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Prendete cinque regioni italiane, due al sud (Sicilia e Sardegna), una al centro (Umbria) e le altre due al nord (Lombardia e Piemonte). E vi renderete conto che l'Italia, pur ricca di contraddizioni, è davvero una sola nazione, senza grandi differenze né politiche né sociali. Perché a Palermo come a Cagliari, a Perugia, Milano, Torino e dintorni tutti predicano bene e razzolano male. Perché uno dei temi centrali di ogni Stato, “il governo privato del territorio”, ha avuto e continua a mantenere, dovunque, tratti in comune.

I risultati? Sostanzialmente nefasti perché il diritto privato ha avuto più spazi e più megafoni del diritto pubblico, i comportamenti generali “hanno influito e influiscono pesantemente sulle scelte strategiche locali a scapito degli interessi collettivi”. Detta legge la speculazione non la soddisfazione dei bisogni collettivi. All'uso plurale del bene terra è subentrato quello egoistico. Nonostante ci siano state anche leggi lungimiranti, buone. Il caso Sardegna, col Piano paesaggistico della giunta Soru apprezzato in sedi internazionali, è un esempio riconosciuto di best practice. Ma – lo scrivono Francesco Memo, Sara Rancati e Francesca Zajczyk occupandosi della ricca Lombardia – si assiste a una sorta di capitolazione del bene collettivo perché “molte amministrazioni, e i loro apparati tecnici, non sono ancora abituati all'assunzione di responsabilità interpretativa e progettuale in fase di attuazione delle scelte di piano”. Agli interessi politici – talvolta leciti, molto più spesso loschi e sempre in nome del dio mattone – aggiungete il mancato coinvolgimento dei cittadini (tacciati chissà perché di “incompetenza” ma con diritto al voto). Con l'aggravante del “peso della burocrazia che soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno ha costituito un vero e proprio freno allo sviluppo”. Non esiste insomma un “bilancio partecipato”. I cittadini nulla sanno di piani e progetti. Non agiscono ma subiscono. Non partecipano, non sono neanche chiamati a partecipare e perciò sono travolti dall'avidità di lobbies consolidate. La palla è giocata dai soli portatori di interesse non dai cittadini soggetto di diritti civili. Cittadini che sarebbero “facilmente in grado di capire se le decisioni formulate siano dettate da interessi particolari, meramente speculativi e, al limite, originate da corruzione.

È proprio il ruolo del cittadino - non coinvolto per nulla in alcuna parte del BelPaese – uno dei temi più intriganti e innovativi del libro edito da Laterza “Esperienze di governo del territorio” curato dalla sociologa sassarese Antonietta Mazzette, certamente uno degli studiosi più attenti ai problemi della vivibilità dei centri urbani non solo in Italia e in Europa. La Mazzette - che ha radiografato città come Dubai e Genova, come Friburgo e Nuoro – si rende conto che l'Italia sociale ha conosciuto “due tipi di sconfitta” perché “una politica debole è andata di pari passo con la crescita del peso assunto dagli interessi privati”. E allora non ci si deve meravigliare se il nostro è il Paese delle frane, se in Sardegna registri tragedie da Villagrande a Capoterra, se in Calabria hai paesi come Maierato, Pizzo Calabro o Gimignano, se il Polesine è quello delle alluvioni del 1951 e del 1966, se Genova salta in aria nel 1970, e lo stesso avviene ad Ancona nel 1982, a Cassano delle Murge nel 2005, in Valtellina e in Val di Fiemme, a Sarno come a Firenze. Ogni anno ha un suo disastro. Dovunque il territorio è soprattutto assaltato, mai protetto, mai curato. Ciò che interessa è il costruire, ovunque e comunque. Non c'è cultura del territorio, non c'è amore per il decoro, anche se, parlando di Perugia e citando l'urbanista Andy Thornley – il sociologo Roberto Purgatori invoca “la tutela della linea dell'orizzonte, lo skyline, nelle nuove edificazioni urbane”.

Il caso-Sardegna è esemplare. Ne parla Camillo Tidore raccontando “storie di ordinario consumo del territorio”, ricordando i giudizi sconcertanti dell'attuale assessore di turno all'Urbanistica per il quale occorre dare “ai cittadini la possibilità di vivere un ambiente non ingessato e cristallizzato”. Come se la Sardegna non fosse popolata di villaggi fantasma che hanno occupato (e deturpato) il territorio senza peraltro creare alcuna ricaduta economica fra le popolazioni. Che cosa sono il 35 per cento delle case di Villasimius o di Palau sfitte a ferragosto? Quale ricchezza distribuiscono?

Un libro (324 pagine, euro 20) da leggere e divulgare negli istituti tecnici in particolare per far aprire le menti, per far scattare la ragione. Ai giudizi generali della Mazzette – che si conferma fra le docenti più dinamiche degli ingessati atenei dell'isola – si uniscono anche gli esempi della pianificazione in Piemonte (ne parlano due insegnanti del Politecnico di Torino, Silvia Crivello e Alfredo Mela) e l'analisi di Michela Morello sulla Sicilia, dove “lo sviluppo è entrato e uscito dall'agenda” e dove si constata che “il consenso non è a costo zero”. Eppure proprio la Morello cerca di intravedere spiragli di luce perché “non tutta la programmazione è di carta”. Verissimo. La regola è la speculazione. L'interesse privato sale sugli altari di pochi decisionisti. Mentre molti subiscono. In silenzio. E intanto – per dimostrare che tutto il mondo è paese - “lo spazio consumato per persona nelle città europee è

Non bisogna aver paura di "mutare il gioco" per evitare che continui l´egemonia culturale della destra anti-Stato. Fuori dall´Occidente si scoprono prospettive diverse: i paesi emergenti inventano modi di crescere ecologicamente compatibili. Il nuovo saggio di Rampini è uno sguardo cosmopolita sui modelli alternativi per superare la crisi

Già da molti anni Federico Rampini ci ha abituati a nomadizzare, con i libri su Cina, India, America. Ma questa volta si ferma, mescola le cose viste, ed estrae una sua sintesi. Questa volta il giornalista errante vuole influire sulla pòlis, e specialmente sulla provincia della pòlis che gli è vicina: la sinistra. Il suo ultimo libro è una lettera (Alla mia sinistra, Mondadori) e il nomade si trasforma in pedagogo, che insegna l´arte preziosa che ha appreso: lo sguardo cosmopolita.

Il suo cosmopolitismo non nasce da una dottrina, da cui viene dedotta l´apertura, curiosa, al diverso. Nel suo cammino verso la condizione di cittadino del mondo, Rampini adotta il metodo induttivo. È esplorando realtà e fatti lontani che le lenti cosmopolite si impongono, come unico metodo per capire il presente: grazie a esse scopriamo che Italia, Europa, Occidente, sono frammenti d´un mosaico più vasto, e sorprendente. Chiusi nei recinti nazionali, crederemo di vedere, ma non vedremo. È una delle lezioni del libro. Il lettore sarà impressionato dalla mole di notizie sul miracolo economico di India, Cina, Brasile, o sulla globalizzazione che si fa caos cruento ai confini tra Messico e Stati Uniti (viene in mente l´atroce serie di morti in 2666 di Roberto Bolaño). La sua Cindia (Cina+India), il suo Brasile, la sua America, ci pare di conoscerli un po´ anche noi, quando chiudiamo il libro: di penetrarne splendori e miserie.

Vediamo un capitalismo che secerne al tempo stesso prodigi e degradi inauditi, in incessante movimento. Vediamo meglio noi stessi, e come tuttora ci illudiamo di essere centro del mondo. Il bello del libro è che ne esci lettore in metamorfosi: una strana condizione, non dissimile dalla scoperta, nella pittura pre-rinascimentale, della prospettiva.

È fatta di antinomie la prospettiva: di spazi scoperchiati. Siamo abituati a parlare di recessione, dopo il collasso del 2007-2008, ma non tutti la vivono così. Per un´enorme parte della terra (i Bric, cioè Brasile, Russia, India, Cina) la crisi non è Grande Contrazione. È nuovo inizio, promesso a milioni di reietti. È una formidabile «redistribuzione della speranza», scrive l´autore. Si accompagna a svolte geopolitiche di cui appena ci rendiamo conto: non si contraggono solo i nostri consumi, il nostro welfare. Si raggrinza l´America del Nord, come l´Europa dopo le guerre del ´900. Sono passati appena dieci anni, da quando Washington si autoproclamò nuova Roma imperiale: la malinconia cattura ora anche lei, come catturò l´Europa. Gli spiriti animali del capitalismo, euforici, hanno traslocato in Brasile, Cina, India. Lì la Storia ricomincia.

C´è un interrogativo cruciale posto da Rampini: «Poteva andare altrimenti?» Erano fatali, in Occidente, il naufragio delle speranze e della politica, il predominio di anonimi poteri finanziari cui per decenni è stata concessa la sregolatezza, la frode degli impuniti, il baratro infine che ha risucchiato il nostro capitalismo? Non era affatto ineluttabile, tutto poteva andare diversamente se avessero prevalso la legge, l´etica pubblica. Chi ha visto il terribile film di Charles Ferguson sulla crisi, Inside Job, sa di che parliamo. Non era fatale che la sinistra s´insabbiasse nel mimetismo, cedesse al caos del mercato: soprattutto l´osannata sinistra riformista di Clinton, Blair, che facilitò l´egemonia della destra e la sua letale deregolamentazione.

Rampini non esita a parlare di plutocrazia: un termine forse troppo incandescente (fu usato dai fascismi contro la democrazia). Quel che è osceno, nel potere della ricchezza, è l´uso che se ne fa: la disuguaglianza patologica che ha prodotto, l´arroganza imperiale, l´assenza di limiti, dunque di morale. La crisi ha rivelato una corruzione mentale profonda delle élite, e il declino della morale occidentale è l´evento del secolo. Il 29 gennaio 2002, poco dopo l´11 settembre, Paul Krugman scrisse un memorabile articolo sul New York Times (“The great divide”): non era stato l´11 settembre a «cambiare ogni cosa». Il punto di svolta che smascherò il nostro marciume, lo ricorda anche Rampini, fu lo scandalo Enron, la gloriosa società legata a Bush e Dick Cheney, travolta il 2 dicembre 2001 dal falso in bilancio.

Tutto poteva andare diversamente: da quest´analisi autocritica urge partire. La storia non si fa con i se ma la coscienza storica sì. L´Europa sarebbe diversa, se fosse stato attuato il piano Delors su comuni investimenti, finanziati da euro-obbligazioni. Se l´euro non fosse restato senza Stato. Se qualcuno avesse voluto davvero «cambiare il gioco». Rampini riserva parole dure a quel che disse Tommaso Padoa-Schioppa, quand´era ministro dell´economia: «La tasse sono una cosa bellissima». Forse dimentica che bellissima per lui non era l´azione del pagare, ma l´idea che il consumatore si sentisse contribuente a beni comuni (strade, scuole, trasporti): frasi del genere, eretiche, «cambiano il gioco». Rampini stesso denuncia la rivolta americana del Tea Party contro statalismo e fisco. È la conferma che spesso votiamo contro noi stessi: «Per un´illusione ottica sconcertante, o un miraggio collettivo, il 16 per cento degli americani è persuaso di appartenere all´1 per cento dei più ricchi (...). L´idea che qualunque intralcio alla libertà di mercato ci rende tutti un po´ più poveri, e prigionieri di uno Stato oppressivo, ha una forza irresistibile nella cultura di massa americana».

Se le cose potevano andare diversamente ieri, tanto più oggi. La scoperta della prospettiva (di un pianeta non più dominato dall´occidente) aiuta a escogitare modi di vivere diversi, adatti alla Grande Contrazione. Modi cui Rampini dedica il bel capitolo finale: basati sulla sottrazione, non sull´addizione del superfluo. Sono vie percorribili e non tristi, contrariamente a quel che si disse quando Berlinguer o Carter parlarono (nel ´77 e ´79) di austerità. Proprio i paesi emergenti inventano oggi crescite ecologicamente vigili. Il Brasile escogita l´automobile di biofibre, o il bioetanolo ricavato da canna da zucchero. Per scoprire nuove idee basta guardare dove la speranza rinasce. Basta inforcare gli occhiali cosmopoliti.

Di una cosa l´autore è convinto: l´egemonia culturale, dopo la crisi petrolifera del ´73, è la destra anti-Stato a conquistarla. E il fallimento non sembra intaccarla. È la vera sfida che la sinistra ha di fronte. Ma come nell´800 e ´900, la socialdemocrazia è forse la soluzione. È socialdemocratico il Brasile di Lula. È socialdemocratico il modello tedesco, austero custode dello Stato sociale anche quando governano i democristiani: unica alternativa alla Cina, secondo Rampini.

Tutto questo, Rampini lo scrive alla sinistra, perché non abbia paura di «cambiare il gioco». Perché apprenda la prospettiva. Perché non viva anch´essa, come i populisti, nella «menzogna permanente». Perché non diventi, come Obama, un soldato missing in action, che non dà più segno di vita: o perché morto in battaglia, o perché caduto in mano nemica, o perché disertore.

Sono molti i nomi della politica locale e nazionale (dall’ex Sindaco di Buccinasco, Loris Cereda, arrestato per corruzione nel 2011 fino al Senatore della Repubblica, Marcello Dell’Utri, passando per ex consiglieri comunali ed ex assessori regionali) che, nelle pagine di “Le mani sulla città”, compaiono affiancati a cognomi imbarazzanti della criminalità organizzata, della ‘ndrangheta in particolare. Relazioni tra politici e mafiosi così intricate da apparire come una matassa: intercettazioni telefoniche, appuntamenti e strette di mano che hanno come sfondo i locali più alla moda della movida milanese. Qui si concludono i migliori affari: voti in cambio di appalti, sia pubblici che privati. Seppure alcune ipotesi siano, per stessa ammissione degli autori, ancora da dimostrare, le coincidenze e gli intrecci con le sentenze delle inchieste “Infinito”, “Parco Sud” e “Cerberus”, tutte coordinate dalla Procura di Milano e che hanno portato all’arresto di centinaia di ‘ndranghetisti domiciliati nella provincia milanese, delineano uno scenario lùmbard degno della Palermo dei tempi d’oro, quelli di Vito Ciancimino.

Le vicende della Palermo del Secondo Dopoguerra, che sono passate alla storia con il nome di “Sacco di Palermo”, hanno portato a una delle più grandi speculazioni edilizie dell’intera storia italiana: in 4 anni, dal 1959 al 1964, furono concesse più di 4.000 licenze edilizie, di cui l’80% intestate a cinque prestanome mafiosi. Un intreccio di politica, corruzione e criminalità che Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, riassume così nel libro scritto con Francesco La Licata “Don Vito”: “Sono gli anni in cui si definisce il profilo di una città ostaggio della mafia e di una politica fortemente condizionata dal malaffare. Una sinergia tra amministratori e politici da un lato e capi di Cosa Nostra dall’altro”. Massimo Ciancimino spiega inoltre come avveniva la spartizione degli appalti pubblici e la gestione dei conseguenti subappalti: per stabilire gli accordi fra i soggetti interessati venivano convocate riunioni che si tenevano in luoghi ogni volta diversi, a seconda degli interlocutori coinvolti, alle quali partecipavano rappresentanti delle diverse famiglie mafiose, elementi del mondo dell’imprenditoria siciliana e uomini delle istituzioni.

A Milano ci sono soprattutto le cosche calabresi ma le dinamiche e i rapporti tra esponenti istituzionali, politici e capi clan appaiono tragicamente simili.

A Milano e hinterland “l’edilizia è roba loro”

Molte delle vicende narrate nel libro riguardano l’edilizia milanese e raccontano la metamorfosi dei clan calabresi: i capi-bastone domiciliati al Nord parlano correttamente l’italiano, amano la bella vita, frequentano i locali alla moda e fanno shopping in via Montenapoleone ma la sostanza dei loro affari è la stessa dei loro parenti rimasti nella Locride. Si occupano soprattutto di scavi e movimento terra ma anche di edilizia, ristorazione, gestione dei locali notturni, gioco d’azzardo e di droga, naturalmente.

I Barbaro e i Papalia sono famiglie di spicco della ‘ndrangheta milanese che, con il matrimonio che ha unito i rispettivi rampolli, si sono fuse (come se si trattasse di una normale operazione tra società per azioni) per diventare il clan più potente di Milano e hinterland. Risiedono a Buccinasco, un paesone della periferia sud-ovest di Milano formato da palazzine e villette immerse nel verde; a guastarne l’atmosfera incantata c’è solo qualche bar sport con la strana abitudine di avere sentinelle all’ingresso che pedinano i clienti non abituali. In questi locali i boss calabresi, in giacca e cravatta, si incontrano e decidono le prossime mosse.

I loro uomini fissano le percentuali sui lavori di scavo e sulle opere di urbanizzazione della zona, stabiliscono i cantieri di rilievo nei quali occorre esserci e selezionano i nominativi delle ditte subappaltatrici, ricorrendo anche alla violenza per far valere i propri interessi, se necessario. Incendi di capannoni e automezzi sono le operazioni tipiche alle quali ricorrono per convincere quelle ditte che ancora non vogliono cedere alle estorsioni oppure per regolare i conti con le altre cosche presenti sul territorio, con le quali l’apparente pax è sempre precaria. Antichi rancori e nuove vendette sono le cause delle esecuzioni consumate nel profondo Nord, molte delle quali hanno trovato spazio nelle sezioni di cronaca nera locale senza che nessuno però ne cogliesse i veri moventi.

Limpide ragioni sociali a servizio dei clan

Impossibile comprendere come sia potuta avvenire questa colonizzazione mafiosa di Milano se si tralascia il ruolo della cosiddetta “zona grigia”, cioè quella parte di società costituita da imprenditori puliti ed incensurati che si offrono come prestanome per aggiudicarsi appalti che verranno poi ceduti ai clan grazie al meccanismo del subappalto. La “zona grigia” offre, così, la propria ragione sociale pulita per nascondere affari illeciti. Operazioni rischiose ma certamente convenienti per bilanci aziendali che non potrebbero registrare simili fatturati senza il supporto dei boss calabresi.

L’economia lombarda viene così distorta, l’intero tessuto imprenditoriale è inquinato e tutto questo si ripercuote negativamente sulla competitività dell’intero sistema produttivo e sulla qualità del territorio.

Dal 1988 i Barbaro e i Papalia, grazie all’appoggio di qualche imprenditore locale “dal carattere mite e dallo stile di vita normale e senza eccessi” che accetta di diventare loro socio in affari, realizzano una serie di operazioni immobiliari che fanno esclamare al boss: “Ma ti rendi conto? Abbiamo fatto una città!”. Una città di complessi residenziali la cui edificazione prevede appalti per il movimento terra per due milioni di euro, tutti affidati alle imprese amiche, di capannoni che rimangono vuoti, edificati per ripulire denaro proveniente dal traffico di cocaina, di cantieri nei quali lavora mano d’opera proveniente direttamente da Platì, spesso ricercati che lavorano gratis in cambio di protezione, di giardini pubblici realizzati su terrapieni riempiti con macerie contaminate da sostanze tossiche provenienti da chissà dove. Questo è il biglietto da visita di Buccinasco, poco più di mezz’ora di strada da Piazza Duomo.

Chi paga?

Un sistema in cui, se da un lato le imprese prestanome applicano prezzi gonfiati per garantire i guadagni di tutta la filiera malavitosa, dall’altro quelle che accettano di pagare il pizzo per poter lavorare in pace inseriscono nuove voci nei propri bilanci per giustificare uscite altrimenti sospette. Peccato che il conto finale sia poi destinato ad essere pagato da qualcun altro, le comunità locali, di solito. La ‘ndrangheta fa affari con una classe di imprenditori consapevoli e consenzienti, pronta ad assecondare i propri estorsori in cambio di lauti guadagni il cui onere ricadrà completamente sull’inconsapevole e sprovveduto compratore finale non solo in termini strettamente economici ma anche sanitari: case e strutture pubbliche costruite su terreni inquinati hanno, come è facilmente immaginabile, effetti deleteri sulla salute dell’intera cittadinanza.

Le prime pagine del libro riportano una dichiarazione di Ilda Boccassini, procuratore aggiunto a Milano, che denuncia l’esistenza in Lombardia di un tessuto imprenditoriale che trae massimi vantaggi a fare affari con la ‘ndrangheta: “continua a non esserci una folla di imprenditori davanti alla mia porta, nonostante non si fermino i danneggiamenti, gli atti di intimidazione, gli incendi… Non è solo per paura che gli imprenditori non denunciano”.

Dopo aver letto queste ricostruzioni ci si può forse ancora stupire di come molte analisi economiche sul contesto milanese denuncino una progressiva perdita di competitività di questo territorio? Qui, peraltro, per far fronte alla crisi, le istituzioni hanno attuato una forte de-regolamentazione del sistema che, in nome della sburocratizzazione e dell’efficienza, favorisce, di fatto, le infiltrazioni dell’economia illegale che, come è noto, in un contesto normativo di sregolazione, traggono i massimi benefici. In tutto questo tempo dov’era la tradizione di moralità della società civile milanese? E quel tessuto produttivo così all’avanguardia e operoso (ma forse è rimasto tale solo per qualche politico che usa questi slogan per giustificare istanze di secessione improponibili) che si è arreso così presto alla conquista dei clan? E dove sono, ora, quegli anticorpi padani così attivi a tuonare contro Roma ladrona? Tutti ipnotizzati, chi per convenienza e chi per quieto vivere, dal mantra della coppia Moratti – Lombardo, che per anni si è sgolata assicurando che “la mafia a Milano non c’è. Non esiste. Non qui”?

Strappare le mani dalla città

La speranza è che libri di denuncia come questo servano per convincere irrevocabilmente qualche anima bella (per la verità in costante diminuzione dopo le operazione di sensibilizzazione promosse dalla nuova Giunta di Pisapia) che la mafia, o meglio, la ‘ndrangheta, a Milano c’è, esiste, è di casa oramai da parecchio tempo e che il problema non attiene solo al campo sociale e culturale: la criminalità organizzata si infiltra nel tessuto economico e lo plasma a suo uso e consumo, per i suoi interessi, che sono in antitesi con quelli di chi persegue (o dovrebbe perseguire) il bene comune. Un sistema economico infiltrato dagli interessi mafiosi oltre che arricchire interessi privati e criminali compromette il futuro del territorio, lo inquina per guadagnare, lo cementifica per speculare e ostacola il radicarsi delle realtà imprenditoriali emergenti e innovative che possono guidare l’intera area milanese verso uno sviluppo sostenibile.

Alla nuova Giunta cittadina, che ha dato prova di conoscere la reale portata del problema e di volerla affrontare, anche in vista dei lavori per l’Expo, l’arduo compito di recidere ed estirpare queste mani che, nel corso degli anni, hanno progressivamente oppresso Milano e l’hinterland comprando, con automobili di lusso e conti all’estero, una classe di dirigenti pubblici e di imprenditori che Milano - e l’Italia - non si merita.

Un vero romanzone, un pozzo nero della Repubblica. Si potrebbe definire così il libro di Aldo Giannuli, Il Noto servizio. Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea editore, pagine 445, 18). Una catena di nequizie conosciute e ignote, dalla guerra mondiale al sequestro Moro, fa da guida alla ricerca costata al suo autore quindici anni di lavoro. Giannuli sostiene di aver voluto scrivere solo un libro di storia, non una spy story. Solo che le vicende narrate, i nomi dei personaggi, l'equivoco mondo dei servizi segreti, i misteriosi burattinai fanno del libro, bulimico, sovrabbondante, un'opera che prende il lettore come un giallo. Ecco qui gli scheletri nascosti negli armadi, si potrebbe dire.

Aldo Giannuli insegna Storia del mondo contemporaneo all'Università Statale di Milano, conosce nel profondo gli intrighi sanguinosi delle trame eversive e delle stragi — è stato consulente di quella commissione parlamentare — ed è noto per lo scoop dell'«archivio della via Appia», del 1996; quando scoprì un gran numero di documenti abbandonati dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno.

Ora ha dato dignità scientifica a un'altra scoperta, quella di un'organizzazione spionistica fuorilegge che ha operato in Italia dalla Seconda guerra mondiale agli anni Ottanta: il Noto servizio, conosciuto anche come Anello.

Il libro parte da lontano. Addirittura dal generale Mario Roatta, a capo del Sim, il Servizio segreto militare, dal 1934 al 1939, a capo dei legionari fascisti in Spagna, indiziato per l'assassinio dei fratelli Rosselli, comandante, in Croazia, nel 1942, della Seconda Armata, che si macchiò di ignobili e delittuose repressioni. Restò sempre a galla, Roatta, e fu lui, nel dopoguerra, a dar vita all'organizzazione clandestina del Noto servizio. La sede principale era nel centro di Milano, in un palazzone liberty, tra via Statuto e via Lovanio. Fu un ufficiale polacco, Solomom Hotimsky, dell'armata del generale Anders, a guidare in un primo tempo il servizio. Agganciato ai carabinieri della divisione di via Moscova, gli stessi che decenni dopo saranno tra i protagonisti di azioni poco commendevoli della P2, il Noto servizio era legato ai servizi militari italiani e americani e alla Confindustria. Il suo compito era di spionaggio e provocazione nei confronti del Pci, delle organizzazioni di sinistra e del sindacato; il golpe militar-fascista era il miraggio non raggiunto, anche se messo in cantiere. Gli strumenti adoperati con spregiudicatezza andarono dai sequestri di persona ai traffici di droga e di armi ai delitti mascherati da falsi incidenti. I rapporti con i poteri criminali, la mafia, soprattutto, furono costanti. Fecero parte del Noto servizio non pochi naufraghi della repubblica di Salò.

Aldo Giannuli ha consultato tutti i possibili archivi, ha studiato migliaia di documenti, ha scovato note riservate, appunti confidenziali, verbali, rapporti, memoriali, ha scritto una cinquantina di relazioni per la magistratura. Il libro — manca un indispensabile indice dei nomi — è prezioso per capire quel che accadde nella politica e nella società italiana nel secondo Novecento. Un ritratto della mala Italia. Una miniera, anche se la carne al fuoco è sinceramente troppa.

Perché Andreotti è protagonista persino nel titolo del libro? «Il Noto servizio — scrive Giannuli — fu uno degli strumenti della sua azione politica». Grande tattico, poco sensibile ai disegni strategici, Andreotti suggerisce al professore l'immagine centrale del cavallo nel gioco degli scacchi. (La sentenza che lo condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, di cui è stato ritenuto responsabile fino al 1980, anche se prescritta, convalidata dalla Cassazione, dovrebbe essere più che sufficiente, in un paese normale, per bollare un uomo politico che è stato sette volte presidente del Consiglio).

Il Noto sevizio ebbe rapporti con Pace e libertà di Edgardo Sogno, con Luigi Cavallo, «il provocatore» al servizio della Fiat, con Ordine Nuovo, il Mar di Carlo Fumagalli, persino con Liggio. Tra i suoi adepti, ben pagati, ebbe giornalisti, avventurieri, doppiogiochisti, estremisti, Giorgio Pisanò, esponente del neofascismo più esagitato, padre Zucca, il francescano fascista che nel 1946 nascose nel suo convento la salma di Mussolini trafugata a Musocco.

Furono caldi gli anni dopo la strage di piazza Fontana del 1969. Nel dicembre del 1970 il principe Borghese tentò un golpe, bloccato all'ultimo momento. Di Gladio si saprà soltanto nel 1990, quando Andreotti ne rivelerà l'esistenza. L'assassinio del commissario Calabresi fu un'altra tragedia, come l'attentato sanguinoso alla Questura di Milano, destinato a uccidere Rumor, e qui Giannuli è debole nel rappresentare la figura dell'attentatore, il finto anarchico Bertoli. E poi la Lockheed e la catena di stragi.

Dopo le elezioni del 1976 nasce, tra Dc e Pci, il governo di solidarietà nazionale. Il Noto servizio è più che mai sul chi vive. Le Br sono all'offensiva. I servizi segreti ufficiali lasciano fare, scrive Giannuli. Moretti, scrive anche, era un personaggio discutibile, Senzani il più impresentabile.

Sul sequestro Moro, minuziosamente ricostruito, Giannuli dà grande importanza al ruolo di Steve Pieczenik, l'esperto del Dipartimento di Stato americano inviato in Italia per collaborare con l'unità di crisi del Viminale. Vent'anni dopo, Pieczenik dichiara in un libro-intervista che la sua missione era stata coronata dal pieno successo: la morte di Moro, secondo lui (e chissà chi), aveva infatti scongiurato il crollo del sistema politico italiano.

A Giannuli, che accenna appena al ruolo di Cossiga e trascura la singolarità che appartenessero alla P2 tutti o quasi i consulenti del comitato di crisi, sono rimasti sul gozzo soprattutto due interrogativi: «Perché furono distrutti dalle Br i manoscritti originali di Moro?». E poi: perché nulla di quanto disse Moro fu «reso noto al popolo», come avevano più volte promesso i comunicati delle Br?

“Petroselli. Il Sindaco più amato e il sogno spezzato di una città per tutti” (Castelvecchi), merita di essere letto per diversi motivi. In primo luogo, vi si trova un racconto efficace della stagione politica di cui Petroselli fu protagonista – gli anni ’70 – caratterizza da grandi attese di cambiamento, da una grande mobilitazione politica e sociale in gran parte indipendente dai partiti. Una stagione durante la quale la causa del riscatto sociale e culturale di una intera città si affermò conquistando persone di diversi orientamenti ideologici e culturali. Il libro, poi, dedica molto spazio alle vicende urbanistiche della città, all’impegno di Petroselli in questo campo e agli impedimenti che incontrò, e aiuta a capire bene perché a Roma, dopo momenti di grande slancio riformatore, si torna facilmente indietro, a quei mali antichi che ne determinano il degrado – primo tra tutti l’estrema potenza della rendita fondiaria.

La rievocazione degli anni di Petroselli proposta nel libro, a guardar bene, è rilevante anche per la politica di oggi. Se Petroselli fosse stato il sindaco di Roma per cinque o dieci anni – come avviene ai nostri giorni – un segno, buono o cattivo, lo avrebbe lasciato per forza di cose. Ma egli fu Sindaco per soli due anni (morì nel 1981, poco tempo dopo la sua rielezione). Eppure si può a buon diritto parlare, come fanno gli autori, della “Roma di Petroselli”. In un’epoca come la nostra, in cui chi amministra la cosa pubblica gode di strumenti istituzionali sicuramente più potenti di quelli di una volta (elezioni dirette, premi di maggioranza, etc.) la questione è senza dubbio interessante. Infatti, la politica personalizzata, piena di leader solitari, incomparabilmente più conosciuti e onnipresenti, e forse più potenti di Petroselli e dei politici di allora, stenta a produrre personalità capaci di lasciare un segno riformatore chiaro, di lanciare idee e progetti che facciano discutere anche dopo decenni. Il libro suggerisce l’idea che Petroselli abbia anticipato i tempi del sindaco eletto direttamente e tuttavia non sembra attribuire il successo del personaggio solo al suo carisma. Anzi, si ricorda che la storia e la figura di Petroselli destavano perplessità, tanto che anche alcuni compagni di partito pensavano che non reggesse il confronto con il suo predecessore, Giulio Carlo Argan, una grande personalità dell’Accademia (si veda, a questo proposito, la testimonianza di Piero Della Seta). Le lettura del libro suggerisce che la politica di Petroselli non fu da “One man show”, di quelli che piacciono adesso, basti pensare che fu proprio lui, dopo aver condotto il PCI (era segretario regionale del Lazio dal ‘69) alla vittora del 1976 a Roma, a proporre lo stesso Argan alla carica di sindaco (a cui subentrò tre anni dopo). Una cosa lontana dalla sensibilità contemporanea, elezioni dirette a parte.

Il merito del libro, è proprio questo. E’ una ricostruzione non agiografica di una vicenda politica rilevante per l’oggi. Petroselli emerge come un leader politico che è stato capace di mobilitare le forze che aveva a disposizione per imprimere alla città una grande trasformazione. Il suo impegno per il cambiamento è avvenuto prima utilizzando gli strumenti della politica e del partito, poi quelli dell’amministrazione. La Roma lasciata dalle “giunte rosse” che hanno governato dal 76 all’85 non aveva più i borghetti e i baraccati, aveva sperimentato l’innovazione politica e amministrativa, poteva contare su una più vasta e migliore offerta di servizi sociali. Roma, con Petroselli, aveva imparato a pensare a sé stessa in termini alti, attraverso grandi idee e grandi progetti. Il libro, a questo proposito, dà giustamente spazio alla vicenda del “Progetto Fori”, cioè l’idea di mettere al centro della vita della città il parco archeologico del Foro Romano attraverso lo spostamento dal centro di molte delle attività direzionali e lo smantellamento di Via dei Fori Imperiali. Questo progetto, per Petroselli, aveva una grandissima portata ideale e programmatica, e così ne spiegava il senso: “quello che vogliamo che accada è che non solo il tempo di percorrenza, ma il tempo mentale e il tempo culturale si accorci tra via dei Fori Imperiali e la periferia, tra la periferia e Via dei Fori Imperiali”. L’idea che la cultura possa essere un motore della vita della città e del suo sviluppo – rappresentata anche dal grande successo dell’Estate Romana – è stato un tratto distintivo della “Roma di Petroselli” e un modello imitato in tutto il mondo. Non fu solo una sua idea. Certo è che Petroselli la promosse e difese con forza prima come politico e poi come amministratore.

Sicuramente, la complessa vicenda delle giunte rosse romane di cui è stato protagonista Petroselli è stata caratterizzata anche da alcuni significativi fallimenti, molti dei quali sul piano urbanistico. Il libro, per esempio, spiega bene la vicenda di quartieri degradati come Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38. Va detto che molti dei fallimenti si sono prodotti dopo la morte di Petroselli anche per la cattiva gestione di progetti che avrebbero potuto avere esiti differenti e migliori. Baffoni e De Lucia, tuttavia, mettono in evidenza un grande merito sul quale sarebbe utile che riflettessero politici e amministratori locali odierni, inclusi quelli di sinistra. Petroselli, ancora prima di diventare sindaco, nel 1978, promosse un accordo coi costruttori romani che puntava al “distacco dell’imprenditoria edilizia dalla proprietà dei suoli e dalle sirene della speculazione fondiaria, per orientarla verso il legittimo profitto d’impresa assicurato dal mercato pubblico degli alloggi”.

La vicenda narrata è quella di un politico che riesce a governare una grande città e le sue sfide proponendo un progetto non pensato a tavolino, ma ideato e realizzato coinvolgendo al massimo le forze e gli attori in campo, utilizzando tutte quelle novità, idee, aspirazioni e movimenti che dalla città di allora emergevano. Un progetto che ancora oggi ci interroga: il rapporto di Roma con l’antico, la città di tutti, l’accesso ai servizi, la pedonalizzazione. Cose tanto spesso dimenticate. Lo si vede dal confronto proposto nel libro tra Petroselli e Alemanno, ma lo si vede anche nelle criticità che vengono messe in evidenza dagli autori sulla Roma dell’ultimo centrosinistra. Che tanto ha fatto, ma che molto ha lasciato fare proprio su ciò che in una città è strutturale, l’ambiente costruito.

Il libro ricorda il grande consenso popolare di Petroselli, anche attraverso alcune testimonianze raccolte alla fine del testo principale. Inutile dire che il rapporto forte che il Sindaco aveva con i cittadini di Roma non è riconducibile al plebiscitarismo sondaggista di oggi. Se è vero che Petroselli inaugurò la linea diretta coi cittadini da una TV locale, questo non viene raccontato come il tratto distintivo, e in effetti non lo fu. Alcune delle testimonianze riportate parlano di un sindaco e di un politico che sapeva confrontarsi con i tanti soggetti politici e sociali presenti nella città, in primo luogo con gli abitanti delle periferie, con i quali venivano discussi – non senza contrasti – le operazioni di risanamento.

Quella stagione politica e quel leader sollevarono molte aspettative che finirono, in parte, per essere disattese. I motivi sono numerosi. Sicuramente, su molte questioni ci fu un deficit di volontà politica: il libro, per esempio, ricorda che le conferenze urbanistiche promosse dal Comune mortificarono le attese di riforma e questo è da addebitare sia alle forze politiche alleate, che allo stesso partito di Petroselli, il PCI. Ci furono, poi, anche le carenze dell’amministrazione, basti pensare al caos dell’assegnazione degli alloggi a Tor Bella Monaca. Ma un ulteriore motivo viene ricordato nel libro. Dopo la perdita del Campidoglio da parte delle sinistre fu avviata una vasta riflessione autocritica (allora si usava). In molti capirono che fu proprio la promozione della qualità urbana che determinò il sorgere di nuove esigenze, che non si seppero apprezzare né tantomeno cogliere, se non in parte.

Petroselli morì in una fase di slancio dell’azione riformatrice, e sarebbe ingiusto, forse, rivolgere una critica al suo operato di questo genere, visto che non si può sapere come avrebbe gestito gli stessi successi della sua amministrazione. Certamente, i riformatori e i riformisti venuti dopo di lui possono imparare molto dall’apertura al nuovo, ai nuovi soggetti e alle nuove esigenze della città che Petroselli, come documenta il libro, ha saputo esercitare. Se non è una lezione per l’oggi, sicuramente un suggerimento da valutare.

Le orde di turisti, il ponte "di debole Costituzione", le meganavi e il cemento in una collana di instant book che raccontano una pericolosa trasformazione

Un'idea di sviluppo fondata soltanto sulla «ricchezza facile» e sul turismo. Una città spremuta e violentata da 22 (presto diventeranno 30) milioni di visitatori ogni anno. Sviluppo insostenibile, che minaccia da vicino un ambiente unico al mondo, dagli equilibri delicatissimi. E' questo il filo conduttore di una nuova collana di saggi editi dalla piccola casa editrice veneziana "Corte del Fontego". Alla cultura e alla tenacia di Marina Zanazzo si deve l'uscita di queste piccole perle. Instant book documentatissimi, che aprono uno squarcio sulla realtà veneziana vista dai protagonisti della Venezia di oggi. Trentacinque pagine e un costo più che accessibile (tre euro), i libretti del Fontego tracciano una sorta di percorso dedicato a chi vuole toccare con mano la situazione della città d'acqua, le sue trasformazioni sempre più violente e irreversibili. Ecco allora gli ultimi quattro volumetti che sono in questi giorni nelle librerie. Il Ponte di debole Costituzione, di NellyVanzan Marchini, Tessera city di Stefano Boato, E le chiamano navi di Silvio Testa, Caro turista di Paolo Lanapoppi.

Lanapoppi, esponente di Italia Nostra e in passato presidente di Pax in Aqua, ricorda come uno studio dell'Università Ca' Foscari firmato dall'allora professore di Economia Paolo Costa - poi ministro e sindaco, oggi presidente del Porto - e Jan Van der Borg nel 1988 fissasse come limite massimo sostenibile per la città il numero di 20 mila turisti al giorno, 7 milioni e mezzo l'anno. Oggi, 23 anni dopo, i turisti sono diventati 22 milioni. E uno studio del Coses, l'organismo di ricerca finanziato da Comune e Provincia, ha fissato un nuovo limite. Esattamente il triplo di allora, 59 mila turisti al giorno, pari al numero degli abitanti nel frattempo scesi sotto la soglia dei 60 mila. A questi vanno aggiunti i circa 20 mila pendolari giornalieri. Risultato, la città è stravolta da un'invasione che porta ricchezza- non a tutti - ma che la sua fragile struttura ormai non sopporta più.

Esempio emblematico quello delle meganavi, città galleggianti alte più dei campanili, che spostano 100 mila tonnellate d'acqua e sedimenti al loro passaggio. Erano un paio la settimana, adesso sono almeno cinque al giorno. Anche qui, la politica spinge nella direzione dello «sviluppo». Nuove banchine costruite in Marittima e il traffico dei bestioni davanti a San Marco che diventa sempre più pesante. Dati e numeri snocciolati con precisione e leggerezza nel libretto di Testa. E un appello a chi ama davvero Venezia e la sua laguna. «Fino a quando?» era l'emblematico titolo di un volume fotografico di Giulio Obici all'indomani dell'alluvione del 4 novembre 1966. Fino a quando Venezia potrà sopportare la nuova alluvione, come la definisce Italia Nostra, che non porta acqua ma valanghe di turisti che ormai stanno modificando a loro immagine la vita e l'economia della città?

Pungente e documentato come sempre il saggio di Stefano Boato, urbanista e docente Iuav, già assessore all'Urbanistica negli anni Ottanta. Tessera city è non soltanto la cementificazione del territorio e della gronda lagunare, ma un errore di prospettiva oltre che un grande danno ambientale. Anche qui, modelli di sviluppo estranei alla storia della città di cui non si riesce a liberarsi.

Info

Nella "serie rossa" stessa collana sono usciti: Edoardo Salzano, Lo scandalo del Lido e Paola Somma, Benetttown. Nelle altre serie: Franco Mancuso, Fronte del porto e Costruire sull'acqua , Edoardo Salzano, La Laguna di Venezia , Paolo Pirazzoli, La misura dell'acqua , Luigi Fozzati, Sotto Venezia, Giannandrea Mencini Fermare l'onda. Per ulteriori informazioni rivolgersi all'ediitore Corte del fontego

Adesso le battaglie civili si fondano sulla rivendicazione di necessità primarie e di tutti Tanti i saggi che spiegano il fenomeno. E a qualcuno questo studio è valso il Nobel Le manifestazioni che accompagnano tutti i grandi vertici rilanciano sempre questo motivo L´antagonismo che è nato si pone come alternativa globale al modello capitalistico

Cosa hanno in comune l´acqua potabile, una foresta, una piazza, con la salute dei cittadini o i flussi di conoscenza che scorrono nella rete? La risposta, contenuta nella stessa domanda, è che in tutti casi si tratta di "beni comuni" – vale a dire non appropriabili né da privati né dallo Stato. Naturalmente ciò accade per motivi diversi. L´acqua non può essere privatizzata perché, come l´aria, è condizione essenziale del diritto alla vita; la piazza perché costituisce luogo di incontro e di socializzazione per chiunque in qual momento vi sosti; l´informazione perché è strumento irrinunciabile di sviluppo dell´intero genere umano.

È paradossale che un´evidenza così lampante solo da qualche anno concentri l´attenzione di un numero crescente di giuristi, filosofi, antropologi, fino a diventare oggetto di un vero e proprio manifesto, come quello appena pubblicato da Ugo Mattei con il titolo Beni comuni. Un manifesto (Laterza, pagg. 136, euro 12). Docente di diritto civile, egli è stato vicepresidente della Commissione Rodotà per la Riforma dei beni pubblici, nonché redattore, insieme ad altri giuristi, dei recenti quesiti referendari sull´acqua.

Ma anche al di là dei diversi libri che l´hanno posta a tema, si può dire che la questione dei beni comuni sia letteralmente esplosa in tutto il mondo. Oggetto di studio di qualificati gruppi di ricerca, nel 2009 è stata occasione di conferimento del Nobel all´economista statunitense Elinor Ostrom, autore di un saggio, Governing the Commons, ad essa dedicato. Al centro della battaglia per la difesa della terra nel Chiapas e in Brasile e di quella, anch´essa vincente, per l´acqua pubblica a Parigi, è diventata la punta di diamante della campagna elettorale di De Magistris a Napoli, che, appena eletto sindaco, ha affidato il primo assessorato ai beni comuni al costituzionalista Alberto Lucarelli. Tutte le manifestazioni che hanno accompagnato i vertici dei Grandi della Terra sull´economia e sul clima – da Seattle a Cancun – hanno rilanciato, con sempre maggior forza, il motivo del "comune". "Il lavoro è un bene comune" è stato lo slogan di una recente protesta sindacale in Italia. E cos´altro chiedono gli indignados ad Atene, Tel Aviv, Madrid e New York se non il rispetto di beni non disponibili, neanche per diminuire il debito sovrano dei vari Paesi?

E tuttavia la partita appare tutt´altro che facile. Per quanto diffusa a macchia d´olio per una sorta di contagio generazionale – proprio la salvaguardia delle future generazioni costituisce l´obiettivo dichiarato della Commissione Rodotà –, l´opzione per i beni comuni sconta una doppia difficoltà di partenza. Intanto la diffidenza delle forze politiche nei confronti di un lessico trasversale, difficilmente riconducibile alla tradizionale dicotomia destra/sinistra. E poi il peso incombente di una lunga tradizione giuridica, coincidente in buona sostanza con la storia dell´intera modernità. La quale si è affermata appunto spazzando via le risorse – boschi, torrenti, università, città, chiese – che nel mondo medioevale sfuggivano alla proprietà privata e a quella statale, costituendo una sorta di beni rifugio per i più deboli. Le recinzioni dei campi in Inghilterra, insieme al saccheggio delle Americhe, segnano la fine di diritti consuetudinari, come quello che destinava le foreste al libero uso dei poveri. È allora che si salda la tenaglia tra proprietà privata e sovranità statale, teorizzata e celebrata da tutta la filosofia politica moderna. Come il singolo ha diritto esclusivo di proprietà su tutto ciò che produce, così lo Stato sovrano è proprietario unico del territorio incluso nei propri confini.

Da Hobbes a Locke, a Blackstone, Stato e proprietà colonizzano l´intero immaginario in un rapporto a somma zero che non lascia spazio a qualcosa che è di tutti proprio perché non appartiene a nessuno. Nonostante la loro opposizione, liberalismo e socialismo condividono la stessa logica escludente che divide il mondo tra beni privati e beni posseduti dallo Stato. Ciò che solamente è consentito, e giuridicamente tutelato, è il passaggio dalla proprietà dello Stato e quella dei privati e viceversa. Nazionalizzazione e privatizzazione diventano le parole d´ordine che nel Novecento si dividono tutto il campo delle opzioni economiche e politiche, espellendo qualsiasi altra possibilità.

La globalizzazione dell´ultimo ventennio da un lato spinge ancora più avanti questo processo, dall´altro comincia a porlo in contraddizione con se stesso. L´entrata in scena di nuovi soggetti proprietari, costituiti da grandi multinazionali slegate da qualsiasi obbligo di responsabilità sociale – come la Fiat di Marchionne – riduce il potere sovrano degli Stati, allargando a dismisura quello di organizzazioni private capaci di produrre esse stesse politica e diritto funzionali ai propri vantaggi. Così – come sostiene Mattei – Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio diventano i veri legislatori globali del dopo Guerra Fredda. Ma proprio questa rottura della dicotomia moderna tra Stato e singoli proprietari apre lo spazio a nuovi scenari, in cui comunità reali di cittadini associati rivendicano l´estensione dei diritti fondamentali e comunità virtuali penetrano i confini statali arrivando a diffondere informazioni riservate, come nel caso di WikiLeaks.

Qual è il destino di questo nuovo antagonismo sociale, così diverso da quello cui il Novecento ci ha abituati? Io credo che se esso si pone come alternativa globale al modello capitalistico, richiamandosi ad esperienze marginali come quelle dell´Ecuador o della Bolivia – come sembra fare lo stesso Mattei – esso non ha speranze. Come, del resto, tutti i discorsi in voga sulla decrescita. Non ha speranze perché troppo in contrasto con le aspettative, le pulsioni, i desideri della stragrande maggioranza della gente, non soltanto in Occidente. Se invece, senza rinunciare al conflitto politico e civile, punta alla costruzione di un sistema costituzionale triangolare in cui i beni comuni guadagnino progressivamente spazio tra quelli pubblici e privati, a partire da singole battaglie come quelle sull´acqua, sul nucleare, sulla difesa del lavoro, può diventare la nuova piattaforma unitaria di movimenti orientati alla trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro.

postilla

Sulle conclusioni dell’articolo, come è ovvio, la discussione è aperta. Per noi il «modello capitalistico» va trasformato nelle sue stesse radici, e «guadagnare progressivamente spazio» ha senso se prepara quella prospettiva. Sui “beni comuni” vedi anche i materiali della VII edizione della Scuola di eddyburg

Luigi Petroselli è stato certamente il miglior sindaco di Roma nel dopoguerra. Ha anticipato il sindaco eletto direttamente, che risponde alla città e non a interessi privati, alle segreterie o alle dinamiche dei partiti. Aveva un’idea di Roma e seppe trasmetterla a tutti. Morì giovane ed è entrato nella leggenda.

Spesso è ricordato accanto all’altro grande sindaco di Roma,Ernesto Nathan. Nato inglese, ebreo, mazziniano, massone, estraneo alla lobby dei proprietari fondiari e del Vaticano, Nathan governò dal novembre 1907 al dicembre 1913. Trasformò Roma da capitale della Chiesa a capitale dello Stato. Pose al centro della sua azione l’istruzione, la cultura, l’educazione. Varò il piano regolatore e grandi progetti, costruì nuovi quartieri. A parte la comune appartenenza alla Sinistra, altri accostamenti sono difficili. Petroselli non aveva nulla dell’intellettuale cosmopolita, era un funzionario del Pci, per di più viterbese, e «sembrava un edile». Le cose che ha portato a termine sono pochissime rispetto al lungo elenco delle realizzazioni di Nathan. È vero che Petroselli è stato sindaco solo due anni, esattamente 741 giorni, dal 27 settembre1979 al 7ottobre 1981, giorno della sua improvvisa scomparsa. Ma dal 1970 era l’autorevolissimo segretario della federazione del Pci di Roma, che in larga misura determinava, anche dall’opposizione, le decisioni del Campidoglio. Ancora di più fu evidente il suo potere negli anni dal 1976 al 1979 quando fu sindaco Giulio Carlo Argan dopo la clamorosa vittoria elettorale del comunisti. E dopo la morte di Petroselli ha continuato a essere un riferimento, anche quando, nel 1993, il Centrosinistra è tornato al Campidoglio per quindici anni.

Qual è la ragione del mito di Petroselli, che resta vivo ancora oggi a trent’anni dalla sua scomparsa?

Noi siamo convinti che la memoria persistente di Petroselli dipenda dalla sua idea di Roma. Credeva in quell’idea, si capiva che ci credeva, e seppe trasmetterla con forza e in profondità a milioni di cittadini romani, e non solo romani. La sua idea, la sua idea-obiettivo, era l’unificazione di Roma. L’unificazione culturale dei borgatari che si avvicinano ai borghesi, e l’unificazione territoriale delle borgate che si accostano al centro. Un’unificazione, questo è un punto da chiarire bene, che era l’esatto contrario dell’omologazione consumistica denunciata da Pier Paolo Pasolini. Non l’annullamento delle differenze, non la rinuncia alle radici e alla storia, ma un obiettivo primario di uguaglianza, l’égalité del 1789.

Petroselli portò avanti con risolutezza le azioni intraprese dalla Sinistra per Roma - demolizione dei borghetti, risanamento delle borgate, Estate Romana, salvaguardia della residenza popolare in centro storico - ma spese il meglio della sua energia per il Progetto Fori: un progetto «sublime», lo ha definito Leonardo Benevolo, notissimo storico dell’architettura.

L’eliminazione della via dei Fori, mettendo la Storia al posto delle automobili, avrebbe obbligato a un diverso rapporto fra centro e periferia, a una più razionale distribuzione delle funzioni direzionali e dell’accessibilità. Una Roma moderna grazie all’archeologia.

In scala diversa, lo stesso obiettivo dell’unificazione Petroselli intendeva perseguirlo con l’intervento di Tor Bella Monaca. Che doveva essere un lodevole segmento di città pubblica - sinonimo di città moderna - nella periferia orientale. Ma più ancora che in questo, l’importanza dell’operazione stava nel rapporto che il sindaco aveva stabilito con la categoria dei costruttori (a Roma vasta e influente). Voleva trasformarli in autentici imprenditori, schiodandoli dall’atavica subordinazione alla rendita fondiaria, e perciò fu decisiva l’intesa con Carlo Odorisio, esponente illuminato della categoria e regista di Tor Bella Monaca.

Non si nuoce alla figura di Petroselli se si ricorda che commissione anche errori, per esempio nella composizione della giunta, e nel non aver affrontato - come avrebbe dovuto, e con la risolutezza propria del suo modo di governare - quell’impresa che pure sarebbe stata decisiva per l’unificazione della città: mettere fine all’abusivismo (anche se il peggio comincerà con le leggi di condono, dal 1985 in poi). Non capì - e in questo non c’è differenza con i sindaci prima e dopo di lui - la dimensione drammatica dell’edilizia illegale, immane palla al piede della città e dell’area metropolitana, impressionante fattore di arretratezza e di corruzione.

Il7 ottobre1981Luigi Petroselli fu stroncato da un infarto al termine di un intervento al comitato centrale del Pci. Con la morte di Petroselli muore la sua visione di Roma. A mano a mano anche se mai rinnegati, il Progetto Fori e Tor Bella Monaca sono stati svalutati, immiseriti, abbandonati. Il carattere esemplare di Tor Bella Monaca è stato travolto dalla sciatteria al momento delle assegnazioni e dall’ordinaria negligenza della gestione. Fino all’infame proposta di Alemanno di demolire il quartiere, restituendo il primato alla speculazione fondiaria.

Intanto opportunismi, piccole e grandi viltà hanno fermato il Progetto Fori. Il colpo di grazia è stato inferto nel 2001 quando un decreto del governo ha attribuito valore monumentale alla strada fascista. Che da allora è intangibile. E così, l’immagine ufficiale della Roma moderna resta quella voluta da Benito Mussolini. Mentre la cultura democratica tace.

Il testo che pubblichiamo è tratto daLaRoma di Petroselli di Ella Baffoni e Vezio De Lucia (Castelvecchi, 192 pagg, 14 euro). Il libro è ricostruisce il lavoro del “sindaco più amato” anche attraverso ricordi diretti. Come quello di Franco Ferrarotti: «Petroselli, all’epoca segretario del Pci romano,mi disse: “Hai analizzato la vita e la miseria delle borgate. Hai studiato tutto. E adesso? Adesso basta con le parole. Vai in Campidoglio e fai qualcosa di pratico per gli altri”».

Uscito cinquant'anni fa, torna Roma moderna, il libro di Italo Insolera sulla storia urbanistica della capitale (Einaudi, pagg. 403, euro 25), da molti giudicato fondamentale anche per la storia in generale di Roma da Porta Pia in poi. La nuova edizione è aggiornata: inizia con la Roma napoleonica e in quattro capitoli finali racconta la Roma dagli anni Ottanta a oggi (con Insolera ha collaborato Paolo Berdini). Ma la vera novità sta in un punto interrogativo che nella premessa Insolera giustappone al titolo: Roma moderna? È da qui che comincia la chiacchierata con l'urbanista, classe 1929, insegnante a Venezia e a Ginevra e autore di numerosi saggi.

Alla domanda se Roma sia una città moderna e, se non lo sia, perché non lo è, Insolera apre a caso le pagine dello stradario. L'occhio casca su una delle borgate abusive della zona orientale, poi assorbita nello sviluppo tumultuoso dell'abitato. Il dito segue i tracciati e si perde su vie che si aggrovigliano, si allargano a circonvallazione e poi finiscono nel nulla. Insolera scuote la testa, alza lo sguardo: «Non può definirsi moderna una città che ammette questo disordine».

Ma questa è la città abusiva.

«È vero. Però casualità e insensatezza le troviamo anche in quartieri sorti legalmente, ma frutto di speculazione, dove si è pensato ai palazzi e non alle strade. E poi l'abusivismo edilizio non è stato solo un fenomeno che ha interessato la città in alcune parti».

E che cosa è stato?

«Per molti aspetti è il modo d'essere della città. Si calcola che il venti per cento del territorio edificato sia abusivo (diecimila ettari su cinquantamila). Sono stati spesi tanti soldi per riagganciare questi nuclei alla città. Tutta Roma è stata investita da simili tentativi. I risultati sono stati però scarsi.È un problema politico, ma anche dell'architettura».

In che senso c'entra l'architettura?

«Che l'architettura possa riscattare la società è cosa da dimostrare: soprattutto quando è solo disegno di forme e non ricerca dei valori di cui le forme sono espressione. Vista dall'alto, la metropoli abusiva e poi sanata dai condoni si presenta come una massa continua, compatta, indifferente. Come d'altronde si presentava cinquant'anni fa la città delle palazzine».

Lei pone uno spartiacque nell'immediato dopoguerra.

«Fino ad allora troviamo un impianto stradale e un'architettura discutibili quanto si vuole. Ma funzionanti. Andando ancora indietro nel tempo vediamo piazze disegnate in modo esemplare, come piazza Mazzini o piazza Verbano. Alcuni insediamenti popolari sono all'altezza di una città moderna. Poi questa sapienza urbanistica viene sovrastata dagli interessi speculativi».

Torniamo ancora più indietro. Finora lei cominciava la storia di Roma moderna con il 1870. Ora con Napoleone. Perché?

«Potrei cavarmela con la battuta che Napoleone è meglio di Raffaele Cadorna. Napoleone è comunque uno dei pochi grandi che si occupino di Roma. Dal 1809 al 1814 Roma è annessa all'impero napoleonico e il prefetto De Tournon elabora un progetto per scavi archeologici e due grandi parchi, uno a Piazza del Popolo, l'altro nell'area fra i Fori, il Colosseo e il Palatino...»

Nasce allora l'idea che verrà ripresa negli anni Settanta del Novecento da Leonardo Benevolo, Antonio Cederna, Adriano La Regina, da lei e dal sindaco Petroselli?

«Nasce allora. Non se ne fece niente. Se Napoleone non fosse stato sconfitto, questi progetti sarebbero stati alla base del primo piano regolatore di Roma moderna».

Napoleone va bene, ma Pio IX?

«Si deve al ministro del papa, monsignor De Mérode, l'istituzione della stazione Termini e l'avvio dell'espansione cittadina verso nord-est, che verrà poi realizzata dal Regno d'Italia. Sebbene De Mérode avesse acquistato quei terreni e dunque fosse uno speculatore, anche quella fu una scelta da città moderna».

Veniamo di nuovo a un periodo più vicino a noi. La sua ricostruzione della speculazione anni nel Novecento ha fatto scuola. Una prima svolta si registra con Argan e Petroselli fra il 1976 e il 1981. Poi nel 1993 inizia la stagione del centrosinistra.

«Nel programma di Francesco Rutelli c'era un capitolo intitolato "Una rivoluzione urbanistica". Una rivoluzione rispetto alle pratiche dominanti a Roma, resa necessaria anche perché la città aveva smesso di crescere demograficamente».

Ed è stata compiuta questa rivoluzione? «L'attività di quell'amministrazione si è caratterizzata per la discontinuità con una consolidata cultura urbana progressista».

Quindi si è andati in una direzione diversa.

«Partirei da un episodio specifico. A Tor Marancia, un'area grande 120 ettari di meravigliosa campagna romana vicina all'Appia Antica, erano previste enormi cubature, ma il soprintendente La Regina pose un vincolo che avrebbe impedito di costruire. I proprietari si sarebbero dovuti rassegnare».

E invece?

«E invece grazie a uno strumento appena introdotto, quello della compensazione urbanistica, quel milione e ottocentomila metri cubi di case furono trasferiti altrove, ma diventarono cinque milioni e duecentomila. L'amministrazione comunale riconosceva ai proprietari un "diritto edificatorio" che se non esercitato in quello veniva spostato in un altro luogo, ma con un enorme incremento. Insomma, si stabiliva l'intangibilità della rendita fondiaria, nonostante importanti giuristi avessero sostenuto che quel tipo di "diritto edificatorio" non esiste».

Quella scelta che conseguenze ha avuto?

«Si è stabilito un principio, poi adottato altre volte, per cui molti costruttori hanno potuto invadere la campagna romana con insediamenti anche enormi, non raggiunti da un trasporto pubblico adeguato, in una città che perdeva residenti ma che si disperdeva sempre di più. Quella norma, che in teoria è anche corretta, ha accompagnato l'urbanistica romana da Rutelli a Veltroni. Ed è il segno di un'involuzione culturale. L'urbanistica e la pianificazione del territorio sono state accantonate: il mercato non ne ha avuto bisogno e non ha più trovato ostacoli».

Poi è arrivato Gianni Alemanno.

«E con lui il progetto di trasformare l'Eur in pista per la Formula 1 con invasione di cemento. Contemporaneamente arriva il "piano casa", un ulteriore colpo alla cultura urbanistica. Ognuno si fa la sopraelevazione che vuole, consuma suolo e verde. Il progetto della città non è al centro degli interessi dei legislatori nazionali e regionali».

Roma può tornare a essere una città moderna?

«Sì, ad alcune condizioni. La prima è che non cresca più. La seconda, gettando lo sguardo oltre le questioni urbanistiche, è che faccia leva sulla cultura multietnica. Una cultura che si esprime simbolicamente intorno a Piazza Vittorio Emanuele, ora luogo popolato da immigrati e che fu costruita e abitata dagli immigrati di allora, i piemontesi venuti a Roma dopo il 1870».

Come spiegare la parabola politica ed elettorale della Lega? L'antropologa Lynda Dematteo affronta le questioni su cui si sono impegnati sociologi e politologi da un diverso punto di vista, provando a guardare il partito di Bossi «dall'interno». Il libro pubblicato in Italia con il titolo L'idiota in politica. Antropologia della Lega Nord (Feltrinelli, pp. 224, euro 16) si basa su una lunga ricerca etnografica realizzata dieci anni fa nella provincia di Bergamo, con l'osservazione partecipante al movimento, le interviste a testimoni privilegiati e la ricostruzione della storia e delle tradizioni culturali locali.

La Dematteo paragona spesso la Lega ai partiti populisti europei, e trova diverse analogie soprattutto con il Front National francese. Il Carroccio appare tuttavia come una formazione atipica perché «si tratta di un partito etnoregionalista e populista». Da questo punto vista, il lavoro sul campo dell'antropologa offre nuove chiavi di lettura per capire come sono state sviluppate le rivendicazioni autonomiste e i temi populisti che caratterizzano il movimento, mostrando come siano state presentati e gestiti per il reclutamento degli attivisti e i successi elettorali.

La scoperta principale è dichiarata fin dalle prime righe e nel titolo del volume: gli elettori lombardi per punire l'arroganza e la corruzione della classe politica hanno votato per la Lega perché sono stati sedotti da un «idiota in politica», Umberto Bossi. Fare l'idiota o presentarsi come lo «scemo del villaggio» può essere un registro comunicativo efficace per denigrare gli avversari e fare emergere contenuti inaccettabili dalle norme sociali condivise. La Dematteo richiama anche una altro significato del termine idiota, facilmente sovrapponibile alla prima: l'idiota è il soggetto votato «alla più irriducibile autoctonia e al ripiego identitario». In sostanza il successo di Bossi si fonderebbe soprattutto sul recupero e la valorizzazione di un aspetto della cultura popolare, presentato spesso nelle parate carnevalesche: una maschera capace al tempo stesso di dissacrare, irridere i potenti e di esprimere in modo immediato la propria autentica appartenenza al «luogo», ai suoi umori e alle sue idiosincrasie.

Dissimulazione disonesta

La Dematteo rievoca più volte la maschera del gozzuto Gioppino, folkloristico valligiano bergamasco, la cui idiozia era valorizzata come «un dono di natura»; e sostiene che, al pari di Gioppino, anche i dirigenti leghisti camuffano la loro astuzia avvolgendola nella grossolanità. Infatti, il registro comunicativo del «finto sciocco» serve per rendere udibile l'indicibile: con la derisione e l'autoderisione i leghisti riescono a far passare messaggi fortemente trasgressivi «usano il riso per abbattere le barriere morali e liberare le pulsioni aggressive». Possono essere così superate le norme condivise fino a sedimentare un senso comune che finisce per accettare tutto. Quando i dirigenti leghisti che hanno cariche istituzionali adottano comportamenti impropri e poco pertinenti per il loro ruolo, offrono una possibilità di espressione ai sentimenti di rivalsa della gente comune.

Il Carroccio può operare così un rovesciamento che rappresenta un «vecchio trucco del populista di destra»: i contrasti di natura economica sono sostituiti da conflitti nella sfera culturale. La presunzione di coloro che sanno è considerata come più intollerabile di quella esibita da coloro che hanno: l'ostilità popolare viene indirizzata contro le alte sfere della politica e della cultura, senza investire le élite economiche. E d'altra parte, la rabbia delle classi subalterne viene orientata su «colpevoli» esterni alla comunità locale (i meridionali o gli immigrati).

Lynda Dematteo ha ricostruito molti aspetti importanti del movimento leghista sulla base delle conversazioni informali raccolte frequentando la sede provinciale, e durante la partecipazione a manifestazioni, ronde, cerimonie e riunioni. L'immersione nella vita e nelle attività dei militanti di base leghisti è stata vissuta dalla ricercatrice come «un'esperienza piuttosto traumatizzante», che poteva diventare «destabilizzante ai limiti della schizofrenia». Per resistere l'antropologa ha dovuto dissimulare il disagio e la rabbia, ma anche assumere alcuni degli atteggiamenti di ironia e derisione diffusi fra i militanti leghisti, scavalcandoli talvolta nelle affermazioni più estreme: «mi sono lasciata "imbrogliare" dai loro ragionamenti alla rovescia al punto da sentirmi coinvolta nella loro finzione ideologica».

Il razzismo diffuso

Al di là di questa difficoltà psicologiche e relazionali incontrate dalla studiosa, il suo contributo offe una lettura del fenomeno leghista su cui riflettere. Ad esempio, la Dematteo ritrova nella Lega Nord un modello di partito di tipo leninista segnato da una leadership carismatica, una struttura piramidale, l'uso della propaganda da parte dei militanti, la volontà di inquadrare il quotidiano della gente attraverso molteplici forme di associazionismo. L'atmosfera e gli atteggiamenti che si possono cogliere frequentando le sedi del Carroccio sono però molto diversi da quella degli altri partiti. Domina un clima informale e familiare, simile a quello di molti bar dei piccolo centri del Nord. Si manifestano però anche forme di socialità «sovversiva», con l'esibizione di comportamenti considerati socialmente indecorosi e per questo trasformati in atti di ribellione. I nuovi arrivati si abituano facilmente a vivere in una sorta di «guscio regressivo» cementato dall'ostilità che si percepisce pervenire dall'esterno.

La Dematteo riconosce di aver provato, svolgendo la sua ricerca sul campo, «lo stano sentimento che il "vero" razzismo si trovasse all'esterno della Lega», cioè che i militanti leghisti si sentissero oggetto di stilemi razzisti da parte dei loro avversari politici.

Per quanto riguarda, la selezione dei candidati per le cariche pubbliche emerge una differenza da quelle praticate negli altri partiti. I leghisti distinguono chiaramente al loro interno i «matti» dai «presentabili», la base militante dai candidati alle elezioni. I «matti» sono spesso oggetto di apprezzamenti ironici e di derisioni, ma hanno la funzione di esprimere apertamente i sentimenti e l'ideologia sotterranea condivisa dagli altri. Per la ricercatrice i militanti leghisti non «formano anche quello che gli psicologi chiamano un "gruppo psichico" poiché è identificandosi con il capo che introiettano i valori del partito politico».

Autonomisti e clericali

I «presentabili», candidati come sindaci e amministratori, sono tuttavia destinati a essere eletti solo perché si presentano sotto le bandiere della Lega e non per le loro qualità personali. I rappresentanti del Carroccio dipendono infatti dalla leadership leghista e sono stati spesso sostituiti, rallentando e indebolendo il processo di istituzionalizzazione del movimento. Dallo studio, infatti, emerge il fatto che gli amministratori leghisti si sono segnalati non tanto per loro gestione degli enti locali, ma per le loro iniziative provocatorie rispetto i simboli dell'unità nazionale e contro immigrati, rom e mussulmani. La corsa alle poltrone è certo condannata dai «duri e puri», anche se non mancano casi in cui eletti hanno «approfittato dell'ondata leghista per fare i propri interessi».

La ricostruzione storica delle fonti dell'autonomismo nordista nella provincia di Bergamo fornisce molti spunti per spiegare perché vi sia una quasi totale sovrapposizione geografica tra ex province bianche e aree leghiste. Per l'antropologa le pratiche politiche attuali possono dunque essere spiegate in una prospettiva storica di lunga durata. La ricerca sul campo e la ricostruzione della delle tradizioni locali offrono infatti la possibilità di fare emergere le radici dell'autonomismo leghista e le ragioni dei legami stabiliti dal Carroccio con diverse aree territoriali. Lynda Dematteo mette così in evidenza la relazione carsica tra l'opposizione cattolica allo stato unitario nei primi decenni di vita nazionale e il leghismo. È noto che la tradizione cattolica antiliberale e il clero legittimista hanno sempre valorizzato il governo locale e le autonomie dallo stato centrale. Queste tradizioni sono state particolarmente importanti nelle valli bergamasche, che hanno spesso espresso diffidenza per la politica praticata dagli «abitanti della città».

Un folklore inventato

D'altronde, negli anni Cinquanta gli orientamenti autonomisti sono sempre riemersi nei movimenti che si formavano ai margini della Dc in alcune province periferiche del Nord. Gestiti da alcuni amministratori ed esponenti locali democristiani, questi orientamenti riflettevano un diffuso senso comune. Lo stesso giuramento di Pontida risale alla tradizione neoguelfa, al momento della riconciliazione tra i cattolici rimasti fuori dalla vita politica nazionale e lo Stato italiano. I leghisti ne hanno capovolto il simbolismo originario per trasformarlo in un patto contro Roma. Sono stati d'altra parte rielaborati anche i sentimenti di appartenenza locale. La valorizzazione della cultura dialettale, delle tradizioni folkloristiche e delle maschere carnevalesche sono serviti per creare un sentimento d'appartenenza identitario. In ogni singolo territorio la Lega ha così riattivato tutti gli stereotipi che creano legame sociale, utilizzandoli come delle bandiere.

La ricerca etnografica della Dematteo arricchisce la comprensione dei registri comunicativi originali della Lega e delle forme assunte dalla militanza di molte persone in passato estranee alla politica. La figura dell'«idiota in politica» può essere però solo una delle possibili articolazioni delle strategie comunicative attuate da una leadership carismatica e populista. Non vanno infatti dimenticate altre figure presenti nella cultura popolare a cui Bossi ha ridato vita: in particolare la figura del tribuno del popolo, che può esprimere e guidare la protesta della «gente comune». La Dematteo ricorda che «i francesi non ridono di Le Pen come fanno gli italiani di Bossi, poiché quest'ultimo non incute alcun timore, suscita solo compassione». Ma questa, però, non è la ragione principale del consenso raccolto dal Carroccio.

Per Barcellona è ormai finito il tempo dei Lápices de oro, i giovani architetti dalle «matite d'oro» che all'inizio degli anni Ottanta diedero man forte a Josep Antoni Acebillo, responsabile dei progetti urbani della città catalana, per riqualificarla iniziando da una nuova configurazione dei suoi spazi urbani. Nessuno sembra più interessarsi a quel periodo che, iniziato nel 1975 con la fine della dittatura giunse all'inaugurazione, nel 1986, delle XXV Olimpiadi.

In quel breve intervallo Barcellona si è trasformata nella città che conosciamo: l'impegno delle prime amministrazioni socialiste e l'abile regia di Oriol Bohigas - non solo architetto ma valente storico e critico - determinarono un cambiamento che per molti è stato assunto come modello di efficienza, qualità e pragmatismo. Nell'arco di circa quindici anni, attraverso una serie di processi di ristrutturazione, recupero e nuove edificazioni, riguardanti interi quartieri, isolati, ramblas, piazze e singoli edifici, dal centro alla periferia, il «modello Barcellona», accompagnato dallo slogan «la città ai cittadini», si è concretizzato non solo in una profonda modificazione degli spazi urbani, ma nel cambiamento della realtà sociale, nel suo passaggio da una economia prevalentemente industriale a una economia rivolta al terziario avanzato.

Ancora dopo la fine del grande appuntamento delle Olimpiadi, Barcellona ha visto proseguire, ancora per alcuni anni, il suo piano di rinnovamento urbano esteso all'intero territorio metropolitano soprattutto attraverso la realizzazione di una rete di infrastrutture (rondes) ritenuta fondamentale per soddisfare la sua vocazione di città dei servizi. Dopo il 1992, però, le cose sono cambiate: «La stabilità economica ha spesso vacillato - ha scritto l'urbanista Antonio Font - con cicli brevi e mutevoli e nel paese ha preso forma un processo preoccupante di regressione democratica».

Non era però immaginabile per l'economia spagnola e per la finanza internazionale un arresto dello sviluppo urbano e immobiliare della capitale catalana. Così ancora un grande evento le andò in soccorso: il Forum Universale delle Culture nel 2004. Una stagione ricca di progetti e speranze ebbe il suo epilogo nello show urbanism e nelle architetture egotiste del Forum. Il centro congressi - un enorme monolite triangolare degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron: di certo la loro opera meno convincente - insieme ai grattacieli sparsi un po' dovunque definiscono bene le velleità e il cinico espandersi della città in un'area, l'estremo orientale di Poblenou, solo qualche decennio prima densa di fabbriche e di uno storico quartiere popolare.

Le vicende urbanistiche della metropoli catalana sono oggi l'oggetto del saggio di Chiara Ingrosso Barcellona. Architettura, città e società, 1975-2015 (Skira 2011, pp. 191, euro 32). Un racconto apprezzabile, perché restituisce le molte contraddizioni che soprattutto nell'ultimo decennio hanno segnato la rigenerazione urbana di questa città, anche se sarebbe stato doveroso un più aggiornato e meno scontato apparato iconografico e non avrebbe disturbato una più chiara presa di posizione dell'autrice nei confronti delle vicende narrate. Evidentemente la paura dello «spettro» dell'ideologia o del politicismo - per usare le parole di Andrea Cortellessa - si agita anche nell'editoria di architettura. Si è così scelto di lasciare la parola ai protagonisti e per questa ragione ogni capitolo è intervallato da una serie di «conversazioni»: con Bohigas, Acebillo e Manuel Delgado. In particolare il punto di vista di Delgado, antropologo e professore universitario, merita di essere riferito perché evidenzia sia le relazioni delle vicende urbanistiche di Barcellona - tutte dentro i meccanismi dell'economia globale - sia la loro continuità con la gestione affaristica dei suoli e dell'edificato.

Delgado non ha timore ad affermare che pur rappresentando una «specie di tabù», in Catalogna non si ebbe un'autentica «transizione politica» e che è la «logica gattopardesca» a governare la città dagli anni del governo franchista a oggi. E se Bohigas avverte che il cambiamento di indirizzo della qualità urbana avviene con la conclusione dei progetti per le Olimpiadi, Delgado, con più coraggio, afferma che l'«aggressività» manifestata nella riqualificazione di quartieri del centro storico come il Raval e la Ribera non l'avrebbe avuta neppure il sindaco franchista Porcioles: d'altronde i funzionari pubblici non cambiarono con la transizione. È con realismo dunque che l'antropologo catalano racconta le speranze deluse di chi pensava di migliorare le proprie condizioni di vita dopo la dittatura e si è ritrovato invece a vivere in una «città per la classe media» che non tutti possono abitare e dalla quale quindi sono espulsi. «Non si può concepire la città come un affare - afferma Delgado -, non puoi vendere l'idea che viviamo nel migliore negozio del mondo, perché io non voglio vivere in un negozio. Non sono contro i turisti, sono contrario al fatto che ci siano solo turisti».

Lo sfruttamento esteso alle aree soprattutto centrali e fronte mare a scopi turistici e commerciali continua a essere una delle componenti di cui si nutre la gentrificazione: termine con il quale si indica la sostituzione residenziale di vecchi abitanti in un quartiere. Barcellona è uno dei casi più rilevanti di questo fenomeno e Delgado l'ha come pochi studiato in qualità di responsabile del «Grupo de Investigación sobre Espacios Públicos».

Riabilitare un quartiere non può significare espellerne gli abitanti per consegnarlo, secondo le regole del marketing urbano, a una «rappresentazione». Questa non ammette l'esistenza di alcuna conflittualità sociale, ma tutto deve essere «igienizzato»: con i nuovi abitanti più agiati, nuovi commerci e attività. Ci domandiamo con Delgado se la multiforme «società urbana» saprà aspettare perché si affermi un diverso uso della città, anche se è vero che nell'attesa si «radicano la nostra speranza e il nostro ottimismo».

Nel suo saggio l´ex magistrato spiega l´importanza dell'impegno. Altrimenti i governi diventano oligarchie 
Le funzioni non si esauriscono nell´esercitare o meno il proprio diritto di voto

La democrazia presuppone una precisa considerazione degli esseri umani e delle caratteristiche delle relazioni che tra loro intercorrono. La democrazia non è uno strumento compatibile con gli atteggiamenti infantili, e se non si tiene conto della fatica che la crescita personale comporta per superare tali atteggiamenti non si può arrivare a capirla (...).
Il popolo governa agendo. E siccome il popolo non esiste se non esistono le persone che lo compongono, il popolo governa se agiscono le persone di cui è costituito. Si è considerata la forma, si è vista la sostanza. Si è tratteggiato, cioè, lo schema di regole e di contenuti che servono perché possa funzionare la democrazia. Tutto questo, però, ancora non basta: crea i presupposti perché il popolo governi, ma affinché si realizzi la democrazia è necessario che il popolo, nell´ambito delle regole, effettivamente governi.

Una citazione aiuta a comprendere meglio la questione. 
L´articolo 1 della Costituzione italiana afferma nel primo paragrafo che «L´Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». L´espressione è interpretata storicamente attribuendo alla parola «lavoro» il significato corrente di attività produttiva. Il lavoro quindi fonda la Repubblica democratica perché è lo strumento attraverso il quale la persona si realizza, è il mezzo per l´emancipazione personale e per la promozione della società.

Una lettura in chiave diversa aiuterebbe a capire cosa intendo: l´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro in quanto i cittadini lavorano, e cioè si impegnano, perché sia una Repubblica e una democrazia. È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inerti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge. 
Così come la monarchia si trasformerebbe in oligarchia se il sovrano assoluto si disinteressasse completamente di svolgere le sue funzioni e gli subentrasse, di fatto, la corte. Allo stesso modo governerebbe, per esempio, il solo presidente del Consiglio dei ministri, se tutti i ministri e il Parlamento tralasciassero in concreto (pur conservandole apparentemente) le loro funzioni e il popolo si limitasse a esprimere con indifferenza il proprio voto alle scadenze elettorali, o magari a omettere, per una parte consistente dei suoi membri, persino quello. Non si tratta, però, soltanto di questioni di remissività da parte delle istituzioni nei confronti di una sola o di poche persone, che assumerebbero così il potere spettante ad altre sedi; non si tratta soltanto dell´esercitare o meno il diritto di voto. Il problema riguarda più in generale l´abdicazione del popolo a governare.


Per comprendere come il comportamento delle persone che compongono il popolo incida sull´attuazione della democrazia si può paragonare la società a una famiglia. Le persone che compongono la famiglia compiono di continuo azioni che riguardano se stesse individualmente e azioni che riguardano la famiglia nel suo complesso. Azioni generalmente programmate, dall'ora del risveglio passando per le varie faccende quotidiane fino al momento di coricarsi. 
La programmazione individuale riguardante le proprie sfere di competenza incide non soltanto sulla vita di chi l´ha fatta, ma anche su quella degli altri: alzarsi alle dieci e arrivare regolarmente tardi al lavoro comporta il rischio di essere licenziato, presentarsi sempre tardi a scuola quello di non essere promosso, e il licenziamento e la bocciatura si rifletterebbero sull´intera famiglia. Altri aspetti organizzativi riguardano la famiglia nel suo complesso: fare la spesa, riordinare la casa, decidere gli acquisti e i viaggi, e così via. Dalla programmazione complessiva e dalla attuazione della programmazione risulta la qualità della vita del la famiglia, e cioè dei suoi membri. 
Nella famiglia patriarcale la programmazione, anche delle sfere più personali, era riservata al padre (il monarca), che poteva delegare (magari tacitamente e per tradizione) le parti più ripetitive e meno qualificanti alla moglie, spettando per tutto il resto a questa e ai figli il compito di eseguire, cioè di comportarsi secondo le disposizioni ricevute. Ora, in una famiglia attuale gli indirizzi sono decisi concordemente dai coniugi: il Codice civile italiano, articolo 144, stabilisce che «I coniugi concordano tra loro l´indirizzo della vita familiare»; ma anche i figli partecipano alle decisioni che li riguardano, quando siano abbastanza grandi per farlo. Salvo che uno dei coniugi (o i figli, per quel che compete loro) si disinteressi, lasci fare, non partecipi, nel qual caso gli indirizzi, le decisioni sono presi dall´unica persona che si impegna a farlo. È questa persona che decide cosa comperare facendo la spesa, dove andare in vacanza e così via, e gli altri si adeguano. Non decidono, ma subiscono la decisione altrui.


Quel che succede in famiglia succede nella società: nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all´indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l´impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l´impegno, la partecipazione, il governo va ad altri.

Declina, quest’estate, sommersa dai frastuoni delle borse che puntuali rispecchiano lo stato di totale impasse culturale e politica in cui il mondo occidentale appare impantanato. In queste ore, nel nostro paese ancora più che altrove appare chiara quest’impotenza che ottenebra le menti di chi governa, incapace se non di riproporre le ricette che ci hanno condotto in questa situazione.

E se le prime pagine sono riservate alle doglianze ipocrite sull’inevitabilità dei sacrifici cui il cambiamento globale ci costringe, le misure intraprese e ciò che sta accadendo a vari livelli sul territorio, ci consegnano un quadro di inquietante continuità rispetto al “prima della crisi”.

Mentre il mondo cambia, l’Italietta continua, con perversione ormai suicida, ad attaccarsi all’unica ricetta che conosce, da decenni, inalterata: il cemento. Dai piani casa rilanciati in queste settimane da alcune regioni, alle grandi opere infrastrutturali, destinate, come ormai sanno tutti, a non decollare mai, ma che produrranno, prima di un’inevitabile affossamento, danni economici e ambientali ingentissimi. Dallo stravolgimento della legislazione sui Parchi e le aree protette in atto anch’esso da parte delle regioni (su tutte, Piemonte e Lombardia) al demenziale moltiplicarsi dei progetti di porti turistici: vera peste che si sta abbattendo sui nostri litorali.

Continua, incessante, lo smontaggio delle residue tutele del territorio, attraverso il grimaldello delle “semplificazioni amministrative” (da ultime quelle inserite nel così detto “decreto sviluppo”, n.70/2011) e l’azzeramento, sia culturale che gestionale degli organi preposti alla tutela. Questi ultimi, da tempo ormai incapaci di elaborazioni culturali innovative e colpevolmente abbandonati in un limbo di paralisi funzionale dai devastanti tagli di bilancio (che ancora si succedono), appaiono per di più ormai ridotti, soprattutto nei ruoli di vertice, all’acquiescenza generalizzata nei confronti dei diktat dei politici, di qualunque versante. Di queste ore un’intervista al ministro Galan che, nel vuoto di idee che lascia trasparire, non manca di sottolineare come il vero compito dei Soprintendenti sia quello “di essere capaci di accompagnare i “sì”. Senza commento.

Fra le aree del nostro territorio sulle quali si concentrano da tempo simili operazioni, quella di Venezia e della sua laguna sembra davvero un bignami nel quale siano condensati tutti gli aspetti deteriori di questa fase storica. Speculazione edilizia, commissariamenti, sfruttamento turistico selvaggio, abbandono di ogni pratica di monitoraggio territoriale, grandi opere a devastante impatto ambientale: l’intera panoplia dei fenomeni che nel loro insieme testimoniano la resa incondizionata del pubblico nei confronti degli appetiti economici del privato, quasi sempre in contrasto con le esigenze della comunità.

E’ quindi più che opportuna, necessaria questa collana che la casa editrice Corte del Fontego ha inaugurato da pochi mesi. Occhi aperti su Venezia/An Eye on Venice (i testi più significativi saranno tradotti in inglese) si compone ormai di 8 piccoli preziosi libretti dedicati, ciascuno, ad illustrare un aspetto della vicenda territoriale di questo sistema così complesso e dei rischi gravissimi cui è sottoposto.

Marina Zanazzo, editore e autore del progetto, e Lidia Fersuoch, direttore scientifico, hanno scelto sapientemente di mescolare temi di cronaca (linea rossa) a brevi illustrazioni di argomenti storici, architettonici, urbanistici (linea blu) o legati alla Laguna e alle acque veneziane (linea verde): dall’archeologia subacquea alla storia della sapienza di governo del delicatissimo ecosistema lagunare, protratta per secoli con prodigiosa efficacia e incrinata, in pochi decenni, dall’insipienza e avidità umane.

In realtà, i libretti, di esemplare, anglosassone chiarezza, pur perfettamente autonomi, si richiamano l’un l’altro, non solo perché l’area geografica di riferimento è la stessa, ma piuttosto perché gli elementi e gli eventi di cui parlano si intersecano a vari livelli.

Così, ad esempio, se Benettown, di Paola Somma, racconta l’evoluzione dei rapporti di forza fra Comune e grandi investitori, fra i quali in particolare, spicca per aggressività speculativa il gruppo Benetton, esito di quel processo di mercificazione è descritto ne Lo scandalo del Lido, di Edoardo Salzano, che ripercorre quanto sta succedendo, proprio in questi mesi, sull’isola lagunare, il cui assetto rischia di essere stravolto per sempre da una serie di operazioni immobiliari scarsamente trasparenti.

Si tratta di un processo di svendita progressiva del territorio da parte dell’Amministrazione pubblica iniziato negli anni ’80, quando il padrone della città era, di fatto, Gianni De Michelis, ma perseguito con lucidità soprattutto negli anni ’90, dalle amministrazioni Cacciari che hanno trovato immediata sponda nel governo regionale, retto in quegli stessi anni da Giancarlo Galan, ora tornato, nel suo mutato ruolo di Ministro dei Beni Culturali, a completare l’opera al Lido.

Da Tessera City (1.800.000 metri cubi di megalottizzazione sulla gronda lagunare per creare “la città del divertimento e dello sport”), alle speculazioni edilizie nel Parco di San Giuliano, dalla metropolitana sub lagunare alla stazione dell’AV destinate a compromettere la piattaforma di argille fossili (il caranto) che regge le isole e i centri abitati: infrastrutture devastanti e “valorizzazione” a senso unico si sommano all’ideologia delle Grandi Opere (il Mose) e del turismo predatorio, senza regole, né limiti nella compromissione di un sistema, quello lagunare, mantenuto miracolosamente in equilibrio da una capacità di governo del territorio ineguagliata nel tempo.

Inesistenti, da troppi anni a questa parte, gli organismi deputati a salvaguardare il paesaggio e il centro storico più prezioso e fragile al mondo: negli ultimi anni specialmente, i Soprintendenti, prontamente adeguatisi alla nuova versione “light” della tutela propugnata in via del Collegio Romano, hanno regolarmente avallato senza frapporre contrasti, qualsiasi progetto. Dal Lido al Ridotto del Teatro San Marco, al Fontego dei Tedeschi sono state approvate senza batter ciglio devastanti trasformazioni di immobili di pregio in contesti urbani delicatissimi e i Soprintendenti perfettamente calati in quel ruolo di “facilitatori” prefigurato, come ricordavamo, dal Ministro Galan, si sono ben guardati dal frapporre qualsiasi “lungaggine burocratica” (tale era la definizione di vincolo per Massimo Cacciari) al desiderio degli imprenditori – mecenati. Né poteva mancare, a rendere ancor più semplice il compito di questi ultimi, la figura del Commissario di Protezione Civile, chiamato, al Lido, a “semplificare” le operazioni di speculazione immobiliare.

L’insieme di queste vicende raffigura una coazione a ripetere tanto tenacemente reiterata quanto suicida negli effetti ed illustra in maniera esemplare il processo di impoverimento, non solo economico, dell’apparato pubblico: in questo gioco ad armi impari in cui è ormai il privato a dettare le condizioni, oltre alla svendita del proprio patrimonio immobiliare, l’Amministrazione pubblica (dai Comuni, alle Regioni, al Mibac) ha conosciuto, in questi ultimi anni, un pauroso arretramento delle proprie capacità di governo cui ha reagito spesso con una limitazione degli strumenti di controllo e della trasparenza: si può insomma affermare che oggi i nostri Comuni non solo siano molto più poveri, ma anche più inadeguati e meno democratici.

Contro questa situazione, così come un po’ dovunque in Italia, anche a Venezia la linea di resistenza è stata costruita dal basso, dai molti comitati e Associazioni di cittadini che, con alterno successo, ma con sempre maggiore consapevolezza ed entusiasmo, contrastano i vari progetti di speculazione e stravolgimento degli equilibri lagunari.

A tale patrimonio di risorse attinge “Occhi aperti su Venezia”, ma al contempo ne va diventando uno degli strumenti essenziali di lotta, costruendo una base di conoscenza indispensabile per orientarsi in vicende molto complesse e con attori assai agguerriti: come ci ha insegnato Lucio Gambi, occorre “conoscere per agire”.

Ma non solo ai cittadini di Venezia questa serie di libretti si rivolge, bensì a tutti coloro che nel miracolo della città lagunare scorgono la lezione assolutamente attuale della necessità di una manutenzione (di un governo) continuo del territorio. E l’urgenza di scacciare, come ci ha recentemente ricordato Jean Clair, l’orrore, il furore, il rumore, per riportare “la grazia e la conoscenza”.

Per acquistare i libretti

Dalla mattina di martedì 13 settembre fino a tutto giovedì saranno esposti nella sala a pianterreno di Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, numerosi tavoli di frutta fresca di varie regioni (Lazio, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Calabria, ecc.). Fin qui nulla di insolito. L’insolito sta nel fatto che pere, mele, uve bianche e nere, susine, prugne, non provengono da alberi “normali”, bensì da piante secolari o addirittura plurisecolari, cioè dai Patriarchi della Natura. La Provincia di Roma ha infatti promosso il censimento dei Patriarchi esistenti sul proprio territorio e saranno il presidente Nicola Zingaretti e l’assessore all’Agricoltura Aurelio Lo Fazio ad illustrare l’operazione compiuta dai tecnici volontari dell’Associazione Nazionale Patriarchi d’Italia presieduta e animata dall’agronomo romagnolo Sergio Guidi.

I primi risultati di questo censimento in provincia di Roma – che segue quello integrale degli alberi plurisecolari (oltre mille) già completato in Emilia-Romagna e contenuto in due volumi ricchi di schede tecniche e fotografie – sono quanto mai interessanti. Guidi e i suoi collaboratori hanno ad esempio rintracciato presso Palombara Sabina un monumentale ciliegio ormai bicentenario che è uno dei più grandi mai censiti, dotato di un tronco di circa 3 metri di circonferenza. Sulla strada da Velletri a Nemi è stato rinvenuto l’Olivò (come lo chiamano gli abitanti), un olivo più che millenario che è probabilmente il più antico del Lazio. Sul Monte Soratte, luogo sacro per gli antichi, i tecnici hanno identificato un intero querceto di straordinarie proporzioni. Ma altre scoperte attendono i volontari dell’Associazione Nazionale Patriarchi che ha sede a Forlì dove hanno già trovato posto migliaia di talee di questi alberi antichi o addirittura remoti (il più vecchio del Paese è l’olivo di Luras, in Sardegna, che conta 3800 anni), che consentiranno di studiare e di perpetuare il germoplasma di essenze arboree che hanno resistito ai secoli e che quindi hanno concorso e concorreranno alla ricca biodiversità italiana. Pochi sanno che, mentre la Spagna conta 5-6 specie di olivo, il nostro Paese ne allinea alcune centinaia. Ed è soltanto un esempio.

Nel 150° anno dell’Unità d’Italia l’Associazione Patriarchi, insieme al Comitato per la Bellezza, vuole inoltre ricordare alcuni alberi che hanno accompagnato il nostro Risorgimento: il querceto del Gianicolo dove per mesi giovani e giovanissimi di tutta Italia difesero la Repubblica Romana del 1849; il frassino di Campoferro presso Voghera dove la Piccola Vedetta Lombarda, cioè l’adolescente Giovanni Minoli che informava i cavalleggeri piemontesi durante la vittoriosa battaglia di Montebello, nel 1859, venne abbattuta a fucilate dagli Austriaci; il maestoso cedro del Libano piantato a Varese nello stesso anno alla presenza di Vittorio Emanuele II; il pino che Garibaldi dedicò alla figlia Clelia a Caprera dopo la sfortunata spedizione nel 1867 per liberare Roma dal papa-re e altri ancora. Senza dimenticare che l’Università di Firenze ha “clonato” di recente l’olmo, ormai vicino al disseccamento, che nel 1799 venne alzato a Montepaone di Catanzaro come “albero della libertà” durante la Repubblica Partenopea.

C’è tanta ricchezza naturalistica, c’è tanta storia negli alberi di tutta Italia e nei loro frutti, storia politica, anche, come nel Querceto del Gianicolo. Da non dimenticare. E il lavoro degli infaticabili amici dei Patriarchi guidati da Sergio Guidi (che curano anche il Giardino dei Frutti dimenticati del poeta Tonino Guerra a Pennabilli) va avanti, andrà avanti, grazie alla rete dei tanti collaboratori ormai attiva in tutta Italia. Uno delle ultime realizzazioni: i Giardini dei Patriarchi, creati coi loro “figli” a Villa Ghigi sulla collina bolognese, nel centro di Cesenatico, a Gattatico presso il Museo dei fratelli Cervi, a Ferrara nel verde del centro storico raccontato da Giorgio Bassani nel “Giardino dei Finzi Contini”.

Il volume di Adriano Labbucci, Camminare, una rivoluzione, Donzelli, 2011, viene presentato il 13 settembre a Roma, h. 18.30 presso la Libreria La Feltrinelli, Galleria Alberto Sordi, piazza Colonna 31/35 da Giuseppe Cederna, Vezio De Lucia e Lorenzo Romito.

«Non c’è nulla di più sovversivo, di più alternativo al modo di pensare oggi dominante. Camminare è una modalità del pensiero. È un pensiero pratico. È un triplo movimento: non farci mettere fretta; accogliere il mondo; non dimenticarci di noi, strada facendo».

«Avviso ai lettori. Lasciate stare. Se cercate insegnamenti sul camminare all’ultima moda, con tanto di lezioni, corsi universitari e relativi professori, oppure sul camminare come cura di sé, o infine pagine e pagine di resoconti di camminate che si perdono invariabilmente tra il noioso, l’elegiaco o il paranoico, ripeto a scanso di equivoci: lasciate stare. Questo libro non fa per voi». Inizia così l’itinerario che Adriano Labbucci suggerisce al lettore e che del camminare si serve come di una bussola per percorrere un paesaggio insieme geografico e mentale, alla ricerca di punti di riferimento, alla scoperta di un modo diverso per impostare il nostro rapporto con gli altri e con il mondo che ci circonda, in un tempo invece in cui forse un po’ tutti la bussola la stiamo perdendo. Al punto che il camminare non solo è un’attività ormai poco praticata, ma spesso è anche guardata con sospetto e fastidio; un atteggiamento che può sfociare in frasi paradossali come questa: «Il pedone rimane il più grande ostacolo al libero fluire del traffico». Potrebbe sembrare una battuta di Woody Allen, ma in realtà è stata pronunciata da un gruppo di urbanisti consulenti del sindaco di Los Angeles: si tratta, scrive l’autore, dell’«espressione tragica e surreale di quel mondo capovolto che è il nostro». Così, pagina dopo pagina, scopriamo che camminare vuol dire pensare. È un pensiero pratico. È un modo per ragionare di libertà, di uguaglianza, di resistenza, di progresso, di bellezza e di tante altre cose ancora. Di questo il libro racconta: di pensieri, idee, categorie, miti. E di persone che camminando ci hanno aiutato a comprendere meglio il mondo e noi stessi. Senza farci risucchiare dai ritmi frenetici della nostra vita, perché qualche volta camminare è meglio che correre.

Inizia domani su questo sito la pubblicazione de Il libro nero dell’Alta velocità. Il titolo è molto esplicito, eppure non esprime tutto quello che racconta o che nelle mie intenzioni vorrebbe raccontare. Il titolo che aveva accompagnato la scrittura, e che avevo da tempo comunicato a diversi amici, ai quali chiedo venia, era Ladri di tutto ad Alta velocità.

Il titolo scelto è quello più appropriato e il merito è di un caro amico che, in zona cesarini, me l’ha consigliato. In effetti il libro ricostruisce puntualmente la storia di questa grande opera, le cifre clamorose, le astuzie e i furbi che la punteggiano, i silenzi che la circondano, le scelte tecniche assurde, le bugie consapevoli e inconsapevoli, la clamorosa bugia del finanziamento privato, la truffa ai danni dello Stato e dell’Unione Europea.

Il racconto però incrocia le principali vicende della lunga e travagliata transizione dalla “prima” alla cosiddetta “seconda Repubblica”. Da quella della privatizzazione delle aziende pubbliche senza liberalizzazione a quella dell’ingresso nella moneta unica comunitaria e delle furbizie per eludere le regole europee. Da quella dei boiardi di Stato, con le loro corti di faccendieri, a quella dei magistrati e degli avvocati collusi, guidati non dalla legge ma pilotati e al soldo degli indagati. Da quella dei conflitti di interesse diffusi, coperti e alimentati dal conflitto di interesse per eccellenza, a quella della questione morale.

Nel libro queste vicende rimangono comunque nello sfondo, mentre la storia dell’Alta velocità, nelle intenzioni, viene proposta come chiave di lettura indispensabile di quello che è diventato un modello, il modello Tav, replicato negli Enti locali dai mariuoli dei partiti post-moderni, non più affaccendati a celebrare il rito a rischio della tangente ma trasformati in sanguisughe delle Istituzioni. In questo modello lo scambio tangentizio, prima celebrato da soggetti distinti e separati, è diventato intreccio e compromissione, con effetti ben più devastanti della Tangentopoli scoperchiata da Mani pulite. Nel modello Tav la spesa pubblica, quella nota e quella mascherata, diventa essa stessa una pseudo tangente che consente di allestire tavole imbandite per l’abbuffata dei partiti, tutti; delle imprese di diritto privato di proprietà pubblica, tutte; delle imprese private cooptate nel banchetto da boiardi e faccendieri o penetrate nell’affare in cambio di favori o piaceri ai tanti mariuoli che popolano i cosiddetti partiti della seconda repubblica.

La scrittura, confesso con tanta rabbia, è stata accompagnata dal titolo immaginato, e i ladri di tutto erano con tutta evidenza identificati nei boss e nelle oligarchie cooptate di questi partiti, ormai alieni alla politica e alla democrazia.

“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Su queste due righe, articolo 49 della Costituzione, si fonda la democrazia parlamentare del nostro Paese. Il metodo democratico con il quale i partiti concorrono è stato più volte regolato con legge dello Stato fino all’odierno sistema fissato nel “Porcellum”. In questi giorni si stanno raccogliendo le firme per abrogare le norme che hanno consegnato ai boss la nomina dei parlamentari. La mia firma ci sarà, ma la vittoria del referendum però non risolve la “questione”, anzi rischia di diventare lo specchietto delle allodole per garantire la sopravvivenza di questi partiti: riconsegna ai cittadini l’arma della preferenza su candidati comunque selezionati(?) dai boss e sotto-boss. La questione rimane quella che i padri costituenti non hanno chiarito e che tutti i Parlamenti che si sono succediti fino ad oggi non hanno mai voluto affrontare: che cosa sono i partiti? Come si costituiscono e come garantiscono il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente?

Possiamo anche riformare il sistema per concorrere, ma se il diritto di associarsi rimane senza alcuna definizione, il pallino rimane comunque in mano alle oligarchie di questi partiti che “..non sono più organizzazioni del popolo, formazioni che promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camerille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”. La questione è e rimane quella scolpita da Enrico Berlinguer, ripresa e citata ogni qual volta emergono vicende di ordinaria corruzione. Ma la questione posta andava ben al di là del tema della corruzione. Non la questione morale era il tema, o almeno non quella riferita solo alla corruzione, ma quella declinata nel rapporto perverso fra partiti e istituzioni, nella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti in quanto tali, nella partitocrazia senza politica che usa ed abusa della cosa pubblica. Sono loro i ladri di tutto ad alta velocità. Sono loro che, senza regole, e senza più le prassi dei partiti solidi della prima Repubblica, ci stanno rubando tutto; anche la sola speranza in un futuro meno buio di quello che la manovra finanziaria in discussione in queste ore sta disegnando.

Lo segnalo in breve nella premessa: “La forza della concreta realtà economica e sociale nel mondo ha costretto tutte le accademie a riaprire le pagine della storia, mentre queste pagine, mille volte più modeste, disveleranno a molti un dato nascosto nelle pieghe della contabilità dello Stato: alla voragine del nostro debito pubblico noto vanno aggiunti i debiti per miliardi e miliardi di euro occultati nei bilanci delle SpA pubbliche e nei Project financing modello Alta Velocità”.

Questo debito occulto nella contabilità nazionale non esiste, ma è debito pubblico a tutti gli effetti, debiti a babbo morto, nel quale pascola indisturbato un esercito di boiardi, faccendieri e marioli sotto i vessilli di partiti liquidi che corrodono i contenitori della spesa pubblica mascherata dal finto privato.

I ladri sono loro, i partiti senza definizione e senza regole. Nel libro, questo tema è solo accennato, è una semplice denuncia, poco approfondita, con la quale, non a caso, si chiude l’ultimo capitolo, quello che maggiormente evoca il titolo che ha accompagnato la scrittura e le ragioni che mi hanno spinto a scriverlo: “Senza la definizione di regole per la formazione e la gestione dei partiti, qualsiasi riforma elettorale che metta mano alle regole del consenso, o qualsiasi riforma della pubblica amministrazione che detti regole per i tecnici, i politici e i rapporti coi privati, consegnerebbe comunque il governo dei processi a questi partiti indefiniti, che – dentro e grazie al trionfante modello Tav – sono diventati, strutturalmente, catalizzatori di illegalità e ladri di risorse, ladri di democrazia e ladri di futuro: appunto, ladri di tutto”.

Anche il sottotitolo che avevo immaginato, La tangentopoli dello stato post-keynesiano, tradiva la rabbia che ha accompagnato la scrittura. Quello scelto, Il futuro di tangentopoli diventato storia, anche in questo caso è merito di un altro carissimo amico e rende meglio il senso e la lettera del mio lavoro.

Buona lettura

L’autore è forse il massimo esperto italiano di appalti pubblici, che da decenni segue, illustra e denuncia nei loro risvolti criminali e in quelli “solo” incivili

Le ricette per uscire dalla crisi oscillano tra un liberismo light o un liberismo ancora più radicale di quello che ha prodotto il default di alcune economie nazionali . Un sentiero di lettura a partire dai saggi dello studioso inglese
 
Rimedi omeopatici che costringono a pensare i rapporti sociali come una totalità da destrutturare La finanza è il nemico, mentre l'etica del lavoro, la comunità e il rigore sono l'ancora di salvezza del capitalismo

È stata più volte decretata la sua morte negli ultimi dieci anni. Il primo annuncio del suo decesso è stato dato dalle armate imperiali statunitensi con l'invasione dell'Afghanistan in risposta all'attacco delle Torri Gemelle. Poco importava se nelle operazioni militari afghane erano stati coinvolti molti volenterosi non americani. L'11 Settembre aveva sì reso evidente che la globalizzazione era la realtà in cui uomini e donne vivevano, ma l'ordine doveva essere riportato, ripristinando un tradizionale sistema di relazioni statali incardinato, va da sé, negli Stati Uniti. Poi è stata riportata in vita, quando quelle stesse armate, assolto il compito che si erano date, hanno puntato verso l'Iraq. In quell'occasione, la coalizione militare e politica non poteva che essere globale, perché ad essere minacciato era lo stile di vita occidentale divenuto egemone e appunto globale. Su un altro versante, la globalizzazione era valutata sia come espressione della marxiana tendenza cosmopolita del capitale che come possibilità di costruire un'alternativa al liberismo che ignorava le frontiere per fare profitti. Il peggio doveva però ancora venire. E quando la valanga dei titoli tossici ha investito il mondo, una delle prime vittime annunciate è stata sempre la globalizzazione.

In nome dello Stato

La globalizzazione non è però un fenomeno naturale. È l'esito di una trasformazione del mondo che non coinvolge solo l'attività economica, ma anche le relazioni sociali, come emerge dal ponderoso saggio dello studioso inglese Luke Martell Sociologia della globalizzazione (Einaudi, pp. 406, euro 26). A essere modificati, assieme al modo di produzione, sono la cultura, i media, le migrazioni. Una trasformazione irreversibile dai contorni tuttavia molto diversi da quelli tratteggiati dalla saggistica mainstream. Lo stato, infatti, non è scomparso. Semmai, è il suo ruolo ad essere stato modificato, diventando l'«interfaccia» tra la dimensione nazionale e quella globale. La cultura, cioè quell'aspetto del vivere sociale che rispecchia le relazioni sociali, presenta sia caratteristiche di omologazione che di forte differenziazione, elevando il pastiche a elemento costitutivo delle identità sociali. Infine, viene sconfessato il dogma in base al quale il libero mercato, meglio il capitalismo, non si può sviluppare in presenza di uno stato che interviene sia come fattore regolatore che in qualità di imprenditore nell'attività economica. Lo testimonia l'ascesa dei paesi del cosiddetto Bric, cioè il Brasile, l'India e soprattutto la Cina.

C'era dunque un elemento che destava il sospetto che l'annuncio del suo decesso fosse dubbio: a decretarne la morte erano quegli stessi organismi sovranazionali che l'avevano incensata fino a pochi mesi prima. E quando in una girandola di incontri dai nomi sempre più in codice - G7, G8, G22, G2 - è stato stabilito che l'annuncio della sua scomparsa era stato troppo prematuro, perché le soluzioni alla crisi non potevano che essere globali, la certezza che la globalizzazione fosse un «significante vuoto», come amava ripetere Slavoj Zizek, non è stata mai più contestata. Poteva cioè essere riempito di ogni concezione, visione del mondo, dei rapporti tra le classi, di fattori geopolitici, di sinuose e performative concezioni sulla presenza di una cultura omologata e omologante vigente tanto a Tokyo, quanto a Nairobi. La globalizzazione era cioè rappresentata come l'araba fenice, perché risorgeva sempre dalle sue ceneri. E tuttavia, si è fatto strada, nei think tank neoliberisti, un sentimento di imbarazzo, di pentimento che ha coinvolti studiosi, uomini politici spinti dall'urgenza di immolare la globalizzazione sull'altare del libero mercato. Il capitalismo poteva cioè essere salvato solo uccidendo la globalizzazione.

Il carnet dei pentiti della globalizzazione è abbastanza nutrito. Ci si può trovare il nome di Giulio Tremonti, convertito ai valori sempiterni del lavoro (salariato), della famiglia e della comunità territoriale, ma teorico di un rigore che ha come guardiano consapevole quell'Europa monetaria che pure molte responsabilità ha nell'aver determinato la situazione attuale. Ma si possono trovare anche altri nomi, poco noti in Italia, ma molto autorevoli nel loro paese, come Richard A. Posner, giudice della Corte Suprema statunitense per volontà di Ronald Reagan che ha mandato alle stampe un libro presentato come una seria e puntuale autocritica sul suo pensiero a favore della globalizzazione. Già il titolo è tutto un programma - Un fallimento del capitalismo, Codice edizione, pp. 218, euro 21 -, anche se le conclusione non lascia dubbi sulla volontà dell'autore di salvare proprio quell'american way of life minacciata proprio dalla globalizzazione. Con uno stile secco, a tratti algido, il giurista americano elenca tutti gli elementi che possono contribuire al crollo del capitalismo: la finanza liberalizzata, la cancellazione di fatto del diritto del lavoro, una modifica dei rapporti di forza nella società a favore delle imprese. Una volta individuate le cause che alimentano la crisi sociale, Posner sposta l'attenzione sul fattore determinante il declino dell'economia made in Usa: l'abdicazione dello stato-nazionale nel regolare l'attività economica.

La lettura del volume crea un certo spaesamento, quasi ci si trovi tra le mani il testo di un keynesiamo «radicale» o di un populista di sinistra europeo. L'aspetto più interessante non sta tanto nelle ricette che Posner propone - etica del lavoro, rispetto dei diritti dei lavoratori, un protezionismo light - bensì nella descrizione di come è cambiata la forma-stato statunitense in oltre vent'anni. Da questo punto di vista, sviluppa una tesi in base alla quale il neoliberismo non è una vera e propria teoria economica, bensì una sorta di ideologia tesa a legittimare il capitale finanziario. Da qui le decisioni, prese da diverse amministrazioni, compresa quelle del democratico Bill Clinton, che hanno modificato le leggi che hanno retto la società statunitense dagli anni Trenta.

I predatori della ricchezza sociale

Fosse solo questo, il neoliberismo potrebbe essere consegnato alla storia come una breve parentesi dello sviluppo capitalistico, ridimensionando il potere del capitale finanziario. Ma se una cosa emerge dalla crisi economica attuale è il forte intreccio tra produzione e finanza, al punto che ricordare quell'invito, anzi metodo, a analizzare il capitale come una totalità è un buon antidoto al rumore di fondo prodotto da chi, invece, continua a invocare le virtù della economia reale (capitalistica) contro il carattere parassitario della finanza.

A differenza, però, dal passato la finanza non è solo un aspetto del capitalismo, bensì un vero e proprio strumento di governance delle società contemporanee. La cosiddetta finanziarizzazione della vita sociale, che ha carattere predatorio della ricchezza sociale prodotta, è il vero fattore che tiene il centro della scena, sebbene Posner non riesca a coglierlo perché smarrito dal fatto che, sebben ne sia uno dei custodi, l'anglosassone rule of law sia riuscita a demolire l'impianto normativo emerso dalla Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento che ha garantito al capitalismo trenta anni di sviluppo economico ininterrotto.

L'irreversibilità della globalizzazione costringe a misurarsi con le caratteristiche del capitalismo contemporaneo, dunque a frequentare gli atelier contemporanei della produzione. Una discesa negli inferi del lavoro salariato che ha le tappe nell'industria culturale, nella ricerca scientifica, nell'università, nella produzione di software, nelle fabbriche globali, tutti siti produttivi dove l'intreccio tra finanza e produzione è fattore costitutivo. E dove è altrettanto immanente la finanziarizzazione dei servizi sociali. Ed è questo lo scenario in cui collocare il volume dell'economista Dani Rodrick La globalizzazione intelligente (Laterza, pp. 380, euro 20).

Dani Rodrick è un liberal che già negli anni Novanta del Novecento aveva messo in dubbio che il Washington consensus potesse garantire stabilità e sviluppo economico. E sulla scia di quel ragionevole pessimismo invita a guardata la realtà prodotta in dieci anni di deregulation. Precarietà diffusa, degrado ambientale, guerre commerciali o militari. E tuttavia per affrontare questi problemi non c'è possibilità di un ritorno al passato. La strada da perseguire, sostiene Rodrick, è una ridefinizione dei compiti dello stato nazionale e degli organismi sovranazionali, come la World Bank, il Fondo monetario e il Wto all'interno di una cornice di una «democrazia cosmopolita» incardinata sul protagonismo di una società civile globale e di un rinnovato compromesso tra capitale e lavoro. Tesi non molto lontana da quella auspicata da un altro liberal statunitense, Robert Reich, nel libro Aftershock (Fazi editore, pp. 208, euro 18). Questi ultimi due studiosi invocano inoltre una sorta di ingegneria istituzionale per raddrizzare il legno storto della globalizzazione: Rodrick per garantire la tenuta del legame sociale attraverso una politica redistributiva gestita con attori sociali e politici locali e globali; Reich per attenuare le diseguaglianze sociali individuando nel ceto medio il collante della società statunitense.

In ogni caso, la globalizzazione rimane sempre un «significante vuoto» che può essere riempito come meglio si crede. Da questo punto di vista l'opera di Luke Martell pubblicata da Einaudi costituisce uno dei migliori strumenti per comprendere le diverse valenze che sono state date al termine, all'interno di una prospettiva che non coinvolge solo l'attività economica, ma anche il ruolo dei media come produttori di legittimità alla globalizzazione, ma anche come cloud informative dove i movimenti sociali esprimono punti di vista antagonistici a quelli dominanti.

Rimane tuttavia inevasa una domanda implicita in tutti i volumi qui segnalati: quale futuro della globalizzazione? La cronaca continua a restituire un panorama desolante della crisi economica se l'attenzione si concentra sull'Europa o sugli Stati Uniti. Diverso è il caso per paesi come la Cina, l'India, il Brasile e l'America Latina, dove l'impatto della crisi è stato sicuramente minore se non irrilevante nella vita di quei paesi. Tuttavia, per quanto riguarda il vecchio continente e gli Usa, il paradosso dominante è che l'uscita dalla crisi della globalizzazione liberista avviene sotto gli auspici di un liberismo ancora più radicale.

La questione, ad esempio, del debito sovrano viene usata per dare avvio a un processo di privatizzazione di alcuni servizi sociali che era stata respinta nell'ambito del Wto non più di un lustro fa. Allo stesso tempo la completa deregolamentazione del mercato del lavoro è assunta come obiettivo strategico da molti dei governi del vecchio continente, indipendentemente dalle direttive a favore di misure a tutela del lavoro cosiddetto atipico prese dagli organismi di governo di un Europa monetarista al fine di «temperare» gli effetti delle politiche liberiste del decennio precedente.

La gabbia da distruggere

È questa dunque la posta in gioco. Uscire dal liberismo in crisi accentuandone le caratteristiche? Oltre che socialmente e culturalmente da avversare, è una possibilità che riprodurrebbe gli stessi meccanismi che hanno portato alla crisi. Ma è altresì dubbio che se ne possano correggere alcuni aspetti, lasciando inalterato l'insieme, come molti degli autori qui segnalati propongono. E sicuramente non è auspicabile attendere che la nottata passi, sperando nell'insuccesso dei governi conservatori o di destra e al ritorno di coalizioni progressiste capaci di riprendere quel percorso, seppur temperato, che ha portato proprio alla crisi attuale. E altrettanto risibili sono rimedi omeopatici come una deglobalizzazione che ripristini la vecchia e cara sovranità nazionale o una decrescita che legittimerebbe l'impoverimento relativo che ha colpito il vecchio continente e gli Stati Uniti. Occorre dunque tornare a quella critica dell'economia politica che assuma il capitale come rapporto sociale nella sua totalità. Totalità è certo una nota stonata per un pensiero critico che voglia innovare un corpus teorico che di totalità è quasi rimasto soffocato. Ma è un rischio che va corso, per rompere quella gabbia d'acciaio che legittima l'appropriazione privata di una ricchezza prodotta socialmente.

Suonano piuttosto pessimisti, se non millenaristi, i titoli di tre saggi tascabili di argomento architettonico, pubblicati quest'anno da Laterza: Senza architettura. Le ragioni di una crisi di Pippo Ciorra; L'Anticittà di Stefano Boeri; e La fine della città, il libro-intervista di Francesco Erbani a Leonardo Benevolo, che si aggiungono a Città senza cultura di Giuseppe Campos Venuti uscito lo scorso anno. Se Ciorra e Boeri trovano ancora spiragli di miglioramento possibili e addirittura qualche connotazione positiva alla condizione urbana attuale, Benevolo è senz'altro più pessimista e, dall'alto dei suoi ottant'anni, in fondo rassegnato. Così, infatti, conclude il suo libro: «La distruzione del paesaggio italiano non è stato un fatto casuale o un risultato dell'incuria: è stata pagata in contanti. L'ammontare di questo esborso lo vediamo ristagnare nell'economia del nostro paese e lo riconosciamo nel prevalere del comparto finanziario rispetto a quello industriale, della rendita rispetto al profitto d'impresa». In effetti, lungo tutta la sua lunghissima carriera, Benevolo ha sempre tentato di proporre una azione riformatrice, che mettesse la pianificazione urbana al suo centro. Pur essendo noto all'estero soprattutto come storico dell'architettura, la città in generale e l'urbanistica in particolare restano il fuoco vivo della sua opera, che venne inaugurata, non a caso, nell'alveo dell'azione apartitica olivettiana.

I problemi maggiori che Benevolo ha incontrato sono sempre stati di natura politica, specie nelle sue esperienze professionali migliori, come quella del sodalizio con il sindaco della sinistra Dc di Brescia, Luigi Bazoli. Erano gli anni '70 e in alcune amministrazioni rosse e no del nord Italia sembrava possibile una gestione sociale di mercato dell'urbanistica, qualcosa di diametralmente opposto, per fare un solo esempio, alla deregulation abusivo-speculativa romana. Del resto, furono gli stessi partiti che le avevano promosse a mettere fine a quelle esperienze: esperienze irripetibili, a vederle con il senno di poi. Le pagine forse più efficaci del libro di Benevolo sono quelle in cui la biografia dell'autore si mescola a quella del nostro paese, attraversando gli snodi e le empasse principali del dopoguerra, dalla ricostruzione ancora in mano agli ex accademici fascisti (Piacentini, Aschieri e altri) ai piani Ina Casa, alla mancata riforma Sullo per il regime dei suoli (un po' mitizzata in verità), al '68 e all'università di massa (clamorose le dimissioni per protesta di Benevolo e Bruno Zevi da docenti universitari a metà anni '70). In particolare, il racconto delle esperienze di Benevolo relative ai piani di Roma, Brescia, Urbino, Palermo e Venezia si intrecciano inevitabilmente con le fasi politiche del primo centrosinistra, del compromesso storico, della lotta alla mafia, di Mani pulite, dell'insorgere dei localismi, per fermarsi a Berlusconi, peraltro mai citato. Ma quel che più interessa è che tutti questi passaggi della nostra contemporaneità vengono rivisitati da un punto di vista poco frequentato dagli storici: quello, appunto, degli uffici tecnici e degli assessorati dell'urbanistica dei comuni, campi di battaglia degli interessi locali.

Per certi versi, Benevolo ha sempre vissuto in prima linea questo speciale tipo di scontri fra interessi che, in «un paese fondato sulle rendite» (copyright dell'economista Geminello Alvi, non certo comunista), non poteva se non minare alle fondamenta l'unica pratica di contenimento a quegli stessi interessi che è appunto l'urbanistica. La fine della città che compare nel titolo del libro non è altro se non la paventata fine dell'urbanistica, una battaglia che si combatte ancora ogni giorno, dappertutto.

Un volume collettivo su «Comune, comunità, comunismo» Iniziata in un simposio alla Duke University, la discussione è stata caratterizzata da una forte intenzionalità politica. La ricerca cioè di una alternativa alle ricette liberiste per uscire dalla crisi economica

Nella dilagante retorica dei beni comuni, questo libro collettivo si propone un obiettivo ambizioso: stabilire nessi, ma anche distanze tra la riflessione anglosassone e quella europea sui commons, dove il comune è spesso usato come parola per dissimulare un progetto teorico e politico che si propone la rifondazione del concetto di comunismo. I testi che compongono Comune, comunità, comunismo (ombre corte, pp. 156, euro 15) non nascondono però la sedimentazione teorica che accompagno i tre termini, anche se ne discostano significativamente. Per questo, vanno introdotte delle premesse per meglio contestualizzare i contributi presenti nel libro. Comune è un termine usato per individuare tanto i beni comuni - acqua, terra, energia, ma anche la conoscenza, l'habitat sociale - quanto le caratteristiche presenti nella specie umana - il linguaggio, ad esempio - e quanto viene prodotto dalla cooperazione sociale. Comunità, invece, è la bestia nera di ogni pensiero critico. Il comunismo, infine, è il termine che più si presta ad equivoci, vista l'apocalisse culturale che ha preso avvio con il crollo di regimi politici che si richiamavano a quella idea, mentre edificano una società non certo di liberi ed eguali.

Il tramonto del liberismo

Una matassa difficile da sbrogliare. Il merito del volume è che tutti i contributi provano a dipanarla, tenuto conto che l'occasione per farlo è stato un simposio organizzato alla Duke University nel 2009, cioè quando gli effetti della crisi economica stavano cominciando a rimodellare i panorami sociali e politici del pianeta. Chi ha organizzato quell'incontro, Anna Curcio e Ceren Özselçuk, era mosso da un interesse teorico, ma soprattutto politico. Come pensare un'alternativa al neoliberismo declinante, facendo leva su quanto di innovativo, e radicale nelle proposte, è emerso nei movimenti sociali globali? Questa la domanda implicita dietro quell'incontro.

Le coordinate teoriche sono chiare - comune, comunità, comunismo - e altrettanto chiara la volontà di non alimentare nessun mimetismo per percorsi teorici e politici che, per semplicità, possono essere definiti ortodossi. In altri termini, comune e comunità non sono usati, come spesso accade in teorici come Alain Badiou e Slavoj Zizek, come travestimenti per proporre un'idea di comunismo sempre eguale a se stessa, indipendentemente dal quanto è accaduto nel corso del Novecento. Esemplare, per forza espositiva è, a questo proposito il testo di Michael Hardt, che sgombra il campo da equivoci: il comune e il comunismo a cui si fa riferimento sono anni luce lontani dall'esperienza del socialismo reale. Più articolata invece la costellazione teorica a cui fare riferimento. Il marxismo di Louis Althusser, perché capace di misurarsi con alcuni nodi teorici e politici già evidenti negli anni Settanta. Il concetto di classe - un nulla che vuole diventare tutto -, il ruolo dello Stato come fattore dinamico nella riproduzione del regime di accumulazione; e per questo autonomo dai capitali operanti; i processi di costituzione della soggettività, meglio del soggetto della trasformazione. Temi ripresi dagli allievi del filosofo francese e articolati in forme originali.

Singolarità in azione

Da questo punto di vista la scelta di invitare Etienne Balibar è stata più che felice, alla luce della sua recente elaborazione del concetto di transindividuale derivato da Baruch Spinoza e del tema della egaliberté, cioè quel legame indissolubile tra libertà e eguaglianza che Balibar vede in «azione» dentro i movimenti sociali e che funziona come una potente valorizzazione delle singolarità. L'altro riferimento teorico è la cosiddetta scuola postoperaista, che con Toni Negri e Michael Hardt ha usato il termine comune come critica immanente del capitalismo contemporaneo.

Come scrivono i curatori del volume, la messa in relazione di queste due scuole di pensiero non è casuale. Tanto il marxismo althusseriano che il postoperaismo hanno lavorato teoricamente sugli stessi temi, dandogli tuttavia risposte differenti. Ed è con vero interesse che si può leggere il dialogo tra Balibar e Negri. Entrambi hanno volto le spalle alla tradizione comunista tradizionale; entrambi sono consapevoli che l'opera di Marx è sicuramente ancora una fonte di ispirazione, ma che il capitalismo è stato profondamente trasformato da oltre un secolo di conflitti di classe da avere bisogno di uno sforzo analitico supplementare, a cui tendono i testi di Gigi Roggiero, Anna Curcio e la direttrice di «Rethinking Marxism» S. Charusheela.

Sia ben chiaro, il volume ha una forte intenzionalità politica. E anche se l'incontro propedeutico ai testi è avvenuto in una università, c'è ben poca accademica nei materiali presentati. La posta in gioco è la crisi del capitalismo e la possibilità di individuare vie d'uscita che pongano le condizioni, appunto, a una società di liberi ed eguali.

Il comune presentato da Negri non si limita ai beni comuni, anzi propone di superare la distinzione tra comune naturale e comune artificiale che è dominante nella riflessione anglosassone. Perché se il comune naturale è segnato da quella scarsità che il pensiero liberale usa per legittimare la sua gestione capitalista, per il comune artificiale la scarsità non ha ragione di essere. La conoscenza, quando usata, non corre il rischio di esaurirsi. Anzi il suo uso l'accresce di nuovi ordini del discorso. La scarsità è dunque creata attraverso una governance del processo produttivo che produce segmentazione e frammentazione del lavoro vivo. Oppure attraverso il regime della proprietà intellettuale. Una definizione del comune comporta quindi un'analisi dei rapporti di produzione e di un processo lavorativo che ha bisogno di invenzione, di creatività, di innovazione. Dunque di una cooperazione produttiva «libera». E tuttavia il capitale se ne appropria. Come riconquistare questo comune produttivo? domanda Negri. Organizzare il lavoro vivo, che presenta quelle caratteristiche che Spinoza ha chiamato moltitudine, è la risposta.

Oltre il presente

Un ragionamento che non convince del tutto Balibar. I suoi dubbi non riguardano tanto le trasformazioni del capitalismo e della composizione del lavoro vivo. Si concentrano, invece, sulla possibilità di far ruotare il discorso politico attorno ai soggetti della produzione. Se ci troviamo di fronte alla moltitudine, i rapporti sociali di produzione sono uno e non è detto il più importante fattore su cui far leva sulla lotta contro il neoliberismo. Piena sintonia, invece, sulla critica del concetto di comunità. In questo caso, sia Negri che Balibar ritengono la «comunità» una categoria da trattare con diffidenza, perché cancella appunto quella eterogeneità che caratterizza la moltitudine.

Discussione importante e di pregnante attualità. Non solo perché la crisi ha continuato a terremotare il capitalismo statunitense e europeo, ma perché le risposte politiche che sono messe in campo oscillano tra una nostalgia del passato e una sorta di liberismo sociale, che riscopre i valori della comunità e l'etica sacrificale del lavoro. E che dunque offre spunti e possibili vie d'uscita da questa mefitica tenaglia.

Capannoni, cantieri, chiodi, mattoni, taniche, tubi, viti, garage prefabbricati, ex zuccherifici, silos, aie, fienili, cortili, muri di contenimento, recinzioni, cancellate, pali della luce, colonne di cemento armato che, nella loro scrostatura, rivelano un fantasma di ferro, trucioli avanzati da un taglio in segheria, il tornio di un’officina quando entra la luce da fuori, e scantinati di università o aule studio dimesse, la sedimentazione delle cose, e le persone. Sono alcuni frammenti del mondo di Guido Guidi. Nato a Cesena nel 1941, Guidi ha partecipato a Viaggio in Italia, la mostra curata, tra gli altri, da Luigi Ghirri nel 1984. Ha fotografato le opere di Le Corbusier, van der Rohe, e Carlo Scarpa, di cui è stato allievo; le case popolari dell’Ina, i bunker europei della Seconda Guerra Mondiale, i cantieri emiliani della Tav, l’industria a Marghera, e molto altro.

La peculiarità di Guidi consiste nell’aver fotografato coerentemente luoghi, oggetti, animali, persone, come se stesse fotografando – con l’esattezza formale, ma con la vertigine di un dubbio – l’Italia dietro casa, il suo vissuto, in una frazione di Cesena; il tragitto che si stende lungo la Strada Statale Romea, da Ravenna a Venezia, i due centri dove l’artista – all’Accademia ravennate e allo Iuav veneziano – ha insegnato fotografia per anni. L’editore americano Loosestrife – con la cura di uno dei maggiori fotografi statunitensi, John Gossage – dedica a Guidi un ampio volume antologico: A new map of Italy. L’Italia di Guido Guidi è l’Italia laterale, rimossa dagli stessi residenti, la nazione abitata raramente dagli artisti, se non per brevi periodi, utili a concludere un progetto, in attesa della prossima incursione.

E qui sta la differenza tra coloro che attraversano, e coloro che, viceversa, vivono quei luoghi, giorno dopo giorno, fino a farne non solo la visione della propria arte, no, fino a farne la propria esistenza: sentirsi fratello di un palo della luce lungo la strada provinciale, di un mattone che ti guarda, di un animale morto e deposto da un ciclista amatoriale sopra la linea bianca continua. L’Italia di Guidi è la nazione passata dalla civiltà contadina a quella industriale. Il fotografo cerca, usando le parole di Paolo Costantini, «di esplorare un nuovo paesaggio della modificazione», traccia provvisoria di noi stessi, riscrivendo gli spazi gracili in cui viviamo, sebbene utilizzi il mezzo che dovrebbe congelare quei luoghi, il mezzo a cui dovremmo chiedere la fissità negata dalla vita. Possiamo dire che l’opera di Guidi sia la sommatoria di due sottrazioni: gli avanzi del mondo contadino e le scorie del mondo industriale.

Due sparizioni restano nella materia residuale, declinante, e sono l’Italia, il brulicare sommerso, l’intersecarsi dei segni, nei luoghi dell’abbandono. «Tra un paracarro e un capitello, fotografo un paracarro: fotografo quello che c’è», dice Guidi. «Mi interessa il paracarro: chi l’ha costruito e chi l’ha usato, lo splendore e lo sfaldamento, non il passato glorioso». Cose, animali e persone hanno uguale dignità e rispetto nelle immagini del fotografo. Ciò non significa mettere tutto sullo stesso piano, in un’equivalenza indistinta. Il paracarro ha senso solo se inserito dentro un’immagine colta, risolta, e per Guidi un paracarro sta nella tradizione pittorica italiana e nella fotografia, soprattutto quella di Walker Evans.

Guido Guidi procede in una sorta di continuità, accetta il testimone del fotografo americano ma, mentre Walker Evans negli anni ‘30 del Novecento ha colto con la sua opera un’età prima del collasso, il lavoro di Guidi, al contrario, non certifica alcun crollo clamoroso. Suggerisce una malattia continua, debilitante, che costituisce l’essenza stessa del nostro vivere. Una febbriciattola, 37,2 di temperatura, che muta in lievi oscillazioni e smottamenti silenziosi. Questo senso di leggero spossamento è sottolineato dal colore. Anche per una questione geografica, paiono evidenti i rimandi a Deserto rosso. «Sì, Antonioni mi ha influenzato. Ma, per il colore, mi sento più vicino a Morandi, quando lasciava i pigmenti al sole, per farli essiccare, e sembrava che il sole avesse lavorato, consumandoli».

Nelle immagini di Guidi, il colore dopo il processo di stampa è sbiadito, vicino alla liquidità: è come se fosse usurato dalla luce, è il colore della luce quando diventa stato mentale, utile per mantenere la giusta distanza, necessaria all’allenamento del vedere. E così, se passate su qualche strada laterale attorno a Cesena o a Ravenna, e incontrate sul bordo della strada un essere formato da un cavalletto a tre gambe di ferro e due gambe di uomo, la testa nascosta sotto un panno nero, state tranquilli: non è una nuova forma di brigantaggio o di autovelox, è Guido Guidi, che sta cercando di ricomporre la mappa del nostro mondo, se stesso nell’immagine di noi, che lui guarda stupito, come se fosse la prima volta.

Spesso gli eventi non sono eventi, ovvero salvo la classificazione ormai di routine non si discostano gran che da quanto offre normalmente il convento. Mostre, convegni, dibattiti, pubblicazioni, salvo l’istante di notorietà istituzionale garantito dal frullatore mediatico, di solito poi spariscono in buon ordine nello sgabuzzino del dimenticatoio.

Quando una decina di anni fa, in occasione del cinquantenario del Piano Fanfani INA-Casa, uscì la raccolta La Grande Ricostruzione (Donzelli), accompagnata da una mostra itinerante, da discussioni, articoli ecc., si poteva temere un destino del genere. Magari un po’ di polemiche, di come eravamo, di revival, e poi basta. Ma il tema evidentemente era piuttosto “sensibile”, perché toccava parecchi aspetti dello sviluppo sociale, culturale, politico italiano del ‘900 attraverso la lente per molti versi rivelatrice della costruzione dello spazio urbano, e dell’immaginario che lo sottende e attraversa.

Il volume, come del resto altri prodotti di ricerca precedenti e successivi della Curatrice, ha la peculiare caratteristica di prestarsi a molti piani e prospettive diversi di lettura: per la quantità, relativa interdisciplinarità, eterogeneità dei contenuti; per la molto ricercata unitarietà dell’impianto, che consente di leggere anche i vari contributi e sezioni tematiche come flusso omogeneo. Il che si presta efficacemente, nel caso specifico, proprio a ricomporre quel percorso, ben riassunto dal titolo della legge: dall’Incremento dell’occupazione operaia, alla costruzione di case per i lavoratori, al dispiegamento di una straordinaria capacità di costruire consensi e immaginario. Immaginario sociale e urbano che sono ancora assai vivi ai nostri giorni.

Se l’urbanistica del dopoguerra europeo si caratterizza per i progetti dei grandi quartieri periferici, o quella di oltre Atlantico per l’inizio del processo di suburbanizzazione automobilistico, in Italia col piano INA-Casa si realizza un cocktail del tutto particolare, che unisce certi aspetti di ideologia antiurbana a spinte sottilmente e forse involontariamente progressiste. E riguardando col senno di poi le intenzioni e i risultati di lungo periodo dell’intuizione originaria, filtrata dai contributi tecnici e culturali di una infinita schiera di intellettuali, si capisce anche in parte come e perché.

Nella sua storia d’Italia, anche Paul Ginsborg aveva sottolineato quanto la dialettica fra sinistra e partito cattolico influenzasse da subito il dibattito sulle politiche della ricostruzione, e il Piano Fanfani ne interpreta al meglio parecchi spunti, a partire dai modi di costruzione del consenso.

Gli spazi dei quartieri, specie quelli dei “villaggi” che caratterizzano il primo settennio, spesso imitazioni un po’ improvvisate o velleitarie del modello internazionale neighbourhood unit, ne interpretano in modo del tutto peculiare lo spirito, ad esempio nel loro caratterizzarsi come ambiente urbano/antiurbano. Antiurbano forse nel senso in cui le ricerche sui nuovi modelli abitativi sviluppate nel periodo fra le due guerre, trovano nuovo stimolo nella ricostruzione di spazi ideali alternativi alla città tradizionale (dalle New Town britanniche alle Levittown americane). Ma anche fortemente urbano, perché coerentemente al progetto integrato della legge istitutiva, è proprio la costruzione materiale della città, il ruolo formativo del lavoro operaio nell’edilizia, a costituire il trait-d’union dall’Italia ruralista degli anni ’30 a quella del miracolo economico.

Tutto questo emerge evidente dai tanti saggi sui singoli quartieri, i presupposti culturali e disciplinari, i contributi di architetti e urbanisti, organizzati in una prospettiva unitaria dalla Di Biagi. Ed è in fondo anche l’espressione di una capacità di leadership, di coinvolgimento su vasta scala, posto in essere da una generazione politica e tecnico-scientifica in grado di superare, almeno da questo punto di vista, lo stallo da contrapposizione frontale che parrebbe imposto dal “fattore K”, l’esclusione della sinistra dalla stanza dei bottoni. La Grande Ricostruzione, insomma, è grande non tanto e non solo perché il partito di maggioranza relativa riesce a trascinare l’intera società nazionale in qualche modo tutta dalla propria parte, ma perché esistono ampi spazi in cui anche solidarietà e progressismo di intellettuali comunisti e socialisti partecipano attivamente al processo. Una partecipazione del resto a suo modo sempre rivendicata, sin dall’inizio, nonostante le polemiche.

E ancora, specie davanti alle sfide ambientali e di sostenibilità di oggi, molto ci può insegnare la forza comunicativa che accompagna tutta la prima fase del Piano. Ben evidenziata del resto da molte significative immagini riprodotte dal volume (e dai filmati e altri documenti che si potevano vedere a suo tempo nella Mostra itinerante: perché non pensare a un sito web che raccolga materiale che per sua natura non può trovar posto nel libro?). Sono le processioni, i parroci, le folle di semplici cittadini e curiosi a inaugurare, percorrere, sbirciare i nuovi quartieri ancora freschi di cemento, con le strade ancora da finire e gli alberelli visibili quasi solo nei disegni degli architetti. La grande capacità di costruire qualcosa di molto simile a un movimento collettivo, che traghetta l’Italia ancora sostanzialmente contadina uscita dalla guerra, verso un modello di sviluppo che ci caratterizzerà quasi sino ai nostri giorni.

Certo non tutte rose e fiori, come ben sottolineano molti dei saggi del volume, a anche gli studi di approfondimento che, nota compiaciuta Di Biagi introducendo questa seconda edizione, da esso hanno tratto spunto negli anni successivi. Ad esempio proprio l’ambiguità urbano/antiurbano degli spazi dei quartieri, stigmatizzata con autoironia dalla definizione “paese dei barocchi”, o l’emergere soprattutto dalle prime sperimentazioni progettuali di una diffusa immaturità (culturale, ma anche per certi versi della domanda).

Resta comunque ben documentata, e criticamente inquadrata dalla maggior parte dei saggi, la capacità di coinvolgere discipline, settori socioeconomici, culture, all’interno di un processo articolato e unitario. Forse è questa la cosa più importante, l’insegnamento essenziale del progetto che forse meglio riassume, ancora oggi, le prime speranze dell’Italia democratica. Da cui, come appare sempre più chiaro, abbiamo molto da imparare. Jane Jacobs, quando nel 1957 intitolava il suo primo importante saggio La Città è della gente, di sicuro intendeva proprio questo.

Pala Di Biagi (a cura di), La Grande Ricostruzione. Il Piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta. Donzelli, 494 pp. ill. €22,50

La figura dell’architetto integrale compare in Italia nel secondo decennio del secolo scorso, in un contesto nazionale che da un lato si caratterizza per la relativa arretratezza culturale e sociale rispetto ad altri paesi europei, dall’altro subisce il duplice handicap di una evoluzione democratica post-unitaria troppo breve, e di un regime totalitario e chiuso. Accade così che salvo qualche eccezione personale, locale, episodica, non possano replicarsi nel nostro paese con la massa critica necessaria vicende paragonabili vuoi a quelle che nel mondo anglosassone vedono al centro il garden city movement, vuoi alla grande stagione delle trasformazioni urbane nel segno progressista dei quartieri coordinati razionalisti. E però gli echi di questi eventi, le tracce concrete e nella formazione di giovani e meno giovani protagonisti italiani, pongono solide basi perché un movimento assai simile abbia modo nel dopoguerra finalmente democratico e un po’ più aperto di dispiegarsi e iniziare a inseguire, a volte anticipare i temi della città, della società, del ruolo dell’intellettuale impegnato.

Le stagioni delle scelte. Lodovico Meneghetti, Architettura e Scuola, raccolta di contributi curata da Daniele Vitale per Il Poligrafo in forma di non-monografia professionale, restituisce da una prospettiva inusuale il percorso di uno di questi intellettuali, attraverso le scelte, vuoi in fasi successive, vuoi parallele, di carattere artistico, etico, politico, professionale e culturale in senso lato. Prospettiva inusuale perché l’apparente classico contenitore della monografia dedicata a una figura nota dell’architettura e dell’urbanistica, con regesto delle opere, immagini di architetture e informazioni biografiche, si rivela in realtà un racconto a più voci, intrecciate nel tempo e nello spazio. L’occasione è quella di un convegno tenuto al Politecnico sull’esperienza umana, didattica, professionale di Meneghetti nel 2008, e dedicato soprattutto agli studenti di oggi. Ma grazie all’impegno del protagonista, del curatore e degli autori dei vari contributi raccolti nel volume, la raccolta risulta un prodotto unico, assai diverso dalla logica degli atti.

Espediente retorico di partenza, una piccola foto di gruppo. Una sessione di laurea in Architettura del 1952, l’inizio dell’attività professionale, il battesimo del fuoco, per così dire. Tutto sembrerebbe per molti versi scorrere negli oliati binari del prevedibile (per quanto inusuale per un pubblico di studenti e giovani architetti di oggi): gli incarichi, i problemi, l’incontro con la critica, il mondo associativo, il contesto locale novarese in cui l’attività muove i primissimi passi, il riferimento culturale alto e alla grande città di Milano. Ma non siamo di fronte a una biografia critica professionale, come pure si potrebbe essere indotti a pensare per esempio davanti rilievo dato alle critiche di Franco Albini al primo progetto: “vedendo la pianta si pensa ne derivi un certo alzato e invece gli alzati sono inaspettati”.

Invece anche queste brevi battute apparentemente tutte interne al linguaggio critico disciplinare si rivelano continuando nella lettura un altro espediente retorico, dove via via la pianta sono le pratiche contingenti delle scelte culturali, professionali, politiche, e l’alzato la ricerca e il riferimento a un contesto più ampio, che nello specifico del racconto trova sbocco finale e sintesi nell’ultima scelta, ovvero quella dell’impegno a tempo pieno nella didattica universitaria. Una scelta che matura significativamente oltre che simbolicamente sul crinale di evoluzione sociale e politica nazionale ed europea a cavallo tra fine anni ’60 e primi ’70. Fin qui, pur per sommi capi e semplificando forse oltre il dovuto, la traccia narrativa del protagonista. Ma come si diceva il racconto si articola a molte voci, voci diverse e poco propense ad accontentarsi della pura testimonianza dell’amico, del collega, dell’allievo.

Si impone così, senza per questo rinunciare alla falsariga tracciata nell’intervento introduttivo (che fra testo e immagini dei progetti copre comunque 140 pagine) una molteplicità di prospettive che restituiscono ad esempio lo spaccato di una società italiana di provincia anni ’50 e ’60, al tempo stesso vitale e fin troppo semplice. Coi cenacoli di giovani e meno giovani idealisti, il ruolo sociale del cineforum prima del Pötemkin di Fantozzi o del “no, il dibattito no!” di Moretti. E anche l’importanza generale conferita allo specifico del dibattito sull’architettura e la città, in un’epoca di crescita tumultuosa e di contraddittorio governo pubblico a volte riformista (con la molto citata legge 167 sui piani per l’edilizia popolare) e contemporaneamente piuttosto sordido nel rinunciare a un’idea di città a favore della pura speculazione edilizia e fondiaria. Ancora nel contesto novarese, e proprio sulla questione urbanistica, si svolge la principale esperienza diretta di impegno politico e amministrativo raccontata da diverse voci, quella che verso la metà degli anni ’60 affronta in contemporanea pianificazione generale, schema di espansione stellare per quartieri, trasformazioni edilizie centrali e periferiche. Ovvero quello che fin dalle Questioni Urbanistiche poste dal Giovannoni nel 1928, e riflesse nell’impianto legislativo del 1942, è il riflesso del concetto di architetto integrale nell’impegno culturale, e non solo, per una società futura.

Un impegno che nel caso specifico riesce anche a interagire positivamente con il difficile contesto locale e l’opposizione dei conservatori, ad esempio imponendo almeno in parte la crescita stellare con cunei di verde che tutelano il territorio rurale e a sua integrazione con l’urbano, ponendo le basi per una edilizia di elevata qualità architettonica e quartieri abitabili e serviti. E che probabilmente è di stimolo anche al passaggio (o scelta, per usare il termine del titolo) successivo, focalizzato sulla ricerca e l’insegnamento. Con risultati a molte facce, che risaltano nelle testimonianze di ex allievi poi protagonisti di varie carriere, allo stesso tempo a conferma e smentita della più volte rivendicata unità fra architettura e urbanistica.

Conferma perché è vero e innegabile che il nostro paese nel secondo Novecento, specie fino agli anni ’70, vede un ruolo particolare della cultura degli architetti-urbanisti, del loro specifico impegno politico (si pensi solo per fare un esempio banale alla figura di Olivetti e del movimento Comunità) a delineare un trait-d’union fra la società arretrata e le sue conseguenti rappresentanze, e prospettive europee più avanzate. Almeno in parte smentita perché se è vero che questa figura di architetto in Italia ha modo di declinarsi in un periodo successivo rispetto alle prime esperienze novecentesche europee e mondiali, allo stesso modo probabilmente si evolve a diventare componente di un movimento più ampio e articolato, meno definibile all’interno di un unico percorso. Cosa del resto confermata dalla stessa articolazione del contributi del volume, specie se si leggono in tale prospettiva quelli proprio dedicati a architettura o urbanistica, e soprattutto degli autori più giovani.

Ma anche da una coincidenza probabilmente non casuale: proprio la fase in cui Meneghetti sceglie di dedicare l'impegno alla Scuola di Architettura e Urbanistica, è quella che vede nascere in contemporanea le prime Scuole di Urbanistica tout court, che riprendono per certi versi direttamente un filone culturale interrotto con l’affermazione dell’intellettuale a tutto tondo promosso dal Giovannoni emarginando soprattutto le componenti scientifiche e disciplinari non legate al mondo dell’approccio tecnico-artistico alla città, e quelle politiche non orientate alla pur lodevole appartenenza e impegno in gruppi e partiti.

Il che naturalmente nulla toglie al valore delle scelte su cui si articola la raccolta di contributi curata da Daniele Vitale, cogliendo lo spunto delle discontinuità di un lavoro che esplicitamente non si vuole esaustivo (il rinvio ad altre opere anche molto recenti e instant di Meneghetti è continuo) proprio per sottolineare soprattutto le fasi critiche, in cui la virtuosa e costante dialettica tra riflessione personale ed evoluzione del contesto culturale generale, colloca più attivamente il proprio contributo.

Testi di Lodovico Meneghetti, Guido Canella, Daniele Vitale, Antonio Monestiroli, Fausto Bertinotti, Emilio Battisti, Massimo Fortis, Cesare Bermani, Pierluigi Benato, Sergio Rizzi, Sergio Brenna, Georg Josef Frisch, Leo Guerra, Federico Bucci, Giancarlo Consonni

La politica come decisione d'esistenza, l'operaismo come scelta di parte, la storia del Novecento contro il virus neo-totalitario che minaccia le democrazie di oggi, il lavoro del pensiero contro le «tecniche di rapina dell'anima» del tardocapitalismo. Con una dedica alla generazione del precariato e una critica alla generazione del Sessantotto e del femminismo

Il bello dell'età è la storia che hai vissuto; e la sapienza dell'età sta nel sentirsi sontuosamente ricchi della storia vissuta più che in ansia per quella da vivere. Non per caso, nei regimi biopolitici contemporanei, il mito della giovinezza plastificata va di pari passo con la distruzione sistematica del senso della storia. Mario Tronti, che pure al termine 'politica' resiste strenuamente ad aggiungere il prefisso bio, lo sa bene, e non è un caso se oggi possiamo festeggiare un suo importante compleanno, l'ottantesimo, con in mano il suo ultimo libro, Dall'estremo possibile, che è un'arma affilata contro questo dispositivo di cancellazione della storia e della memoria, lo stesso dispositivo che dopo l''89 è riuscito a saldare nel senso comune la damnatio del Novecento con quella della sua eredità politica. Né è un caso che Pasquale Serra, curatore di questa come della precedente raccolta di scritti trontiani (Non si può accettare, titolo dichiaratamente «rubato» a Rossana Rossanda, come Dall'estremo possibile a Massimo Cacciari; entrambi i volumi sono editi da Ediesse), la dedichi con intenzione ai giovani e giovanissimi che oggi sperimentano la «contraddizione sempre crescente» (celebre incipit del frammento hegeliano Libertà e destino, su cui ruota il saggio d'apertura del libro, in memoria di Cesare Luporini) «fra la prigione invisibile in cui l'assetto esistente li tiene avvolti e il desiderio di romperla».

Non è che Tronti stia cedendo, anche lui, a una retorica giovanilistica che molto promette e nulla mantiene («solo i partiti senza futuro, quando non sanno che fare, fanno largo ai giovani»); è che «un discorso di libertà è destinato a incontrare una condizione di inquietudine», e nessuna condizione è più inquieta, esistenzialmente e socialmente precaria, di quella della prima generazione globale costretta a fare i conti «con le promesse non mantenute della postmodernità». A differenza della «generazione di mezzo», quella, per intenderci, del Sessantotto e del femminismo, che a giudizio dell'ultimo Tronti (si veda, in Non si può accettare, il saggio sul Sessantotto e in quest'ultimo libro «Il politico al maschile, la politica al femminile») le promesse della postmodernità le ha invece rincorse, finendo col subire le sirene della modernizzazione senza contrastare la valanga della restaurazione e perdendosi in una critica della politica risultata alla fine connivente con la valanga dell'antipolitica. Incassiamo - momentaneamente - la provocazione e procediamo nella lettura.

Cominciando dall'ultimo dei testi raccolti, che è bene leggere invece per primo. Si tratta di una autobiografia filosofica, composta tre anni fa per le «Grandi Opere» del Corriere della Sera (Filosofi italiani contemporanei, Bompiani), in cui Tronti racconta Tronti, vita e opera, fornendo tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt'intero il suo percorso al di là dell'icona del «padre dell'operaismo italiano» cui il successo internazionale di Operai e Capitale lo ha consacrato ma anche, per così dire, inchiodato («Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì»). Il percorso intero, dunque: l'incontro con Marx del Capitale e dei Grundrisse contro la tradizione storicista del marxismo italiano, la scoperta negli anni '60 del punto di vista operaio inseparabile dalla scoperta del pensiero negativo e della cultura della crisi, ma già nel '72 la svolta dell'autonomia del politico, con il seguito di un trentennale «corpo a corpo» con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Nietzsche. Intanto, anni '80, l'esperienza di Laboratorio politico, l'incontro «determinante» con l'opera di Carl Schmitt, il confronto con il pensiero teologico e mistico nella redazione di Bailamme e nell'eremo camaldolese di Monte Giove. Da ultimo, dopo l'89 e il '91, il pensiero della fine - fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna - che, «in decisa polemica con le letture democratico-progressiste» del cambio di stagione, apre il fronte, tutt'ora centrale nel lavoro trontiano, della «critica della democrazia politica»: «il fatto che la democrazia realizzata d'Occidente porti in corpo il virus di un totalitarismo di tipo nuovo, liberamente accettato da una massa di individui omologati sulla base di una servitù volontaria, è un drammatico punto di riflessione per il pensiero politico contemporaneo».

Su questa griglia autobiografica si fa più nitido il ventaglio di temi che Dall'estremo possibile propone, ripensa, aggiorna. Di nuovo l'operaismo, nel testo in memoria di Raniero Panzieri e nell'introduzione all'edizione spagnola di Operai e Capitale; ma inquadrato nell'arco di tempo che dal punto più alto del conflitto operaio contro il neocapitalismo degli anni '60 porta al punto più basso della sconfitta operaia nel neoliberismo degli anni '80 e seguenti. Resta tutta valida, di quell'esperienza, la radicalità teorico-pratica, ma con un'autocritica: «malgrado tutto, malgrado il passaggio attraverso la cultura della crisi, il nichilismo europeo, c'era ancora troppo storicismo, troppo progressismo, troppa fede nella finale vittoria del bene sul male». Di nuovo la catastrofe dell''89-91, e al suo interno quella del Pci, nel testo del '96, e forse oggi più pungente di allora, intitolato «Sinistra e partito nel crollo della politica», e poi in quelli più recenti che dialogano con Lucio Magri e Alfredo Reichlin: nell''89 «non bisognava svendere, bisognava reinvestire», e invece «aver rinunciato alla necessaria critica della propria storia in favore di un pentimento a buon mercato ha aperto quell'età della subalternità, della non-differenza, della irriconoscibilità, che tuttora pesa sull'offerta simbolica di una possibile nuova sinistra». Di nuovo, infine, la lettura del presente finalizzata alla critica della democrazia, che in questo libro si arricchisce di due autentiche perle: i testi, uno in onore di Pietro Ingrao l'altro di Gianfranco Miglio, che sbrogliano l'intricato nodo del rapporto fra persona, personalità e personalizzazione nella deriva dalla politica novecentesca weberianamente incentrata sul beruf e sul carisma al populismo democratico di oggi incentrato sul gradimento e sui sondaggi.

Qui Tronti afferra la continuità e la discontinuità fra i totalitarismi novecenteschi e il virus neototalitario che minaccia le nostre democrazie con un colpo d'ala che vale la pena di riportare quasi integralmente: «I due esperimenti contrapposti, la nazionalizzazione delle masse da un lato, la socializzazione delle masse dall'altro, hanno generato un figlio unico, la personalità autoritaria. Oggi scorgiamo un fenomeno analogo: i due schieramenti politici che confusamente si confrontano in Italia, in Europa e in Occidente finiscono per produrre quell'effetto comune che è la personalità democratica». Ma se «la personalità autoritaria era la figura della decisione senza rappresentanza, la personalità democratica e la figura della rappresentanza senza decisione. Il capo populista non esprime il lato del potere ma il lato dell'obbedienza: è il terminale individuale di pulsioni di massa a cui deve obbedire, perché ha promesso di rappresentarle... Il capo eletto direttamente dal popolo non comanda, obbedisce». E le democrazie populiste ci consegnano il problema di una «sovranità popolare antipolitica» che sarebbe l'hic Rhodus della sinistra, se solo ci fosse una sinistra intenzionata ancora a saltare.

Torno da qui alla provocazione iniziale sulla «generazione di mezzo», perché come dicevo sopra è di questo che Tronti ha preso di recente a imputare il Sessantotto e il femminismo: di aver remato, declamando «un nuovo modo di fare politica», a favore dell'antipolitica. È un'imputazione che non cancella i riconoscimenti sia alla soggettività radicale del «biennio rosso» del '68-69 sia all'apporto culturale del pensiero della differenza sessuale (sulla critica dei diritti e del formalismo giuridico, sulla coppia potere-autorità etc.), ma che mira a destituire entrambi di valenza e di efficacia politica. Operazione in cui Tronti non è solo (si veda, sul manifesto, il recente dibattito fra Luigi Cavallaro, Guido Viale e Giuseppe Prestipino), e che non da oggi è oggetto, all'interno del Crs che Tronti presiede, di un confronto tutt'altro che diplomatico. Qui dico solo questo. Carissimo Mario, quella di mezzo è una generazione divisa: fra donne e uomini, fra chi il '68 l'ha fatto, chi non l'ha fatto e chi l'ha visto dal Pci, fra chi ha vissuto il femminismo e chi no, fra chi del '68 e del femminismo ha tratto certe conseguenze e chi altre, fra chi s'è invaghito dei nuovi inizi e chi non ci ha creduto neppure per un momento, fra chi ha fatto confusione e chi ha saputo distinguere fra libertà e neoliberismo, fra chi si è iscritto fideisticamente alla religione democratica e chi lavora, come te, «per la critica della democrazia». Perciò è proprio vero che, come scrivi, «bisognerebbe impiantare una ricerca seria, accurata, particolareggiata, sulla stagione che dal '68, attraverso i '70, porta al cambio di egemonia e al trionfo di tutte le pulsioni antipolitiche, di destra e di sinistra»: ma a patto di non confondere i percorsi della critica con quelli della crisi della politica, e di non scambiare il conflitto per connivenza, le rivoluzioni passive per convergenze, i rovesciamenti del senso per continuità; pena il farsi complici, sul Sessantotto e sul femminismo, di quella stessa damnatio memoriae che sacrosantemente combatti sul comunismo. Sarà che il bello di avere un'età, cioè una storia di cui dar conto, appartiene ormai anche alla «generazione di mezzo». E che il bello di avere dei maestri è l'unconditional love che ci lega a loro anche e di più quando, ti rubo l'espressione, l'accordo con loro si fa divergente.

Titolo originale: If we can't buy JG Ballard's former home, then we should at least erect a statue to him – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Si parla tanto della possibilità che venga messa in vendita la casa in cui è cresciuta JK Rowlings ( guarda: c’è un vecchio armadio nel sottoscala: deve essere da lì che è nata l’ispirazione per Harry Potter!), ed è passata invece abbastanza inosservata un’altra vicenda immobiliare.

È sul mercato la casa londinese di JG Ballard a Shepperton. Dove lo scrittore ha abitato e lavorato dal 1960 fino alla morte nel 2009. E lì non c’è bisogno di cianciare tanto a proposito di armadi nel sottoscala per capire quanto sia importante. Shepperton occupa uno spazio essenziale nell’immaginario di Ballard: era attratto da quella piattezza socioeconomica, da quell’ambiente suburbano britannico ritagliato da squallide corsie asfaltate, confinante con veri e propri non luoghi, aeroporti, tangenziali, e là dentro prosperava [ consiglio la descrizione di Shepperton fatta da Iain Sinclair nella sua visita a Ballard, raccontata in London Orbital n.d.t.].

Era dalle parti di Shepperton che si muoveva in auto il protagonista di Crash, racconto di come ci si potesse eccitare sessualmente con gli incidenti stradali. Scriveva in un altro romanzo: “ Al centro della città non molto più di un supermercato, una fila di negozi, un autosilo e un distributore di benzina. Shepperton, di cui avevo sentito parlare solo per via degli studi cinematografici, mi pareva un suburbio qualunque, il paradigma del nulla”.

Strano che il più anticonformista degli scrittori sia stato poi tanto devoto a uno spazio tanto banale. Ma è anche un indizio del modo in cui ha saputo dar forma alla sua arte. La cosa più straordinaria della sua autobiografia Miracles of Life del 2008 [ed.it I miracoli della vita, Feltrinelli 2009], è che si scopre come le immagini più surreali e sognanti delle sue prime opere – piscine vuote, piste da volo abbandonata, la buona educazione formale che si sovrappone all’evidente psicosi, una stravagante convivenza di decoro e brutalità – siano il frutto dell’infanzia in Cina nel periodo della guerra.

Quando arriva a Shepperton, Ballard resta affascinato da quella che gli appare come la perversione di una civiltà che finge di essere civile. Sta qui il senso del suo lavoro. Ballard trova il luogo del surreale, e ci va ad abitare. Ma ciò che a lui appariva surreale, a noi sembra normale.

Il sottotitolo dell’autobiografia descrive la sua vita come un percorso “ da Shanghai a Shepperton”. Gli piaceva scherzare su sé stesso. Un amico che l’ha intervistato diversi anni fa, si è ritrovato dentro a quella casa a “ guardare circospetto le tendine ingiallite alla finestra di quella che è la villetta più conciata di tutta la via. Il giardino è soffocato dalle erbacce, che rischiano di attaccarsi anche alle ruote della Ford Granada metallizzata sul vialetto. ‘L’aspetto alle 2.30, guardando attraverso le tendine della finestra’, mi aveva detto Ballard”.

Simon Sellars, che gestisce il sito web ufficiale dedicato a Ballard, ha proposto che gli appassionati si uniscano per trasformare quella casa in museo. Il prezzo fissato è di 367.000 €, e si precisa che l’edificio “ha bisogno di essere ristrutturato”. Ma non sarebbe meraviglioso, se questa “ristrutturazione” non dovesse avvenire mai? Sono andato sul sito dell’agenzia, e non ho trovato alcun riferimento di tipo letterario: c’era invece un pulsante per far partire una presentazione. Mi immaginavo a quel punto di vedere le solite foto a colori delle varie stanze all’interno. E invece la cosa assomiglia di più a una installazione artistica, un tributo al grande uomo.

Si apre una finestra. É la foto della facciata, una villetta a schiera di mattoni rossi con una malconcia porta d’ingresso giallina, le tendine alle finestre. Sta lì solo pochi secondi, e poi scompare, sostituita dalla foto del giardino totalmente ricoperto di erbacce. Zummata attraverso il fogliame, poi ricompare l’immagine originale, e ancora ingrandimento. Torna la facciata, in avvicinamento. Casa, giardino, casa, casa, casa, giardino. Meccanico, casuale, impersonale, piuttosto sinistro. Cosa sta in agguato dietro le erbacce? Cosa sta cercando di mostrarci questo tesissimo tira e molla, cosa c’è dietro quelle tendine?

Brillante, decisamente ballardiano. Il suo editore mi ha raccontato che lui si considerava come scrittore della modernità nel ruolo di quei tizi che si vedono a volte sullo spartitraffico nelle curve della superstrada, con quei cartelli improvvisati dove c’è scritto qualcosa tipo “ATTENZIONE!” o “PONTE INTERROTTO!”.

Se non riusciamo a comprare la casa, cerchiamo almeno di raccogliere abbastanza per una statua di lui che regge un cartello del genere. Potremmo sistemarla su Laleham Road, proprio nel punto in cui scavalca l’autostrada M3.

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