, dal punto di vista del patri­mo­nio arti­stico e cul­tu­rale è senza ombra di dub­bio la prima.

Que­sto suscita da un bel po’ di tempo una cor­rente d’invidia e di gelo­sia, nazio­nale e inter­na­zio­nale, da far spa­vento. Essa si col­lega, e stret­ta­mente si con­giunge, al pro­getto dell’attuale potere poli­tico ita­liano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria.

A Roma, più che in qual­siasi altra città ita­liana, abbiamo a che fare con una massa di potere inim­ma­gi­na­bile altrove: Vati­cano, poteri eco­no­mici forti, potere poli­tico di tipo nuovo, incline al com­mis­sa­ria­mento della Nazione ovun­que sia pos­si­bile e a suo avviso neces­sa­rio, pro­ce­dono affian­cati, e nella mede­sima dire­zione (non c’è biso­gno di pen­sare a incon­tri segreti a Via dei Peni­ten­zieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vec­chio a Firenze: basta pen­sarla nello stesso modo).

Ce la faranno Roma, e i romani, a rove­sciare que­sta mostruosa ten­denza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diven­tare un’astrazione, sono delusi, con­fusi, smar­riti. Come volete che siano? Ave­vano votato trion­fal­mente per Marino esat­ta­mente per dare una svol­tata alla sto­ria. Ora forze potenti della poli­tica e dell’informazione si affan­nano quo­ti­dia­na­mente a spie­gar loro che Marino era sem­pli­ce­mente un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, uno poco cor­retto, ecc. ecc., e a spie­gar­glielo sono esat­ta­mente innan­zi­tutto quelli del suo pro­prio par­tito, quelli che ave­vano chie­sto loro di votarlo (nean­che uno dei con­si­glieri comu­nali “dem” che abbia resi­stito alla sferza del capo, che vergogna!).

Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rab­bia cupa e vio­lenta, con­tro tutti quelli che hanno real­mente com­bi­nato tutto que­sto, il Potere Supe­riore e i suoi mol­te­plici alleati.

La Capi­tale immo­rale giace così sotto il peso degli errori com­messi, quelli suoi, certo, ma soprat­tutto, soprat­tutto quelli degli altri.

Come ultimo schiaffo viene inviato a gover­narla un Pre­fetto dal nome beneau­gu­rante di Tronca. All’Expo, — per sue dichia­ra­zioni, — si è occu­pato dell’ordine pub­blico; in pre­ce­denza, dei Vigili del fuoco. Com­pe­tenze, que­ste, indu­bi­ta­bil­mente ade­guate a gover­nare la metro­poli Roma, le sue con­trad­di­zioni e lace­ra­zioni, e a susci­tare in lei i nuovi anti­corpi. Nel frat­tempo il Potere Supe­riore garan­ti­sce che il Giu­bi­leo sarà un suc­cesso come l’Expo.

Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vati­cano sod­di­sfatto annuisce.

Per sot­trarsi a que­sta nefa­sta spi­rale, ed evi­tare altre can­to­nate, ci vorrà un lavoro lungo e in pro­fon­dità, razio­nale, sì, ma anche rab­bioso. Il tempo delle media­zioni è finito, ne comin­cia un altro, meno dispo­ni­bile alle prese in giro. Se ci sono voci dispo­ste a par­lare in que­sto senso, si fac­ciano sen­tire presto.

Le amare riflessioni personali del portavoce di una singolare struttura di collaborazione tra le reti e i gruppi impegnati nella difesa del territorio romano (cartinregola). Il racconto appassionato di un'esperienza di governo terminata troppo presto, e di qualche retroscena interessante.

Come portavoce di Carteinregola – ma quello che sto scrivendo è a titolo personale - ho passato gli ultimi quattro mesi della consiliatura Alemanno in Campidoglio, a fare un presidio contro delibere urbanistiche che, come ho dolorosamente constatato insieme ai miei compagni di avventura, godevano dell’appoggio anche della stragrande maggioranza dell’opposizione del Partito Democratico. Siamo riusciti a fermare tanti progetti – anche una delibera poi finita sotto la lente della magistratura - praticamente da soli. E Giovanni Caudo è stato uno dei pochi che spesso mi ha aiutato a capire quali conseguenze quelle delibere potevano avere sulla città.

Per questo, quando è stato nominato assessore alla Trasformazione Urbana, ho pensato che fosse la volta buona per “cambiare davvero”. Uno slogan da campagna elettorale, che, con la sua nomina, per me diventava una prospettiva concreta per la vita e il futuro dei cittadini di Roma.

Infatti il primo segnale che ha lanciato è stato il coronamento di una delle nostre più grandi battaglie: la cancellazione della cosiddetta “delibera degli ambiti di riserva”, che avrebbe riversato nell’Agro romano una volumetria complessiva di 20 milioni di metri cubi di case, dove sarebbero andati a vivere altri disperati delle “tre ore di vita al giorno per andare e tornare dal posto di lavoro”. Una delibera dell’amministrazione Alemanno che però si inseriva nella pratica delle “eruzioni cementizie lontano da tutto, con enormi costi per il Comune, ampiamente incentivata anche dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni.

E nella frequente continuità tra la politica urbanistica del centrosinistra del “Modello Roma” e del centrodestra di Alemanno, si possono trovare forse le ragioni di un consociativismo che abbiamo percepito chiaramente durante il nostro presidio, e anche di una frequente ostilità tra pezzi del Partito Democratico capitolino e l’Assessore Giovanni Caudo. A rileggere oggi i giornali, fin dai primi mesi dopo il suo insediamento – sto preparando una cronologia ragionata dell’”era Marino” – ritroviamo varie dichiarazioni di esponenti PD che attaccano l’assessore, accusandolo di inerzia per le - a loro dire - poche delibere portate in Aula e insinuando maliziosamente che il suo mestiere di “professore” lo renda poco adatto ad affrontare le necessità pratiche della città. E più volte è stata data per imminente la sua sostituzione.

In realtà il grande difetto del “professore” è stato l’aver preso di petto da subito la situazione, passando al setaccio gli atti ereditati, fermando tanti progetti di dubbio interesse pubblico – come il progetto Water Front di Ostia e pacchi di delibere urbanistiche dell’ex Sindaco Alemanno - e soprattutto avviando – per primo e in beata solitudine – molti provvedimenti che diventeranno d’attualità dopo lo scoppio di Mafia Capitale, a partire dalla riorganizzazione degli uffici e dalla rotazione dei dirigenti, che gli procura una notevole serie di nemici, nell’amministrazione e soprattutto nei partiti.

E l’aria nuova all’urbanistica scatena anche reazioni negative da parte del mondo dell’edilizia, il “motore economico della Capitale”, che lo accusa di dare il colpo di grazia a un settore già falcidiato dalla crisi per i rallentamenti dovuti alla riorganizzazione della macchina amministrativa. Si agita la minaccia ricorrente di una manifestazione contro l’assessore, con tanto di betoniere sotto le sue finestre, che alla fine non si farà mai. E i nuovi schemi di convenzione, quelli a cui il suo staff lavora per mesi, per porre fine a tanti disastri sparpagliati nella città - interi quartieri fatti e finiti senza strade, servizi, persino fognature - dovranno superare una lunga corsa a ostacoli, soprattutto da “fuoco amico”, prima di arrivare all’approvazione.

Ma anche con i comitati cittadini spesso si creano conflitti. Ho seguito molti incontri e assemblee che Caudo ha tenuto nei territori, in parte per conservare il più possibile le tracce del suo lavoro (che ho sempre pensato che potesse essere interrotto da un momento all’altro) ma soprattutto per capire come si poteva favorire il dialogo tra delle istituzioni che cercavano di risolvere i problemi e una cittadinanza diffidente, segnata da anni di promesse non mantenute. E se è possibile che l’assessore non abbia sempre risposto adeguatamente a delle giuste vertenze, o che ci siano stati errori e inefficienze, molto spesso ho avuto l’impressione che la distanza tra un’amministrazione alle prese con una complessità creata da situazioni stratificate da anni, e le enormi aspettative dei cittadini, fosse comunque incolmabile.

Molti comitati speravano che Caudo potesse finalmente “rimettere a posto” tanti torti e deviazioni del passato, compresi quelli che avevano ormai superato il “punto di non ritorno”, e sono rimasti delusi. Altri hanno visto con sospetto qualunque operazione che cercasse di coniugare – sia purevirtuosamente - vantaggi pubblici con finanziamenti privati, auspicando, forse giustamente, che il Comune offrisse ai cittadini spazi e servizi attingendo solo a risorse pubbliche. Altri ancora hanno giudicato il lavoro dell’assessore dall’angusto punto di vista delle loro richieste specifiche. Ma ci sono stati anche molti comitati di quartiere che hanno impostato un dialogo costruttivo che ha dato frutti.

Quello che sicuramente è mancato, da parte della città, è una percezione generale di quanto si stava facendo, e delle centinaia di criticità - in certi casi vere emergenze - che si stavano affrontando. E questo anche per la scarsa informazione dei media, che hanno sempre dedicato pagine e pagine alle buche stradali e al gossip politico e ben poche ai problemi reali dei territori.

Ci sono state anche operazioni che io stessa ho trovato discutibili, come l’aver concesso il “pubblico interesse” al progetto dello Stadio della Roma, avallando la costruzione di tre torri per compensare i costi delle opere pubbliche necessarie. Utilizzando, così, a mio avviso, la stessa pratica della “moneta urbanistica” che proprio Caudo aveva rimproverato a chi l’aveva preceduto, che in questo caso secondo lui è giustificata dalla necessità di cogliere le opportunità offerte ai privati dalla legge nazionale per portare a casa un risultato utile a tutta la città. Il limite di questo ragionamento – che ahimè è stato ancora una volta riesumato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 – potremmo vederlo tra qualche mese, quando nella stanza dei bottoni arriveranno i nuovi responsabili designati dalla prossima maggioranza, che non è detto che interpretino il pubblico interesse e la regia pubblica nello stesso modo dell’assessore Caudo.

E dispiace che l’“operazione Stadio della Roma”, anche per l’incombere simbolico di quelle torri, abbia fatto passare in secondo piano i molti risultati raggiunti, i progetti dannosi cancellati, o quelli nuovi messi in cantiere. Come il progetto, abortito per mancanza di tempo e di fondi – grazie ai ritardi del Governo - del “Giubileo di strada e di piazza” che aveva previsto piazzali, parchi e spazi pubblici, come “lascito duraturo” dell’evento religioso straordinario nelle periferie.

Ma non sono stati raccontati alla città neppure i percorsi tracciati per avviare una riflessione collettiva sul futuro di Roma e dei suoi abitanti. Uno di questi - le conferenze urbanistiche – si è concretizzato in 75 incontri presso i Municipi, a cui hanno partecipato più di 2000 persone, che hanno predisposto 15 carte dei valori municipali. Un tentativo di sollevare lo sguardo oltre i problemi contingenti dei territori e disegnare insieme scenari futuri, che avrebbe dovuto poi sfociare in una conferenza urbanistica della città.

Non so quante delle voci critiche, vedendo come è andata a finire, oggi abbiano qualche ripensamento.

Ma, a giudicare dalla folla che è venuta a salutare Caudo giovedì scorso, partecipando a un’iniziativa un po’ improvvisata negli ex stabilimenti militari del Flaminio, mi sembra che l’assessore, un bel pezzo di città, alla fine l’abbia conquistato. In sala c’erano tanti comitati che venivano da molti quartieri anche lontani, associazioni, i suoi collaboratori insieme a funzionari e dipendenti del dipartimento, rappresentanti dell’Acer (sì, i costruttori, quelli medi e piccoli, che gli volevano portare le betoniere sotto l’assessorato), alcuni assessori con cui ha condiviso fino all’ultimo l’impegno per la città – Estella Marino e Francesca Danese – molti presidenti, assessori e consiglieri dei Municipi, e tantissimi cittadini, architetti, urbanisti, studenti. E il clima era autenticamente commosso, perché chi era lì, lo era solo per testimoniare la sua solidarietà e la sua stima a un uomo che di lì a poco non sarebbe più stato assessore. Un riconoscimento che io penso si meriti fino in fondo.

E al Sindaco Marino, vittima delle trame di tanti potentissimi nemici - senz’altro molti nemici anche di Caudo - ma anche di se stesso, non perdono di non aver abbracciato fino in fondo, e fin dall’inizio, il coraggio del suo assessore.

A tutti gli altri non perdono di aver permesso che la città perdesse Giovanni Caudo. E il pensiero che non sia più nel suo ufficio, a lavorare con il suo staff per cercare con fatica, pazienza e caparbietà, di risolvere qualche insolubile problema, mi fa salire un magone insopportabile.

Anna Maria Bianchi Missaglia è la portavoce del Laboratorio Carteinregola, ma queste riflessioni sono scritte a titolo personale

«Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico, e anzi, tout court, antidemocratico». Il manifesto, 1° novembre 2015, con postilla

Venerdì, a Roma, il pro­getto ren­ziano di mano­mis­sione della nostra demo­cra­zia ha com­piuto un nuovo salto di qua­lità. O, forse meglio, ha rive­lato – nell’ordalia rap­pre­sen­tata sul grande pal­co­sce­nico di Roma capi­tale – la pro­pria natura com­piu­ta­mente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.

Di Igna­zio Marino sin­daco si può pen­sare tutto il male pos­si­bile: molte sue poli­ti­che sono state discu­ti­bili e anti-sociali (in pri­mis la que­stione della casa), alcuni suoi com­por­ta­menti incom­pren­si­bili, la sua inge­nuità (o super­fi­cia­lità) imper­do­na­bile, la sua ina­de­gua­tezza evi­dente. E l’accettazione nella sua squa­dra di uno come Ste­fano Espo­sito insopportabile.

Ma la fero­cia con cui il Pd, su man­dato del suo Capo, ha posto fine alla legi­sla­tura in Cam­pi­do­glio supera e offu­sca tutti gli altri aspetti. Sosti­tuendo all’Aula il Notaio. Al dibat­tito pub­blico la mano­vra di cor­ri­doio e il reclu­ta­mento sub­dolo dei sicari (arte in cui Mat­teo Renzi eccelle, aven­dola già spe­ri­men­tata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).

E col­pendo così non tanto, e comun­que non solo, «quel» Sin­daco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il prin­ci­pio car­dine della Demo­cra­zia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richie­de­rebbe comun­que che la nascita e la caduta degli ese­cu­tivi – nazio­nali e locali – avve­nisse nell’ambito degli isti­tuti rap­pre­sen­ta­tivi costi­tu­zio­nal­mente sta­bi­liti in cui si eser­cita la sovra­nità popo­lare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo tra­spa­rente e moti­vato, la responsabilità.

Così non è stato.

In siste­ma­tica e osten­tata con­ti­nuità con la pra­tica seguita dal governo Renzi in que­sti mesi di legi­sla­zione coatta (a colpi di fidu­cia e di mani­po­la­zione delle Com­mis­sioni) e con la sua riforma costi­tu­zio­nale di stampo burocratico-populistico, la sede della Rap­pre­sen­tanza è stata mar­gi­na­liz­zata e umi­liata. Svuo­tata di ruolo e poteri. Sosti­tuita dalla retta che dal ver­tice dell’Esecutivo — fatto coin­ci­dere con la lea­der­ship del par­tito a voca­zione tota­liz­zante e a con­si­stenza dis­sol­vente – pre­ci­pita, senza intoppi, fino ai piani bassi della cucina quo­ti­diana, dele­gata alle buro­cra­zie guar­diane, reclu­tate al di fuori di ogni vali­da­zione elet­to­rale, in base a cri­teri di fedeltà (o, forse meglio, di asservimento).

Nella sta­gione impe­gna­tiva — per com­piti da svol­gere e affari da sfrut­tare – del Giu­bi­leo la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e «gover­nata» da un dream team (o night­mare team?) non di rap­pre­sen­tanti del popolo ma di fidu­ciari del Capo, chia­mati con logica emer­gen­ziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pub­blico ma dell’efficienza.

Della com­po­si­zione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il pre­fetto ren­ziano Fran­ce­sco Paolo Tronca, fre­sco della Milano di Expo e Marco Ret­ti­ghieri, ex super­ma­na­ger di Ital­ferr, uomo Tav, quello che ha sosti­tuito come diret­tore gene­rale costru­zioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arre­sto per cor­ru­zione e tur­ba­tiva d’asta…

Un bel pezzo della «Milano da man­giare» – del «para­digma Expo» – tra­pian­tata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capi­tale, ma anche — s’intende – del Paese.

Ed è que­sto il secondo anello della cer­chia­tura della botte ren­ziana. O, se si pre­fe­ri­sce, il pas­sag­gio con cui si chiude il cer­chio del muta­mento di para­digma della poli­tica ita­liana: que­sto uti­lizzo del «modello Expo», costruito come esem­pio «di suc­cesso», gene­rato e poi cer­ti­fi­cato dal mer­cato, e (per que­sto) proposto/imposto come forma vin­cente di gover­nance da imi­tare e generalizzare.

L’operazione era stata favo­rita, non so quanto con­sa­pe­vol­mente, dall’infelice ester­na­zione di Raf­faele Can­tone, in cui si con­trap­po­neva Milano come «capi­tale morale» a una Roma «senza anti­corpi»: infe­lice per­ché sem­bra for­te­mente «irri­tuale», per usare un eufe­mi­smo, e comun­que molto inop­por­tuno, che colui che dovrebbe sor­ve­gliare e garan­tire il rispetto della lega­lità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, bea­ti­fi­chi la città che l’ha orga­niz­zato e ospi­tato e, reci­pro­ca­mente, che ne venga bea­ti­fi­cato, pro­prio alla vigi­lia di un periodo in cui la magi­stra­tura dovrebbe essere lasciata asso­lu­ta­mente libera di pro­ce­dere a tutte le pro­prie veri­fi­che e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe ope­rare come mai da ter­tium super par­tes (che suc­ce­derà, per esem­pio, se le inchie­ste in corso su cor­ru­zione, pecu­lato, truffa, ecc. doves­sero con­clu­dersi con ver­detti di col­pe­vo­lezza: la dovremmo chia­mare «Mafia Capi­tale Morale»?).

Ma tant’è: il cli­ché coniato da Can­tone è entrato alla velo­cità della luce a far parte del dispo­si­tivo nar­ra­tivo ren­ziano sulle mera­vi­glie del rina­sci­mento ita­liano. E su come que­sto possa tanto più age­vol­mente e soprat­tutto velo­ce­mente dispie­garsi quanto più si eli­mi­nano gli osta­coli della vec­chia, acci­diosa e fasti­diosa demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (quella, appunto, che pro­duce i Marino), e si adot­tano, in alter­na­tiva, le linee degli exe­cu­tive di turno, magari arruo­lando in squa­dra le stesse «auto­rità indi­pen­denti» che dovreb­bero eser­ci­tare i controlli.

Per­so­nal­mente mi ha tur­bato la quasi con­tem­po­ra­nea dichia­ra­zione di Can­tone sulla pro­pria inten­zione di abban­do­nare l’Associazione nazio­nale magi­strati, rea di aver mosso (caute) cri­ti­che al governo… E anche que­sto è uno scatto – se volete pic­colo, ma inquie­tante – nella chiu­sura della gab­bia che ci sta stringendo.

postilla

Revelli dice, giustamente, che «la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e "gover­nata" non dai rap­pre­sen­tanti del popolo ma da fidu­ciari del Capo». Non è una logica nuova né per il Capo, né per la storia. Il Capo pratica questa logica in tutti i suoi atti che riguardano l'ordinamento dello Stato: dalla scuola agli ospedali, dai ministeri alle istituzioni una volta elettive. Sta realizzando una struttura piramidale, in cui gli occupanti dei posti di comando (dal capo ai capetti ai capettini ai sottocapettini) siano collegati tra loro dall'investitura (dall'alto verso il basso) e dalla fedeltà (dal basso verso l'alto). Si chiama, nei libri di storia, "regime feudale". Questo modello di regime non è di per sé molto solido. Spesso è stato consolidato da un elemento soprannaturale, oggi da due elementi: il ricatto (almeno in Italia) e l'Unione europea, a sua volta sottordinata ai Mercati. Ma l'elemento che garantisce di più la solidità dell'edificio è l'ideologia. Quella dominante ha annullato tutte le atre, e una ideologia differente, ampiamente condivisa, fatica molto a formarsi.

Chissà se una parte consistente di quel 64 per cento che ha votato per lui ha compreso dove sta la causa s della rottamazione di Roma? Sarebbe già un buon risultato. Il manifesto, 21 ottobre 2015
Altro che il dream-team imma­gi­nato dal pre­si­dente del con­si­glio. Se Marino riu­scirà a evi­tare l’avviso di garan­zia, e dopo il lungo col­lo­quio con i magi­strati la pro­cura non avesse motivo di inda­garlo, il sin­daco potrebbe riti­rare le dimis­sioni e rive­larsi un mici­diale boo­me­rang per tutti quelli che gli ave­vano già fatto il funerale.

A comin­ciare da chi è corso in pro­cura a con­se­gnare l’esposto per gli scon­trini, intra­ve­dendo nella clas­sica buc­cia di banana giu­di­zia­ria l’occasione ghiotta di un bel bot­tino elet­to­rale, non essendo riu­sciti a scal­zarlo con le armi pro­prie della poli­tica. Pro­se­guendo con il presidente-segretario che, per inter­po­sti asses­sori, gli ha riti­rato una fidu­cia che non era nella sua dispo­ni­bi­lità dar­gli, dimo­strando, se ancora ce ne fosse biso­gno, di tenere in nes­suna con­si­de­ra­zione il voto dei cit­ta­dini. Fino ai mon­si­gnori che, seguendo l’impri­ma­tur papale, lo ave­vano sco­mu­ni­cato boc­cian­done la sin­da­ca­tura con dichia­ra­zioni roboanti sulle mace­rie romane.

E senza dimen­ti­care gli autori della for­sen­nata cam­pa­gna media­tica che pochi prima di lui ave­vano avuto l’onore di rice­vere, un’offensiva all’insegna del vibrante slo­gan «vogliamo un sin­daco che tappi le buche di Roma». Il ritorno del dimis­sio­na­rio in Cam­pi­do­glio effet­ti­va­mente sarebbe un vero colpo di scena in una trama che sem­brava ormai desti­nata a seguire un copione coe­rente con il trionfo dei ter­re­stri con­tro il marziano.

La pos­si­bi­lità di un ritiro delle dimis­sioni l’ha fatta intra­ve­dere lo stesso Marino nella con­fe­renza stampa con­vo­cata all’indomani del det­ta­gliato reso­conto offerto ai giu­dici sulla sto­ria degli scon­trini («se ho scritto che volevo pren­dere tempo per valu­tare, signi­fica che lo pen­savo e lo penso ancora»). Nell’incontro con i gior­na­li­sti il mar­ziano ha respinto al mit­tente le accuse di aver rubato soldi pub­blici bol­lan­dole come una vio­lenta spe­cu­la­zione delle oppo­si­zioni (Fra­telli d’Italia e 5Stelle) a corto di altri argo­menti. Poi ha con­fer­mato che le sue dimis­sioni sono state moti­vate dal rispetto verso la magi­stra­tura chia­mata ad accer­tare i fatti.

E men­tre la sua ex mag­gio­ranza (Pd e Sel) ora si ritrova tra le mani la patata bol­lente, alle fine­stre di palazzo Chigi potrebbe arri­vare l’eco delle mobi­li­ta­zioni che la rete di soste­gno (“Marino ripen­saci”) minac­cia di repli­care sotto il cavallo di Marco Aurelio.

In fondo Marino era pur sem­pre salito al Cam­pi­do­glio con il 64 per cento dei con­sensi dopo aver vinto le pri­ma­rie del Pd. Per quanto i romani siano abi­tuati alle mil­le­na­rie scor­re­rie del potere, toglierlo di mezzo con un col­petto di palazzo potrebbe averne risve­gliato l’anima irri­ve­rente. I famosi venti giorni di tempo per ripen­sarci sca­dono il 2 di novem­bre. Suf­fi­cienti a sca­te­nare una nuova com­me­dia romana.

«Prima che le sue dimissioni diventino effettive, il 2 novembre prossimo, Ignazio Marino vuole completare il progetto che fu di Petroselli e Cederna. Il sindaco dimissionario lavora alla pedonalizzazione totale della via. Arresti per tangenti a un funzionario comunale». Il manifesto, 15 ottobre 2015, con postilla

«Il pro­getto del Comune sulla pedo­na­liz­za­zione di via dei Fori è un com­pro­messo, ed è molto lon­tano dall’idea del grande parco archeo­lo­gico di Luigi Petro­selli e Anto­nio Cederna». A dirlo non è Igna­zio Marino che pure prima che le sue dimis­sioni diven­tino defi­ni­tive ha deciso di coro­nare il sogno che fu innan­zi­tutto dei comu­ni­sti e degli ambien­ta­li­sti più illu­mi­nati della sto­ria recente della capi­tale. La frase vir­go­let­tata fu pro­nun­ciata nel marzo 1999 dall’urbanista Vezio De Lucia che allora chie­deva più corag­gio alla giunta Rutelli che aveva messo in pro­getto — mai rea­liz­zato — il divieto par­ziale di tran­sito auto­mo­bi­li­stico su via dei Fori Imperiali.

Marino ieri ha acce­le­rato i lavori per rea­liz­zare, con una deli­bera di giunta che non dovrà essere sot­to­po­sta al voto dell’Assemblea capi­to­lina, uno degli obiet­tivi pro­messi fin dalla cam­pa­gna elet­to­rale: la pre­clu­sione totale dei vei­coli, taxi e auto­bus com­presi, dalla strada che attra­versa l’area archeo­lo­gica cen­trale di Roma, con­cen­tran­dosi sull’ostacolo più grande da supe­rare: la rior­ga­niz­za­zione del tra­sporto pub­blico. E lo fa nel giorno in cui scop­pia il caso di cor­ru­zione di un fun­zio­na­rio del comune addetto agli appalti della manu­ten­zione stra­dale della Grande Via­bi­lità romana.

La pro­cura accende così un pic­colo rag­gio di luce sul grande mistero delle buche perenni sulle strade della capi­tale: ieri ha dispo­sto gli arre­sti domi­ci­liari per due impren­di­tori, Luigi Mar­tella e Ales­sio Fer­rari, e un dipen­dente del dipar­ti­mento Svi­luppo infra­strut­ture e manu­ten­zione urbana, Ercole Lalli, accu­sati di cor­ru­zione e tur­bata libertà degli incanti. I due impre­sari, infatti, secondo i cara­bi­nieri che hanno effet­tuato le inda­gini, avreb­bero pagato il 27 set­tem­bre scorso una tan­gente di due mila euro al dipen­dente comu­nale per otte­nere in cam­bio infor­ma­zioni riser­vate sulle imprese con­cor­renti. Mar­tella e Fer­rari, secondo il gip, «desi­de­ra­vano cono­scere anzi­tempo in quale o quali lotti erano state invi­tate» alcune imprese par­ti­co­lar­mente temute, «in modo da pre­sen­tare offerte più aggressive».

Secondo le ordi­nanze, i due impren­di­tori com­men­ta­vano così, in una tele­fo­nata inter­cet­tata, i det­tali otte­nuti da Lalli: «Se noi c’avemo quelli sta­volta so’ morti tutti!». Par­ti­co­lari che avreb­bero potuto aiu­tare le imprese ad aggiu­di­carsi le gare per otto lotti di manu­ten­zione stra­dale dal valore di circa un milione di euro cia­scuna. E già mar­tedì l’Autorità anti­cor­ru­zione pre­sie­duta da Can­tone aveva bloc­cato una gara riguar­dante, que­sta volta, alcuni inter­venti di restauro dei per­corsi giu­bi­lari alla quale ave­vano par­te­ci­pato due società ricon­du­ci­bili a Fer­rari e Mar­tella, gli impren­di­tori arre­stati ieri.

«Li avevo denun­ciati tutti ad aprile. E per oggi li ave­vamo con­vo­cati per esclu­derli dalla gara del Giu­bi­leo», ha rive­lato ieri, subito dopo gli arre­sti, l’assessore alla Lega­lità Alfonso Sabella. Infatti, mal­grado i due impren­di­tori arre­stati ieri aves­sero, secondo l’accusa, creato una sorta di “car­tello” occulto per aggiu­di­carsi gli appalti, l’escamotage non sarebbe sfug­gito al Sistema infor­ma­tico per le pro­ce­dure nego­ziate (Sipro­neg) messo a punto da Sabella e dall’assessore ai Lavori Pub­blici, Mau­ri­zio Pucci, pro­prio per garan­tire la tra­spa­renza e la leale con­cor­renza. «La vicenda odierna è la prova ine­qui­vo­ca­bile che i nuovi sistemi di con­trollo interno di cui si è dotata Roma Capi­tale, per ini­zia­tiva innan­zi­tutto del sin­daco, e la stretta col­la­bo­ra­zione con Anac e con l’autorità giu­di­zia­ria, fun­zio­nano — dichia­rano in una nota con­giunta i due asses­sori — Ave­vamo imme­dia­ta­mente riscon­trato ano­ma­lie nelle offerte della gara degli otto lotti, che è stata sospesa. A Roma non c’è più spa­zio per le vec­chie logi­che spar­ti­to­rie e per ille­cite distor­sioni delle pub­bli­che pro­ce­dure in favore di inte­ressi pri­vati».

Gli inte­ressi però non sono solo pri­vati: a volte ad osta­co­lare lo svi­luppo della città con­cor­rono anche quelli poli­tici. E così, il pro­getto di pedo­na­liz­za­zione totale dei Fori impe­riali che Marino vuole por­tare a ter­mine entro il 2 novem­bre trova freni ancora una volta pro­prio nel Pd. Il capo­gruppo capi­to­lino dem, Fabri­zio Pane­caldo, pur appog­giando l’idea del sin­daco dimis­sio­na­rio gli sug­ge­ri­sce di «coin­vol­gere anche le forze eco­no­mi­che che gra­vi­tano intorno alla via», per tenere buoni i com­mer­cianti che si sono lamen­tati fin dalla prima limi­ta­zione al traf­fico, impo­sta da Marino due mesi dopo la sua ele­zione. Ma è l’assessore ai Tra­sporti voluto da Renzi, Ste­fano Espo­sito, a ten­tare lo stop: «Sarebbe straor­di­na­rio, ma serve un qua­dro pre­ciso di come rior­ga­niz­zare la per­cor­ri­bi­lità col­la­te­rale». Per­ciò sug­ge­ri­sce al sin­daco uscente di far scat­tare l’operazione Fori dal 1 dicem­bre pros­simo, «in modo da dare tempo al com­mis­sa­rio di pen­sare alla que­stione viabilità».

postilla

Il "progetto Fori" promosso da Adriano La Regina, tenacemente sostenuto da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco (rara avis) Luigi Petroselli era ben altro della pedonalizzazione di una strada. Prevedeva, tra l'altro la completa ablazione di quel manufatto mussoliniano. Ma questa è un'altra storia. Per conoscerla sono utili molti articoli raccolti in eddyburg. Per cominciare l'articolo di Vittorio Gregotti del l'ottobre 2013, "Un progetto unitario per i Fori Imperiali", il testo della relazione tenuta da Vezio De Lucia nel giugno 2007, "Cederna e il progetto Fori", l'articolo di De Lucia nell'agosto 2013, all'inizia della sindacatura Marino, "Una prima riflessione sul progetto Fori". Altri articoli li trovate digitando il lemma "progetto fori" nella casella sensibile in cima a ogni pagina del sito.

Una sintesi chiara e convincente del "caso Marino": «Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica». Micromega, 9 ottobre 2015, con postilla

Un caso di banditismo politico unito a uno straordinario esempio di insipienza politica: ecco il “caso Marino”. Sarà da scrivere, con calma e sulla base di informazioni certe, la vicenda a suo modo esemplare di questo chirurgo tentato dalla politica, paracadutato nella capitale, prima come senatore della Repubblica (imposto, chissà perché, in Piemonte), quindi, a mandato in corso, come primo cittadino della capitale. Una parte del PD lo sostenne, contro l’altra parte, quella che stava prendendo però il potere guidato dal disinvolto Matteo, ormai in fase di irresistibile ascesa.

E ben presto costui scopre che Marino è ingovernabile: innanzi tutto non è un renziano, e in secondo luogo perché è una sorta di Forrest Gump, che vive in una condizione di separatezza dalla realtà. Ha un mondo suo, Ignazio Marino, e, pur essendo uomo, a mia conoscenza, e impressione, di specchiata onestà, in quanto primo cittadino della prima città italiana, della ex capitale dell’Impero Romano, della capitale del cattolicesimo, della capitale mondiale delle opere d’arte, e così via, il buon Ignazio perde la testa, o detto altrimenti comincia a montarsela, preso da una specie di delirio di onnipotenza. Cambia assessori, perde via via collaboratori e amici, e si trova un po’ per volta solo in un fortino assediato da sodali divenuti avversari, mentre il “capo supremo” gli mette alle calcagna un suo uomo forte, l’Orfini, che diventa un sindaco-ombra, e poi come se non bastasse, in absentia, affida al prefetto (Gabrielli, noto per la sua imperturbabilità davanti alle catastrofi “naturali”) il ruolo di Lord protettore, battezzato a furor di popolo “badante”.

L’assenza del sindaco in quei giorni, dovuta alle sue peraltro legittime vacanze negli Stati Uniti, divenne un capo d’accusa: erano i giorni del funerale più mediatizzato della storia recente (quello dei Casamonica), uno spettacolare diversivo dai problemi della capitale, una manna per i Brunovespa e per i rotocalchi scandalistici. Un ridicolo caso montato che finiva per far obliterare il vero “scandalo” quello di “Mafia capitale”. Si trattava di una vicenda che aveva mostrato come l’intero ceto politico “storico” di Roma fosse un sistema integrato di affarismo e corruzione, che attraversava tutte le giunte succedutesi nel corso degli ultimi decenni, tra centrosinistra e centrodestra: il centro, appunto, era il nodo corruttivo a unire in una solidale colleganza postfascisti, postcomunisti, immarcescibili liberali ed eterni democristiani. E intorno a questo ceto politico turbe di clienti, a loro volta vassalli e valvassori in tanti piccoli e grandi feudi, dalle municipalizzate ai taxi, dai palazzinari ai preti, dai bancarellai ai “pizzardoni”, alias vigili urbani. Piccola e infima borghesia famelica, i cui insaziabili appetiti favorivano in fondo un sistema economico parallelo, tra il sommerso e il criminale, appunto: mafioso.

Marino fu posto sotto accusa, sia da coloro che lo avevano preceduto, specialmente l’ultimo (il “sistema Alemanno”, e, ricordiamolo, in combinato disposto con gli scempi della signora Polverini alla Regione, è stato il punto più basso toccato nella plurimillenaria vicenda della “caput mundi”), sia dall’opposizione degli homines novi, il movimento 5 Stelle, con una notevole superficialità, che è proseguita, in una paradossale “alleanza di fatto” con le truppe renziane, ormai scatenate contro il fortilizio in cui un sempre più smarrito e inconsapevole Marino aveva scelto la strada della resistenza ad oltranza, sentendosi in qualche modo protetto dalle buone cose che aveva comunque saputo fare, sin dall’esordio della sua azione amministrativa. Non rendendosi conto, invece, che erano precisamente quelle buone cose ad averlo messo in difficoltà: come si può pensare di scalzare un sistema di potere perdurante da decenni, per non dire da sempre, combattendo praticamente da solo, essendo ormai stato vistosamente abbandonato dal suo partito? L’inserimento in Giunta di un magistrato – di grande energia e competenza come Alfonso Sabella – per il controllo della legalità appariva un altro paradosso: consci della intrinseca disonestà del ceto politico si esplicitava il bisogno di un’auctoritas che ricordasse che “certe cose”, tipo corrompere i pubblici funzionari o farsi da essi corrompere) non si possono fare. Mentre risultava grottesco (a dir poco) la cooptazione (decisa da chi?) di un figuro come il senatore Esposito, volgarissimo pasdaran del TAV in Val di Susa, come assessore ai Trasporti.

Ma quali sono le colpe di Marino, posto che le cene e i pranzi per i quali è stato crocifisso (a cominciare dal papa, che nei confronti del sindaco della città di cui egli, il pontefice, risulta essere “vescovo”) sono al più peccati venialissimi? Qualche pranzo, qualche bugia, qualche goffaggine. Roba di cui manco occorrerebbe parlare, in un Paese serio. E invece sono diventati strumenti della campagna, pesantissima e concentrica, contro il sindaco, dalla Repubblica (ormai organo renziano: soltanto appare più allineata, al punto di risultare stucchevolissima e illeggibile) al Corriere, da Libero al Giornale. Aggiungi la varia stampa cittadina, praticamente tutta in mano alla destra, e la cosiddetta “satira” televisiva: ne uccide più Crozza che la spada, com’è noto. Anche questo è il segno di una società che brancola in un indistinto mucillaginoso.

Dicevo, le “colpe” vere del sindaco di Roma: eccole (secondo Huffington Post, e io personalmente sottoscrivo): 1) Aver pedonalizzato i Fori imperiali; 2) aver bloccato la cementificazione del litorale di Ostia; 3) aver rotto il turpe monopolio dei venditori ambulanti al Colosseo o a Piazza Navona; 4) Aver gettato l’occhio là dove nessun sindaco aveva guardato, gli affitti risibili della casta locale; 5) aver spezzato il sistema occulto degli appalti della raccolta rifiuti, e indetto, per la prima volta, una regolare gara di appalto; 6) aver sfidato le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano sui diritti dei non sposati e sulla fecondazione assistita eterologa; 7) aver partecipato al Gay Pride ultimo, nella città; 8) aver introdotto la scheda elettronica (badge) per i lavoratori della Metropolitana (afflitta da assenteismo cronico); 9) aver cominciato a fare pulizia nella dirigenza dell’ATAC (un motto che circola a Roma che dopo la “cura Alemanno” all’Azienda Trasporti v’erano più dirigenti che autisti; come nell’azienda rifiuti scarseggiavano gli spazzini ma sovrabbondavano i dirigenti!); 10) aver chiuso l’infernale discarica di Malagrotta.

Sono tutti titoli di merito. Marino forse non ha saputo valorizzarli. E ora per meno di 20.000 euro di spese di rappresentanza (una cifra ridicola per il sindaco di una capitale, e che capitale! Ne spende venti volte di più il rettore di un medio ateneo italiano!) diventa lo zimbello universale. Filippo Ceccarelli ha il coraggio di paragonare le tangenti agli scontrini. E il M5S finisce per aderire alla campagna della destra estrema, trovandosi, come accennavo, in buona compagnia con l’odiato Renzi. Il quale è, ancora una volta, il vero regista dell’operazione: uccidete il soldato Marino, è stato l’ordine di scuderia. E come un sol uomo tutti hanno obbedito. Ha alzato di giorno in giorno l’asticella, come in passato aveva fatto con D’Alema, poi con Bersani, quindi con Letta. E ora con Marino. Alza fino a stancare l’avversario: lo fa sentire isolato, non “protetto”, fin tanto che egli, stremato, non getta la spugna.

Ora Marino lo ha fatto. Renzi può segnare un’altra tacca al suo fucile, ma non è che un antipasto. Ora dopo la caduta comincerà la resa dei conti con la minoranza interna. Il premier intende “asfaltarli” come ripete volentieri con il suo lessico da bulletto di provincia. E lo farà. E costoro, tutti costoro, che faranno? Aspetteranno che il carroarmato renziano li schiacci? Forse sarà il caso di ricordare loro che Renzi non fa prigionieri né feriti. Ha imparato la prima lezione del suo grande concittadino Machiavelli: “i nemici bisogna spegnerli”.

Ieri sera, qui a Roma, davanti al Campidoglio, che pena vedere i militanti “grillini” accanto ai neofascisti di Casa Pound e ai diversamente fascisti della signora Meloni: che, prontamente, l’inclito Matteo Salvini candida al Campidoglio. Ha assolutamente ragione il sindaco uscente quando nel suo messaggio di dimissioni (ancora revocabili) afferma: “…non nascondo di nutrire un serio timore che immediatamente tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo-mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd e che senza di me avrebbe travolto non solo l’intero Partito democratico ma tutto il Campidoglio”.

All’indomani delle dimissioni, un quotidiano ha sparato sull’intera prima pagina questo titolo: “Roma liberata”. Si tratta del Giornale, ossia dell’organo di stampa e propaganda che aveva sostenuto in modo sistematico e rumoroso la candidatura di Gianni Alemanno, il peggior sindaco che la lunga storia della capitale ricordi. Fosse anche solo per questa ragione, occorrerebbe sostenere ancora Ignazio Marino.

postilla

Condividiamo, con qualche aggiunta: (1) tra i meriti della giunta Marino nessuno ricorda i 25 milioni di metri cubi prervisti dalle regole e dagli accordi delle giunte Veltroni e Alemanno, e neppure la cancellazione dell'accordo per la cessione della gestione dell'edilizia abitativa comunale al signor Romeo, stipulata da Veltroni.
(2) nessuno sottolinea che se a Roma i problemi erano tali da richiedere, come ha scritto per esempio Alberto Asor Rosa,«la tempra di un condottiero», i responsabili di quella situazione sono stati i sindaci che hanno preceduto Marino: Rutelli, Veltroni, Alemanno.
D'Orsi fa risaltare con chiarezza quale fosse la posta in gioco nella presenza o meno di Marino al Campidoglio: non erano né gli scontrini né l'inadeguatezza del personaggio. La sua colpa era la discontinuità che ha creato con il periodo che lo ha preceduto È tutto questo che va difeso dal gioco sporco del bulldozer Renzi, a prescindere dai difetti e dalle colpe del sindaco Marino: tanti, troppi, ma nessuno riconducibile al perverso intreccio di interessi che paralizza la capitale e il paese. Se è così, l'insipienza politica cui d'Orsi si riferisce nel suo articolo non è solo quella di Marino, ma anche di quelli che non l'anno compreso.

«Basta rive­dere lo “spet­ta­colo” offerto da Roma negli ultimi anni: da una parte i poteri eco­no­mici e poli­tici (ammesso che una tale distin­zione abbia ancora senso), dall’altro un per­so­nag­gio un po’ nar­ciso, mal­de­stro». Il manifesto, 9 ottobre 2015

A Roma i mar­ziani durano poco. E que­sta volta non serve la fan­ta­sia di Fla­iano per capire cosa acca­drà. Alla fine, come nel cele­bre rac­conto, l’extraterrestre dovrà tor­nare a casa,e magari a pen­sare alla salute. Il sin­daco mar­ziano, diver­sa­mente dal per­so­nag­gio let­te­ra­rio accolto con curio­sità e sim­pa­tia, è rima­sto subito sullo sto­maco a larga parte del Pd. Non a caso è stato il suo stesso par­tito a dimis­sio­narlo, con la “mozione di sfi­du­cia” dei tre asses­sori indi­cati dal pre­si­dente del con­si­glio, Renzi. La pres­sione è stata for­tis­sima, e Marino ieri si è dovuto arren­dere, lasciando la guida del Cam­pi­do­glio. Chissà se gli è venuta in mente la famosa bat­tuta reci­tata da Vit­to­rio Gass­man: «M’hanno rima­sto solo…».

Si pos­sono met­tere in fila le con­ti­nue gaf­fes e le bucce di banana — ultima la più fasti­diosa: gli scon­trini — che hanno offerto l’ex sin­daco come una cilie­gina sulla torta al vasto schie­ra­mento che aveva ini­ziato a cuci­narlo a fuoco lento da tempo.

Basta rive­dere lo “spet­ta­colo” offerto da Roma negli ultimi anni: da una parte i poteri eco­no­mici e poli­tici (ammesso che una tale distin­zione abbia ancora senso), dall’altro un per­so­nag­gio un po’ nar­ciso, mal­de­stro. Per­ché è indub­bio che il sin­daco Marino ci abbia messo del suo fin dall’inizio, quando 28 mesi fa osò sfi­dare l’apparato del Pd romano, quello di mafia capi­tale. Per­ciò dovreb­bero ver­go­gnarsi un po’ le per­sone e le forze poli­ti­che che met­tono Marino nel cal­de­rone del più grande scan­dalo avve­nuto a Roma negli ultimi anni. E dovreb­bero riflet­tere anche tutti quelli che ieri sera festeg­gia­vano l’annuncio delle dimissioni.

Va ricor­dato che alle pri­ma­rie vinse con­tro i can­di­dati uffi­ciali del par­tito, Paolo Gen­ti­loni e Davide Sas­soli, annun­ciando il pro­gramma («Ora dob­biamo libe­rare il Cam­pi­do­glio da una poli­tica oscura»). Ere­di­tava infatti una città affo­gata nei debiti e ridotta a suc­cur­sale di mafie, malaf­fare, corruzione.

E così ini­ziava la sua bat­ta­glia col­pendo per­so­naggi e lobby che i suoi pre­de­ces­sori nep­pure osa­vano nomi­nare. Chiude la disca­rica di Mala­grotta met­tendo i fari addosso al busi­ness dei rifiuti; mette mano allo snodo urba­ni­stico dei Fori Impe­riali scon­tran­dosi con la potente lobby dei com­mer­cianti; sba­racca il gotha dell’Acea, l’azienda di gestione delle risorse idri­che e dell’energia, pestando i piedi a impren­di­tori e finan­zieri; rimette in discus­sione tutta la gestione dell’Atac. Solo per ricor­dare le più impor­tanti que­stioni, senza citare quelle meno appa­ri­scenti come togliere il mono­po­lio alla potente fami­glia di Tre­di­cine, mono­po­li­sti degli ambu­lanti in tutto il cen­tro sto­rico, con­tra­stare l’abusivismo commerciale…

Tutto prima che scop­piasse il bub­bone di mafia-Capitale, e sic­come nes­suno è pro­feta in patria il sin­daco ci gua­da­gnò una dura cam­pa­gna media­tica dei grandi gruppi edi­to­riali della città.

La verità è che Marino era stato dimesso a mezzo stampa già da tempo, molto prima delle vicende degli scon­trini (più che spese pazze, spese con­fuse), usati per far­gli pagare il conto non del risto­rante ma dei grandi affari in cui ha messo il naso.

Oltre­tutto l’ex sin­daco non solo si è mosso con la deli­ca­tezza di un ele­fante nei palazzi romani, per­ché non ha avuto riguardi nem­meno per i sacri por­toni vati­cani. Lo ave­vano appena inco­ro­nato che già si pro­nun­ciava a favore della fecon­da­zione assi­stita (ete­ro­loga per giunta), che già alle­stiva ceri­mo­nie uffi­ciali e in pompa magna per le cop­pie gay, met­ten­dosi in prima fila al gay-Pride.

Un vero mar­ziano nella città Santa.

Non stu­pi­sce la vita dif­fi­cile della sua giunta, rim­pa­stata più volte e sem­pre sull’orlo di una crisi di governo. Con il par­tito di rife­ri­mento spia­nato dalle inchie­ste giu­di­zia­rie, con una destra pronta a sven­to­lare le ban­diere nere sul Cam­pi­do­glio, con un’opposizione a 5Stelle pre­sente nelle periferie.

L’anomala avventura portava dentro di sé il virus di una fine prematura.

Adesso la città viene con­se­gnata a pre­fetti e com­mis­sari per la pros­sima manna del Giu­bi­leo. I tec­nici pren­de­ranno il governo della capi­tale, distri­bui­ranno pani e pesci, cer­che­ranno di riav­vi­ci­nare le due sponde del Tevere per pre­pa­rare il ter­reno alle ele­zioni di pri­ma­vera. Magari per il can­di­dato del par­tito della nazione. Un esito, tut­ta­via, assai improbabile.

Per­ché que­sto non è solo il caso Marino: è la crisi di un par­tito romano pro­fon­da­mente inqui­nato e logorato.

«È davvero incredibile che, nello sfascio rivelato da Mafia capitale, ci si accanisca su poche decine di euro spese da un Sindaco per motivi di rappresentanza. Ma il gesto di Ignazio Marino, è un duro colpo alla città». Carte in Regola, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

Mentre sul web si diffonde la voce di imminenti dimissioni del Sindaco, voglio fare alcune considerazioni – a titolo personale – sulle ultime vicende, che spero possano aprire un dibattito non solo interno a Carteinregola.

Lo dico senza giri di parole: le dichiarazioni del Sindaco di regalare a Roma i soldi delle sue spese di rappresentanza, umiliano ulteriormente la città.

Una città sempre più abbandonata e preda di quelli (della maggioranza e dell’opposizione) che, nello smarrimento del disastro scoperchiato da Mafia capitale, si stanno costruendo le future fortune elettorali o le future carriere, o entrambe. Come i parenti di un malato grave che anzichè darsi da fare per curarlo si scannano per accaparrarsi l’eredità. E le prospettive di un dopo Marino sono assai cupe, tra un Giubileo che scoppierà in una città impreparata e un probabile periodo commissariale in cui si stempereranno le poche indignazioni per le vicende giudiziarie e si cancelleranno le tante rivendicazioni dei cittadini, privati di interlocutori politici. E alla fine arriverà una campagna elettorale in cui i partiti tradizionali si ripresenteranno senza alcun ricambio della classe politica, perchè nessun partito, tantomeno il PD, ha messo in discussione il sistema che ha portato alla degenerazione scoperta con Mafia capitale. E una vittoria del Movimento Cinquestelle non è così scontata …

Bisogna dire che è davvero incredibile che, nello sfascio rivelato da Mafia capitale, ci si accanisca su poche decine di euro spese da un Sindaco per motivi di rappresentanza, andando a rimestare tra gli scontrini come nella spazzatura. Ma il gesto di Ignazio Marino, di regalare a Roma i soldi spesi con fondi destinati a fini istituzionali è un duro colpo alla città. Il parlare di un Sindaco deve essere sì sì no no. Se ha gestito i soldi pubblici con correttezza, non deve regalare niente. Se invece li ha usati per spese personali deve spiegarlo ai cittadini e prendersene la responsabilità. Dire “regalo alla città i ventimila euro” sottintende che se si restituiscono i soldi nessuno possa più eccepire sul tuo comportamento. Ma un Sindaco, per quanto provato, non può cercare scorciatoie.

E se dovesse emergere che in varie occasioni Ignazio Marino ha utilizzato disinvoltamente i fondi istituzionali, lo ritengo un motivo sufficiente per le dimissioni. E’ un fatto di rispetto delle regole e di rispetto dei propri cittadini. Ma questo non cancella il fatto che Marino sia stato vittima di una campagna spietata, per lo più ingiusta o sporporzionata, che l’ha trasformato nel perfetto capro espiatorio di una classe politica che spera di farla franca senza mettersi in discussione. Quello che voglio dire è che questo fuoco di fila sull’uomo Ignazio Marino, anzichè sul Sindaco Marino e sulle scelte (o le omissioni) del suo governo della città, ha finito con il cancellare tutte le responsabilità della maggioranza che lo sostiene, e, più in generale, dei partiti coinvolti nelle indagini, spostando l’attenzione dell’opinione pubblica dai guasti, dalle mafie e dalla corruzione al gossip meschino degli scontrini, come era già accaduto per le famose otto multe. Un numero come quello dei prestidigitatori che distraggono il pubblico sventolando fazzoletti con una mano mentre con l’altra mettono in atto i loro trucchi. Un capolavoro politico, certamente non pianificato, a cui ha ampiamente contribuito Marino stesso, con una sovraesposizione mediatica che gli ha regalato più ostilità che consensi.

E stupisce che questo ragionamento non l’abbiano fatto i partiti di opposizione, almeno quelli che non appartengono al sistema preesistente (anche se Alfio Marchini, dopo aver condotto una campagna elettorale smarcandosi dai guasti della partitocrazia ha appena – letteralmente – abbracciato al Convegno di Fiuggi il centrodestra di Berlusconi), che avendo concentrato i loro attacchi più sul piano personale che su quello politico, potrebbero trovarsi di fronte ad un agguerrito candidato del centrosinistra, ben confezionato come “il nuovo” e l'”antimarino”, e magari “l’uomo della provvidenza”.

E se il confronto elettorale avvenisse, non nella prossima primavera, ma un po’ più in là, con la giustificazione (fondata) che non si possono affrontare le elezioni durante un periodo difficile come il Giubileo, passato un certo intrvaello di gestione commissariale, in cui l’opposizione (come noi comitati) non avrà più nessuna controparte a cui opporsi, e in cui la gente avrà tempo di dimenticarsi di tutte le vicende giudiziarie (o magari, al contrario, ne avrà viste talmente tante da arrivare all’astensionismo da senso di impotenza), il rischio che tutto torni come prima è molto forte.

Magari con un elettorato ai minimi termini, diviso tra i soliti voti delle solite lobbies e un voto di protesta dalle variabili poco prevedibili.

Roma non si meritava questo.

«Il centro storico che si svuota di residenti. Il territorio di Roma Città metropolitana che arriva a registrare 40 grandi centri commerciali. Consumo di suolo, abusivismo. In questo contesto, le politiche “del rammendo”, tentate per le periferie, appaiono inadeguate. Qualche motivo di speranza, ma ancora fragile, arriva dal basso, dalla presenza di forze sociali che esprimono uno sforzo di riappropriazione della città e dei luoghi di vita». Comune-info, 5 ottobre 2015

La questione delle periferie rimane una questione centrale per le città, e in particolare per una città come Roma. Le amministrazioni, ad ogni nuovo mandato e a ogni nuova elezione, proclamano di volta in volta il loro impegno per la riqualificazione o il recupero o la rigenerazione (i termini cambiano col tempo) delle periferie romane, ma nonostante tali proclami la situazione pare non cambiare minimamente, le politiche appaiono insufficienti, inadeguate o addirittura inesistenti. Manca in alcuni casi addirittura la conoscenza diretta da parte delle amministrazioni dei contesti concreti in cui le persone vivono, la situazione reale delle periferie romane. Colpisce che il sindaco Ignazio Marino abbia conosciuto il quartiere di Tor Sapienza (leggi Perché Tor Sapienza) e ci sia andato di persona soltanto dopo gli avvenimenti dell’autunno 2014. Né è sicuro che vi sia più tornato.

Manca una conoscenza reale e profonda della periferia, e della periferia romana in particolare. Manca un rapporto diretto con gli abitanti di questi luoghi

È questo un fatto emblematico di un processo più ampio, ovvero di quanto le istituzioni siano distanti dalle periferie, di quanto si siano progressivamente allontanate; e oggi si misura una distanza difficilmente colmabile. Qui si misura anche il fallimento della politica (di un certo tipo di politica) di svolgere quel ruolo di mediazione, che ha caratterizzato tutto il ‘900, tra i territori e le esigenze degli abitanti (o, in termini, più categoriali, dei cittadini) da una parte e le scelte di governo dall’altra. Non solo sono scomparse le sezioni di partito sui territori, e quindi una presenza concreta e attiva, ma è venuta meno proprio l’elaborazione politica e culturale che, a partire dai contesti urbani, dalle esigenze espresse e dai processi in corso, costruisce politiche, iniziative e percorsi di attuazione. Si registra, in alcuni partiti, un lavorio che è piuttosto un’intermediazione di interessi sui territori.

La stessa definizione dell’“interesse pubblico” appare sempre più ambigua e incerta, tanto si avvicina ad una combinazione di interessi privati (di cui l’“urbanistica negoziata” è una espressione emblematica), che poco ha a che vedere con un ragionamento sui problemi complessivi di una collettività e sul modello di sviluppo urbano.

La periferia di Roma costituisce una parte sostanziale della città. Tale è stato il suo sviluppo negli ultimi quindici-venti anni che oggi costituisce la parte preponderante della città. Se si considera che il centro storico si sta progressivamente svuotando di abitanti residenti e si sta trasformando in un distretto del turismo e del commercio, e se si considerano i processi di gentrification che caratterizzano la città consolidata, anche nelle sue parti storicamente considerate degradate (pensiamo al Pigneto), la periferia diventa veramente la parte più consistente della città. Roma è la sua periferia.

Periferie in trasformazione

Si tratta peraltro di una periferia in rapida trasformazione. Il 23 per cento della popolazione del Comune di Roma vive oggi al di fuori del Grande Raccordo Anularee in queste aree l’incremento degli abitanti negli ultimi dieci anni è stato del 26 per cento, a fronte del fatto che dentro il Gra (Grande raccordo anulare) la popolazione invece diminuisce. Non si tratta soltanto di un grande fenomeno di sprawl urbano, a tutto danno di ciò che resta dell’agro romano – il consumo di suolo a Roma è tra i più alti in Italia -, ma di un cambiamento complessivo nei modi di vita degli abitanti e nell’organizzazione della vita quotidiana. Uno dei fenomeni più importanti caratterizzanti lo sviluppo insediativo del Comune di Roma negli ultimi quindici-venti anni è, ad esempio, lo sviluppo delle grandi polarità commerciali e dell’entertainment.

Oggi sono presenti più di 28 grandi centri commerciali nel territorio del Comune di Roma (e altri sono in costruzione). Si tratta di un fenomeno che è stato esportato nel territorio metropolitano: nella Provincia di Roma – ora Città metropolitana – si registrano complessivamente 40 grandi centri commerciali. Questo fenomeno si lega strettamente alla politica delle grandi “centralità” prevista dal nuovo Piano Regolatore Generale approvato nel 2008. Pensate come capisaldi di un nuovo policentrismo, con un importante obiettivo di riqualificazione della periferia circostante, soprattutto attraverso la realizzazione di funzioni pregiate, come il direzionale o i servizi, nel tempo hanno visto progressivamente aumentare (nella maggior parte dei casi) le funzioni residenziale e commerciale (per la precisione, un incremento del 49,5 per cento del residenziale rispetto ai valori assoluti iniziali previsti per questa funzione, e un incremento del 68 per cento del commerciale).

Le funzioni pregiate e il direzionale sono rimaste in poche centralità di iniziativa pubblica, come Pietralata, o come Ostiense e Tor Vergata, che concentrano le funzioni dell’università e della ricerca. Insieme a tali “centralità” sono stati costruiti nuovi agglomerati residenziali per lo più collocati a ridosso delle grandi infrastrutture stradali (Gra e autostrade), sebbene dovevano essere raggiunte dal

“ferro”. Si tratta di strutture e complessi che ragionano ad un livello sovralocale. Il centro commerciale di Bufalotta – Porta di Roma registra 16 milioni e mezzo di visitatori l’anno (più dei visitatori del Colosseo).

Anche lo sviluppo demografico e insediativo assume caratteri sovralocali. La popolazione si sposta a vivere fino a Orte (a 50 chilometri di distanza) e pendola quotidianamente su Roma. Alcuni Comuni a nord di Roma (ma anche Ardea) sono tra i 30 Comuni con il maggior incremento di popolazione in tutta Italia negli ultimi dieci anni. La periferia ha assunto una dimensione metropolitana.

Gli altri due grandi processi insediativi che caratterizzano la periferia romana, l’edilizia residenziale pubblica e l’abusivismo, sono storicamente consolidati, ma non per questo meno importanti. Roma è la città con la maggior quantità di edilizia economica e popolare realizzata in Italia; un patrimonio grande e importante che però si trova in una condizione di degrado veramente preoccupante. Sono di fatto territori abbandonati.

Non meno problematica la situazione della città abusiva. Il fenomeno è andato calando nel tempo, ma tuttora è consistente, anche se ha profondamente cambiato natura. La sua rilevanza è testimoniata dalle quantità: il 37 per cento del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e il 40 per cento della popolazione vive in aree nate come abusive. Si tratta di pezzi di città che, per le condizioni in cui si sono formati, sono difficilmente recuperabili.

Quali politiche

In questo contesto, le politiche “del rammendo” appaiono inadeguate. Un senatore della Repubblica e noto architetto di valore internazionale (e sicuramente persona di grande valore e competenza) ha investito il suo stipendio di parlamentare a sostegno dell’elaborazione di politiche e progetti per il recupero delle periferie. Si tratta di microprogetti che riqualificano alcuni angoli degradati e dismessi, e che dovrebbero ricucire i pezzi delle periferie. Gli esiti sono ben lontani dagli obiettivi e dalle eventuali aspettative. Le politiche “del rammendo” appaiono del tutto inadeguate e insufficienti. Ma si può anche dire di più. Tale è la situazione delle periferie, non solo per i problemi urbanistici ed edilizi, ma anche e soprattutto per quelli sociali, che si può affermare come siano “non rammendabili”.

Le periferie, e quelle romane in particolare, sono esiti di processi complessivi, e ora globali, che le producono e le riproducono. Le periferie sono funzionali ad un certo modello di sviluppo, insediativo ma anche socio-economico. In questo senso le “ricuciture” ed i “rammendi” sono micro-palliativi. Il problema è piuttosto impegnarsi in politiche che intercettino ed esprimano un’alternativa al modello di sviluppo mainstream. Un obiettivo su cui, aldilà delle volontà politiche, le stesse amministrazioni pubbliche locali avrebbero difficoltà ad impegnarsi, private come sono di una capacità di azione al confronto delle forze economiche che attraversano i territori, tanto che si può dire che stanno perdendo anche (parte della) la sovranità sui propri contesti governati.

Allo stesso tempo, le periferie sono anche luoghi vitali, dove una presenza di forze sociali esprime uno sforzo di riappropriazione della città e dei luoghi di vita. Questo protagonismo sociale è molto forte ed esprime una grande azione sui territori. Ha difficoltà però a costituire un movimento comune di mobilitazione e di costruzione di politiche alternative. Ma è su questi terreni e su queste sfide che si gioca un possibile futuro delle periferie romane.

Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza. Svolge attività di ricerca sui processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione (con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie).

Da leggere Pigneto, mon amour. Un territorio resiste Fucina 62, Gli angeli non abitano più la periferia Dottorato Dicea, Riscoprire il senso delle periferie Enzo Scandurra, Tor Sapienza, la periferia fatta da noi Riccardo Troisi, Ripartiamo dalle città Giovanni Caudo

Presentazione del resoconto sull'attività svolta nei primi due anni di mandato dell'assessore alla trasformazione urbana della giunta Marino. Le iniziative in corso e le sfide da cogliere per la città di domani. Conferenza stampa del6 agosto 2015. Con una premessa

Premessa

È con molto piacere che presentiamo il resoconto dell'assessore Caudo. Conoscevamo da tempo la mole e la qualità del lavoro svolto, la sterminata quantità di fatica che costa invertire in pochi mesi (e praticamente senza struttura idonee) trent'anni di scelte urbanistiche sbagliate.
Poichè il punto è questo. Come comprenderà chi avrà la pazienza di leggere i documenti allegati (ma senza pazienza non si comprende e si è costretti a esprimere giudizi superficiali) Caudo e la sua piccola équipe hanno dovuto, con il sostegno del sindaco Ignazio Marino, cancellare scelte urbanistiche negli anni di Alemanno ma decise in sostanziale continuità con la visione formata e consolidata negli anni di Rutelli e Veltroni: la visione e la prassi iniziata quando, nel 1993, si teorizzò e praticò il metodo del "pianificar facendo": cioè si scelse di passare all'attuazione delle previsioni di un piano formato sulla base della situazione sociale ed economica degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, ed enormemente sovradimensionato rispetto alla esigenze della fine del secolo scorso.

Certo, sarebbe stato meglio per tutti se Giovanni Caudo fosse stato assessore all'urbanistica in quegli anni: avrebbe potuto cavar via molti più volumi edilizi inutili. Ma il problema non sono le singole persone, la lori capacità tecnica e la loro personale visione delle cose. Il problema è il contesto nel quale si opera, qual'è in quel momento l'ideologia egemone. E dalla fine degli anni Ottanta l'ideologia era quella della crescita indefinita di tutti i valori economici: a partire da quelli determinati dalla crescita della rendita fondiaria.

Costruire di più era l'aspettativa dominante di chiunque avesse un pezzetto di terra urbanizzabile: un'aspettativa quasi sempre accettata come legittima da troppi politici, amministratori, e tecnici pronti a ogni compromesso pur di seguire il "principe".Questa ideologia è oggi ben lungi dall'essere contraddetta, nè è in vista il nascere di una promettente contro-egemonia - almeno sul terreno specifico delle politiche del territorio. Anche per questo occorre essere grati all'assessore Caudo e a chi lo sostiene, e aiutarli a proseguire il loro sforzo. (e.s.)

DUE ANNI DI SCELTE PER ROMA
Introduzione alla conferenza stampa del 6 agosto 2015

Sono passati due anni dal primo atto della giunta Marino quello di cancellare gli ambiti di riserva previsti da una delibera di Alemanno, 20 milioni di potenziali metri cubi di cemento per 160 proposte di nuove urbanizzazioni che si sarebbero riversati su 2300 ettari di Agro romano. In seguito abbiamo cancellato altri 5 milioni di metri cubi di cemento, all’Ex Snia, al Casilino, abbiamo revocato la delibera sulla valorizzazione delle caserme e ridotto i volumi in altre delibere come quella della ex fiera, da 93 mila mq a 67.500 mq.

Sono state scelte fondate sulla convinzione che il ciclo novecentesco della città dell’espansione è finito. Ma non sono scelte contro lo sviluppo o contro la legittima attività economica dei privati. Sono scelte che riaffermano il rispetto delle regole e orientano in modo inequivocabile il futuro della città verso il riuso dell’esistente, del già costruito del già urbanizzato.

I fatti ci dicono che, anche grazie ad una forte regia pubblica, soggetti importanti hanno scelto Roma per investire e non solo per fare case. A cominciare dagli oltre 100 milioni che Telecom investe per portare il quartier generale di TIM nelle Torri di Ligini, per le quali è previsto il restauro funzionale e il ritorno alla destinazione d’uso a uffici. Un intervento che riqualifica l’intero quartiere dell’EUR. Oppure, in centro storico, a largo Santa Susanna, da centro commerciale a uffici. Continuando con i diversi protocolli d’intesa con CDP, per il quartiere della Scienza e l’housing sociale. Ammontano a 190 milioni gli investimenti che il consiglio di amministrazione del fondo immobiliare Investire Abitare gestito da CDPi sgr ha già deciso su Roma, l’ultimo di 100 milioni il 24 Luglio scorso. A tutto questo si può aggiungere lo stadio di Tor di Valle, ora all’esame della Regione Lazio, il cui investimento, anche questo tutto privato, ammonterà a circa 1,2 miliardi di euro di cui 325 saranno di opere pubbliche.

L’attività dell’assessorato alla Trasformazione urbana, in questi primi due anni, ha guardato però anche a Roma prossima, alla Roma di domani, con i progetti di Roma 2025 e Roma resiliente, volti a ridefinire le priorità nuove del governo urbano, che guardano alla cura e alla ricucitura, al ciclo delle acque e a quello dei rifiuti, alle infrastrutture anche minute e all’ecosistema.
Ma ha scelto al tempo stesso di dare impulso per portare a termine i progetti e i piani già incardinati nel PRG del 2008. Modificando le regole, come nel caso della nuova convenzione per i Piani di zona e il nuovo schema di convenzione urbanistica con i privati, per dare maggiore certezza alla conclusione dei programmi e alla realizzazione delle infrastrutture. Case insieme ai servizi e anche case a un prezzo accessibile.

Abbiamo rifinanziato il progetto di piazza Augusto Imperatore, con 12 milioni di euro, e aperto cantieri nell’ex Mattatoio per altri 12 milioni. Abbiamo chiesto agli uffici che seguono i piani di edilizia economica e popolare una particolare dedizione nel verificare e nel promuovere la realizzazione delle opere primarie e secondarie che i lembi estremi della città aspettano da anni, fra i casi più emblematici Montestallonara o Castelverde.

Con le restrizioni del patto di stabilità e con le difficoltà di bilancio gli investimenti privati nella realizzazione di opere pubbliche diventano ancora più importanti e strategici per l’economia della città. Oggi ai cantieri aperti per opere pubbliche a scomputo, con fondi privati, corrisponde un valore economico di circa 150 milioni di euro. Nel solo 2014 abbiamo ultimato due scuole, una a Tor Pagnotta, una a Vigna Murata e un mercato (plateatico) a Lunghezza-Ponte di Nona. Fogne per 21 km, di cui 7 per acque nere, 2.500 Punti luce (Torrino Mezzocammino, Papareschi, Ponte di Nona). E ancora strade per 56 ha e Parchi per 99 ha. Inoltre nella manovra di assestamento votata il 1 Agosto ci sono circa 64 milioni di euro di opere a scomputo in quartieri come Torresina, La Storta e Borghesiana Pantano. Abbiamo anche inserito per l’Acquisizione di aree nei piani di zona altri 17 milioni di € mediante compensazioni di cubature, la cosiddetta cessione compensativa, ad esempio a Tor Vergata 2, via Lucrezia Romana, Casilino Bis, Infernetto ovest.

Ed è prossima l’apertura di nuovi cantieri, come quelli previsti dalla delibera approvata la scorsa settimana su Tor Bella Monaca e Torre Angela che prevede lavori, soprattutto per i nuovi collegamenti stradali, per 50 milioni di euro. Un utile termine di paragone: nel 2014 le opere pubbliche finanziate direttamente dal comune di Roma ammontano a 30 milioni di euro.
Abbiamo approvato ed è in corso di realizzazione la stazione ferroviaria a Ponte di Nona, finalmente il quartiere si avvicina alla città. Era una condizione per la sua edificazione, ora finalmente ci sarà la stazione.

Abbiamo convinto il privato ad appaltare il cavalcavia del Gra e rendere possibile il completamento del corridoio di trasporto di superficie tra Laurentina e Tor Pagnotta 2, il cantiere è stato avviato ad ottobre scorso, anche questo erano anni che lo si aspettava. Abbiamo ultimato l’isola pedonale del Pigneto e completato così gli obblighi del privato collegati alla riqualificazione della ex Serono, 1,8 milioni, anche questo si aspettavano da anni.

Abbiamo riavviato le opere pubbliche a Casal Bertone, sono in corso i lavori per il parco di via Pollio. Abbiamo concluso il contenzioso dei frontisti della TAV, 35 famiglie a cui era stata promessa una casa a seguito del passaggio dell’Alta velocità. Ora le 35 famiglie hanno firmato i contratti di acquisto degli immobili e RFI può avviare i lavori, dopo quasi venti anni di battaglie e di trascuratezza.

Due anni in cui, anche grazie al lavoro dell’Assemblea capitolina e della commissione urbanistica, con le 91 delibere approvate, 61 di giunta e 30 di assemblea, abbiamo potuto disegnare trasformazioni importanti e favorito opere minute e diffuse.
Abbiamo aperto gli uffici al dialogo e all’ascolto di tutti e dedicato sempre una attenzione particolare alle esigenze dei cittadini come nel caso dei prezzi massimi di cessione delle abitazioni nei piani di zona.

E mentre seguiamo il quotidiano, anche quello che può sembrare più minuto, pensiamo a Roma prossima, attraverso tre iniziative: Roma 20-25, con 24 università nazionali e internazionali, Conferenze urbanistiche, con la partecipazione di oltre 2.000 cittadini nei 15 municipi, Roma Resiliente assieme ad altre 100 città nel mondo.In queste ore siamo impegnati, con lo stesso spirito e finalità, a cogliere l’opportunità del giubileo della Misericordia perché a Roma, quella che vive Oltre-Gra, resti il lascito importante del giubileo di strada, migliorando le condizioni di vita di chi ancora aspetta strade, piazze, spazi verdi. Abbiamo individuato luoghi e interventi, sedici in tutto, per un ammontare di circa 6 milioni li abbiamo presentati alla presidenza del consiglio per avere finanziamenti e agevolazioni per i tempi di realizzazione.

Riferimenti

Qui si può scaricare "Due anni di scelte urbanistiche. Come cambia Roma" : una relazione contenente l'elenco ragionato delle iniziative assunte e delle delibere approvate, introdotto da alcune riflessioni dell'assessore.

Finalmente un'analisi della vicenda romana che colloca le debolezze e gli errori di Ignazio Marino nel loro contesto, non facendone il capro espiatorio di colpe altrui. Il manifesto, 28 luglio 2015, con una lunga postilla

Chi vive a Roma ha la possibilità di sperimentare tutti i giorni l'asprezza di una condizione urbana e civile che non mostra ormai da anni un barlume di miglioramento. La speranza che qualcosa sia progredito nella qualità dei servizi, nell'agibilità dei trasporti, nella pulizia e decoro dei luoghi. Tuttavia è proprio la lunga durata di questo degrado che dovrebbe mettere in sospetto sull' eccessivo carico di responsabilità che si fa ormai da mesi al sindaco Marino. Prima che le amministrazioni, occorrerebbe “inquisire”, nel senso etimologico del termine, i cittadini. Come ha fatto con una bella pagina Melania G. Mazzucco ( Se questo è il volto di una capitale, La Repubblica, 26/7/20159 ) La Mazzucco, opportunamente, estende a tutto il Paese l'analisi antropologica della cialtroneria civile degli italiani, su cui gravano non poche responsabilità dello stato presente delle nostre città. Oggi tuttavia alla lunga durata della nostra storia si aggiungono nuovi guasti, insieme alla devastante diminuzione di risorse destinate alle pubbliche amministrazioni. L'etica civile, che prevede il senso del bene comune e la condivisione, è corrosa dall'individualismo edonistico della cultura dominante. In un Paese che ha nella sua storia un debole disciplinamento civile – dipendente dalle scarse capacità egemoniche delle sue classi dirigenti – il veleno nichilistico del capitalismo attuale ha effetti dirompenti. Nessuno si sente cittadino, membro di una civitas, tutti individui che producono e consumano. Crescente è poi la sfiducia dei cittadini nei confronti di ogni potere istituzionale, e dunque langue il contratto sociale quotidiano che impegna ognuno a fare la propria parte.

Questo non sgrava certamente Marino dalle sue responsabilità. Una su tutte: l'incapacità di far sentire Roma inserita in un grande progetto di rinascita di cui si stanno gettando le fondamenta e che chiama tutti i cittadini a fare la propria parte. Questa capacità Marino non l'ha espressa e forse non la possiede. Benché dalle interviste che rilascia si scorge un onesto e oscuro lavoro di cambiamento delle strutture profonde del potere romano. Tuttavia, le polemiche e le contestazioni anche violente subite dal sindaco a margine della questione “mafia capitale” sono molto rivelatrici di un modo errato e superficiale di concepire la politica e i poteri di un leader. Tramontata la concezione della politica come agire collettivo, oggi viene surrogata dalla visione demiurgica del leader che, così come vince le elezioni, trasforma la realtà e il destino delle persone con il suo agire solitario.Si è, ad esempio, rimproverato a Marino di non essersi accorto del malaffare che trescava attorno a lui. E in effetti una maggiore attenzione sarebbe stata benvenuta.Ma se ci son voluti mesi di intercettazioni e indagini della magistratura per scoperchiare la pentola, vuol dire che gli scantinati malavitosi sotto il Palazzo erano ben nascosti. Il groviglio di interessi che teneva sotto controllo la capitale mostra al contrario quante difficoltà e condizionamenti doveva e deve subire la politica democratica a Roma. E quindi le scoperte della magistratura militano a favore di Marino, mostrando i limiti storicamente sedimentati entro cui egli ha dovuto collocare in questi due anni la sua azione di primo cittadino.

E qui si dimentica un passaggio storico importante. Un tempo, quando esistevano i partiti di massa, i sindaci e gli assessori avevano un più ampio controllo di legalità sugli ambiti dell'economia pubblica, sulle pratiche amministrative, sulle persone. La partecipazione volontaria dei cittadini alla vita politica diventava essa stessa strumento di controllo e di trasparenza. Dunque l'azione di un leader non era isolata, ma era parte di un 'azione collettiva che operava assieme a lui, che trasformava le sue scelte in iniziativa politica.

Oggi i partiti, non più strumenti di emancipazione collettiva, ma al servizio di individui in competizione, sono un coacervo di comitati elettorali in reciproca contesa. E non stupisce che nella polemica di questi mesi non emerga, in alternativa alla giunta in carica, se non qualche nome di leader e mai una idea, che sia un'idea di Roma, un progetto visibile e condivisibile di città.

L'indagine impietosa compiuta da Fabrizio Barca sul PD romano ha mostrato a quale grado erano giunti tanti circoli di quel partito. Ebbene, Marino non solo non ha più attorno a sé un partito di massa, ma non poteva contare neppure su quel PD, che gli era significativamente ostile. Molte delle opposizioni che oggi convergono contro il sindaco andrebbero in verità esaminate nelle loro segrete e innominabili motivazioni. Perché non bisogna dimenticare che il più potente dei poteri romani, accanto a quello del Vaticano, è stato quello dei costruttori. In subordine e spesso legato ai primi due, quello della più opaca macchina amministrativa d'Italia. Oggi tali poteri vengono colpiti e sono in difficoltà. E' su questi obiettivi che bisognerebbe richiamare l'attenzione dei romani e degli italiani, oltre che sul traffico soffocante e la sporcizia delle strade.

postilla

Finalmente qualcuno che colloca le debolezze e gli errori diIgnazio Marino nel loro contesto. Finalmente qualcuno che mostra di far propriala domanda che ponevamo nel “pensiero del giorno” di qualche giorno fa , eavvia una risposta utile ad andare avanti. Chiedevamo: «Come mai la colpa deldegrado della capitale è attribuita all'unico sindaco che sta tentando dirimuoverlo dopo che altri (non solo Alemanno, ma anche e prima di lui Veltroni)l'avevano provocato? Il PD storico e attuale è una palombella bianca?».

Chi, come noi, ha seguito e criticato passo per passol’urbanistica romana degli anni di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni sa bene che ben prima ancora di GianniAlemanno il territorio romano era stato venduto alla speculazione dei padroni del cemento. Per chi volesse documentarsi,basterebbe digitare sul “cerca” di eddyburg le parole “pianificar facendo”, epoi magari quelle“dirittiedificatori” per rintracciare i numerosi articoli che raccontano in che modo la gestionedell’urbanistica romana sia stata appaltata agli “energumeni del cemento.Un’analisi appena un po’ più approfondita consentirebbe di comprendere in chemodo le consorterie poi battezzate “larghe intese” o “patto del Nazareno”abbiano dominato il governo del territorio nella Capitale, facendo diquest’ultima il laboratorio della peggiore stagione della città (urbs, civitas,polis) che la nostra Repubblica abbia conosciuto. Pretendere che un uomo, perdi più arrivato alla sindacatura con l’appoggio del partito descritto daFabrizio Barca (e partecipe del “governo del territorio” romano in tutta lafase che va da Rutelli ad Alemanno) è veramente incomprensibile.

Ci fermiamo qui, e abbiamotoccato solo uno degli aspetti della continuità politica, economica e moraleche unisce il ventennio che è alle spalle di Ignazio Marino. Ma per cambiarerealmente le cose occorrerebbe lavorare su uno spettro di questioni più ampio.Solo da una corretta analisi del passato si può trarre la saggezza necessariaper andare aventi nella direzione giusta. (e.s.)


Buone notizie per i romani, se le scelte di Marino saranno confermate. Marco Causi, Anna Donati, Marco Rossi Doria sono scelte più che affidabili per una giunta seria, se non si vogliono solo bandierine da sventolare nelle riunioni di partito. Il manifesto, 28 luglio 2015

La nuova giunta di Igna­zio Marino sarà varata oggi, la giran­dola dei nomi dei papa­bili al posto dei tre asses­sori dimissionari/dimissionati (Improta, tra­sporti, Scoz­zese, bilan­cio, Nieri, vice­sin­daco) si fer­merà, forse solo tem­po­ra­nea­mente. Ma intanto una cer­tezza c’è: il cen­tro­si­ni­stra che ha gover­nato fin qui la Capi­tale è finito. Sel lascia la giunta. È un nuovo improv­viso ’cam­bio di verso’ del sin­daco, con buona pace dei mille gor­gheggi che aveva fatto al ’fedele’ alleato. Sel fini­sce immo­lata sull’altare del ren­zi­smo, nell’ipotesi tutt’altro che pro­ba­bile che lo stesso Renzi se ne compiaccia.

Ieri pome­rig­gio l’incontro al Cam­pi­do­glio fra il sin­daco e i ver­tici ven­do­liani è finito male. Dopo le dimis­sioni del vice­sin­daco Nieri, Sel cer­cava garan­zie su una svolta nel governo della città: punti qua­li­fi­canti per il rilan­cio. Ma per Marino il punto era la pol­trona di vice­sin­daco: che voleva tenere libero per un dem di fidu­cia del Pd romano, allo scopo di con­so­li­dare il sem­pre teso rap­porto fra il sin­daco ’mar­ziano’ e il par­tito. A quel posto infatti oggi sarà chia­mato Marco Causi, depu­tato dem che con ogni pro­ba­bi­lità si terrà anche la deli­cata delega al bilan­cio. Sel invece aveva pro­po­sto Fran­ce­sco For­gione, già pre­si­dente della com­mis­sione anti­ma­fia, vicino all’associazione Libera di don Ciotti e uomo di ottimi rap­porti con la magi­stra­tura che indaga su Mafia Capi­tale. Per Marino l’ipotesi non esi­steva. E così l’incontro fini­sce con la rot­tura. All’uscita il con­si­gliere Gian­luca Peciola parla di «appog­gio esterno che passa da tec­nico a poli­tico». La tra­du­zione che ne dà il più diretto Paolo Cento, nuovo respon­sa­bile della Sel romana, è: «Con il Pd si apre una fase di com­pe­ti­zione. Con il sin­daco Marino man­ter­remo un rap­porto di veri­fica deli­bera per deli­bera», insomma, «se il Pd vuol far sal­tare il cen­tro­si­ni­stra a Roma se ne assume la respon­sa­bi­lità». Sel per ora sem­bra orien­tata a non far man­care i suoi voti alla mag­gio­ranza, almeno «per tutti quei prov­ve­di­menti che saranno dav­vero utili per la città e per i cit­ta­dini romani». Ma pre­sto i nodi arri­ve­ranno al pet­tine. Anzi subito. Oggi stesso in aula ini­zia la mara­tona per appro­vare l’assestamento al bilan­cio 2015. Per il sì finale c’è tempo fino al 31 luglio. Nel prov­ve­di­mento sono con­te­nute ini­zia­tive alle quali Sel ha già detto no: per esem­pio sul capi­tolo Atac. Sel non è con­tra­ria alla rica­pi­ta­liz­za­zione sta­bi­lita nel testo, ma lo è a far entrare «un part­ner indu­striale» pri­vato nell’azienda. Marino potrebbe dover voti fuori dalla mag­gio­ranza, tra­sfor­mando di fatto il mono­co­lore Pd in «lar­ghe intese» sul modello nazio­nale. Così i 5 stelle ora sfi­dano Sel a stac­care la spina.

Il sin­daco non se ne pre­oc­cupa e punta tutto sul rim­pa­sto di giunta che sarà varato oggi. Nono­stante le aspet­ta­tive, alla fine si va sull’usato sicuro: per i tra­sporti cir­cola il nome di Anna Donati, già asses­sore alla mobi­lità sia a Bolo­gna che a Napoli; per le peri­fe­rie quello di Marco Rossi Doria, già sot­to­se­gre­ta­rio all’Istruzione con i governi Monti e Letta.

Ma non è affatto detto che il sacri­fi­cio di Sel e il lif­ting all’esecutivo capi­to­lino fac­ciano cam­biare dispo­si­zione d’animo a Palazzo Chigi, da dove non smette di fil­trare una gelida osti­lità all’indirizzo del Cam­pi­do­glio. Sta­sera sarà la prova del nove: alle 21 il pre­si­dente Renzi par­lerà alla festa dell’Unità della Capi­tale, un appun­ta­mento atte­sis­simo che il pre­mier però avrebbe pre­fe­rito diser­tare. Ci va, invece, per l’insistenza del com­mis­sa­rio Orfini. A cui come con­di­zione avrebbe chie­sto l’assenza del sindaco.

Il quale comun­que rischia grosso: non solo dal giu­di­zio ’del suo segre­ta­rio pro­nun­ciato di fronte ai mili­tanti, ma anche da quello in arrivo da parte del mini­stro degli interni. D’accordo con Orfini, Marino pro­cede al rim­pa­sto prima che Alfano si sia pro­nun­ciato sullo scio­gli­mento della città per mafia. La ’sen­tenza’ potrebbe arri­vare a giorni. Il rischio è che la rela­zione del mini­stro renda neces­sa­rie nuove dimis­sioni dalla giunta. Tutto tor­ne­rebbe in ballo.

Ecco perché un'ora e un quarto di ritardo dell'apertura di Pompei al pubblico è diventato un caso internazionale, che ha sputtanato l'Italia ma coperto le magagne del governo. La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 luglio 2015

«Franceschini sta facendo un buon lavoro e la cultura è la chiave del nostro futuro. Anche per questo mi viene una rabbia incontenibile quando vedo le scene di ieri a Pompei»: così il compagno segretario e presidente Matteo Renzi annota (sotto l'eloquente titolo Il nostro petrolio culturale e la rabbia per Pompei) nella fluviale rubrica riservatagli dalla neosovietica Unità diretta dal suo ex sottosegretario Erasmo De Angelis (tanto fedele alla linea da aver scritto che lo Sblocca Italia è di sinistra: anche se forse voleva dire 'sinistro').

È la ciliegina su una colossale torta di disinformazione e propaganda che merita di essere tagliata a fette e analizzata per quello che è.
Venerdì mattina un gruppo di lavoratori di Pompei indice un'assemblea senza preavviso e lascia i visitatori fuori dalla porta. Condotta inqualificabile, giustissimo censurarli: cosa che Cgil e Uil fanno immediatamente. Grazie all'encomiabile sollecitudine del soprintendente Massimo Osanna la cosa si traduce nel ritardo di un'ora e un quarto nell'apertura dei cancelli. Grave, certo. Ma forse non il «danno incalcolabile» di cui parla il ministro Dario Franceschini, che trasforma così un evento secondario in un dramma nazionale capace di tenere banco per ore come prima notizia dei siti dei quotidiani, e di stare all'indomani in prima pagina: producendo articoli che descrivono, per ignoranza e forza d'inerzia, una Pompei allo sfascio che non esiste più da due anni.
E cosa si dovrebbe dire del fatto che – giusto per rimanere in Campania – il supermuseo di Capodimonte, uno di quelli in attesa del superdirettore, ha due piani (quelli dove si trovano Caravaggio e Tiziano) chiusi da settimane per un guasto all'aria condizionata: che non dipende da sindacati selvaggi, ma dalle scelte irresponsabili del Ministero guidato da Franceschini? Questo non è forse «un danno incalcolabile»? E questo è solo uno fra decine di esempi possibili.
Domanda: perché Franceschini coglie la palla al balzo e alza un polverone che (oggettivamente) danneggia la reputazione del Paese e di Pompei molto più della stessa assemblea sindacale? Ecco una possibile risposta.
Quel polverone ha completamente coperto, sui media, la concomitante manifestazione nazionale indetta dai sindacati confederali a livello nazionale, con sit in davanti alle sedi del ministero dell'Economia, per protestare contro il mancato pagamento del salario accessorio maturato da novembre scorso per le prestazioni che i lavoratori svolgono a tutela del patrimonio, e contro i tagli pesanti che il governo sta programmando sul salario di produttività: quello che consente le aperture prolungate tanto citate nella propaganda di Franceschini.
Così una accorta regia ha pensato bene di buttare i sindacati in pasto all'opinione pubblica, approfittando di un gesto sconsiderato a cui il 99,9% dei lavoratori del Mibact era estraneo. Una regia che soffia su pregiudizi di classe (i custodi fannulloni, quintessenza del dipendente pubblico fancazzista) e su pregiudizi antimeridionali (nascondendo il fatto che i problemi di Pompei si potrebbero, anzi si dovrebbero, risolvere a Roma).
Incontrando ieri i sindacati, Franceschini ha detto che è inutile mantenere le aperture di 11 ore in tutti i siti, e che quindi saranno diminuite le aperture nei siti 'minori': quelli affossati dalla spettacolarizzazione che punta tutto su Pompei, Uffizi e Colosseo. E ha detto anche che potrà assumere solo tramite la società in house del Ministero: che diventerebbe il vero serbatoio occupazionale, aggirando (e non contestando e superando, come si dovrebbe fare) i blocchi del turn over. Con costi maggiorati, ma nascosti nelle pieghe del bilancio e applicando il contratto del commercio: invece di fare i concorsi pubblici che vorrebbe la Costituzione.
Perché, invece di arrabbiarsi incontenibilmente per quel che avviene a Pompei (un posto dove, fino a qualche mese fa, egli non era mai stato), il compagno segretario e presidente non prende atto del fatto che se il patrimonio culturale è una priorità (economica, come direbbe lui), allora bisogna assumere i lavoratori necessari a farlo funzionare?
Infine: tutto il Mibact e il mondo della cultura si stanno sollevando contro la norma della 'riforma' Madia che prevede di far confluire le soprintendenze nelle prefetture (comportando con ciò la fine pianificata della tutela del paesaggio e del patrimonio disposta dall'articolo 9 della Costitituzione) e Franceschini grida che il danno incalcolabile al patrimonio è l'ora e un quarto di ritardo nell'apertura dei cancelli di Pompei?!? Spiace dirlo, ma davvero di questo passo rischiamo di ridurci a rimpiangere Sandro Bondi.

Una brava urbanista, Paola Viganò, e un buon episodio di progettazione urbana, mediante una procedura corretta. Intervista a risposte intelligenti e spesso condivisibili: con una contraddizione (TAV) e uno scivolone (art. 9). Corriere della Sera, suppl. «Sette» 24 luglio 2015

A un certo punto le soffio addosso il venticello malizioso che circola tra alcuni suoi colleghi sul perché abbia vinto il concorso per ridisegnare il quartiere Flaminio, a Roma: la presidentessa della Giuria era un’allieva del suo ex socio Bernardo Secchi, archistar dell’urbanistica italiana, venuto a mancare nel settembre 2014. Lei replica: «Il tempo e la storia ci diranno se è così». Il tono è decisamente indifferente. Tipo: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Poi, dopo una pausa, mette una pietra tombale sulla polemica: «Lo sa che sono l’unica donna e l’unica non francese ad aver vinto il Grand Prix de l’Urbanisme?».

Paola Viganò, 54 anni, urbanista e professoressa allo Iuav di Venezia e all’Epfl di Losanna, è portatrice fiera di piani regolatori e di progetti territoriali, di piazze e di parchi. Dice: «Progettare spazi produce conoscenza. Rivendico un ruolo sociale e intellettuale per gli urbanisti e per gli architetti».
Nella Roma devastata da Mafia Capitale e affetta da degrado debordante, la notizia che a pochi passi dal centro storico qualcuno abbia ideato un piano, approvato dall’amministrazione, per sostituire cinque ettari di caserme con abitazioni, case popolari, giardini, negozi e uno spazio museale, è passata quasi inosservata, tra il legittimo scetticismo di chi ha visto tanti disegni i mai edificati e chi pensa che il sindaco Marino non resti in Campidoglio più di tanto. «I proprietari dell’area (cioè Cassa Depositi e Prestiti) e la città di Roma sembrano determinati. Certo, potrebbero insorgere le tradizionali complicazioni italiane». Complicazioni. Partiamo da qui.
In Italia si progetta molto, si realizza poco e quando si costruisce spesso lo si fa in modo non legale: appalti truccati, mazzette, infiltrazioni mafiose…
«Negli anni Novanta con Bernardo Secchi abbiamo lavorato per ridisegnare alcune città italiane: Prato, Pesaro, Brescia. Luoghi simbolo del made in Italy che si evolvevano e avevano bisogno di una maggiore qualità dello spazio pubblico e di nuove infrastrutture. Quei piani hanno vissuto storie drammatiche».

Non sono mai stati realizzati?
«Mai, o in modi contorti. A causa di veti campanilistici o di bassissime strategie politiche. Alla fine abbiamo concluso che in Italia non c’era speranza. E che non esistevano le condizioni di dignità per andare avanti. Abbiamo cominciato a lavorare soprattutto nelle Fiandre. Lì, come in altre parti d’Europa, si affronta il futuro».

In Italia si ha paura del futuro?
«Sì. Da noi non c’è una classe politica all’altezza. Non c’è una classe dirigente che voglia costruire il futuro. In Nord Europa, oggi, fioriscono studi sull’invecchiamento della popolazione e su come affrontarlo. Noi italiani, che siamo più vecchi di loro, non ci poniamo nemmeno il problema di come riprogettare il Paese e le città. Ci sono grandi questioni di lungo periodo su cui si dovrebbe riflettere a fondo: i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione, le migrazioni, la crisi e i nuovi lavori. Secchi nel suo ultimo libro lo dice chiaramente: “Emerge con forza una nuova questione urbana”».

Se potesse bisbigliare a Renzi un suggerimento…
«Si concentri su questi temi e ridia voce a chi si occupa del progetto della città e del territorio. Non siamo privi di senno e siamo ascoltati in tutta Europa. In Italia c’è una tradizione nobilissima di urbanisti».

Gli urbanisti in Italia hanno creato anche sfaceli: Scampia, lo Zen, il Corviale… Palazzi/quartiere in cui è cresciuto solo il degrado.
«Non dica così. In Francia le periferie sono in condizioni ben peggiori. Le zone che lei ha citato sono monumenti a un pensiero. Se li accettiamo come tali, restauriamoli. Se invece davvero non riconosciamo loro, collettivamente, alcun valore e se gli abitanti sono d’accordo, abbattiamoli. Ma ricordiamoci che è la concentrazione del disagio e della povertà a creare i problemi, non l’architettura».
Non è che con il Progetto Flaminio realizzerete un mostro che fra trent’anni avremo tutti voglia di abbattere? C’è chi protesta perché ci sono troppi metri quadri abitativi e perché alcuni palazzi sono troppo alti…
«Le altezze sono quelle che troviamo in questa parte di Roma. I metri quadri sono quelli richiesti e non sono incoerenti. Cassa Depositi e Prestiti, dopo aver visto i disegni, ci ha pure chiesto se li avevamo messi tutti, perché il progetto mantiene una certa leggerezza: abbiamo aumentato gli spazi pubblici, oltre ad aver accolto l’atlante botanico suggerito dalla cittadinanza e conservato alcuni segni e la memoria di quel che c’era prima. Piuttosto, vorrei avere rassicurazioni sul fatto che il piano verrà rispettato».
C’è già chi sostiene che la Città della Scienza non verrà mai realizzata. Per assenza di soldi, di volontà politica, di utilità…
«Nella nostra relazione noi abbiamo scritto “Città della Scienza o un’attrezzatura metropolitana analoga…”. A Roma non si sente la necessità pressante di costruire una Città della Scienza. Magari sarebbe più utile uno spazio che completi il Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo. Credo che alla fine saranno lo spazio, la galleria esistente e le grandi luci libere a generare ipotesi per una loro funzione e utilità. Succede spesso. Quel che eviterei, e che invece è previsto, è la costruzione di un grande parcheggio sotterraneo».

Non potrebbe essere utile? In una città come Roma…
«A Roma, come in tutta Italia, dovremmo ripensare i trasporti pubblici: far funzionare l’Alta velocità, riutilizzare alcune tratte su rotaia dismesse».

Lei è Pro Tav o No Tav?
«Uso l’Alta velocità, ma non amo questo tipo di domande. E non ho una conoscenza adeguata della situazione per parlarne».

Expottimista o Exposcettica?
«Le cose sono più complicate. Expo2015 è stata costruita in un’area che, a differenza di altre zone disponibili della città, come Rogoredo, non era urbanizzata. Così si sono costruiti svincoli, strade e infrastrutture che hanno frammentato ancora di più il territorio. Un errore grande. Puro spirito speculativo. Chi ci va dice: “Carino”. E sì, si è risvegliato qualche interesse nei confronti della città. Ma la qualità degli spazi è quella che è. Ed è imperdonabile aver sacrificato tutto quel terreno agricolo lombardo».

Lei è nata lombarda, ma è cresciuta a Firenze.
«Sono di Sondrio. Mio padre è stato un piccolo imprenditore della pietra con un forte spirito artistico. Sono arrivata a Firenze negli anni Settanta. Da adolescente. I miei genitori, anche per tenermi al riparo dai venti della contestazione, mi misero nel Collegio di Poggio Imperiale, quello dove era stata Maria José…».

… l’ultima regina d’Italia…
«Esatto. Vestivamo con abiti ottocenteschi. Eravamo tagliate fuori dal mondo. È stata un’esperienza molto formativa, da cui sono uscita con una certa robustezza psicologica».

E con la voglia di fare l’urbanista?
«No, amavo disegnare. Il disegno è uno strumento di costruzione del pensiero. Mi iscrissi ad Architettura. Leggendo gli editoriali di Bernardo Secchi sulla rivista Casabella, cominciai ad appassionarmi all’Urbanistica. Conobbi lo stesso Secchi lavorando a un progetto nella periferia di Prato».

I primi lavori…
«Secchi chiedeva ai suoi collaboratori di stare sul campo e di fare i rilievi. Si trattava di camminare ore e ore per capire gli spazi di una città o di un quartiere. Un esercizio lento, durante il quale ci si immerge nelle realtà sociali e si educa lo sguardo a capire la densità dello spazio su cui si deve intervenire. Nel 1990 decidemmo di fondare insieme uno studio. Per 24 anni abbiamo cambiato nome ogni anno. Ora si chiama Studio 015».
A cena col nemico?
«Con Nicolas Sarkozy. Criticabile come politico di destra, ma ha lanciato lo studio su “La grande Parigi”. I successivi governi di sinistra non hanno sostenuto il progetto con lo stesso impegno».

Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Iniziare a lavorare con Secchi. Quando mi sono laureata non pensavo che avrei fatto l’urbanista. La vocazione è cresciuta discutendo con lo stesso Secchi le teorie di Giuseppe Samonà sull’unione tra architettura e urbanistica».

Che cosa guarda in tv?
«Ne guardo poca. La Bbc e qualche fiction terribile per scaricare la testa dai pensieri».

Il film preferito?
«Tra i recenti… Mommy del canadese Xavier Dolan».

La canzone?
«Canzone? Ascolto molta musica barocca».

Il libro?
«Ho appena fatto un’immersione nei romanzi del Nobel francese Patrick Modiano».

Lei non è su Twitter.
«Perché non mi piace quest’idea di comunicazione totale».

Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro o poco più».

Conosce i confini di Israele?
«Ci sono stata recentemente. Ho trovato scioccante che i miei colleghi architetti e urbanisti a tavola parlassero amabilmente di armi».

L’articolo 9 della Costituzione?
«Non lo ricordo in questo momento, mi aiuti».

Dice che la Repubblica sviluppa la cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
«È chiaro che ciò non accade. E quindi c’è molto lavoro da fare».

nota

A differenza del solito il titolo è nostro. Non abbiamo trovato a Venezia il settimanale Sette.

Una riflessione ampiamente argomentata sulla situazione di degrado strisciante di uno dei centri storici più importanti al mondo: biglietto da visita di una città al tracollo. (m.p.g.)

Lo sterminatopatrimonio storico-artistico di Roma rimane largamente sconosciuto airomani stessi e ai milioni di turisti convogliati, questi ultimi, daitour operator e dalla mitizzazione di taluni totem unicamente su dueo tre musei o siti durante soggiorni più brevi del passato (neppure2 giorni e mezzo di media):Colosseo e Fori sonoormai oltre i 6 milioni e mezzo di visitatori, con introiti che, dasoli, costituiscono un terzo dell’incasso totale dei musei stataliitaliani, nonostante una quota di esenzioni abbastanza elevata.I Musei Vaticanirisultano al 4° posto in Europa con oltre 5 milioni e mezzo divisitatori e con incassi molto considerevoli (oltre 91 milioni dieuro nel 2011) dal momento che gli esenti non superano il 5 %.Piuttostofrequentato anche Castel Sant’Angelo (statale) con oltre 1 milionedi visitatori nel 2014.

A grandissimadistanza tutti gli altri Musei romani, statali e civici, anche per ledimensioni dei “contenitori” storici. La Galleria Borghesetotalizza 509.000 ingressi. Il vasto complesso archeologico di OstiaAntica registra 333.000 visitatori. Il circuito del Museo NazionaleRomano (Collegio Massimo, Palazzo Altemps, Terme di Diocleziano,Crypta Balbi) supera di poco i 300.000 ingressi complessivi, mentreil circuito Terme di Caracalla, Cecilia Metella e Villa dei Quintilisull’Appia supera di poco i 266.000 ingressi.

Sul versante deiMusei Civici le cifre non cambiano molto pur registrando nel 2014incrementi sensibili: i Capitolini hanno accolto 471.000 visitatori,l’Ara Pacis 308.000, il MACRO quasi 139.000 (+92,32 % sul 2013).Molto forti gli incrementi negli ingressi - resi tutti gratuiti dal27 agosto 2014 (e il dato dovrebbe far riflettere) - registrati nei 7“piccoli Musei”: dalla Villa di Massenzio al Museo delle Mura, aquello della Repubblica Romana 1849, al Canonica, al Napoleonico, alBarracco, fra 30 e 40 % con punte maggiori.

Il grosso comunquedella fiumana del turismo di massa o Turisdotto viene incanalato suidue obiettivi Colosseo/Fori e Vaticani i quali segnano rispetto alleseconde file (a parte il fenomeno di Castel Sant’Angelo) un numerodi visitatori mediamente superiore di venti volte per i primi e didodici volte per i secondi.

E non ho citato -perché sono fuori dalle stesse seconde file - collezioni strepitosecome quelle dell’appena finito di restaurare del gigantesco PalazzoBarberini o come le altre della Galleria Corsini o della mirabileDoria Pamphili.

Alcuni tentativisono stati messi in opera, a cominciare dal biglietto unico per unaserie di siti e musei statali e però ci vogliono altre idee e altrimezzi. Si continua a parlare di decentramento, anche nella Provinciadi Roma ricchissima di siti, monumenti e centri storici, ma senzamuovere un passo. Ma soprattutto bisogna investire saggiamente inuna didattica museale che risulta invece carentissima in Italia e aRoma, la quale investa anzitutto giovani e giovanissimi attraendolicoi nuovi mezzi che la tecnologia largamente consente. Penso,adesempio, alle periferie romane dove si stanno scoprendo complessiformidabili da Tor Tre Teste a Osteria dell’Osa o del Curato e cheridarebbero “radici” ad abitanti privi di centri e di riferimenticulturali che non siano un nuovo Centro commerciale. Didattica cheinvece, a livello ministeriale, è stata abbandonata e poidisattivata seppellendola nella marmellata indistinta della“valorizzazione”. Fin dai tempi del memorabile duo BondiSandro/Resca Mario e dei Resca Boys.

Ma con le scelteministeriali attuali - a parte il taglio netto del rapporto fra Museoe Territorio che produrrà soltanto disastri - puntano su una sortadi turbo-cultura mirante a “spettacolarizzare” l’arte e inprimo luogo l’archeologia romana. Per esempio coi 20 milioni dieuro da impegnare nella ricostruzione dell’Arena Colosseo nelmomento in cui, se si volesse, quello stesso monumento richiedeinterventi di restauro (ben al di là degli attuali) ai “pianialti” dell’Anfiteatro. Venti milioni per ricreare l’Arena deigladiatori, magari divelta dalla prima forte alluvione (l’ultimadel 2010 portò l’acqua al primo piano del Colosseo). Chepotrebbero magnificamente servire per l’Appia Antica al 90 %privata, flagellata da ogni sorta di abusi e dove, nonostante ciò,la Direzione archeologica sta miracolosamente realizzando recupericome quelli di Capo di Bove e di Santa Maria Nova.

Ma siccomel’appetito vien mangiando, v’è chi prospetta (Marco Magnificodel FAI) “tornei e spettacoli anche al Circo di Massenzio”. Comenon bastassero i Ludi per il Natale di Roma o centurioni e matronesparsi fra Colosseo e Pantheon. E i Rolling Stones al Circo Massimo.Dove l’assessore comunale Catoi vorrebbe far svolgere in parte iGiochi Olimpici del 2024… La turbo-cultura è sospinta dall’ideaprovinciale e sbagliata che i musei e i siti archeologici possanoessere “macchina da soldi”, ignorando che i più grandi musei delmondo o sono gratuiti (quelli londinesi e gli altri di Fondazioniamericane) o richiedono denaro pubblico (altro che fruttare soldi)per sanare, come le Grand Louvre, un deficit annuale che viaggia sul50 %. E mentre si ipotizzano e si confermano questi strepitosiinvestimenti nell’Arena Colosseo, si lascia il bel teatro romano diOstia Antica, statale, a stagioni decisamente modeste, ben piùmodeste di quelle di un tempo quando vi operavano i miglioricomplessi e attori italiani.

Ma Roma è tuttaPatrimonio e Museo. Lo sono le basiliche e le chiese, per la piùparte, fra l’altro, di proprietà dello Stato e quindi affidatealle cure del FEC (Fondo Edifici di Culto): una settantina a Roma,fra esse SS Apostoli, Sant’Andrea della Valle, Aracoeli, ChiesaNuova, Santa Maria del Popolo, Santa Maria sopra Minerva,Sant’Ignazio e Caravita, Sant’Andrea al Quirinale e Chiesa delGesù, e tante altre pregevolissime. Tutte contenenti autenticitesori, in pale d’altare, statue, monumenti funebri, cicli diaffreschi, ecc. Renderle più visitabili anche al costo di un modestoticket come si fa da anni a Ravenna e a Verona non sarebbe, credo,una operazione scorretta. Certo è incredibile che per visitare SantaMaria della Pace, gioiello fra Rinascimento e Barocco, con le Sibilledi Raffaello, ci siano appena tre mattine a settimana e per pocheore…

Ma qui vengono ledolenti, dolentissime note riguardanti il centro storico e lapolitica seguita in questi decenni per esso. Il degrado ha raggiuntocon la gestione Alemanno abissi inimmaginabili anche dai piùpessimisti. Dai quali risalire per rientrare almeno nelle regole nonè semplice. Anche perché i decreti Bersani hanno a suo tempoconsentito, anche nei centri storici, licenze plurime ad un sologestore, hanno trasformato dei buoni forni in pizzerie notturne ecomunque agevolato - in una città dove l’abusivismo, anche quellocommerciale, ha tradizioni secolari - la moltiplicazione nella cittàturistica di locali e localetti.

Secondo una attentae combattiva consigliera verde del I° Municipio, Nathalie Naim,questi locali, per lo più abusivi e spesso effimeri, sono passatinegli ultimi anni da 1400 a più di 4000, sfrattando negozi storici odecisamente qualificati, resi indifendibili dalla carenza di leggi eregolamenti, autentici laboratori artigiani, antiquari, restauratori,ecc. Una mutazione in peggio, un imbarbarimento senza fine, unpeggioramento rovinoso del decoro urbano. Mentre sono proliferatiovunque Bed & Breakfast, per lo più senza licenza. Nei giorniscorsi i consigli del I , II e XV Municipio hanno votato un ordinedel giorno col quale si chiede di fermare il flusso delle licenze diquesto tipo, ma dall’assessorato viene l’obiezioni, decisamenteambigua, che bisogna però selezionare le “iniziative di qualità”.Vedremo.

Il processo appenadescritto è incoraggiato da una proprietà edilizia quanto mai miopeche continua ad espellere, oltre ai residenti meno provvisti direddito, commercianti ed esercenti qualificati con affitti sempre piùalti (nonostante la crisi) chiudendo gli occhi sui requisiti, anchelegali, dei subentranti. Un processo incoraggiato dalla continuaemorragia di residenti del centro storico, una fuga dovuta alcaro-affitti, al caos delle licenze commerciali, alla rumorositàassordante, fino all’alba, nei luoghi della movida (in testa Campode’ Fiori). Inutilmente, da decenni, gli attivi comitati di difesadel centro storico si battono contro il suo degrado, contro leinfiltrazioni malavitose (le prime davvero diffuse e radicate) nelcommercio e nei pubblici esercizi, contro l’espulsione dei ceti piùdeboli. L’atteggiamento delle varie amministrazioni comunali neiconfronti di questo problema è stato positivo soltanto con legiunte, ormai lontane, Argan e Petroselli, assessore VittoriaCalzolari Ghio, quando si sono realizzati o completati alcunirecuperi sul modello Bologna (Tor di Nona, partito molti anni prima,e San Paolo alla Regola) . Poi, già con Carlo Aymonino, il vento ènettamente cambiato.

I residenti sonostati considerati, talora con fastidio, come dei “privilegiati”,come se fossero tutti ricchi borghesi e non i custodi più veri elontani della città antica, i tutori di quel controllo sociale chenessuna polizia può di per sé assicurare. In un commento al miopost su Huffington Post un lettore ha definito gli abitanti dellacittà antica “borghesi tronfi e sbracati”…Certo il periododella Giunta Alemanno è quello in cui la situazione, anche perquesto fondamentale problema, è precipitata.

L’attualeamministrazione ha tenuto sostanzialmente un atteggiamento bifronte. Da una parte infattiha compiuto, soprattutto nell’area di piazza Navona e del RionePonte, un intervento anche deciso di ripristino della legalità, dieliminazione dei tanti abusivi, di riduzione delle occupazioni disuolo pubblico in molti casi oscene e offensive. Fatto meritorio. Cheperò non è durata che pochi mesi e che non ha generato una politicapianificata di ripristino della legalità e del decoro urbano. Néuna più generale riflessione su di un centro storico che rischia disoffocare e di morire per un “eccesso di funzioni”: Citypolitica, sede di Ministeri (se n’era andato soltanto quello delleFinanze all’EUR ed è tornato, in Trastevere) e di ambasciate, anzidoppie ambasciate, nonché di grandi banche, assicurazioni, ecc.,centro commerciale ancora molto attivo anche con atelier, quindi conun flusso assai forte di ingressi da parte di centinaia di migliaiadi pendolari quotidiani, con un traffico privato mai incisivamenteridotto (basta vedere come sono ridotte le corsie preferenziali) econ mezzi pubblici scarsi e antiquati. Il tutto aggravatodall’invasione massiccia dei bus turistici lasciati parcheggiareovunque, anche a finco del Vittoriano o dentro Villa Borghese (latoFlaminio) coi vandalismi che sappiamo degli hooligans olandesientrati fin là coi loro mezzi. La convivenza nel centro storico frapresenze residenziali, attività lavorative, turismo di massa sipresenta, in assenza di limiti e di regole, quasi impraticabile.Bisogna considerare che il turismo “ufficiale” a Roma ha contatomrl 2014 fra esercizi alberghieri ed esercizi detti “complementari”,fra i quali non rientrano le case religiose di ospitalità né tantiB&B, ben 16,4 milioni di arrivi (+ 5,83 % sull’anno precedente)e quasi 39 milioni di presenze (+ 4,83 %).

Dall’altro latosoprattutto l’assessore alla Mobilità Guido Improta, oradimissionario e da noi tutt’altro che rimpianto, ha esaltato il“divertimentificio” romano con misure - ripetutamente bocciate intutte le sedi amministrative di garanzia - che penalizzavano iresidenti, a partire dalla decuplicazione del costi dei permessi perla ZTL considerando (non si sa con quali dati scientifici) che ilcaos permanente del traffico romano sia da imputare agli 80-85.000residenti della città storica, di età media piuttosto alta, iquali, in verità, girano a piedi, se possono in bicicletta o inmotorino, e in autobus (per le percorrenze più lunghe in taxi,raramente con l’auto propria). Improta prefigurava una cittàstorica finalmente priva di residenti stabili, “un acquario perturisti” come l’ha giustamente definito Francesco Rutelli in unaintervista molto critica opponendosi a quella surreale, agghiaccianteprospettiva. Una Roma predisposta con tali politiche a diventareessenzialmente “una infrastruttura per il turismo di massa” sulquale lucrare profitti. O meglio rendite. Puntando sulla quantità eignorando ormai la qualità. Il tutto esaltato - problema deiproblemi - dalla cronica, pluriennale latitanza delle forzedell’ordine e in specie della Polizia Municipale.

C’è una immagineemblematica di questa Roma che ho diffuso in giro per l’Italia eche vorrei richiamare: il Pantheon, e dico poco, assediato dopomezzogiorno dai furgoni che trasportano acque minerali, mozzarelle,surgelati precotti o precucinati. In tutte le città del mondo irifornimenti nelle zone centrali vanno dall’alba alle 9, massimo 10del mattino. A Roma dovrebbero cessare, appunto, alle 10. Un’altrabeffa al buon senso, alla legalità, ad una convivenza ordinata ecivile.

Dati MiBACT 2014

Circuitoarcheologico Colosseo Foro Romano ePalatino: visitatori 6.181.702 introiti lordi 41.440.839Musei Vaticani: visitatori 5.459.000 introiti lordi 93.000.000

La grande differenza di introiti è determinata da un ticket decisamente più elevato per i Musei Vaticani e da “pacchetti” che consentono visite guidate o selettive assai costose. Inoltre le esenzioni nei Musei statali italiani sono ancora elevate, mentre nei Musei Vaticani non superano il 5 % del totale degli ingressi.

«Gli 11 chilometri del litorale romano soffocano tra stabilimenti e strutture fuorilegge, inclusi i parcheggi di Esercito e Finanza. Ma l’assessore alla legalità della capitale, l’ex pm Sabella, annuncia il via libera all’iter per revocare le licenze». La Repubblica, 18 gennaio 2015

È il corpo di reato più lungo di Roma, 11 chilometri e 300 metri. Fatto di cemento, a tratti è decorato da un filo spinato come le torrette delle prigioni. Dietro il grande muro di Ostia c’è un mare che non si vede mai.

È sempre troppo alto o sempre troppo grosso, impasto di calcestruzzo e malaffare, questo recinto senza fine l’hanno tirato su corrompendo e calpestando leggi, decreti, normative, codici, regolamenti. Un muro che è diventato deposito di illeciti accumulati nel tempo con il silenzio complice di giunte, vigili urbani, presidenti e consiglieri municipali, uffici tecnici e giudiziari. Sono abusivi perfino i parcheggi di Esercito e Finanza. Abusiva è la Caritas nell’ex colonia fascista per bambini Vittorio Emanuele, abusiva è la moschea, i chioschi, la grande libreria al Pontile della Vittoria, abusive sono birrerie e paninerie, palestre e scuole di danza. Tutto sprofonda sul mare e nel mare di Ostia. E tutto è appuntato e protocollato nelle carte del Comune di Roma.

Eccolo il grande muro circondato da quella che è una città nella città, un bastione che ci ricorda con le sue vedette sul territorio e le sue sanguisughe la Brancaccio palermitana degli anni ’80, con i suoi roghi la Gela degli anni ‘90, con la sua paura certi paesi della Calabria di oggi. Ma Ostia è solo Ostia, costola di Roma Capitale e di Mafia Capitale, sfregiata e sottomessa ai padroni del lungomare che l’hanno fatta brutta. Per non far bere l’acqua dalle fontanelle qualcuno le ha interrate, così la minerale si compra per forza nei loro bar. Undici chilometri e 300 metri e il mare lo devi sempre immaginare, c’è ma è oltre quella case e quei casotti a volte colorati e a volte grigi, incastrati uno all’altro che sottraggono alla vista sale da gioco e cabine trasformate in mini residence (antenne satellitari e condizionatori e bombole di gas nei box de Le Dune per cambiarsi un costume?), gabbie di ferro, cubi, lussi e volgarità architettoniche che si mischiano, 11 chilometri e 300 metri dove a ogni passo si inseguono sempre gli stessi nomi. Quelli dei Fasciani, degli Spada, dei Triassi, usura e ricatti, droga e delitti. E quelli dei Balini e dei Papagni, gli affaristi più presentabili, porto e lidi, appalti e poltiglia politica.

Ostia di Levante e Ostia di Ponente, 100 mila abitanti che diventano mezzo milione quando è estate, un lungomare che comincia alla rotonda e finisce dove - sempre chiuso con catene – c’è il cancello del parco che ricorda il luogo dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Ecco il Kursaal con il suo famoso trampolino, l’Hibiscus Beach, poi gli storici stabilimenti come il Battistini e poi ancora l’Hakuna Matata affidato in gestione dal presidente del porto Mauro Balini a Cleto Di Maria, uno che vent’anni fa l’hanno preso in Brasile con un carico di stupefacenti. Ecco il chiosco delle suore di Vito Triassi, il Village che era dei Fasciani, un po’ più indietro l’Orsa Maggiore dove erano soci gli Spada. Sono 71 gli stabilimenti, uno per uno censiti in queste settimane dall’assessore alla legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella, voluto dal sindaco Ignazio Marino commissario ad Ostia dopo i primi scandali. Il quartiere generale di Sabella, magistrato del pool antimafia di Palermo con una spiccata attitudine nella caccia ai latitanti, è in una delegazione sulla strada verso la tenuta presidenziale di Castelporziano che ha una sigla apparentemente incomprensibile (Uoal, Unità organizzativa ambiente litorale) dietro la quale sono nascosti gli interessi più indicibili di Ostia. L’anno scorso, a ottobre, qualcuno ha dato fuoco ai locali per ridurre in cenere i documenti che registrano ufficialmente gli imbrogli. Sabella quei documenti li ha recuperati, fotocopiati e inviati a una ventina di destinatari. La prudenza non è mai troppa. Dice: «Ormai solo Nerone, incendiando tutta Roma, potrebbe farli sparire».

L’assessore Sabella ha sguinzagliato in giro tecnici di fiducia e adesso ogni stabilimento ha una sua scheda con foto, planimetrie e varie voci. Visuale dal mare possibile: no. Percentuale mare visibile: 0 per cento, 1 per cento, 0 per cento. Filo spinato: si. Rete metallica: si. In queste schede c’è l’annuncio di un terremoto. Sabella sta per avviare un procedimento di revoca delle concessioni per tutti quegli stabilimenti che risulteranno fuorilegge. L’avvio del procedimento vuol dire che, se le cose andranno avanti, sul lungomare prima o poi arriveranno le ruspe. «Voglio sterilizzare Ostia», racconta lui mentre ogni giorno trasmette atti a Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Ilaria Calò, i procuratori che per primi con Renato Cortese della polizia e Stefano Russo del Ros dei carabinieri hanno indagato sulle devastazioni criminali di Ostia. Sembra passato un secolo da quando – meno di due mesi fa – il presidente del X Municipio Andrea Tassone si è dimesso ed è sparito come un fantasma. Prima di lui era finito in carcere il direttore dell’ufficio tecnico Aldo Papalini. Da quando si è insediato Sabella è finita anche la pace di Ostia. Soprattutto in quell’ufficio dove volevano bruciare tutto. L’assessore lavora con tre dirigenti, tre donne. Sono state tutte e tre minacciate, una dopo l’altra. La prima ha subito tre intimidazioni, la seconda ha trovato l’auto con i finestrini in frantumi, la terza – è avvenuto giovedì scorso - hanno tentato di violentarla.

Lungomare Amerigo Vespucci, lungomare Lutazio Catulo, lungomare Duilio, di fronte a Le Dune di Paolo Papagni c’è quel capolavoro che è il Polo Natatorio costruito per i Mondiali di Nuoto del 2009, progettista Renato Papagni, fratello di Paolo e presidente di Federbalneari. È un altro ammasso di cemento costato tre volte in più di quanto doveva costare (13 milioni di euro), le piscine sono 5 cm in meno di quelle regolamentari. Possono fare tutto certi personaggi qui ad Ostia. I Papagni e poi quegli altri come Mauro Balini, uno immerso – testuale dall’ordinanza di custodia cautelare di una delle tante operazioni antimafia ad Ostia, «in un ambiente economico finanziario inquietante ». Balini tratta con i signorotti locali e con colossi come le coop rosse. Un piede di qua e uno di là, commercio clandestino e buone entrature per gli affari che contano.

Nella città della città dove il mare non si vede mai ci spingiamo fino nel regno degli Spada, piazza Gasparri, via Forni, via degli Ebridi. Intorno tappezzerie e bische che passano di mano in mano, la comparsa di un certo Armandino che alza le corna per comandare, il traffico di compravendita di case popolari curato da Salvatore I, gli Spada «cucinati » che insultano via Facebook, la ciurma che inneggia sempre ai «miti» vivi o morti di questa Ostia lercia, nomi di battaglia «Baficchio» e «Cappottone », «Maciste», «Sorcanera». E voci che si accavallano. Come quelle su alcuni funzionari dell’ufficio tecnico – ce le racconta uno del ramo molto informato – che hanno un tariffario estorsivo: 300 euro per un inizio lavori per un tramezzo, 1000 euro per sanare una veranda, 10-15 mila euro per avere la licenza di costruzione di una villetta. Il muro di Ostia non finisce mai.

Un titolo a effetto, ma una realtà inquietante. «Il dossier-choc di Barca dopo il commissariamento: “Deformazioni clientelari, i circoli lavorano solo per gli eletti” “Molti militanti subiscono senza reagire le scorribande dei capibastone”. Orfini: purtroppo questa è la verità». Roma è piena di lupetti. La Repubblica, 19 marzo 2015

Un partito «non solo cattivo, ma pericoloso e dannoso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini». Un partito che, anche quando funziona, «subisce inane lo scontro correntizio e le scorribande dei capibastone». È impietosa la fotografia che Fabrizio Barca ha scattato al Pd Roma, spedito nei circoli dal commissario Matteo Orfini dopo l’esplosione dell’inchiesta Mafia Capitale.

In fondo a tre mesi trascorsi a battere palmo a palmo le sezioni e a intervistare dirigenti e militanti, il gruppo di lavoro guidato dall’ex ministro ha raccontato la vita di una comunità spappolata che non chiede altro che di essere ricostruita. Secondo Barca, «nel Pd si vanno delineando, a un estremo, i tratti di un partito pericoloso e dannoso: dove non c'è trasparenza e neppure attività» e «dove traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di carne da cannone da tesseramento». Circoli che cioè lavorano solo «per gli eletti », per creare filiere e creare consenso per il singolo candidato. Da distinguere, tuttavia, «dal partito che subisce inane le scorribande dei capibastone, senza alcuna capacità di raggruppare e rappresentare la società del proprio quartiere». Un gruppo , quest’ultimo, che Dante avrebbe ben inserito fra gli ignavi.

All’estremo opposto si trovano, invece, «i segni di un partito davvero buono, che esprime progettualità, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione, informando cittadini, iscritti e simpatizzanti». Nel mezzo, in una specie di limbo, giace infine «una sorta di partito dormiente dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell'autorefenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all'innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio». Impermeabile e sordo, attento soprattutto ai propri interessi. Una degenerazione da imputare, anche, a un «uso pletorico degli organi assembleari », spesso individuati come panacea di tutti i mali, unico luogo dove discutere e ottenere risposte. Chiaro il messaggio lanciato da Barca: la Ditta non va difesa a prescindere, ma solo se e laddove funziona. Senza tabù.

Uno sforzo di chiarezza che ha gettato nel panico molti eletti dem. Al quali Orfini non intende offrire alcuna sponda: «Barca dice la verità, se non fosse stato così il Pd Roma non sarebbe stato commissariato».

Riferimenti

Il "rapporto intermedio" si puó leggere nel blog di Fabrizio Barca
Il testo della conferenza organizzata dall'Associazione Bianchi Bandinelli in cui uno dei protagonisti del "Progetto Fori" ribadisce alcuni punti essenziali, a partire dall'opportunità della demolizione di via dei Fori Imperiali. 9 marzo 2015 (m.p.g.) ​
In ricordo di Italo Insolera Dopo anni di silenzio e disinteresse politico sulla questione urbanistica dei Fori imperiali, ossia sul disegno futuro e l’immagine della città di Roma, il Sindaco Ignazio Marino ha proposto il tema di un uso diverso di quell’area, più rispettoso dei principali monumenti antichi, con forti limitazioni del traffico automobilistico sulla strada che attraversa l’area monumentale. Il Sindaco ha inoltre promosso l’istituzione di una Commissione di esperti designati dal Ministero dei beni culturali e dalla Città di Roma con il compito di elaborare uno studio per un piano strategico di sistemazione e sviluppo dell’area archeologica centrale di Roma.

La Commissione, presieduta dal Prof. Giuliano Volpe e composta di studiosi stranieri, il Prof. Michel Gras, l’architetta Jane Thompson, e italiani, la Prof. Laura Ricci, la Prof. Tiziana Ferrante, il Prof. Eugenio La Rocca, il Prof. Claudio Strinati e da me stesso, con la partecipazione del Prof. Claudio Parisi Presicce, della Dr. Federica Galloni, della Dr. Mariarosaria Barbera e dell’Arch. Agostino Burreca, è stata istituita il 1 agosto 2014 ed ha terminato i lavori il successivo 30 dicembre. La relazione finale della Commissione, resa pubblica, propone una serie di interventi intesi a migliorare le condizioni della zona monumentale antica; alcuni sono fattibili in tempi brevi e con poca spesa, altri sono di natura più complessa e collegati con la realizzazione di opere pubbliche, in particolare della linea C della metropolitana; tra questi il grande centro di servizio previsto fin dal 1988 sotto il livello stradale della via dei Fori imperiali tra il Colosseo e il Largo Corrado Ricci. L’attuazione dell’intero programma darebbe di certo un assetto più decoroso alla parte centrale della città, sollevandola dalle condizioni di decadimento e migliorando lo stato di molti monumenti. Tuttavia, nell’ampio panorama dei problemi esaminati la sistemazione dei Fori imperiali, obiettivo per il quale era scaturita la necessità di istituire la Commissione stessa, non ha ricevuto un’attenzione pari alla sua importanza. Non esiterei a definirne la trattazione del tutto deludente: non vi sono stati approfondimenti sugli aspetti già studiati né proposte innovative di alcun genere, ancorché dichiarate auspicabili. La posizione assunta, non del tutto unanimemente ma quasi, è stata quella di “non abbandonare la prospettiva di una soluzione innovativa che porti alla sostituzione dell’attuale via, mantenendone il tracciato e la funzione, e alla ricomposizione del contesto archeologico”. A questo, cioè alla ricomposizione del contesto archeologico, si potrebbe arrivare secondo la Commissione con un viadotto carrabile e pedonale che consentirebbe di riunificare le parti dei diversi Fori oggi frammentarie e rese incomprensibili dalla presenza della strada; al tempo stesso il viadotto consentirebbe “la conservazione del ‘segno’ costituito dall’asse della via dei fori imperiali”.

In questo modo non si è neanche tentato di aprire la strada a soluzioni nuove, non osando rinunciare né alla riunificazione dei complessi monumentali ora disarticolati, né al mantenimento della via dei Fori imperiali, concepita come un “segno” storico da perpetuare tramite un suo simulacro con la carreggiata sostenuta da esili pilastri. La scelta di conservare il “segno” della strada senza concrete motivazioni di ordine urbanistico appare legata a forme di malinteso storicismo. La proposta di un ponte, o viadotto, che possa scavalcare i Fori imperiali completamente scavati per mantenere il collegamento stradale tra piazza Venezia e il Colosseo era stata formulata da Pierluigi Romeo nel 1979, e fu ripresa con il progetto di Massimiliano Fuksas nel 2004, e poi nuovamente in forma più elaborata da Raffaele Panella nel 2013. Questa soluzione costituisce un indubbio progresso rispetto allo stato delle cose perché consente il completamento delle esplorazioni e la riunificazione delle aree scavate; la costruzione del viadotto sarebbe però del tutto inutile, come vedremo. Inoltre, si manterrebbe così la separazione tra il livello d’uso attuale, cittadino, e quello archeologico destinato al turismo. Esistono però anche altri modi più semplici e meno costosi per ottenere gli stessi risultati.

Dopo le demolizioni dell’intero quartiere che aveva occupato l’area dei Fori imperiali, avviate nel 1929 secondo i progetti di Corrado Ricci ad est della via Alessandrina ed estese tra il 1931 e il 1933 a tutti i restanti spazi, si giunse in pochi anni a una definitiva sistemazione con soluzioni provvisorie ma opportune, perché servirono a sventare programmi di edificazione in parte già avviati e per fortuna subito sospesi. Il vuoto creato tra le rovine suscitava aspirazioni edificatorie e vanità architettoniche: persino Le Corbusier si era proposto con il progetto di una costruzione tra la Basilica di Massenzio e il Colosseo. È evidente che vi fosse fin da allora, tra chi aveva promosso, attuato e seguito il programma di abbattimento degli edifici e di sfondamento della Velia, la previsione o almeno l’aspirazione di un ampliamento degli scavi nei vasti spazi rimasti liberi a ridosso della nuova via dell’Impero e sistemati con aiuole. Vi sono molti indizi di questa previsione; ne ricordo solo uno, evidentissimo: il muraglione di sostegno della via Alessandrina costruito dopo le demolizioni di Corrado Ricci è predisposto con una serie di arcate che dopo un successivo scavo del Foro di Traiano avrebbero consentito di collegare l’area della piazza con l’emiciclo orientale. L’intento fu tuttavia vanificato prima dal prevalere delle esigenze di rappresentazione retorica del regime, che imponevano una decorosa e immediata ricomposizione degli spazi liberati dalle costruzioni, e poi per il sopravvenire della guerra. Quello stato di cose, tra Piazza Venezia e il Colosseo, si mantenne quindi immutato e indiscusso per circa quarant’anni. Se però l’assetto di quell’area non aveva subito mutamenti, la città si era trasformata radicalmente: l’espansione edilizia nel suburbio, avvenuta nelle forme e governata nei modi descritti da Italo Insolera nella sua storia urbanistica di Roma moderna (1962), aveva modificato l’equilibrio tra il centro urbano e le periferie; la legge urbanistica del 1967 (la cosiddetta ‘legge ponte’), aveva tutelato i quartieri del centro storico ma, influendo sui valori immobiliari, ne aveva accentuato il distacco da quelli periferici; il traffico automobilistico, divenuto insostenibile, ostacolava l’agibilità degli spazi pubblici e la percezione degli aspetti storico-artistici del paesaggio urbano e, soprattutto, creava un inquinamento atmosferico assai nocivo per la conservazione dei monumenti antichi.

Credo che sia utile ricordare le ragioni che agli inizi degli anni Ottanta condussero alla proposta di un assetto diverso dei Fori imperiali. Se alcuni dei motivi che allora imponevano urgenti cambiamenti sono superati, altri persistono e nel frattempo ne sono sorti di nuovi ancora. Tutto scaturì da una pressante esigenza di conservazione del patrimonio esistente: infatti, la maggiore concentrazione di monumenti marmorei di Roma, nell’area archeologica centrale, era esposta al danneggiamento e al rapido decadimento derivanti dall’elevato grado di inquinamento atmosferico.. La previsione, sensata e in parte gradualmente attuata, di ridurre e poi di eliminare il transito dei veicoli a motore dalla via dei Fori imperiali, privandola così della sua primaria funzione urbana, metteva seriamente in dubbio la necessità di mantenere la sistemazione degli anni Trenta. Si apriva in tal modo per la prima volta la prospettiva concreta dell’esplorazione e del recupero quasi integrale delle grandi piazze antiche in un complesso unitario che dal Foro romano e dal Palatino si potesse estendere fino al Circo Massimo, al Colosseo e ai Mercati di Traiano. Il programma di uno scavo che avrebbe dovuto eliminare la via dei Fori imperiali fu presentato dalla Soprintendenza con una mostra tenuta nella Curia dei Senato al Foro romano nel 1981. Prese poi forma il progetto urbanistico predisposto su incarico della Soprintendenza da Leonardo Benevolo con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Ferdinando Castagnoli, Ippolito Pizzetti, Claudio Podestà, Guglielmo Zambrini; il lavoro, che resta un’elaborazione concettuale fondamentale per la questione dei Fori imperiali, è stato pubblicato nel 1985: Roma. Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale (1985). Un secondo livello di progettazione, ancora a cura di Leonardo Benevolo e Francesco Scoppola con Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Massimo De Vico Fallani, Sergio Giovanale, Carlo Pavolini, Claudio Podestà, Lucio Quaglia, Alessandro Quarra, comparve nel 1988: Roma. L’area archeologica centrale e la città moderna.

La discussione che scaturì da queste proposte fin dal 1981 fu però viziata da contrapposizioni politiche e ideali che spostarono il dibattito dagli aspetti programmatici di conservazione monumentale e di rinnovamento urbanistico alle valutazioni di ordine storico sulle trasformazioni subite da Roma durante il regime fascista. In realtà vi erano solo la necessità e, molto pragmaticamente, l’opportunità di far tesoro dei costi sociali già sostenuti. L’abbattimento di un intero comparto urbano densamente abitato e il trasferimento dei residenti, appartenenti ai ceti sociali meno abbienti, in quartieri di periferia apposta edificati comportarono costi elevatissimi. Oggi un intervento così radicale in una parte storica della città, come quello attuato durante il Fascismo, compiutamente descritto da Antonio Cederna nel suo Mussolini urbanista (1979), non sarebbe ammissibile sotto il profilo normativo, etico e culturale, e non sarebbe comunque sostenibile per l’impegno economico necessario; tuttavia la trasformazione è avvenuta e di là da ogni giudizio non vi è che da prenderne atto e considerare lo stato delle cose in previsione della migliore sistemazione dei monumenti antichi e dello sviluppo della città.

La questione del decadimento dei marmi romani aggrediti dall’inquinamento si pose nel 1978 quando, a seguito di alcuni distacchi di superfici scolpite dalla colonna di Marco Aurelio, la Soprintendenza eseguì accertamenti su tutti i monumenti marmorei della città. Presento qui alcune delle immagini che mostrai il 21 aprile del 1979 in una conferenza tenuta in Campidoglio su invito di Giulio Carlo Argan, allora sindaco di Roma. Con quelle ricognizioni si ebbe il modo di costatare, per la prima volta, la gravità dei danni arrecati alle superfici marmoree dalle emissioni degli autoveicoli, specialmente di quelli a combustione di gasolio, e dalle polveri prodotte dall’usura delle ruote di gomma. I monumenti non avevano ricevuto manutenzioni da molto tempo, e quindi recavano i segni di un lungo decadimento. I danni più insidiosi, però, perché attivamente progressivi erano dovuti alla grande accelerazione provocata dalle nuove forme d’inquinamento atmosferico comparse nel corso del Novecento. Per la Colonna Traiana abbiamo i preziosissimi calchi del Museo della Civiltà Romana, realizzati nel 1862 per volontà di Napoleone III, i quali documentano lo stato in cui si trovava il monumento a quell’epoca; l’esecuzione dei calchi aveva infatti comportato un’accurata ripulitura delle superfici. L’inquinamento dovuto alle emissioni degli autoveicoli induceva sulle superfici dei monumenti un processo chimico che trasformava il marmo in gesso e lo esponeva quindi all’erosione del vento e al dilavamento della pioggia. La penetrazione degli agenti inquinanti in profondità provocava inoltre la formazione di croste che si distaccavano facendo perdere ampie porzioni lapidee. La situazione era aggravata dalle emissioni degli impianti di riscaldamento, ancora in parte a carbone ma per lo più a gasolio; gli uni e gli altri influivano sull’inquinamento atmosferico generale della città in maniera massiccia per la diffusione su tutta la grande cintura intensamente edificata della periferia urbana. Fu quindi possibile appurare che l’inquinamento stava provocando danni non solo ai marmi con figurazioni scolpite, come le grandi colonne istoriate di Traiano e di Marco Aurelio, e gli archi di Tito, Settimio Severo, Costantino, ma anche alla ornamentazione architettonica e persino alle superfici non decorate dei monumenti. Di minore entità, ma non irrilevante, si presentavano le alterazioni subite dalle superfici di travertino in monumenti come il Colosseo e il teatro di Marcello. Il danno maggiore consisteva naturalmente nelle perdite irrimediabili arrecate a quei rilievi storici e a quei complessi scultorei che rappresentano le principali manifestazioni dell’arte ufficiale romana. Il decadimento era però del tutto generalizzato e si estendeva ad altri materiali lapidei come il tufo, e richiamo il caso del Tabularium, e metallici, e ricordo la statua equestre di Marco Aurelio. La questione della protezione di questo patrimonio fu sollevata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali nel dicembre del 1978, e suscitò preoccupazione presso l’opinione pubblica internazionale. Per riferire su questo stato di cose fu nominata una Commissione ministeriale per le opere d’arte all’aperto, presieduta da Cesare Gnudi, illustre storico dell’arte e Soprintendente ai beni artistici di Bologna. La Commissione si espresse con una relazione finale nell’aprile del 1980, e gli atti furono pubblicati dal Ministero nel 1981. Nel confermare il grave stato dei monumenti romani, la Commissione sollecitò per la loro conservazione provvedimenti urgenti, straordinari, che in effetti furono adottati in sede legislativa nel 1981, ma raccomandò anche misure di pianificazione territoriale idonee a ridurre le fonti di inquinamento.

Per la riduzione dell’inquinamento dell’atmosfera urbana qualche beneficio si ebbe dopo molto tempo, soprattutto in conseguenza dello sviluppo tecnologico degli impianti di riscaldamento e a seguito della sostituzione del gasolio con il metano. Gli interventi di conservazione eseguiti negli anni Ottanta sono stati temporaneamente risolutivi nel frenare la progressione dei danni, ma non potevano essere di durata illimitata. Ne era stata prevista l’efficacia per almeno vent’anni, dopodiché si sarebbero dovute ripetere le operazioni di manutenzione: sono ora passati trent’anni e non si sono ancora compiute nuove ripuliture dei marmi, con il rischio che riprendano i fenomeni di disgregazione della materia. Infatti, se l’entità dei danni è ora più contenuta, essa non è per nulla eliminata. I monumenti dell’area archeologica centrale, liberati dall’aggressione diretta delle emissioni dei veicoli a motore, soffrono ancora per l’inquinamento generale dell’area urbana; inoltre, uno dei capisaldi per la conoscenza dell’arte romana di età antonina, la colonna di Marco Aurelio, è tuttora molto esposto agli agenti inquinanti. Il peggioramento del suo stato di conservazione è evidente per il progressivo annerimento delle superfici. Periodici controlli, seguiti da accurate manutenzioni, sarebbero comunque necessari anche sugli altri monumenti.

Il decadimento dei monumenti romani, architetture ricoperte di raffigurazioni scolpite nel marmo, costituisce ancora oggi il più grave problema conservativo per il patrimonio artistico italiano. Non esistono altri complessi di opere d’arte così importanti e di tali dimensioni esposti all’aperto e per loro natura non ricoverabili mediante ripari protettivi. La questione è stata però completamente rimossa e non se ne parla più. Le informazioni date dalla stampa lo scorso 3 marzo sulle ricerche compiute dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro sull’attuale incidenza dell’inquinamento a Roma sono troppo sintetiche e quindi fuorvianti. La perdita delle superfici misurata tra i 5,2 e i 5,9 micron riguarda la progressione annua del danno arrecato alla materia marmorea sana esposta all’aperto, e non a superfici scolpite già molto alterate, interessate per di più da profonde lesioni, com’è nel caso dei principali monumenti marmorei antichi di Roma. In tali condizioni gli effetti dell’inquinamento non sono lineari ma discontinui, e provocano estesi e profondi distacchi di particolari scultorei rilevanti, talvolta di intere figure. Questo stato di cose non trova particolare ascolto né suscita preoccupazione. L’attenzione è ora rivolta in maniera quasi esclusiva alla capacità dei beni culturali di rendere un utile economico, e gli interessi della produttività connessi con il turismo prevalgono regolarmente su quelli della cultura e della tutela del patrimonio storico e artistico della nazione, che sono invece compresi tra i principi fondamentali della costituzione italiana. I problemi della protezione e della conservazione di questo patrimonio interessano solo se vi è del clamore a seguito di guasti, anche secondari, com’è avvenuto nel caso dei crolli di murature (per lo più moderne) di Pompei. Il graduale e progressivo disfacimento delle più preziose testimonianze dell’arte romana sembra invece essere un destino ineluttabile non meritevole di attenzione; eppure le operazioni di conservazione non hanno costi esorbitanti, richiedono soprattutto la cura manuale di operatori competenti ed esperti.

Il primo intervento inteso alla riduzione delle fonti di inquinamento, rivelatosi efficace sulla dimensione locale, fu il divieto di transito automobilistico sulla strada che attraversava il Foro alle pendici del Campidoglio: la via del Foro romano, talvolta ricordata come via della Consolazione. La limitazione, avvenuta nel 1979, favorì il progetto di rimozione della strada per unificare le due parti dell’area monumentale e per restaurare il Clivo capitolino. I lavori iniziarono nel 1980 e si protrassero per alcuni anni con scavi e restauri, e ripristinarono il percorso antico tra il Campidoglio e la piazza del Colosseo. Fu allora possibile consentire il libero attraversamento del Foro, che era stato per molti anni, con il Palatino, un parco archeologico frequentato soprattutto da turisti. Da quel momento l’area del Foro divenne nuovamente una parte della città che si poteva semplicemente attraversare, o in cui si poteva passeggiare per osservare i monumenti o sostare in contemplazione del paesaggio. L’eliminazione della via del Foro romano fu la prima importante trasformazione dopo l’assetto degli anni Trenta, l’unica che si sia risolta nella ricomposizione di un grande contesto di interesse storico e nel ripristino di percorsi pedonali alternativi alle strade ingorgate di veicoli. Il progetto di riunificare l’area archeologica e di restaurare il Clivo capitolino, contrastato da più parti, era stato assecondato dal Sindaco di Roma Luigi Petroselli, il quale fece smantellare la strada rendendo così possibili le attività di scavo e di restauro. Petroselli aveva compreso che Roma poteva a stento competere con le più grandi capitali sul versante della produzione culturale, e che momenti di effimera vitalità nel cinema, nelle arti figurative, nell’architettura, avevano posto la città nella condizione di occupare talvolta una posizione elevata, ma mai di assumere un ruolo di primo piano a livello mondiale. Egli aveva ben visto che il vero primato di Roma, mai sufficientemente sostenuto con lungimiranza politica, era dovuto alle sue testimonianze storiche, che l’indiscussa e incomparabile grandezza di questa città consisteva nei suoi caratteri archeologici, da sempre oggetto d’interesse universale e fonte inesauribile di accrescimento e di rinnovamento urbano.

L’odierno affollamento del Foro non consente di ospitare un numero maggiore di visitatori senza modificare i criteri di ammissione e senza regolarne i flussi, ma queste modifiche sono possibili, e ancor più lo saranno con l’ampliamento degli spazi. L’abolizione del libero ingresso al Foro romano, decisa nel 2005, è stata un’umiliante sconfitta culturale che per di più non ha prodotto benefici economici. Con il biglietto unico per il Colosseo e il Palatino già si raccoglieva l’intera massa di turisti interessati alla visita dell’area archeologica. L’aumento degli incassi è dovuto solo all’incremento delle presenze turistiche a Roma: le variazioni sono infatti proporzionali a quelle dei flussi turistici nella città.

L’incremento del turismo ha indirizzato sull’area archeologica di Roma milioni di visitatori. Per il Colosseo e il Foro romano, ove si sono superati i limiti di sostenibilità, sono necessari maggiori spazi per ospitare il pubblico. Nel Colosseo il completamento della pavimentazione lignea è l’unico provvedimento che può consentire di fare fronte alle nuove esigenze di spazio per la visita e può inoltre permettere una migliore percezione dei caratteri monumentali. La riproduzione dei meccanismi predisposti in antico per il sollevamento di bestie e materiali e per l’allestimento degli spettacoli renderebbe d’altra parte comprensibile il funzionamento della struttura e attirerebbe la curiosità del pubblico. L’intervento sarebbe complesso e oneroso ma possibile, perché sono stati compiuti studi, sperimentazioni e parziali realizzazioni. Con una regolare apertura notturna si potrebbero inoltre restituire ai visitatori le sensazioni della spettrale monumentalità al chiarore lunare o nei lividi colori aurorali, così tanto ambite e provate quando il Colosseo era facilmente accessibile a qualunque ora del giorno e della notte. Occasionali e contenute manifestazioni culturali sarebbero compatibili, come già si è sperimentato più di una volta, ma il Colosseo non potrebbe ospitare spettacoli di massa: occorrerebbe infatti intervenire in maniera molto pesante sulla cavea. Il triste esempio di Pompei, ove il teatro maggiore è stato rovinato per essere adibito alla rappresentazione di spettacoli, dovrebbe mettere in guardia sui rischi di una ristrutturazione. Inoltre, il Colosseo ha già il suo grande pubblico del turismo internazionale.

Nel Foro romano i visitatori devono poter percorrere i luoghi aperti già in antico, ossia la piazza, le strade e, laddove esistono i requisiti di agibilità, anche gli interni degli edifici. Gli spazi sono tuttavia insufficienti e il grande affollamento rende ormai la visita faticosa, distoglie dalla contemplazione e lede l’aura del paesaggio di rovine. Il Palatino può accogliere altro pubblico per la visita del palazzo dei Cesari, e dei grandiosi edifici lungo le sue pendici, ma contiene anche monumenti delicati con pitture parietali che non possono sostenere una maggiore frequentazione: l’Aula Isiaca, la Casa dei Grifi, la Casa di Augusto e la Casa di Livia, e così anche le opere d’arte esposte nel Museo Palatino. Gli spazi naturalmente destinati alla visita del grande pubblico sono quelli pianeggianti, delimitati dalle alture, ove sono sorte le grandi piazze del Foro romano e dei cinque Fori imperiali. La sistemazione e l’apertura dei Fori imperiali ai visitatori che ora si affollano nel Foro romano offrirebbe un grande beneficio alla domanda turistica, e costituirebbe al tempo stesso un enorme arricchimento per l’immagine della città.

Come si riuscì ad aprire liberamente il Foro romano istituendo il biglietto d’ingresso al piano terra del Colosseo, fino allora gratuito, così è possibile fin d’ora una manovra del tutto analoga aumentando il prezzo di accesso al Colosseo-Palatino e consentendo la piena gratuità per il Foro romano e, in prospettiva, per i Fori imperiali. Il costo del biglietto per il Colosseo e Palatino è oggi molto basso rispetto agli standard internazionali, e può essere aumentato fino a 35 euro. Anche con una riduzione temporanea degli ingressi di circa il 20 per cento in ragione del prezzo più alto, si avrebbe un incremento degli introiti del 140 per cento. Si risolverebbero così i problemi dell’affollamento dilatando gli spazi aperti al pubblico, che devono peraltro riassumere la funzione di punto nodale per il transito pedonale nel rapporto con i quartieri cittadini gravitanti sull’area archeologica. La creazione di uno spazio unitario liberamente frequentabile e transitabile – si ricordi che il Foro di Nerva era detto anche forum transitorium o forum pervium – risolverebbe la questione, tutta erariale, della gestione di monumenti amministrati dallo Stato e dal Comune. D’altra parte è bene ricordare che se la tradizionale competenza amministrativa e scientifica del Comune di Roma contribuisce in maniera irrinunciabile alla cura del patrimonio storico e artistico della città, il complesso monumentale dei Fori imperiali appartiene in gran parte al Demanio dello Stato. L’unificazione funzionale (libera apertura al pubblico) e non di gestione (custodia e cura dei monumenti) dello spazio archeologico del Foro romano e dei Fori imperiali può esser attuata immediatamente senza alterare l’attuale ripartizione dei compiti rispettivamente esercitati dallo Stato e dal Comune di Roma. La pretestuosa rappresentazione di difficoltà della gestione ha il solo ed evidente fine di giustificare la creazione di strutture che sottraggano la cura del patrimonio monumentale alla competenza delle naturali sedi istituzionali. La sventurata, recente, esperienza dei commissariamenti di soprintendenze dovrebbe bastare ad allontanare lo spettro di operazioni concepite per finalità non coerenti con l’interesse pubblico. Queste comporterebbero peraltro la distruzione di consolidate strutture, statali e comunali, di elevata potenzialità scientifica, con ogni prevedibile ripercussione negativa sulla cura del patrimonio archeologico.

La ripresa degli scavi, nel 1997, negli spazi a ridosso della via dei Fori imperiali, adibiti a giardini e a parcheggi, ha riportato alla luce ampie porzioni del Foro di Traiano, del Foro di Cesare, del Foro Transitorio e del Foro della Pace, e in misura minore del Foro di Augusto. L’incremento delle conoscenze è stato enorme per gli aspetti topografici, storicoartistici e per la ricostruzione delle vicende edilizie della città in età tardoantica e altomedievale. L’intera area si trova in fase di trasformazione, ma senza un programma definito. Si è ottenuto così il risultato di aver generalizzato la frammentazione delle aree scavate e separate tra loro ai margini della strada. Ai bordi degli scavi, in molti casi palesemente intesi come definitivi, e nei restauri già eseguiti si è adottato il criterio di conservare poco selettivamente i resti che documentano le trasformazioni edilizie subite dall’area nel corso dei secoli. In tal modo non sono comprensibili né le singole fasi storiche né la successione delle trasformazioni urbane. Ne è risultata una sistemazione incongrua con porzioni di aree scavate pressoché inagibili e separate tra loro, incomprensibili e prive di particolare fascino per l’affollamento di muri che si compenetrano e si sovrappongono. È il fallimento di un grande programma.

Lo scoprimento dei livelli antichi dei Fori ha un senso se concepito come la prima fase, quella conoscitiva, di una trasformazione dell’area e non per una sua autonoma finalità. Deve poi subentrare la sistemazione, con la scelta e la ricomposizione degli elementi atti a rappresentare le trasformazioni che i luoghi hanno subito nel tempo e la rievocazione di significati storici. Il paesaggio che emerge dall’assetto di uno scavo è sempre un’astrazione simbolica, una cosa che non è mai stata ma che ha la capacità di rievocare quello di cui mediante lo scavo si è riconosciuta l’esistenza; un paesaggio la cui storicità si realizza nel presente. Il più bell’esempio di una tale sistemazione è il Foro romano, una creazione del Novecento, in gran parte dovuta a Giacomo Boni, il quale seppe sottrarre senza remore elementi non funzionali alla composizione del paesaggio e alla rappresentazione più efficace della sua dimensione temporale. Non è vero che furono eliminate le testimonianze di età medievale per preferire quelle di epoca classica. Boni documentò quello che la scienza del suo tempo considerava necessario ma asportò livelli e strutture di età antica e medievale per giungere all’assetto che nel Foro tuttora si mantiene. Una prospettiva analoga è da immaginare per i Fori imperiali, quando all’esplorazione dovranno subentrare le sistemazioni funzionali all’uso degli spazi e la composizione di un nuovo paesaggio urbano.

Gli scavi recenti dei Fori imperiali non sono andati oltre le aspirazioni e le speranze che si potevano avere già negli anni Trenta, dopo le grandi demolizioni; aspirazioni peraltro già concepite molto tempo prima e manifestate apertamente nel 1911 da Corrado Ricci quando progettava le prime demolizioni sul versante orientale della via Alessandrina:
"Non v’ha certo chi non vegga che l’impresa più bella e più completa per la liberazione dei Fori sarebbe quella, ripetutamente proposta, di scoprirli del tutto abbattendo interamente le case vecchie e recenti che sorgono tra la via del Foro Traiano, via Marforio, Tor de’Conti e via di Campo Carleo, ossia tutto l’enorme quartiere solcato da via delle Chiavi d’Oro, Cremona, Priorato, Alessandrina, in un senso; Carbonari, Marmorelle, Bonella e Croce Bianca nell’altro. Ma non v’ha pure chi non vegga e riconosca le enormi difficoltà finanziarie e di economia cittadina che si oppongono a tale magnifico progetto sino al punto da confinarlo, per ora e per molto ancora, nel mondo dei sogni."

È indubbio che alla base del nuovo assetto degli anni Trenta non vi sia stato solo l’intento di creare un asse viario tra Piazza Venezia e il Colosseo, che non avrebbe richiesto così vaste demolizioni; tra le tante sollecitazioni esercitate per attuare il programma nella forma più drastica, seppure con finalità contrastanti, dovettero essere assai influenti quelle che rappresentavano il sogno di Corrado Ricci.

Ho prima accennato alla posizione assunta dalla Commissione del 2014 in difesa della “conservazione del segno costituito dall’asse della via dei Fori imperiali” mediante un ponte da costruirsi per scavalcare l’area degli scavi, senza prendere in esame soluzioni che possano invece consentire la rimozione della strada. Una prima possibilità riguarda la creazione di percorsi carrabili oltre che pedonali, per limitate esigenze di collegamento, alle quote archeologiche tra Piazza Venezia e il Colosseo. Anche mediante accorti restauri i Fori dovrebbero svolgere nuovamente la funzione di spazi transitori, oltre che di visita e di sosta. L’altra soluzione, che può peraltro combinarsi con la prima, riguarda un percorso carrabile sulla via Alessandrina. Questo è l’unico tracciato storico che ancora sopravvive dopo l’abbattimento dell’intero quartiere. Ha un’ampiezza sufficiente per sostenere il passaggio di autoveicoli e mezzi di trasporto pubblico nelle due direzioni e nella misura ora consentita sulla via dei Fori. La via Alessandrina è già un viadotto, sostenuto sul versante dei Mercati di Traiano da una sequenza di archi ideati per il collegamento con il Foro di Traiano di cui si prevedeva lo scavo. L’apertura degli archi non sarebbe altro che il compimento di una sistemazione già predisposta.È veramente strano come nelle attuali previsioni vi sia in primo luogo la demolizione della via Alessandrina. Anche volendola rimuovere, questo dovrebbe avvenire al compimento delle sistemazioni dell’intera area, quali che siano, se non altro per ovvi motivi di agibilità durante i lavori e per la loro esecuzione. I fondi donati dall’Azerbaigian potrebbero essere impiegati per un importante restauro, più utilmente che per una demolizione: si potrebbero innalzare nuovamente colonne abbattute che contribuirebbero a creare il nuovo paesaggio archeologico.

A mio avviso non vi sono motivi che possano oggi concretamente impedire la rimozione della via dei Fori imperiali, non per compiere un atto demolitorio ma per attribuire nuove funzioni e una rinnovata immagine a quella parte di Roma.
In un modo o nell’altro le grandi vicende urbanistiche di Roma hanno dovuto fare i conti con le testimonianze dell’antichità, e questo è avvenuto mediante il riuso, la riscoperta, la distruzione. Ancora oggi, qualunque concezione si voglia avere di Roma nello stato presente e nelle sue prospettive di trasformazione, resta dominante il rapporto con la storia e con le sue vestigia. Come in tanti altri luoghi, il sostrato millenario ha influito sulla forma della città, ma a Roma anche gli aspetti salienti del paesaggio sono composti di edifici antichi, monumenti, rovine costruite solidamente ‘per l’eternità’. Ruderi che per secoli hanno dominato, imponenti e solitari, le vedute aperte della campagna, ora assediati da fabbricati anonimi, sono divenuti elementi d’identità storica e di originalità architettonica in nuovi quartieri di periferia. Il paesaggio di Roma è senza uguali al mondo per la dimensione e la quantità di testimonianze storiche. Fin dal Medio Evo i monumenti antichi vi hanno rappresentato un’epoca lontana, un mondo finito ma a noi nondimeno familiare in quei suoi aspetti formali che Umanesimo e Rinascimento hanno trasferito nella cultura moderna. I caratteri storici ancora latenti possono svolgere a Roma più che in ogni altro luogo un ruolo importante nell’innovazione della città, nel suo adeguamento alle esigenze dei tempi, nell’invenzione di nuove forme di paesaggio. Tutto questo può essere allora concepito solo nel disegno di una città che nel rinnovarsi sappia pur sempre mantenersi digna antiquitate.

Roma, 9 marzo 2015.

«Vogliamo costruire una poli­tica per far incon­trare chi ha un pro­getto cul­tu­rale di fron­tiera e non ha gli spazi, con chi ha spazi ma non un pro­getto per far tor­nare a ren­dere eco­no­mi­ca­mente que­sti edi­fici, almeno un po’». Il manifesto, 12 marzo 2015

Roma è attra­ver­sata da con­flitti, una vera esplo­sione. Sem­bra che tutti i nodi siano giunti al pet­tine in una sola volta, e tutti adesso. Non ultimo il sistema di cor­ru­zione di Mafia Capi­tale. «Cam­biamo tutto», scri­veva Marino in cam­pa­gna elet­to­rale, sta avve­nendo; ma la sen­sa­zione è che non ci sia un governo ordi­nato del cam­bia­mento.

A Roma da lungo tempo man­cano poli­ti­che urbane di con­tra­sto al capi­ta­li­smo egoi­sta che ha impo­ve­rito il ceto medio. Anche per que­sto sono pro­li­fe­rate forme di resi­stenza e di autoaf­fer­ma­zione dei diritti in rispo­sta alle cre­scenti dise­gua­glianze. Ma si sono affer­mate, anche, col­lu­sioni tra istanze “di diritti” e scelte poli­ti­che basate su “scambi”. Non si può rim­pian­gere ciò che è stato, né i suoi frutti piut­to­sto amari e in molti casi indigesti.

Cul­tura come fonte di cam­bia­mento è quella di un’amministrazione che costrui­sce per­corsi tra­spa­renti per favo­rire gli usi tem­po­ra­nei di spazi dismessi. Lo abbiamo spe­ri­men­tato nel terzo Muni­ci­pio, per favo­rire la dif­fu­sione degli usi tem­po­ra­nei e, in pro­spet­tiva, rea­liz­zare l’agenzia comu­nale che age­voli l’affidamento a realtà cul­tu­rali che fer­men­tano den­tro lo spa­zio abi­tato. Sì, come avviene a Ber­lino ora avviene anche a Roma, pos­siamo aggior­nare le analisi.

Espe­rienze cul­tu­rali come cuore della rige­ne­ra­zione urbana. Sap­piamo di realtà cul­tu­rali in cerca di spazi a basso costo e di spazi vuoti in cerca di uti­liz­za­zioni, anche a basso ren­di­mento. Come nel caso dei 42 ex cinema chiusi, 28 da oltre dieci anni. Un periodo in cui, con lenta ero­sione, sono diven­tati negozi di casa­lin­ghi o sale bingo, senza un solo “tweet” di denun­cia. Vogliamo costruire un dispo­si­
tivo ammi­ni­stra­tivo, una poli­tica, per far incon­trare chi ha un pro­getto cul­tu­rale di fron­tiera e non ha gli spazi, con chi ha gli spazi ma non ha un pro­getto crea­tivo per far tor­nare a ren­dere eco­no­mi­ca­mente que­sti edi­fici, almeno un po’. Un po’ più di niente, e alcuni sono anche immo­bili di par­ti­co­lare valore sto­rico e archi­tet­to­nico. Far incon­trare que­ste due domande con il Muni­ci­pio, per san­cire il legame tra pro­po­sta e ter­ri­to­rio. Resti­tuire vita a luo­ghi morti, quelli sì “obi­tori cul­tu­rali” da decenni, che oggi l’amministrazione rimette al cen­tro. Altro che sacco di Roma o chiu­sura degli spazi sociali!

Città è polis ma è anche pole­mos, con­flitto. E la poli­tica si radica nella città per risol­verlo e farlo avan­zare oltre. Public poli­cies non è allo­care favori ma piut­to­sto favo­rire l’azione pri­vata e i pro­cessi di sim­bo­liz­za­zione della realtà. La poli­tica non trova solu­zioni a chi urla di più. La poli­tica pub­blica costrui­sce per­corsi di riscatto a van­tag­gio di tutti.

Ecco lo sforzo di cam­bia­mento che è in atto a Roma, ecco per­ché i con­flitti sono veri e pro­fondi. Anche que­sta è bel­lezza civile. La coa­li­zione che serve alla città, adesso, è quella che ci spinge ad essere ancora più rigo­rosi, uscendo da una ipo­cri­sia della media­zione e della collusione.

Una città nor­male ci aspetta già oggi, si sta già rea­liz­zando. Una città che fa del suo corpo già costruito il solo luogo della tra­sfor­ma­zione. Non un chicco di cemento in 20 mesi è stato auto­riz­zato o anche solo pen­sato fuori dal costruito o dal costrui­bile. Ma una città più densa e com­patta è anche una città che pone una sfida ai comi­tati: pas­sare dall’essere con­tro all’essere per la qua­lità degli inter­venti. Abbiamo rac­colto dai pri­vati e stiamo dise­gnando 160 inter­venti di tra­sfor­ma­zione nei tes­suti della città pro­dut­tiva, den­tro la città costruita. Scelte urba­ni­sti­che fatte solo a soste­gno di pro­getti di svi­luppo eco­no­mico e non mere quan­tità edificatorie.

Ses­santa incon­tri nei quin­dici muni­cipi, oltre 200 asso­cia­zioni e quasi 2000 per­sone hanno par­te­ci­pato alla costru­zione delle “Carte dei valori del muni­ci­pio”. Ascolto dal basso da cui è emersa la cen­tra­lità dello spa­zio di pros­si­mità e la neces­sità di risol­vere con­flitti e con­trad­di­zioni tra dise­gno della città ed esi­genze degli abi­tanti.

Una città nor­male e respon­sa­bile è in vista già oggi. Da costruire in pro­spet­tiva, rea­liz­zando in pieno la Muni­ci­pa­liz­za­zione e forse il con­tem­po­ra­neo supe­ra­mento di Roma Capi­tale e della Regione per far emer­gere la Roma Metro­poli; il ter­ri­to­rio abi­tato di Roma nel suo dive­nire (Roma2025). E, infine, una poli­tica cul­tu­rale che dia respiro agli enzimi nella Roma Grande For­mato, come sta facendo Gio­vanna Mari­nelli. Forse non è ancora per­ce­pi­bile una visione d’insieme, ci sono, però, per­corsi da accom­pa­gnare, anche in un rap­porto dia­let­tico, cer­ta­mente da non disco­no­scere. Un’opportunità anche per la sini­stra cri­tica, o no?

Tor­nerà la Poli­tica, una policy dif­fusa nella città, se saprà ricer­care il cam­bia­mento pro­fondo, altri­menti la città resterà vit­tima di finti con­flitti o di armo­nie appa­renti: nulla di vero e quindi nulla di buono.

Intanto, serve rea­liz­zare le cor­sie pre­fe­ren­ziali per gli auto­bus, erano nel pro­gramma di Marino: è ora di farle.

* asses­sore alla pro­gram­ma­zione e all’attuazione urba­ni­stica del Comune di Roma

«La Capitale è una città infelice, individualista, caotica, con i trasporti inefficienti e i suoi spazi pubblici soffocati dalle auto private. Per uscire da questo buco nero occorre che la mano pubblica si imponga agli interessi particolari e disordinati dei singoli». Il manifesto, 6 marzo 2015, con postilla

La lin­gua latina pos­siede due ter­mini sino­nimi per indi­care la città: urbs, rife­rito alla strut­tura, agli edi­fici, le strade, le piazze, e civi­tas. Quest’ultimo sta a indi­care la comu­nità dei cit­ta­dini. Ma non sem­pli­ce­mente il loro insieme demo­gra­fico, anche la loro sog­get­ti­vità, il loro essere con­sa­pe­voli di appar­te­nere a uno spa­zio spe­ciale, con le sue regole, i suoi agi rispetto alla cam­pa­gna, la sua bel­lezza. Non per niente da quella stessa radice viene il ter­mine civiltà.

Parola scom­parsa dal les­sico cor­rente, troppo alti­so­nante per le nostre società, dove gover­nanti e gover­nati si accon­ten­tano con mode­stia di qual­che punto di Pil. Eppure alcuni vec­chi ter­mini della nostra civiltà lin­gui­stica – mani­po­lati oggi dal ser­vi­li­smo anglo­filo dei media — dovremmo dis­sep­pel­lirli, farli risplen­dere di nuovi signi­fi­cati. Lo scorso anno lo ha fatto sug­ge­sti­va­mente Gian­carlo Con­sonni (La bel­lezza civile. Splen­dore e crisi delle città, Mag­gioli) di cui ha discorso su que­sto stesso gior­nale Adriano Pro­speri (4.7.2014). La bel­lezza civile, espres­sione coniata da Giam­bat­ti­sta Vico, dovrebbe tor­nare in uso a signi­fi­care una aspi­ra­zione delle nostre comu­nità cit­ta­dine, che l’hanno a lungo per­se­guito e rea­liz­zato. Lo stare insieme entro ordini e spazi in cui la bel­lezza delle forme urbane dovrebbe ten­dere ad armo­niz­zarsi con le virtù civi­che, l’osservanza delle leggi intesa come rispetto degli altri, il sen­tirsi comu­nità coo­pe­rante al fine di con­se­guire scopi supe­riori di pro­spe­rità comune, di uma­nità e cultura.

Se osser­viamo oggi Roma sotto il pro­filo della civi­tas com­pren­diamo alcuni feno­meni impor­tanti. Lo stile di vita dei cit­ta­dini, la loro con­di­zione, influi­sce diret­ta­mente sull’urbs, ne oscura le forme, deturpa la sua bel­lezza. Con­si­de­riamo solo un aspetto, ma rile­vante, della vita dei romani: il modo in cui si spo­stano nello spa­zio della città. Il traf­fico pri­vato su gomma, l’uso dell’automobile è cre­sciuto di anno in anno, emar­gi­nando costan­te­mente il tra­sporto pub­blico. Il numero dei vei­coli in città tende a supe­rare quello dei cit­ta­dini: 978 ogni mille abi­tanti, com­presi vec­chi e bam­bini, ricor­dava l’anno scorso Fran­ce­sco Erbani in Roma Il tra­monto della città pubblica (Laterza). I km delle linee di metro­po­li­tana sono infe­riori per­fino a quelli di Atene, di Buca­rest, di Tehe­ran. Nella città che negli ultimi decenni è stata costruita secondo gli inte­ressi di pochi, senza linee fer­rate, accade che ognuno si spo­sta da sé, con la pro­pria auto, con danno e svan­tag­gio di tutti. Con svan­tag­gio, per­ché il traf­fico cit­ta­dino è ormai ridotto a un ingorgo per­ma­nente, ci si muove a fatica, sem­pre più len­ta­mente. Con danno, per la cre­scita dello smog e del par­ti­co­lato nell’aria che tutti respi­riamo, per l’usura dei monu­menti, la dif­fu­sione dello sporco sugli edi­fici, la can­cel­la­zione visiva del pae­sag­gio urbano.

Chi gira per Roma scorge sem­pre meno le sue forme son­tuose e sem­pre più le sue piazze e le sue strade e occu­pate da una fitta fila di auto in sosta. Ci sono quar­tieri dove la den­sità di quelle sca­tole metal­li­che, che satura lo spa­zio di ogni piazza, strada, mar­cia­piede fa pen­sare a un asse­dio per­ma­nente. Dà al cit­ta­dino che passa un senso di sof­fo­ca­mento. Roma è ormai un unico, immenso par­cheg­gio, un dor­mi­to­rio, un cimi­tero di mac­chine all’aperto. Tale con­di­zione dell’urbs a sua volta svuota la civi­tas dei romani, abbru­titi den­tro un pae­sag­gio di latta che li deprime, li spinge a cer­care solu­zione per­so­nali, a farsi orien­tare ancora più per­ver­sa­mente dall’ideologia indi­vi­dua­li­stica domi­nante, la grande nemica della città. Si arran­giano e cer­cano di soprav­vi­vere nel caos coi pro­pri mezzi. E il cir­colo vizioso tra­scina tutti verso il buco nero del disa­gio col­let­tivo cre­scente, dello spreco di tempo, dell’inagibilità dello spa­zio, dell’infelicità urbana. Dove può andare una città infe­lice? Quali fini di civiltà può assegnarsi?

E allora, tre­menda domanda: come spez­zare il cir­colo che stran­gola la capi­tale? Non è facile tro­vare la «for­mula che ci salvi» dopo decenni di occu­pa­zione cao­tica del ter­ri­to­rio, dopo aver riem­pito i din­torni di Roma di cen­tri com­mer­ciali che richia­mano traf­fico vei­co­lare da ogni punto della città. Si può indi­care qual­che stretto sen­tiero d’avvio. Oltre a quelli noti e costosi: la rete della metro­po­li­tana. Una ven­tina di anni fa tante strade di Roma, anche in quar­tieri peri­fe­rici, erano state con­tras­se­gnate come cor­sie pre­fe­ren­ziali. Riser­vate agli auto­bus e ai taxi. Ben pre­sto sono diven­tate par­cheggi per­ma­nenti di auto in sosta. Il tempo poi ha finito col cancellarle.

Infine sono state in gran parte tra­sfor­mate, anch’esse, in stri­sce blu per le auto dei resi­denti. Ecco, una ini­zia­tiva impor­tante potrebbe essere quella di ritor­nare indie­tro: comin­ciare, un quar­tiere alla volta, a ridi­se­gnare le cor­sie pre­fe­ren­ziali, almeno nelle strade di grande scor­ri­mento. Occorre aprire un varco di con­ve­nienza ai cit­ta­dini che usano i mezzi pub­blici, ren­dere i loro spo­sta­menti più veloci , più eco­no­mici, più age­voli rispetto alle auto.

Per una tale ini­zia­tiva biso­gna essere con­sa­pe­voli che la mano pub­blica, il governo cit­ta­dino deve imporsi sugli inte­ressi par­ti­co­lari e disor­di­nati dei sin­goli. Occorre dare man forte al sen­ti­mento della civi­tas, al sen­tirsi mem­bri di una stessa comu­nità con comuni biso­gni, obbli­gati a regole col­let­tive. Si rende insomma neces­sa­rio ricreare un nuovo disci­pli­na­mento civico. Per­ciò il potere pub­blico deve sco­rag­giare l’uso pri­vato della mac­china . Que­sto avviene ormai da decenni in gran parte delle le città d’Europa, sic­ché, con ogni evi­denza, la civiltà urbana coin­cide aper­ta­mente, da Ber­lino ad Amster­dam, da Oslo a Stoc­colma, con l’assenza di auto­mo­bili dai suoi spazi.

Sco­rag­giare i cit­ta­dini dall’uso dell’auto pri­vata non solo inco­rag­gia il ricorso a nuove forme di tra­sporto, come il car sha­ring, ma incide in maniera rile­vante sul bilan­cio delle fami­glie. Il pos­sesso dell’automobile, talora anche due e tre per fami­glia, è sem­pre più costoso e altera lo stile di vita, la scelta dei con­sumi. Quanto danaro si spende per l’acquisto di un auto, per l’assicurazione, la tassa di cir­co­la­zione, la manu­ten­zione, le ripa­ra­zioni perio­di­che, le multe, l’acquisto di carburante?

E quanto tale spesa spinge a rispar­miare sull’acquisto di libri e gior­nali, accesso ai musei e ai con­certi, sulla qua­lità del cibo, che dovrebbe essere invece al primo posto nella gerar­chia dei con­sumi di un cit­ta­dino ita­liano del nostro tempo?

Così il governo cit­ta­dino potrebbe inco­rag­giare una svolta cul­tu­rale impor­tante, ridare vigore a una nuova civi­tas, anche mar­cando poli­ti­ca­mente la pro­pria con­dotta con un gesto di giu­sti­zia sociale. I mezzi pub­blici ser­vono soprat­tutto ai tanti cit­ta­dini che la mac­china non la pos­sie­dono o non pos­sono gui­darla per­ché anziani. La città un tempo apriva le brac­cia a tutti e ha inven­tato isti­tu­zioni per i più deboli ed emarginati.

Occorre smet­tere di offrire i suoi spazi agli appe­titi disor­di­nati dei più forti. Anche par­tendo delle città si può comin­ciare a col­pire le disu­gua­glianze sociali, la peste che spazza e anni­chi­li­sce le società del nostro tempo.

postilla

Per risolvere i problemi (o meglio, il problema) posti da Bevilacqua, cioè rendere l'urbs adegiata a un futuro civile per la civitas il latino non basta: occorre ricorrere al greco e completare la triade di significati, e contenuti, che l'habitat dell'uomo deve possedere: questo deve tornare a essere , insieme, urbs, civitas, polis. I primi due termini esistono, benché entrambi molto malconci, il terzo, ossia la politica, manca del tutto. A meno che non si voglia definire "politica" il malgoverno dei partiti d'oggi

«Un'altra città. Nella Capitale vanno valorizzate tutte quelle realtà che lottano per i beni comuni. E creare con esse una nuova cultura del cambiamento». Il manifesto, 5 marzo 2015

I con­te­nuti dell’articolo di San­dro Medici sul pro­gres­sivo degrado cul­tu­rale della città (Il Sin­daco Marino e l’obitorio cul­tu­rale della Capi­tale, il mani­fe­sto del 28 feb­braio) tro­vano ogget­ti­va­mente riscon­tro nell’osservazione quo­ti­diana di tanti cit­ta­dini, gior­na­li­sti, turi­sti che pro­vano la sen­sa­zione che i noti pro­blemi che già cono­sciamo e viviamo anzi­ché risol­versi spro­fon­dano sem­pre più in una con­di­zione di cro­nica e «tran­quilla normalità».

Roma, a parte la sua bel­lezza, è città invi­vi­bile; per il traf­fico, per lo stato delle sue strade, per la spor­ci­zia, l’incuria del suo patri­mo­nio, l’abbandono delle sue peri­fe­rie, l’assenza di una poli­tica orga­niz­zata dell’accoglienza. E’ quanto si sente dire da amici e cono­scenti: «vor­rei andare a vivere in un’altra città». Restano, a far invi­dia a que­ste altre città, il clima mite, il bel cielo azzurro e la bel­lezza (que­sta un po’ deca­duta per la verità), ovvero tutti que­gli ele­menti che abbiamo ere­di­tato o dalla natura o dalla gran­dezza della sto­ria. Per il resto nes­suna ammi­ni­stra­zione rie­sce più nem­meno a man­te­nere in salute que­sti beni pre­ziosi; di valo­riz­zarli nem­meno se ne parla. Manca un pro­getto com­ples­sivo della città (quello dei Fori non può essere l’unico), una visione siste­mica dei pro­blemi, una pas­sione dei gover­nanti che sap­pia saper fare un salto di qua­lità a que­sta son­no­lenta e pigra (e spesso inef­fi­ciente) gestione del quo­ti­diano; serve ria­prire la porta del futuro rispetto al quale cana­liz­zare le risorse, gli sforzi e le spe­ranze deluse dei cit­ta­dini che hanno giu­sta­mente scom­messo sulla nuova amministrazione.

Una Capi­tale non può limi­tarsi a soprav­vi­vere sulla ren­dita dei gio­ielli della nonna: Roma vive in una con­di­zione di perenne sovrae­spo­si­zione delle pro­prie con­di­zioni (Roma è una bugia è il titolo di un bel libro di Filippo La Porta), come quel tale pieno di debiti e di toppe che gira su una lus­suosa auto tanta da farlo rite­nere ad una vista non rav­vi­ci­nata, un ricco signore bene­stante. Essa deve rin­no­varsi a par­tire, certo, dalla pro­pria tra­di­zione ma per incon­trare un futuro pos­si­bile che non siano le vec­chie rispo­ste come quella di una città car­to­lina, di una grande sce­no­gra­fia da aggiun­gersi ad altre nelle guide del tou­ring. Per­ché suc­cede sem­pre che ogni Sin­daco che si alterna alla guida di que­sta città mette nel pro­prio pro­gramma elet­to­rale una qual­che grande opera che dovrebbe inver­tire il suo deca­dente destino. Opera e opere che poi si vanno ad aggiun­gere a quelle (pro­messe) dal suo pre­de­ces­sore fino a for­mare quel cimi­tero incom­piuto, fatto con lo sta­dio del nuoto a Tor Ver­gata, le torri all’Eur, l’interminabile nuvola di Fuk­sas, l’improbabile nuova sta­zione Tibur­tina, il fan­ta­sma della metro C che si nota solo per i cra­teri a cielo aperto che emer­gono sulle strade della capi­tale, for­mando alla fine quasi una seconda città di rovine. Vie sem­plici ed indo­lori per il cam­bia­mento non esi­stono, ma le dif­fi­coltà si pos­sono affron­tare a par­tire da quello che già c’è senza farsi ten­tare da sen­sa­zio­na­li­smi o da mira­co­lose ricette di mar­ke­ting (Rome& you ci ha declas­sato al ruolo di Las Vegas). E quello che già c’è è abba­stanza a Roma per avviare una cul­tura forte del cambiamento.

Ci sono cen­ti­naia di espe­rienze in corso di gruppi, asso­cia­zioni libere di cit­ta­dini, orga­niz­za­zioni di quar­tiere, ini­zia­tive cul­tu­rali, di nuove eco­no­mie, di recu­pero di orti urbani, di spe­ri­men­ta­zioni di forme di auto­con­sumo e di pro­getti (tra cui quello dei Fori), come non se ne vedono facil­mente in altre città d’Italia e del mondo. Baste­rebbe allora, anzi­ché vani­fi­carle, per indo­lenza, pigri­zia o negli­genza — o addi­rit­tura repri­merle -, valo­riz­zarle, inse­rirle in un pro­getto cul­tu­rale e poli­tico che ne mol­ti­pli­chi la vir­tuo­sità; inco­rag­giarle allar­gando il loro campo di azione e di con­senso e pro­du­cendo via via comu­nità attive ed ope­rose di cit­ta­dini come rispo­sta anche alla cre­scente fram­men­ta­zione sociale e alla man­canza di risorse eco­no­mi­che, oltre­ché alla tie­pida par­te­ci­pa­zione alla cosa pub­blica. Si può fare? Si può avviare una cul­tura e una pra­tica del cam­bia­mento? Per farlo è neces­sa­rio abban­do­nare le vec­chie rispo­ste della moder­niz­za­zione a tutti i costi, dell’innovazione con­ti­nua, della pra­tica sciocca dell’imitazione, della facile pro­pa­ganda, del pun­tare a un’opera sal­vi­fica, per cer­care invece rispo­ste nuove a par­tire da quella della cre­scente disu­gua­glianza urbana che vede i cit­ta­dini clas­si­fi­cati in gironi, gli uni con­trap­po­sti agli altri, gli uni nemici degli altri, come fos­simo in una guerra con­ti­nua a difen­dere invi­si­bili trin­cee den­tro la stessa città. Così come va inter­rotta quella nar­ra­zione che ci parla di una città disin­can­tata e indif­fe­rente; nar­ra­zione che in realtà costi­tui­sce il sup­porto ideo­lo­gico per legit­ti­mare pra­ti­che e poli­ti­che deci­sio­ni­ste e autoritarie.

Per bat­tere la fran­tu­ma­zione degli inte­ressi diver­genti che com­pon­gono la ragna­tela dei con­flitti urbani a bassa inten­sità (si pensi ai recenti epi­sodi di Tor Sapienza, ai Rom, ai senza casa) e quella delle cate­go­rie sociali oppresse da una soli­tu­dine che si fa sem­pre più indi­vi­duale, serve un pro­getto cul­tu­rale forte che costrui­sca una nuova “coa­li­zione sociale” fatta di tutte quelle figure e sog­get­ti­vità disperse e fran­tu­mate che vanno dai pre­cari a vario titolo, ai disoc­cu­pati, alle asso­cia­zioni che lot­tano per il diritto alla città e per i beni comuni, alle asso­cia­zioni sin­da­cali, agli stu­denti e a chi il lavoro nem­meno più lo cerca. Un pro­getto che resti­tui­sca lo sta­tus di cit­ta­dini legit­timi a chi, nei fatti, non lo è già più. Un pro­getto di nuovo wel­fare urbano basato sulla soli­da­rietà e la reci­pro­cità tra chi gode ancora delle con­qui­ste del vec­chio wel­fare e chi, nei fatti, ne rimane ormai escluso. Non è facile, tan­to­meno auto­ma­tico fare que­sto, ma è quanto ci si aspetta dal Sin­daco Marino e la sua Giunta: molti romani già lo fanno spon­ta­nea­mente e aspet­tano, per ora ancora fidu­ciosi, segnali di incoraggiamento.

«Chiunque potrà sapere cosa è pubblico e cosa non lo è, valutare come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (quanto vale) il patrimonio di Stato, Regione, Comune e altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale». Carteinregola, 5 febbraio 2015

E’ on line la “Carta della città pubblica”, le tavole in cui sono inserite tutte le aree e gli edifici pubblici sul territorio di Roma Capitale. Un obiettivo inserito dal Sindaco Marino nelle linee programmatiche per il mandato 2013-2018 «…avvieremo un censimento insieme ai Municipi di tutti gli immobili pubblici che possono contribuire alla rigenerazione urbana e su cui impegnare gli uffici nelle verifiche di fattibilità» più volte rilanciato dall’Assessore alla rigenerazione urbana Caudo. Adesso i risultati, presentati ufficialmente nel luglio scorso, vengono messi a disposizione di tutta la cittadinanza, segnando una pietra miliare non solo per la trasparenza, ma anche per la conoscenza dei cittadini del proprio territorio e delle scelte delle amministrazioni. Perchè la prima positiva conseguenza è che chiunque potrà sapere* cosa è pubblico e cosa non lo è, e fare una valutazione di come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (e anche quanto vale) il patrimonio dello Stato, della Regione, del Comune e di altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale. Una rivoluzione che Carteinregola intende valorizzare al massimo, per moltiplicarne le potenziali ricadute positive, invitando tutte le realtà territoriali ad accedere e a utilizzare i dati delle tavole. Dati che nessuno finora aveva avuto il coraggio di raccogliere e divulgare, per il solito “non disturbare il manovratore”, i cui deleteri effetti leggiamo quotidianamente sui giornali. Perchè lo diciamo ancora una volta: la trasparenza e l’informazione sono i primi anticorpi contro la corruzione e la mala amministrazione.

Per la prima volta Roma Capitale dispone di un censimento completo degli immobili e delle aree pubbliche, individuati e visualizzati su una mappa che comprende tutte le proprietà del Demanio, di Roma Capitale, della Regione Lazio, della Provincia e di tutti gli altri enti e soggetti pubblici titolari di immobili, che siano terreni o edifici.

La prima cosa che colpisce della Carta della Città Pubblica, è che tale patrimonio, calcolandolo sul totale del territorio comunale, corrisponde al 23,9% , di cui il 10,9% è proprietà di Roma Capitale: 14.090 ettari, a cui si sommano i 16 mila ettari degli altri soggetti pubblici, quasi un quarto del territorio comunale. La seconda è che i beni demaniali del Ministero della Difesa sono 110, con 1.800 ettari pari al 1,4% dell’intero territorio capitolino e una corrispondenza volumetrica di mc. 11mil.

Nel testo di presentazione della Carta, si legge che su questo patrimonio «sarà possibile programmare interventi di rigenerazione della città senza espropri o acquisti» e che «uno degli obiettivi del censimento, è utilizzare parte delle aree pubbliche dismesse o sottoutilizzate per creare occasioni di lavoro nel settore dell’agricoltura e per sviluppare nuove forme di gestione delle aree verdi». Noi finalmente avremo le informazioni che ci servono per completare alcuni progetti a cui da tempo lavoriamo: una mappa di “Villa Ada pubblica” (II Municipio) e il progetto di Zero Waste “Eco-parco a Roma”, per la realizzazione di 100 Centri di Raccolta di Quartiere con Centri di Riuso e decine di attività produttive. Ma il potenziale di utilizzo di uno strumento come questo è ampissimo: ad esempio potrebbe essere il punto di partenza per individuare in ogni quartiere spazi per realizzare le “Case dei Municipi”, anch’esse promesse dal programma del Sindaco, e a oggi non ancora messe in cantiere. Oltre, naturalmente, a individuare strutture per far fronte all’emergenza abitativa e per la creazione di start up.

* In attesa dell’aumento dei server necessari per la gestione dell’enorme mole di informazioni, la consultazione interattiva, con l’approfondimento dei dati dei singoli immobili/terreni, è possibile solo al terminale della Casa della Città, in via della Moletta 85 e – presso le sedi di alcuni ordini professionali.

Riferimenti
Qui il testo integrale del servizio di Carteinregola, corredato da documenti, note e immagini

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