«Dal Municipio sciolto per infiltrazioni alle condanne ai boss per gli appalti sugli stabilimenti così si svela l’intreccio tra criminalità e politica che per anni ha dominato il litorale». la Repubblica, 5 febbraio 2017
C’è o non c’è la mafia ad Ostia? Il suo Municipio è sciolto per mafia. Il suo lungomuro è infestato di mafia. Il suo mare è negato dalla mafia. I suoi abitanti sono strozzati dalla mafia. Allora, c’è o non c’è la mafia ad Ostia?
Un anno fa ci sono stati giudici che dicevano che non c’era e altri che sostenevano il contrario (poi confortati anche dalle eccellentissime toghe della Cassazione), due giorni fa un altro Tribunale non solo ha confermato che c’è ma che ha pure allungato le mani proprio sul tesoro di Ostia: gli stabilimenti balneari. Notizia che fa clamore ma che conoscono pure i bambini, fra le dune di Capocotta e la pineta di Castelporziano.
L’aveva scritto in anteprima anche la nostra Federica Angeli e si era presa — e continua a prendersi — minacce e insulti che la costringono ad andare in giro sotto scorta e ad avere molta cura dei suoi figli che all’asilo vengono fotografati da ignoti vigliacchi. L’aveva denunciato l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella — che su Ostia aveva ricevuto una delega da commissario — e che un giorno ci ha confidato di sentirsi lì come nella Palermo dannata dei primi anni ‘80.
L’avevano gridato in molti ma contro di loro — ed è questo che bisogna tenere bene a mente per poi non fingere meraviglia — ogni volta si scatena una reazione sguaiata, violenta. Con intimidazioni. Minacce. Con campagne vergognose sul web e sui fogli locali, tutti foraggiate dai signorotti del luogo. Perché di Ostia non si deve parlare. Perché su Ostia, laboratorio politico criminale a pochi chilometri dal Colosseo, si sta giocando una partita che può diventare decisiva anche per Roma.
Gli Spada avevano finalmente il loro lido. Peccato che un’inchiesta di Repubblica li ha smascherati. Poi sono arrivate anche le condanne della magistratura. Manovalanza da usare alla bisogna, imparentati con i più famosi Casamonica, gli Spada avevano provato a fare il salto nell’aristocrazia del delitto per non rappresentare più soltanto la mafia delle estorsioni e dello spaccio. L’aggancio con Aldo Papalini, l’ex direttore dell’ufficio tecnico del loro Municipio, con un luogotenente della Marina Militare, con un esponente di CasaPound e con l’amministratore di una società. Intrallazzi conditi dall’articolo 7, l’aggravante mafiosa.
Quella che non avevano meritato secondo i giudici di Appello quasi un anno fa i Fasciani — livello più alto del crimine di Ostia — e che invece avevano ricevuto sotto forma di condanna i loro prestanome appena cinque giorni prima. Una giustizia schizofrenica. E a volte assai distratta: perché se i Fasciani non sono mafiosi nessuno è mafioso ad Ostia. Come in effetti i Triassi, altro clan di caratura per le loro parentele con i “siciliani”: e che siciliani, sono i generi dei capostipiti della Premiata Ditta Cuntrera & Caruana di Siculiana, quella che una volta era considerata la Wall Street della droga.
Ci sono mafie per tutti i gusti ad Ostia. Ma non si può dire. Non si può scrivere. Non si può nemmeno pensare. Quando ci sono i mafiosi, ci sono sempre i complici. Uno chi era? Il capo dei poliziotti di Ostia. Il primo dirigente Antonio Franco, arrestato, processato e condannato per la sua interessata relazione con il titolare di una sala scommesse vicina agli Spada. Poi ci sono funzionari e ed ex amministratori già finiti nel calderone di Mafia Capitale. Poi ancora personaggi come Mauro Balini, il “re del porto” al quale hanno sequestrato beni per 400 milioni di euro.
Una fauna corteggiata da associazioni antimafia assai ambigue che ogni giorno diffondono in rete veleni e grossolanità, un piccolo club di soggetti che in Sicilia li chiamerebbero “incagliacani” (accalappiacani), ovvero personaggi non proprio di spessore elevato ma sempre curvi e al servizio permanente ed effettivo di qualcuno. Ostia la considerano loro, fuori dai confini nazionali e dalle leggi. Ostia non si tocca. E nemmeno il suo lungomuro di 11 chilometri. Dove una cabina è diventata una palestra, dove un chiosco è ormai un beauty center, dove ci sono posti letto in riva al mare camuffati da spogliatoi.
Un paio di anni fa, le cartine catastali del 1992 di questa grande banlieu romana sono state nascoste in cassaforte, in un luogo segreto per paura che qualcuno le bruciasse o le facesse sparire. Confrontandola con le mappe Google dei giorni nostri, non c’è una sola Ostia ma ce ne sono due. La prima ancora dignitosa, l’altra che è un inferno di cemento.
La fine di questo piccolo romanzo nero a chi la vogliamo far scrivere? Alla tribù degli Spada, a Carmine detto Romoletto o a suo cugino Armando che a Federica Angeli l’ha avvicinata per urlarle “ti sparo in testa”? Ai Fasciani — non mafiosi per i giudici di una Corte di Appello? Ai Triassi di Siculiana che bivaccano sul litorale laziale? A Mauro Balini e ai suoi misteriosi amici? Agli “onesti cittadini” di Ostia, per fortuna pochi, che l’altra settimana sfilavano per protestare contro il Municipio sciolto per mafia e che mai avevano protestato contro la mafia?
Ecco (finalmente)un articolo che connette analisi e visione raccontando Roma com'è davvero, e come potrebbe essere se i decisori affrontassero i problemi veri e comprendessero quali sono le risorse disponibili. E se chi forma l'opinione pubblica facesse il suo mestiere. il manifesto, 5 febbraio 2017
Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».
Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.
Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.
Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.
È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.
C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.
Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.
Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?
Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare [preferiremmo dire "mettendo in valore" - ndr] le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.
«Nel documento inoltrato alla Conferenza dei servizi i tecnici capitolini sollevano svariate obiezioni sull’intervento sotto il profilo della sicurezza, dei trasporti e dell’impatto ambientale in un’area a rischio idraulico». corriere della sera online, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)
«Non idoneo». Due parole che riassumono il parere negativo del Campidoglio al progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle. Il documento, protocollato in data 1° febbraio, è stato inviato alla Conferenza dei servizi alla Regione Lazio. Tra le motivazioni dettagliate nel documento, la sicurezza stradale e pedonale. Altra osservazione: l’incompatibilità del progetto definitivo con un’area considerata a rischio idraulico. Tra le criticità rilevate dai tecnici del Comune, in particolare del dipartimento Urbanistica, la mancanza di un sistema di trasporto adeguato e la sottostima degli aumentati flussi di traffico. Sono molteplici, e pertinenti ad ambiti diversi, le obiezioni sollevate dai tecnici capitolini.
Le modifiche richieste per sbloccare l’iter
Se non fosse che, malgrado il parere «non favorevole», in chiusura il Comune lascia aperto uno spiraglio: «Le condizioni per addivenire al parere favorevole - si legge nel documento pubblicato sul sito della Regione Lazio - sono definite dall’elaborazione delle modifiche/integrazioni progettuali necessarie a: assicurare adeguati livelli di sicurezza stradale: veicolare e pedonale; assicurare adeguati livelli «di esercizio» delle infrastrutture stradali; completare la documentazione progettuale con le elaborazioni mancanti; colmare le carenze di contenuti rilevate; nonché dalla: ridefinizione del perimetro delle zone, che interessano le aree di sedime dell’intervento in questione, già soggette a rischio per eventi idraulici “R3” e “R4” del Pai, nonché delle fasce fluviali “A” “B” e “C” e conseguente declassificazione».
In serata, dal Campidoglio è arrivato un ulteriore chiarimento per giustificare il «no» con riserva: «Sul progetto definitivo dello stadio della Roma c’è la volontà ad andare avanti per analizzare il dossier - si legge nel comunicato di Palazzo Senatorio - . È stata chiesta proprio per questo motivo la proroga di trenta giorni della Conferenza dei Servizi. Riserve sono state espresse sui livelli di sicurezza stradale, veicolare e pedonale nella consapevolezza che ci sono trenta giorni per intervenire. C’è una lista di temi da affrontare nel periodo di sospensione; ci sono tutti i margini per concludere positivamente la procedura».
Miccoli: «Raggi e Berdini imbroglioni»
Critiche pesanti all’alt del Comune dal deputato dem, Marco Miccoli: «Ancora una volta Virginia Raggi e il confuso ideologo del no a tutto, l’assessore Paolo Berdini - il commento del parlamentare - hanno imbrogliato Roma e i romani. Due giorni fa hanno chiesto un mese di tempo e il rinvio della Conferenza dei servizi per poter valutare ancora meglio il progetto dello stadio e le eventuali proposte di varianti. Oggi hanno dato parere sfavorevole seppellendolo definitivamente».
Il no della Città metropolitana
E tuttavia anche la Città metropolitana - peraltro guidata da Raggi - ha detto no al progetto. Il parere complessivo di Palazzo Valentini, anch’esso disponibile sul sito della Regione, esprime «dissenso» sul piano «con le motivazioni per le quali, vista la particolare articolazione e complessità, si rimanda a quanto espresso nei singoli pareri allegati». Per il «superamento del dissenso» la Città metropolitana indica numerose prescrizioni, divise per argomento. Si va dai temi della mobilità (tra cui l’«ulteriore potenziamento della Roma-Lido») alla tutela e valorizzazione ambientale, dalla viabilità alle infrastrutture fino alla coerenza della pianificazione urbanistica generale.
«La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell'assessore all'urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma». il manifesto, 11 gennaio 2017
La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell’assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma. La casa prende il nome da Alexandros Grigoropoulos, uno studente quindicenne ucciso da un poliziotto greco il 6 dicembre 2008 nel quartiere Exarchia ad Atene, nei giorni delle mobilitazioni contro le politiche di austerità. Il grande artista Blu ha concepito un murale che rappresenta la vita metropolitana, e di strada, con volti, macchine e catene della nostra vita quotidiana. La facciata, a pochi passi dalla Centrale Monte Martini trasformata in un museo, oggi è un’opera d’arte.
Lo sgombero era nell’aria da settimane al punto da avere allertato gli attivisti. Il 2 dicembre avevano organizzato un’assemblea dove è stato rilanciato il progetto di recupero dell’ex rimessa Atac, occupata da quattro anni, che è stato fatto rientrare intelligentemente nella delibera regionale per l’emergenza abitativa approvata sia dalla Regione Lazio che da Roma Capitale.
Ieri mattina alle sette e mezza si è presentata la polizia con i vigili urbani per eseguire uno sgombero e creare una nuova crisi abitativa e politica per la giunta Raggi. Sul tavolo una richiesta di sequestro preventivo per una presunta inagibilità della struttura avanzata dal Gip su richiesta dell’azienda municipale dei trasporti Atac. Gli attivisti di Alexis, una ventina, hanno reagito immediatamente, costruendo barricate che hanno resistito il tempo necessario per fare convergere centinaia di cittadini che hanno bloccato il traffico sull’Ostiense e intavolare una trattativa. A tarda mattinata è stato stabilito un protocollo d’intesa che ha stabilito il trasferimento degli occupanti nella rimessa dell’Atac di via Della Collina Volpi, al Valco San Paolo, mentre lo stabile di Ostiense sarà riqualificato con i fondi di Regione e Comune. Il deposito Atac dove si trasferiranno gli attivisti ha una storia particolare. Occupato e più volte sgomberato negli anni, è stato ribattezzato dai movimenti con il nome di un partigiano romano: Sestilio Ninci.
«Un resoconto di Maurizio Geusa dell’incontro Abitare l’incompiuto in cui è intervenuto l’Assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici Paolo Berdini». carteinregola online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Si è tenuto lunedì 19 dicembre alla Città dell’Altra Economia, un incontro sulle opere incompiute nel nostro paese, “con l’obiettivo di sollecitare la cultura architettonica e urbanistica, la cittadinanza e le istituzioni al confronto con questi spazi dello scarto, attraverso la costruzione di strumenti idonei alla loro trasformazione”.
All’incontro, organizzato dal Gruppo degli eurodeputati di European United Left / Nordic Green Left, coordinato dall’eurodeputato Curzio Maltese, hanno partecipato: l’Assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini, l’architetto Alfonso Giancotti, il Professore di progettazione architettonica Luca Montuori, l’antropologo Giorgio de Finis, l’artista visivo Andrea Musa di Alterazioni Video e il regista Benoit Felici.
E’ stata l’occasione per l’Assessore Berdini di rivendicare il primato delle opere incompiute della nostra città, ricordando i cantieri abbandonati dei parcheggi pubblici, a partire da Cornelia con i suoi sette piani interrati, Viale Libia, Val Melaina, Tor Tre Teste, il Mercato pubblico di Via Appia, tutti finanziamenti pubblici spesi male. A questi si devono aggiungere le Torri dell’Eur rimaste scorticate, che forse si concluderanno e il patrimonio di Santa Maria della Pietà ridotto in condizioni di pericolo per i crolli.
L’Assessore ha anche ricordato le attuali proposte inaccettabili come il nuovo centro commerciale al posto dei Mercati Generali di Via Ostiense in cui il verde pubblico è stato proposto in verticale sull’esempio del Bosco verticale di Boeri a Milano.
A giudizio dell’Assessore sono due le cause strutturali di tali risultati. Una prima, da ricercare nel dominio dell’economia liberista che ha sciolto il legame fra capitali e luoghi togliendo i vincoli all’investimento di fondi mobiliari internazionali sulla nostra città.
Una seconda causa strutturale è da ricercare nella caduta delle regole della trasformazione urbanistica. In questo caso con la responsabilità di un pezzo della sinistra che si è adeguato alla deregulation delle trasformazioni urbanistiche.
Da questa premessa ha sviluppato la sua proposta in due mosse per ricostruire questa nostra città.
Una prima riguarda la vertenza relativa ai finanziamenti. Sempre secondo Berdini un pezzo di sinistra in questi anni ha tagliato circa 3 miliardi alle finanze locali. A fronte di questi tagli la recente ricerca del CRESME ci informa che Londra ha sviluppato un programma fino al 2030 con finanziamenti da parte dello stato per 1 miliardo all’anno. Parigi, altrettanto con un programma fino al 2025 e finanziamenti per 800 milioni all’anno. Per Roma la richiesta è di cinquecento milioni a fronte di cui sono stati assegnati 18 milioni con il recente bando per le periferie. Infine ha ricordato la situazione delle casse capitoline dove in mancanza di fondi per la manutenzione straordinaria dei treni l’Assessore Meleo sarà costretta a chiudere le linee A e B della metropolitana con conseguenze solo da immaginare.
La seconda mossa riguarda le regole per le trasformazioni urbanistiche. Da tempo, con il Piano casa della Regione Lazio, le regole sono state travolte, lasciando mani libere ai privati. Emblematico il caso dell’ex Centro Direzionale Alitalia della Magliana, presto trasformato in residenze, con incremento premiale della superficie utile lorda. Altro caso la trasformazione in studentato della ex Dogana di San Lorenzo. In definitiva, ha esemplificato Berdini “questa sembra una città fai da te. L’economia liberista ha finito per strangolare la città: giocando in difesa non si vincono le battaglie e togliere le regole porta all’inferno”. Da tutto ciò non siamo riusciti a dare una prospettiva alle periferie e al degrado sociale dentro la città.
Quindi, Berdini ha proposto di rovesciare il tavolo per un’idea di città pubblica. Perché il pubblico deve dare gli obiettivi.
E ha ricordato che in questa città ci sono 99 stabili occupati da cittadini senza casa, ma per dare risposte a questo bisogno primario si devono costruire case pubbliche. Il fabbisogno è nell’ordine dei 8.000-10.000 alloggi. Questo il primo obiettivo. Oggi per il residence di Ostia si spendono 3 milioni all’anno mentre sono circa 20 i milioni all’anno per l’assistenza alloggiativa. Il finanziamento richiesto al governo servirà a questo scopo.
A questo obiettivo primario, per il quale la nuova Giunta chiede risorse, si aggiunge un secondo obiettivo di breve termine di 7 nuove linee tramviarie.
Infine, l’Assessore ha ricordato come per realizzare la Nuvola si siano spesi 400 milioni cedendo il patrimonio immobiliare collettivo dell’EUR. Berdini ha concluso, ricordando un uomo importante laico e socialista come Adriano Olivetti di cui occorre riscoprire l’utopia per recuperare questo immenso patrimonio abbandonato, sostituendo la strada dell’urbanistica liberista con il pensiero collettivo.
Non c’è il notaio ma anche così la sensazione di déjà-vu è forte. Alla terza riunione fiume in due giorni con i consiglieri di quella che stava per diventare la sua ex maggioranza, per tentare di salvare capra e cavoli Virgina Raggi capitola ad una sorta di commissariamento.
La sindaca di Roma cede all’aut-aut dell’inviperito Beppe Grillo che ieri ha lasciato all’alba la Capitale senza incontrarla, e accetta il diktat del disciolto mini direttorio romano che si riprende così il controllo sulla giunta pentastellata: fare fuori il capo della segreteria politica Salvatore Romeo che insieme a Raffaele Marra, arrestato per corruzione, aveva in mano le chiavi della macchina capitolina, e declassare ad assessore il vicesindaco Daniele Frongia, sulla cui amicizia Marra aveva fatto perno per ottenere la completa fiducia della prima cittadina.
A sera, una nota del Campidoglio formalizza le dimissioni: «Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. A breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati». Trasferimenti in vista potrebbero esserci anche per Renato Marra, fratello di Raffaele, appena promosso a capo della direzione turismo.
La pace è fatta. Sugellata anche da Beppe Grillo in persona che subito dopo pubblica sul blog: «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle».
Per tutto il pomeriggio di ieri però i 29 consiglieri e la sindaca si sono asserragliati a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana, per trovare una exit strategy al pantano romano che rischia di inficiare le magnifiche sorti e progressive nazionali. Tutt’altro che una serena riunione di maggioranza, una vera e propria resa dei conti. Virginia Raggi ha preso più volte in considerazione l’ipotesi di «autosospendersi» dal M5S, almeno finché non fosse chiaro che su di lei non pende alcuna ipotesi di reato.
Un termine – autosospensione – giuridicamente vuoto ma che avrebbe sortito l’effetto di dare un segnale immediato di discontinuità, come preteso da Grillo, e contemporaneamente prendere tempo, come caldeggiato da Davide Casaleggio. Un modo per evitare il ritiro del simbolo d’imperio, invocato ormai a gran voce dall’ala ortodossa grillina ma osteggiato dal presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e dal capogruppo Paolo Ferrara. Senza simbolo del M5S la giunta non avrebbe avuto infatti lunga vita, e il ritorno alle urne sarebbe stato inevitabile. Con l’autosospensione invece la consiliatura avrebbe potuto continuare, potendo contare sull’appoggio esterno dei grillini.
Una soluzione a dir poco artificiosa, degna dei migliori strateghi politici. Ma sembrava l’unica possibile. «Non mi sento più parte del M5S, non mi ci riconosco più», avrebbe detto più volte la sindaca (parole poi smentite dal Campidoglio ma senza grande convinzione) ai componenti di quel suo “raggio magico” che ora ha accettato di sacrificare.
Grillo non ha lasciato margini di dubbio: «Romeo si deve levare dal c…», avrebbe ordinato al telefono durante il tragitto in treno da Roma a Genova (evidentemente non era solo sul vagone). E Frongia va ridimensionato. I rumors parlano di un avvicendamento con l’assessore alle partecipate Massimo Colomban, l’imprenditore veneto che Casaleggio Jr aveva voluto in giunta poco più di due mesi fa. L’incubo del comico genovese è che si concretizzi quel rischio ipotizzato da ben «cinque avvocati», come avrebbe puntualizzato al telefono.
Ma a parte l’eco delle parole di Grillo, trapela ben poco dalla blindatissima riunione di Palazzo Valentini. Il silenzio è totale perfino sui social. Roberto Fico annulla «L’intervista» da Maria Latella, i consiglieri escono alla spicciolata e rispettano la consegna del silenzio. Solo poche parole pronunciate da De Vito dopo la riunione con le quali il presidente dell’assemblea capitolina non smentisce la tentazione di Raggi di lasciare il M5S.
Il dèjà-vu è, appunto, forte. Appena un paio di giorni fa Paolo Ferrara aveva assicurato che quel che era successo con il Pd non si sarebbe potuto ripetere con «una comunità di fratelli impegnati per il bene» di Roma. Ieri sera a Otto e mezzo l’ex marziano dem Ignazio Marino, lo ha contraddetto: «Un anno fa un sindaco veniva tolto tramite notai e oggi un comico di successo commissaria il sindaco di Roma. Ma allora perché i cittadini dovrebbero andare a votare?».
«Accantonate per ora le ipotesi di autosospensione o rimozione del marchio - Il leader: errori ma avanti»
Alla fine della seconda giornata più difficile per il M5S prevale la soluzione “minima”, quella prudente e attendista suggerita da Davide Casaleggio per salvare la giunta capitolina dopo l’arresto di Raffaele Marra: via quel che resta del “raggio magico”, Daniele Frongia e Salvatore Romeo, che ieri sera hanno rinunciato all’incarico rispettivamente di vicesindaco e di capo segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi. «Barra dritta e avanti tutta», scrive Beppe Grillo sul blog in serata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento Cinque Stelle. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo».
Resta in canna, per ora, l’altro colpo ipotizzato ieri, silenziato da un bagno di realpolitik: la richiesta a Raggi di autosospendersi. Come invocano gli ortodossi del M5S che chiedono un taglio netto con la giunta capitolina prima che sia tardi. Qualcuno si lascia sfuggire quel che tanti pensano: «Un avviso di garanzia a Raggi sarebbe un toccasana».
L’allusione è all’inchiesta della procura di Roma sulle nomine, tra cui quella di Romeo, che potrebbe vedere la sindaca indagata per abuso d’ufficio. A quel punto – è la tesi – nessun compromesso sarebbe più possibile. «Invece così ci lasciano a bagno, con il rischio di farci morire». Ma dal blog il “capo politico” Grillo sembra prepararsi anche a questa evenienza, quando scrive: «A breve definiremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi, comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia. Nessuno pensi di poterci fermare così».
La tregua raggiunta ieri sera è arrivata al termine di due riunioni di maggioranza, l’ultima delle quali durata quasi cinque ore, che si è tenuta a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana. Grillo era partito all’alba per Genova, concludendo infuriato e deluso la trasferta romana peggiore di sempre. All’Hotel Forum aveva incontrato alcuni tra i parlamentari e i consiglieri, tra cui le deputate Roberta Lombardi e Carla Ruocco, da sempre le più critiche con la giunta Raggi. Ruocco ribadisce secca: «Sono fiera di essere sempre dalla parte delle persone perbene. E dalla parte delle persone perbene resto».
La proposta di togliere il simbolo a Raggi (che aveva sondato senza successo l’ipotesi di proseguire senza marchio) non è passata. Secondo indiscrezioni, la sindaca avrebbe comunque tentato di resistere, chiedendo il supporto dei consiglieri e cercando sponde a destra, tra i banchi di Fratelli d’Italia. Quella destra che – attacca il Pd – rappresenta il vero terreno di coltura della sua giunta, l’area grigia (con il supporto dello studio legale Sammarco, da cui Raggi proviene) che detta le sue scelte.
Il clima tra i Cinque Stelle è vitreo. I cosiddetti “pragmatici” si sono eclissati: nessuna notizia del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che pure è sfilato davanti a Grillo senza quasi proferire parola, raccontano. «È lui il responsabile di tutto questo», mormorano in tanti. Sparito anche Alessandro Di Battista, che fino all’ultimo aveva provato a sostenere Raggi, tra i principali sponsor della linea “oneri e onori” sposata dopo la bufera di settembre (la raffica di dimissioni e la notizia dell’ex assessora all’Ambiente Paola Muraro indagata).
Il presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico, che incarna l’anima movimentista delle origini e ha definito «gravissimo» quel che è successo a Roma, disdice la partecipazione a “L’intervista” di Maria Latella in tv. L’impressione è quella di un Movimento vicino a sgretolarsi. Che naviga a vista, quasi paralizzato.
Scosso da divisioni su divisioni: una sorta di tutti contro tutti. Ortodossi versus pragmatici, appunto. Ma anche consiglieri comunali contro parlamentari. E consiglieri più severi contro quelli più morbidi, convinti che siano i deputati e le loro iniziali interferenze i principali responsabili della deriva della giunta. Con la sindaca che ha resistito fino all’ultimo, chiusa in una sorta di bunker emotivo e politico, difendendo ostinatamente i suoi fino all’ultimo, Frongia in particolare.
Che mantiene le deleghe alle Attività giovanili e allo Sport. Sarà sacrificato anche Renato Marra, il fratello di Raffaele, l’ex vicecomandante dei vigili urbani promosso a inizio novembre a capo della direzione Turismo del comune, con la firma del fratello e la difesa accorata della sindaca in una lettera all’Anac.
Raggi ha annunciato anche l’altra condizione imposta da Grillo: l’avvio di una due diligence su tutti gli atti firmati fin qui da Raffaele Marra. Sia quando era vice capo di gabinetto sia quando, dal 7 settembre scorso è stato trasferito alla guida del dipartimento Personale (casella cruciale, il Campidoglio conta 23mila dipendenti). Altra fatica che sottrae tempo alle vere emergenze della capitale.
il Fatto quotidiano online
SALA DI RIANIMAZIONE
di Marco Travaglio
Giorgio Bocca lo chiamava “il Paese di Sottosopra”, ma era un eufemismo. Questo è un manicomio, però gestito non dagli psichiatri, ma dai matti. A Milano c’è un sindaco indagato per falso materiale e falso ideologico sul principale appalto del principale grande evento degli ultimi anni: l’Expo 2015. Il sindaco si “autosospende” e si fa sostituire dal vicesindaco, inventandosi un istituto giuridico che non esiste in natura e nell’ordinamento, giustificato con un “impedimento temporaneo” anch’esso inventato visto che le indagini non gli impediscono di esercitare le sue funzioni.
L’espressione “caos Raggi”, rubrica fissa sui giornaloni e sui tg Rai, Mediaset e Sky, riassume all’ingrosso e a senso unico un groviglio di responsabilità: la drammatica difficoltà e la terribile impreparazione manifestata dalla Raggi e dall’intero M5S nel trovare una classe dirigente all’altezza per governare un Comune allo sfascio; e il totale inquinamento della burocrazia capitolina, dove il più pulito ha la rogna.
Non avendo una squadra all’altezza sia per l’inadeguatezza sua e del M5S, sia per la scarsa collaborazione della “società civile”, la sindaca ha formato una giunta di esterni al M5S, cercando di valorizzare alcuni pezzi di establishment per orientarsi in un palazzo infetto dalle fondamenta con 23mila tra dipendenti e dirigenti (tra cui moltissimi indagati).
L’operazione è miseramente fallita, nonostante precauzioni più stringenti di quelle adottate da qualunque altro sindaco: la richiesta, a chiunque si candidasse a una nomina, non solo della fedina penale immacolata, ma addirittura del certificato di nessuna indagine a carico; e il vaglio di Cantone sulle nomine dello staff. Fu per questo che si scoprì che la nomina della Raineri a capo di gabinetto era illegittima; che l’assessora Muraro era sotto inchiesta per reati ambientali; che il Pg della Corte dei Conti De Dominicis, neoassessore al Bilancio, era pure lui inquisito. Su Marra invece nulla risultava, né sotto il profilo penale né sotto quello amministrativo, salvo la questione tutta politica di aver collaborato con giunte precedenti, come il 99% dei funzionari e dei dirigenti comunali, non soggetti allo spoils system.
Quando un altro sindaco-marziano, Luigi De Magistris, si insediò nel 2011 in un altro Comune disastrato, quello di Napoli, nominò 12 assessori e poi ne cambiò 11 in cinque anni (totale 23), prima di trovare la quadra e la stabilità. Lo stesso Sala è stato costretto ad avvicendare vari collaboratori indagati o non idonei. Questi sono i fatti, nudi e crudi. Anziché invocare la testa di questo e quello, capi e capetti dei 5Stelle farebbero bene a ragionare con loro, di testa, e non con le viscere. Partendo dall’unica bussola che dovrebbe orientarli: le aspettative dei romani che sei mesi fa hanno chiesto loro di governare la Capitale. Se la Raggi fosse stata beccata a commettere reati o a tenere condotte indecenti, andrebbe sfiduciata. Ma non è questo il caso. Quindi governi, se ne è capace. Poi verrà giudicata per quello che avrà fatto.
Certo, è bizzarro che il caso Marra provochi discussioni infinite e appassionate in un movimento che passa per autoritario e verticistico, mentre il caso Sala non suscita il minimo stormir di fronda in un partito che si fa chiamare “democratico”, si vanta di discutere liberamente di tutto e un anno fa sfiduciò davanti al notaio il sindaco Marino per uno scandalo infinitamente meno grave.
Nessuno pensa che Sala debba dimettersi perché è iscritto nel registro degli indagati (anche se il suo partito, per lo stesso motivo, ha chiesto per mesi le dimissioni della Muraro): se ne riparlerà a fine indagine. Ma se, tra le 12 o 18 correnti del Pd, per non parlare della stampa, non si leva una voce su un sindaco probabilmente ineleggibile e sospettato di aver falsificato atti e truccato appalti, mentre sono tutti impegnati a chiedere le dimissioni della Raggi, qualche riflessione sulla diversità del M5S andrà fatta. I 5Stelle si impegnano allo spasimo per regalare agli altri il comodo slogan “siete uguali a noi”. Ma gli altri ce la mettono tutta per dimostrare che i 5Stelle sono diversi.
Corriere della sera
Ha provato a resistere fino all’ultimo, nel bunker di Palazzo Valentini, mentre al Campidoglio andava in scena Suburra . Nel senso che, per quelle bizzarre coincidenze della storia, proprio lì si era stabilito il set della serie tv sul malaffare capitolino. Alla sette di sera, dopo cinque ore di trattative esterne con i vertici M5S e interne con i consiglieri comunali, Virginia Raggi china la testa, accettando i diktat del Movimento. Per salvare se stessa e la sua giunta da un tramonto inevitabile. Da lontano sorridono (ma non troppo) Beppe Grillo e soprattutto Davide Casaleggio, vero ispiratore di una soluzione non traumatica, preoccupatissimo di una rottura.
Il post mai pubblicato
Molte ore prima, alla mezzanotte di venerdì, la sindaca si barrica in Campidoglio, con i consiglieri riuniti al capezzale della giunta, come nel famoso videoselfie. Quasi una veglia funebre, per una partita data quasi per persa. Perché dall’Hotel Forum giunge la notizia di una mannaia imminente: un post, già pronto, impaginato e firmato, con la revoca del simbolo. Ma il tasto «pubblica» non sarà mai premuto. Perché a quell’ora c’è il primo dei tanti colpi di scena: vanno online i giornali del mattino.
Grillo e Casaleggio cercano la giudiziaria e tirano un sospiro di sollievo: non ci sono intercettazioni compromettenti con la Raggi. Così, si va al piano B, suggerito tra gli altri da Paola Taverna, ma non condiviso dagli ortodossi come Roberta Lombardi, Roberto Fico e Nicola Morra: un diktat, prendere o lasciare, con la rimozione da vicesindaco di Daniele Frongia, la cacciata e il ridimensionamento di Salvatore Romeo e di Renato Marra. Ma anche l’affiancamento di un pool di avvocati per verificare gli atti degli ultimi mesi e un cambio radicale dell’assetto della Comunicazione, anche e soprattutto dopo il tetro videoselfie notturno.
Lo scontro su Frongia
La sindaca, alle due di notte, verifica la tenuta di un’eventuale maggioranza senza il simbolo. Verifica compiuta: «Ragazzi, non ce la facciamo». La notte si consuma nell’incertezza. Grillo riparte per Genova all’alba, dopo ore di telefonate con Casaleggio, stremato. La Raggi si sveglia presto. La notte pare abbia portato consiglio. Fa arrivare al quartier generale M5S il suo via libera. Con una condizione: «Ok, ma prima devo vedere i consiglieri». Si rifà un post e lo si mette in attesa.
Ma ecco un nuovo colpo di scena. La Raggi alza il telefono e richiama, con lo stesso tono che ha avuto in questi giorni, definito dalla controparte «algido»: «Ho cambiato idea, Frongia non si tocca». Dall’altra parte trasecolano. Speravano di aver vinto la sua resistenza, ma Virginia sembra non mollare mai. L’avviso di garanzia per la sindaca, però, è in arrivo e dato per certo, con la possibilità che le si chieda di autosospendersi. Il vicesindaco, a quel punto, ne assumerà le funzioni. Ma i vertici M5S vogliono un proprio uomo. E chi meglio di Massimo Colomban, uomo della Casaleggio associati, già imposto alle Partecipate? Lui, di fatto, diventerà il «sindaco ombra».
La seduta fiume
Raggi alle due del pomeriggio convoca i consiglieri di maggioranza a Palazzo Valentini, sede della Provincia. Fa melina, chiede ai consiglieri di votare, prende tempo. Continuano i contatti con l’esterno. I vertici M5S le fanno arrivare messaggi come: «Se non mandi via Frongia, vai a casa». Con tanto di penale da 180 mila euro, come prevede il contratto firmato all’atto dell’insediamento con la Casaleggio. Su piazza Venezia si addensano ombre cupe. Un’agenzia batte una frase della Raggi: «Non mi riconosco più nel Movimento». La smentita arriva subito. Ma intanto passa una Smart con una scritta che sembra premonitrice: «Ciao Roma».
L’epilogo
Raggi cede su Frongia: «Va bene, non sarà più vicesindaco, ma deve restare in giunta». E così il fedelissimo collaboratore, nonché amico di Marra, resterà in giunta: come assessore allo Sport, stessa materia destinata a Luca Lotti, braccio destro di Renzi, nel governo Gentiloni. Ma la battaglia non è finita. Perché Raggi prova a resistere anche su Colomban. Lei vuole Andrea Mazzillo, attuale assessore al Bilancio. Per sparigliare le carte, chiede che siano i consiglieri a votare per decidere. Grillo si infuria. Alle 18, il presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito esce da una porta laterale. È irritato: sperava di diventare vicesindaco. E come lui Paolo Ferrara, altro «lombardiano» (nel senso di Roberta Lombardi).
A De Vito non sono piaciute le parole della Raggi. Che si scusa con i consiglieri — «ho fatto degli errori» — ma attacca Carla Raineri. Colomban, salvo contrordine dell’ultima ora, è il predestinato. Il post Il «raggio magico» è decimato, le ultime resistenze vinte. Manca solo il timbro finale. Poco dopo le 20, Virginia Raggi abbandona Palazzo Valentini con un sorriso forzato. Alle 21.45, per la prima volta da giorni, Raggi e il Movimento parlano all’unisono. Il blog titola: «Barra a dritta e avanti tutta». Seguono 16 righe a firma Beppe Grillo e 10 a firma Virginia Raggi. Nelle prime le bacchettate: «Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo». Nelle seconde, l’annuncio della resa, mascherata da «cambiamento». Da domani, la Raggi non sarà più sola. Andrà avanti, scortata e controllata a vista
Corriere della sera
Fuori il vicesindaco Daniele Frongia e il capo della segreteria politica Salvatore Romeo, rimosso dalla direzione Turismo Renato Marra, fratello di Raffaele arrestato venerdì mattina: «Via il Raggio magico o via il simbolo», insomma. È l’ultimatum del M5S che la sindaca Raggi ha deciso di raccogliere alla fine di un’altra giornata di trattative serrate. «Al termine delle ultime due riunioni di maggioranza, e dopo un confronto con il garante Beppe Grillo — il post esce in contemporanea sul blog del leader e sulla pagina Facebook di Raggi —, abbiamo stabilito di dare un segno di cambiamento.
Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. Al contempo a breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati».
Una resa dei conti, nel corso di un’altra lunghissima assemblea di maggioranza tenutasi stavolta a Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana, perché in Campidoglio gli stanzoni erano occupati dalle troupe di una fiction.
Una riunione dalla quale la sindaca è uscita di fatto commissariata dopo aver comunque tentato di tenere duro sui suoi uomini di fiducia: ha insistito per avere come vice Andrea Mazzillo, l’assessore al Bilancio, ma il posto di Frongia alla fine dovrebbe prenderlo l’assessore alla Partecipate Massimo Colomban, uomo vicino a Casaleggio.
In più, sarà varato un codice etico per gli eletti e un pool di legali 5 Stelle vigilerà sugli atti dell’amministrazione per azzerare il rischio di un nuovo caso nomine. A cominciare dalla prima in programma: Grillo ha chiesto di assegnare già domani la delega all’Ambiente che era di Paola Muraro. Ieri Raggi, sulla quale pende anche la grana Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica in bilico, ha perfino cercato l’appoggio esterno della destra di FdI per andare avanti da sola. O almeno per provarci, visto che sulla sindaca pende sempre il rischio di finire indagata per le nomine fatte nei sei mesi di governo, quella di Salvatore Romeo in primis.
Beppe Grillo, in ogni caso, ha chiarito che la spina non è stata staccata. «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle — scrive il leader M5S sul blog —. Sono stati fatti degli errori che Virginia ha riconosciuto: si è fidata delle persone più sbagliate del mondo. Da oggi si cambia marcia. Bisogna riparare agli errori fatti per fugare ogni dubbio. Governare Roma è più difficile di governare il Paese. Lo sapevamo e non intendiamo sottrarci a questo compito assegnatoci dal popolo. Combatteremo con le unghie e con i denti perché Roma cambi, ma in un ambiente così corrotto e marcio dobbiamo aspettarci di tutto. Mettiamo la barra a dritta e avanti tutta».
La Repubblica
BASSO IMPERO
di Corrado Augias
«La crisi dell’ultimo decennio è l’emblema della grande debolezza di una città vittima della sua eterna vocazione plebea. Con problemi che si ripresentano sempre uguale»
Che Virginia Raggi avrebbe fallito era un po’ scritto nei suoi precedenti ambigui e inadeguati, nelle voci unanimi che descrivevano una donna alle prese con un incarico superiore alle sue forze, probabilmente alle forze di chiunque, così spaventoso da dare inaspettata verosimiglianza alla celebre frase della senatrice Taverna prima delle elezioni: c’è un complotto per farci vincere.
Sembrava una battuta paradossale, alla Crozza, come minimo una gaffe. Tutti risero. Invece, nel suo candore popolaresco, la senatrice aveva visto giusto; non era un paradosso ma una profezia. Non il complotto naturalmente, ma l’estrema difficoltà della prova certamente sì.
Chi ha la mia età ricorda invece benissimo certe amministrazioni democristiane di mezzo secolo fa e più, prone al volere dei costruttori e delle maggiori società immobiliari, gli scempi impuniti, gli anni che ci vollero per trasferire una raffineria di petrolio che con l’estendersi dell’abitato era finita con i suoi fumi pestilenziali in mezzo alle case, gli abusi in luoghi come l’Appia Antica che dovunque nel mondo sarebbero stati ritenuti sacri — oltre che una cospicua fonte di reddito per la collettività.
il manifesto
ROMA, LA CRISI DI CRESCITA
DEL MOVIMENTO 5 STELLE
di Paolo Graziano e Massimo Almagisti
Prima le dimissioni dell’assessora all’ambiente in seguito a un avviso di garanzia, poi l’arresto del capo del personale: la giunta capitolina a 5 stelle fa parlare per i suoi problemi e non per l’iniziativa amministrativa. Considerata la situazione della capitale, molte delle difficoltà incontrate dalla nuova amministrazione erano prevedibili; tuttavia colpiscono l’intensità e la durata di una impasse politica e amministrativa con pochi precedenti nella storia recente delle città italiane. Ad esempio, ripercorrendo l’insediamento delle prime giunte leghiste a metà anni ’90, molte città di varie dimensioni (Varese, Milano, Pavia, Treviso) si sono trovate guidate da sindaci che non avevano alcuna significativa esperienza di governo. Eppure, quella «rivoluzione elettorale» non diede vita alle difficoltà di cui si legge in questi mesi.
Si potrebbe dire in modo semplicistico che Virginia Raggi si è rivelata fino ad ora una guida meno abile e fortunata del sindaco pentastellato di Torino, Chiara Appendino, e quindi che si tratti solo di una questione di leadership. La leadership indubbiamente ha un certo peso, ma non possiamo isolarla dal contesto. Questo significa fare riferimento alle dinamiche evolutive di una formazione di così recente origine e soprattutto ai processi di acquisizione della cultura di governo da parte del Movimento 5 Stelle, in particolare in una città così problematica (e ambita) come Roma, dove si gioca una partita dagli evidenti riflessi nazionali. La cultura di governo non si inventa, e a tal riguardo altre amministrazioni pentastellate hanno mostrato la difficoltà di passare dalla protesta alla proposta. A Parma, Federico Pizzarotti ha impiegato non poco a comprendere come prendersi cura della città, con risultati – a detta di molti – non disprezzabili. Ma dopo una fase prolungata di conflitto con il vertice nazionale oggi è fuori dal Movimento. A Livorno, Filippo Nogarin, dopo oltre due anni di governo, non è ancora riuscito a lasciare il segno. Si Roma abbiamo detto. I diversi profili professionali di Appenddino e Raggi (più manageriale il primo, più legal-burocratico il secondo) e la connessa capacità individuale di governo spiegano solo in parte la diversa capacità di gestire la sfida dell’amministrazione. Tuttavia, il problema non è solo la capitale: la difficoltà di trasformare slogan efficaci in scelte adatte al governo di una città è una sfida classica per nuovi soggetti politici che sono chiamati a gestire il proprio successo elettorale. Senza una preparazione al governo non si riesce a creare un governo.
Il Movimento 5 Stelle ha il merito di aver tematizzato questioni in grado di attrarre vaste porzioni di opinione pubblica, anche dal lato progressista: riguardanti, ad esempio, la partecipazione dei cittadini, il reddito di cittadinanza e le questioni dell’ecologia e delle fonti di energia rinnovabile. Tuttavia, a livello locale – a differenza di altri soggetti politici esteri che di recente hanno vinto elezioni municipali di città importanti, come Podemos in Spagna – i pentastellati non sembrano brillare per capacità di fare proposte politiche articolate. Tutta colpa dei cittadini, le cui proposte presenti sulla piattaforma Rousseau sono inadeguate? Tutt’altro: il maggiore coinvolgimento dei cittadini – seppur con modalità discutibili – è un elemento di novità del Movimento da guardare con molto favore. Si tratta di un percorso da valorizzare, poiché comporta una concezione della partecipazione che non si esaurisce nel momento elettorale. Il problema risiede piuttosto nella scelta fatta finora dal movimento di non trasformarsi in partito, ossia riguarda il delicato momento in cui una neoformazione politica deve adottare una cultura partitica di governo che si sostanzia nella costruzione di una classe dirigente nuova e competente e nell’aggregazione strutturata della domanda politica emergente. Concorrendo alle elezioni e quindi accettando i fondamenti della democrazia rappresentativa, il Movimento non può continuare a far finta che una competente dirigenza «partitica» non sia necessaria. Le primarie come strumento di selezione del personale politico costituiscono già una sfida per i partiti strutturati; nel caso di una neoformazione quale il M5S possono innescare dinamiche distruttive.
D’innanzi ai recenti accadimenti romani sarà molto interessante analizzare come il Movimento stesso deciderà di rispondere, in particolare per quanto riguarda la selezione del proprio personale politico, se manterrà gli strumenti finora utilizzati oppure se deciderà di introdurre alcune modifiche. Inoltre, sarà importante seguire come si combineranno le modalità di partecipazione on-line e off-line del Movimento, al fine di aggregare in modo efficace e realmente partecipativo la domanda politica. Servono luoghi di discussione e di confronto, dove è bene che il dissenso emerga e non venga bollato come boicottaggio e sanzionato con l’espulsione dei dissidenti come è già avvenuto in alcuni contesti locali. Gli eventi romani inducono ora il M5S a confrontarsi con queste sfide, ma è bene ricordare che non sono questioni che riguardano solo i pentastellati. Come selezionare la classe dirigente e garantire la sua onestà e la sua competenza è una questione cruciale – e irrisolta – della politica italiana dei nostri anni e, come tale, chiama in causa tutti i partiti.
«Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nel fuoco della Geenna». La Repubblica online, blog "articolo 9", 16 dicembre 2016 (c.m.c.)
Esattamente sei mesi fa, il 14 giugno scorso, ho spiegato su questo blog perché non potevo accettare la proposta di entrare nella giunta di Virginia Raggi come assessore alla Cultura, e perché l’avrei votata al ballottaggio se fossi stato un cittadino romano.
Allora, tra l’altro, scrivevo: «Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione. Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova. Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci».
Ebbene, a distanza di sei mesi quelle promesse, quelle possibilità, quelle aperture si chiudono nel peggiore dei modi. Personalmente ero già rimasto interdetto dalla fiducia continuamente rinnovata alla Muraro contro ogni ragionevolezza, e poi dalla palese insopportazione per il rigore di Paolo Berdini, ben deciso a far rispettare il piano regolatore e dunque a non far affogare il futuro stadio nel cemento e nella corruzione.
L’arresto clamoroso di Raffaele Marra è il drammatico epilogo di un crescendo di inadeguatezza, superficialità, arroganza. E peggio ancora dell’arresto, è come ora si cerchi di minimizzarlo e addirittura di rimuoverlo.
È il momento di ricordare a Virginia Raggi che i valori fondamentali per cui una parte rilevante dei cittadini italiani continua a guardare al Movimento Cinque Stelle sono la totale trasparenza; la discontinuità radicale con il sistema di poteri che annulla la politica vera; l’onestà; la fedeltà al mandato dei cittadini e la dichiarata volontà di perseguire solo l’interesse generale. Ebbene, cosa rimane di tutto questo quando addirittura le manette certificano che siamo tornati al peggio della gestione Alemanno?
E non si dica che Marra era un qualunque dipendente del Comune: perché l’effetto di questa versione da impuniti è lo stesso che provocò chi farfugliò di email non lette, o (per cambiare partito) lo stesso che ora provoca chi prima promette di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum, e ora cerca di fare il puparo dietro le quinte. Tutto: ma non provate anche a prenderci in giro.
Ora siamo al momento della verità: o il Movimento 5 stelle dimostra agli italiani di saper tener fede alle proprie promesse, e cioè di essere in grado di rispondere ai propri principi e di mantenere il proprio patto con gli elettori, o la sua sorte è segnata. E sarebbe una notizia terribile per la democrazia italiana, che ha bisogno di un Movimento 5 Stelle davvero trasparente come avrebbe bisogno di un Partito Democratico davvero di sinistra.
Ci vuole coraggio: se fosse l’unica strada possibile, anche il coraggio di dichiarare chiusa l’esperienza di questa giunta, chiedere scusa solennemente e impegnarsi a selezionare in modo efficace la propria classe dirigente. «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nel fuoco della Geenna». Un linguaggio radicale, certo: ma non era questo il linguaggio del Movimento?
«Roma. La questione dello stadio della Capitale e il M5S che non scioglie l’ambiguità per un’operazione urbanistica in continuità con il passato e con gli interessi dei costruttori». il manifesto, 14 dicembre 2016 (c.m.c.)
Provate ad immaginare (se ci riuscite) che la città di Parigi scivoli all’88° posto della graduatoria delle città francesi per la qualità della vita. Impossibile. Parigi è la Francia e la Francia è Parigi, così che, per definizione, Parigi non può che essere la migliore tra tutte le città francesi. In Italia, invece, nessuno grida allo scandalo e tanto meno si prendono provvedimenti, se la Capitale diventa addirittura l’esempio nazionale del degrado in termini di trasporti, smaltimento dei rifiuti, qualità della vita.
Roma è stata anche in passato città di corruzione, di malaffare. Espressioni come «Roma ladrona», «Capitale infetta», sono state usate dai leghisti per rivendicare una loro presunta purezza e onestà padana, ma nessuno, al di là della loro strumentalizzazione politica, le ha mai considerate fuori posto o, come si dice a Roma, «campate per aria». Albergano indisturbate e mai smentite dai fatti, nell’immaginazione popolare degli italiani.
Molte persone di provata fede di sinistra, nelle ultime votazioni che hanno visto contrapposti i due candidati sindaci: Giachetti (Pd) e Raggi (M5S), hanno votato, con più o meno reticenza e convinzione, per quest’ultima. Sulle ragioni di questa disaffezione nei riguardi della sinistra ufficiale (confermata e, direi, sancita definitivamente dal recente referendum) si potrebbe discutere a lungo, ma non è questo l’argomento del giorno dell’agenda politica.
A spingere per questa sofferta decisione (di votare Raggi), fu anche la scelta, da parte del M5S, di candidare come assessore all’urbanistica Paolo Berdini. Molti furono indotti a ritenere che tale scelta rappresentasse un segnale di netta discontinuità col passato; che finalmente si sarebbe recisa quella complicità storica tra amministrazione e costruttori e immobiliaristi, quelli, insomma, che, a Roma, hanno sempre avuto la meglio rispetto alla tutela dell’interesse pubblico e collettivo.
A Paolo Berdini, in passato, non erano certo mancate occasioni per manifestare pubblicamente la sua opposizione a tentativi di speculazione; le sue denunce sul malaffare che ruota intorno al mattone erano regolarmente pubblicate sui quotidiani e, in particolare, sul manifesto. Egli stesso era diventato il simbolo di un’urbanistica romana decisa a rivendicare l’affermazione dell’interesse pubblico su quello privatistico, sugli affari. E siccome il nome di Berdini fu uno dei primi (se non il primo) ad essere fatto dalla neosindaca Raggi per la sua squadra di governo, tutto faceva supporre che si stava preparando una fase nuova nella tribolata storia dell’urbanistica romana.
In primis era la questione della candidatura di Roma alle Olimpiadi (e fin qui la Raggi, seppure con qualche tentennamento iniziale, ha tenuto), ma poi, ancora più importante, era la questione scandalosa del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle, voluta dal sig. James Pallotta, con al seguito tre grattacieli, uffici, una catena di centri commerciali, residenze e quant’altro sufficiente a ritenere che lì, a Tor di Valle, lo stadio fosse solo la foglia di fico con cui far nascere una nuova città in barba a qualsiasi criterio urbanistico e, dietro la quale, si nascondevano giganteschi interessi economici. «Obbrobrio», se ricordo bene, fu l’espressione usata da Berdini per definire quell’infausta ipotesi urbanistica.
Ora i vertici del M5S, in odore di elezioni anticipate non esitano a ritenere che quello stadio e quella sciagurata avventura s’ha da fare. Forse vogliono accattivarsi le simpatie (soltanto?) dei grandi costruttori che ruotano intorno all’operazione, tanto da far dire alla stessa deputata M5S, Roberta Lombardi che «il sospetto che Mafia Capitale, con i suoi interessi milionari nel dipartimento che fa capo a Berdini, alberghi ancora in Campidoglio, anche con la giunta Raggi».
Fatto è che sono circolate (somministrate ad arte proprio nel vecchio stile democristiano di affermazioni e altrettanto immediate smentite) voci sulla sostituzione di un assessore cui non è mai stata data neppure la possibilità di iniziare il proprio lavoro.
C’è da dire ancora, questa volta nella direzione del Pd che già gongola per il tradimento dei 5S nei confronti del popolo romano, che Giachetti (in sede di campagna elettorale) neppure ci aveva provato a contrastare quell’infausto progetto dello Stadio e che, con il Pd al Campidoglio, neppure staremmo a scrivere queste cose perché gli accordi erano già conclusi.
E così, per tornare alle ragioni esposte all’inizio, Roma continuerà a scivolare nella graduatoria delle città italiane. Crotone già teme di venire scalzata dal suo primato di ultima città italiana.
Nella Roma dei palazzinari divenuti famelici pescicani, delle nuvole di sprechi pubblici per affari privati, dell'abbandono della manutenzione del verde e del trionfo dell'affare immobiliare sulla tutela chiunque, con un po' di potere minaccia di voler cambiare strada, e magari comincia a farlo, è da abbattere. I mass media ne saranno l'utile strumento.Un appello di un manipolo di associazioni. salviamoilpaesaggio.roma, 10 dicembre 2016
SSOLIDARIETÀ ALL'ASSESSORE
SOTTO ATTACCO MEDIATICO
Comitati, Associazioni, Reti, Movimenti, Forum e cittadini qui sottoscritti sono convinti che se lo stadio di James Pallotta si deve costruire, questo debba essere fatto nel rispetto della legalità, senza accessori in contrasto col Piano Regolatore di Roma, in un’area libera da vincoli, sicura dal punto di vista idrogeologico e, soprattutto, con modalità rispondenti al pubblico interesse.
Crediamo fermamente che la mano pubblica debba riappropriarsi della Città, marcando con forza la discontinuità con le giunte precedenti attraverso una moratoria sul consumo di suolo, come ormai sostenuto da un’amplissima componente della popolazione, da movimenti ambientalisti, dal mondo scientifico e della cultura.
Ricordiamo che l’assessore Berdini ha promosso, sostenuto e redatto rigorose leggi contro il consumo di suolo insieme ai movimenti e come, in questi decenni, abbia sempre lavorato per un’urbanistica al servizio degli abitanti delle città, non solo di Roma, “(…) conducendo battaglie contro la cementificazione e a favore della rigenerazione urbana, con un occhio particolarmente attento ai destini delle periferie cittadine e caldeggiando piccoli ma significativi interventi in serie piuttosto che opere inutilmente sfarzose.” *
Per quanto riguarda i Media, auspichiamo un deciso cambio di rotta circa il modo di servire al pubblico notizie che si basano più sull’emozione dei lettori che sulla veridicità dei fatti creando vere e proprie post-verità (termine coniato dalla Oxford University che ben si addice a quanto propinato da decine di testate).
All’assessore Berdini va quindi il nostro massimo sostegno, consapevoli di come stia lavorando senza sosta per la Giunta e per i cittadini, per dare a Roma quello che in trent’anni non si è riuscito a realizzare e per ripristinare quanto è stato compromesso.
Una città più a misura di persona, dalla periferia al centro.
Salviamo il Paesaggio Roma e Lazio
Coordinamento Agro Romano Bene Comune
Comitato No Corridoio Roma Latina
Salviamo Tor di Valle dal Cemento
Dolce Spiaggia
Comitato FuoriPista
Italia Nostra Litorale Romano
Respiro Verde Legalberi
Emergenza Cultura
Stop I-60
Comitato Pisana Estensi
Gruppo Territorio e Ambiente ( GTA) IX° Municipio
Salute Ambiente Eur
Ciampino Bene Comune
Comitato Piccolomini
Italia Nostra Castelli Romani
Difendiamo Tor di Valle
C.A.L.M.A. Coord. Ass.ni del Lazio per una Mobilità Alternativa
Brigate Verdi
Comitato Roma12 per i Beni Comuni
Comitato Aspettare Stanca
Cooperativa Agricola Coraggio
Paolo Maddalena
Vittorio Emiliani
Vezio De Lucia
Tomaso Montanari
Rosanna Oliva
Fulco Pratesi
«Campidoglio a 5 Stelle. Raggi avverte il suo assessore all’Urbanistica, contrario al progetto della As Roma. Con un falso scoop delle agenzie di stampa, la prima cittadina pone l’aut aut all’urbanista». il manifesto, 7 dicembre 2016 (c.m.c.)
Un avvertimento. Lanciato tramite agenzia di stampa, con uno stile apparentemente in contraddizione col principio grillino della trasparenza ma poi non così inusuale nell’era pentastellata della Capitale. «Paolo Berdini potrebbe presto lasciare la giunta Raggi»: il lancio dell’Adnkronos è lapidario e non usa condizionali.
La decisione di fare fuori il più indipendente e a sinistra degli assessori, quello all’Urbanistica, «sarebbe stata presaa [sic]– riporta il take di agenzia – nel corso di una riunione» tenuta lunedì sera «alla quale ha partecipato la sindaca Virginia Raggi e i suoi più stretti collaboratori». Ma, appunto, è solo un avvertimento. La prima cittadina e il suo cerchio magico vogliono mettere alle strette Berdini e costringerlo a fare un passo indietro sui suoi no al progetto dello stadio della As Roma.
L’urbanista infatti – che peraltro fu tra i primi ad essere chiamato in giunta da Raggi proprio per la sua lunga e riconosciuta esperienza e, a differenza degli altri assessori, non venne sottoposto a imbarazzanti esami da commissioni grilline – aveva da subito sollevato obiezioni sul progetto della società sportiva. Berdini è contrario soprattutto a violare il Piano regolatore di Tor di Valle per costruire, oltre allo stadio, anche tre «Torri» da 650 mila metri cubi di cemento che coronerebbero il sogno di James Pallotta.
Da tempo Berdini aveva fatto notare che quel progetto conteneva anche vere e proprie trappole per l’amministrazione capitolina, come ad esempio un «impianto di pompaggio gigantesco da 3 milioni di euro contro i rischi di un’eventuale esondazione del Tevere», la cui gestione rimarrebbe poi al Comune. Ma il patron della Roma deve aver usato argomenti molto convincenti quando, a settembre scorso, ha incontrato la sindaca e il suo vice Daniele Frongia. Non a caso, il tycoon di Boston uscì dal Campidoglio «ottimista». E la stessa Raggi, che da allora ha preso in mano il dossier, definì «positivo» l’incontro.
L’ordine di Grillo però era di congelare tutto fino al referendum, per evitare di compromettere la campagna. Tanto che Raggi ha annullato l’ultima riunione sullo stadio che avrebbe dovuto tenersi venerdì scorso, con Berdini e con il numero due della Roma, Baldissoni. E ha chiesto all’avvocatura del Comune di studiare le conseguenze legali di un’eventuale modifica del progetto.
«Che c’è malcontento è risaputo», ammette il consigliere 5S Angelo Diario, a capo della commissione Sport. D’altronde il meno irreggimentato degli assessori è stato anche il primo ad opporsi alle «Olimpiadi del mattone», invitando però Raggi a cogliere l’occasione per contrattare con il governo Renzi il finanziamento di un «Patto per Roma», al quale Berdini continua ovviamente a lavorare.
E ora, passato il referendum, arriva l’avvertimento. La velina trasmessa alle agenzie spiega che ci sarebbe anche «il via libera della maggioranza» per il ritiro delle deleghe. In realtà questa volta i dardi avvelenati partono da Palazzo Senatorio, non dall’Aula Giulio Cesare: «Ieri c’è stata una riunione di maggioranza e non si è parlato dell’assessore Berdini che è un membro di questa giunta. Ci sono almeno 29 persone che vi hanno partecipato e possono confermarlo», dichiara il capogruppo M5S Paolo Ferrara che bolla il resto come «chiacchiere da vecchia politica».
Ma mentre nel corso della giornata i rumors capitolini danno già per scontata l’ennesima «epurazione» o «rimpasto di giunta, a seconda dei punti di vista, dalla giunta nessuna comunicazione ufficiale. E sarebbe stata necessaria, questa volta. L’unica smentita dal Campidoglio invece viene fatta trapelare – anonima – su un’altra agenzia, Omniroma: Berdini «è regolarmente al lavoro sul dossier stadio della Roma». E, intercettato dai cronisti, l’assessore al Bilancio Andrea Mazzillo nega: «Di strappi non so nulla. Non mi risulta nulla di questo».
Le polemiche però ci sono da tempo, veicolate da social blog e testate on line vicine al movimento. Qui, qualche settimana fa, si ventilava lo scioglimento imminente del «Tavolo di coordinamento dell’Urbanistica», a causa delle dimissioni in blocco dei membri «in rivolta» contro Paolo Berdini, accusato di aver rifiutato di seguire il modello pentastellato di lavorare «come attuatore delle politiche di indirizzo che sarebbero dovute venire dalla commissione urbanistica».
L’argomento stadio e «Torri dell’Eur» – con annessa mediazione con i «palazzinari» romani – è però poco spendibile nel movimento grillino. E così spuntano fuori anche le polemiche sulla metro C e sugli sfratti agli inquilini dei «Piani di Zona». A Longoni, dove ci sono alcuni di questi immobili inizialmente destinati ad affitti agevolati, l’Unione sindacale di base oggi organizza un presidio. Nel comunicato di convocazione l’Usb se la prende anche con l’assessore all’Urbanistica che «aveva assunto l’impegno alla revoca delle convenzioni». Ed esalta il ruolo della deputata 5S Roberta Lombardi, che oggi sarà presente per continuare la sua difesa di una famiglia di sfrattati.
«Roma. Divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente,mentre i cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile; Serve una grande coalizione culturale per salvarla dal degrado». La Repubblica, 23 novembre 2016 (c.m.c.)
Roma, per antonomasia la “Città Eterna”, rischia oggi di disfarsi sotto la spinta di fenomeni diversi ma convergenti: il traffico, la sporcizia, la crisi dei trasporti, l’inadeguatezza dei servizi, la mancanza di un chiaro indirizzo pubblico. Affrontarli tutti insieme sarebbe probabilmente più giusto, ma ci farebbe correre il rischio della genericità e dell’approssimazione. Preferisco fermarmi su quello che rischia, anche se forse non del tutto a ragione, di apparire il più evidente di tutti: il degrado del decoro urbano, l’aggressione commerciale ai suoi aspetti monumentali più straordinari, la dissoluzione e lo spopolamento dei vecchi quartieri storici.
In questo senso non basta parlare semplicemente di degrado. È, invece, come se Roma fosse letteralmente divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente. Non c’è più né limite né freno all’invasione (le altre “città d’arte” italiane, per esempio Venezia e Firenze, condividono in pieno questo destino).
Locali per la refezione e il dissetamento, per il commercio e lo svago, fioriscono dappertutto; le strade e le piazze, anche le più famose, sono invase da tavolini, sedioline, fioriere, sbarramenti cementizi abusivi di ogni genere; al di fuori dei negozi di oggetti religiosi o di gadget, l’esposizione delle merci annulla ogni possibile idea di “decoro urbano”. I vecchi cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile.
Questo è ormai del tutto evidente e riconosciuto. Quello che invece meriterebbe che cominciassimo a dire e sottolineare, è che non c’è risposta. Non c’è risposta pubblica, non c’è risposta istituzionale, non c’è risposta politica. Non c’è, per dirla con un termine un po’ logorato dall’uso, strategia: solo chiacchiere a vuoto. Faccio l’esempio che di questi tempi risulta ai miei occhi più clamoroso, e che, come capita, mi sta di più sotto gli occhi: ma che, contemporaneamente, presenta anche un’evidenza generale addirittura solare. Quello dell’apertura di un locale fast food, precisamente un McDonald’s, nella zona di Borgo e di San Pietro.
Si tratta di un locale gigantesco (538 metri quadri), destinato a rimanere aperto dall’inizio del giorno fino a notte fonda, nel cuore del rione Borgo, vicinissimo al Vaticano e a San Pietro. Per dare, a chi non ne ha esperienza alcuna, consistenza visiva alle mie affermazioni, ho percorso lento pede le distanze che lo separano da alcuni luoghi eminenti della cristianità. Solo settantadue dei miei passi separano il fast food dalla porta di Sant’Anna, il valico più consistente e prestigioso che attraverso le Mura Vaticane immette nella Città Santa. Sull’altro versante, il locale dà direttamente su piazza della Città Leonina, e quindi a venti passi dal leggendario Passetto di Borgo: e, appena un poco più avanti, a cinquanta dal colonnato di San Pietro (sì, quello del Bernini).
È nel pieno centro del rione Borgo: è destinato a snaturarlo definitivamente nella sua prestigiosa identità storica, oltre che a mandare in rovina i numerosi ristoratori tradizionali della zona, spesso presenti lì da decenni. I locali sono affittati a McDonald’s dall’Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica presieduta dal cardinale Domenico Calcagno.
Ci sono state anche in questo caso lamentazioni e proteste. Ma anche in questo caso nessuna risposta. Il I Municipio, che ha concesso la licenza, tace e sta a guardare. Il Comune dichiara che la responsabilità è del I Municipio. Il Ministro dei Beni Culturali, Franceschini, spiega che la cosa non lo riguarda. Tace perfino l’Unesco, sotto la cui giurisdizione cade tutto il centro storico di Roma. Ma soprattutto non c’è un politico, un uomo o una donna delle istituzioni, insomma, uno o una che sta lì perché eletto o eletta da noi, che apra la bocca per dire: sì, avete ragione; no, non avete ragione; avete ragione solo in parte, vediamo ora cosa si può fare.
L’unico luogo istituzionale dove s’è avvertito un fremito è stato il Vaticano. L’ha documentato efficacemente questo giornale, presentando affiancate le interviste al cardinale Elio Sgreccia e al cardinale Calcagno, presidente dell’Apsa.
Uno scontro di tale portata fra eminenti personaggi della Chiesa, non si vedeva dai tempi del Concilio di Nicea (il primo, intendo, quello del 325 d.C.). Sgreccia vi rappresenta le posizioni trinitarie, ossia la “consustanziazione” del Figlio col Padre, che apre le porte a una visione autenticamente cristiana del mondo. I valori del cardinal Sgreccia possono essere talvolta discutibili, ma fuor di dubbio sono valori: «Non basta pensare solo agli affari e ignorare la natura finale delle attività che si vanno ad aggiungere al contesto. Ripeto, la megapanineria a Borgo Pio è un obbrobrio…».
Il cardinal Calcagno interpreta invece piuttosto la parte dell’ariano che, riducendo la natura divina solo al Padre, gli attribuisce un potere illimitato e indiscutibile. In questa chiave l’unica legge a dominare, dal punto di vista del potere, è quella vetero-capitalistica della domanda e dell’offerta, e cioè l’”affare”. Inequivocabili le sue affermazioni: «C’è stata una trattativa per l’affitto. Gli Uffici tecnici dell’Apsa hanno ritenuto congrua e giusta l’offerta dei dirigenti dell’azienda americana e l’accordo è stato stipulato. Non vedo lo scandalo».
Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che anche in questo caso dall’Empireo vaticano sia calato sulla vicenda il più impenetrabile dei silenzi. Dunque, non c’è nessuno neanche in Vaticano che possa autorevolmente decidere se, quando un “affare” può essere ragionevolmente definito un “obbrobrio”, è il caso di intervenire ad esaminare ed eventualmente correggere l’errore?
Torno, per concludere, alle considerazione di ordine generale. A Roma, la “Città Eterna”, “Caput Mundi”, ci sono migliaia di situazioni come questa. I poteri pubblici hanno dimostrato di volta in volta o impotenza o connivenza. Il Vaticano, quando è toccato a lui, non si è comportato molto diversamente. La politica non se n’è accorta, ma chi va ancora tra la gente comune può dire tranquillamente questo: si sta manifestando un’ondata crescente di scontentezza e di rabbia, che ormai va al di là della fenomenologia grillina, sempre più avvertita anch’essa come perfettamente istituzionalizzata e partecipe del potere (e cioè: «anche i grillini sono come tutti gli altri»).
Se le cose stanno così, Roma da sola non può farcela. Solo un’inedita (e inaudita) alleanza fra Enti locali, Stato e Regione potrebbe garantirle la forza necessaria per uscire dal gorgo in cui sta rapidamente sprofondando. E fra loro anche il Vaticano? Sì, anche il Vaticano. Per esempio, decidere insieme quando e come inondare la città di milioni di pellegrini. Ma il Vaticano è una potenza universale, come fa a mettersi d’accordo con il Comune di Roma e il Governo del paese per decidere e regolare avvenimenti del genere? Sì, il Vaticano è una potenza universale ma contemporaneamente è un Rione di Roma, un suo quartiere privilegiato, e condivide la vita e il destino della città.
La sua millenaria vicenda si è sempre basata su una duplicità operosa di tale natura. Per questo può essere inserito in una storica alleanza a favore di Roma: a patto, naturalmente, che ne rispetti le regole e gli interessi. Anche dei suoi cittadini, s’intende.
«Ieri un giovane premier in completo Armani sorrideva alle telecamere presentando al Paese questa nuova nuvola, e il suo architetto che ha dichiarato di votare Sì al plebiscito. Aby Warburg diceva che ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita: evidentemente questo è vero anche per il barocco. Nuvole incluse». La Repubblica, ed. Roma, 30 ottobre 2016
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Massimiliano Fuksas non avrebbe voluto che ciò che perlui era The Floating Space fossechiamato la Nuvola. Ha le sue ragioni, perché in effetti la nuvola vera epropria appare chiusa ermeticamente dentro una sorta di grande acquario: e cosìla sensazione di libertà, movimento, leggerezza comunicate dal nome rischia dimutarsi presto in delusione di fronte all’opera, più raggelante che dinamica.
Cade uno degli strumenti utilizzati dalla cricca partitocratica per sbarazzarsi di un personaggio che rischiava di interrompere la continuità della malapolitica capitolina. Rimane vivo il ricordo della squallida operazione dinnanzi al notaio. Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2016, con postilla
Cadono le accuse di peculato, falso e truffa nelle due inchieste sulle cene da sindaco e le presunte irregolarità per alcune consulenze dell'associazione di cui era presidente. La Procura aveva chiesto 3 anni e 4 mesi. L'ex primo cittadino: "E' stata finalmente ristabilita la verità, ora qualcuno si guardi allo specchio per capire se ha la statura dello statista"
L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto dall’accusa di peculato, truffa e falso nell’ambito del processo sul caso scontrini e le consulenze della Onlus Imagine. La procura aveva chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi. Marino è stato assolto dalle due accuse rispettivamente “perché il fatto non sussiste” (le cene) e “perché non costituisce reato” (le consulenze). “Sono felice me lo aspettavo, sapevo di essere innocente” commenta Marino lasciando il tribunale. “Di fronte ad accuse così infamanti di media e politica molto pesanti è stata finalmente ristabilita la verità”. In una conferenza stampa Marino ha detto che “il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la Capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza“. La sfida con i vertici del Pd è frontale: “Le scuse di qualcuno che ha fatto un’offesa, e non parlo del premier o dell’illuminato commissario del Pd, richiedono capacità di analisi ed onestà intellettuale in base di questo uno deciderà se scusarsi o no”.
Ma cos’è successo nel 2015 per Marino è chiaro: “Siamo ad un anno di distanza dal momento in cui mi dimisi (dimissioni poi ritirate, ndr), sotto le pressioni politiche e mediatiche offensive gravissime e infanganti. Centinaia di migliaia di romani sono stati violentati da un piccolo gruppo di una classe dirigente che si è rifugiata nello studio di un notaio, invece che presentarsi in aula e spiegare se avevano o meno fiducia del loro sindaco”. Nessuno dai vertici del Pd lo chiama. Lo fanno invece, secondo il Messaggero, Massimo D’Alema e l’ex sindaco Walter Veltroni.
Riferimenti
per ricordare gli eventi che portarono alla conclusione del breve mandato di Ignazio Marino rinviamo agli articoli di Alberto Asor Rosa, Angelo d'Orsi, Piero Bevilacqaa, nonche sui risultati di un'indagine interna al PD romano, svolta da Fabrizio Barca.su eddyburg.
Vezio De Lucia non è solo uno dei più grandi urbanisti italiani ma è anche la memoria storica di Roma, del suo territorio, della sua trasformazione sotto gli appetiti dei potenti, della sua anima.
Sulle Olimpiadi invece sono stati coerenti.
E me ne compiaccio, aspettiamo però di vedere gli atti formali.
Ha dei dubbi sul No a Roma 2024 da parte della sindaca?
Nessun dubbio, ma credo che siano sottoposti a pressioni inaudite. Tutta la stampa italiana, tranne poche eccezioni, continua a ritenere che ci sia spazio per un cambiamento del progetto per la candidatura, ed è una posizione sostenuta anche da sinistra. Perfino dal mio amico Paolo Berdini.
D’altronde per il no alle Olimpiadi Stefano Fassina, candidato sindaco di Sinistra Italiana, si è avvalso della sua consulenza durante la campagna elettorale. Paolo Berdini sostiene però soprattutto che si possa tentare di sfruttare l’occasione per far finanziare le opere di cui la Capitale ha bisogno. Se è così è bene, afferma l’assessore all’Urbanistica, altrimenti niente Olimpiadi. Lei non crede che in questo senso potrebbero essere trasformate in un’opportunità?
Poveri spazi pubblici di eccezionale bellezza: nelle mani dei barbari o dei Bulgari: forse se nelle case intorno ci fossero ancora abitanti, e non uffici, negozi e alberghi, e magari anche qualche sistema di vigilanza...La Repubblica, ed. Roma, 9 settembre 2016
«SONO molto preoccupato, abbiamo speso tanti soldi per riportarla al suo splendore e se non si mettono regole ben precise, Trinità dei Monti tornerà il bivacco di sempre. Tempo pochi mesi e sarà di nuovo in mano ai “barbari”. Paolo Bulgari, presidente della maison di gioielli famosa in tutto il mondo che ha finanziato i restauri di quei 135 gradini, ha le idee chiare. La Scalinata verrà inaugurata il 21 settembre, con tanto di concerto dell’orchestra di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano. Ma intanto è polemica su come proteggere quel capolavoro settecentesco progettato dell’architetto De Sanctis che è costato quasi un milione e mezzo di euro. C’è chi vorrebbe recintarlo e chi come il consigliere del I municipio Matteo Costantini chiede maggior sorveglianza con tanto di “ausiliari del decoro”. E chi come il sovrintendente dei Beni culturali, Claudio Parisi Presicce trova «improponibile chiudere la Scalinata. È piuttosto utile educare le persone al rispetto dei monumenti ». Paolo Bulgari è per la prima ipotesi: «Bisognerebbe trovare il modo di preservarla durante la notte. Perché sulla Scalinata è giusto camminare, è nata per questo e la passeggiata che si fa scendendo giù dal Pincio è meravigliosa, ma non si devono permettere i bivacchi - spiega - Non è un luogo per sedersi».
Figuriamoci per bere o per mangiare. Eppure nella fase di ripulitura, sul travertino si è trovato di tutto. «Le restauratrici che sono state bravissime continua - il presidente della casa di gioielli - hanno dovuto fare un lavoro immane. Sui gradini c’era spalmato di tutto. Dalle gomme da masticare alle macchie di caffè, vino e non voglio dilungarmi oltre sulle tante schifezze che hanno imbrattato il monumento ».
Ma il punto è un altro. «Vogliamo un turismo di qualità o di quantità?», si domanda Bulgari. «Perché se si punta al numero, vedo un futuro complicato per un Paese dove i monumenti sono preziosissimi e fragili. Certo, a Roma non si può immaginare l’ingresso a numero chiuso, come invece potrebbe fare con una certa semplicità Venezia. Ma mettere un cancello o una barriera in plaxiglass non mi sembra un’impresa impossibile. Anzi. E questo non vuol dire “ingabbiare la cul- tura”, bensì tutelarla.
D’accordo con il patron del marchio del lusso, anche alcuni commercianti della zona. Gianni Battistoni, dell’omonimo negozio in via Condotti, in primis. «La Scalinata è patrimonio dell’umanità, una barriera non invasiva, dopo una certa ora, sarebbe una buona soluzione», dice «non si può lasciarla in balia di gente che bivacca. Oramai da tempo è diventata il luogo d’incontro per i giovani stranieri. Non è un caso che i tifosi dell’Olanda, che un anno fa ridussero la Barcaccia di piazza di Spagna una discarica, si diedero appuntamento proprio li».
Assolutamente contrario alle barriere anche l’assessore ai Beni Culturali Luca Bergamo. «Non abbiamo intewnzione di porre nessuna cancellata - fa sapere - Sicuramente però aumenteremo i controlli e la sorveglianza per preservare il restauro appena terminato».
Finalmente la Sindaca di Roma rispetta la promessa e dice no alle Olimpiadi. Gli atleti troveranno altrove lo spazio per le loro performances: le Olimpiadi non sono forse "mondiali". Ma che cosa aspetta per cancellare anche la macchia di Tor di Valle? La Repubblica, 9 settembre 2016
Non prima del 18 settembre, data in cui finiranno le Paralimpiadi in corso a Rio de Janeiro. Il gran rifiuto (secondo consecutivo, dopo che Mario Monti disse no alla candidatura di Roma per il 2020) dovrebbe arrivare in una conferenza stampa. Sarebbe la prima da quando la Raggi ha vinto trionfalmente le elezioni lo scorso 19 giugno. La location sarà un impianto sportivo non ultimato o un altro dei simboli delle emergenze quotidiane di una città, questa la tesi dei 5 Stelle, che ha bisogno subito di ordinaria amministrazione e non di grandi eventi.
Una “narrazione” che ricompatta il Movimento oggi in una fase di profonda lacerazione. Due giorni fa, dal palco di Nettuno, era stato Luigi Di Maio (l’esponente 5 Stelle definito «più dialogante » nei confronti dei Giochi) a chiudere definitivamente la porta: «Chi vuole le colate del cemento se ne deve andare. Ed è per questo che non accetteremo la logica delle Olimpiadi. Perché è una logica compensativa».
Per questo motivo ieri, dal Campidoglio, appena prima che scoppiasse il caso De Dominicis, è rimbalzata la notizia del “no”. «La giunta non cambia idea», è la linea che blocca così anche i rumors di una timida apertura ai Giochi da parte della sindaca e del suo vice, Daniele Frongia, assessore allo Sport che in questi mesi ha tenuto i contatti con il Coni. L’unico a parlare esplicitamente a favore della candidatura, dieci giorni fa, era stato l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini, tecnico dalle solide radici nella sinistra, ormai sempre più in sofferenza in questi giorni di caos. «Se le Olimpiadi servono per realizzare le quattro linee di trasporto pubblico che inventeremo oppure la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì», aveva detto. Berdini in queste ore si è chiuso in un silenzio più assoluto che lascia presagire, però, una presa di posizione forte. Le sue dimissioni sarebbero a un passo.
Il Coni, da parte sua, ritiene «impossibile» che il ritiro di Roma dalla corsa ai Giochi del 2024 arrivi prima di un incontro formale con i vertici del Comitato olimpico. Giovanni Malagò, numero uno dello sport in Italia non vuole perdere l’occasione per sottoporre alla sindaca il dossier che, in teoria, dovrebbe essere spedito al Cio entro il 7 ottobre, pena la decadenza della candidatura della capitale italiana. «La notizia è paradossale», dicono ancora dal Coni, convinti che la “tregua” durante le Paralimpiadi avrebbe retto. «Sarebbe un affronto agli atleti che stanno gareggiando a Rio». Quelli che invece hanno vinto una medaglia ai Giochi di agosto scrivono alla sindaca: «Dia impulso ai nostri sogni e sostenga la candidatura di Roma: gareggiamo insieme per conquistare una speranza». E mentre Malagò aspetta che il Campidoglio gli comunichi la data dell’incontro («già formalmente richiesto», dicono dal Coni), martedì 13 settembre, la Raggi è convocata in Senato, davanti alla Commissione sport per un’audizione. «Spero che la giunta della Capitale valuti bene la propria determinante posizione», dice il suo presidente, il Dem Andrea Marcucci. Ma la scelta in Campidoglio è stata fatta: tenere unito il Movimento e dire addio al sogno olimpico.
«Interessi pubblici e poteri forti. Le Olimpiadi e lo stadio grandi occasioni? Non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore della città». il manifesto, 6 settembre 2016
Partiamo da un dato incontestabile: Roma è una città (pressoché) ingovernabile. Una governabilità apparente è possibile solo venendo a patti con i poteri forti: immobiliaristi, faccendieri, lobbies di vario tipo; ed è quello che ha sempre fatto il Pd, da Rutelli a Veltroni.
Questa apparente governabilità ha però un prezzo esoso: è costata un debito enorme, una espansione delle periferie ben oltre il raccordo anulare, un deficit accumulato dalle partecipate (Atac, Ama, ecc.). In una parola: una inefficienza della macchina urbana a livello di trasporti, raccolta dei rifiuti, asili nido, assistenza sanitaria, eccetera.
Chi invece, al governo della città, decidesse di rompere l’accordo con i poteri forti, o anche semplicemente stabilisse che quell’accordo dovrebbe volgere al beneficio pubblico e non a quello privato, si troverebbe ben presto in una situazione di totale isolamento politico ed economico; dunque in una situazione di ingovernabilità. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è.
Stessa musica vale per le Olimpiadi e per il nuovo stadio della Roma. I sostenitori di questi eventi affermano che sarebbero due grandi occasioni per la città. Che consentirebbero di realizzare opere che migliorerebbero le condizioni di degrado in cui versa la città. In teoria potrebbe essere vero se però l’amministrazione, quale che sia, avesse la forza di imporre le sue condizioni ai poteri forti i quali, come si sa, sono disponibili a qualsiasi accordo (farebbero anche le olimpiadi verdi o low cost, come affermato da Cacciari) e con qualsiasi amministrazione. Dunque il vero dilemma è lo scontro tra interessi pubblici e interessi privati, scontro che si è sempre risolto, a Roma (salvo rare eccezioni), a favore dei secondi con enormi vantaggi a favore dei poteri forti ed effimeri benefici per la città.
Si dice ancora che ai tempi d’oggi e con il patto di stabilità, senza l’intervento dei privati non si va da nessuna parte. Ma si tace sugli effetti nefasti che, ogni volta, l’intervento dei privati ha prodotto. Lo abbiamo visto col terremoto di Amatrice: pazienza (per modo di dire) se sono venute giù case private che non rispondevano affatto alle normative antisismiche, ma che dire delle chiese, degli ospedali, delle scuole la cui progettazione e realizzazione è stata affidata ai privati, costruttori e immobiliaristi?
Costoro non si sono limitati ai “giusti” profitti: hanno compromesso territori e paesi speculando su cemento, ferro, suolo e quant’altro. Allora dire che questa volta le Olimpiadi saranno a beneficio della città significa non dire nulla di nuovo, vacuo slogan, propaganda; anzi significa imbrogliare le persone se l’amministrazione di turno non è capace di imporre le proprie condizioni a favore del pubblico. E opporsi a tali opere significa cadere nella trappola della ingovernabilità, avendo contro tutti i poteri forti.
Tertium non datur? No, finché non ci sarà una strategia politica che guardi lontano, ben oltre i conflitti condominiali dentro i partiti o i movimenti che siano. No, finché si produrranno dirigenti politici legati a correnti interne, fazioni, e non provenienti dal territorio, eletti in rappresentanza del territorio. E in questo senso il Pd di Renzi ha da tempo interrotto il rapporto con i territori che costituiva il punto di forza del vecchio Pci. E’ un partito della cooptazione che ruota intorno all’immagine del Capo.
Il Movimento dei 5S, dal canto suo, un legame coi territori ce l’ha, ma ha sopravvalutato se stesso e sottovalutato l’enorme potenza di fuoco dei poteri forti; ovvero, non mostra di avere una strategia politica che gli consenta di perseguire obiettivi a lungo termine e incapperà continuamente contro le insidie e le trappole predisposte dai poteri forti. A meno di non venire a patto con essi, il che, però, significherebbe depotenziare totalmente la propria originaria carica antagonista (antipolitica o meno che sia).
La verifica non si farà attendere: la questione romana è questione nazionale. Se il M5S deciderà per le Olimpiadi e per lo stadio della Roma (pur incensandolo di coloriture ecologiche o quant’altro), allora sarà stabilito definitivamente che a Roma governano i poteri forti e prevalgono gli interessi privati, senza se e senza ma. Rimandare la candidatura di Roma oltre il 2024, questa volta non significherebbe dare ragione al partito del No; significherebbe più semplicemente che allo stato attuale non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore dell’interesse pubblico. E chiunque affermi il contrario o pecca di ingenuità o nasconde interessi che poco hanno a che vedere col bene pubblico e con le stesse competizioni sportive.
Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara ... (segue)
Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara la posizione di Virginia Raggi e della sua giunta. Il problema delle Olimpiadi è noto ai lettori di eddyburg, basta rileggere i recenti articoli di Salvatore Settis e Tomaso Montanari e di Giovanni Caudo con postilla del direttore. Meno nota è la vicenda dello stadio, un clamoroso esempio di urbanistica contrattata, cioè di una trasformazione dell’assetto urbano, di rilevante impatto e in contrasto con il piano regolatore, proposta da un privato e accettata (o subita) dall’amministrazione comunale.
All’origine c’è la cosiddetta legge sugli stadi, che però non è una legge ma sono tre commi della legge di stabilità del 2014 (147/2013, cc 303, 304 e 305) inseriti all’ultimo momento, dopo un percorso lungo e controverso, grazie al tradizionale maxiemendamento governativo (governo Letta) e quindi approvata con voto di fiducia. Il comma 303 tratta di questioni finanziarie, il 304 prevede che il soggetto interessato, d’intesa con una o più società sportive, presenti un progetto preliminare che “non può prevedere altri tipi d’intervento, salvo quelli funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici e comunque con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale”. Il Comune, se d’accordo, dichiara “il pubblico interesse della proposta”. L’approvazione definitiva spetta alla Regione Lazio a seguito di un’apposita conferenza dei servizi. Il comma 305 auspica che gli interventi siano realizzati mediante recupero di impianti esistenti o in aree già edificate.
Nel marzo 2014, tre mesi dopo l’approvazione della legge di stabilità, il presidente della Roma James Pallotta presenta il progetto del nuovo stadio a Tor di Valle, un’ansa del Tevere a Ovest dell’Eur, al posto dell’ippodromo costruito nel 1959 e dismesso nel 2013 proprio per la costruzione dello stadio. L’intervento dovrebbe essere realizzato dalla società Eurnova di proprietà dell’imprenditore Luca Parnasi proprietario anche dell’ex ippodromo. Su circa 90 ettari, che il piano regolatore destina a verde sportivo attrezzato (con un’edificabilità di circa 350 mila metri cubi), il progetto prevede due complessi immobiliari: quello destinato allo stadio (fino a 60 mila posti), impianti sportivi, spazi pubblici e attrezzature per il tempo libero; e quello formato da tre grattacieli alti fino a più di 200 metri e altri edifici destinati ad attività direzionali, ricettive e commerciali (non residenze, che la legge non permette).
Nell’insieme, circa un milione di metri cubi, pari a dieci hilton, l’unità di misura della speculazione edilizia inventata sessant’anni fa da Antonio Cederna quando denunciava lo scandalo dei 100 mila metri cubi del famigerato hotel Hilton realizzato a Monte Mario dalla Società generale immobiliare. Del milione di mc, quelli destinati allo stadio e ad attività connesse ammontano a circa il 20 per cento, il resto corrisponde agli interventi – privi di rapporto funzionale con lo stadio – previsti dal comma 304 per compensare il costo delle opere infrastrutturali necessarie per la fruibilità dell’impianto sportivo (che è comunque un’opera privata). Insomma, che vi piaccia o non vi piaccia, con il pretesto dello stadio si aggiunge alla capitale un nuovo centro direzionale, non lontano dall’Eur, per iniziativa di un privato costruttore. Tra l’altro, senza che nessuno abbia spiegato che fine fanno lo stadio Olimpico e il vecchio stadio Flaminio ormai abbandonato. Per non dire della difficoltà a negare lo stesso trattamento a un eventuale richiesta di altri costruttori apparentati alla squadra della Lazio o ad altre società sportive.
Riguardo all’accessibilità, accanto a interventi di riorganizzazione e potenziamento della rete stradale e a vaste superfici a parcheggio, il progetto prevede una diramazione della metro B dalla stazione Eur Magliana alla nuova stazione di Tor di Valle. Una soluzione improvvisata, non giustificata da un’adeguata pianificazione e con difficoltà tecniche che ne rendono improbabile la realizzazione. Previsto anche il potenziamento della ferrovia Roma Lido, di competenza regionale, che già dispone di una fermata a Tor di Valle.
Il 22 dicembre 2014 l’assemblea capitolina, con il voto favorevole della maggioranza che sostiene il sindaco Marino, delibera l’interesse pubblico dell’intervento - subordinatamente al rispetto di un certo numero di condizioni - fra le proteste del M5S, del comitato Salviamo Tor di Valle dal cemento e di altri. I mesi successivi sono quelli della crisi dell’amministrazione Marino brutalmente troncata dal Pd nel novembre 2015.
La campagna elettorale per l’elezione del sindaco nel giugno 2016 vede a favore del nuovo stadio il candidato sindaco Pd Roberto Giachetti e Alfio Marchini (Forza Italia). La candidata di Fratelli d’Italia e Nuovo centro destra Giorgia Meloni si rimette alle decisioni della Regione mentre sono contrari Stefano Fassina (Sinistra per Roma) e Virginia Raggi (M5S) che pensa di ritirare la delibera sul pubblico interesse dello stadio a Tor di Valle.
Ed eccoci ai giorni nostri. Nel giugno scorso Pallotta consegna a Comune e Regione il progetto definitivo. Ma la sindaca Raggi, invece di revocare come ci si aspettava la deliberazione di pubblico interesse, concorda con la Regione l’avvio della conferenza dei servizi, rischiando di restare intrappolata in un percorso imprevedibile. Chi scrive queste righe sperava che il conclamato impegno per la trasparenza del M5S somigliasse al precetto evangelico “il vostro parlare sia sì sì no no, il di più viene dal maligno”, e fosse così per le Olimpiadi, il nuovo stadio della Roma, gli avvisi di garanzia. Ma non è così.
Le ragioni che sollecitano un gruppo di intellettuali a invitare la sindaca Raggi a ritirare il SI alla decisione, promossa da un consistente gruppo d'interessi economici, di organizzare a Roma le Olimpiadi . Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2016
In una città economicamente fallita – con un debito storico che si aggira ora sui 14 miliardi, blindato nel 2008 e spalmato fino alle prossime generazioni – con una scia di opere incompiute – basti citare la Città dello sport a Tor Vergata, con due relitti che dovevano essere finiti per i Mondiali di nuoto del 2009–o che si sono dilatate oltre ogni pessimistico pronostico di tempi e di costi – come la Metro C, che da Pantano doveva arrivare a Piazzale Clodio nel 2016 e che ancora non arriva alle mura del centro storico – è difficile avere fiducia nei cronoprogrammi e nei piani economici delle grandi opere. E soprattutto è difficile non vedere le migliaia di interventi che dovrebbero essere messi in agenda per restituire ai romani una qualità della vita degna delle altre capitali europee. Ai quali si aggiungono, dopo il tragico campanello d’allarme dei giorni scorsi, tutti gli interventi necessari per garantire la sicurezza in una città a rischio sismico.
Perché Roma è una città con uno straordinario patrimonio storico e archeologico lasciato andare in rovina perché non ci sono (o non si trovano) i fondi necessari per curarlo; è una città in cui il verde pubblico è in totale abbandono, in cui non si sfalciano più le aiuole neanche in centro, neanche in prossimità di fiori all’occhiello come il MAXXI di Zaha Hadid e l’Auditorium di Renzo Piano; è una città in cui le strade e le piazze sono cosparse di immondizie, in cui i tavolini di bar e ristoranti occupano abusivamente e impunemente lo spazio pubblico, dove le strade sono piene di buche e i marciapiedi non sono sicuri per chi ci cammina. Roma è una città con tanti quartieri in cui neanche esistono i marciapiedi. Periferie nate dalla speculazione o dall’abusivismodoveladistanzafisicadalcentrocorrispondeaun’incolmabile distanza sociale. Centinaia di migliaia di persone che bruciano una parte consistente della loro vita bloccate nel traffico o aspettando mezzi pubblici scarsi, lenti e malfunzionanti; una città con alcuni quartieri che sembrano usciti dal dopoguerra, dove non ci sono macerie ma mancano strade, fognature, elettricità.
E Mafia Capitale, l’intreccio di corruzione svelato dalle indagini giudiziarie dalla fine del 2014, non è finita. I suoi echi rimbalzano ogni giorno sulle pagine dei giornali e nelle aule giudiziarie. Le regole continuano ad essere aggirate e infrante da tanti pezzi della pubblica amministrazione, della politica, del mondo imprenditoriale, da tanti cittadini. Il degrado che si è impadronito fisicamente delle strade e di ogni spazio pubblico ha intaccato anche le comunità, la solidarietà, la dignità individuale e collettiva. L’unica risposta che ha saputo dare questa città stremata è stata il voto compatto a un soggetto politico che non ha passato e cheha promesso cambiamento. Un cambiamento anche rispetto alle Olimpiadi, dicendo chiaramente che Roma ha altre priorità da affrontare, prima di imbarcarsi in avventure dall’esito e dai vantaggi incerti.
ROMA. È una città con ferite e cicatrici profonde, che non guariranno in otto anni. Non guariranno mai, se non saranno affrontate con la serietà e la responsabilità di chi mette al primo posto le persone e l’interesse collettivo. È perfino offensivo offrire ai cittadini di Roma quello che dovrebbero avere di diritto nella forma di un modesto vantaggio collaterale da ritagliare a margine di una manifestazione sportiva.
Qualunque decisore che abbia a cuore il futuro di Roma dovrebbe sentire il dovere di portare la Capitale d’Italia a quegli standard di legalità, rispetto delle regole, vivibilità, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale che ormai sono stati raggiunti da città con storie ben più difficili della nostra.
Propagandare le Olimpiadi del 2024 come un’occasione di riscatto per la città ricorda le tristi scenografie di cartapesta con cui a Roma, in tempi poi non così lontani, si nascondevano le miserie dei quartieri più poveri.
L'ex assessore all'urbanistica della giunta Marino precisa le condizioni alle quali darebbe oggi (come diede allora) il suo assenso alla proposta di giocare il megashow delle Olimpiadi 2024 a Roma. Il manifesto, 2 settembre 2016, con postilla
Roma è candidata alle Olimpiadi del 2024 dal 15 settembre del 2015 quando Ignazio Marino ha firmato la lettera di candidatura. la sindaca Virginia Raggi può dire no; farlo è semplice, deve inviare una lettera al CIO motivando il ritiro, l'ha fatto Amburgo, lo può fare Roma. Altre candidature non possono esserci. Il sindaco di Milano si è subito sottratto alle interessate strumentalizzazioni, altri, meno seri, no. Il gioco è spingere (costringere) la sindaca a dire pubblicamente sì. Al CIO conoscono le posizioni elettorali e una dichiarazione pubblica a favore è indispensabile per non indebolire la candidatura. Sarebbe bene sottrarre la città a questi "giochi": è una priorità.
postilla
Anche l'ex assessore Caudo condivide l'opinione del suo successore Berdini che i Grandi Eventi possano essere utili alla città: in particolare, a una città come Roma. Ribadiamo il nostro dissenso da questa opinione, per le stesse ragioni per cui abbiamo sempre criticato l'ideologia delle Grandi Opere. Tutto lascia credere che comunque, se si faranno le Olimpiadi a Roma, il disegno strategico sarà quello del potente comitato promotore, il quale non convinse il sindaco Marino a dare il suo si per beneficenza, ma in nome di corposi interessi immobiliari. Sulla strategia urbanistica alternativa a quella vigente, illustrata da Giovanni Caudo, e su alcune sue anticipazioni (come la vicenda di Tor di Valle), riprenderemo il discorso quando il turbine delle dichiarazioni sulle Olimpiadi e sulla posizione della sindaca Raggi si sarà placata.
«Paralisi 5 Stelle. Movimento diviso sul da farsi nella Capitale. Mezzo sì anche sul nuovo stadio della Roma. E la Regione chiede chiarimenti. Mentre la sindaca Raggi tace». Il manifesto, 31 agosto 2016, con postilla
«Ora i 5 Stelle devono decidere cosa vogliono fare da grandi», sospira uno dei tecnici indipendenti che segue da mesi il doppio dossier Olimpiadi e nuovo stadio della Roma.
Perché su entrambi i fronti i nodi stanno arrivando al pettine e sotto la superficie del movimento più di qualcosa si sta muovendo. Lo testimoniano le chiari aperture dell’assessore all’urbanistica di Roma capitale Paolo Berdini ieri in tv ad Agorà: «Se le Olimpiadi servono per fare quattro linee della metro o la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì, entro dieci giorni decideremo».
Anche sul mega stadio americano della squadra di Pallotta il comune ieri ha inviato sul filo di lana le carte alla Regione Lazio (un atto dovuto) ma lo ha fatto in modo incompleto, senza il parere di conformità che avrebbe invece sciolto definitivamente la matassa. La giunta, infatti, prende tempo, come ha ammesso la sindaca Virginia Raggi alla festa del Fatto domenica scorsa.
Perché il nodo è politico, tutto interno al movimento e tra il movimento e il Pd, ma investe soprattutto il futuro della Capitale e di milioni di abitanti.
«Forse la partita si è riaperta», sussurrano al Coni con un tasso di ottimismo per ora non suffragato da nessun atto concreto della giunta pentastellata.
La verità è che sulle Olimpiadi, soprattutto, si consuma la partita tra Di Maio e Di Battista per la guida del movimento. I 5 Stelle, come detto in campagna elettorale, sono contrari. E Di Battista non perde occasione a livello locale per tenere fede a questo impegno.
Ma Di Maio, che è lo sfidante in pectore di Renzi, non può bocciare le Olimpiadi senza una buona ragione, una causa inoppugnabile e comprensibile anche a chi non fa parte dei meetup grillini e potrebbe votarlo a Palazzo Chigi.
Il problema è che per ora questo motivo non è chiaro, anzi, Malagò e Montezemolo hanno offerto alla nuova giunta campo libero: anticorruzione, scelta delle aree, letteralmente di tutto purché Raggi firmi il progetto definitivo da consegnare al Cio entro il prossimo 7 ottobre. Al Coni giurano che nei prossimi giorni questa carta già bianca diventerà bianchissima. Non a caso Berdini, prudentemente, aspettando le decisioni della sindaca, prova ad andare a vedere le carte nella conferenza dei servizi.
Perché la realtà è semplice: il comune di Roma, con Marino, ha già detto sì sia alle Olimpiadi che allo stadio della Roma. Perciò Raggi o revoca quelle scelte andando in consiglio (ma in questo modo attaccherebbe a Di Maio l’etichetta del signornò), come ha fatto la città di Amburgo limpidamente, o lavora duro sui dossier e dà i pareri necessari.
Dal punto di vista tecnico, infatti, le questioni da risolvere non mancano, se solo si volesse affrontarle.
Per le Olimpiadi gli ambientalisti hanno individuato 3 punti critici: il bacino remiero (un parco fluviale da 2 km da scavare sul Tevere), il centro media a Saxa Rubra e, soprattutto, la questione Tor Vergata, una zona vasta in cui vivono 500mila persone, che si può tradurre anche come «questione Caltagirone» (che è anche editore del Messaggero).
In quest’area, secondo il Coni e il comune targato Marino, dovrebbe stare il villaggio olimpico, che dopo il 2024 potrebbe diventare il campus universitario della capitale.
Il problema è che nel lontano 1987 tutti quei terreni erano di Caltagirone, che li trasferì all’università di Tor Vergata a condizione che la sua Vianini Costruzioni avesse gli appalti edili e di manutenzione nel futuro. Sono ancora validi quegli accordi? Se è così, significherebbe affidare i lavori delle Olimpiadi chiavi in mano a Caltagirone, ed è contro le norme europee. Se non è così allora di chi sono quelle aree? E’ pane per i denti di un’amministrazione comunale, che ancora oggi (ma neanche con Marino) ha detto una volta per tutte di chi e che cosa sono veramente quelle aree strategiche.
Idem sullo stadio romanista. Con Marino, il comune condizionò l’ok alla cura del ferro: o prolungamento della metro B o più treni sulla Roma-Lido. È una scelta che spetta al comune. E che la regione, guidata dal pd Zingaretti, sicuramente pretende oggi prima di dare il proprio via libera. Per i 5 stelle rovesciare il tavolo e dire di no a entrambi i progetti sembra arduo, anche per il rischio contenzioso con la stessa As Roma e il rischio finanziamenti dal governo in vista del primo bilancio della città a novembre.
Le linee programmatiche sono il documento che mostra alla città quali sono le scelte e gli interventi che dovranno essere messi in atto e qual è la visione che li guida. Il testo presentato dalla sindaca Raggi è in realtà un testo vuoto, perché manca proprio di quelle “azioni e progetti” che, sul piano della concretezza, devono dare indirizzo e corpo alle delibere della Giunta.
L’unica cosa che, invece, permea tutto il documento è l’apertura di “Tavoli” per qualsiasi cosa. Non c’è mai, però, un impegno preciso o una scadenza. In un momento storico in cui le città europee sono ferite da fatti gravissimi, non affronta nessuno dei “grandi temi” come, ad esempio, le migrazioni di milioni di persone, i cambiamenti climatici, la sicurezza, la tecnologia, il disagio nelle periferie, la mancanza di lavoro.
Prendiamo, per esempio, l’urbanistica che è, secondo me, la politica principe per dare attuazione alla visione che si ha della città, perché ha il compito di tramutare in trasformazioni urbane le idee che guidano il governo della città. Di tutto questo non c’è nulla nelle linee programmatiche, se non molta retorica e conclusioni generiche.
La sindaca Raggi dovrebbe spiegare alla città perché «ripristinare trasparenza e legalità» passi necessariamente dalla cancellazione di «tutti gli istituti di deroga discrezionali, quali le compensazioni urbanistiche e gli accordi di programma in variante urbanistica». Anche su questo serve chiarezza: se riscontra problemi di legalità, vada in Procura e denunci, se ci sono problemi di trasparenza imponga procedure chiare, se invece pensa che l’attuale Piano Regolatore Generale debba essere modificato, lo dica e lo faccia. Non può sostenere, infatti, che «verrà avviata una rigorosa verifica del Prg al fine di realizzare l’obiettivo di una concreta fine dell’espansione urbana», perché gli ambiti edificabili sono definiti dal Prg vigente e, quindi, è già un dato noto dove finisca la città.
Quello di cui c’è bisogno sono procedure chiare e snelle; a tal scopo, è necessario semplificare le norme tecniche d’attuazione del Prg e, al contempo, dotare i Municipi di procedure urbanistiche ed edilizie uniformi e online. Il controllo pubblico ovviamente non deve mancare, ma va anche pretesa qualità negli interventi architettonici imponendo elevati standard qualitativi, elevando lo strumento del concorso internazionale a procedura ordinaria per la selezione dei progetti e istituendo uffici di controllo che monitorino tutto l’iter.
L’urbanistica deve essere anche capace di ridisegnare la città e ricucire tutti gli strappi che una crescita non pianificata ha portato, ed è qui che è determinante quale idea questa amministrazione abbia delle periferie. Di nuovo, va registrata l’assoluta inadeguatezza delle linee programmatiche nelle quali si parla esclusivamente e genericamente di una «gigantesca opera di rigenerazione urbana» ma non si spiega come attuarla. Bisogna entrare nello specifico, nei singoli quartieri perché Roma ha tante “periferie” e bisogna conoscerle. Su questo tema in particolare, stupisce come con tanta superficialità si siano trattati i piani di zona (L.167/62) – per non parlare di toponimi e delle “zone O” – che, pur toccando centinaia di migliaia di cittadini, non sono neanche citati. Così come, sempre nell’ottica della rigenerazione urbana, non c’è una riga sulle centinaia di opere incompiute disseminate nella città, il cui completamento contribuirebbe in modo significativo a riconnettere e riqualificare il tessuto cittadino.
Anche sul trasporto pubblico locale, zero elementi di concretezza. Sull’ambiente non ci sono neppure 10 righe: su parchi, riserve, piani di assetto neppure una parola. Sull’agricoltura non c’è nulla! Su green economy una sola citazione del termine in un contesto estraneo. La sindaca Raggi vuole istituire un energy manager, che già esiste, ma non fa cenno a nessun progetto concreto per il risparmio energetico. Sul Tevere, neppure una parola, come se a Roma non esistesse il fiume. Sul Regolamento del Verde che Roma non ha, niente.
Manca un piano strategico ed economico per la città. Le grandi città del mondo si pensano nel futuro. Anticipano le trasformazioni ed elaborano le strategie per perseguire i loro obiettivi nella dimensione globale. Anche qui dalla sindaca quasi niente oltre piccole misure generiche. Le linee programmatiche chiamano in causa l’idea del “benessere” delle persone, ma non spiegano come verranno fotografati i bisogni sociali della città, né tantomeno si capisce quali saranno gli strumenti di valutazione della qualità e dell’appropriatezza degli interventi. O dove si collocano i due grandi assenti di queste linee programmatiche, ovvero la sanità e l’assistenza sociale.
Sulle aree metropolitane, serve un piano strategico che metta a sistema i settori industriali e produttivi della città con quelli dei comuni limitrofi, che sviluppi politiche della mobilità che non si limitino a guardare “dentro al raccordo” ma che tengano conto, ad esempio, dei flussi di lavoratori e turisti che quotidianamente si muovono nell’area metropolitana. Contemporaneamente, urge un processo di trasferimento di funzioni e risorse ai Municipi, con l’obiettivo di trasformarli in Comuni urbani. Serve quindi una vera rivoluzione amministrativa che nel programma del sindaco Raggi non c’è.
La nostra sarà un’opposizione dura, che andrà nel merito dei problemi e che, punto per punto, delibera per delibera, provvedimento per provvedimento, non si limiterà solo ad analizzare e criticare, se necessario, ma porterà sul tavolo della discussione e davanti ai cittadini soluzioni e alternative. Non ci saranno sconti da qui in avanti, quello che ci auguriamo è che, sin da subito, ai tanti interrogativi sottoposti oggi in questa sede, inizino ad arrivare chiarimenti e spiegazioni convincenti. Solo se le idee di ciascuno sono in campo e c’è trasparenza nel proprio operare allora si possono realizzare le basi per una dialettica che sia costruttiva e che produca risultati utili per la nostra città.
Comprendo che la polemica politica abbia la capacità di accentuare fino alla caricatura le posizioni altrui e giustifico dunque l’impostazione del ragionamento scelta dall’onorevole Roberto Giachetti . Ma se si passa al merito la musica cambia e si deve dissentire con forza ad iniziare da una questione che considero centrale e che invece occupa il primo degli argomenti di critica che egli utilizza per contestarne l’impianto.
Non so cos’altro avrebbe dovuto succedere a Roma per convincerci tutti a chiudere per sempre la fase delle varianti urbanistiche approvate senza un quadro d’insieme ma soltanto per favorire questa o quella cordata di finanzieri e imprenditori. Con tutti gli istituti della deroga urbanistica che il Parlamento di cui Giachetti è autorevole membro sforna a ripetizione si può costruire dappertutto qualsiasi insediamento residenziale o produttivo con la conseguenza che gli interessi pubblici sono stati subordinati sempre alla più completa libertà del privato.
Negli anni, nei lunghi anni, del centrosinistra romano, e cioè a partire dal lontano 1993 sono state approvate tali e tante deroghe urbanistiche alla nostra città che è oggi difficile recuperarne perfino l’elenco. Roma è stata insomma il battistrada della cultura nazionale della deroga urbanistica. Interi quartieri nati in aree che non lo consentivano; enormi e onnivori centri commerciali nati al posto di indispensabili servizi pubblici; aree agricole vaste e preziose sacrificate per consentire la costruzione di sempre nuove, grandi, desolate, anonime periferie. Si è addirittura consentito di aprire fast food in aree verdi di proprietà comunale.
La gravità di questo uso disinvolto dell’urbanistica ha portato principalmente a due gravi conseguenze. Dal punto di vista della vivibilità urbana è evidente – e Giachetti stesso lo sottolinea nel suo discorso – che abbiamo lasciato che si realizzassero brandelli di periferia senza quel minimo di struttura pubblica che sola definisce la città. Ma c’è un secondo aspetto che mi interessa ancora di più. L’inchiesta Mafia capitale ha finora scoperchiato il vaso di Pandora dell’accaparramento di finanziamenti pubblici attraverso procedure discrezionali: in questo modo sono prosperate come noto cooperative e imprese di servizi legate alla mala politica. Ma rendere edificabile un terreno agricolo o a basso valore economico, questo è il punto, comporta un arricchimento ancora più elevato di un appalto o di un finanziamento per gestire un servizio pubblico.
Si è in altri termini consentito di privilegiare alcuni proprietari fondiari e sono convinto che i riflettori della Procura della Repubblica si apriranno anche su questo settore. Anzi, dovrebbe essere noto a Giachetti che esistono già numerosissimi fascicoli di indagine in corso. Attraverso deroghe e mancanza di rigore non sono state infatti rispettate le convenzioni urbanistiche che prevedevano la realizzazione di opere pubbliche mentre le parti private sono state da tempo concluse. Nei piani di edilizia economica è mancata la vigilanza e si è consentito a imprese e cooperative di guadagnare sulle spalle di famiglie che cercavano soltanto di realizzare il sogno di una casa. E così via, gli esempi sono innumerevoli, ma la sostanza di questo malgoverno è sempre la stessa.
E arrivo così al punto decisivo. Afferma Giachetti che se c’è il sospetto della mancanza di legalità bisogna andare in Procura. Non mancheremo di farlo come lo abbiamo fatto negli scorsi anni in altri ruoli. Ma il problema fondamentale è che magistratura e forze di polizia sono indispensabili e sono messe in grado di operare al meglio se ci sono regole chiare. Ma non sarà così fino a che le regole urbanistiche possono essere contraddette dalle deroghe, e dunque non riusciremo nel compito di costruire città umane e vivibili. E qui mi sembra che possa aprirsi uno spazio di dialogo fecondo: è la questione delle periferie a rappresentare infatti il nodo centrale da affrontare.
Una città che si presenta con un centro antico meraviglioso ed ha la periferia più estesa disordinata e priva di servizi d’Europa non può competere con le altre città e non può rivendicare il ruolo di capitale che pure è scritto nel suo logo. Questo tema, ammetterà Giachetti, è presente eccome nel programma urbanistico del sindaco Raggi anche se non abbiamo seguito la liturgia di elencare a casaccio tutti i luoghi del degrado. Ed allora quando a settembre ci sarà lo spazio per iniziare a ragionare come fare uscire Roma dal tunnel in cui l’ha cacciata la cultura della deroga e della trasgressione, ci saranno tutti gli spazi culturali e disciplinari per avviare la gigantesca opera di recupero della periferia, come la definisce Papa Francesco, esistenziale e fisica.
«“C” come Capitale. Il sottosuolo di Roma è pieno di resti romani e corsi d’acqua. Perché allora non ripristinare soltanto la linea tranviaria?». Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)
Da qualche parte si fa notare che le informazioni storiche sulla zona di San Giovanni erano sino a ieri scarse. Per la verità le indagini di metà '800, integrate da altre recenti col georadar, hanno consentito di individuare importanti strutture a poche decine di metri dai Castra Novadi via Amba Aradam, precisamente sotto la Basilica di San Giovanni in Laterano. E sono – come scrivono gli archeologi Paolo Liverani, Ian Haynes, Iwan Peverett, Salvatore Piro e Giandomenico Spinola nella pubblicazione uscita due anni fa dalla Tipografia Vaticana – “un complesso di strutture relative al quartier generale della caserma” e non soltanto un praetorium, un macellum e, sotto il Battistero, proprio verso via Amba Aradam, un impianto termale.
Si tratta di una rete di caserme di cavalleria dell’epoca di Settimio Severo estese anche su via Merulana per gli Equites, un corpo sciolto da Costantino dopo la vittoria di Ponte Milvio. Così una parte di quell’amplissima area militarizzata venne utilizzata “per la Basilica Salvatoris”, la più antica. Se poi si procede a scavare – precisò l’archeologa Rossella Rea direttrice a lungo del Colosseo, allorché si scoprì a San Giovanni la famosa villa con grande piscina – si ritroveranno “la storia dell’uomo attivo nell’area dalla fine del VII secolo a.C. quando inizia a occupare le sponde di un corso d’acqua a fondovalle, e percorre coi carri un primo tracciato viario in terra battuta”. Ancora nel Medio Evo era zona di corsi d’acqua,mulini e“marane”. La stessa archeologa notò che “oltre le pareti del cantiere per la Linea C, la vasca si estende verso le Mura (Aureliane) dove probabilmente si conserva, e in direzione di piazzale Appio, nell’area interessata dalla Linea A ove, invece, è stata sicuramente intercettata e distrutta”. Operazione oggi, per fortuna, non ripetibile. Ma che pone varie questioni.
Spostiamoci in direzione Colosseo-piazza Venezia-Argentina: più si procede e più si fa pesante il problema delle acque sotterranee da affrontare e smaltire al di sotto dello strato archeologico per potervi realizzare stazioni e uscite. A costi sempre più elevati. Non in Largo Argentina dove sorge ancora il Foro Repubblicano. Forse davanti alla Biblioteca Vallicelliana col rischio di minarne la stabilità? Sotto Corso Vittorio scorre infatti un vero e proprio fiume, l’Euripus dei Romani, che, arrivando da Campo Marzio, sotto la imponente Cancelleria sommerge il sepolcro di Aulo Irzio, luogotenente di Cesare, caduto col console Vibio Pansa nella battaglia di Modena nel 43 a.C. Al corso di Euripus e di altre vene d’acqua i muraglioni di fine ’800 hanno sbarrato la confluenza nel Tevere alzando la falda. Secondo Paolo Marconi, anche di 4-5 metri. Insomma, non sarebbe più saggio far finire a San Giovanni la Linea C e ridare in superficie a Roma quella splendida rete tranviaria che Benito Mussolini fece svellere a partire dal 1925 perché “stoltamente contamina il carattere imperiale di Roma”? Con 430 Km, pensate, di rotaie (oggi sono meno di 40) e 50 linee regolari di tram.