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Massimo L. Salvadori
Marco Revelli, “Destra/Sinistra”
27 Ottobre 2007
Recensioni e segnalazioni
Un’anticipazione (dell’autore, da il manifesto) e una recensione (di Massimo L. Salvatori, da la Repubblica) di un libro appena uscito (Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza

il manifesto, 27 ottobre 2007

I professionisti della rassicurazione

di Marco Revelli

La coppia «Destra/Sinistra» è la valuta corrente essenziale dello scambio politico nelle democrazie occidentali, scrivevano, alla metà degli anni Novanta, John Huber e Ronald Inglehart1, due dei principali scienziati politici contemporanei. Esattamente come il prezzo e la quantità nelle transazioni economiche, la collocazione «a destra» o «a sinistra» compare infatti, con irriducibile costanza, in ogni analisi della pratica politica e delle sue logiche. Ne costituisce, in buona misura, la principale condizione di razionalità: la base di un sia pur precario «ordine del discorso» dotato di una propria sintassi condivisa. E così come nel caso del mercato la crisi di fiducia nella moneta prelude a un qualche, imminente, crollo economico, allo stesso modo la perdita di operatività e di consenso delle tradizionali culture politiche strutturate sull'antitesi «Destra/Sinistra» può essere letta come il sintomo, inquietante, di un'equivalente e incombente crisi sistemica in ambito politico.

Le mappe del disincanto

È questo, in fondo, lo scenario in cui ci stiamo muovendo in questo passaggio di secolo. Negli stessi anni in cui Huber e Inglehart ne affermavano la centralità, il cleavage «Destra/Sinistra» giungeva infatti al fondo di un travolgente ciclo negativo come principio di organizzazione del campo politico, facendo registrare il proprio minimo storico di consenso. Né le cose sono mutate significativamente nel decennio successivo: il Novecento sembrerebbe essersi chiuso con una fuga disordinata dalle appartenenze politiche che ne avevano strutturato, nel bene o nel male, l'esperienza storica.

Se prendiamo in considerazione il paese in cui la distinzione tra destra e sinistra è nata, e in cui la politica ha assunto tradizionalmente carattere paradigmatico - la Francia, dove una rilevazione Tns Sofres per conto della Fondazione Jean Jaurés e del «Nouvel Observateur» copre ormai sistematicamente da un trentennio gli umori dell'elettorato su questo tema -, il fenomeno è particolarmente evidente. Qui, ancora all'inizio degli anni Ottanta, di fronte alla domanda sull'attualità delle nozioni di destra e sinistra, solo il 33 per cento degli intervistati affermava di ritenerle «superate», ma già nel 1984 essi erano saliti al 49 per cento. Alla fine del decennio (nel pieno del lungo ciclo mitterrandiano) la percentuale saliva al 56 per cento, per raggiungere il picco del 60 per cento nel 1992. Livello mantenutosi, con piccole variazioni, in tutto il successivo decennio, fino al 2002. Il che significa che, all'inizio del XXI secolo, solo poco più di un terzo dell'elettorato francese continuava a credere nel valore identificante di quell'antitesi. Il grosso ne aveva preso silenziosamente congedo, e non certo la parte più sprovveduta. Può essere interessante, a questo proposito, considerare il fatto che le percentuali più alte di giudizi negativi sulla validità della coppia «Destra/Sinistra» si registrarono tra la parte di popolazione più colta (il 71 per cento dei laureati e diplomati si pronunciarono in tal senso) e tra i «quadri» e le «professioni intellettuali» (73 per cento): in quello che Paul Ginsborg definirebbe il «ceto medio riflessivo», il nucleo più sensibile, anche se meno organizzato, dell'opinione pubblica.

Ciò non significa tuttavia - come ognuno può quotidianamente constatare - che i termini «destra» e «sinistra» siano scomparsi dal nostro linguaggio pubblico. Che, caduti in discredito, siano anche caduti in disuso. Anzi. Nonostante le infinite dichiarazioni di morte presunta, continuiamo a ritrovarceli davanti, con insospettata vitalità, non appena si incominci a parlare di politica. A farne la «cronaca». Sui giornali, in primo luogo, dove ripudiati un'infinità di volte dagli opinion leaders nelle pagine culturali, o comunque là dove si fanno riflessioni «alte», quegli «screditati residui dell'epoca delle ideologie e delle appartenenze» vengono poi frequentati sfacciatamente sulle prime pagine dai loro colleghi che debbono occuparsi, più prosaicamente, della «cucina politica» di tutti i giorni (...). Ma anche negli atteggiamenti dell'elettore medio, quando si tratti di autorappresentarsi politicamente, la contraddizione si ripropone. Quegli stessi che nel sondaggio sulla validità del cleavage ne decretavano plebiscitariamente il superamento, poi, se richiesti, nello stesso questionario, di collocarsi su una scala orientata da sinistra a destra continuavano a farlo diligentemente. Con una certa difficoltà, certo (sono sempre più esigue le identità «pure», posizionate agli estremi, cresce il «centro» non politicizzato, espressione di una qualche difficoltà a identificare una propria collocazione netta), ma tutto sommato maggioritariamente (solo un terzo si sottrae rifiutando di autocollocarsi o ponendosi in quella che gli autori della ricerca definiscono «la palude»). Sintomo, verrebbe da dire, di un qualche disagio psichico della coscienza politica, di una sconnessione tra pensiero e azione, tra rappresentazione mentale e realtà (...). Comunque un paradosso, da cui prende origine, a sua volta, un'intera serie di paradossi.

Affollamenti autoritari

Un primo paradosso è costituito dall'immagine implacabilmente uniforme, monocroma e omogenea dello spazio pubblico che si otterrebbe se si applicasse rigorosamente agli schieramenti politici attuali nelle principali democrazie occidentali lo schema intrinsecamente dicotomico e polarizzato «Destra/Sinistra», concepito all'opposto per panorami differenziati, policromi e disomogenei, e ad essi destinato. Si guardino, per averne un'impressionistica rappresentazione, le «mappe» più recenti disegnate seguendo lo schema del political compass, il quale struttura cartesianamente lo spazio politico in quattro quadranti delimitati da un asse orizzontale orientato da sinistra a destra a seconda degli atteggiamenti più o meno «interventisti» in campo economico e sociale e da uno verticale orientato dall'alto al basso a seconda degli atteggiamenti più o meno autoritari o libertari nel campo del costume. Si consideri, ad esempio, la cartografia politica dei candidati alle primarie americane di entrambi i partiti così ottenuta, la quale ce li mostra affollati, pressoché tutti, nel quadrante degli «autoritari di destra», dove ritroviamo, in bizzarra convivenza, Hillary Clinton e Newt Gingrich (parecchio più in alto sull'asse dell'autoritarismo e un poco più a destra), John McCain e Barak Obama (leggermente più verso il centro rispetto alla Clinton, ma anche più «autoritario»), John Edwards e Rudy Giuliani. Solo due figure minori - Dennis Kucinick e Mike Gravel - sfuggono a questo destino, rientrando, sia pur di poche lunghezze, nel quadrante dei «libertari di sinistra». Allo stesso modo per la collocazione dei governi europei, nel 2006: tutti concentrati nel quadrante in alto a destra, con la sola eccezione di Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda, pur sempre «a destra» ma, contrariamente agli altri, di pochissimo al di sotto dell'asse che separa gli autoritari dai libertari. E fa, bisogna dirlo, un certo effetto - anche se una sua razionalità ce l'ha - vedere il Regno Unito del new labour Tony Blair quasi con le stesse coordinate spaziali della Grecia dell'ultraconservatore Costas Karamanlis e significativamente più a destra della Francia neogollista di Jacques Chirac.

Diseguaglianze globali

Un secondo paradosso - per molti aspetti un paradosso nel paradosso - consiste nel fatto che questo appannamento (per usare un eufemismo) ed estenuazione della dicotomia «Destra/Sinistra», questa sua perdita di «corso legale» (per riprendere la metafora monetaria), si manifestino proprio nel momento in cui, su scala globale, lo scandalo della diseguaglianza esplode in tutta la sua evidenza. Nella fase storica in cui, cioè, la questione dell'«eguaglianza» - che come ha ben dimostrato Norberto Bobbio costituisce il principale, se non l'unico, tema discriminante tra sinistra e destra - assume (o dovrebbe assumere) tutta la sua indilazionabile crucialità ai fini del confronto, politico per eccellenza, sull'elaborazione di un «ordine condiviso». Ora, il dover constatare che le distanze politiche tra destra e sinistra si vanno riducendo nell'immaginario collettivo, fin quasi a perdere di senso, mentre le distanze sociali tra i primi e gli ultimi sul piano planetario vanno crescendo o comunque rivelandosi in una dimensione fino a ieri ritenuta intollerabile, la dice lunga sul male oscuro che sembra minare oggi, nel profondo, la razionalità politica e, in generale, la sfera stessa del «politico», così come la nostra modernità l'ha concepito.

Certo, i professionisti della rassicurazione vanno da tempo ripetendo che va bene così. Che questo attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è normale. Di più: che è il segno della compiuta normalizzazione, di un auspicato e auspicabile passaggio della politica, finalmente, dallo stato adolescenziale a quello della maturità, dall'infatuazione ideologica a una conquistata dimensione pragmatica, in cui la ricerca comune delle soluzioni possibili prevale sull'enfatizzazione dei problemi insolubili. Dilagano, ma non convincono. Pur con la pervasiva forza mediatica del luogo comune, non riescono a dissipare del tutto la sensazione di un «disordine nuovo» al di sotto di questa inedita commistione degli opposti. L'impressione che questa politica finalmente liberata dai propri consolidati «riferimenti ideologici», più che pragmatica, sia caotica. Come un mercato dopo la «morte della moneta» o un linguaggio privo di grammatica e sintassi. E che lungi dall'essersi arricchita di una maggior concretezza, la sfera politica sia al contrario minata da una accentuata vuotezza (...).

Le fragili alternative

In fondo, le ragioni della «famigerata» contrapposizione tra destra e sinistra - la materialità dei problemi e dei (potenziali) contrasti, la durezza e perentorietà delle alternative -, sono ancora tutte lì, sul tappeto «globale», per certi versi potenziate e ingigantite dall'unificazione dello spazio planetario. Quello che manca, drammaticamente, sembrano essere, invece, le soluzioni e i soggetti politici disposti a farsene carico. Cosicché è difficile sottrarsi alla sensazione che questo indifferenziato convergere di programmi e proposte su un repertorio ristretto di atteggiamenti condivisi (...) non derivi, in realtà, dall'approdo a uno stile di risposta razionale alle sfide del tempo, ma da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un'obiettiva assenza di risposte possibili, all'interno dell'orizzonte politico contemporaneo, alle questioni vitali del nostro vivere in comune. Il che equivarrebbe - bisogna ammetterlo - al fallimento della politica in quello che costituisce, in senso proprio, il suo compito qualificante.

La Repubblica, 27 ottobre 2007

Che cosa vuol dire aver perso l’identità

di Massimo L. Salvadori

Marco Revelli è uno studioso che nel suo impegno intellettuale mette passione. Lo si vede anche nel suo ultimo libro, Sinistra Destra. L’identità smarrita (Laterza, pagg. 272, euro 15), che potrebbe altresì intitolarsi, mi pare, «Avventure e disavventure della Sinistra e della Destra verso l’ignoto». Un saggio vivo e interessante.

Il compito ch’egli si è posto è triplice: identificare Sinistra e Destra nei loro valori fondanti e contenuti concettuali; seguire tappe significative della loro evoluzione; ragionare su che cosa ne resta in un mondo come l’attuale il quale presenta tratti del tutto inediti rispetto al passato. L’interrogativo che alla fine incombe è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito?

L’intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall’altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. Di fronte alla possibilità di una ricostruzione delle identità, Revelli, per prudenza, preferisce tacere, poiché vede l’ostacolo: l’enorme difficoltà dei soggetti, a partire da quello amato, la Sinistra, di ridarsi forma e riprendere sostanza nel mondo globalizzato.

La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l’autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell’eguaglianza, dell’autodirezione, della democrazia, l’approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l’amore per il logos; dall’altra la bandiera della conservazione, l’appello ai beni della tradizione, il valore delle diseguaglianze, dell’eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l’ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l’amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci.

Per addentrarsi nelle vicende di siffatti modelli e relative contaminazioni, Revelli si appoggia per la destra alle classificazioni di René Rémond, per la sinistra di Georges Lefranc. E ne ricava l’individuazione di tre destre e tre sinistre. Le destre sono quella tradizionalista, che si caratterizza nel senso di un intransigente inegualitarismo e assolutismo; l’orleanista, che recupera il senso della storia ma ambisce a gestire il movimento senza sostanziali mutamenti nel segno della continuità, piega liberalismo e elementi di democrazia al primato delle buone élites; la bonapartista, la destra anomala che usa la rivoluzione e il suffragio universale contro le istituzioni parlamentari, vuole le masse nazionalizzate nello Stato autoritario, distrugge sia le sinistre sia le altre destre.

Ed ecco le sinistre: la liberale e parlamentare, che intende l’eguaglianza in maniera «relativamente ristretta», è nemica dei privilegi artificiali, si estende dalla borghesia agli strati inferiori, è individualista, affida la sua rappresentanza alle minoranze acculturate e professionalizzate; la sinistra democratica, rispecchiata dapprima nella costituzione giacobina del 1793, la quale patrocina in via di principio l’accesso di tutti alla partecipazione politica, tende ad assumere un tratto iperpolitico per il ruolo che affida al governo dei virtuosi contro i suoi nemici; la sinistra egualitaria, sociale, che, partendo da Jacques Roux, da Babeuf e Maréchal e arrivando a Marx e Lenin, oppone i ricchi ai poveri, i borghesi ai lavoratori, persegue il grande salto dall’eguaglianza formale alla sostanziale, la mobilitazione delle masse contro gli sfruttatori, la proprietà comune, l’autodeterminazione del popolo e in attesa che questa sia matura ne affida la causa alla dittatura dei pochi.

Fissate le categorie, indicati i grandi tipi della sinistra, Revelli - che, e non capisco perché, sorvola sulle sinistre che hanno scritto la storia della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, vale a dire il socialismo rivoluzionario e riformista, la socialdemocrazia e il comunismo al potere, il socialismo liberale (che hanno, tra l’altro, offerto esempi di tante «contaminazioni») - corre al mondo d’oggi, all’ultimo Novecento «quando - scrive - il dibattito su destra e sinistra subisce una brusca modificazione», in cui la vecchia grammatica non appare più in grado di servire alla coniugazione del discorso politico e sociale e la distinzione tra destra e sinistra viene vieppiù giudicata obsoleta.

Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell’economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell’identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato.

E che sia così mutato Revelli, a mio avviso giustamente, concorda, e spiega a sua volta perché. Con l’avvento della fase postindustriale che in misura crescente riduce il peso della classe operaia e del lavoro dipendente nelle forme tradizionali, si è spezzato il tradizionale cordone ombelicale tra il soggetto economico-sociale e la sinistra politica organizzata tesa a dirigerlo e a costruire un nuovo ordine. Con la crisi dello Stato nazionale in quanto spazio politico definito della dialettica conflittuale destra-sinistra, ha preso il sopravvento la dimensione dello spazio globalizzato indefinito, in cui grandeggiano «le nuove oligarchie onnipotenti» che dominano finanza, industria, allocazione delle risorse, mezzi di comunicazione. In conseguenza, «è davvero la politica ad aver perduto il proprio supporto materiale». Svuotati la sovranità dello Stato, l’autonomia della politica dalle sfere della moralità e dell’economia, i diritti universali, democrazia e legittimità quali fondamenti del potere. In luogo dello spazio solido degli Stati determinati è andato costituendosi un immenso universale spazio liquido, nel quale «la dinamica egualitaria», anima costitutiva e trainante della sinistra conosce un processo di sospensione e persino di rovesciamento.

Il quadro delineato da Revelli nel descrivere il mondo globalizzato, con molti riferimenti a Ulrich Beck e Zygmunt Bauman, credo colga bene le tendenze di fondo, ma credo anche che egli, nel farlo, prema troppo l’acceleratore nel ritenere dissolta la sovranità degli Stati non soltanto piccoli e medi ma anche grandi e nel vedere il potere delle oligarchie dominanti collocarsi, per effetto della «rivoluzione spaziale», al di sopra del globo in posizione di piena autonoma dalla politica. A mio giudizio, le cose stanno in parte sostanziale altrimenti. Né gli Stati Uniti, né la Russia, la Cina, l’India, l’Unione Europea si configurano come realtà statali in cui il potere politico abbia cessato di detenere un sostanzioso potere. Quanto alle grandi oligarchie economiche, esse sì agiscono al di là di ogni confine, ma hanno baricentri che si innervano nei grandi Stati, con le quali mantengono rapporti organici. Mirano in molti casi, e con successo, a vanificare l’autonomia della politica, ma non sempre riescono a farla da padroni). Occorre tener conto delle tendenze, ma anche dei loro limiti (e su questo tema stimolanti riflessioni ha svolto recentemente Sabino Cassese).

Revelli vede imporsi nuove gerarchie di «signori» e «servi della gleba», la democrazia conoscere una deriva accentuatamente oligarchica, nel quadro di un’inedita «rifeudalizzazione» che fa emergere tutta la profondità del «vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso». E la sinistra, che fa e che può fare? Convengo con lui pienamente che la sinistra in quanto soggetto all’altezza di inediti compiti in vero boccheggi, e appaia smarrita culturalmente e inefficace praticamente. Ma, se il quadro delle diseguaglianze sociali e politiche è quello che delinea Revelli, bisogna davvero escludere che il morto batta infine un colpo? Se non sarà in grado di farlo, se alle sfide non seguiranno le risposte, allora bisognerà concludere che l’identità della sinistra è non solo smarrita, ma perduta. Di fronte alla possibilità che gli «accenni di alternativa» alla crisi in atto non prendano corpo, l’autore così tira le somme: in tal caso «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle».

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