La rivista compie ottant’anni
di Francesco Erbani
Quando nacque, ottant’anni fa, la rivista si chiamava La casa bella. Si rivolgeva a una borghesia in ascesa, un po’ impacciata, incapace spesso di addobbare la tavola o di sistemare le poltrone in salotto per la visita dei parenti. Proponeva soluzioni per l’abitare decoroso, educava al gusto e di gusti ne suggeriva molti. Poi, all’inizio del 1933 la testata fu affidata a Giuseppe Pagano e divenne Casabella, un neologismo di matrice modernista che spiazzava le abituali lettrici. Conservò il precetto di educare e informare, raccontando che cosa si realizzava in Europa. Ma invece di vellicare le ambizioni per non sfigurare in società, si rivolse ai primi laureati usciti dalle facoltà di Architettura (fino al 1927 il diploma lo attribuivano le facoltà di Ingegneria), un ceto professionale cui il regime fascista guardava con cupidigia, impegnato in grandi programmi di opere pubbliche e lanciato a sventrare imperialmente i centri storici italiani.
L’esito non fu esattamente quello che il fascismo auspicava. Ma l’obiettivo di educare e informare è rimasto il tratto costitutivo di una delle più celebri riviste di architettura, sostiene l’attuale direttore di Casabella, Francesco Dal Co, professore di storia dell’architettura allo Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), che ne regge il timone dal 1996. In ottant’anni Casabella ha narrato progetti e trasformazioni urbane, segnalando, documentando ciò che si agitava nel mondo dell’architettura, e non solo in quello dell’architettura e fornendo comunque l’occasione, a chi voglia oggi sfogliarne la collezione, di sondare un certo modo d’essere dell’Italia e degli italiani. Che sapessero o meno d’architettura.
La drammatica vicenda di Pagano è all’origine di questa storia. «Pagano si propone di tenere aggiornata quella piccola schiera di giovani professionisti appena laureati e di infondere loro un criterio etico nell’esercizio del mestiere», spiega Dal Co. Pagano è un fascista inflessibile. È nato a Istria nel 1896, il suo vero cognome è Pogatschnig, che cambia nel 1915 quando si arruola volontario nella prima guerra mondiale. Con i legionari di D’Annunzio occupa Fiume nel ‘19 e fonda il Fascio di Parenzo. Ma del fascismo interpreta l’anima sociale e rivoluzionaria. Marcello Piacentini dalla sua rivista Architettura propugna invece quella scenografica e monumentale. Casabella illustra i vantaggi delle scelte compiute nel Nord Europa, incalza il regime a sostenere l’intervento pubblico nell’edilizia, prende a modello la casa popolare della Repubblica di Weimar, non approva le demolizioni nei centri storici, critica gli sprechi di danaro per costruire "boriose montagne di marmo", mentre molta gente è costretta a vivere in luoghi malsani. Avversa gli speculatori che pascolano all’ombra dei gerarchi.
Fino al 1941 Pagano pensa che le sue idee non siano inconciliabili con il fascismo. Ma già nel ‘42 si dimette dalla Scuola di mistica fascista. E un anno dopo, nonostante l’amicizia con Giuseppe Bottai, è costretto a chiudere Casabella. Dopo il 25 luglio Pagano è già dall’altra parte. Si avvicina alla Resistenza, svolge attività clandestina, viene arrestato una prima volta, poi scappa ed è di nuovo catturato dalla famigerata banda Koch. Lo torturano e lo spediscono a Mauthausen, dove muore il 22 aprile del ‘45, pochi giorni prima che arrivino i sovietici.
«Pagano non fu un grande architetto», dice Dal Co. «Il progetto nel quale racchiude le sue convinzioni di aurea mediocritas è l’edificio della Bocconi a Milano. È un interprete moderato del movimento moderno e infatti terrà sempre fuori da Casabella il radicalismo propugnato da Giuseppe Terragni. Nel ‘36 cura una celebre rassegna alla Triennale di Milano sull’architettura rurale, in cui sostiene che il Mediterraneo è la culla del moderno di sempre, il moderno che tutta l’architettura deve eleggere come proprio modello».
La linea di continuità della rivista viene celebrata nel 1946, quando Casabella, che riprende a uscire a ritmi alterni, dedica un numero monografico a Pagano, curato da Franco Albini e Giancarlo Palanti, due dei suoi più stretti collaboratori. In esso è pubblicata la lettera-testamento che Pagano scrive da Mauthausen: «Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A voi continuare bene e meglio». Fra gli interventi anche quello di Ernesto Nathan Rogers, intitolato Catarsi: sarà proprio Rogers a prendere in mano le redini della rivista nel 1954.
Anche la vita di Rogers è segnata dalla tragedia novecentesca. Ebreo triestino, nel ‘39 si rifugia in Svizzera (dove tiene dei corsi ai giovani internati, fra i quali Antonio Cederna), mentre uno dei colleghi del suo celebre studio BBPR, Gian Luigi Banfi (gli altri sono Lodovico di Belgioioso ed Enrico Peressutti) muore ucciso dai nazisti in una camera a gas del lager di Gusen, anche lui pochi giorni prima della liberazione.
Rogers si inscrive nella linea di Pagano. Ma mutato del tutto è il contesto. Sono gli anni dell’impetuosa espansione delle città, della speculazione e dei grandi esperimenti di edilizia popolare (il piano Ina-Casa inizia nel 1949). «Rogers intrattiene legami con l’ambiente di Adriano Olivetti e allarga i riferimenti internazionali di Casabella», ricorda Dal Co. «Nei suoi editoriali insiste sulla dimensione etica e sul riscontro sociale del mestiere d’architetto. In questi anni Casabella compie una scelta di campo, sostiene le ragioni della pianificazione urbana contro chi lascia che la crescita delle città sia affidata alla rendita fondiaria. Questa posizione è limpidamente espressa, per esempio, nelle discussioni sul Piano regolatore di Roma, nei primi anni Sessanta, o sul centro direzionale di Torino».
Fra i nomi che arricchiscono Casabella negli anni di Rogers (che conserva la direzione fino al gennaio del 1965), Dal Co ricorda quelli di Giulio Carlo Argan, di Pierluigi Nervi e del filosofo Antonio Banfi. Contemporaneamente approdano alla rivista i più giovani Aldo Rossi, Vittorio Gregotti e Giancarlo De Carlo. Nel ‘70 Casabella tenta una svolta che, segnala Dal Co, rompe con la tradizione di rassegna d’architettura che rifiuta di farsi sostenitrice di tendenze. Alessandro Mendini, il nuovo direttore, «vuole che Casabella abbia un suo esplicito punto di vista, diventi una rivista d’avanguardia al pari di altre che si muovono sulla scena della pubblicistica e della cultura italiana dopo il Sessantotto». Ma i risultati stentano a vedersi. «Le vendite vanno male e si fa fatica a comprendere come Casabella si appiattisca troppo sul contingente». Toccherà a Gregotti, dopo la direzione molto centrata sul dialogo fra discipline – gli storici, i filosofi, i sociologi – di Tomás Maldonado, «riportare Casabella nella linea di Rogers». L’architetto milanese assume la guida della rivista nel marzo del 1982. «L’architettura torna a essere centrale, come pure l’informazione e l’aggiornamento. La novità di Gregotti consiste nell’imporre giudizi di valore di cui fa le spese uno dei protagonisti della scena di quegli anni, Aldo Rossi».
La Casabella che si è affacciata sul nuovo secolo vive in un contesto radicalmente cambiato. «Proviamo a distinguere la storia dell’architettura dalla pratica, che utilizzano strumenti diversi», racconta Dal Co, «e teniamo rigidamente separata l’informazione dalla pubblicità: la commistione nel nostro campo può avere effetti tanto soffusi quanto perversi». Ma il vero problema è la lingua che si usa per raccontare l’architettura, in un sistema in cui la comunicazione è dominata dalle parole ad effetto, dalla ricerca di stravaganza. «Di per sé l’architettura è specchio del mondo, tanto più l’informazione sull’architettura rischia di essere schiava dei luoghi comuni, dei nomi che ritornano. Il nostro sforzo è quello di non ridurla a moda o, peggio, a tatuaggio, come diceva Adolf Loos. In generale si presta troppa attenzione a progetti quanto meno contraddittori, solo perché opera di un ristretto numero di grandi firme, ma nel frattempo le città continuano a crescere in modi abnormi. A Milano, per fare un esempio, tutta l’attenzione è concentrata sul progetto dei grattacieli di City Life. Ed è giusto che si discuta. Ma non c’è la stessa preoccupazione per quel che è già avvenuto nell’area dell’ex-Maserati, che a mio avviso è un obbrobrio. Spesso sfugge la complessità dei problemi che c’è dietro l’architettura».
Quante discussioni sul moderno
di Vittorio Gregotti
Quando Ernesto Nathan Rogers venne chiamato a riaprire Casabella, insieme a Giancarlo De Carlo e a Marco Zanuso, fui scelto a far parte della redazione. Il primo numero con un testo di apertura di Walter Gropius venne pubblicato nel dicembre 1953. Nel 1956, quando De Carlo e Zanuso lasciarono la redazione, fui nominato caporedattore e rimasi sino al 1963. Furono anni di straordinarie discussioni, con il contributo di Enzo Paci, sui temi del progetto di architettura in relazione al pensiero fenomenologico, al marxismo ed al pensiero negativo. Gli incontri con tutti i protagonisti europei del movimento moderno erano frequentissimi.
Nel 1982 fui chiamato a Casabella come direttore. Il programma che si sviluppa lungo quattordici anni ha un obiettivo principale. Offrire un punto di vista preciso, quello habermasiano del progetto moderno, aperto alla discussione, contrario all’ideologia postmoderna che anche oggi perseguita l’architettura con nuove estetiche, aperto alle nuove forme di realismo critico e ai problemi del disegno urbano e territoriale. Si cercava di scegliere da un preciso punto di vista cosa pubblicare ed anche perché e di riaprire il dibattito intorno ai fondamenti della disciplina. In questo ci sono stati indispensabili i contributi di Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, François Lyotard, Joseph Rykwert, Kenneth Frampton. Ci sorreggeva poi la solidarietà di architetti come Ungers, Stirling, Siza, Bohigas, Chemetov, Ciriani, Valle, Snozzi, ma anche di architetti che sostenevano punti di vista diversi come Robert Venturi o Aldo Rossi (pubblicato nel 1984). La collaborazione con i redattori, da Croset a Bruno Pedretti, da Brandolini a Giacomo Polin, è stata indispensabile ma soprattutto il contributo attivo e costante di Bernardo Secchi e Manfredo Tafuri hanno costruito gran parte della vitalità della rivista in quegli anni. All fine del 1995 la rivista viene forzosamente acquistata dal gruppo Berlusconi, io vengo licenziato e Francesco Dal Co è nominato direttore.
Chiudendo l’ultima pagina dell’interessantissimo Libri di Pietra. Città e memorie, di Gabriella Paolucci (Liguori, € 12,50, introduzione di Giandomenico Amendola), non ho potuto fare a meno di iniziare a sentirmi più ben disposto nei confronti di quelle che chiamo “chiocce”.
Ovvero coloro che si affollano fuori dagli edifici scolastici negli orari di inizio e fine attività, dimentichi di tutto tranne del pupo che stanno accompagnando. Tanto dimentichi da lasciarsi andare a comportamenti che notoriamente interferiscono col traffico e il resto delle attività dell’area.
É solo un esempio dei modi in cui la qualità di uno spazio varia nel tempo: dall’estremo della desolazione e abbandono di una giornata di festa, quando anche gli spazi verdi e aperti restano esclusi e inaccessibili, all’integrazione-traboccamento di altri istanti. Tematiche affrontate dalle politiche urbane del tempo, che occupano le ultime righe dell’ampio lavoro di Gabriella Paolucci, e che rappresentano “un importante avanzamento rispetto alla precedente noncuranza, sia scientifica che politica, per questo ordine di questioni”.
Un “ordine di questioni” esposto e articolato, in questo lavoro assai innovativo, dove partendo dall’assunto consolidato secondo cui gli spazi delle città sono dei testi, vengono indicati vari modi in cui i Libri di Pietra possono essere non solo sfogliati, ma anche riletti e riscritti su infiniti piani spazio-temporali.
Anche pensando a quel complesso rapporto delle “chiocce” citate all’inizio, con le stratificazioni urbane che attraversano, nel loro entrare e uscire da quel ruolo (prima e dopo l’interfaccia col quartiere scolastico nei due momenti di punta), poi nel ribaltare in positivo i rapporti di quello specifico spazio/funzione con la città, e infine allontanarsi in varie direzioni. Attraversando ambienti che come ci ricordano le primissime battute di Libri di Pietra, sono vere e proprie montagne russe nel tempo, vertiginose oscillazioni nei pochi passi che separano la rovina romana dalle scale della metropolitana, sguardo sinottico su “l’insieme dei sedimenti che il flusso del tempo lascia sullo spazio”.
É facile intuire l’immensità delle articolazioni di una ricerca estesa verticalmente, orizzontalmente e trasversalmente sull’insieme degli spazi, dei tempi, e dei soggetti. La città insomma, come una enorme versione di Pollicino, lascia cadere pietre sullo spazio nel suo cammino attraverso il tempo: è sufficiente seguirle, per “ritrovare la strada”? Forse sì, ma come ci spiega Gabriella Paolucci le risposte, in questi Libri di Pietra, dobbiamo anche imparare a comprenderle.
Nota: per gentile concessione dell'Autrice, su Mall riporto alcuni paragrafi sul caso di Atene, con qualche immagine (f.b.)
L’ultimo libro di Franco La Cecla (Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, 2008) è una provocazione come non se ne vedono spesso. La chiave, in parte autobiografica, rende più efficace la critica: a circostanze, temi e prassi che riguardano l’architettura oggi. «Perché non sono diventato architetto», è il titolo del primo capitolo, argomentato anche con la testimonianza di Orhan Pamuk che, si scopre, ha cominciato a fare architettura per poi rinunciare, come l’autore, a seguito di esperienze banali come cercare casa, e decidendo di studiare «l’essenza propriamente narrativa di cui gli spazi sono fatti». Ma l’architettura delle nuove tendenze sembra ignorare questo. E così si condanna a non pensare più alla città come a un racconto, intreccio di esperienze di vita di generazioni, di sconosciuti che si incontrano, al senso dello spazio pubblico, al territorio con le sue risorse, alla convivenza. Una volta eliminato tutto questo rimane il «brand», quindi la riduzione di qualunque spazio di cui l’architettura oggi si occupi, a pura immagine, alla bidimensionalità patinata delle illustrazioni delle riviste: utilizzando il sistema comunicativo della moda - quello più efficace - l’architetto si dedica ad attrarre consensi, da utilizzare in modo disinvolto nei circuiti dell’informazione.
La Cecla afferma, insieme a Pamuk, che «fin quando le città e le pratiche messe in atto per comprenderla e trasformarla non rinunceranno alla carica del colpo di genio riformatore (...), fin quando non riprenderanno a essere innanzitutto narrazione, racconto della costellazione profonda e densa, della orizzontalità e verticalità esistenziali di cui le città sono fatte, saranno soltanto esercizi inutili, capricci di sedicenti creativi baciati in backstages asettici dalle parche della moda». Si spiega come in questo contesto dominato dallo star system, il dibattito sull’architettura sia destinato a rimanere inefficace ma in compenso molto spettacolare. Si ambisce a una modernità superata dagli eventi che però funziona sempre - come logo - a coprire deficit di contenuti dando spazio a chi promette di realizzare meraviglie.
Le maggiori critiche dell’autore, con un po’ di sano disincanto, sono rivolte a questo mondo che invece attrae molto pubblico. Quando cita polemicamente il pensiero di Rem Koolhaas: «Lo shopping è con tutta probabilità l’ultima forma restante di attività pubblica», rende evidente lo scarto fra le teorie e la conoscenza di differenti situazioni (la Sardegna ad esempio: qui Koolhaas e stato ospite di Festarch) raccontate brillantemente qualche giorno fa da Flavio Soriga su La Nuova: «A Seneghe lo shopping non è granché, ma scippi zero, neanche uno (...)», a proposito di mondi da vip e di distanze dalla realtà.
Il tono incalzante di La Cecla è persistente e si impone come una di quelle occasioni rare in cui le idee ci sono, argomentate con esempi e confronti. L’ esempio di Barcellona fa riflettere: «Se trasformi la tua città in un logo, prima o poi è meglio che vai a vivere altrove». Ma anche Palermo o quartieri newyorchesi come Harlem suggeriscono, senza dare certezze, una riflessione più accurata sul senso degli interventi - nelle città e oltre le città - a cui oggi stiamo assistendo.
Le responsabilità degli architetti. Ma ancora di più di quelli che gli attribuiscono un ruolo che in realtà spetta, in democrazia, ai procedimenti collettivi, ridotti invece a finzioni utili a suscitare molto clamore ma senza un dibattito vero. Così la differenza di mezzi impiegati fa la ragione. Si potrà obbiettare che è sempre stato così, che la democrazia ha le sue pecche, ma i piccoli e grandi esempi che l’autore propone depongono a favore di una revisione dello statuto formativo della figura professionale dell’architetto e non solo. Occorre riflettere con cura sull’invito esplicito di La Cecla ad andare oltre l’architettura per prendere finalmente sul serio la questione urbana e ambientale.
L’immagine che adorna la presentazione dell’articolo è stata disegnata da Elena Tognoni per eddyburg, sollecitata dalla lettura dell’articolo “ Il mattone col pennacchio” di Giuseppe Pullara
I bambini, in quanto «non necessariamente legati alla quotidianità, intesa come l’unica realtà possibile» sono «soggetti agguerriti, dotati di speranza e di uno sguardo che può essere fertilmente utopico» scriveva ormai dieci anni fa l’urbanista Mauro Giusti, tra gli studiosi che maggiormente hanno creduto alla necessità di coinvolgere i più piccoli nelle attività di conoscenza e di progettazione dello spazio urbano. Giusti è purtroppo scomparso prima di vedere gli esiti del suo impegno, ma ha comunque tracciato le coordinate, le ragioni e gli ostacoli di un campo dove, più ancora che altrove, sarebbe necessario mettere in discussione ciò che appare naturale, neutrale, normale, assumendo invece uno sguardo legato alla specificità dei problemi.
Priorità ai pedoni
La celebrazione oggi della Giornata Mondiale del Gioco, promossa in Italia da GioNa (l’Associazione Nazionale delle Città in Gioco, cui fanno capo i comuni, la comunità montane e le province concretamente impegnati per rendere il gioco parte integrante della vita dei cittadini), rappresenta quindi un utile spunto per tirare un bilancio – proprio a partire dalla situazione dell’infanzia – sulla domanda di qualità ambientale nel nostro paese, in un momento in cui l’affermazione della destra neoliberista rende più evidente l’esigenza di una attrezzatura progettuale capace di coniugare le forti spinte individualiste con i limiti che impone il vivere comune. E certamente le politiche del territorio che si confrontano con i temi dei ritmi dell’esistenza non trovano risposte se ci si affida alla sola logica del mercato, e tanto meno a quella della rendita, della speculazione o addirittura del malaffare.
Negli ultimi tempi sono state sempre più numerose le amministrazioni locali che hanno promosso iniziative, coinvolgendo bambini e ragazzi soprattutto nella conoscenza dell’ambiente in cui vivono e nel miglioramento dello spazio pubblico. Lo conferma fra l’altro «Ecosistema Bambino», la ricerca annuale di Legambiente sulle politiche di partecipazione per l’infanzia degli enti locali che in questo 2008 ha compiuto dieci anni. Sebbene l’effettiva realizzazione di questi progetti sia ancora limitata, in alcuni contesti urbani sono stati creati o riqualificati spazi aperti d’uso pubblico e collettivo ospitali per l’infanzia: sistemi integrati di spazi verdi, cortili urbani e scolastici opportunamente trasformati, percorsi sicuri casa-scuola, che invertendo la consueta gerarchia, accordano priorità al pedone rispetto all’automobile.
Proprio in base ai dati dell’ultimo studio di «Ecosistema bambino » emerge ancora una volta come sia la città storica centro-settentrionale – soprattutto quella di media dimensione, in particolare in regioni come il Piemonte e l’Emilia, caratterizzate da una forte tradizione civica urbana – ad accogliere come nodali i temi della qualità dell’abitare .
Ben diversa purtroppo appare la situazione nei territori che avvolgono molte di queste città, e soprattutto le condizioni abitative delle regioni meridionali. Nel Sud le operazioni di recupero urbano non sono, fino ad oggi, riuscite a invertire il processo di degrado delle infrastrutture urbane e degli spazi aperti di uso collettivo; pur in presenza di qualche differenziazione regionale, il paesaggio riflette una situazione sociale che vede «una parte della popolazione le cui buone condizioni economiche sono legate a un rapace rapporto con il territorio… e un’altra consistente porzione in uno stato vicino alla soglia di povertà », come scriveva Arturo Lanzani nel suo I paesaggi italiani (Meltemi 2003) . La consapevolezza che solo un sentimento sedimentato riguardo all’idea di bene pubblico e collettivo possa dare nuovi orizzonti alla qualificazione dei territori meridionali sembra di recente aver ispirato il tentativo didascalico del libro a fumetti per ragazzi Viaggio nella storia della città, uscito per Iiriti, nel quale l’educatore calabrese Antonino Sergi ha illustrato la storia dell’urbanistica dalla preistoria ai nostri giorni.
Ma come documentava qualche anno fa la sociologa Luciana Bozzo nel saggio Pollicino e il grattacielo (Seam 1998), dedicato alla difficile impresa di crescere nella realtà urbana contemporanea, anche quando lo sguardo si fa più attento, la visione resta sfocata, e continua per lo più a mettere in primo piano la famiglia assimilando il bambino allo sfondo delle esigenze di quest’ultima: essenzialmente figlio e scolaro, sempre più bene privato di investimento affettivo e sociale, utente di servizi pubblici, laddove vengono istituiti, più spesso cliente di servizi privati che tendono nel tempo a coprire ogni momento della sua giornata. Bambino cliente, ma soprattutto consumatore, coccolato dal mercato che gli dedica un’attenzione specifica e gli si impone con la raffinata pubblicità televisiva.
Piccoli principi solitari
A questo proposito, in un volume, La città bambina. Esperienze di progettazione partecipata nelle scuole, uscito nel 2006 per le Edizioni Museo delle Fate, Giancarlo Paba e Anna Lisa Pecoriello individuavano nel venir meno dell’abitare comune, dell’ospitalità di strade e piazze, che da luoghi dell’interazione sociale sono divenuti esclusivi canali di transito, le ragioni della perdita per i più piccoli della libertà di movimento e di gioco in autonomia, di quel «tacito assenso da parte della comunità sul loro diritto ad usare estesamente l’intero quartiere (marciapiedi, strade, angoli, cortili…), compresi i giardini e gli spazi di transizione da una casa all’altra», come scriveva nel ’95 Franco La Cecla nella raccolta di saggi Bambini per strada.
In nome della sicurezza, della quale sono stati negati i presupposti, i bambini vengono (in)trattenuti, quando è possibile, in casa di fronte ai cartoni a mangiucchiare merende, lontani dall’ambiente esterno, considerato denso di pericoli eminacce, non solo per il traffico automobilistico, masoprattutto per quanto di sconosciuto e diverso può accogliere. Lo spazio virtuale (televisione, computer, playstation) pervade lo spazio casalingo, la «cameretta», di questi bambini solitari, perché sempre meno numerosi, spesso figli unici.
Questi piccoli principi di una famiglia sempre più magra e più lunga (così Chiara Saraceno in Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, 2003), fuori dalle mura domestiche sono incalzati dai tempi rigidamente scanditi dai molteplici impegni che occupano il loro tempo libero, le ormai indispensabili attività formative, dove essere accompagnati/trasportati: attività sportive, scuole di lingue, di arte, di danza. L’autonomia del bambino, l’opportunità, cioè, che egli eserciti libere scelte, è sempre più limitata in quanto le sue giornate sono sempre più programmate, controllate e gestite dagli adulti sulla base dei loro modelli, valori, necessità.
Nel momento in cui si radica l’equivoco che la sfera ludico-ricreativa sia priva di valore formativo, l’esigenza di protezione e quella di educazione si intrecciano al punto da fondersi, finendo entrambe per rafforzarsi nell’ostacolare la formazione equilibrata della personalità del bambino, in particolare mediante opportunità di gioco spontaneo.
Eppure, già una ventina di anni fa la Convenzione sui diritti dell’infanzia – approvata dall’Onu nel 1989 e ratificata dall’Italia nel ’91 – aveva sancito la fondamentale importanza che il gioco riveste nella formazione dell’individuo, ribadendo che una attività ludica spontanea aiuta il bambino a crescere non solo fisicamente, ma anche mentalmente, emotivamente e socialmente. Uno sviluppo ostacolato, se non addirittura impedito, dall’ambiente urbano così come si presenta ancora oggi, con tutte le sue forme di esclusione e segregazione.
Un legame corporeo È proprio la crescente emacroscopica, difficoltà della relazione tra il bambino e la città, a richiedere in modo eclatante che gli adulti mostrino una diversa sensibilità nei confronti della specificità infantile, affermando l’idea del bambino come persona, con i diritti che ne derivano. Dal punto di vista della qualità urbana, tale prospettiva porta, tra l’altro, a individuare nel bambino un fondamentale «parametro »: in altri termini, secondo quanto scriveva già una dozzina di anni fa Francesco Tonucci nel suo La città dei bambini (Laterza 1996), migliorare l’ambiente per il bambino – inteso come persona che ha particolarmente bisogno di essere tutelata – significa migliorare l’ambiente di tutti. Al tempo stesso, si comincia a riconoscere al bambino, almeno a livello culturale, lo statuto di attore sociale, con competenze proprie e punti di vista specifici, con un modo peculiare di concepire e utilizzare lo spazio fisico. Un legame, quello che si osserva e si ascolta tra i bambini e la città, di tipo corporeo, concreto, legato ai luoghi, al proprio vissuto. «Il bambino è agitato, direbbero le madri, ed è proprio così: il bambino agisce in uno spazio fisico più irregolare e tentativo, imprevedibile, angoloso, frattale, rispetto a quello dell’adulto... lo interpreta in modo multidimensionale, aperto, non direzionale, non economico, sovrabbondante»: così scrive Giancarlo Paba in un testo, «Fiducia, gioco, desiderio, nella progettazione partecipata», che fa parte di una raccolta di saggi curata da Daniela Poli, Il bambino educatore. Progettare con i bambini per migliorare la qualità urbana (Alinea, 2006).
Fra scivoli e altalene
Questo volume – come l’altro di Paba e Pecoriello La città bambina – è espressione di un preciso ambito culturale, la fucina generosa del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti, il Lapei dell’università di Firenze, che da più decenni ormai ricerca e sperimenta percorsi di pianificazione e progettazione territoriale tesi alla valorizzazione dei luoghi e all’inclusione sociale. Tema più che mai cruciale, quest’ultimo, dal momento che, come rilevava Egle Becchi nel suo studio I bambini nella storia (Laterza 1994), se l’esclusione si incontra «nei territori del femminile, dell’età avanzata, della povertà, della patologia e dell’anomia... per il bambino ha, se è possibile, una forza ancora maggiore, perché l’infanzia – lo esprime la parola stessa – è supposta non parlare, non comunicare, non dire di sé, non essere in grado di dare – tanto meno di scrivere – le informazioni essenziali per la sua identificazione». Anche se in realtà oggi, osserva Giancarlo Paba, più che di infanzia bisognerebbe parlare di infanzie, dato che «la condizione materiale e la considerazione sociale dei bambini sono cambiate nel corso della storia, e sono ancora oggi profondamente differenziate nelle diverse culture, città e società».
Sta di fatto comunque che, al posto dei soliti spazi livellati, spesso recintati e immancabilmente dotati di scivoli, altalene e giostrine (che fra l’altro sono pericolosi perché si rompono o sono usati in modo improprio), i bambini richiederebbero ambienti di gioco e luoghi di incontro frequenti, vicini, aperti a tutti e «ricchi», intendendo per «ricchi» – nota Francesco Tonucci – «articolati, mossi, con ostacoli, cespugli, muretti, alberi, materiali diversi». Non a caso i criteri sociourbanistici di accessibilità, articolazione e flessibilità sono stati individuati tra i più importanti per definire luoghi collettivi e pubblici che siano significativi per la comunità di tutti gli abitanti, bambini e adulti.
Rompere le scatole
Del resto, nel loro Manifesto per una città bambina, Giancarlo Paba e Anna Lisa Pecoriello ne hanno individuato i caratteri ideal-tipici: una città sensibile ai mille corpi differenti degli abitanti; una città da assaggiare e toccare; una città con strade amiche e democratiche e uno spazio molto pubblico; una città-macchina per giocare; una città che recupera, ricicla e costruisce in armonia con la natura.
Maforse, come suggerisce ancora Paba, dai bambini bisogna imparare soprattutto «a rompere le scatole», in tutti i significati dell’espressione: «aprire i giochi, smontare i congegni, rompere le “scatole nere” per vedere quello che c’è dentro e se quello che c’è dentro funziona ancora... decostruire i protocolli, le routine sociali, e inventare continuamente gli strumenti, i modelli, gli attrezzi, i giochi (materiali e sociali) attraverso i quali gli abitanti trasformano se stessi, e la loro città».
Iniziative
Una settimana ludica, e non solo
Si chiama “Giornata mondiale del gioco», ma si svolge in realtà nell’arco di una settimana, da oggi fino al 30 maggio, l’iniziativa lanciata nel 2003 dall’Associazione Internazionale delle Ludoteche (Itla, www.itla-toylibraries.org).
Nell’arco di pochi anni la proposta ha raccolto l’adesione di molte altre associazioni che, promuovendo incontri e manifestazioni di diverso tipo, cercano di riaffermare il diritto al gioco sancito dalla Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Numerose naturalmente le iniziative previste oggi e nei prossimi giorni. A Firenze, per esempio, oltre a diverse attività ludiche in giro per la città, il LudoCemea - Gruppo di ricerca dei Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (www.cemea.it) organizza presso la Bottega dei ragazzi dell’Istituto degli Innocenti un dibattito sul tema «Il gioco in occidente». A Torino invece la comunità di GiocaTorino sarà tutta la giornata in piazza San Carlo a promuovere giochi di società per adulti e ragazzi con dimostrazioni e partite introduttive a più di cento giochi diversi. Allestimento di una ludoteca con giochi da tavolo, animazione con il ludobus e dimostrazioni di kubb sono in programma a Udine sabato prossimo. Un calendario completo degli appuntamenti si può trovare nel sito dell’Associazione Città in Gioco. www.ludens.it
Marco Romano, studioso e docente di Estetica della città, ha già scritto per Einaudi un denso saggio sulla città europea nel 1993.
Il nuovo volume per lo stesso editore ( La città come opera d'arte, 100 pagine, 9 euro) sviluppa gli stessi temi in chiave divulgativa, con interessanti analisi critiche di alcune città molto note. L'obiettivo è quello di spiegare i modi contemporanei di pensare le città mantenendo nello sfondo le passate volontà di realizzare muri in grado di offrire un orizzonte nel quale radicare le speranze della civitas.
Se la città è un'opera d'arte - osserva Romano - vuol dire che ha un committente e un autore con intenzioni artistiche e che sarà sottoposta continuamente, attraverso revisioni, ad un giudizio critico. Questo, in sintesi, l'assunto che l'autore propone con articolate riflessioni sulla bellezza del paesaggio costruito, con esempi tratti dalla grande storia urbana europea e anche dalla cronaca delle vicende minime delle città a partire da molti secoli fa.
Proprio questa vicinanza ai fatti urbani nel loro concretizzarsi secondo le decisioni dell'artista e del committente - la collettività dei cittadini - rende la lettura di questa breve pubblicazione particolarmente interessante per tutti quelli che oggi seguono con curiosità crescente i processi di trasformazione dei luoghi dove abitano.
Il dibattito attuale riguarda, spesso in modo sottinteso, la dialettica fra bello e brutto, ma solo se il tema è collettivo. Si scopre che è sempre stato così, indipendentemente da come giudichiamo oggi l'esito delle vicende passate, almeno dalla nascita della civiltà comunale, quando - come dice Brunetto Latini - «ogn'om che al mondo vene/ nasce primamente ai suoi e al suo comune»: è l'inizio della partecipazione democratica alla realizzazione concreta dell'urbs, cioè alla rappresentazione di sé, della propria cittadinanza.
La prima delle tre parti che compongono il libro chiarisce la differenza fra temi collettivi, pubblici e simbolici. I temi collettivi, il loro rinvenimento - nelle grande varietà di tipologie tipiche della città europea come le mura, la chiesa principale e secondaria, i palazzi, le facciate delle case, le logge, i teatri, le strade e le piazze a tema - diventa il terreno dell'esperienza critica. Sono i temi più diffusi, tanto da rendere possibile di verificarne il senso in tutte le città europee, realizzati «con l'esplicita intenzione di metterli in campo, nella sfera estetica, come temi del loro confronto di rango, e destinati dunque a durare per sempre».
E' la città europea che incorpora da sempre la civitas democratica, dove i cittadini hanno visto crescere gradi di libertà, diritti e doveri connessi all'appartenza: la democrazia, la libertà di esprimere il proprio punto di vista su qualsiasi questione è la condizione che rende possibili le successive considerazioni di carattere estetico.
«La civitas europea ha dunque una sua riconosciuta personalità, di ordine superiore a quella dei cittadini che la compongono, e proprio come i singoli cittadini in quanto individui confrontano il proprio status nella facciata della loro casa, così i medesimi cittadini in quanto civitas, rappresentano il rango che considerano confacente alla propria città nella grandiosità e nella magnificenza relativa dei suoi temi collettivi».
Conta, in questo processo, il contributo che ciascun cittadino e ogni casa edificata, il possesso di una casa, portano agli insediamenti. A questo proposito Romano vede i limiti dei nostri quartieri popolari la cui uniformità architettonica, progettata a fin di bene, sottolinea «la cittadinanza di secondo rango» di abitanti privati di libertà espressiva «che nella nostra civitas è il complemento e la visibile conferma della libertà di parola».
Nella seconda parte l'esercizio critico si fa serrato: gli aspetti più noti delle città europee vengono passati al vaglio di principi estetici che nel corso del tempo hanno prodotto «regole» e «trasgressioni»: una chiave di lettura ancora essenzialmente estetica, con la quale si esprime a fondo il senso della cittadinanza ossia l'orgoglio di essere accomunati, parte di un luogo.
Non c'è nostalgia in queste riflessioni che, nella terza parte del libro, lasciano intravedere l'articolazione di una ricerca che l'autore ha realizzato in più decenni, e l'ambizione che si percepisce al di là della complessità della riflessione, di portare il lettore a guardarsi attorno e non accontentarsi della generalità di ciò che vede, ma a cercare qualcosa su cui fermare lo sguardo, da apprezzare, perché questo è uno dei modi per riconoscersi.
Che ci sia bisogno di un rinnovato e più consapevole senso di partecipazione alle scelte sui temi della civitas come antidoto ai disastri che il Novecento ha prodotto?
Il lettore, anche a questo proposito, potrà rintracciare altre indicazioni sul sito www.esteticadellacittà.it curato dallo stesso Romano, tra l'altro vi troverà in costruzione alcuni «ritratti di città» casi di un esercizio critico su basi estetiche.
Ma dato che l'attuale dibattito sulla bellezza degli insediamenti consolidati non può prescindere dalle disposizioni del Codice di tutela dei beni culturali, importante conquista culturale del nostro tempo, si potrebbe considerare questa tappa come il presupposto per l'elaborazione di altri temi collettivi per città vivibili e nuovamente belle.
Giuseppe Boatti, L’Italia dei sistemi urbani, Electa, Milano 2008, 40.000 €
Un libro importante, che ha per obiettivo la ricerca della dimensione più efficace per la pianificazione del territorio: la ricerca di “confini sensati”, come scrive l’autore. Il quale, giustamente, parte dalla contestazione di espressioni e concetti come “città infinita”, “città rete”, “confini liquidi”, che immediatamente alludono all’insondabilità e, quindi, all’ingovernabile. Secondo Boatti, il “continuo urbanizzato”, la “città regione” e simili sono un prodotto della fantasia o di convenienze politiche, alle quali la cultura specialistica, le università e i poteri istituzionali hanno il torto di non obiettare, sostanzialmente avallando gli effetti devastanti che quelle definizioni determinano sui fondamenti stessi della pianificazione. C’è addirittura chi sostiene che solo “pregiudizi estetici di natura piccolo borghese” non consentono di percepire le opportunità degli insediamenti dispersi, che un sapiente ricorso al progetto urbano potrebbe cogliere.
Succede così che, quanto più si accetta come indefinito, sconfinato e disperso il sistema insediativo, tanto più l’unica certezza resta quella dei confini comunali che, nella situazione data, significano solo “che il territorio è nelle mani del mercato e che il suo essere nelle mani dei sindaci democraticamente eletti è, purtroppo, solo ingannevole apparenza”. Le conseguenze inevitabili sono la crescita continua dell’urbanizzazione, della congestione, dell’inquinamento, dello stress e del disagio esistenziale.
Che fare allora per mettere un freno a tendenze così rovinose? Obiettivo dello studio di Boatti è di riuscire intanto a decifrare un po’ meglio la struttura generale dell’insediamento urbano nella fase storica della sua dilatazione e soprattutto del continuo aumento della sua complessità. Egli è convinto che il sistema urbano sia, insieme all’impresa e allo Stato, “una delle macchine economiche o, se si preferisce, delle macchine con effetti economici fondamentali, le cui prestazioni dovrebbero essere tenute sotto costante controllo per intervenire tempestivamente ogni volta che si manifestino sintomi di crisi”. Ciò imporrebbe, in alternativa alla pianificazione fondata pressoché esclusivamente sui confini comunali, una diversa dimensione territoriale, privilegiando quella coincidente con l’estensione del mercato del lavoro. Il punto d’avvio dell’indagine è infatti che la città, la città importante, è il luogo in cui si verifica un’eccedenza di posti di lavoro rispetto alla popolazione residente occupata. In altre parole, e con una certa semplificazione, il sistema urbano è l’area in cui il numero dei pendolari in entrata è superiore a quello dei pendolari in uscita. Ciò consente di leggere le conurbazioni non più come una indefinita continuità, ma come un “discontinuo funzionale”, e perciò governabile.
Per sviluppare quest’impostazione, Boatti ha condotto un lavoro immane, raccolto in un libro di grande formato, ricchissimo di documenti, di complesse elaborazioni statistiche e, soprattutto, di un vasto apparato grafico. Di fronte a un’opera siffatta, si sarebbe indotti subito a pensare che sia il prodotto di un’iniziativa pubblica, di un’autorità scientifica, del Cnr, o del ministero dell’Ambiente e del territorio, con l’intento di fornire un fondamentale supporto di metodo e di indirizzo all’attività pianificatoria istituzionale. Viceversa, è opera di un solo studioso che, con tenacia ventennale, con l’aiuto di allievi e collaboratori, ha continuato a indagare l’evoluzione dell’assetto territoriale.
Non si può dar conto qui, puntualmente, dei risultati raggiunti. Il metodo del sistema urbano definito dall’eccedenza dei posti di lavoro (e di studio), applicato all’intera realtà nazionale, consente di verificare che, in Italia, operano più di 300 sistemi urbani. I principali sono i seguenti, con le relative definizioni proposte da Boatti, sulla base dei dati analizzati:
Milano: “area metropolitana monocentrica complessa”
Roma: “area metropolitana monocentrica”
Napoli: “area metropolitana densa e prevalentemente monocentrica, ma fortemente complessa”
Torino: “area metropolitana monocentrica (complessa)”.
Sorprendentemente, il quinto sistema urbano per dimensione demografica è quello di Brescia, al quale seguono, fino a 500 mila abitanti: Palermo, Firenze, Bologna, Bergamo, Verona, Padova, Genova, Bari, Catania, Cagliari, Venezia, Modena.
Se ora si considera che, per esempio, nel sistema urbano di Milano, formato da 429 comuni, e oltre 5 milioni di abitanti, solo il 25% della popolazione risiede nel capoluogo, si vede bene quanto sia distorta e iniqua un’organizzazione del territorio fondata sulla pianificazione comunale. A mano a mano che cresce il peso dei comuni periferici, dovrebbe invece logicamente ridursi il potere del capoluogo, a favore di uno specifico e più rappresentativo livello di governo.
Boatti ha accertato che il “buon vecchio azzonamento delle province” – quello precedente le ultime, discutibili new entry (Monza, Barletta-Andria-Trani, Medio Campidano, eccetera) – sarebbe ancora oggi quasi ovunque perfetto, proprio in termini di corrispondenza con la realtà e, più precisamente, di non rescissione delle relazioni territoriali reali. Dovrebbe quindi essere opportuno l’affidamento alle province delle scelte strategiche e di maglia più larga, lasciando quelle esecutive e di maglia più fine ai comuni. Ma in tutte le regioni, anche se in modi tecnicamente differenziati, alle province sono state attribuite competenze soprattutto in materia di aree agricole, riservando ai comuni poteri pressoché esclusivi in materia di aree edificabili. E ogni tentativo di modificare quest’impostazione è stato neutralizzato.
Come so poteva prevedere, Boatti si ferma in particolare sulle vicende di Milano e della Lombardia. Negli ultimi lustri si sono scontrate due tendenze:
- far evolvere la regione verso un’unica indifferenziata conurbazione
- coltivare e preservare il policentrismo regionale come fondamentale e anzi quasi unico vaccino anticongestione, rafforzando le singole polarità attraverso politiche di localizzazione dei servizi di valorizzazione delle specificità locali.
Nel 1999 fu adottata una proposta di piano territoriale di coordinamento della provincia di Milano (curata dallo stesso Giuseppe Boatti), fondata su un “modello policentrico discontinuo”, mentre era invece assicurata la continuità del verde. La proposta, com’è noto, fu subito rimessa in discussione e concettualmente superata dal documento votato dal consiglio comunale di Milano nel 2000, non a caso titolato “Ricostruire la grande Milano”. A partire da quella data, e sulla scorta della legislazione urbanistica regionale, si è dato il via alla nuova era del self-service urbanistico, cioè dei programmi integrati d’intervento, in forza dei quali i privati possono individualmente proporre qualunque tipo di modificazione delle previsioni su parti anche molto estese e significative del territorio.
Il comune capoluogo ha esteso intanto il suo controllo sull’intera area milanese. Le braccia, “più numerose di quelle di Shiva”, attraverso le quali Milano esercita silenziosamente questo ruolo, oltre i propri confini, si chiamano ATM, MM, SEA, eccetera. È in questa temperie che matura l’errore forse più clamoroso: il caso Malpensa. Il comune di Milano insensatamente rafforza Linate, che alimenta hub concorrenti (Londra, Parigi, Francoforte, Amsterdam, Madrid). Malpensa va in malora, e si dice che la colpa è dell’Alitalia.
Boatti offre infine un sintetico ma esauriente confronto internazionale, dando conto delle esperienze di altri Paesi europei e, in dettaglio, dei piani territoriali di Lione (56 comuni, 1.300.000 abitanti) e di Francoforte (73 comuni, 2.200.000 abitanti). Le conclusioni sono drammatiche. La distanza fra l’Italia e l’Europa appare enorme, ma soprattutto – secondo Boatti – appare paurosa la prospettiva, anzi la certezza, di un progressivo aumento di questa distanza, dovuto al divergere delle rispettive direzioni di marcia: verso una regulation sempre più rigorosa in tutta l’Europa e, invece, “verso la deregulation della cicala nell’Italia dello scialo del territorio”.
“Eppure – riporto integralmente le ultime righe del libro di Boatti – istituti di cultura, organismi associativi già benemeriti e università già prestigiose, invece di suonare il campanello d’allarme, fingono con signorile distacco di non accorgersene. E più d’uno di quelli e di queste si attende forse qualche compenso per un silenzio così beneducato. D’altro canto più o meno lo stesso sembra finora aver fatto la nostra classe imprenditoriale, che invece di essere seriamente preoccupata per il danno che a tutti deriva dal decadimento sia di prestazioni che di qualità ambientale del nostro sistema territoriale, e di agire di conseguenza, pare aver definitivamente delegato le questioni dell’assetto fisico del territorio alle sole, non disinteressate cure delle organizzazioni dei costruttori. Quanto ai sindacati, i tempi non diciamo degli scioperi (che pure ci furono), ma almeno dell’attenzione su questi temi della società sembrano tanto lontani da appartenere davvero a un altro millennio”.
Nel programma elettorale del Partito democratico si poteva leggere: «basta con l’ambientalismo dei no». Subito dopo, un ricco elenco di grandi opere contestate dalle comunità locali, dal treno ad alta velocità (Tav) in Val Susa agli inceneritori, da nuove centrali elettriche ai rigassificatori. Nell’emergente bipartitismo del paese, le resistenze locali sono presentate come egoismi e miopie, conservatorismo e sindrome « nimby» (non nel mio giardino). Si tratta di una rappresentazione che non regge appena si guardano le cose più da vicino. L’hanno fatto gli studiosi Donatella della Porta e Gianni Piazza, nel nuovo libro Le ragioni del no. Le campagne contro la Tav in Val Susa e il Ponte sullo Stretto (Feltrinelli, 187 pp., 11 euro). Ripercorrendo le Alpi attraversate dal progetto di supertreno e lo Stretto di Messina attraversato dal superponte, il volume offre una ricostruzione delle proteste parallele, ma soprattutto mette ordine concettuale nei conflitti legati alle grandi opere.
L’analisi di della Porta e Piazza - usando come fonti interviste, documenti e giornali - affronta tre dimensioni chiave; la prima riguarda le risorse della protesta: come nascono e si sviluppano le reti di comitati locali, le alleanze con altri gruppi della società civile, i centri sociali, il sindacato. La «costruzione simbolica del conflitto» è la seconda questione, in cui si mostra il complesso processo di elaborazione di identità comuni che si verifica in queste lotte, ereditando identità tradizionali (sia politiche che locali) e producendone di nuove, che disegnano i contorni di nuove comunità solidali. Infine la molteplicità delle forme di protesta è il terzo aspetto affrontato: qui il sapere diventa contropotere, l’azione diretta si intreccia alle pressioni sulle istituzioni, le manifestazioni di massa sono costruite attraverso un’informazione capillare. Le periodizzazioni proposte mostrano che in tutte queste dimensioni si è registrata una sequenza in crescita: si estendono le reti e le alleanze, si definisce l’identità della protesta, se ne diversificano le forme, riuscendo a coinvolgere pezzi più ampi della società e a pesare di più sulle decisioni dei politici.
Concentrandosi sulla dinamica delle mobilitazioni, il volume non affronta la natura specifica delle questioni «Tav» e «Ponte sullo Stretto», non discute le argomentazioni a favore o contro, non segue l’evoluzione dei due progetti, non scommette su come andrà a finire. Allo stesso modo, l’attenzione sui meccanismi di fondo che muovono la protesta porta ad evitare un’analisi più individualizzata delle diverse oganizzazioni e soggettività coinvolte, dei contrasti tra i diversi soggetti (tra associazionismo e centri sociali, dentro i comitati locali, con le istituzioni locali), e delle possibili contraddizioni interne al fronte del no, la presenza di interessi consolidati, le diverse motivazioni materiali e ideali che stanno dietro alla protesta. Con queste delimitazioni dell’analisi, tre sono i principali risultati sulla dinamica delle mobilitazioni contro le grandi opere.
Il primo elemento che l’indagine mette in luce è la natura non localistica delle mobilitazioni. In breve tempo queste mobilitazioni hanno saputo fare un salto dalla protesta locale alla messa in discussione di un modello di «sviluppo» - distruzione dell’ambiente inclusa - che richiede quelle grandi opere, realizzate in quel modo. È questo, secondo gli autori, che sottrae la Val Susa e lo Stretto alla sindrome « nimby», e ne fa invece un fronte locale di un conflitto più generale sui temi della giustizia, dell’ambiente, e della democrazia che lo avvicina all’arcipelago dei dei movimenti globali che si sono sviluppati negli stessi anni.
Il secondo risultato del volume è che reti, identità e capacità di protesta non esistono «prima» delle mobilitazioni; esiste un’eredità di relazioni, culture politiche (ad esempio la tradizione antifascista e militante della Val Susa) e forme di lotta (i campeggi e i blocchi dei lavori come forma di protesta) conservate da esperienze precedenti e diffuse da una società ricca di «capitale sociale». Uno dei risultati più originali del lavoro è l’importanza di queste proteste come fabbriche di democrazia.
Da qui il terzo nodo messo in luce dal volume: il rapporto tra le spinte di partecipazione democratica, i processi deliberativi che sono tipici di decisioni complesse come quelle sulle grandi opere, e il ruolo della democrazia rapprsentativa e dei politici eletti, sia a livello locale che regionale e nazionale (con un ulteriore livello europeo sullo sfondo). Dalle Alpi allo Stretto quello che emerge è la vitalità dei processi di partecipazione, l’affermarsi di un nuovo terreno di scontro sull’informazione e le conoscenze (anche specialistiche) e la geometria variabile dei rapporti con le istituzioni. In Val Susa i sindaci e le comunità montane stanno con i movimenti, e il risultato è la capacità di rinnovare la democrazia - come spiega l’intervista ad Antonio Ferrentino, presidente della Comunità montana della Bassa Val Susa. È questo un raro caso di innovazioni introdotte «dal basso» nel sistema di rappresentanza politica, capaci di avvicinare società civile e politica istituzionale.
Tra Val Susa e Stretto di Messina non mancano poi le differenze; il conflitto si è aggravato nella prima quando si è tentato di far partire i lavori, intensificando i processi di mobilitazione. Nello Stretto c’è un’assai minore partecipazione popolare, più delega e un contesto di società civile più fragile, con le istituzioni locali divise sul progetto del Ponte.
Degli altri conflitti locali in corso, dalla base militare americana all’aeroporto Dal Molin a Vicenza, alle discariche di rifiuti in Campania, il libro non parla, ma il quadro analitico che propone può essere facilmente applicato: quanto è localistica e monotematica la protesta? Quanto riesce a unire temi diversi, a costruire una visione d’insieme, con proposte di cambiamento praticabili? Quanto sono ampie le reti che riesce a costruire, i saperi che sa mettere in campo, le azioni che riesce a realizzare? Sembrano questi i criteri di fondo che potrebbero aiutare anche i leader e militanti del Pd a comprendere la centralità di questi movimenti sociali che alimentano la democrazia.
Intervengo brevemente a proposito della nota di Vezio De Lucia ripresa da Liberazione, il cui titolo (non so se scelto o meno da Vezio) anche indipendentemente dai contenuti effettivi dell’articolo ne orientava l’intera prospettiva su alcuni orientamenti attuali: di cultura generale, architettonica, urbana, politica.
L’autore del volume recensito, Paolo Nicoloso, ormai da parecchi anni studia sia con notevole capacità critica che smisurato supporto documentale (cosa non scontata) il periodo tra le due guerre mondiali in Italia, specie riguardo al ruolo degli architetti-urbanisti. Di Nicoloso, forse, per inquadrare meglio questo necessariamente parziale approccio “a tappeto” alla massiccia produzione architettonica in tutto il paese nel quadro di un tentativo di modernizzazione nazionale, e naturalmente di “marchiatura” pressoché indelebile impressa sul territorio, si dovrebbe leggere in parallelo anche Gli architetti di Mussolini (F. Angeli, 1999). Qui, attraverso un’ampia rassegna di materiali d’archivio e non, viene ricostruito il ruolo particolarissimo della professione di architetto-urbanista sia nell’edificazione del sistema formativo universitario italiano delle discipline territoriali, sia nei processi di costruzione del consenso.
Per non farla troppo lunga, e rinviando comunque a quello studio, vorrei osservare che la prospettiva attorno alla quale si orienta con qualche ovvio timore (anche forse suo malgrado) la recensione di Vezio non è comunque diffusa e generalizzata, almeno dagli anni ’70 in poi, ovvero da quando si è cominciato da parte di vari approcci, storico-specialistici e non, a scindere secondo vari apporti, personalità, contesti, una mainstream architettonico-urbanistica che le letture dell’immediato dopoguerra sembravano aver fissato attorno a capisaldi assai poco saldi.
La stessa legge generale urbanistica del 1942 (che Nicoloso non tratta appunto perché dal suo punto di vista di studioso ritiene superato l’approccio mainstream) ha una genesi assai diversa e più articolata, rispetto a quella che per decenni è stata sostanzialmente proposta dal gran parte della pubblicistica, ovvero di una sorta di “ do ut des” del mondo degli architetti-urbanisti, accelerato e consentito dal precipitare degli eventi bellici, e per motivi convergenti poi sostanzialmente accantonata nel merito.
Per il resto, è assolutamente condivisibile il giudizio secondo il quale in qualche modo le architetture tanto massicciamente e strategicamente realizzate nel periodo tra le due guerre tendano a conferire un indelebile marchio agli spazi che occupano e organizzano. Ma che quelle forme debbano necessariamente rinviare a valori e simboli dotati di inestricabile rapporto col fascismo e i fascismi, mi sia consentito di dubitare.
Certo è inevitabile che qualche post-qualcosa ringalluzzito dal decongelamento berlusconiano abbia voglia di lucidare vecchi fasti. Ma per fortuna è solo un piccolo occhio di ex padrone che cerca di ingrassare cavalli di proprietà altrui. Che poi alcuni settori culturali non riescano ancora a digerire e far proprie alcune forme e istinti percettivi, credo sia e resti un problema essenzialmente personale, non certo sociale e di cultura diffusa.
“Nella prima metà del Novecento nessuno Stato ha investito politicamente nell’architettura pubblica come l’Italia fascista. Nel corso degli anni Venti, ma soprattutto durante gli anni Trenta, la produzione architettonica italiana è stata enorme, tale da superare ampiamente quella di molte altre nazioni. Centinaia e centinaia di architetture – case del fascio, scuole, palazzi del governo, uffici postali, ministeri, palazzi di giustizia, stazioni ferroviarie, case dell’Opera nazionale balilla, palazzi della provincia, piscine, sedi di enti parastatali, città nuove e sistemazioni urbanistiche di vecchi centri – vengono realizzate per imprimere ovunque nel paese il marchio del regime”. Comincia così il libro di Paolo Nicoloso su Mussolini architetto. Un bel libro, scritto bene, ben documentato e illustrato. Soprattutto, voglio dirlo subito e ci torno in conclusione, è immune da ogni tentazione revisionista. Nicoloso, a differenza di altri ricercatori, non è incantato dalle sirene di una irripetibile stagione per l’architettura italiana, con ciò legittimando l’indulgenza sul resto.
Il libro racconta in maniera convincente la storia complicata dei rapporti fra il duce, l’architettura e gli architetti del regime, avendo intuito che l’architettura può svolgere un ruolo essenziale nella costruzione dell’Italia fascista. Viaggia instancabilmente: negli anni dal 1929 al 1939, quando più forte è il consenso, visita tutte le regioni, 70 capoluoghi di provincia su 89, in totale 320 località. In ogni città e paese pone una prima pietra, inaugura un edificio, visita un cantiere, controlla la realizzazione di un’opera. Su tutto ciò che viene costruito ci sono sempre con evidenza le insegne del fascio, e con il monopolio dei mezzi d’informazione e con un’efficacissima macchina di propaganda, si alimenta il mito del grande costruttore. Tramite l’architettura, il dittatore comunica con le masse, ne fa un simbolo unificante, fatto per durare, per tramandare ai posteri il tempo del fascismo. Nicoloso si stupisce, giustamente, che Renzo De Felice, il massimo storico del duce, abbia del tutto trascurato l’importanza che l’architettura ebbe nella sua politica, tant’è che la parola architettura non viene mai citata nelle circa 4 mila pagine a lui dedicate.
I contatti con gli architetti furono frequentissimi, almeno 50 ricevuti a palazzo Venezia, centinaia incontrati in altre occasioni. Ci sono tutti, razionalisti, manieristi e reazionari, da Adalberto Libera ad Arnaldo Foschini, da Luigi Piccinato ad Alberto Samonà, da Giuseppe Terragni a Gio Ponti, da Armando Brasini a Ignazio Gardella, da Giuseppe Pagano a Luigi Moretti. Ma l’interlocutore principale resta Marcello Piacentini, che pensava di essere per Mussolini ciò che Albert Speer era per Adolf Hitler. La figura di Piacentini, Nicoloso la descrive con sobria spietatezza: “Tragica, ingloriosa e a tutti nota, è la storia di Mussolini, catturato dai partigiani mentre travestito da soldato tedesco cerca di raggiungere il confine svizzero, fucilato e appeso a testa in giù in un distributore di piazzale Loreto a Milano. Se il dittatore cade, Piacentini resta e naviga, in buona compagnia, verso altri lidi, rimanendo però identificato come l’«architetto del regime». Nel dopoguerra, continuerà a lavorare anche ad alcune opere che egli aveva iniziato sotto il fascismo e che vengono completate dallo Stato repubblicano, prime fra tutte via Conciliazione e l’E42”.
Com’è ovvio, al centro dell’interesse di Mussolini per l’architettura c’è Roma, ed è a proposito delle nuove opere per Roma che si sviluppano le discussioni sul linguaggio architettonico e sulla preferenza del duce inizialmente per l’architettura moderna e poi, a mano a mano, e non senza brusche sterzate, per quella classica, tradizionalista, e infine, per uno stile propriamente fascista, in grado di richiamarsi al glorioso passato della Roma imperiale, ma al tempo stesso, “espressione autentica della modernità”. L’E42 dovrebbe essere l’occasione per concretizzare l’obiettivo stilistico, e intorno a queste discussioni si consuma la rottura con Terragni, con Pagano e inizia la crisi con Giuseppe Bottai.
Prima di concludere, mi permetto solo un’osservazione. Il libro di Nicoloso si occupa di architettura, inquadra correttamente le questioni dell’architettura nelle vicende politiche e culturali del ventennio, ma trascura del tutto l’urbanistica, la legge del 1942, il paesaggio oggetto della legge del 1939. Mussolini urbanista, un testo fondamentale di Antonio Cederna (l’anno scorso ristampato da La corte del fontego), è appena citato. Il piano regolatore del 1941 è frequentemente menzionato come lo strumento con il quale si sistemavano compiutamente le idee di Mussolini per la Roma del dopoguerra (da piazza Venezia all’E42, al Lido), ma non si ricorda che per l’attuazione di quel piano era previsto l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati, a cavallo della via Imperiale, dov’era prevista l’espansione di Roma verso il mare. Piero Della Seta e Roberto Della Seta in un testo fondamentale (I suoli di Roma, Editori riuniti, 1988) hanno analizzato approfonditamente la politica fondiaria del fascismo, smentendo le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica fascista e quella dei governi democristiani, arrivando a concludere che “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. L’emancipazione dagli interessi speculativi è stata evidentemente una condizione essenziale per consentire all’architettura di svolgere al meglio quella funzione rappresentativa e simbolica che Mussolini le attribuiva.
Ho cominciato citando le prime righe, concludo riportando quasi per intero l’ultima pagina del libro, dove Nicoloso amaramente registra una sorta di rivincita del fascismo, a partire proprio dall’architettura. È in sostanza la presa d’atto di una più generale crisi della cultura e della politica (a cominciare, secondo me, dalla sinistra) che non hanno saputo fornire all’opinione pubblica italiana, e ai giovani soprattutto, un’alternativa efficace alla «fascinazione» fascista. “Le ataviche e mai sopite pulsioni degli italiani a coltivare – scrive Nicoloso – sempre e su tutto, i propri interessi «particulari» e a mostrare disinteresse verso ciò che rappresenta il bene comune sono tra le ragioni profonde di uno strisciante deficit di democrazia che debilita il paese. L’architettura del passato, con la sua funzione simbolica, può funzionare da antidoto contro questo processo di disgregazione identitaria. Ma è possibile rafforzare la sensibilità comunitaria, e fare così fronte a queste spinte centrifughe, andando ad attingere la memoria da un patrimonio architettonico contaminato, tutt’altro che espressione di una civiltà superiore? È possibile, in altre parole, curare un paese in crisi di democrazia, identificando figurativamente la propria memoria storica in edifici, simboli di una dittatura che educava e praticava un profondo odio antidemocratico?”. E così conclude: “dopo un periodo di silenzio, quell’architettura monumentale ha ripreso a svolgere la sua funzione più intima, di azione demagogica sulle masse. Molti italiani tornano a subire una rinnovata fascinazione per le città e i palazzi «costruiti dal duce», che li introduce verso un giudizio tendenzialmente assolutorio nei confronti di un passato, in parte defascistizzato. Di nuovo l’«arcana potenza» di quest’arte ritorna a produrre suggestioni collettive. Alla fine, il disegno di Mussolini, di parlare ai posteri del fascismo attraverso l’architettura, appare dunque vincente”.
Il disegno di Mussolini è vincente anche nelle istituzioni repubblicane, e in anni recentissimi. Nel 2001, la via dei Fori imperiali, realizzata grazie al più inaudito sventramento degli anni Trenta (da Nicoloso ricordato solo sommariamente), è stata sottoposta a vincolo monumentale con la motivazione, tra l’altro, che quella sistemazione è “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente […] raggiunto”.
Una storia di territori lontani dalle cronache e dalle emergenze, fatta di paesaggi nei quali si sono sedimentati quell’identità e quel genius loci che li hanno resi riconoscibili e unici e ne hanno conservato assetti agrari e silvo-pastorali che spesso sono riusciti a convivere con gli innesti di modernità, favorendo una migliore qualità della vita e uno sviluppo non onnivoro e più sostenibile.
Nel libro “Una campagna per il futuro. La strategia per lo spazio rurale nel Piano Territoriale della Campania”, curato da Agostino Di Lorenzo e Antonio di Gennaro per le edizioni Clean, c’è, soprattutto, la storia di gran parte della Campania, quella più ampia e consistente, “osso e polpa” allo stesso tempo e a partire dalla quale sarà possibile affrontare le incredibili emergenze ambientali e la rappresentazione distorta dell’intera regione di questi ultimi anni.
Descrivendo le strategie e le linee guida per il paesaggio e il territorio rurale e aperto, elaborate per il Piano Territoriale Regionale (Ptr), il libro questa Campania la racconta e, soprattutto, la fa vedere. Il corredo iconografico e fotografico attinge in buona parte al meticoloso lavoro di studio e di ricerca che Antonio di Gennaro fa da anni sul patrimonio ambientale, agroforestale, naturalistico e, quindi, storico-culturale della regione, integrando l’impegno di archivio con il continuo tentativo di proporre regole, principi, ma anche semplici suggerimenti o allarmate esortazioni per evitare di erodere ulteriormente un paesaggio non soltanto “bello”, ma spesso poco conosciuto, nel migliore dei casi, o semplicemente ignorato da politiche e presunte strategie di sviluppo, in quello peggiore. Un paesaggio volubile, come emerge da alcune analisi contenute nel volume, le cui trasformazioni possono sembrare impreviste: così come la campagna perde peso nella struttura territoriale (-16%), a prendere il suo posto non sono soltanto il tessuto urbano o brandelli di città diffusa, ma anche ampie aree di formazioni boschive o di cosiddetto “terzo paesaggio” (in crescita del 43%), e cioè arbusteti, aree di frangia e di risulta o di dismissione di attività dell’uomo, in cui la risacca della natura ricostruisce lentamente la biodiversità.
Di questo paesaggio, alcune politiche regionali, spesso soltanto presuntive ed evocative di uno sviluppo cosiddetto locale, dove tutto è stato “sviluppo” e dove ogni luogo è diventato“locale”, hanno messo in campo strumenti politico-amministrativi dove il finanziamento a pioggia è stata la regola e le valutazioni finali di quello che si è speso e di come lo si è fatto, sono stati e sono l’eccezione, mettendo in luce un ruolo ancora troppo ambiguo della Regione Campania. Se da un lato, infatti, con il Ptr, si è meritoriamente fornito un quadro unitario di riferimento per le amministrazioni pubbliche, fatto di indirizzi per la tutela paesistico-ambientale e per la creazione di una rete ecologica regionale, dall’altro si sono moltiplicati interventi legislativi derogatori e prepotenti verso il territorio o miopi ritardi nell’attuazione di specifiche normative di tutela, cui forse la recente approvazione della nuova versione del Codice del Paesaggio potrà procurare qualche riparo.
Per il futuro, tuttavia, proprio il quadro di riferimento contenuto nel Ptr dovrà costituire lo strumento per l’integrazione delle diverse politiche regionali ed, in particolare, per la programmazione delle ancora una volta consistenti risorse comunitarie per il periodo 2007-2013 e per la definizione dei piani di settore relativi ad energia, trasporti, rifiuti, cave, ma anche aree produttive, grande distribuzione, logistica.
Un’occasione, quella offerta da questo libro, per una riflessione sulle tante biografie dei diversi territori della Campania plurale che, è utile ricordarlo, ancora non è quella veicolata in giro per il mondo in questi mesi.
La scomparsa della proprietà indivisa del suolo urbano fu tra le molte conseguenze della rivoluzione borghese alla metà del XVIII secolo. Così, in mezzo ai grandi vantaggi conquistati nella transizione dal feudalesimo al capitalismo ci fu anche l'inconveniente per cui nei paesi dove la borghesia si emancipò si «distrusse qualcosa che meritava di sopravvivere», ovvero la gestione del suolo affidata a un unico soggetto che ne disciplinava l'uso. Su questo argomento ruota il saggio di Edoardo Salzano Ma dove vivi? La città raccontata (Corte del Fontego, pp. 118, euro 14,90) concentrandosi in particolare sulla analisi critica di uno dei più rigorosi urbanisti del '900, lo svizzero Hans Bernoulli, che nel 1946 pubblicò, alla fine di un'intensa attività professionale e di insegnamento al Politecnico di Zurigo, il racconto storico e l'attenta analisi sulle conseguenze della perdita della proprietà del suolo urbano, in un fondamentale saggio, ora tradotto con il titolo La città e il suolo urbano, pubblicato grazie all'impegno di Salzano e all'intelligenza editoriale di Corte del Fontego (traduzione di Anna Benussi e Roberta Cancellada, pp. 146, euro 18).
Quel che il libro ci permette di comprendere, tra l'altro, è come la questione della proprietà dei suoli sia stata nodale non solo riguardo agli aspetti economici, ma anche per ciò che concerne l'estetica. Funzionalità e bellezza sono due aspetti integralmente connessi nella cultura architettonica della modernità, eppure la critica contemporanea l'ha sempre intesi nell'ordine del disegno urbano.
La regolarità dei tracciati geometrici nelle città ideali dell'umanesimo rinascimentale, l'irregolarità «sublime» delle prospettive, diagonali e nodi stradali di quella settecentesca, le città di fondazione nel «nuovo mondo» non avrebbero potuto prendere forma se non su una superficie libera: la tabula rasa della disponibilità dei terreni. Perciò l'urbanistica per Bernoulli è un «lavoro serio» che richiede precisione, a cominciare dal valore che la città assume nei confronti di una singola costruzione.
A differenza di un qualsiasi edificio, infatti, ciò che qualifica la città è il suo permanere nel tempo, «qualcosa che sopravviva al susseguirsi delle generazioni», e non la semplice bellezza né la sua dimensione, che sono sempre una conseguenza della «lunga durata». Le modifiche determinate dalla sua crescita assimilano la città a un organismo irriducibile agli edifici che lo compongono, non un «mosaico di case» bensì una unità coerente. Quando Bernoulli pubblica il suo saggio è impegnato nella pianificazione urbana di Darmstadt, Friburgo e Breisgau distrutte durante la seconda guerra mondiale. Davanti ai suoi occhi sta l'«immane devastazione» - mirabilmente raccontata da W. G. Sebald - delle città tedesche rase al suolo dai bombardamenti alleati, ma anche la rovina di quelle polacche come Varsavia, dove Bernouilli torna dopo avere redatto, negli anni '30, il suo piano regolatore. Proprio in quel decennio l'attività dell'urbanista svizzero si era intensificata, passando a definire gli aspetti giuridici e tecnici dell'espansione e del rinnovamento della città: Ginevra, Basilea, Zurigo, Berna sono i suoi ambiti di studio e di proposta.
Negli anni precedenti, tra il 1920 e il 1930, nel clima favorevole del socialismo municipale che aveva promosso una urbanistica razionale, Bernoulli era impegnato a sostenere da un lato la cooperazione abitativa in funzione della crisi degli alloggi, dall'altro la ricerca di soluzioni tipologiche funzionali alla salvaguardia e a un migliore uso del suolo urbano.
Il suo modello di riferimento era la garden city di Ebenezer Howard reinterpretata secondo i canoni del «pittoresco» piuttosto che secondo la rigidità formale della «Nuova Oggettività» svizzera. Ma per il suo saggio Bernouilli mette insieme ogni genere di declinazione della città-giardino: da quella «lineare» di Hans Bernhard Reichow per Stettino a quella funzionalista di Hans Schmidt per Basilea, fino ai «villaggi pianificati» inglesi di Hampstead e Welwyn. La sua tesi è che solo la proprietà pubblica del suolo garantisce il rispetto degli interessi generali della città. Con esemplare chiarezza Bernoulli dichiara che né Le Corbusier, con la sua «Urbanistica», né Raymond Unwin o Cornelius Gurlitt, nei loro manuali, si sono mai posti il problema di fornire una qualsiasi soluzione al problema.
«Ha proposto tutto il buono e il bello possibile - scrive commentando il lavoro di Gurlitt - dalla responsabilità dell'urbanista alla circolazione e all'estetica di strade e piazze, per affermare infine con fronte corrucciata ... che la rete inestricabile degli attuali confini dei terreni limita ogni libertà di movimento». Erano gli anni dell'«onda rossa» quando Bernouilli - al governo municipale di Ginevra, insieme al suo amico Maurice Braillard - approntò la procedura giuridica per risolvere la questione: l'applicazione del diritto di esproprio, che gli valse - grazie allo scontro con gli ambienti conservatori della confederazione elvetica - l'allontanamento dal Politecnico di Zurigo, nel 1938. Il suo pensiero, nutrito dalle teorie economiche dello statunitense Henry George, che nella rendita fondiaria vedeva «il nemico del lavoro per antonomasia», non erano compatibili con il clima di restaurazione.
Solo la tenacia e la coerenza di Hans Bernouilli, sostenuta dalle forze progressiste svizzere, permisero negli anni tra il 1941 e il 1947, che venisse eletto al Grande Consiglio di Basilea e al Parlamento. Dalla sua morte passarono, tuttavia, ancora ventinove anni prima che gli svizzeri si pronunciassero a favore di norme per limitare l'acquisto di proprietà immobiliari a scopo speculativo.
Cosa ci resta oggi della lezione di Bernoulli? Cosa resta a noi, in particolare, dopo che la «controriforma urbanistica», ha introdotto, tra amministrazioni pubbliche e mercato, l'idea che il governo del territorio si deve esercitare in una costante contrattazione con la proprietà immobiliare?
I danni causati da una simile convinzione sono noti e, a riguardo, ricordiamo la breve cronaca che Antonio Cederna fece nel 1964, al ridotto dell'Eliseo di Roma, durante il confronto tra gli urbanisti olandesi che ad Amsterdam accolsero le idee di Bernoulli, e gli amministratori capitolini. Nulla sembra sia cambiato, da allora, nel «misurare la distanza abissale che separa un paese civile e moderno da un paese arcaico e sottosviluppato come il nostro».
Presentato a Roma il libro di Giuseppe Chiarante, «Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico»
«Ma il Partito Democratico, non sarà forse un nuovo compromesso storico degli sconfitti?» ha esordito così provocatoriamente Valentino Parlato, introducendo martedì scorso il dibattito sul volume di Giuseppe Chiarante Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (1958-1975) (Carocci, pp.261, Euro 22,50) nel piccolo anfiteatro gremito della libreria dell'Auditorium di Roma. Aldo Tortorella, che ha firmato l'introduzione al libro dell'ex deputato del Pci, ha ripreso il filo degli eventi di una stagione della quale Enrico Berlinguer aveva intuito l'inizio della fine. «Il suo progetto - ha detto - era quello di un'alleanza storica tra due soggetti distinti, e non una fusione come quella del Pd. Voleva un nuovo compromesso per riformare lo Stato sociale sul modello della socialdemocrazia europea». Per Tortorella, gli eredi politici del Pci hanno provato a cancellare questa intuizione, denunciando i presunti «errori» di Berlinguer, il suo «conservatorismo» contrapposto alla «modernità» di Craxi, arrivando oggi a cedere al moderatismo e al liberismo.
Formula politica controversa, in questa campagna elettorale il compromesso storico sembra avere ritrovato un'attualità insospettabile, ma non le originarie ragioni politiche dei suoi protagonisti. Giovanni Galloni, che seguì quella stagione accanto ad Aldo Moro, ha spiegato come nelle intenzioni del leader democristiano «il compromesso storico non voleva essere un governo insieme ai comunisti. In quel momento di crisi, volevamo ricreare l'unità costituzionale del 1947, a condizione che il Pci prendesse le distanze dall'Unione Sovietica». L'obiettivo era, in fondo, garantire al paese un'alternanza di governo. «Non avevamo alcuna voglia di fare delle liste comuni» ha ribadito Galloni.
«A me il compromesso storico non è mai piaciuto» ha attaccato Stefano Rodotà, rievocando l'episodio di un incontro con Eugenio Scalfari, quando il fondatore di Repubblica gli confessò con un certo disarmo che erano rimasti in pochi, in quel momento, a opporsi al «governo dell'astensione», poi «governo di solidarietà nazionale». Per Rodotà, il libro di Giuseppe Chiarante dimostra come nel sottile, ma quantomai sostanziale, slittamento semantico da «compromesso storico» a «solidarietà nazionale» quello che è stato perso è il senso di una «riforma intellettuale e morale di questo paese». Con questa espressione gramsciana, Chiarante ha dimostrato che il Pci di Berlinguer aveva intuito l'urgenza di una svolta, anche se aveva ormai perso il polso del Paese: «Il Pci fu il maggior beneficiario della stagione del disgelo costituzionale - ha concluso Rodotà - ma non capì il recupero delle libertà individuali auspicato dal referendum sul divorzio. L'intervento del segretario della Cgil Luciano Lama alla Sapienza nel 1977 ne fu la dimostrazione».
Chiarante è il «testimone privilegiato» dell'incontro tra mondi lontani. Ha animato con Galloni la stagione del dossettismo nella Base, la corrente del cattolicesimo di sinistra, per poi lasciare la Dc nel 1958, agli esordi del centro-sinistra. Rossana Rossanda ne ha ripercorso la vicenda, precisando che «Berlinguer è stato un uomo di rara statura morale, ma non penso abbia avuto una grande statura politica. Chiarante lo salva, ma il suo progetto è fallito. Per il Pci sarebbe stato difficile staccarsi in quegli anni dall'Urss, anche se escludo che il 'partito nuovo' di Togliatti sia mai stato ispirato dal sovietismo». «Il principale errore di Berlinguer - ha continuato Rossanda - fu quello di sopravvalutare il pericolo dell'avanzata delle destre in Italia, mentre ha sottovalutato la capacità di classe di riorganizzare la società». Il compromesso storico è stato per Rossanda l'esito di una visione politicistica della società italiana, dove i vertici dei partiti hanno perso contatto con le sue trasformazioni e l'esigenza di una critica del capitalismo non ha risposto a quella di una riforma morale e intellettuale della politica. Un'analisi che dovrebbe essere fatta anche nelle sedi politiche del Pd e della sinistra attuale, ha concluso Chiarante.
Qui le recensioni di Michele Prospero (l'Unità ) e Valentino Parlato (il manifesto )
Introduzione al volume collettaneo Scenari strategici. Visioni identitarie per il progetto di territorio, a cura di Alberto Magnaghi, Alinea, Firenze 2007
Questo volume si presenta come “quarto movimento” di un percorso di ricerca che la scuola territorialista ha compiuto a partire dal 1986; percorso riassunto nel volume precedente “La rappresentazione identitaria del territorio”, [1] e che traccia le coordinate di una metodologia di pianificazione e progettazione del territorio di cui la produzione di scenari costituisce una tappa.
La peculiarità degli scenari che proponiamo [2] si alimenta e si definisce all’interno di questo percorso. Rimando interamente ai saggi del primo capitolo (“Gli scenari strategici nelle pratiche di pianificazione”) per una trattazione sistematica dell’approccio territorialista alla costruzione degli scenari (saggio di Rossi Doria e Ferraresi) e per lo sviluppo dei suoi aspetti disciplinari, culturali, metodologici e tecnici (saggi di Fanfani, Lucchesi e Besio).
Gli scenari strategici che esemplificano questo percorso sono trattati nel secondo capitolo (“Progetti di territorio, temi tecniche e metodi: alcuni casi di studio”) ordinato secondo gli approcci e le esperienze delle diverse unità di ricerca.
Questi scenari traggono la loro forza e le loro coordinate dalle teorie sullo sviluppo locale autosostenibile, che applichiamo a progetti di trasformazione socioeconomica e territoriale; i quali assumono a loro volta i giacimenti patrimoniali locali e i soggetti sociali che se ne prendono cura come riferimenti fondativi dei progetti stessi. La sinergia fra i soggetti della trasformazione e la messa in valore dei giacimenti patrimoniali comporta la costruzione di regole virtuose, socialmente condivise, per il trattamento dei giacimenti stessi finalizzato a produrre benessere, ricchezza durevole, riproducibilità delle risorse e valore aggiunto territoriale. Queste regole (“statuti del territorio” socialmente prodotti), configurano dunque un corpus pianificatorio che precede e condiziona i progetti e gli atti di trasformazione, nel senso che qualsivoglia progetto o piano da una parte si alimenta dei valori patrimoniali denotati nel quadro conoscitivo (atlanti del patrimonio) e dall’altra tiene conto delle regole di riproducibilità e di crescita durevole del patrimonio stesso contenute dallo statuto.
Emerge con chiarezza una visione pianificatoria in cui si separa in modo radicale la partestatutaria del piano (sia che essa si configuri come parte istituzionale dei piani come nel caso della Toscana, sia che emerga come risultato dei processi partecipativi e di definizione identitaria dei luoghi, in altri contesti), dalla parte strategica che riguarda i progetti di trasformazione), pur alimentandosi le due parti della medesima cultura dello sviluppo locale autosostenibile.
Gli scenari che esemplifichiamo nel volume, che si collocano nellaparte strategica della pianificazione, assumono in questo percorso metodologico declinazioni puntuali e in parte differenziate nei lavori delle unità di ricerca di Firenze (legata in gran parte a sperimentazioni del modello toscano “statutario” di pianificazione), di Milano (che mette l’accento sulla ricostruzione di territorio nella città postfordista), di Genova (che sviluppa in diversi contesti il tema dell’ecoregione urbana), di Bologna (che ipotizza un valore aggiunto dei migranti nella costruzione di scenari sociali), di Palermo (che evidenzia le potenzialità della costruzione di scenari preliminari a fronte di un deficit di pianificazione territoriale).
Queste declinazioni sono sviluppate metodologicamente nei saggi introduttivi dei lavori di sede rispettivamente da David Fanfani, Giorgio Ferraresi, Mariolina Besio e Bernardo Rossi Doria. Se si esclude il saggio della sede di Bologna (Pizzolati, Tarozzi) che propone uno scenario alternativo eminentemente a carattere sociologico, fondato sul potenziale valore aggiunto dei migranti per il sistema territoriale, per le altre unità si possono individuare i seguenti caratteri peculiari degli scenari proposti:
- innanzitutto essi sono disegnati: è logico che essendo interpretazioni al futuro dei giacimenti patrimoniali (ambientali, territoriali, paesistici, sociali, culturali) e della loro messa in valore durevole, gli scenari diano conto del trattamento che riservano ai giacimenti stessi, prefigurando assetti futuri del territorio, conseguenti alla loro messa in valore;
- non è un caso che molti scenari riflettano, nel disegno, le carte patrimoniali da cui traggono alimento. Si tratta in ogni caso di un disegno non normativo, ma di valore euristico, che non esaurisce la complessità della visione strategica (fatta anche di altri materiali non grafici), ma ne costituisce una sorta di manifesto, di “logo” di carattere paesistico che tiene insieme e funge da guida a progetti di trasformazione di diversa natura e scala da attuarsi in un processo temporale di lunga durata;
- gli scenari propongono “visioni” del territorio che esprimono una tensione utopica: dal momento che il concetto di autosostenibilità si discosta radicalmente dai modelli di sviluppo fondati sulla crescita economica competitiva nell’ambito dei processi di globalizzazione, i nostri scenari assumono come orizzonte un forte cambiamento nei modelli di sviluppo che si riflette nei progetti di territorio: blocco del consumo di suolo, valorizzazione multifunzionale degli spazi aperti e dei sistemi agroambientali, scenari infrastrutturali finalizzati alla valorizzazione dei sistemi territoriali locali, sistemi bioregionali policentrici costituiti da reti non gerarchiche di città, ecc). Tuttavia si propongono come utopie concrete, dal momento che individuano nei movimenti e in comportamenti collettivi presenti nella società locale le energie insorgenti e da contraddizione in grado di produrre trasformazioni nella direzione degli scenari stessi. In ogni caso gli scenari che proponiamo esprimono una tensione fra la visione di un futuro di un luogo, collocabile in tempi lunghi, e pratiche quotidiane degli abitanti che contribuiscono alla crescita di “coscienza di luogo” [3], che induce a sua volta azioni e saperi per la cura del territorio e dell’ambiente: saperi ambientali, produttivi, artigiani, artistici, comunicativi, relazionali, e cosi via;
- gli scenari contengono, oltre ad una valenza progettuale, una valenza comunicativa: la loro forma, il loro linguaggio devono aiutare l’attivazione di processi partecipativi per la costruzione di patti locali di sviluppo rendendo percepibile ai diversi attori del processo, istituzionali e non, il valore del territorio come bene comune che lo scenario tratta nelle sue visioni di trasformazione autosostenibile; la funzione comunicativa deve innanzitutto aiutare a decolonizzare l’immaginario dagli stereotipi della de-territorializzazione e del cyberspazio e a spostare in avanti gli orizzonti dei futuri possibili della ricostruzione dei luoghi della convivialità, dello scambio solidale, dello spazio pubblico, della qualità estetica dell’ambiente di vita;
- gli scenari sono multiscalari e multisettoriali: la multiscalarità è legata ad una visione non gerarchica ma sussidiale e partecipativa fra diversi livelli della pianificazione, dalla chiusura tendenziale dei cicli ecologici, alimentari, funzionali della bioregione urbana alla attivazione dei saperi locali nelle peculiarità dei materiali da costruzione; un sistema “multilivello” che assume come orizzonte politico il federalismo municipale solidale [4] e come orizzonte progettuale la riattivazione di saperi contestuali nella cura del territorio e dell’ambiente; la multisettorialità è connessa all’esigenza di produrre visioni olistiche del futuro di una regione o di una città, che consenta al processo partecipativo di una comunità locale di ragionare sul proprio futuro e non solo su singoli effetti settoriali di futuri generali decisi altrove; e che consenta allo scenario strategico di comprendere e ricondurre a coerenza nel processo di piano le azioni settoriali e i poteri ad esse riferiti.
A commento e integrazione di questa impostazione e dei casi di studio presentati portano un importante contributo di discussione due studiose esperte di scenari strategici come Maria Cristina Gibelli e Patrizia Gabellini (capitolo terzo “Scenari strategici tra valori territoriali, rappresentazioni e politiche”): la prima commentando gli esiti della ricerca alla luce delle esperienze europee di scenari strategici di “terza generazione” in particolare sui temi dell’approccio cognitivo, delle convergenze economia/territorio e del crescente ruolo dei processi partecipativi nel passaggio dal visioning all’ envisioning; la seconda introducendo una riflessione sulla forza costruttiva della raffigurazione, sul ruolo del messaggio visivo da articolare per i diversi interlocutori degli scenari, sviluppando il problema dell’importanza della dimensione estetica del messaggio nelle sue declinazioni figurative e astratte e sul tema delle relazioni fra rappresentazione “esperta” e “vision ability” che î fruitori della rappresentazione stessa sono in grado di esprimere.
Il volume si chiude con una rassegna curata da Francesco Monacci sullo stato dell’arte degli scenari strategici e delle loro forme di rappresentazione.
Vorrei per concludere accennare al seguente quesito: i caratteri degli scenari territoriali che ho sintetizzato (il configurarsi come progetti disegnati, utopici, attenti alla comunicazione, partecipati, olistici, multiscalari e multisettoriali) alludono all’esistenza di una poetica degli scenari stessi? Si da un loro carattere artistico, come per il progetto di architettura? E’ un problema (in parte introdotto da Patrizia Gabellini)che non è stato posto durante i lavori della ricerca che hanno dato luogo a questo volume, ma che accenno qui per una riflessione futura sul “progetto di territorio” cui ci applicheremo nel prossimo futuro.
E’ evidente che i materiali (disciplinari, tecnici, costruttivi) di un progetto di territorio sono diversi da quelli di un progetto di architettura: per esempio, la firmitas di un bacino idrografico richiede il concorso di discipline (idrogeologia, idraulica, scienze agroforestali, scienze ecologiche, pianificazione territoriale e del paesaggio, ecc) differenti da quelle che compongono la firmitas di un edificio (geolitomorfologia, scienza e tecnica delle costruzioni, fisica tecnica, tecnologia dei materiali,ecc).
Ma in entrambi i casi esse dovrebbero essere messe in relazione non gerarchica, ma di complementarietà con l’utilitas e la venustas. Operazione più usuale nel progetto di architettura (quando non diventa pubblicità delle grandi opere, marketing d’impresa, valore di scambio nella seduzione del “marchio”, del segno, ecc), molto meno nei progetti di territorio, dove le componenti settoriali (progetti infrastrutturali, di riduzione del rischio idraulico, di localizzazione di attività commerciali, produttive, abitative , ecc) tendono a autonomizzarsi seguendo logiche economiche settoriali e producendo una risultante territoriale la cui morfologia e il cui paesaggio risultano come sommatoria di interventi e non come frutto di un progetto complessivo, consapevole e socialmente controllato.
Ma veniamo al nostro approccio. I nostri scenari procedono da rappresentazioni patrimoniali che sono costituite, se pur con il concorso di discipline “scientifiche” e con la piena utilizzazione di strumenti informatici, da segni selezionati in parte con criteri soggettivi per enfatizzare la rappresentazione e raffigurazione identitaria dei luoghi; segni che evidenziano la significatività anche estetica (la “bellezza” ) della permanenza di una trama agraria storica, di una figura territoriale, di un tipo paesistico, di un reticolo di città e cosi via. C’è un percorso di evocazione di ciò che è invisibile, le regole di lunga durata che definiscono la “personalità” del luogo, inteso come sistema vivente ad alta complessità, che lo scenario rende visibile come tensione progettuale, operando quella distanza critica dalla realtà che è connaturata alla qualità essenziale dell’opera d’arte.
Ma c’è di più: nel passaggio di scala dal design industriale e dall’architettura al territorio, si delinea un passaggio da relazioni prevalenti del progetto con il mercato o con specifiche committenze alle relazioni dirette del progetto con l’interesse pubblico e con i beni comuni; in primo luogo il territorio stesso, inteso come bene comune in quanto ambiente essenziale alla riproduzione della vita: l’acqua, l’alimentazione, l’aria, i fiumi, le coste il verde e le foreste, il paesaggio, ma anche l’ambiente urbano essenziale alla realizzazione delle relazioni sociali e della vita pubblica, gli spazi pubblici e di relazione nella città, le infrastrutture, le reti di comunicazione, i nuovi rapporti fra città e mondo rurale, etc.: beni materiali e immateriali che garantiscono la riproduzione della vita. In questo caso la poetica dello scenario sta nel disvelare, riconoscere, produrre discostamenti fra le concezioni dissolutive dei beni comuni nell’appropriazione privatistica del territorio e una loro nuova visibilità, mettendo in contatto paesaggi futuri con la nascente coscienza di luogo (interpretando l’inconscio collettivo di junghiana memoria).
Dunque negli scenari territoriali disegnati, a carattere non predittivo, ma cognitivo e progettuale, a carattere euristico per la sollecitazione dell’immaginario collettivo, a partire dall’incontro fra saperi tecnici e saperi contestuali si può verificare un atto creativo olistico, tipico del procedimento artistico.
Nella visione contemporanea l’urbanistica e la pianificazione territoriale sono viste dai più come noiose pratiche normative o tecniche e, nei casi migliori, come defatiganti pratiche partecipative che scivolano nel dominio delle scienze politiche.
Credo che in questo contesto lavorare alla costruzione di poetiche del “progetto di territorio” attraverso lo sviluppo di linguaggi visivi capaci di produrre qualità estetiche del messaggio sia fondamentale per ristabilire nel progetto di futuro delle comunità locali le giuste proporzioni fra funzioni di utilità, sicurezza e qualità ambientale, bellezza e benessere.
Quarta di copertina
Nella visione contemporanea, l’urbanistica e la pianificazione territoriale sono considerate dai più come noiose discipline tecnico-normative o, nei casi migliori, come faticose pratiche partecipative che scivolano nel dominio della scienza politica. In questo contesto, lavorare alla costruzione di poetiche del “progetto di territorio” attraverso lo sviluppo di linguaggi visivi capaci di produrre qualità estetiche nella comunicazione è fondamentale per ristabilire, nel progetto di futuro delle comunità locali, le giuste proporzioni fra funzioni di utilità, sicurezza e qualità ambientale, bellezza e benessere.
Negli scenari territoriali disegnati che popolano questo volume - scenari a carattere non predittivo, ma cognitivo e progettuale, sviluppati con modalità euristiche per la sollecitazione dell’immaginario collettivo, e che si pongono come snodo strategico fra la ricognizione rappresentativa del patrimonio territoriale ed il progetto di territorio - a partire dall’incontro delicato fra saperi tecnici e conoscenze contestuali si può forse verificare un atto creativo olistico, tipico del procedimento artistico.
Alberto Magnaghi è ordinario di Pianificazione Territoriale presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, dove presiede il Corso di Laurea in Urbanistica e Pianificazione Territoriale ed Ambientale (sede di Empoli) e dirige il Laboratorio di Progettazione Ecologica degli Insediamenti (LaPEI). Coordina da oltre vent’anni ricerche interuniversitarie nazionali ed europee, di una delle quali questo volume rappresenta il report finale. Il suo testo più noto, manifesto della scuola territorialista, è Il progetto locale (Torino, 2000), edito in quattro lingue e distribuito in decine di Paesi nel mondo; per Alinea ha curato Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche (2001) e La rappresentazione identitaria del territorio. Atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale (2005), entrambi pubblicati in questa stessa collana.
[1] “- Il primo movimento è consistito nel definire a livello teorico e metodologico il significato del concetto di sviluppo locale autosostenibile che ha visto impegnati dieci anni in ricerche e progetti e piani;
- il secondo ha avviato un lavoro di definizione di metodologie e tecniche di rappresentazione identitaria dei luoghi e dei loro giacimenti patrimoniali organizzata in atlanti, codici, figure territoriali, descrizioni fondative;
- il terzo consiste nell’elaborazione di statuti dei luoghi (invarianti strutturali, regole per la trasformazione) di cui la rappresentazione identitaria costituisce il capitolo fondativo;
- il quarto consiste nell’elaborazione di visioni strategiche di futuro (scenari) fondate sulla valorizzazione dei giacimenti patrimoniali locali secondo le regole definite dallo statuto dei luoghi;
- il quinto consiste nel ridefinire i compiti, gli strumenti e i processi della pianificazione a partire dalle innovazioni presenti nei primi quattro movimenti”.
Vedasi A. Magnaghi, “Il ritorno dei luoghi nel progetto” in: Id. (a cura di), La rappresentazione identitaria del territorio. Atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale, Alinea, Firenze 2005.
[2] Il volume costituisce la restituzione delle ricerche condotte nell’ambito della Ricerca PRIN: La costruzione di scenari strategici per la pianificazione territoriale: metodi e tecniche (2004-2005), Coordinatore nazionale Alberto Magnaghi. Unità di ricerca: Facoltà di Architettura di Firenze (responsabile Alberto Magnaghi); Politecnico di Milano - DiAP (responsabile Giorgio Ferraresi); Facoltà di Scienze Politiche di Bologna (responsabile Alberto Tarozzi); Facoltà di Architettura di Genova (responsabile Mariolina Besio); Facoltà di Architettura di Palermo (responsabile Bernardo Rossi Doria).
[3] “La coscienza di luogo si può in sintesi definire comela consapevolezza, acquisita attraverso un percorso di trasformazione culturale degli abitanti, del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali (materiali e relazionali), in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva, biologica e culturale. In questa presa di coscienza, il percorso da individuale a collettivo connota l’elemento caratterizzante la ricostruzione di elementi di comunità, in forme aperte, relazionali, solidali.”
La definizione è sviluppata analiticamente in: A. Magnaghi, “Il territorio come soggetto di sviluppo delle società locali”, Etica ed economia, vol. IX, n° 1/2007.
[4] Il tema, introdotto nella Conferenza di Bari del novembre 2005 della Rete del Nuovo Municipio, è stato sviluppato nella mia relazione introduttiva alla Conferenza di Milano del novembre 2006. Vedasi in proposito:
A. Magnaghi, “Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale”, Democrazia e Diritto, n° 3/ 2006.
Dei diversi filoni dell'urbanistica di certo il progetto territorialista costituisce uno dei più consistenti, come dimostrano sia le convergenze a mano a mano emerse con altri campi della ricerca (dalla sociologia alla botanica, dall'agraria all'economia), sia l'attuale proposta di costituire in questo ambito una associazione internazionale di studi multidisciplinari. Già diversi volumi sono stati pubblicati su questo tema, ma il più recente - Scenari Strategici. Visioni identitarie per il progetto di territorio, Alinea, 2007, pp. 465, euro 45 - presenta elementi di nuovo interesse, perché fornisce indicazioni precise nell'evoluzione verso la sostenibilità, che rispondono in modo eloquente alle inadeguatezze della politica istituzionale rispetto alla questione climatica e offrono possibili soluzioni alle aporie dello sviluppo in termini di fruizione sociale dei valori e dei caratteri dei luoghi.
Scrive nella introduzione il curatore del volume, Alberto Magnaghi, fondatore della «scuola territorialista italiana»: «Negli scenari che popolano questo volume ... e si pongono come snodo strategico tra la ricognizione rappresentativa del patrimonio territoriale e il progetto di territorio, a partire dall'incontro fra saperi tecnici e conoscenze contestuali si può verificare un atto creativo olistico, tipico del procedimento artistico».
In questa affermazione emergono evidenti alcune tracce del bagaglio dello stesso Magnaghi, specie della sua formazione giovanile negli ambienti dell'architettura milanese degli anni Sessanta, in cui era forte il senso della cultura visiva come elemento di comunicazione e di qualificazione sociale dello stesso progetto edificatorio. Non a caso nella prefazione all'edizione francese del Territorio dell'Architettura di Vittorio Gregotti, Umberto Eco ricordava «l'ideale di un progetto totale che investa la società a ogni livello e di cui l'architettura sembra essere la via maestra». E a proposito di Gregotti, Eco notava come «l'architetto milanese... riflette l'ideale rinascimentale dell'intellettuale completo, che cerca di armonizzare attraverso il proprio progetto tutti i problemi e tutte le risposte della cultura del suo tempo».
Sono parole che potrebbero valere anche per i contesti interessati dagli scenari del progetto territorialista, all'interno dei quali si saldano rimarchevoli risvolti comunicativi e figurativi (sottolineati da Patrizia Gabellini in uno dei saggi di commento) e approdi più marcatamente strutturalisti - in senso sociopolitico - probabilmente derivati dalle esperienze operaistiche, ormai lontane ma indimenticabili, di Magnaghi. Ne scaturisce una proposta urbanistica fortemente incardinata sulla dialettica tra caratteri e valori del patrimonio e istanze sociali.
Vengono così richiamate le tre caratteristiche indispensabili per un progetto edificatorio - la venustas, la firmitas, l'utilitas - che nel programma territorialista si declinano in una prospettiva più ampia, di osservazione dello stesso corpus territoriale. Secondo tale orientamento la firmitas richiama la consistenza ambientale e la qualità ecologica del territorio, la venustas può coincidere con la qualità estetica del paesaggio da tutelare nel presente e da riproiettare nei caratteri percettivi di un insediamento cui, troppo spesso, si deve ridare senso, vista «tutta la schifezza realizzata nella seconda parte della modernità» (parola di Renzo Piano) e infine l'utilitas attualizza le istanze di equità progressive, tipiche dell'urbanistica.
Si comprende, quindi, l'importanza del luogo nello scenario territorialista. I progetti presentati all'interno di Scenari strategici propongono, sulla base di una comune attitudine ecomorfologica, metodi e tecniche di lettura differentemente articolati a seconda che ci si occupi della valorizzazione sostenibile della città media toscana (David Fanfani e Fabio Lucchesi), della città lineare costiera e di valle ligure (Mariolina Besio), della città diffusa milanese (Giorgio Ferraresi), delle contraddizioni dei contesti siciliani tra orridi abusivismi e brani di alta qualitò paesaggistica (Bernardo Rossi Doria), della marginalità urbana di immigrazione nel ravennate (Alberto Tarozzi).
Ma la raccolta di saggi curata da Magnaghi propone anche alcune riflessioni su una serie di nodi che rivestono un ruolo cruciale anche al di fuori del programma territorialista. La tendenza alla liquefazione sociale delle comunità di abitanti, su cui si sofferma in questi anni tanta letteratura socioantropologica (Zygmunt Baumann, per molti) può mettere in crisi la centralità della partecipazione e quindi l'intera armatura politica territorialista. Tuttavia lo stesso Baumann ha segnalato le potenzialità dei segmenti di nuove formazioni sociali che si riconoscono - quasi sempre casualmente - intorno al comune sentire dei valori patrimoniali, fino a formare «nuovi intrecci» socio-culturali. I conflitti suscitati dai grandi interessi del capitale globalizzato, allorché esso «atterra» su luoghi le cui caratteristiche contrastano con i relativi progetti possono - sempre secondo Baumann - accelerare la formazione di tali nuove «comunità di abitanti». In effetti la Val di Susa - così come i sempre più numerosi contesti europei e americani (e non solo), in cui le formazioni locali si riconoscono intorno alla difesa del territorio - muovono nella direzione indicata dal sociologo polacco e attualizzano la stessa figura dell'abitante, centrale nello scenario territorialista.
Altrettanto importante è il superamento del concetto di sviluppo sostenibile. A questo proposito, Serge Latouche denuncia - sia pure affettuosamente - la caduta di Magnaghi nella «trappola dello sviluppo locale», proprio quando - non solo secondo lo studioso francese - non c'è bisogno di alcuna nuova forma di crescita. Lo studio sugli scenari chiarisce che «sviluppo locale autosostenibile» è poco più di un artificio linguistico per una sostenibilità sociale ridisegnata attorno alla centralità del patrimonio territoriale. E come hanno colto tra gli altri Mimmo Cersosimo e Osvaldo Pieroni, la strutturazione economica è una conseguenza di questo assetto più che un obiettivo intenzionalmente conseguito.
Introduzione [1]
Al confronto fra pianificazione territoriale e mercato, fra regole e negoziazione, l’Italia giunge in ritardo rispetto ad altri paesi europei, che hanno da tempo trovato specifiche sintesi, sul piano sia culturale che operativo. Nel nostro paese, si assiste ancora oggi a una divaricazione di posizioni che si caricano spesso di contenuti ideologici, e non si è sviluppato a sufficienza un serio dibattito scientifico. La proposta di riforma urbanistica dell’INU del 1995 - attenta e innovativa sul piano tecnico ma insufficiente su molti temi avanzati: intercomunalità e area vasta, governo metropolitano, fiscalità immobiliare, visioni strategiche e partecipazione – è evoluta in direzioni del tutto contrastanti nelle leggi regionali di Emilia e Toscana da una parte e Lombardia dall’altra, mentre l’INU ha appoggiato, nel breve volgere di due anni, progetti di riforma nazionale tanto divaricati quanto il progetto Lupi della maggioranza di centro-destra, approvato da un ramo del Parlamento nel 2005, e il progetto dell’Ulivo dei primi mesi del 2007 (entrambi in attesa di discussione nell’attuale Parlamento).
Le posizioni culturali favorevoli a una deregolazione spinta e a un indebolimento della strumentazione di piano – e dunque non solo a una sua flessibilizzazione e integrazione con la progettualità privata – sono rimaste fortemente minoritarie in altri paesi (per tutte: Pennington, 1999 e 2003; Evans, 1988; Gordon, Richardson, 1997; Parr, 2005; Bénard, 2007), mentre in Italia sono oggi assai più forti e influenzano proposte in ambito legislativo-istituzionale. In nessun paese europeo si legge nella legislazione nazionale, come si è rischiato di leggere in Italia, che le funzioni amministrative di governo del territorio “sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (art. 5 comma 4 del disegno di legge Lupi), al fine di “trasformare il piano urbanistico in una sorta di banca dei diritti di edificazione commerciabili nell’ambito di una filiera di interessi pubblici da perseguire” (Lupi, 2005, p. 31), all’interno di un territorio in cui tutte le aree, al di fuori di quelle destinate all’agricoltura o di pregio ambientale, sono considerate urbanizzabili (art. 6 comma 5, ddl Lupi)[2].
Le teorizzazioni che legittimano questo approccio (Mazza, 2000, 2004; Palermo, 2001) si basano generalmente su considerazioni critiche sull’efficienza e l’efficacia della pianificazione tradizionale più che su principi di ordinata gestione del territorio; ma possiedono comunque un certo fascino culturale per il sedicente carattere di innovatività del modello proposto. Veri processi di costruzione di visioni territoriali condivise e di pianificazione strategica non vengono considerati, o vengono coniugati in una versione inadeguata, che ho chiamato “elitista neo-corporativa” (Camagni, 2006).
In questo quadro, due recenti lavori di Stefano Moroni (2005, 2007) costituiscono un fatto nuovo di particolare interesse: la critica impietosa alla pianificazione urbanistica e territoriale e la necessità di un suo sostanziale annullamento viene fatta discendere da principi generali di democrazia liberale basati su libero mercato e libertà individuale, in un (apparentemente) rigoroso processo logico a carattere deduttivo. L’ispirazione e la guida vengono individuate nel pensiero di un campione dell’economia liberale, Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974; in particolare, nella sua teorizzazione, basata su un approccio che oggi chiameremmo cognitivo, dei vantaggi dell’ordine spontaneo di mercato e delle miserie della pianificazione economica socialista[3].
Anche se nella trattazione di Moroni il piano ha più il carattere di concetto astratto e generale che di pratica concreta e attuale applicata al territorio, la sua critica possiede, proprio per il suo carattere strettamente deduttivo, una forza e una persuasività quale solo raramente si incontrano nelle riflessioni critiche attuali sulla pianificazione e il governo del territorio. Inoltre, il corredo di argomentazioni più specifiche, tratte dal dibattito scientifico internazionale, appare lucido e completo. Per questo, ritengo che le sue tesi meritino una critica attenta e altrettanto stringente.
Queste note vogliono dunque costituire una valutazione critica di alcuni passaggi centrali, logico-deduttivi, del ragionamento di Moroni che implicano concetti di teoria economica, partendo dagli stessi assunti generali e dall’ipotesi di una totale condivisione dell’individualismo metodologico e dei valori del liberalismo che caratterizza l’approccio hayekiano. La critica, radicale, che intendo sostenere è la seguente: Moroni utilizza tutto l’armamentario concettuale che Hayek costruisce per la critica alla pianificazione socialista dell’economia - basata sulla determinazione totalmente centralizzata dei prezzi e delle quantità da produrre di tutti i beni - per la criticaalla pianificazione urbanistica e territoriale dei paesi a economia di mercato, sulla base di una similitudine di condizioni operative fra i due tipi di pianificazione tutta da dimostrare. Ritengo questa estensione non lecita, anche se essa viene autorizzata da alcune pagine di Hayek stesso, in cui tuttavia egli sottolinea anche e soprattutto i limiti intrinseci all’operatività di un puro mercato in ambito territoriale.
Da tempo sostengo la necessità che la pianificazione urbanistica e territoriale si occupi prevalentemente di definire regole generali, da coniugare con le specificità dei luoghi; l’opportunità di sposare regole e progettualità privata all’interno di visioni condivise e partecipate, e la necessità di utilizzare al massimo il mercato, correggendolo per le esternalità. Non sono dunque un difensore acritico del piano, ma da economista vedo anche i limiti del mercato, in particolare in ambito territoriale e immobiliare, tra l’altro sottolineati dall’intera tradizione liberale europea, da Pigou (ma potremmo dire da Smith) a Einaudi [4].
Nota: il resto di questo lungo saggio, per motivi di spazio e leggibilità, è scaricabile in pdf dopo le note (f.b.)
[1] Una versione allargata e maggiormente tecnica di questo lavoro è in corso di pubblicazione su Scienze Regionali.
[2] Alla scala locale, nel Documento di Inquadramento del Comune di Milano (2001), che costituisce la più compiuta realizzazione recente del modello deregolativo-negoziale, si capovolge il normale e necessario rapporto di subordinazione fra regole e progetti; si afferma infatti che “gli investitori hanno la massima libertà di proposta” e “se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa” (Sintesi di controcopertina, che riprende concetti esposti nel testo).
[3] Il primo volume ha il merito di presentare una bella sintesi del pensiero di Hayek, un maestro del pensiero economico che rilancia l’approccio neo-classico, micro-individualista e liberale, rinnovandone le basi in senso cognitivo moderno. Egli introduce infatti la problematica dell’informazione e dell’incertezza per rifondare il concetto di decisione economica (assunzione della complessità, ruolo della reputazione), di equilibrio generale (che fa evolvere nel senso di un ordine spontaneo fra attori che cooperano inintenzionalmente, ritornando per molti versi ad Adam Smith), di concorrenza (che interpreta come meccanismo di scoperta, che porta alla massimizzazione relativa dei processi di crescita attraverso innovazione e apprendimento collettivo). Si comprende come un tale sistema coerente di pensiero possa esercitare una forte fascinazione intellettuale; si comprende meno come si possa accettare oggi la forte semplificazione operata dalla visione hayekiana di un’economia atomistica e di una società individualistica senza capitale sociale, in cui è sottovalutato ampiamente il ruolo delle institutions.
[4] Si veda al proposito: Camagni, 2001, sulla giustificazione delle politiche regionali e urbane; Camagni, 2002, sulle caratteristiche della pianificazione strategica e la sua capacità di ovviare ad alcuni limiti della pianificazione tradizionale; Camagni, 1999, sull’utilizzo corretto dello strumento perequativo; infine Camagni e Gibelli, 1996, sui grandi principi che dovrebbero informare le politiche per le città in Europa.
Nella Napoli che oggi brucia con i suoi rifiuti si svolge una storia diversa, quella dei "ragazzi del piano", che inizia sui banchi dell’Università intorno al ‘68 e che prosegue per i decenni successivi, fin quasi ai giorni nostri. I "ragazzi del piano" sono architetti, urbanisti e sociologi che per un lungo periodo, alcuni ancora adesso, hanno lavorato negli uffici del Comune di Napoli per invertire il destino che sembrava iscritto nella città e che riemerge dai roghi di Pianura: quello di essere il paradigma della disfatta di ogni prospettiva urbana. La vicenda dei "ragazzi del piano" è narrata nel libro di una storica, Gabriella Corona (I ragazzi del piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Donzelli, pagg. 219, euro 25, con prefazione di Piero Bevilacqua: il volume viene presentato lunedì a Napoli).
I "ragazzi del piano" rintracciano nel gruppo un elemento di identità intellettuale (alcuni nomi: Elena Camerlingo, Rosanna Costagliola, Giovanni Dispoto, Maria Franca de Forgellinis, Roberto Giannì, Mario Moraca e Laura Travaglini). Appena laureati, decidono di lavorare nel settore pubblico. E non in un settore pubblico qualsiasi, bensì al Comune di Napoli, una delle macchine burocratiche più clientelari, inefficienti e diaboliche che si possano immaginare.
Il gruppo si fa forte delle idealità collettive. Il suo collante è l’idea che l’urbanistica vada praticata dentro le strutture pubbliche, perché è qui il motore della pianificazione di un territorio, e la pianificazione è l’unico modo che consente a una città di armonizzare il suo sviluppo fisico con i bisogni sociali e la qualità del vivere.
Napoli è un caso esemplare nella letteratura del disastro urbanistico. Ma non è al capolinea della sua storia. Nel 1975, quando si insedia un’amministrazione di sinistra, il convincimento che le cose possano cambiare si appoggia sia su una politica che riacquista l’orgoglio di servire interessi pubblici, sia su un bagaglio di conoscenze in campo urbanistico che si va arricchendo. Nasce in questi anni, per esempio, il Piano delle periferie, uno strumento che vuol dare dignità a quartieri che non ce l’hanno. Una tappa cruciale, poi, è quella del terremoto (1980). La città è sull’orlo della disperazione. I "ragazzi del piano", supportati dall’esperienza di Vezio De Lucia, forniscono tutte le condizioni tecniche perché si utilizzi il Piano delle periferie per ridare un alloggio ai senzatetto. L’emergenza viene fronteggiata con strumenti ordinari. Quella prima fase della ricostruzione viene poi seguita da una seconda fase, concentrata sulle infrastrutture e sullo spreco di danaro pubblico. Ed è questa fase, con i suoi dissennati effetti, che è rimasta impressa nella memoria, ma uno dei meriti di Gabriella Corona (e prima di lei di Francesco Barbagallo) è proprio quello di ripristinare la giusta misura degli avvenimenti.
Superato il tunnel degli anni Ottanta, ritroviamo i "ragazzi del piano" al lavoro sul Piano regolatore di Napoli (assessore De Lucia). Un Piano che raccoglie le elaborazioni politiche e culturali precedenti - la città che arresta la sua espansione, la difesa del verde agricolo e del centro storico. Un’impresa durata un decennio, condotta mentre in Italia spiravano forti venti contrari alla pianificazione, considerata una specie di Moloch sovietico. Dall’approvazione di quel documento (2004) sembra trascorso molto tempo. Lo strumento urbanistico resiste. Ma la politica ha più volte tentato di piegarlo a interessi diversi.
In questi giorni, che sembrano segnare il collasso di un’intera classe dirigente, il libro di Gabriella Corona fa emergere una specie di controstoria napoletana, una storia di come si elaborano conoscenze e di come si propongono soluzioni in un luogo dove la razionalità pare a volte bandita.
Qui la prefazione di Piero Bevilacqua
Michele Prospero
Governo o società le due anime del Pci
l’Unità, 28 dicembre 2007
In questo libro di testimonianza (Con Togliatti e con Berlinguer, Carocci, pagg. 261, euro 22,50), Giuseppe Chiarante ricostruisce vent’anni di un’esperienza politica singolare. Egli infatti è l’unico politico ad essere stato sia nel consiglio nazionale della Dc che nel comitato centrale del Pci. Esponente della sinistra Dc sensibile all’insegnamento dossettiano, Chiarante aderì al Pci nel 1958 insieme ad un drappello di dirigenti soprattutto lombardi. Erano anni di enormi difficoltà per i comunisti, ancora alle prese con i contraccolpi del ’56 e con l’abbandono di un gran numero di intellettuali. Chiarante compiva, da questo punto di vista, una scelta in netta controtendenza in soccorso di un partito assediato. Pur venendo dal mondo cattolico, egli difficilmente può essere catalogabile nella formula del cattocomunista. Contatti soprattutto nei primi anni con Rodano ci furono, ma Chiarante si contraddistinse da subito per una sensibilità molto laica. Anzi proprio sui temi oggi chiamati eticamente sensibili, egli prese posizione con un rigore logico che Togliatti in prima persona gli riconobbe, contestandogli tuttavia la mancanza di senso della realtà.
Il nodo del contendere era anche allora la famiglia, al centro di un convegno dell’istituto Gramsci svoltosi nel 1964. Chiarante vi partecipò condividendo le posizioni che rimarcavano la storicità, non la naturalità dell’istituto familiare. La critica della concezione cristiano-borghese della famiglia, che a Frattocchie fu abbozzata, comportava la necessità di una profonda riforma della legislazione per toccare il rapporto tra i sessi. Erano i primi e timidi passi verso un nuovo diritto di famiglia e verso il divorzio. I rilievi di Togliatti riguardavano la pretesa astrattezza delle questioni relative alle libertà civili e personali. Come a dire, le reali questioni politiche sono altre.
Chiarante si schierò, in questi anni di lenta disgregazione della grande sintesi togliattiana, con la corrente della sinistra ispirata da Ingrao. Allievo anch’egli di Banfi, Chiarante condivideva i mutamenti di politica culturale tentati da Rossana Rossanda per andare oltre il rigido storicismo del Pci. Nelle argomentazioni della sinistra comunista lo attraevano in particolare una voglia di aggiornamento del catalogo degli autori. Per dare il senso della difficoltà di andare oltre gli schemi dello storicismo assoluto allora imperante, Chiarante ricorda un articolo di Carlo Salinari in cui si disquisiva sul posto ben diverso da conferire in una biblioteca ideale a Marx e a Wittgenstein. Dell’ingraismo Chiarante apprezzava soprattutto l’abbandono della lettura del caso italiano in termini di arretratezza da colmare con politiche di responsabilità nazionale. Si trattava del punto di forza del realismo politico di Togliatti e soprattutto di Amendola che raccomandava moderazione e senso del limite indispensabili per tamponare la deficienza di un coerente e moderno soggetto politico della borghesia.
Secondo Chiarante l’approccio di Amendola (ma un pessimismo cupo sulle disgregatrici tendenze sotterranee della società italiana lo coltivava anche Togliatti) si situava in un’ottica di rivoluzione passiva. La categoria di Cuoco viene impiegata nel senso che la modernità in Amendola è solo subita, non orientata con sfide che incidano anche sul versante etico-politico generale. Amendola affidava al Pci, d’intesa anzitutto con i socialisti, il compito di incalzare i governi in nome di obiettivi di riforma proclamati solo a parole. Ai comunisti toccava quindi rimediare al fallimento dei propositi riformatori del centro sinistra. La categoria che Chiarante contrappone a questo criterio che gli pare viziato da moderatismo è quella di egemonia: ossia la capacità di orientare le innovazioni mutando anche i rapporti di forza nella società. Una visione alternativa di società, un modo diverso di guidare lo sviluppo e di agire nelle nuove contraddizioni erano il cuore della posizione di Ingrao. A una parte della sinistra ingraiana, quella raccolta attorno al Manifesto, Chiarante rimprovera tuttavia una contraddizione piuttosto vistosa tra la lettura modernizzatrice delle nuove tendenze del capitalismo e i richiami a figure e luoghi del terzomondismo (Castro, Mao).
Ciò ovviamente non vuol dire che differenze di analisi si risolvano con misure disciplinari esemplari per combattere lo spirito di frazione. E a questo riguardo fu senza dubbio scritta una brutta pagina della storia del Pci. In fondo nel Pci si agitavano, a partire dagli anni sessanta, due letture molto diverse della realtà italiana. Una era più legata al dato politico, alle opportunità cioè di costruire lo spazio per una alternativa di governo. In questa posizione si riconoscevano quanti pensavano a un Pci che non si limitasse a giocare in un ruolo sempre identico di opposizione. L’altra tendenza era invece più interessata ad una alternativa di società. Nel ’68 queste due sensibilità cozzarono in modo evidente. Chiarante ricorda l’estraneità profonda di Amendola e il fastidio quasi fisico di Bufalini verso le forme della mobilitazione studentesca. La polarità tra alternativa di governo e alternativa di società non è mai stata risolta dalla sinistra.
Dentro il Pci vigeva peraltro la regola tipica della soluzione trasformista, ossia dominava un grande centro, visto come asse portante che di volta in volta compiva parziali oscillazioni verso destra o sinistra. Il segretario, di norma a vita nel suo incarico, registrava gli spostamenti di sensibilità dandone espressione soprattutto nella diversa composizione della segreteria o dell’ufficio politico. Un grande centro regnava ricorrendo alla proverbiale potatura delle ali (di cui anche Chiarante fu vittima con la mancata elezione al comitato centrale nel corso dell’XI congresso). La forte contrapposizione tra la destra e la sinistra interna non impediva però il riconoscimento politico del merito. Chiarante rammenta che a volerlo deputato fu proprio Napolitano cui attesta nel libro limpidità e lontananza dallo spirito di frazione, dalla mentalità clientelare.
Erano ormai gli anni settanta, gli anni di Berlinguer e di un Pci in grande espansione. L’inserimento dei comunisti nell’area del governo, non a caso, vedeva Berlinguer attorniato da una segreteria in gran parte composta da esponenti della "destra". Nell’esperienza della solidarietà nazionale le due anime del Pci vennero però a collisione: da una parte misure parziali di risanamento, dall’altra obiettivi di più ampia rigenerazione. Ricorda Chiarante che le due anime erano presenti nella stessa figura di Berlinguer. Egli per un verso recepiva gli echi di una interpretazione catastrofista del capitalismo di cui si sottovalutavano le crisi come rigenerazioni o distruzioni creatrici. Per un altro, oltre agli accordi tra le classi sociali per impedire imminenti catastrofi, Berlinguer suggeriva l’austerità come occasione di rigenerazione qualitativa della società. Tra progetto e governo insomma non si trovò la matassa della mediazione e venne così smarrita anche la carta di creare almeno nuovi equilibri nel sistema politico per non rimanere in mezzo al guado. Si dovette convivere, per dirla con Chiarante, con la necessità della rivoluzione passiva e con il sogno dell’egemonia.
Valentino Parlato
Storie italiane viste dal «bottegone»
il manifesto, 23 dicembre 2007
Dopo Da Togliatti a D'Alema e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, il nostro Giuseppe Chiarante ci offre una terza meditazione, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (prefazione di Aldo Tortorella, Carocci, pp 261, euro 22,50). Tre volumi, e questo ultimo in particolare, che aiutano a meglio leggere una parte importante della storia d'Italia nel secolo appena concluso.
La prefazione di Aldo Tortorella è forse la migliore recensione al libro e pertanto mi pare utile citare l'avvio: «Questo nuovo volume dell'autobiografia di Giuseppe Chiarante è anche la storia del sorgere della nuova sinistra comunista, delle distinzioni che in essa si aprirono con la nascita del gruppo del manifesto, del modo con cui ebbe origine - e poi si deformò - l'idea dell'incontro tra comunisti e cattolici. Ne viene un contributo vivo alla comprensione della storia dei comunisti italiani e del nostro paese». È un libro - aggiungo io - che conforta chi ha vissuto quegli anni e dovrebbe incoraggiare i giovani.
È una storia nella quale ritrovo anche - mi sia consentito - la mia giovinezza: il quinto piano di Botteghe Oscure, il lavoro comune con Eugenio Peggio, Mario Mazzarino, Beppe Chiarante, Osvaldo Sanguigni, Valdo Magnani. Il mio rapporto, indubbiamente forte, con Giorgio Amendola (che mi tolse il saluto dopo la vicenda del manifesto, ma che io continuai pervicacemente a salutare e poi ancora l'avvio dei rapporti (buoni) con Luciano Barca e Lucio Magri (che con Chiarante era stato protagonista dell'ingresso nel Pci di quel gruppo di cattolici democratici) che lavoravano alla Sezione di massa, sempre al quinto piano. Il quinto piano è un pezzo importante della mia memoria.
Ma torniamo al libro, nel quale mi sembra di notevole rilievo il riprendere a discutere del compromesso storico; della forza di quel tentativo e del suo fallimento. L'idea del compromesso storico - ci spiega Chiarante - nasce ben prima del golpe in Cile e ha addirittura più di un fondamento nel famoso discorso di Togliatti a Bergamo. E - va aggiunto - come ha ricordato Gianni Ferrara nel suo intervento in onore della memoria di Francesco De Martino, fu proprio De Martino a proporre gli «equilibri più avanzati» in sintonia con la proposta del compromesso storico. L'idea, a mio parere forte, del compromesso storico - che puntava a un rinnovamento dei tempi della Costituzione - rapidamente degradò nel governo delle astensioni (il monocolore Andreotti) e poi nei governi della solidarietà nazionale e, infine, nel craxismo, nel tramonto della prima repubblica, nella Bolognina e in una crisi di tutte le sinistre, che ancora continua e non è giunta al fondo. E non va dimenticato che l'assassinio di Aldo Moro è parte integrante della fine del tentativo di avanzata democratica che si caratterizzò come compromesso storico.
Di questa vicenda decisiva nella storia d'Italia Chiarante è stato attore, ma riesce anche a esserne testimone acuto. Attore e testimone, sembra una contraddizione, ma molti della generazione di Chiarante lo sono stati. Attori in quanto compagni impegnati nel lavoro di partito e nella ricerca, ma anche con una distanza dall'agire quotidiano che ha consentito loro di essere testimoni affidabili, in grado di testimoniare anche nel nostro stesso agire.
Il pregio di questo libro di Chiarante, il più recente, ma non ultimo (sta già lavorando a un altro) è quello di raccontarci una storia di straordinario impegno personale, ma con il distacco che ciascuno (pochi però ci riescono) dovrebbe aver da se stesso, dal suo agire, dai suoi successi e dalle sue sconfitte. Quindi, concludo con un grande grazie a Beppe. La vicenda del manifesto (e Chiarante spiega bene le ragioni del suo mancato consenso) ci divise, ma vale ricordare che in quel lontano 1969 Chiarante votò contro la nostra radiazione dal Pci e che nel corso degli anni successivi ci siamo ritrovati, amici e compagni, sullo stesso fronte di lotta, dove ancora cerchiamo di resistere.
Fa benissimo, Carlo Petrini [vedi articolo riportato di seguito] a ricordare a botta calda, l’indomani dello “scampato pericolo” degli scaffali vuoti nei supermarket per via del blocco dei Tir, come una certa autarchia locale, quella che spesso si riflette nella cultura Slow Food o della ristorazione legata al territorio, avrebbe parecchio aiutato, e possa ancora aiutare, in questi casi.
Evoca giustamente, l’articolo di Petrini, immagini che ci sono ancora assai vicine di campagna italiana, piccoli produttori, prodotti di alta qualità, città che per quanto mostruosamente cresciute spesso mantengono ancora qualche contatto col proprio hinterland rurale, che rifornisce in parte anche ristoranti e mercati rionali.
Quello che forse il lettore di Petrini non coglie in pieno, però, è da un lato l’estrema modernità di questa lettura del rapporto fra città e campagna, dall’altro il fatto che si tratta di un affascinante nuovo campo di ricerca, sperimentazione, ambito di sviluppo socioeconomico.
I moltissimi firmatari dell’ Appello Parchi di eddyburg, hanno sicuramente colto al volo uno degli aspetti immediati di questo tentato colpo di mano, evidentemente dettato dalla cultura dei palazzinari: si trattava di un attentato all’ambiente e alla vivibilità, soprattutto metropolitana, visto che il primo obiettivo era il Parco Agricolo Sud Milano, dove da lustri grandi e piccoli operatori non vedono l’ora di “fruire” (è il temine usato dall’assessore comunale milanese Masseroli) di questi spazi lasciati inutilmente a cose poco produttive tipo erba, alberi, acque, animali …
Anche chi ha aderito all’appello, in maggioranza, non ha però forse colto l’aspetto, per niente secondario, di quell’aggettivo, “agricolo”, abituati come siamo a considerare questa attività, nel migliore dei casi, come una specie di zoo socioeconomico senza recinti, dove quella specie di panda col cappello che appare ai più il contadino si aggira svolgendo attività residuali. Insomma, il suo vero lavoro è di esistere, farsi fotografare dai bambini in gita scolastica insieme a galline e rotoballe, e al massimo come spiega anche l’autorevole Cpre britannica in un suo recente rapporto , garantire un’ottima manutenzione a prati, siepi, drenaggi, prevenire il dissesto ecc.
Un’agricoltura che sempre più, insegna la pianificazione territoriale, si deve invece legare strettamente ai modi di progettare la città moderna, non solo come versione aggiornata del grande parco urbano per andare in bicicletta o guardare un paio di vacche al pascolo, ma entrare a pieno titolo fra le attività economiche centrali e strategiche, assai più all’avanguardia che non i pensosi slanci plastici delle architetture griffate che spesso vorrebbero occuparne gli spazi, proprio in nome di una mal concepita idea di modernità (quando non in palese malafede come nel caso milanese citato).
In un interessantissimo articolo pubblicato circa un anno fa, il direttore della rivista ufficiale della Regional Plan Association di New York, partiva da uno spuntino nella pausa di mezzogiorno per ricostruire un bozzetto di mondo affascinante: una mela comprata al farmer’s market nella zona di Times Square, che propone solo prodotti certificatamene regionali, serviva all’ampia cultura geografica, tecnica, socioeconomica dell’intellettuale per tentare un recupero del rapporto fra la grande metropoli e il suo territorio, per quasi due secoli (con l’eccezione del Central Park e poco altro) usato solo come piattaforma su cui avvitare grattacieli e edilizia minore residenziale, produttiva, commerciale.
Un modo assai interessante di raccontare da una prospettiva personale al tempo stesso insolita e molto familiare tutto ciò, è quello scelto da una coppia di giornalisti, Alisa Smith e James B. MacKinnon, che col loro Plenty (letteralmente: Abbondanza, Random House, 2007), descrivono un anno vissuto niente affatto pericolosamente, fra gioie, perplessità e scoperte, della “dieta delle cento miglia”. Ovvero, mangiare nulla che non sia coltivato entro un raggio di circa 150 chilometri da casa. La faccenda diventa piuttosto interessante quando si consideri che “casa” sta nel centro di Vancouver, Columbia Britannica canadese, città famosa per le sue politiche urbanistiche tese a limitare il consumo di suolo, vicina all’Oceano Pacifico, alle montagne, ma non esattamente un piccolo centro, né al centro di ubertose campagne, né in area che noi chiameremmo temperata, come si capisce immediatamente dalla carta geografica.
E come si capisce immediatamente sin dalle prime efficacissime, battute che la coppia dedica a una di quelle miracolose primavere del Nord, col fango e le ultime croste di neve che fanno spazio a un’inusitata esplosione di natura. Le prime verdure nell’orto, i germogli nei parchi, nei fossi, sui cigli dei terrapieni vicino alla superstrada … una ricchezza forse inusitata, ma che genera subito l’angosciosa domanda: tutto bellissimo e magari anche buonissimo, ma basta a garantire una dieta equilibrata, sali, zuccheri, proteine, vitamine ecc.?
Ed è proprio questa laboriosa ricerca, fra gli equivalenti locali del mercato rionale italiano raccontato da Carlo Petrini, o del farmer’s market di New York, le banchine del porto dove attraccano i pescatori, la fascia suburbana esterna dove qualche eccentrico sperimenta le colture più audaci, a raccontare il rapporto fra città e campagna in una prospettiva assai realistica da XXI secolo. Dove naturalmente si mescolano spazi, figure e anche prodotti che spesso non hanno nulla a che fare con la “tradizione”, ma che possono contribuire a costruirne una nuova, come le verdure cinesi per la miriade di piccoli esercizi, o qualche esperimento a mezza strada fra la pura stravaganza e la straordinaria innovazione. Ma emerge, per converso, anche qualcosa di terrificante quando si pensa agli ettolitri di gasolio bruciato ogni giorno, ogni minuto, per far convergere sulla città, attraverso i canali “tradizionali” della grande distribuzione organizzata, prodotti succedanei a quelli reperibili dietro l’angolo, facendoli invece spostare lungo la filiera degli infiniti e costosissimi (per il portafoglio e l’ambiente) passaggi e intermediazioni.
Ci sono anche motivazioni pratiche, dietro a questa neotradizione dello shopping mall. Ad esempio, di solito chi non sta ad esempio a Cuba, o per altri versi a Ferrara, inizia ad avere problemi per fare una cosa con cui quasi tutti iniziano le giornate: due cucchiaini di zucchero nel caffè. Alisa e James devono passare da subito al miele, scoprendo via via la rete dei produttori locali, il rapporto con le stagioni, le trasformazioni ambientali, l’urbanizzazione selvaggia che avanza.
E avanti così, con la voglia di pane che si trasforma in una caccia a improbabili coltivatori di grano nell’area metropolitana di un capoluogo del nord, con risvolti inquietanti dentro a silos abbandonati in balia dei ratti. O la necessità fisiologica del sale, forma antichissima di moneta, che nella città affacciata sul Pacifico diventa occasione per una sorta di matrimonio del mare, prelevando da una barca a remi una grande quantità d’acqua e facendola poi bollire fin quando compaiono quasi magicamente i cristalli bianchi.
Il tutto condito da scenette di vita familiare e amicale, di raccolta di more nella canicola estiva dei roveti sotto l’autostrada, di bisticci e bronci davanti al pentolone della conserva di pomodori per l’inverno. Parafrasando Alberto Savinio, verrebbe da dire “ascolto il tuo stomaco, città”. E dal punto di vista della cultura urbanistica, sociale, ambientale che questo pur “leggero” resoconto da Vancouver e dintorni evoca, emerge l’esigenza di superare una certa sedimentata prospettiva. Certamente quella della città che cresce a macchia d’olio, infinita, mastodontica, alimentandosi con tubi che risucchiano risorse da sempre più lontano, e scaricandosi più o meno addosso tutti gli scarti. Superare l’idea della città macchina, non solo quella degli architetti modernisti fatta di angoli retti, cemento, e idee tetragone, ma anche quella letteraria dei “ventri” ottocenteschi, che da Sue attraverso la Serao fino alle processioni di Zola, dei carri che dalla campagna sciamano fino alle Halles, propongono un rapporto gerarchico fra la pietra e la terra.
C’è da sperare, che magari lo sciopero dei camionisti faccia riflettere chi di dovere, anche qui da noi, sulla necessità di superare davvero le chiacchiere sulla “misura d’uomo” o addirittura sullo “sviluppo sostenibile”, fatte a solo uso di qualche dichiarazione televisiva o elettorale. Ascolto il tuo stomaco, città, e credo che dovresti curarti l’ulcera. Urgentemente.
Nota: fra i testi e temi citati nell’articolo si vedano anche le traduzioni in italiano di Susan Cozier, La Dieta dei 150 Chilometri, E/Environmental Magazine, 15 settembre 2007; e Robert Freudenberg, Comprare locale aiuta a salvare il mondo? Spotlight on the Region, dicembre 2006 (f.b.)
Carlo Petrini, La rivincita del localismo, la Repubblica, 13 dicembre 2007
È una pace fragile quella siglata tra gli autotrasportatori e Palazzo Chigi, un’intesa che lascia al Paese una sensazione di grande debolezza strutturale visto che sono bastati due giorni per mettere in ginocchio quasi tutte le città.
Tuttavia, sia pure senza volerlo, il blocco dei Tir ci ha dato una risposta laterale e straordinaria, che se ne sta lì, quieta e sorridente, in attesa che qualcuno la noti e gli sorrida di rimando. «Nel mondo vì sono tante città, una te l’ho già detta, quale sarà?». Era un giochino che, dalle mie parti, ci facevano da bambini e che ci insegnava a vedere le soluzioni dentro i problemi (Mondovì era la città nascosta nella domanda).
Lì dove? Non certo sulle autostrade intasate, né nei telegiornali che hanno alternato con zelo la par condicio tra padroncini arrabbiati e politici indignati e quella tra gli automobilisti che avevano ancora abbastanza benzina per andare a bloccarsi in una coda per ore e quelli che invece sono rimasti fuori da quella follia solo perché il benzinaio è restato senza carburante.
Ma tra le tante interviste televisive alcune hanno fatto centro, sia pure senza saperlo. In un mercato rionale di Roma i giornalisti hanno cercato di indagare sulla situazione delle vendite al dettaglio di generi alimentari. I venditori quasi si scusavano: «Oggi c’è poco, è arrivata solo la roba locale per via dello sciopero dei Tir…». La telecamera si è allargata su una specie di Bengodi di verdure di stagione, locali, un commestibile giardino d’inverno ricco di tutti i colori, i profumi e i sapori che l’agro romano può offrire. Mancavano le banane, i manghi, le fragole? Evviva. Mancavano i gamberetti del Pacifico e la polpa di granchio? Perfetto.
Certo Roma ha intorno a sé un’areale agricolo che altre città non possono nemmeno sognare. Però usiamo questa vicenda come il paradigma della storia che stava nascosta dietro i tir, perché non ci sono solo le grandi città, in Italia; ci sono centinaia di città piccole e medie che hanno i campi e gli orti appena fuori dal centro storico.
Le economie locali non le fermi tanto facilmente, perché non hanno molti bisogni. Chi ha molti bisogni ha molti padroni. Le economie locali sono libere perché sono piccole e agili. Perché sono adattabili e flessibili. E sono così perché hanno un alto tasso di biodiversità e perché la soddisfazione delle loro esigenze è al centro di un sistema paritario, di dare e avere, che invece non può essere il paradigma della grande distribuzione. Le economie locali non hanno padroni, hanno una rete di interazioni. E parte di questa rete è costituita proprio dai consumatori, i quali si possono rilassare: escano a piedi, facciano una passeggiata nel centro storico delle loro città, arrivino fino al più vicino mercato, facciano due chiacchiere con i venditori, che magari sono anche agricoltori, acquistino frutta e verdura locali di stagione e quanto il loro territorio offre. Poi tornino a casa o in ufficio (anche uno spuntino può essere arrivato in Tir o essere stato prodotto localmente) e si godano un pasto a chilometri zero, a carburante zero, a emissioni zero, a nervosismo zero.
È semplice la storia di La graine et le mulet (La semola e il cefalo, ingredienti di base del cous cous tunisino al pesce): è quella di una famiglia numerosa, pettegola, rumorosa, scombinata, come può esserlo una famiglia mediterranea. E qui la mediterraneità è duplice: magrebina e francese del Midi. Siamo in terra d’immigrazione a due passi da Marsiglia. La famiglia è divisa, rissosa nel quotidiano, dal risveglio al tramonto, ma compatta, solidale quando l’esistenza si fa difficile. È una virtù del Sud. E in quel Sud bastardo, elettrizzato dal mistrale e non infiacchito dallo scirocco, sono le donne, siano mogli, figlie, sorelle, amanti, a tenere unita la tribù. Sono loro i pilastri. Sottomesse? Neanche per sogno. Non presiedono ma comandano.
Approdato sulle spiagge europee l’Islam perde il vizio? Lasciamo stare, qui lo scontro di civiltà non c’entra. L’Islam non c’è in questa storia di cous cous, della quale sono protagonisti dei magrebini diventati francesi, senza pensare troppo a Maometto e a Voltaire. Le donne guidano la famiglia perché sono più solide. Hanno sguardi di fuoco e lingue biforcute. I loro insulti sono frustate che non lasciano il segno. Le loro risate aprono il cuore. Gli uomini giovani, baldanzosi, corvini rincorrono spavaldi le bionde, ma quando sono scoperti dalle spose grondanti figli chinano il capo contriti e ammansiti. L’indulgenza non tarda mai troppo. Quella per il capo famiglia è tuttavia speciale, unica. Non si interrompe mai.
Ingrigito, stanco, ormai condannato alla disoccupazione e quindi alla pensione, il vecchio incute sempre rispetto. È comunque l’eroe, anche se dell’anti-eroismo. Egli è due volte fedele e lo resta fino alla morte. È fedele alla sposa legittima e all’amante legittimata dagli anni di convivenza appartata.
Che fare di questa storia semplice, anzi banale, tradizionale dall’inizio alla fine, fin nelle pieghe più intime? Una storia ricca di luoghi comuni, senza ammazzamenti e tradimenti biblici. Con poche passioni amorose. Senza drammi sociali gridati e discriminazioni xenofobe da manuale razzista.
Quindi una storia che non suscita indignazione, né altri sentimenti politicamente corretti. Che fare di così poca cosa? Abdellatif Kechiche ha compiuto l’impresa riservata ai maestri della letteratura e dell’arte: da una vicenda piatta ha saputo trarre un’opera epica. Quel che messo in mano a un narratore qualunque avrebbe fatto sbadigliare, è servito al regista franco-tunisino per realizzare un film in cui, è stato giustamente detto: il romanzesco si mischia alla cronaca sociale, la commedia al melodramma, la triviale banalità del quotidiano alla grandezza della tragedia.
È difficile non vedere in questo film datato 2007 un discendente del nostro neorealismo, in una versione a colori. I critici francesi più attenti hanno riconosciuto questa affiliazione. Ma va aggiunto che il parlato, il torrente, il fiume di parole che percorre, spesso sommerge, le due ore e mezzo di filmato, ha un accento particolare. È di per sé un capolavoro. È il linguaggio vivo, polposo, dei magrebini convertiti al francese, che dà accenti dialettali, crepitanti come fuochi d’artificio, a una lingua (mi perdonino gli Accademici di Francia) che aveva bisogno di un ricostituente, più efficace, più genuino degli abituali anglicismi. È una necessità sentita in altre contrade linguistiche della vecchia Europa.
Senza quel linguaggio carnoso, che sgorga come una massa d’acqua da una diga sventrata, in cui un complimento può suonare come un insulto e viceversa, il film rischia di perdere molto. Moltissimo. Penso al doppiaggio italiano. E a questo punto va attribuito a La semola e il cefalo (il titolo italiano, a gennaio, sarà Cous Cous) un ulteriore valore. Il film (insieme a quelli precedenti di Kechiche: La faute à Voltaire e L’Esquive) annuncia quella che è, e sarà sempre più, una nuova cultura: la cultura scaturita dall’innesto dell’immigrazione di origine extraeuropea sulle nostre esangui società. Ho già detto del quadro familiare in cui avviene l’epica, neorealistica, storia del cous cous. Ed ecco adesso la trama, riassumibile in poche parole. Per interpretare il ruolo principale, quello di Slimane, anziano operaio in un cantiere navale del Sud della Francia, Abdellatif Kechiche ha scelto un vero operaio, Habib Boufares, amico di suo padre defunto. Quasi tutti sono attori improvvisati. Il protagonista, Slimane, viene licenziato perché la sua produttività è ormai scarsa. Ha troppi anni e costa troppo, ha acquisito troppi diritti. I nuovi arrivati dall’Europa Orientale sono «più interessanti» per i datori di lavoro.
Separato dalla moglie e dai figli, Slimane vive all’Hotel de L’Orient, di cui è proprietaria l’amante. Ed è in quella pensione per immigrati che decide di tentare la fortuna. Dalla carcassa arrugginita di una vecchia nave in disarmo vuole fare un ristorante specializzato in cous cous. er questo mobilita le sue due famiglie rivali. La moglie, interpretata dalla madre dell’assistente cameraman, sarà l’energica cuoca dal cuore d’oro. Ma anche la famiglia dell’amante avrà un ruolo determinante. In particolare l’avrà la bella Rym, appunto figlia dell’amante, che per intrattenere i clienti, irritati dal ritardo del cous cous, farà un’interminabile danza del ventre, in egual misura drammatica ed erotica. Rym è una splendida attrice. Si chiama Hafsia Herzi e il regista l’ha incontrata a Marsiglia, quando ormai dubitava di poter trovare la ragazza che aveva sognato per il ruolo di Rym.
1. Una natura precocemente fatta storia
Ci sono sensibilità, attitudini mentali, modi di essere spirituali, che percorrono come un fiume sotterraneo la storia di un Paese e che lo contrassegnano per secoli con un marchio di straordinaria durata e persistenza. Sono caratteri originali, non facilmente afferrabili, e pur solidi come la roccia, di cui quasi mai si arriva a comprendere l’origine, o l’insieme di cause che hanno finito col generarli e farli durare nel tempo.
Senza dubbio costituisce un connotato profondo della cultura italiana la rimozione che le popolazioni e le loro classi dirigenti(compresi i ceti colti) hanno operato nei confronti della storia del proprio territorio. Una rimozione che a lungo ha riguardato la vicenda del suolo come natura, la cancellazione dalla memoria collettiva degli eventi catastrofici con cui le potenze oscure della Terra hanno scandito la vita delle varie comunità della Penisola nel corso dei secoli. L’Italia, terra tra le più intensamente sismiche del bacino del Mediterraneo, dispone di sempre più aggiornati cataloghi storici dei terremoti che l’hanno ripetutamente colpita, ma non ha mai elaborato una cultura nazionale connotata dalla consapevolezza di questa sua millennaria e inquietante originalità. La memoria storica socialmente più utile, forse la sola in cui effettivamente la registrazione del passato e’ magistra vitae - per quel che ci racconta e prescrive a proposito del suolo su cui viviamo e operiamo - costituisce un dato marginale dei saperi dominanti e della cultura nazionale.
Ma tale rimozione investe più latamente la memoria psicologica e colta delle popolazioni anche per aspetti meno dolorosi e funesti del passato. Gli italiani non solo hanno cancellato gli eventi eccezionali di cui sono stati così frequentemente vittime, ma hanno steso una coltre di oblio anche sui manufatti storici al cui interno hanno edificato i loro insediamenti, elaborato le loro economie, condotto i loro traffici, intessuto le loro relazioni sociali. Mi ha sempre fornito elementi di stupore e riflessione la considerazione svolta alcuni anni fa da Lucio Gambi a proposito della centuriazione romana ancora oggi visibile in tante aree e regioni della Penisola:
“Cito il caso della pianura padana da Cavour a Cividale e da Ivrea a Rimini, dal bacino fiorentino e della Terra di Lavoro dove si è conservata in migliori condizioni la centuriazione romana… La vasta geometria del reticolo viabile, del sistema drenante, delle direzioni e delle sagome dei campi pare che non siano fatti che abbiano lasciato un’impronta incisiva nelle percezioni territoriali della gente che su questi spazi rurali abita. D’altronde, il fenomeno della centuriazione è stato individuato e recuperato alla memoria dalla cultura erudita solo intorno alla metà del secolo scorso. Ma qui si può dire che, per lo meno in alcune delle regioni ricordate, la gente si è finalmente resa ragione di quelle comode e folte maglie di strade ortogonali, solo dopo che le autostrade, scorrendovi in mezzo coi loro imperiosi terrapieni, le hanno ostruite ed occluse”.
Certamente fanno parte di un fondo antropologico forse inesplorabile le ragioni che hanno condotto le popolazioni italiche e italiane a percorrere i secoli dell’era volgare senza avere, spesso, contezza del carattere eminentemente costruito del territorio da essi abitato. Calcare un suolo già ricco di impronte senza avere la capacità di scorgerle probabilmente è un connotato che deve essere comune a molte culture popolari europee. Ma certo per l’ Italia la situazione presenta elementi di singolare particolarità. Innanzitutto per essere stata, la Penisola, la sede privilegiata della intensa e secolare manipolazione e infrastrutturazione che vi operarono gli ingegneri e gli agrimensori romani. Emilio Sereni ebbe giustamente a ricordare come già Goethe avesse colto il carattere di manufatto civile, per dir così, del territorio italico in età romana. Una sorta - per citare le parole del poeta tedesco - di “seconda Natura che opera a fini civili” sovrapposta al paesaggio naturale e originario della Penisola.
Per due millenni numerose popolazioni, in varie regioni e città, hanno avuto davanti agli occhi o hanno quotidianamente utilizzato spazi urbani, cinte murarie, vie consolari, acquedotti, canali, cisterne, ponti, porti: il lascito evidente dell’ imponente opera di civilizzazione che aveva modellato e reso funzionale il territorio nel mondo antico. Oggi, peraltro, la ricerca storica è in grado di mostrarci anche tracce più profonde e nascoste dell’opera di manipolazione dell’habitat italico portata a termine in età classica. Si pensi, a tal proposito, alla costruzione di briglie e serre realizzate dai romani nell’Umbria meridionale per contenere i processi erosivi di alcuni fiumi. In taluni casi siamo di fonte a opere che sorprendono non solo per la loro imponenza, ma anche per la loro superstite funzionalità. E’ questo il caso, ad esempio, dell’opera, rinvenuta, sempre in Umbria, a Lugnano in Teverina : una “superba briglia in opera poligonale che si segnala non solo per l’interesse strettamente archeologico, ma anche per l’ottimo stato di conservazione, al punto… di consentirne seppure parzialmente il perdurare delle originali attività”
Un territorio dunque in cui la natura è stata ampiamente rimodellata e disseminata di tracce viventi e operanti delle opere dell’uomo. Un habitat originario trasformato in manufatto e dotato di molteplici lingue in grado di raccontare vicende e processi a chi avesse saputo ascoltarle. Un deposito di testimonianze che verosimilmente avrebbe dovuto dar luogo a un culto delle memorie territoriali in grado di alimentare e rendere diffusamente popolare la ricerca archeologica in Italia e, naturalmente, la storia del territorio.
E’ pur vero, ed è largamente noto, che l’impronta romana non si è limitata al solo territorio della Penisola, ma ha marcato anche, in vario modo e misura, l’intero territorio dell’Europa. Come ricordava anni fa Clifford T. Smith:
“E’ paradossale che le città romane abbiano lasciato un’impronta così profonda sulla geografia dell’Europa moderna, nonostante la vulnerabilità dell’economia e delle istituzioni urbane di fronte all’instabilità e al declino che seguirono al crollo dell’Impero. Difatti le tracce delle strutture urbane introdotte dai romani sono di gran lunga più evidenti della influenza delll’agricoltura romana sui sistemi di campi e sull’habitat rurale. Molte delle principali città dell’Europa occidentale hanno nomi di origine classica: in alcune la moderna configurazione urbanistica ha potuto seguire il tracciato di fortificazioni romane o la fondamentale ossatura del cardo maximus e del decumanus maximus; infine, nelle aree mediterranee più profondamente romanizzate, le moderne reti stradali spesso riproducono fedelmente una pianta romana”.
Ma l’Italia conserva caratteristiche più marcate e speciali di formazione storica del suo territorio. Intanto perché la disseminazione dei centri urbani e la loro capacità organizzatrice e plasmatrice dei rispettivi contadi probabilmente non ha comparazioni possibili con il resto dello spazio europeo. Come ricordava Cattaneo, nel noto saggio sulla Città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), l’ incidenza della vita urbana sul territorio della Penisola costituisce un elemento di profonda originalità del suo processo di formazione storica. Centri propulsivi di vita economica, di commerci, di controllo politico e di elaborazione culturale, le città italiane hanno irradiato per tutta l’era volgare la loro potente azione modificatrice e organizzatrice sulle campagne con una ampiezza senza precedenti e senza pari in altre regioni dell’Occidente.
D’altro canto, una altro elemento di originalità e di distinzione andrebbe rammentato. Già dalla tarda età moderna, il territorio della Penisola mostrava e vantava un lato, per così dire, spiccatamente estetico, che lo differenziava nettamente dagli altri quadri geografici nazionali. Le bellezze naturali e simboliche di tanti siti, talune forme particolarmente suggestive del paesaggio agrario, le tracce monumentali delle grandi civilizzazioni antiche, e la disseminazione di opere d’arte al suo interno ne facevano un habitat del tutto particolare, in cui il calco del passato, la manipolazione umana si esprimeva nelle forme sontuose e uniche delle bellezza artistica. Ciò, com’è noto, era apertamente riconosciuto dalle élites intellettuali europee, tanto è vero che avevano eletto l’Italia a mèta privilegiata del grand tour. Ma almeno dalla fine del XVIII secolo faceva ormai anche parte dell’orgogliosa retorica degli illuministi italiani:
“Questo paese – ricordava Giuseppe Maria Galanti nel 1782 – che forma la più bella regione d’Europa, per la fertilità del suo suolo, e per la ricca varietà delle sue naturali produzioni, è parimenti sopra tutte le altre nazioni pregevole, per gli monumenti delle sue antichità e per li capi di opere d’arte in tutti i generi che racchiude nel suo seno”.
2. Una rimozione di lunga durata.
E tale aspetto basterebbe già di per sé a rendere clamoroso il carattere divaricato della cultura nazionale da una peculiarità di percorso storico materiale che non ha eguali nell’Europa moderna. Un territorio unico per profondità e ampiezza di manipolazione antropica e di modellazione artistica non ha sedimentitato nessuna apprezzabile peculiarità culturale fra le popolazioni e i ceti colti che lo hanno abitato.
Ma c’è ancora un altro aspetto, non meno rilevante da considerare, che ancora una volta distingue la vicenda della Penisola e la contrassegna con un rilievo di originalità profonda, se non di unicità. Come ha ricordato Fernand Braudel, le regioni del Mediterraneo, e in particolare le terre di pianura, hanno conosciuto una forma di colonizzazione agricola diversa da quella realizzata dal lavoro secolare delle popolazioni e dei contadini del Nord Europa. In queste ultime regioni le terre nuove sono state prevalentemente guadagnate all’agricoltura attraverso vasti e ripetuti diboscamenti, mentre nel Sud del Vecchio Continente è stata la bonifica, il prosciugamento degli acquitrini, l’inalveamento di fiumi e torrenti la via maestra per estendere le coltivazioni. Una diversità di strategie che probabilmente è il risultato di una sconnessione temporale profonda ancora oggi poco percepita dagli storici: nel bacino del Mediterraneo il diboscamento era stato già vastamente realizzato nel mondo antico, quando il Nord dell’Europa era ancora coperto dalle sue foreste originarie. E l’opera di bonifica delle terre di bassura è stata probabilmente, almeno in larga parte, una risposta necessaria delle popolazioni agli imponenti processi di erosione delle terre - conseguenza della stessa deforestazione - che già in età classica avevano preso a manifestarsi.
Resta pur sempre vero, tuttavia, che la Penisola italica è stata, per oltre un paio di millenni, il cuore della bonifica mediterranea. Nel suo territorio agricoltura e insediamenti, vale a dire attività produttive e fondazioni di aggregati demografici, sono stati resi possibili da processi più o meno ampi e profondi di trasformazione e di riassetto degli habitat originari. Per lo meno nelle aree di pianura e nel fondo delle valli un preliminare costrutto territoriale li ha preceduti o accompagnati – similmente, ma in maniera del tutto specifica e particolare – a quanto era avvenuto in Olanda. Un processo millennario rintracciabile perfino nelle terre dove l’opera dell’uomo può apparire meno visibile e i processi spontanei della natura piu marcati e dominanti:
“In effetti – ha scritto in proposito Lucio Gambi – la fascia litorale che chiude ad oriente la pianura padana su di un fronte di 220 km, è l’area ove le modificazioni della topografia originale sono state, da un paio di migliaia di anni in qua, le più imponenti, ampliandosi pure a lato delle grondaie del Po e dell’Adige, fino a più di 150 km dal mare. Queste modificazioni però non sono state opera della natura; o per meglio dire la natura ha fornito solo il materiale ( cioè le ghiaie, le arene, le argille e gli sfasciumi di ogni genere portati giù dai fiumi) che era indispensabile a compierle.Ma la più o meno disciplinata sedimentazione di quel materiale, così come la conservazione in alcune zone dei vasi lagunari, il corso dei fiumi e il profilo della costa come ora ci appaiono – in una parola la configurazione odierna della bassa pianura romagnola, polesana, veneziana e friulana – furono la conseguenza di disegni e iniziative umane”.
D’altro canto, non è senza significato – ed anzi costituisce forse il dato più cospicuo dell’originalità del caso italiano – il fatto che la vasta opera di bonificazione avviata in Italia in età contemporanea abbia dovuto in ogni ambito regionale e locale assumere un carattere di continuazione storica. Come ho più volte sottolineato, la vasta letteratura tecnica e ingegneristica che tra XIX e XX secolo ha affrontato problemi locali di bonificazione si presenta quasi sempre, in via preliminare, come una progettazione che fa i conti con le opere o con le tracce degli interventi operati nei decenni e più spesso nei secoli precedenti. Sia le varie società antiche ( quella magnogreca, quella etrusca e quella romana ) sia i poteri dell’età medievale e moderna ( monaci benedettini, Stati regionali, ecc) si sono impegnati diuturnamente e con vari esiti in un’opera di rimodellamento territoriale che lo Stato unitario ha poi ripreso con più ampia visione di insieme. Ed è riprova di eloquente significato il fatto che allorquando la geografia si è voluta misurare con serietà e profondità di analisi di episodi significativi della bonifica italiana, abbia dovuto collocarli all’interno di una vasta e articolata prospettiva storica.
Infine un altro, ulteriore, elemento di originalità, se non di unicità, ha marcato profondamente il territorio italiano, rispetto al resto degli Stati nazionali, un funesto filo rosso che oggi potremmo definire la prima questione ambientale europea. Mi riferisco, ovviamente, alla malaria. Endemia secolare legata alle condizioni dell’habitat, certamente presente in altre aree del Sud del Vecchio Continente, ma che in Italia ha costituito, sino all’età contemporanea, uno degli elementi più gravemente condizionanti l’abitabilità di estese regioni, la salute umana, l’attività produttiva, le stesse dinamiche demografiche.
Ebbene, questo insieme di caratteri originali non sono riusciti a imprimere nella cultura nazionale alcun tratto di peculiarità, né di distinzione. In essa non si sono riflessi, non hanno trovato accoglienza e rielaborazione i dati di una condizione materiale e ambientale che così a lungo hanno distinto il nostro Paese da altri ambiti continentali. Al contrario, la rimozione dei dati profondi della vita materiale e ambientale della Penisola ha costituito il lato distintivo della cultura nazionale in età contemporanea. Naturalmente una affermazione così impegnativa si può sostenere in questa sede solo per accenni ed indizi. Ma si tratta di accenni ed indizi di grande significato. Si pensi alla nessuna fortuna culturale, per tutto il corso dell’età contemporanea, di un autore come Carlo Cattaneo, portatore di una lettura della realtà e della storia italiana così profondamente legata ai dati della vita materiale, al lavoro, ai caratteri del territorio, alle economie locali, alle risorse naturali. Soprattuto nel corso del XX secolo le culture egemoni sono state quelle filosofico-letterarie e le ideologie politiche. Culture ovviamente importanti, che ci hanno collegato alla restante storia d’Europa e del mondo, ma che hanno come cancellato dallo scenario nazionale le culture tecniche, i saperi alti e anche popolari che stanno alla base della nostra vita collettiva. Gli effettivi costruttori di storia, coloro che hanno elaborato saperi e competenze per modificare la realtà materiale sono stati ricacciati nel fondo dello scenario della cultura italiana: a quasi esclusivo vantaggio dei detentori del potere o delle culture dotate di un linguaggio potentemente comunicativo.
Assai significativamente oggi il lettore italiano, nei dizionari e nelle enciclopedie, trova con facilità notizie e informazioni sulla vita e sui libri di Adolfo Omodeo, apprezzato storico del nostro Risorgimento. Vanamente cercherà non solo notizie, ma persino il nome di Angelo Omodeo, ingegnere lombardo, che non ha lasciato molti scritti, ma è autore di opere imponenti di trasformazione del territorio italiano e di diversi paesi del mondo. Angelo Omodeo è infatti il realizzatore dei tre grandi laghi artificiali della Sila calabrese – un’opera che ha portato la luce elettrica nella casa di milioni di persone del Sud d’Italia – il costruttore del lago Tirso in Sardegna ( il più esteso nell’Europa del suo tempo), un acuto teorico delle bonifiche italiane negli anni ’20 e ’30, l’ideatore di numerose opere di grandi dimensioni in Scozia, in Francia, in Spagna, in Egitto, in URSS, nel Messico.
Chi scrive ha dovuto constatare la quasi nulla popolarità, in Italia, della storia ambientale di Venezia. Quella che è oggi una delle più belle città del mondo è giunta fino a noi per un miracolo di sopravvivenza realizzato dallo sforzo secolare dei suoi governanti e dei suoi cittadini: grazie al controllo, da essi genialmente messo in opera, delle acque lagunari e delle dinamiche territoriali contermini. Eppure una tale vicenda non è mai uscita da una cerchia ristretta di competenti, mai si è trasformata in comune sapere nazionale. Soprattutto non si è trasformato in mito popolare, mancanza che ancor più profondamente denuncia il radicale disancoramento della cultura nazionale dalla vicenda del suo territorio.
D’altro canto, forse la prova più clamorosa del distacco della cultura italiana dai dati originali del proprio habitat è impressa nel carattere marginale e nei limiti conoscitivi che hanno cosi a lungo condizionato la scienza geografica nel nostro Paese. “Regione depressa” ebbe a definirla nel 1962 uno dei nostri maggiori geografi. Una disciplina che prima di ogni altro sapere avrebbe dovuto connotarsi - in Italia, più originalmente che in ogni altro Paese del mondo - come una geografia storica. E che invece a lungo ha incarnato, prevalentemente, un sapere meramente descrittivo. Non è un caso se in Italia non si è mai fatto quel “matrimonio” - come ebbe a notare anni fa Carlo Ginzburg – fra storia e geografia, che ha fatto l’originalità e la grandezza della storiografia francese nel XX secolo. E a testimoniare della distanza fra queste due culture nazionali concorrono anche piccoli segni che talora passano inosservati. Ho sempre considerato, ad esempio, un sintomo di grande significato il fatto che l’opera maggiore di Braudel - nell’originale francese La Mediterranée e le Monde mediterranéen à l’époque de Philippe II (1949)- sia stata tradotta in Italia, da Einaudi, col titolo, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Di certo avrà fatto orrore agli storici italiani che hanno presieduto all’edizione intitolare un libro di storia a un soggetto geografico, il mare, e fosse pure il Mediterraneo!
Si diceva, dunque, di nozze mancate. E occorre essere onesti: mancate, non solo per la “volontà recalcitrante” della geografia, ma anche per responsabilità della storia. Le discipline scientifiche di una Nazione non sono che rami di uno stesso albero. E l’albero della cultura italiana, per tutta l’età contemporanea – forse per il carattere prevalentemente castale e separato dei suoi gruppi intellettuali - è stato singolarmente distante dalla terra su cui è venuto crescendo.
3. Una felice stagione.
Le sparse osservazioni fin qui allineate dovrebbero credo fornire almeno qualche indizio su quanto in Italia, contrariamente a quel che chiedevano i suoi caratteri originali e tutto il suo passato, sia mancata una cultura del territorio e della sua storia. Certo, com’è noto, almeno a partire dagli anni ’70, finalmente anche da noi inizia una felice ma breve stagione storiografica. Per quasi un ventennio, in vario modo, la vicenda di lungo o di medio periodo del territorio nazionale entra nel cerchio magico dell’attenzione degli storici e degli urbanisti. Non è certo questa la sede per una rassegna storiografica, che pure sarebbe utile a sostegno delle mie argomentazioni. E tuttavia, pur nella consapevole parzialità e limitatezza dei rimandi bibliografici, credo che alcuni elementi di riflessione possano essere utilmente proposti.
Non credo che costituisca una forzatura affermare che la storia del territorio viene avviata in Italia, molto indirettamente, come storia del paesaggio agrario. Il testo di Emilio Sereni, del 1961, frutto – com’è noto – della feconda frequentazione dell’opera di Marc Bloch, avvia una tradizione di studi a lungo rimasta senza seguito. Esso, tuttavia, ha di mira non certo la ricostruzione delle strutture del territorio strettamente inteso, quanto, più precisamente, per dirlo con le stesse parole di Sereni, la storia di “quella forma che l’uomo nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”.
Il territorio che Sereni ci consegna nel suo vasto affresco plurisecolare è in realtà la storia del suolo agricolo molecolarmente plasmato e modellato dal lavoro contadino, dalle tecniche di coltivazione, dalle forme delle piantagioni, dai modelli di impresa, dalle dimensioni della proprietà, dai rapporti di produzione fra le varie figure gravanti sulla terra. L’ambito di trasformazioni di cui ci ha dato conto, prima di altri, questo grande studioso è in realtà solo un geniale capitolo della storia dell’agricoltura italiana. E’ una vicenda che germina dalla cultura storiografica annalistica di metà ‘900 e dal contesto originale dell’Italia della seconda metà di quel secolo. Com’è noto, in quegli anni l’agricoltura e il mondo contadino sono al centro degli interessi della vita nazionale. Le grandi lotte contadine nelle aree latifondistiche del Sud, le vertenze nazionali dei mezzadri, i conflitti bracciantili nelle aziende capitalistiche padane, la riforma agraria del 1950, sono eventi che fanno epoca nella storia del Paese e che lasceranno una impronta politica e culturale profonda, destinata a ispirare le ricerche di più generazioni di studiosi e a fare della storia agraria italiana un capitolo senza dubbio importante della storiografia europea contemporanea.
Naturalmente lo studio dell’organizzazione degli spazi, e dei moduli degli insediamenti al loro interno hanno ricevuto un’attenzione speciale, che forse mai avevano conosciuto in passato. Tuttavia, credo di poter affermare, anche la ricerca che meno indirettamente si è occupata della vicenda del territorio e delle sue trasformazioni, vale a dire la storia delle bonifiche, non è che un capitolo della storia agraria, curvato sul versante della condizione del suolo e delle sue dinamiche. Benché in alcuni casi l’ispirazione di fondo sia venuta da altre domande disciplinari. E così può largamente dirsi, con qualche eccezione, per la storia delle acque e dell’irrigazione.
Certo, l’origine per così dire “agrarista” di tali studi non toglie ad essi valore conoscitivo, né sminuisce l’originalità del loro contributo. Allo stesso modo la storia delle città, che prende un significativo avvio in Italia negli anni ’70, può salutarsi finalmente come un particolare e senza dubbio fra i più originali filoni di storia del territorio italiano. Un episodio culturale in cui, almeno per una volta, alcune “scienze del territorio”, in questo caso il sapere degli urbanisti, ha ispirato e contagiato gli storici, o ha fatto, esso stesso, direttamente storia. Anche se non si può dimenticare che, tranne qualche singola opera, la ricostruzione ha prevalentemente mirato alla storia dei manufatti cittadini e della loro manipolazione nel tempo, quando non è diventata storia economica e sociale dei ceti urbani.
Non andrebbe peraltro dimenticato, in questo fuggevole quadro, il contributo che gli storici, spesso partendo da intenzionalità di storia agraria, o di storia sociale latu senso, hanno dato all’esplorazione del territorio attraverso la ricostruzione del sistema viario e delle comunicazioni.
Bisogna in effetti riconoscere, che la nostra conoscenza della Penisola è uscita notevolmente arricchita da quella straordinaria fioritura storiografica, che occupa la seconda metà del XX secolo. Una fioritura della ricerca europea, che ha visto in posizione egemone la storia sociale, e in cui l’Italia ha avuto un ruolo non marginale.
Tuttavia non si può fare a meno di rammentare il carattere prevalentemente indiretto, il modo talora, per così dire, casuale, con cui gli studiosi sono pervenuti a “scoprire” il territorio e la sua lunga stratificazione storica. Non c’è dubbio mi pare, che nell’esplosione di specializzazioni storiografiche verificatesi tra gli anni ’70 e ’90 del Novecento - storia del paesaggio, dell’agricoltura, della famiglia, della città, dell’alimentazione, della salute, ecc – significativamente non si schiude un ambito specifico per la storia del territorio. Non è mai nato un settore particolare di ricerche che studiasse, nella loro complessità e nelle loro connessioni, l’organizzazione degli spazi, la natura dei suoli, il carattere degli habitat, le trasformazioni antropiche, gli insediamenti, le connessioni infrastrutturali, economiche, sociali e le loro invisibili gerarchie, ecc. Un nuovo racconto pluridisciplinare che avrebbe potuto coinvolgere ingegneri e storici, geografi e urbanisti, demografi e architetti, agronomi e archeologi.
Ma la breve stagione è ormai tramontata. Benché occorrerebbe precisare che in quella fase il territorio è stato popolare per storici, urbanisti, geografi: cioè, pur sempre, per una ristretta cerchia di specialisti. Quanto di quegli studi sia diventato cultura corrente degli italiani costituisce una realtà che ci sfugge e che è assai difficile da stabilire. Quel che si può impressionisticamente constatare oggi è che quella temperie culturale si è come dissolta. Per lo meno a livello di grandi media, soprattutto la TV, la storia – anzi la “grande storia” come pomposamente viene talora reclamizzata – pare definitivamente ritornata ai corrivi fasti della vulgata événementielle. Fascismo, nazismo, leader e lotte politiche del dopoguerra e tutto quanto appare raccontabile in immagini filmiche è il solo passato storico in cui possono rispecchiarsi gli italiani. Sembra l’unico sapere del nostro passato oggi compatibile con la “società dello spettacolo”.
D’altro canto, tornando al versante disciplinare, è anche giusto sottolineare che oggi non appare più proponibile il “vecchio racconto” di un tempo. Una storia del territorio oggi è moneta fuori corso. Se è vero, infatti, che una delle categorie chiavi con cui si è fatta una certa storia del territorio in Italia – quella di paesaggio – oggi è diventata di assai difficile uso, non diversamente si è ormai costretti a dire del termine territorio. E in questo caso non tanto per l’uso polisemico e le volgarizzazioni che esso ha subito, negli ultimi anni, ad opera del linguaggio pubblico corrente. Quanto soprattutto perché oggi tale nozione, alla luce delle scienze dell’ambiente, appare in tutta la sua nuda neutralità e unilateralità semantica. E’ una categoria del vecchio vocabolario geografico. Come si può ormai fare storia del territorio dimenticando che esso, in ogni sua manifestazione, é intessuto di vita biologica, ricco o povero di risorse naturali, condizionato dal clima, contrassegnato da biodiversità, soggetto a proprie leggi di trasformazione su cui gli uomini pongono il loro calco? Il territorio, nel frattempo, è diventato ambiente ed esso richiede oggi, per essere indagato e storicamente ricostruito, una nuova e più complessa strumentazione culturale e concettuale.
Esistono ancora destra e sinistra? Come si relazionano questi due concetti cardine della storia e della politica rispetto alle radicali modificazioni a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni? Sono questi gli interrogativi su cui si sofferma Marco Revelli nel suo ultimo saggio, Sinistra e destra. L’identità smarrita, uscito in libreria in queste settimane per i tipi di Laterza.
Allievo di Norberto Bobbio, ordinario di Scienza della Politica all’università del Piemonte Orientale, Revelli è uno degli studiosi italiani che con maggiore attenzione si è dedicato allo studio delle culture politiche e delle loro trasformazioni.
In quest’ultimo saggio si sofferma in particolare sull’utilizzo delle due categorie di destra e sinistra come strumenti concettuali finalizzati alla creazione di nuovi spazi pubblici all’interno dei quali provare a dare risposte ai problemi della modernità.
Prima di ragionare su cosa siano, oggi, destra e sinistra, l’autore ne analizza i caratteri storici sviscerando le argomentazioni dei sostenitori delle ragioni della loro dissoluzione (in particolare quelle di chi vede nella crisi delle ideologie e nell’affermarsi di una modernizzazione neutra e onnicomprensiva la ragione della loro disgregazione).
Come ricorda lo studioso, la sinistra è stata storicamente a favore del progresso e della lotta per l’affermazione dell’uguaglianza (come scrisse lucidamente anche Norberto Bobbio nel suo fortunatissimo Destra e sinistra pubblicato nel 1994 da Donzelli), mentre la destra ha sempre privilegiato il piano della conservazione e della difesa dei valori della tradizione. E su questi paradigmi essenziali si sono via via declinate le varie esperienze che si sono affermate tra la fine del ‘700 e l’800: qui Revelli riprende la classica definizione di Rémond che descrive le tre destre (quella tradizionalista, quella orleanista e quella bonapartista), e quella di Georges Lefranc che delinea invece le tre sinistre (liberale, democratica, egualitaria). Saltando le rappresentazioni discorsive dei concetti di destra e sinistra sviluppatesi nel secondo Ottocento e nel Novecento, l’autore si sofferma direttamente sulla crisi apertasi nell’ultimo decennio del Novecento. È infatti da allora che si è manifestata con più forza la crisi dello Stato-Nazione (con le entità statali che tendono a diventare mera realtà amministrativa, limitandosi, in questo modo, a fare amministrazione e non politica), e con essa dello spazio dove vive la dialettica destra e sinistra, anche se è necessario non esagerare nel certificare la dissoluzione degli Stati, visto il ruolo di grandi potenze politico-economiche esercitato da nazioni come Cina e India, per non parlare del fatto che tutte le grandi multinazionali continuano ad avere il centro del loro potere all’interno dei confini delle nazioni facenti parte del G8.
In quest’ottica Revelli insiste molto sul cambiamento della nozione di spazio come elemento caratterizzante dell’età della globalizzazione. Uno spazio ambivalente, liquido e dai confini incerti che non facilita il ragionamento attraverso le categorie di destra e sinistra, le quali, per la loro natura, hanno invece bisogno di “stabilità spaziale”.
Del resto, oltre al mutamento della spazialità, stiamo assistendo alla crisi prepotente dell’idea di progresso. Riprendendo le riflessioni di Christopher Lasch, Zygmunt Bauman, Anthony Giddens e Ulrick Beck sulla società del rischio, l’autore analizza infatti il pensiero di chi ritiene che in questo mondo ipertecnologico sia aumentata in maniera esponenziale l’esposizione di ogni cittadino ad un rischio generato da effetti che non si possono prevedere vista l’assenza di punti di riferimento stabili. Tale situazione comporta la necessità di un ripiegamento verso “una modernizzazione riflessiva”, ovvero una rivisitazione del proprio sistema di valori che sia in grado di rispondere concretamente al presente. È in questa “società del rischio”, liquida e senza direzione che, secondo questi autori, le tradizionali categorie dello spazio sociale di destra e sinistra entrano in crisi, determinando una inevitabile rivisitazione del proprio sistema valoriale. Tutto questo mentre cresce a dismisura il potere dei media capaci, da soli, di creare e disfare rapidamente nuovi spazi sociali e di dettare i temi dell’agenda della politica generando sempre più una “privatizzazione dello spazio politico” che determina un ulteriore isterilimento della vita pubblica, con il cittadino spettatore che non è più protagonista delle dinamiche sociali ma le subisce vedendo solo ciò che la televisione gli trasmette (su questi temi si è soffermato recentemente, anche se con uno sguardo più interno agli Stati Uniti, il premio Nobel Al Gore nel suo stimolante saggio L’Assalto alla Ragione, appena edito da Feltrinelli). Ma allora, di fronte a questo smarrimento, c’è ancora posto per la sinistra e per la destra? O dobbiamo rassegnarci ad una politica simile ad un grande blob onnicomprensivo dove le differenze si stemperano sull’altare di una modernizzazione neutra? Certo, la sinistra rischia seriamente di smarrirsi e di perdere le sue ragioni, specie se, come in Italia, non riuscirà ad essere altro rispetto ad un riformismo senza progetto (quello del Pd) o un radicalismo senza politica (quello portato avanti da molti soggetti a sinistra del partito guidato da Veltroni). Tuttavia, anche se in crisi, appare assai improbabile che il confronto politico non si declini, anche in futuro, secondo il binomio destra/sinistra, non foss’altro perché le grandi disuguaglianze su scala mondiale (a partire dalla grande disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo) sono assai lontane dall’essere superate. Per non parlare del fatto che rimane centrale la questione del lavoro e del suo rapporto con il tema della conoscenza, così come quella di una democrazia che in questi anni è divenuta sempre più oligarchica e verticale.
Rimane però il fatto, dimostrato anche dal volume di Revelli, che lo smarrimento della politica contemporanea è un fenomeno serio e che pertanto è necessario non sottovalutare la crisi in atto se si vogliono migliorare identità capaci di confrontarsi con le mille sfaccettature della modernità senza, per questo, subirne passivamente gli effetti.
manifesto sardo è il periodico online dell'associazione Luigi Pintor. Vedi anche la recensione di M.L. Salvadori e un'anticipazione del libro qui
Il testo inserito di seguito (segnalato e scandito da Paolo Berdini per i lettori di eddyburg.it) è tratto dal volume Mario Rigoni Stern, nella collana Ritratti della Fandango libri. Il ritratto di Rigoni è curato da Carlo Mazzacurati e Marco Paolini. Il primo è il regista del dvd allegato al libro; il secondo l’intervistatore. Il capitolo è intitolato “Uno stato sociale”. Riprende un tema – quello del rapporto tra proprietà, comunità e territorio - affrontato spesso nel sito.
Paolini. Senti, ma lavorare al catasto in Altipiano vuol dire anche non avere a che fare con un tessuto di proprietà come in altre parti del paese, perché qui c’è qualcosa che forse non c’è in altre parti d’Europa.
Rigoni Stern. Si, infatti, io penso che per il novanta per cento, o quasi, la proprietà sia della comunità.
P. Cosa vuol dire, chi è la comunità?
RS. Siamo noi, i residenti, noi originari. In questo Altipiano, quando i nostri antenati hanno deciso di vivere qui non avevano padroni. Soltanto sembra che Cunizza da Romano, quello che Dante mette in Purgatorio, abbia lasciato agli abitanti il feudo, che non aveva nessun valore, perché quassù non veniva nessuno. Allora queste proprietà sono nostre, le proprietà private, che attualmente sono limitate al territorio attorno alle contrade, erano anche queste proprietà della comunità, soltanto che venivano concesse e dissodate dalle famiglie che vivevano lì.
P. Che cosa vuol dire proprietà della comunità, vuol dire che non sono di nessuno?
RS. No, sono nostre. Ci sono quelli che dicono che sono demaniali, ma il demanio è un ente, è lo stato, è qualcosa di astratto. Noi siamo concreti, siamo persone che hanno la proprietà di queste montagne.
P. Quindi cosa potete farne o cosa non potete farne?
RS. Possiamo solo amministrarle come a noi pare giusto, usare le entrate per le cose che sono necessarie.
P. Ma sembra una cosa utopica.
RS. No, con l’entrata del bosco nel dopoguerra abbiamo costruito il nostro ospedale, senza interventi dello stato, senza interventi o aiuti di provincia o regione: tagliando alberi, e purtroppo ne abbiamo tagliati tanti, perché ci sembrava in quel momento che l’ospedale fosse importante per noi.
P. Dopo la Prima guerra?
RS. La Seconda guerra mondiale.
P. E prima della Seconda guerra mondiale, prima dei danni anche dell’altra guerra, che cosa facevate con i soldi?
RS. I soldi del legname servivano per amministrare i cittadini, servivano per pagare i maestri, per pagare i medici.
P. Cioè pagavate i maestri e i medici con i soldi del legname?
RS. Con i soldi della proprietà collettiva, serviva per pagare il segretario comunale, serviva per costruire le case necessarie alla gente: una casa di riposo, un asilo infantile, provvedere per la manutenzione delle strade e c’era anche un aiuto per i meno abbienti.
P. Uno stato sociale?
RS. Uno stato sociale. Era usanza, ad esempio, a chi era povero o alle donne rimaste vedove, prima dell’invero dare farina e formaggio sufficienti per arrivare in primavera
P. In qualche modo c’è un rapporto tra questa organizzazione sociale e l’uso che si fa dell’ambiente?
RS. Ci mancherebbe, è essenziale, per il fatto che se una cosa è amministrata bene dura e ha un reddito. Una cosa amministrata male si spreca in fretta.
P. Ma chi decide per esempio?
RS. Decide la comunità.
P. E chi sono?
RS. Quelli che sono eletti. Un tempo erano eletti dai capofamiglia, venivano eletti ogni quattro anni, e le cariche pubbliche non potevano essere rielettive, chi era stato eletto per un mandato doveva ritirarsi e lasciare spazio agli altri.
P. Ma questa organizzazione dell’Altipiano dei sette comuni non andava a intralciare l’organizzazione dello Stato, di cui faceva parte l’Altipiano?
RS. Venezia ci aveva lasciato tutte queste libertà, fino alla sua caduta. Infatti i nostri prodotti, che erano lana, ch’erano legname, ch’erano marmi, ch’erano carne che veniva dalle greggi e dagli allevamenti, venivano esportati nel territorio della repubblica di Venezia ed anche oltre senza nessun gravame.
P. E dopo Venezia è continuato comunque?
RS. Dopo Venezia sono arrivati gli austriaci. Gli austriaci in parte hanno conservato, ma in parte no, perché hanno iniziato con i catasti, con l’esigere il prediale.
P. Che cos’è il prediale?
RS. E’ la tassa che si paga sul terreno, perciò anche le terre di proprietà della comunità pagavano un prediale verso lo stato, che esigeva una tassa da tutti i proprietari.
P. Eleggevate anche il parroco?
RS. Sì, ed era un’antica consuetudine che il parroco veniva scelto dalla gente, dai capofamiglia che lo votavano. Ed è successo anche che dei parroci proposti non sono stati accolti.
P. Ancora adesso?
RS. C’è ancora il diritto di votazione del parroco.
P. Oltre al parroco, una parte di questo sistema di organizzazione sociale è ancora vivo con tutti i cambiamenti che ci sono stati?
RS. Adesso ci sono le previdenze sociali, le pensioni, i contributi, gli operai eccetera. E’ molto cambiato, naturalmente.
P. Ha una funzione questa organizzazione?
RS. Ha la funzione della conservazione di questo patrimonio, sono convinto che se questo patrimonio della comunità fosse diviso tra i comproprietari, nel giro di brevi anni verrebbe intaccato in materia notevole, perché ci sarebbe chi lo vuole sfruttare troppo e chi lo abbandonerebbe.
P. Ma qui nessuno vuol cambiare?
RS. No, abbiamo il diritto di uso civico e questo diritto consente ad ogni cittadino di dire la propria cosa e di opporsi se una cosa funziona male.
P. Siete proprietari ma in un certo senso diventate custodi.
RS. E’ forse meglio essere custodi che proprietari.
Vedi anche: Magnaghi, Il territorio come bene comune
La recensione di Giancarlo Consonni mi ha fatto capire che è proprio bello il libro di Elisabetta Forni, La città di Batman . Bambini, conflitti, sicurezza urbana (Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 220, € 19,00). Intanto, à bella e utile la recensione, che ci riporta ai temi intrecciati bambino (e quindi uomo) e città, spazio pubblico e democrazia, individuaismo e sopaffazione. Temi di oggi. La recensione è stata pubblicata in "Lo straniero", a. VI, nn. 26/27, agosto-settembre 2002, pp. 166-169
1. La città di Batman, appena uscito da Bollati Boringhieri, è un libro che meriterebbe di essere discusso in ogni città e in ogni quartiere. I temi che solleva e le soluzioni che indica non possono essere ignorate da amministratori, urbanisti, architetti, sociologi, psicologi e operatori del sociale. E i dibattiti e i confronti sarebbero tanto più fecondi quanto più nutriti dalla presenza attiva dei diretti interessati: bambini, genitori, cittadini. Insomma: si tratterebbe di continuare nel concreto di ciascun contesto la ricerca che Elisabetta Forni, docente di sociologia al Politecnico di Torino, ha compiuto su due aree - l’una centrale e l’altra periferica - del capoluogo piemontese.
Colpisce l’equilibrio con cui il volume è costruito: il coinvolgimento di un’ampia letteratura, l’attenzione a quanto emerge nei media, l’interpretazione sapientemente verificata e ricalibrata sull’osservazione diretta e, appunto, la capacità di ascolto dei protagonisti, i bambini in primo luogo.
Ma diciamolo subito, a scanso di equivoci: il testo non è confinabile nella saggistica sull’infanzia. Il suo orizzonte si definisce fra due polarità: i bambini e la città e indaga sulla complessa trama che li lega. Affronta la condizione dei bambini perché è l’indicatore più sensibile per misurare l’urbanità di una città, parla di città perché è il modo migliore per parlare dei bambini. Come non condividere le convinzioni da cui la Forni prende le mosse: che «una città amica dei bambini è una città nella quale starebbero meglio tutti», che «mettere gli interessi dei bambini al centro delle preoccupazioni sociali significa umanizzare l’intera società»? Siamo però disponibili a scavare nelle ragioni che, con Michel Gregoire, portano l’autrice a sostenere che «se la città non fa spazio ( place) al bambino, distrugge l’uomo di domani»? Ma, soprattutto, siamo disposti a trarne le conseguenze? Questo è un libro che non si limita all’analisi: formula proposte orientate da riscontri sul campo.
Sulla condizione del bambino oggi, l’autrice va subito a un nodo cruciale: nella metropoli dell’Occidente opulento siamo di fronte a un bambino blindato: «blindato in casa, dentro l’automobile, a scuola, in palestra o nel giardinetto recintato, guardato a vista dall’adulto, non solo per proteggerlo ma anche perché non disturbi l’“ordine morale” corrente».
Sballottato da un luogo all’altro secondo un «modello segregazionista», il bambino metropolitano è alla fine uno sconosciuto, al punto che può essere visto come «una minaccia alla sicurezza». Anche perché capita che il bambino, sottratto alla scena urbana, vi ricompaia in gruppo con vistose intemperanze adolescenziali. Le quali non vengono però colte dalla società per quello che sono: segnali a cui adolescenti e giovani ricorrono per dire «anch’io esisto». Né viene indagata la causa prima: il mancato addestramento del bambino alla relazione con l’altro e con l’ignoto, la sua impreparazione a gestire il conflitto e a comporlo in modo non violento; in ultima analisi la sua difficoltà a conoscere e a praticare i diritti e i doveri che fanno cittadinanza.
2. Un tempo questo addestramento aveva una sua palestra naturale nello spazio pubblico ed è su questo che il libro pone giustamente l’attenzione maggiore.
Da ambiti nei quali la comunità sviluppava i riti informali della socialità e del controllo sociale, la strada, la piazza e il parco negli ultimi decenni, ci avverte l’autrice, hanno visto sempre più messa in discussione la loro natura. Pubblici questi luoghi lo sono per lo più nominalmente, essendo in verità divenuti terra di conquista dei più forti. Dove l’auto ha la meglio sul pedone, il cane sul bambino, l’uso commerciale su altri usi e altri modi di stare nello spazio. La rete relazionale di cui sono state intessute le strade e le piazze è lacerata dalla tendenza a imporre nuove zonizzazioni, spesso sancite da recinti. Ma a indebolire oltremodo questa rete è la «sterilizzazione» dell’esperienza, colonizzata (e ammorbata) dal flusso veicolare, avvilita dal bombardamento pubblicitario e appiattita sulla dimensione monotematica del consumo. Si può dire che ormai lo stesso soggiornare negli spazi pubblici che esuli da motivazioni strumentali e che non aderisca al fordismo dei consumi sia fonte di sospetto.
Nel contempo, rimarca la Forni, lo spazio pubblico è sempre più descritto dai media come il luogo per antonomasia delle violenze dirette: il terreno di caccia degli individui e dei gruppi devianti. Poco importa che, soprattutto nei confronti dei bambini, la parte maggiore delle malversazioni e dei crimini venga espletata nella sfera del privato: è lo spazio pubblico ad essere indicato - in primo luogo a loro - come il territorio delle insidie e dei pericoli. Certo non mancano riscontri reali, ma una campagna martellante punta ad amplificarli a dismisura con l’obiettivo di accrescere il «panico morale», condizione per invocare e imporre la tolleranza zero.
A cambiare la natura degli spazi aperti pubblici concorre ora l’estendersi dell’installazione di telecamere: un pervasivo panopticon che ha l’effetto di sancire l’esautoramento dello sguardo collettivo e la deresponsabilizzazione di ciascuno dalla diretta, pacifica funzione di vigilanza a cui era tenuto in passato dalle relazioni comunitarie. Una simile risposta a giuste esigenze di sicurezza è tutt’altro che neutrale rispetto ai caratteri e ai modi d’uso degli spazi urbani: concorre anzi a una progressiva riduzione della complessità delle presenze per sfociare alla fine in forme più o meno palesi di militarizzazione dello spazio.
Ecco allora l’autrice rilanciare l’interrogazione sul binomio bambini/città. Un fatto caratteristico delle metropoli opulente è la progressiva limitazione dell’accesso allo spazio aperto pubblico da parte dei bambini (mentre per le metropoli del sottosviluppo quello spazio è al contrario il ricettacolo dell’abbandono). La scena urbana occidentale si è fortemente impoverita della loro presenza e questo non fa che accrescere la crisi dello spazio aperto pubblico in quanto incubatore primario di democrazia. È questo uno dei processi fondamentali attraverso cui, scrive Elisabetta Forni, la città «diventa l’altro da sé: portatore o creatore di mali reali o immaginari. Non è più un luogo da esplorare e nel quale apprendere attraverso l’esperienza, ma un mondo da cui difendersi se è il caso». Il libro ricostruisce così la spirale attraverso cui la città vede ridurre gli spazi di socialità e democraticità parallelamente alla crescita del tasso di «violenza strutturale» (i meccanismi vincenti) e di «violenza culturale» (la narrazione dei media).
Le interviste raccolte dall’autrice a Torino dimostrano come, per ragioni diverse, tanto in centro quanto in periferia ad essere comunque lacerato e residuale sia - per usare l’espressione di Franca Platania neuropsichiatra infantile - il «tessuto di fiducia» che caratterizzava e strutturava le strade e le piazze. Questa caduta delle relazioni comunitarie incide pesantemente sulle potenzialità stesse della città e dei suoi spazi aperti: la capacità «di mettere in relazione positiva identità personali, sociali ed etniche».
La sparizione dei bambini dalla strada e dalle piazze appare allora chiaro in tutta la sua portata: è un indice inequivocabile della diminuita abitabilità dei luoghi e insieme della caduta di urbanità.
Se si tiene conto che - a dispetto dell’inquinamento - i bambini intervistati esprimono ancora una predilezione a giocare negli spazi aperti, si può cogliere come sia riduttiva la liquidazione operata da diversi urbanisti e architetti circa il ruolo socializzante di tali spazi, ormai soppiantati, a loro dire, dai mall commerciali.
A parte i dubbi, avanzati dalla stessa Forni, circa le forme di socialità possibili nelle città-mercato, è comunque evidente lo squarcio che si è aperto nel paesaggio contemporaneo, privato ormai del «collante» degli spazi aperti pubblici. Lo squarcio non è che lo specchio fedele della frantumazione che ha investito il corpo sociale nell’era dell’individualismo esasperato.
Tutto questo ha appunto una ricaduta sulla democrazia. Mentre la scena televisiva si offre come teatro dell’arroganza e della dismisura, il venir meno della «progressiva appropriazione fisica dello spazio» quale «parte integrante e costitutiva della crescita infantile e della socializzazione» è fra i fattori di crisi della società e di impoverimento della politica. E i due fenomeni sono interdipendenti, se non addirittura legati da un andamento a forbice.
3. Quanto alle vie d’uscita, l’autrice prende innanzitutto posizione nel dibattito disciplinare. Si schiera a favore di «ogni azione che sovverta la logica individualistica e privatistica di benessere e di qualità della vita» e polemizza contro le posizioni che troppo frettolosamente liquidano la questione della ricostruzione di una rete locale di rapporti sociali come «ciarpame comunitario» (Saskia Sassen).
Il libro dà quindi spazio alle osservazioni dei diretti interessati e degli operatori sul campo. Di particolare interesse è quanto emerge dalle testimonianze raccolte nel quartiere di Pietra Alta. Fra i tratti distintivi di questa zona periferica viene in primo piano non tanto la mancanza di spazi pubblici e collettivi quanto piuttosto l’«invivibilità» e l’«inospitalità» di quelli esistenti. Sul fronte dei rapporti sociali è significativa la segnalazione ribadita di una «diffidenza e ostilità reciproca», oltre alla condivisa sensazione di sentirsi penalizzati dalla presenza nelle vicinanze di un campo nomadi. Tutti fatti che nell’insieme consolidano fra gli abitanti del quartiere la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni pubbliche.
Ma, significativamente, su tutto spicca una descrizione della periferia come connotata da una «desolata mancanza di animazione».
Infine le proposte. In primo luogo il ruolo assegnato alla ricostruzione di una memoria collettiva transgenerazionale. Un riferimento è il progetto «Grande Museo» attuato dalla città di Stoccolma e che ha visto la mobilitazione di molti soggetti sociali nel dare corpo a una memoria attiva. Nel corso stesso della sua ricerca, Elisabetta Forni avvia, ovviamente con ben altri mezzi ed estensione, una ricostruzione che si muove in quel solco e che arriva in taluni casi a tracciare una “biografia” dei luoghi urbani: caratteri, vissuto, rappresentazione.
Il volume allarga quindi l’orizzonte a esperienze di riqualificazione dello spazio pubblico in varie direzioni, rivisitate non senza proporne l’armonizzazione: accessibilità, diversificazione, sicurezza dei percorsi, architettura dei luoghi, sensibilizzazione della popolazione adulta e, infine, promozione di una qualificata presenza di “tutori” e animatori negli spazi pubblici a difesa della presenza dei bambini.
Insomma La città di Batman ci dice che guardare ai bambini e alla loro possibilità di essere creativamente presenti nello spazio pubblico è un modo per capire la città: il suo essere una risorsa insostituibile nella costruzione e nella preservazione della convivenza civile. E che non è più rinviabile una mobilitazione di intelligenze e di energie inventive per la sua rifondazione.
La società low cost sarà pure il regno delle opportunità, ma le diseguaglianze hanno raggiunto un punto di non ritorno per la democrazia liberale. È il nuovo mantra degli agit prop del «meno stato più mercato» che, fulminati sulla via di Damasco, invocano ora la mano visibile dell'intervento pubblico per rendere meno esplosive diseguaglianza tra ricchi e poveri. Ed è quanto auspicano anche Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi in un pamphlet da poco pubblicato da Einaudi che ha l'invitante titolo Piena disoccupazione (pp. 165, euro 14,50), che inizia là dove era terminato il precedente La fine del ceto medio e la nascita della low cost. I due autori - Gaggi è inviato del Corriere della sera, Narduzzi un docente universitario che oltre a salire in cattedra fa anche l'imprenditore - non sono ovviamente dei convertiti al keynesismo. Semmai sono interessati a quel «liberismo compassionevole» che ha molti seguaci nel neonato partito democratico di Walter Veltroni, ma anche autorevoli rappresentanti in quello statunitense.
Tutti siamo potenzialmente dei disoccupati, sostengono a ragione gli autori, ma sopratutto siamo dei precari che passano da un lavoro all'altro spesso con salari poco al di sopra della soglia della povertà. Come non concordare con queste premesse. Il problema da risolvere è quel salario che rimane al palo e che negli Stati Uniti ha fatto parlare di working poor e di underclass. Cosa fare?, si domandano i due autori.
La strada da loro indicata è appunto quella del «liberismo compassionevole», espressione che non usano perché connotata politicamente a destra, ma che costituisce la loro bussola. Da qui la proposta di una riqualificazione della scuola di base e dell'università, perché la conoscenza sarà l'arma vincente del futuro. I due autori non si sbilanciano, ma tra elogio dell'eccellenza, critica della casta dei docenti e invito ad applicare criteri imprenditoriali alla gestione delle università si deduce che un sistema misto tra pubblico e privato sia la soluzione migliore. Per quanto riguarda un altro caposaldo del welfare state, cioè il servizio sanitario nazionale, Gaggi e Narduzzi considerano immorale che una parte della popolazione non abbia la possibilità di curarsi. Per questo lo stato deve garantire tale possibilità. Come farlo? Anche qui le proposte sono vaghe, ma c'è da scommettere che una sana competizione tra pubblico e privato sarebbe ben vista. Idem per la pensione. E infine il quesito più spinoso: cosa fare con l'esercito sempre più numeroso di chi percepisce un salario poco al di sopra della soglia di povertà e spesso percepito saltuariamente? Gaggi e Narduzzi guardano con simpatia alla proposta del guru neoliberista Milton Friedman, in particolare modo quando l'economista di Chicago proponeva una sorta di voucher erogato dallo stato per i working poor con il quale acquistare servizi e beni.
Non è nuova la tendenza di molti opinion makers a invitare la sinistra a diventare neoliberista. Lo ha fatto di recente Francesco Giavazzi ne Il liberismoè di sinistra (Saggiatore), ma questo libro registra l'erosione del consenso del neoliberismo, consenso che può recupare solo se si dota di una politica sociale, come suggeriscono le teste d'uovo del neonato partito democratico. Uno degli elementi meno discussi del recente protocollo sul welfare state riguarda, ad esempio, i cosiddetti ammortizzatori sociali che dovrebbero mitigare la condizione di subalternità dei precari «permanenti ed effettivi». I diritti sociali di cittadinanza e l'erogazione di un reddito di esistenza costituiscono dunque un terreno di conflitto che rimane spesso deserto o occupato dai tecnocrati di Bruxelles o o di quelli «indigeni» per promuovere il «liberismo compassionevole». È tempo di occupare quel terreno e sottrarlo ai democratici.