Un pianeta assoggettato a un unico modo di produzione che ha bisogno degli stati nazionali per continuare ad esistere. È questa la tesi che Ellen Meiksins Wood sviluppa ne Imperi del capitale (Meltemi, pp. 223, euro 18,50), un volume finito di scrivere quando i carri armati statunitensi scaldavano i motori prima di entrare in Iraq .L'autrice, che si è formata nella «Monthly Review» di Paul Sweezy e Harry Magdoff, considera insufficiente a spiegare che l'invasione dell'Iraq doveva servire a mettere sotto controllo le riserve di petrolio. La guerra di conquista, sostiene Ellen Meiksins Wood, oltre ad appropriarsi del petrolio iracheno serviva anche a rimuovere un ostacolo alla riproduzione del capitale e prevenire la formazione di un polo capitalista musulmano.
La parte più interessante del libro è tuttavia quella dove Ellen Meiksins Wood elabora una vera e propria tassonomia degli imperi che si sono succeduto nel mondo, mettendone in evidenza le ripetizioni, ma soprattutto le differenze. Per l'autrice abbiamo visto il formarsi e il declino di «imperi della proprietà», «imperi del commercio» e «imperi capitalistici» accomunati da una vocazione «universale», ma sostanzialmente diversi per quanto riguarda l'appropriazione della ricchezza dei paesi soggetti al potere imperiale. Una tassonomia, quella di Wood, capace di spiegare perché per Roma, Pechino, Madrid, Lisbona la conquista territoriale è stata essenziale per l'appropriazione della ricchezza, mentre per gli imperi costruiti dall'Olanda, da Venezia, Genova il dominio veniva esercitato attraverso il controllo e il governo del flusso delle merci. Da questo punto di vista, la parte del volume che l'autrice dedica alle opere di Grozio e a quelle di John Locke sono tra le più pregnanti per comprendere il punto di svolta nella «forma-impero».
Grozio è considerato il fondatore del diritto internazionale, mentre Locke è il filosofo che meglio di altri ha elaborato il moderno diritto di proprietà. Ma l'autrice ricorda anche che Grozio è un olandese che con i suoi scritti ha teso a legittimare la vocazione imperiale dei commercianti di Amsterdam, mentre Locke ha legittimato le enclosures perché rispondevano ad astratti criteri economici. In altri termini, tanto il filosofo olandese che quello inglese non giustificano il colonialismo per la superiorità morale degli «esportatori della civiltà» e la conseguente inferiorità dei «popoli incivili», ma perché risponde alle necessità economiche dei paesi conquistatori.
E se gli imperi olandesi e inglesi sono gli antenati dell'imperialismo, il problema nasce quando il fattore extra-economico, cioè l'uso della forza militare, sostituisce il potere del capitale di espandersi su scala planetaria. L'autrice parla di «eccesso di imperialismo», ma non nasconde che ci troviamo di fronte a una crisi che non riesce più ad essere risolta all'interno del modo di produzione. La «guerra senza fine» è dunque una risposta alla crisi dell'imperialismo. Una guerra che cancella il diritto internazionale, ma che deve rivalutare - quei la critica alle tesi di Michael Hardt e Toni Negri presenti in Impero - lo stato-nazione in quanto garante dello sviluppo capitalistico.
E tuttavia quello promosso dalla «guerra senza fine» è comunque uno stato nazionale a sovranità limitata, visto che è sottoposto a vincoli squisitamente economici definiti all'interno di una rete di altri stati nazionali, organismi sovranazionali e imprese multinazionali in cui è vigente una asimmetria di potere che spesso esautora la sovranità nazionale. In fondo le guerre in Kosovo, in Afghanistan e in Iraq non sono la cancellazione o la messa in minorità di realtà nazionali in nome di un ordine mondiale che rivendica l'esercizio di una sovranità imperiale.
il manifesto, 27 ottobre 2007
I professionisti della rassicurazione
di Marco Revelli
La coppia «Destra/Sinistra» è la valuta corrente essenziale dello scambio politico nelle democrazie occidentali, scrivevano, alla metà degli anni Novanta, John Huber e Ronald Inglehart1, due dei principali scienziati politici contemporanei. Esattamente come il prezzo e la quantità nelle transazioni economiche, la collocazione «a destra» o «a sinistra» compare infatti, con irriducibile costanza, in ogni analisi della pratica politica e delle sue logiche. Ne costituisce, in buona misura, la principale condizione di razionalità: la base di un sia pur precario «ordine del discorso» dotato di una propria sintassi condivisa. E così come nel caso del mercato la crisi di fiducia nella moneta prelude a un qualche, imminente, crollo economico, allo stesso modo la perdita di operatività e di consenso delle tradizionali culture politiche strutturate sull'antitesi «Destra/Sinistra» può essere letta come il sintomo, inquietante, di un'equivalente e incombente crisi sistemica in ambito politico.
Le mappe del disincanto
È questo, in fondo, lo scenario in cui ci stiamo muovendo in questo passaggio di secolo. Negli stessi anni in cui Huber e Inglehart ne affermavano la centralità, il cleavage «Destra/Sinistra» giungeva infatti al fondo di un travolgente ciclo negativo come principio di organizzazione del campo politico, facendo registrare il proprio minimo storico di consenso. Né le cose sono mutate significativamente nel decennio successivo: il Novecento sembrerebbe essersi chiuso con una fuga disordinata dalle appartenenze politiche che ne avevano strutturato, nel bene o nel male, l'esperienza storica.
Se prendiamo in considerazione il paese in cui la distinzione tra destra e sinistra è nata, e in cui la politica ha assunto tradizionalmente carattere paradigmatico - la Francia, dove una rilevazione Tns Sofres per conto della Fondazione Jean Jaurés e del «Nouvel Observateur» copre ormai sistematicamente da un trentennio gli umori dell'elettorato su questo tema -, il fenomeno è particolarmente evidente. Qui, ancora all'inizio degli anni Ottanta, di fronte alla domanda sull'attualità delle nozioni di destra e sinistra, solo il 33 per cento degli intervistati affermava di ritenerle «superate», ma già nel 1984 essi erano saliti al 49 per cento. Alla fine del decennio (nel pieno del lungo ciclo mitterrandiano) la percentuale saliva al 56 per cento, per raggiungere il picco del 60 per cento nel 1992. Livello mantenutosi, con piccole variazioni, in tutto il successivo decennio, fino al 2002. Il che significa che, all'inizio del XXI secolo, solo poco più di un terzo dell'elettorato francese continuava a credere nel valore identificante di quell'antitesi. Il grosso ne aveva preso silenziosamente congedo, e non certo la parte più sprovveduta. Può essere interessante, a questo proposito, considerare il fatto che le percentuali più alte di giudizi negativi sulla validità della coppia «Destra/Sinistra» si registrarono tra la parte di popolazione più colta (il 71 per cento dei laureati e diplomati si pronunciarono in tal senso) e tra i «quadri» e le «professioni intellettuali» (73 per cento): in quello che Paul Ginsborg definirebbe il «ceto medio riflessivo», il nucleo più sensibile, anche se meno organizzato, dell'opinione pubblica.
Ciò non significa tuttavia - come ognuno può quotidianamente constatare - che i termini «destra» e «sinistra» siano scomparsi dal nostro linguaggio pubblico. Che, caduti in discredito, siano anche caduti in disuso. Anzi. Nonostante le infinite dichiarazioni di morte presunta, continuiamo a ritrovarceli davanti, con insospettata vitalità, non appena si incominci a parlare di politica. A farne la «cronaca». Sui giornali, in primo luogo, dove ripudiati un'infinità di volte dagli opinion leaders nelle pagine culturali, o comunque là dove si fanno riflessioni «alte», quegli «screditati residui dell'epoca delle ideologie e delle appartenenze» vengono poi frequentati sfacciatamente sulle prime pagine dai loro colleghi che debbono occuparsi, più prosaicamente, della «cucina politica» di tutti i giorni (...). Ma anche negli atteggiamenti dell'elettore medio, quando si tratti di autorappresentarsi politicamente, la contraddizione si ripropone. Quegli stessi che nel sondaggio sulla validità del cleavage ne decretavano plebiscitariamente il superamento, poi, se richiesti, nello stesso questionario, di collocarsi su una scala orientata da sinistra a destra continuavano a farlo diligentemente. Con una certa difficoltà, certo (sono sempre più esigue le identità «pure», posizionate agli estremi, cresce il «centro» non politicizzato, espressione di una qualche difficoltà a identificare una propria collocazione netta), ma tutto sommato maggioritariamente (solo un terzo si sottrae rifiutando di autocollocarsi o ponendosi in quella che gli autori della ricerca definiscono «la palude»). Sintomo, verrebbe da dire, di un qualche disagio psichico della coscienza politica, di una sconnessione tra pensiero e azione, tra rappresentazione mentale e realtà (...). Comunque un paradosso, da cui prende origine, a sua volta, un'intera serie di paradossi.
Affollamenti autoritari
Un primo paradosso è costituito dall'immagine implacabilmente uniforme, monocroma e omogenea dello spazio pubblico che si otterrebbe se si applicasse rigorosamente agli schieramenti politici attuali nelle principali democrazie occidentali lo schema intrinsecamente dicotomico e polarizzato «Destra/Sinistra», concepito all'opposto per panorami differenziati, policromi e disomogenei, e ad essi destinato. Si guardino, per averne un'impressionistica rappresentazione, le «mappe» più recenti disegnate seguendo lo schema del political compass, il quale struttura cartesianamente lo spazio politico in quattro quadranti delimitati da un asse orizzontale orientato da sinistra a destra a seconda degli atteggiamenti più o meno «interventisti» in campo economico e sociale e da uno verticale orientato dall'alto al basso a seconda degli atteggiamenti più o meno autoritari o libertari nel campo del costume. Si consideri, ad esempio, la cartografia politica dei candidati alle primarie americane di entrambi i partiti così ottenuta, la quale ce li mostra affollati, pressoché tutti, nel quadrante degli «autoritari di destra», dove ritroviamo, in bizzarra convivenza, Hillary Clinton e Newt Gingrich (parecchio più in alto sull'asse dell'autoritarismo e un poco più a destra), John McCain e Barak Obama (leggermente più verso il centro rispetto alla Clinton, ma anche più «autoritario»), John Edwards e Rudy Giuliani. Solo due figure minori - Dennis Kucinick e Mike Gravel - sfuggono a questo destino, rientrando, sia pur di poche lunghezze, nel quadrante dei «libertari di sinistra». Allo stesso modo per la collocazione dei governi europei, nel 2006: tutti concentrati nel quadrante in alto a destra, con la sola eccezione di Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda, pur sempre «a destra» ma, contrariamente agli altri, di pochissimo al di sotto dell'asse che separa gli autoritari dai libertari. E fa, bisogna dirlo, un certo effetto - anche se una sua razionalità ce l'ha - vedere il Regno Unito del new labour Tony Blair quasi con le stesse coordinate spaziali della Grecia dell'ultraconservatore Costas Karamanlis e significativamente più a destra della Francia neogollista di Jacques Chirac.
Diseguaglianze globali
Un secondo paradosso - per molti aspetti un paradosso nel paradosso - consiste nel fatto che questo appannamento (per usare un eufemismo) ed estenuazione della dicotomia «Destra/Sinistra», questa sua perdita di «corso legale» (per riprendere la metafora monetaria), si manifestino proprio nel momento in cui, su scala globale, lo scandalo della diseguaglianza esplode in tutta la sua evidenza. Nella fase storica in cui, cioè, la questione dell'«eguaglianza» - che come ha ben dimostrato Norberto Bobbio costituisce il principale, se non l'unico, tema discriminante tra sinistra e destra - assume (o dovrebbe assumere) tutta la sua indilazionabile crucialità ai fini del confronto, politico per eccellenza, sull'elaborazione di un «ordine condiviso». Ora, il dover constatare che le distanze politiche tra destra e sinistra si vanno riducendo nell'immaginario collettivo, fin quasi a perdere di senso, mentre le distanze sociali tra i primi e gli ultimi sul piano planetario vanno crescendo o comunque rivelandosi in una dimensione fino a ieri ritenuta intollerabile, la dice lunga sul male oscuro che sembra minare oggi, nel profondo, la razionalità politica e, in generale, la sfera stessa del «politico», così come la nostra modernità l'ha concepito.
Certo, i professionisti della rassicurazione vanno da tempo ripetendo che va bene così. Che questo attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è normale. Di più: che è il segno della compiuta normalizzazione, di un auspicato e auspicabile passaggio della politica, finalmente, dallo stato adolescenziale a quello della maturità, dall'infatuazione ideologica a una conquistata dimensione pragmatica, in cui la ricerca comune delle soluzioni possibili prevale sull'enfatizzazione dei problemi insolubili. Dilagano, ma non convincono. Pur con la pervasiva forza mediatica del luogo comune, non riescono a dissipare del tutto la sensazione di un «disordine nuovo» al di sotto di questa inedita commistione degli opposti. L'impressione che questa politica finalmente liberata dai propri consolidati «riferimenti ideologici», più che pragmatica, sia caotica. Come un mercato dopo la «morte della moneta» o un linguaggio privo di grammatica e sintassi. E che lungi dall'essersi arricchita di una maggior concretezza, la sfera politica sia al contrario minata da una accentuata vuotezza (...).
Le fragili alternative
In fondo, le ragioni della «famigerata» contrapposizione tra destra e sinistra - la materialità dei problemi e dei (potenziali) contrasti, la durezza e perentorietà delle alternative -, sono ancora tutte lì, sul tappeto «globale», per certi versi potenziate e ingigantite dall'unificazione dello spazio planetario. Quello che manca, drammaticamente, sembrano essere, invece, le soluzioni e i soggetti politici disposti a farsene carico. Cosicché è difficile sottrarsi alla sensazione che questo indifferenziato convergere di programmi e proposte su un repertorio ristretto di atteggiamenti condivisi (...) non derivi, in realtà, dall'approdo a uno stile di risposta razionale alle sfide del tempo, ma da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un'obiettiva assenza di risposte possibili, all'interno dell'orizzonte politico contemporaneo, alle questioni vitali del nostro vivere in comune. Il che equivarrebbe - bisogna ammetterlo - al fallimento della politica in quello che costituisce, in senso proprio, il suo compito qualificante.
La Repubblica, 27 ottobre 2007
Che cosa vuol dire aver perso l’identità
di Massimo L. Salvadori
Marco Revelli è uno studioso che nel suo impegno intellettuale mette passione. Lo si vede anche nel suo ultimo libro, Sinistra Destra. L’identità smarrita (Laterza, pagg. 272, euro 15), che potrebbe altresì intitolarsi, mi pare, «Avventure e disavventure della Sinistra e della Destra verso l’ignoto». Un saggio vivo e interessante.
Il compito ch’egli si è posto è triplice: identificare Sinistra e Destra nei loro valori fondanti e contenuti concettuali; seguire tappe significative della loro evoluzione; ragionare su che cosa ne resta in un mondo come l’attuale il quale presenta tratti del tutto inediti rispetto al passato. L’interrogativo che alla fine incombe è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito?
L’intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall’altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. Di fronte alla possibilità di una ricostruzione delle identità, Revelli, per prudenza, preferisce tacere, poiché vede l’ostacolo: l’enorme difficoltà dei soggetti, a partire da quello amato, la Sinistra, di ridarsi forma e riprendere sostanza nel mondo globalizzato.
La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l’autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell’eguaglianza, dell’autodirezione, della democrazia, l’approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l’amore per il logos; dall’altra la bandiera della conservazione, l’appello ai beni della tradizione, il valore delle diseguaglianze, dell’eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l’ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l’amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci.
Per addentrarsi nelle vicende di siffatti modelli e relative contaminazioni, Revelli si appoggia per la destra alle classificazioni di René Rémond, per la sinistra di Georges Lefranc. E ne ricava l’individuazione di tre destre e tre sinistre. Le destre sono quella tradizionalista, che si caratterizza nel senso di un intransigente inegualitarismo e assolutismo; l’orleanista, che recupera il senso della storia ma ambisce a gestire il movimento senza sostanziali mutamenti nel segno della continuità, piega liberalismo e elementi di democrazia al primato delle buone élites; la bonapartista, la destra anomala che usa la rivoluzione e il suffragio universale contro le istituzioni parlamentari, vuole le masse nazionalizzate nello Stato autoritario, distrugge sia le sinistre sia le altre destre.
Ed ecco le sinistre: la liberale e parlamentare, che intende l’eguaglianza in maniera «relativamente ristretta», è nemica dei privilegi artificiali, si estende dalla borghesia agli strati inferiori, è individualista, affida la sua rappresentanza alle minoranze acculturate e professionalizzate; la sinistra democratica, rispecchiata dapprima nella costituzione giacobina del 1793, la quale patrocina in via di principio l’accesso di tutti alla partecipazione politica, tende ad assumere un tratto iperpolitico per il ruolo che affida al governo dei virtuosi contro i suoi nemici; la sinistra egualitaria, sociale, che, partendo da Jacques Roux, da Babeuf e Maréchal e arrivando a Marx e Lenin, oppone i ricchi ai poveri, i borghesi ai lavoratori, persegue il grande salto dall’eguaglianza formale alla sostanziale, la mobilitazione delle masse contro gli sfruttatori, la proprietà comune, l’autodeterminazione del popolo e in attesa che questa sia matura ne affida la causa alla dittatura dei pochi.
Fissate le categorie, indicati i grandi tipi della sinistra, Revelli - che, e non capisco perché, sorvola sulle sinistre che hanno scritto la storia della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, vale a dire il socialismo rivoluzionario e riformista, la socialdemocrazia e il comunismo al potere, il socialismo liberale (che hanno, tra l’altro, offerto esempi di tante «contaminazioni») - corre al mondo d’oggi, all’ultimo Novecento «quando - scrive - il dibattito su destra e sinistra subisce una brusca modificazione», in cui la vecchia grammatica non appare più in grado di servire alla coniugazione del discorso politico e sociale e la distinzione tra destra e sinistra viene vieppiù giudicata obsoleta.
Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell’economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell’identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato.
E che sia così mutato Revelli, a mio avviso giustamente, concorda, e spiega a sua volta perché. Con l’avvento della fase postindustriale che in misura crescente riduce il peso della classe operaia e del lavoro dipendente nelle forme tradizionali, si è spezzato il tradizionale cordone ombelicale tra il soggetto economico-sociale e la sinistra politica organizzata tesa a dirigerlo e a costruire un nuovo ordine. Con la crisi dello Stato nazionale in quanto spazio politico definito della dialettica conflittuale destra-sinistra, ha preso il sopravvento la dimensione dello spazio globalizzato indefinito, in cui grandeggiano «le nuove oligarchie onnipotenti» che dominano finanza, industria, allocazione delle risorse, mezzi di comunicazione. In conseguenza, «è davvero la politica ad aver perduto il proprio supporto materiale». Svuotati la sovranità dello Stato, l’autonomia della politica dalle sfere della moralità e dell’economia, i diritti universali, democrazia e legittimità quali fondamenti del potere. In luogo dello spazio solido degli Stati determinati è andato costituendosi un immenso universale spazio liquido, nel quale «la dinamica egualitaria», anima costitutiva e trainante della sinistra conosce un processo di sospensione e persino di rovesciamento.
Il quadro delineato da Revelli nel descrivere il mondo globalizzato, con molti riferimenti a Ulrich Beck e Zygmunt Bauman, credo colga bene le tendenze di fondo, ma credo anche che egli, nel farlo, prema troppo l’acceleratore nel ritenere dissolta la sovranità degli Stati non soltanto piccoli e medi ma anche grandi e nel vedere il potere delle oligarchie dominanti collocarsi, per effetto della «rivoluzione spaziale», al di sopra del globo in posizione di piena autonoma dalla politica. A mio giudizio, le cose stanno in parte sostanziale altrimenti. Né gli Stati Uniti, né la Russia, la Cina, l’India, l’Unione Europea si configurano come realtà statali in cui il potere politico abbia cessato di detenere un sostanzioso potere. Quanto alle grandi oligarchie economiche, esse sì agiscono al di là di ogni confine, ma hanno baricentri che si innervano nei grandi Stati, con le quali mantengono rapporti organici. Mirano in molti casi, e con successo, a vanificare l’autonomia della politica, ma non sempre riescono a farla da padroni). Occorre tener conto delle tendenze, ma anche dei loro limiti (e su questo tema stimolanti riflessioni ha svolto recentemente Sabino Cassese).
Revelli vede imporsi nuove gerarchie di «signori» e «servi della gleba», la democrazia conoscere una deriva accentuatamente oligarchica, nel quadro di un’inedita «rifeudalizzazione» che fa emergere tutta la profondità del «vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso». E la sinistra, che fa e che può fare? Convengo con lui pienamente che la sinistra in quanto soggetto all’altezza di inediti compiti in vero boccheggi, e appaia smarrita culturalmente e inefficace praticamente. Ma, se il quadro delle diseguaglianze sociali e politiche è quello che delinea Revelli, bisogna davvero escludere che il morto batta infine un colpo? Se non sarà in grado di farlo, se alle sfide non seguiranno le risposte, allora bisognerà concludere che l’identità della sinistra è non solo smarrita, ma perduta. Di fronte alla possibilità che gli «accenni di alternativa» alla crisi in atto non prendano corpo, l’autore così tira le somme: in tal caso «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle».
Prefazione al libro di Gabriella Corona, I ragazzi del piano , Donzelli, Roma 2007. In calce la presentazione editoriale
1. Un originale gruppo intellettuale.
La storia del gruppi intellettuali – tema caro a Gramsci e a pochi storici della cultura – non gode in Italia di troppi cultori e non ha sedimentato una tradizione, se non quella relativa alla vicenda delle avanguardie letterarie e artistiche tra Otto Novecento. Oppure è rintracciabile, in forma indiretta, nella ricostruzione dei gruppi dirigenti dei partiti politici, cioè come un capitolo della storia dei partiti. Dunque, il primo elemento di originalità da segnalare, di questa fatica di Gabriella Corona, è la singolarità del gruppo intellettuale di cui ella ha ricostruito la storia. I «ragazzi del piano» costituiscono, infatti, una piccola comunità intellettuale, aggregatasi per ragioni storiche e per fortuite casualità, che non si impegna a innovare metodi espressivi, ad elaborare idee o a mettere in atto varie strategie per conquistare posizioni di potere. Essi non sono né artisti né politici di mestiere, ma sono urbanisti che vivono una particolare fase della vita civile italiana della seconda metà del XX secolo. L’originalità di questo gruppo – e della storia che ne ricostruisce le vicende - sta dunque, preliminarmente, nella particolare interpretazione della professione di urbanista che essi incarnano in quegli anni. I protagonisti di questa vicenda non progettano in astratto modelli di città, perché i loro saperi professionali non sono il puro risultato di un pur brillante curriculum accademico. La loro formazione di architetti è inseparabile dal processo di partecipazione quotidiana alla vita civile di una città, Napoli, che è – direi quasi per definizione – un concentrato di problemi urbani. Come racconta l’autrice, i ragazzi del piano, conclusi gli studi, non scelgono la professione privata, ma riversano tutti il loro impegno, in vario modo e con diverse scansioni temporali, nei diversi ambiti della Pubblica Amministrazione. Essi elaborano saperi destinati a trasformarsi in progetti, soluzioni legislative, che hanno bisogno dell’impegno pubblico e che tendono a fare di tale potere il soggetto di governo principale, sia a livello centrale che periferico, delle trasformazioni urbane.
Come scrive con acutezza Gabriella Corona questo gruppo di urbanisti esprime «un’esigenza di governo della città in quanto “cosa pubblica”». Una nozione che oggi non è più né ovvia né scontata. Se mai lo è stata in Italia. Quell’insieme di realtà «private», fatte di individui, famiglie, singoli edifici, manufatti, patrimoni abitativi, ecc. pur ricadendo in prevalenza nell’ambito della proprietà individuale forma in effetti una dimensione collettiva di vita associata, che è regolata nella sua interezza da norme pubbliche. Lo spazio delle città, dove i cittadini vivono, operano, si spostano, scambiano relazioni, è per eccellenza, a dispetto delle sue divisioni funzionali, dei suoi mille e invisibili confini, uno spazio collettivo, che vive grazie all’universalità del suo uso. È l’esistenza di questa dimensione che consente agli individui di uscire dalla sfera domestica e di farsi società. Essere cittadini non coincide con la dimensione dell’essere proprietario di una casa o di uno terreno collocato in città, ma nel godere e nell’essere regolato da diritti e doveri universali. Proprio per tale ragione ogni operazione di occupazione e modificazione dello spazio urbano non dovrebbe avvenire a esclusivo soddisfacimento di un interesse privato. La città è un corpo inscindibilmente solidale, un’arena di interessi generali che vive, opera e funziona esattamente perché gli interessi individuali si armonizzano costantemente e invisibilmente con quelli di una intera comunità.
Tali convincimenti di fondo, che ispiravano i ragazzi del piano all’inizio della loro carriera, a metà degli anni Settanta, erano per un verso il portato della loro cultura urbanistica, fondata su una illustre tradizione italiana, e al tempo stesso l’esito della storia politica di quegli anni. Questi giovani urbanisti avevano attraversatocome studenti la grande stagione del 1968, ma già pochi anni dopo, nel 1973, avevano dovuto fare i conti con una grave emergenza urbana: il colera. L’esplosione improvvisa dell’epidemia ricordava ai napoletani, all’Italia e all’intera Europa di quegli anni, che nel cuore di una grande città della seconda metà del Novecento poteva risorgere lo spettro di malattie di antico regime che si credevano sconfitte per sempre. Le lotte popolari che seguirono a quell’evento, la diffusione dei Consigli di quartiere, i dibattiti aspri e intensi che attraversarono la città – all’unisono con le riflessioni su quella vicenda nell’intero Paese – hanno dato una forte curvatura ambientalista – lo ricorda l’autrice – ai problemi urbani di Napoli. Un’impronta culturale che per la verità a Napoli era antica, risalente almeno ai primi anni del ’900, all’insediamento dell’Italsider a Bagnoli, come la stessa Corona ha messo in luce in altri suoi studi. D’altra parte, se si considera la collocazione di Napoli appare facile comprenderne le ragioni. La città è incastonata nel cuore di una natura in perenne movimento e ne è dipendente come poche altre in Italia. Posta ai piedi di un vulcano ancora attivo, essa deve al lavorìo secolare del Vesuvio, oltre a rovine e distruzioni, anche l’impareggiabile fertilità dei terreni agricoli che la circondano. Quei suoli hanno fornito quotidianamente, per secoli, cibo fresco ad una delle più numerose popolazioni urbane d’Europa. Ma la città è anche collocata sul mare, in un sito di incomparabile bellezza: e quel mare le ha permesso di essere città-porto di prima grandezza, centro turistico in età contemporanea, luogo affollato di balneazione fino a quando l’inquinamento lo ha permesso
Ora, tuttavia, la città aveva a che fare con la natura in altro modo. Il legame tra vita urbana e ambiente (inquinamento idrico, scarsità di acqua potabile, sistema fognario inefficiente, discariche abusive, sovraffollamento degli spazi abitativi, ecc.) ritornava con drammatica originalità. Ma quell’evento pandemico era in realtà una rivelazione dell’assoluta singolarità della struttura urbana di Napoli e della sua storia secolare. La città tornava a ricordare in quegli anni la peculiare e stratificata irrazionalità non tanto del suo impianto originario quanto, e soprattutto, della sua successiva espansione. Si tratta di un grande e aggrovigliato nodo che qui occorre almeno rammentare. In questo nodo, infatti, risiede la non comune esemplarità della vicenda, dell’impegno, delle realizzazioni di questo gruppo di urbanisti e al stesso tempo l’originalità del libro della Corona. Questo saggio, infatti, riesce a tenere insieme con sapiente equilibrio, non solo la storia già di per sé singolare di un gruppo di eccellenti urbanisti, dei loro dibattiti, progetti, successi e sconfitte, ma anche la storia di Napoli nella seconda metà del XX secolo, la vicenda di una città particolarissima riletta nel contesto della storia d’Italia di quella fase: non solo la storia delle congiunture e delle stagioni urbanistiche, ma anche quella delle vicende politiche, delle trasformazioni dello spirito pubblico nazionale. Credo di poter dire che raramente, come nel caso presente, è stata raccontata una pagina intensa della storia d’Italia attraverso le vicende di una città. Affondando lo sguardo analitico in quel ribollente frammento e laboratorio che è stata Napoli negli ultimi decenni del secolo scorso.
2. Napoli, città speciale.
Questo vasto aggregato urbano, come si ricordava, non è una città come le altre. Per usare le parole di un autorevole urbanista, Luigi Piccinato – citato dall’autrice – esso è il risultato di un prolungato errore storico di uso del territorio da parte delle popolazioni: «Napoli è una città che si è sviluppata inorganicamente in forma perenne, sommando sempre gli stessi errori. Cioè un addensamento folle lungo la costa, a ridosso della costa, dimenticando l’interno di una Comune ricchissima, bellissima e piena di possibilità». Val la pena qui rammentare che per tutta l’età moderna Napoli è stata una delle più grandi e più popolose città d’Europa, e che il suo impianto storico è venuto perdendo col tempo le sue originarie ragioni insediative. L’ irrazionale agglomerazione degli abitanti ha portato la città nei secoli e nei decenni a sovraffollare gli spazi disponibili, a restringere gli abitati tra la montagna e il mare, a «sovraccrescere» su se stessa, facendo arrampicare gli edifici uno su sull’altro. Proprio tale illogicità degli addensamenti abitativi rivela come l’evoluzione urbana abbia ubbidito a bisogni disordinati, conformistici e poco lungimiranti dei cittadini e dei gruppi dirigenti. Qui davvero si rivela come la città quale «cosa pubblica» non aveva trovato la possibilità di esprimersi secondo un piano di espansione che rispondesse a lungimiranti interessi generali. Mentre il Novecento, con la sua drammatica esplosione demografica, ha finito col rendere patologica tale tendenza. Ed è davvero rivelatore e degno di nota il fatto – ricordato dall’autrice – che una commissione del Ministero dei Lavori pubblici abbia giudicato come abusivi la quasi totalità degli edifici costruiti in città dal secondo dopoguerra agli anni Settanta.
Tali brevi considerazioni sono indispensabili per capire il contributo davvero straordinario che il gruppo di urbanisti di cui si fa la storia in questo libro hanno dato alla trasformazione della loro città. Tanto più se si ricorda che esso ha dovuto servirsi di uno strumento politico-amministrativo (il Comune di Napoli) segnato da una singolare e caotica inefficienza amministrativa. Un aggrovigliato intreccio di retaggi storici e di vincoli sociali che Ada Becchi – una studiosa che ebbe un breve ruolo nella prima giunta Bassolino – analizzò con acutezza in saggio pubblicato su «Meridiana » nel 1994.
Qui non è ovviamente possibile neppure per cenni disegnare i vari percorsi storici del gruppo, cadenzato dalle svolte politiche nel governo della città: le giunte del comunista Maurizio Valenzi, la loro caduta, il ritorno di Gava, l’emergenza del dopo terremoto, la giunta Bassolino, gli anni recenti della sindacatura di Rosa Russo Iervolino. E neppure riassumere tutti i mutamenti strutturali introdotti nel corpo vivo della città dagli interventi ispirati dai «ragazzi del piano». Basti pensare che essi, e soprattutto De Lucia, hanno dovuto affrontare in quegli anni uno dei più rilevanti casi di dismissione della storia industriale d’Italia: l’Italsider di Bagnoli. Il lettore appassionato troverà nel testo una non comune messe di informazioni, dati, analisi, interpretazioni fondate su documentazioni di prima mano. Val la pena qui ricordare, tuttavia, che il lungo lavoro di questo gruppo di urbanisti – pur alla fine dissoltosi – si può idealmente considerare concluso con l’approvazione del piano regolatore del 2004. Un documento di programmazione che finalmente non punta all’espansione dei manufatti urbani, come continua ad avvenire, legalmente o illegalmente, in tutte le città italiane, ma all’integrità del territorio, alla sua conservazione e tutela. Si tratta di una conquista importante, che mostra a distanza i risultati di un grande e tenace lavoro, ma che costituisce – per gli studiosi e per gli osservatori non superficiali – anche un caso esemplare di difformità e contraddittorietà dei processi materiali all’interno di una determinata fase storica. A volte correnti sotterranee, che hanno origini non prossime, continuano a percorrere in senso inverso il corso principale della storia come animate da una forza indipendente. Val la pena ricordare che mentre l’Italia, tra il 2001 e il 2006, ha vissuto la fase culturalmente e moralmente più degradante della sua storia repubblicana, infliggendo colpi di rilevante gravità allo spirito pubblico e al senso civile degli italiani, a Napoli la forza residuale, l’onda lunga di un grande progetto, almeno sul piano urbanistico, ha offerto un sorprendente fenomeno di controtendenza. Certo, insufficiente a contenere i piccoli e grandi fenomeni di criminalità che cadenzano ormai la vita quotidiana di Napoli, il traffico tumultuoso e disordinato, l’inquinamento diffuso dei rifiuti urbani: tutti tratti che hanno rapidamente cancellato l’immagine di città risorta offerta dalla prima giunta Sassolino. Ma questi non sono che eredità nefaste di antichi problemi locali, e al tempo stesso espressione, a pieno titolo, dell’immiserimento recente della vita civile della nazione.
Pur nei limiti di una breve prefazione, tuttavia, qui non è possibile tralasciare almeno alcuni aspetti di questa vicenda di storia urbana, che l’autrice ricostruisce con una sensibilità e una curvatura di storia ambientale sicuramente nuova, per lo meno nella storiografia contemporaneistica italiana.
Non è per mero gusto, tipico dello storico di mestiere, di ordinare eventi e processi entro le maglie ordinate delle periodizzazioni temporali. Ma credo sia giusto segnalare come l’ispirazione o la spinta per ripensare Napoli come «cosa pubblica» e per tentare di ridisegnarla secondo logiche di interesse generale, sia venuta da tre eventi tra loro molto diversi e che scandiscono altrettante fasi storiche dell’Italia della seconda metà del Novecento: il colera del 1973, già ricordato, il terremoto del 1980 – che introdusse una frattura drammatica nell’agglomerato abitativo e nella stessa vita quotidiana di Napoli – e la giunta Bassolino ai primi anni ’90, che nacque sull’onda di un ritrovato protagonismo dei cittadini italiani, di riemersione della capacità progettuale dei gruppi dirigenti, dopo il tracollo del blocco incancrenito del sistema politico nazionale e del dominio delle oligarchie di partito.
Com’è noto a molti italiani non più giovani, la ricostruzione del dopo terremoto del 1980 ha sicuramente rafforzato la tradizione dell’uso distorto e clientelare del danaro pubblico e creato non pochi problemi di legalità a Napoli e forse soprattutto nelle società delle altre aree colpite dal sisma. Tale immagine vulgata, tuttavia, nasconde in maniera poco equanime i rilevanti effetti urbanistici che la ricostruzione ha messo in moto o direttamente realizzato Lo storico potrebbe oggi prendersi il gusto di comparare quanto è stato realizzato a Napoli in materia di urbanistica nel corso del decennio Ottanta e l’immagine pubblica che della città ha fornito la stampa nazionale, troppo proclive a denunciare gli scandali delle malversazioni (com’è sacrosanto che avvenga) ma poco incline a dar conto dei processi positivi, della trasformazioni di portata generale, che non fanno clamore, che spesso non sono racchiudibili in un evento, non rientrano in una logica di narrazione e di cronaca. Immagino che la divaricazione risulterebbe clamorosa. In quel decennio, infatti, diversamente da quanto avveniva in tante altre aree del Paese, i «ragazzi del piano» andavano progettando un ridisegno radicale della città di Napoli. Essi intanto cercarono di affrontare l’emergenza (le abitazioni civili distrutte o rese pericolanti dal sisma) con un vasto programma di edilizia residenziale, varato nel 1981, e destinato a correggere uno dei mali storici della città: il sovraffollamento insediativo nel centro storico. Si trattava di una questione socialmente e politicamente assai delicata, eppure furono realizzati allora ben 5000 espropri di abitazioni, per poter intervenire con operazioni di demolizione o di ristrutturazione e recupero In meno di un decennio, al luglio del 1989, risultavano edificati oltre 11 mila nuovi alloggi, insieme a strutture mediche, scolastiche, culturali, uffici pubblici, chiese. Non si trattò semplicemente di edifici che rispondevano a drammatiche e talora urgenti esigenze sociali. Essi facevano parte di un piano più generale che ubbidiva a una nuova idea di città. Non per nulla alla fine del decennio risultavano costituite 16 aree verdi di ampiezza fino a 10 mila m2, 15 parchi di quartiere da 10 mila a 100 mila m 2,3 parchi urbani di oltre 100 mila m2 e una vera e propria area di rimboschimento in località Miano. All’indomani del terremoto, infatti, e soprattutto a metà del decennio si fa strada l’idea che il verde, l’incolto, il non costruito diventa fondamentale per ricostruire la città. Una città – è questo un dato davvero singolare ricordato dall’autrice – che sino alla seconda guerra mondiale ospitava al suo interno più suoli agrari che suoli costruiti. Molti degli spazi verdi che verranno inaugurati dalla giunta Bassolino – ricorda Vezio de Lucia, assessore all’Urbanistica in quella stessa prima giunta e riconosciuto dal gruppo come il maestro e come il principale ispiratore del suo operato – erano stati progettati e in parte realizzati secondo l’impulso e le culture che avevano ispirato i piani della ricostruzione. In quegli anni, rammenta ancora de Lucia in una citazione della Corona «Il motto dei 12 giardini era “ogni quartiere della periferia deve avere una villa grande come la villa comunale di Napoli”». Si trattava di un modo nuovo di concepire le periferie, non più come segregazione spaziale dal centro storico, ma come aree dotate di servizi adeguati, ed anche di una più ricca qualità ambientale, grazie al verde superstite o ricostruito in aree abbandonate. L’ambiente, la salubrità, il verde, la bellezza del paesaggio si affermano come valori urbani. In quella fase con la legge Galasso del 1985 – significativamente anch’essa nasceva per iniziativa di un politico napoletano, e dunque «a Napoli», singolare laboratorio di nuovo urbanesimo e di importanti iniziative legislative – la tutela dell’ ambiente e del paesaggio si imponevano nella legislazione nazionale, e quel successo aiutava gli urbanisti napoletani e imprimeva una sensibile innovazione nella cultura politica italiana.
3. Gli orti in città.
In coerenza con tutto il quadro storico generale tracciato, l’autrice individua gli anni Novanta del secolo scorso una fase di svolta nella storia della pianificazione urbana a Napoli, tanto in linea generale che in riferimento alla seconda metà del decennio precedente. Essa scandiva «un mutamento sostanziale degli obiettivi fondamentali dell’intervento che consisteva nel restituire valore alla bellezza dei luoghi e nel recuperare il territorio come risorsa. Da una fase di oblio quasi totale della natura nell’organizzazione del territorio durante la seconda metà degli anni ottanta si passa ad una pianificazione fondata su una concezione della città che attribuisce una grande importanza al carattere produttivo delle risorse naturali». Con una ampiezza che non aveva precedenti il cuore urbano di Napoli veniva osservato nella sua più ampia collocazione territoriale, nei vasti e molteplici spazi di una geografia che coglieva ora anche i nessi nascosti e le relazioni di più ampia scala tra la città e i suoi dintorni. Agli Indirizzi per la pianificazione urbanistica, pubblicato dal Comune nel 1994, venne allora affidato l’ambizioso disegno di riplasmare il secolare rapporto tra Napoli e le sua campagna. Si esprimeva in quel documento e in generale nelle elaborazioni urbanistiche di quella fase il riemergere di una nuova ispirazione ambientalista che attraversava la cultura politica napoletana e in parte anche quella nazionale. Sotto il profilo strettamente culturale, quegli Indirizzi riprendevano una concezione che risaliva a oltre un decennio prima. Come l’autrice ricorda costantemente, i « ragazzi del piano» avevano sempre cercato di pensare la città come ambito di classi e di bisogni sociali, ma anche come habitat, come luogo in cui la natura ha sempre posto, per soggiogata e manipolata che sia. Perciò anche il tentativo di porre fine, a partire dagli anni Ottanta, alla marginalità sociale delle aree periferiche intorno a Napoli si era colorata di forti motivazioni ambientaliste. « Il piano delle periferie in particolare – ricorda Corona – era fondato su un principio di tutela delle cinture verdi della città, e cioè quel principio secondo il quale la pianificazione era chiamata a definire i rapporti tra urbano e rurale, a stabilire i limiti all’attività dei privati nel processo di espansione della città proprio in nome del benessere e della salute dei cittadini. Quel principio aveva ispirato l’azione del garden city movement fin dagli inizi del Novecento in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Spagna, Polonia, Cecoslovacchia, Russia, Stati Uniti, e l’ampia legislazione inglese sulle green-belt cities del secondo dopoguerra. Con grande ritardo, l’Italia partiva ora da Napoli. E significativamente, sia sotto il profilo politico che ambientale. Negli anni Novanta, infatti, la prima giunta Bassolino restituiva alla progettualità della politica uno slancio e una energia operativa che essa aveva perduto da tempo, specie nell’Italia meridionale, mentre la ricchezza ambientale della città e della sua periferia offrivano possibilità ancora non del tutto compromesse.
Oggi forse le realizzazioni di quell’opera pianificatoria si presentano a noi come una delle più durature conquiste di quella stagione. Costituisce a mio avviso un tratto culturale notevolissimo di quella esperienza l’aver pensato ai vasti spazi incolti, alle macchie e ai piccoli boschi, ma anche agli orti, ai microfondi, alle piccole aziende agricole, ai prati, alle sodaglie che ancora punteggiano, spesso invisibili e nascosti la città – come spesso ci ricorda il geografo Antonio de Gennaro – non più come spazi in attesa di «valorizzazione fondiaria», cioè di edificazione urbana, ma come beni ambientali, patrimoni storici ed estetici della città. Luoghi da mantenere intatti, non modificati, sottratti alla voracità di quella macchina tritatutto che è ormai diventato lo sviluppo. Il Parco delle Colline di Napoli, ad esempio, istituito nel 2003, rappresenta un contributo importante in questa direzione, perché pone sotto tutela un vasto territorio, sottraendolo a un sicuro destino di cementificazione. È peraltro degno di nota – e l’autrice si sofferma più volte su tale aspetto – che in queste aree il rapporto tra pubblico e privato non è necessariamente conflittuale: spesso i privati vengono incoraggiati nelle loro economie se esse conservano i valori paesaggistici e ambientali del territorio.
Come già accennato, si tratta di un fenomeno non esclusivamente napoletano. Anzi, potremmo considerarlo, sotto certi aspetti, tardivamente europeo. E tuttavia oggi la fitta rete dei rapporti tra città e campagna si sta caricando di nuovi significati e funzioni. È in questi ultimi anni che urbanisti, sociologi, agronomi si vanno interrogando sul destino delle periferie delle città del Nord e del Sud del mondo, su quelle terre di confine dove l’agricoltura sembra infilarsi nelle ultime propaggini urbane e la città sembra voler divorare progressivamente le terre coltivate. Oggi, stando ad alcune analisi recenti sembra che la conservazione degli spazi agricoli periurbani stia trovando nuove ragioni di convenienza economica e quindi possibilità di conservazione, tutela, valorizzazione. E questo talora anche al di là degli sforzi generosi degli urbanisti più lungimiranti e culturalmente dotati, delle battaglie degli ambientalisti. Come ha ricordato Pierre Donadieu, agronomo e geografo francese – che la Corona richiama nelle pagine finali – due convergenti tendenze sembrano cospirare a mantenere frammenti di campagna dentro le città e di far vivere lembi di città negli ultimi territori della campagna: «da un lato l’urbanizzazione delle culture occidentali e il loro “bisogno di campagna” come alternativa agli ambienti urbani, e dall’altro, la diversificazione delle economie agricole per rispondere a una domanda urbana che non è più esclusivamente alimentare» (P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, ed. it. a cura di M. Mininni, Donzelli, Roma, 2006, p. 40). D’altra parte, una vasta letteratura agronomica internazionale ha da tempo segnalato la rinascita degli orti urbani, il riuso agricolo di aree dismesse, di periferie degradate, ecc. Si tratta di un fenomeno che interessa le desolate periferie delle città del Brasile così come alcune ex aree industriali della Gran Bretagna o della Germania, i Paesi postindustriali come quelli in via di sviluppo: esso rientra nelle tendenze segnalate da Donadieu, Ma vi si manifesta anche un più spiccato bisogno di alcuni strati cittadini di accedere al cibo fresco, non alterato dalle manipolazioni industriali, alla necessità di accorciare un «filiera» di trasformazioni divenuta ormai troppo lunga. E tuttavia questo non è tutto. Oggi gli inquietanti scenari dei mutamenti climatici in atto danno alla presenza della campagna nella città una funzione ambientale sinora completamente rimossa e imprevista. Se, come ormai appare altamente probabile, saremo costretti ad affrontare estati sempre più torride e soffocanti, è evidente a tutti il rilevante valore della presenza degli alberi, degli arbusti, degli orti, dei prati, delle acque irrigatorie dentro gli spazi e gli edifici urbani. Lo straordinario potere moderatore degli estremi climatici che possiedono le piante verrà finalmente valorizzato in tutta la sua pienezza e questo costringerà a rivedere la furia edificatoria, favorita dai Comuni, che ha colpito tante aree d’Italia in questi ultimi anni. Il verde non potrà più essere valutato come un lusso superfluo, ma come un valore irrinunciabile del vivere urbano. La città andrà ripensata, e le sue periferie non potranno più essere immaginate – come oggi accade – simili a nuove Las Vegas degli ipermercati e dei centri commerciali. Un più severo uso del patrimonio ambientale e territoriale si imporrà come necessità vitale dei cittadini. E Napoli e questa storia dei «ragazzi del piano» avranno qualcosa di sorprendente da raccontare.
Sono anche personalmente coinvolto nelle vicende narrate in questo bellissimo libro di Gabriella Corona, e ho perciò qualche pudore a parlarne. Mi sembra comunque una lettura utilissima e bella per chi crede che la città possa essere migliore, e vuole trarre qualche elemento di speranza dalla vicenda, ancora aperta, di un gruppo di urbanisti che credono al loro mestiere in una trincea difficile. Ecco la presentazione editoriale (IV di copertina):
«L’idea di scrivere questo libro mi è balenata all’improvviso, mentre camminavo per Napoli, lungo il corso Vittorio Emanuele. Questo pensiero mi diede una profonda emozione, un forte entusiasmo. Avrei potuto lavorare con fonti “vive”, intrecciare livelli di realtà molto diversi e lontani, raccordare la storia delle trasformazioni degli assetti ambientali con quella delle aspirazioni e delle idee di un gruppo di amministratori che aveva avuto a Napoli un ruolo fondamentale nell’elaborazione degli interventi pubblici».
Alternando lo stile dell’indagine scientifica ai toni della narrazione, Gabriella Corona dà vita a un’originale esperienza storiografica in cui le vicende che riguardano il governo del territorio a Napoli e la biografia dei suoi protagonisti si mescolano nel periodo che va dagli anni settanta del Novecento fino ad oggi: il Piano delle periferie, la prima fase della ricostruzione successiva al terremoto del 1980, le politiche degli anni novanta, il Piano regolatore.
Ne risulta un modello di memoria condivisa tra lo storico e l’oggetto della sua osservazione, dove la voce dei ragazzi rappresenta l’ordito di un racconto in cui viene ricordato, senza facili stereotipi, il lavoro per correggere le implicazioni distruttive delle trasformazioni urbane. Il libro, tuttavia, non è solo un’analisi del caso partenopeo. È anche un’ampia riflessione sulle radici di un pezzo importante dell’ambientalismo italiano, sui suoi rapporti con l’urbanistica e con i partiti di sinistra. E, soprattutto, I ragazzi del piano è una metafora dell’essere donne e uomini impegnati nel governo della polis contro chi vuole scardinare i valori della politica e nel tentativo supremo di realizzare il bene comune attraverso gli strumenti della democrazia.
Una biografia della nazione, la definisce l’autore. Il ritratto d’un paese "inselvato", feroce e arcaico, reso "antropologicamente" irriconoscibile prima dal fascismo, poi da una guerra "inespiabile". Il racconto che Guido Crainz ci consegna del 1945 italiano è destinato a rompere consolidati stereotipi su quella stagione ormai trionfanti nei media e in alcuni bestseller, ossia la nuova vulgata che tende a caricaturizzare un dopoguerra italiano lordo di sangue ad opera d’un partigianato asservito al Pci e a Mosca. Assai più drammaticamente polifonica appare la realtà tratteggiata in questo nuovo saggio, L’ombra della guerra, che evoca un’Italia imbarbarita finora rimossa o rimasta sullo sfondo: si tratta della ricostruzione a tratti inconsueta - fondata su documenti d’archivio, ma anche sulle testimonianze di scrittori, giornalisti e poeti - di un paese diseducato da vent’anni di dittatura e insanguinato da una guerra totale, un paese spaesato, ancora più fiaccato nelle sue tradizionali aree di povertà, travolto nei suoi orizzonti ideali e morali più di quanto siamo abituati a immaginarcelo (Donzelli, pagg. 158, euro 14). Una nazione incapace di fare i conti con la catastrofe e con se stessa. Ed è in questo contesto - efficacemente sintetizzato da un’immagine di Guido De Ruggiero: «Una dittatura in sfacelo, piuttosto che una democrazia in divenire» - che le violenze partigiane del dopoguerra trovano una più corretta collocazione, assai distante dall’enfasi caricaturale della nuova vulgata e sul versante opposto da tentazioni giustificazioniste.
Con lo stile sperimentato in precedenti lavori - Storia del miracolo italiano, Il paese mancato, Il dolore e l’esilio - Crainz attinge al prezioso serbatoio della letteratura e del giornalismo, fonti capaci di evocare con maggiore intensità la geografia mentale diffusa in quei mesi. Tra i versi dolenti di Quasimodo e Ungaretti, compare anche un giovanissimo Andrea Camilleri esordiente sulle pagine di Mercurio ("Un giorno si alzeranno/ neri morti/ dalle case bruciate che il vento/ ancora sgretola/ e avranno occhi per noi…"). Pagine che disegnano un paese smarrito nella sua identità, in preda a pulsioni primitive e crudeli, sostanzialmente diviso in due Italie estranee l’una all’altra: l’Italia liberata prima della Liberazione - Roma e il Mezzogiorno - e l’Italia del Nord ancora violentata dalle stragi naziste.
È l’Italia già liberata a sperimentare per prima le disillusioni del dopoguerra, con lo sfilacciamento dell’unità antifascista, il fallimento dell’epurazione, la riorganizzazione delle forze filofasciste. L’acuminata penna di Enzo Forcella tratteggia gli effetti devastanti della guerra nel Mezzogiorno, la patologia dei comportamenti sociali e morali nelle concentrazioni urbane ma anche nelle campagne colpite nella loro fragile economia. Fame, macerie, stracci, una nuova vita: è la sintesi narrativamente espressiva di Alberto Moravia ne La Ciociara. Reportages di miseria e violenza escono su Risorgimento Liberale con la firma di Arrigo Benedetti. L’ombra della guerra, commenta Crainz, sembra incrementare e quasi legittimare ovunque illegalità diffuse. Un "quotidiano eccezionale" ridisegna l’antropologia della violenza. Aggressioni, furti, rapine a mano armata: i rapporti dei carabinieri restituiscono un paese divorato dalla criminalità. L’"inselvamento" dell’uomo dopo cinque anni di guerra guerreggiata - così il quotidiano degli Alleati - affiora anche dalle cronache romane, con i tribunali in tumulto e i macabri rituali intorno all’omicidio Carretta, il direttore di Regina Coeli appeso cadavere all’inferriata del carcere. Ferocia allo stato puro, mentre l’Italia del Nord conosce la tragedia della guerra "inespiabile".
Nel segno della vendetta e dell’annientamento procede l’occupazione nazista nel resto del paese, con il ripristino di rituali arcaici e sanguinari, quella barbarie sapientemente descritta dai libri di Zanzotto e Fenoglio. Si radicano odi, paure, disperazioni, speranze, ma anche prese di distanze dai conflitti che portano il disastro. È il tempo delle scelte, ma anche della "non scelta", della chiusura negli ambiti famigliari.
Il libro di Crainz allunga la lente d’ingrandimento su quel che accade oltre il confine orientale - con le espulsioni selvagge dei tedeschi dalla Cecoslovacchia, dalla Ungheria, dalla Jugoslavia, dalla Romania - e oltre quello occidentale, con la Francia già liberata, teatro di violenza verso chi è accusato di collusione con il nazismo. Colpiscono i versi di Eluard, poeta-simbolo della Resistenza francese, che piange per le sofferenze di una collaborazionista (Lo capisca chi può/ Io il mio rimorso fu/ l’infelice che restò sul lastrico/ lo sguardo di creatura finita). Ma in Francia - annota lo storico - le esplosioni di giustizia sommaria trovarono un argine nella giustizia istituzionale, rapida ed efficace. Non così in Italia, intorpidita dalla "morfina di una troppo cavillosa e formale legalità" (parole di Eugenio Montale).
Si apre qui l’ampia nebulosa delle vendette successive al 25 aprile, tragica rivelazione dei dolori della guerra e dell’occupazione nazista. Fondandosi sulle carte dell’Archivio Centrale dello Stato, sui rapporti di carabinieri e prefetti, ossia sulle fonti dello Stato italiano, Crainz ripristina alcune verità su quelle uccisioni, molte delle quali rinviano a stragi e rappresaglie nazifasciste, o comunque a gravi ferite lasciate dalla guerra, e solo una parte è riconducibile al riaccendersi di conflitti sociali e all’esplodere di antichi rancori. In alcune aree emiliane e romagnole i drammi del 1943-1945 si sovrappongono a una storia più lunga, che ha inizio con lo squadrismo fascista e talvolta affonda le radici in una stagione ancora precedente. I rapporti prefettizi descrivono aspre lotte mezzadrili che rimandano allo stretto rapporto intrecciatosi tra agrari e fascismo. In molti casi, l’attribuzione delle violenze appare incerta, frutto di disperazioni antiche che è difficile racchiudere sotto categorie certe. E se nel Reggiano - scrive Crainz - è chiamata direttamente in causa la responsabilità dei dirigenti provinciali del Partito Comunista Italiano, altrove le colpe si definiscono con maggiore difficoltà. Allora - sollecita lo storico - è il caso di interrogarsi sul ruolo del Pci nella società emiliana dell’epoca, nei suoi tratti contraddittori e ambigui, ma anche nella sua capacità di costruire democrazia in una regione attraversata da tensioni sociali acutissime. Una ricostruzione tra luci ed ombre, in sostanza, che si sottrae a sterili demonizzazioni.
Anche sulle cifre intorno al "sangue dei vinti", Crainz introduce una significativa correzione rispetto ai numeri elevati proposti da sempre dalla pubblicistica neofascista e più recentemente dai libri di Giampaolo Pansa. Alle fonti della Rsi - che accreditano intorno a ventimila le vittime - egli contrappone i documenti dello Stato italiano, un’indagine della Direzione generale di Pubblica sicurezza, svolta alla fine del 1946, che fissa a meno di diecimila le persone colpite "perché politicamente compromesse". Senza naturalmente stemperare la tragica rilevanza di quel fenomeno, lo studioso sembra animato dalla necessità di sottrarlo a una sorta di mitologia postuma per ricondurlo alle sue coordinate reali.
È un’Italia arcaica e barbara quella che sfila in queste pagine, con intere comunità per anni silenti e complici di carneficine (il delitto in casa dei conti Manzoni), un paese ancorato a rituali d’un passato remoto, a contrappassi feroci, al suono delle campane, all’accanimento sul corpo del nemico ucciso. Uno squarcio drammatico, non l’intera fotografia dell’Italia, attraversata nel dopoguerra anche da forti speranze, assai presto deluse. Ma questo tragico nodo - sembra dirci il volume di Crainz - non può essere più rimosso, se non a costo di semplificazioni di comodo.
Titolo originale: This New House – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Nel 1932, The New York Times Magazine pubblica un articolo di Le Corbusier in cui si propone la visione della città ideale del futuro: grattacieli piantati come alberi sullo sfondo verde di un parco. Sciocchezze, sbufferà Frank Lloyd Wright, in una replica pubblicata qualche mese più tardi. Wright risponde che il futuro urbano, per lo meno il nostro futuro urbano americano, sarà con tutta probabilità a crescita orizzontale, non verticale, conformato attorno a quelli che individua come gli evidenti moderni fattori del decentramento di quasi tutto: trasporti, comunicazioni e tecnologia. Chiama la sua visione “ Broadacre City”, più tardi sviluppata in un trattato da titolo “ The Disappearing City”. Scrive di “strade gigantesche” a separare e unire le “unità” di fabbrica e fattoria, con gli “ambiti residenziali” formati da lotti di circa mezzo ettaro [ 1 acro = 0,4046 ha n.d.t.] e aree coltivate, e la “città” senza margini che prosegue all’infinito.
Che si consideri questa visione attraenete, o repellente, va comunque riconosciuta la lungimiranza di Wright. Aveva visto dove ci stava portando l’automobile, e sapeva che l’ideale domestico americano non era un “soggiorno acusticamente isolato” sospeso nel cielo, impilato sopra quello del vicino, così come descritto dal molto europeo Le Corbusier, ma una casa – un castello! – per ciascuno, sul proprio pezzo di terreno, con ampio spazio per l’amata automobile. Quello che Wright non aveva comunque visto, come indica Witold Rybczynski nel suo nuovo libro, “ era che la Broadacre City del futuro non sarebbe stata definite nelle sue forme dagli architetti, come pensava, ma dalle forze del mercato”.
Sono queste forze del mercato, il soggetto al centro di “ Last Harvest”, quattordicesimo libro di Rybczynski, (molti dei quali dedicati, per un verso o per l’altro, alla storia culturale e sociale della “casa”). Il titolo si riferisce all’ultima cosa che un coltivatore può raccogliere dal proprio terreno: venderlo. Rybczynski, architetto e professore alla School of Design dell’Università della Pennsylvania, inizia il suo racconto con la vendita di un terreno di 40 ettari nella zona semirurale della Chester County, Pennsylvania. Che sia destinata all’edificazione è conclusione ovvia (con la popolazione degli Stati Uniti che cresce di due milioni di persone l’anno, nota Rybczynski, esiste un mercato vorace delle nuove abitazioni). Il modo in cui questa edificazione si verifica è oggetto di una storia abbastanza divertente e illuminante, in cui giocano molti attori. Non ci sono i cattivi, nessun costruttore rapace o amministratore locale senza scrupoli. Nessuno è predatore o preda. Ci sono molte buone intenzioni – e insieme eventi casuali in abbondanza – a dare la forma alla nuova lottizzazione di New Daleville, quartiere assai poco normalmente “normale”.
Il primo evento è un cambio di costruttore, dove a un primo, che ha acquisito i diritti su un appezzamento di 40 ettari da una famiglia di coltivatori, i Wrigley, viene negata dall’amministrazione locale l’autorizzazione per un progetto secondo la prassi abituale: grandi case su grandi lotti, con strade senza marciapiede. Il Costruttore A cede i diritti al Costruttore B, allievo Toll Brothers di nome Joe Duckworth, interessato alle lottizzazioni “tipo villaggio” modellate secondo lo schema New Urbanism, delle abitazioni raccolte su piccoli lotti, a conservare spazi aperti, con i marciapiedi. Per disegnare questi piccoli lotti, però, bisogna modificare le norme urbanistiche. Di regola, gli abitanti non amano i lotti piccoli, perché ciò significa maggiore densità, più automobili, più persone e tasse scolastiche più elevate. Però Duckworth può contare su un urbanista consulente esterno dell’amministrazione sostenitore del New Urbanism, e comunque il consiglio è orientato a votare a favore delle nuove norme perché, come spiega in assemblea un abitante della Chester County: “ Abbiamo consentito progetti convenzionali, e li detestiamo. Perché non tentare qualcosa di diverso: se non ci piace non lo faremo più”.
E così New Daleville inizia il suo periodo di gestazione, anche se a ritmi esasperatamente lenti. Quello che inizia come questione strettissimamente locale (la modifica delle norme per l’area) si gonfia poi in un problema per la circoscrizione di contea, e Rybczynski qui si allontana dal suo racconto per descrivere la storia delle amministrazioni locali rispetto al governo del territorio, dalle municipalità alla creazione delle associazioni di cittadini (la cui versione moderna, nasce nel 1978 dalla Proposition 13 della California che limita le tasse immobiliari locali. Dopo la Proposition 13, spiega Rybczynski, le municipalità a secco di introiti rifiutano di farsi carico della manutenzione di alcuni spazi pubblici, che diventano di proprietà – e responsabilità – dei proprietari delle case della circoscrizione). Passano Quattro anni dalla prima assemblea alla realizzazione del primo gruppo di case modello. Ciascuna fase della crescita di New Daleville fornisce a Rybczynski l’occasione per scrivere un capitolo su vari argomenti, che vanno dal concettuale (i valori incorporati in parole come “ sprawl” o “ esurbio” ad esempio) alla realtà, come quando si descrive l’evoluzione del progetto suburbano a partire da Levittown, il simulacro di piccola città prodotto in serie a Long Island, fino all’insediamento simbolo New Urbanist di Seaside in Florida.
Cittadine sul modello di Seaside ora sono note come Traditional Neighborhood Developments, T.N.D., e veniamo portati in visita in alcune versioni contemporanee. Quello che capiamo, è che è difficile per chi costruisce su larga scala realizzare una casa del tipo di quelle di Seaside, con le vere persiane che si muovono, portici, finiture (di legno massiccio). I cosiddetti costruttori di bacino locale, a differenza delle grandi compagnie nazionali, tendono ad adottare i T.N.D., e realizzano abitazioni più costose. Le enormi compagnie, che si sono organizzate sul modello di Levittown (con le medesime componenti progettuali che abbondano in ciascuna casa, il che consente produzione di massa e risparmi sui costi), adottano qualche particolare, ma in modo molto parziale. Un capo divisione della grossa compagnia che finisce per lavorare a New Daleville la mette in questo modo: “Il nostro lavoro funziona come un chiosco di hamburger. Offriamo hamburger oppure cheeseburger. E basta”. Una strategia che consente di realizzare una casa a 350-400 dollari al metro quadro, cifra incredibilmente contenuta (i costi di costruzione medi in un T.N.D. visitato da Rybczynski arrivano a 1.500 dollari al metro).
Alla fine, e nonostante le migliori intenzioni del costruttore e dell’amministrazione, è Levittown il vero modello di New Daleville. Per quanto deprimente possa essere riflettere sui serramenti fissi e le colonnine di plastica delle verande nelle case che iniziano a prendere forma, pensiamo a quanto scrisse il sociologo Herbert J. Gans nel suo libro del 1967, “ The Levittowners”. Notando come i principali critici di Levittown fossero intellettuali che abitavano in città, mentre accadeva il contrario con i veri abitanti (piuttosto felici), scriveva: “Levittown consente alla maggior parte dei suoi abitanti di essere ciò che desiderano, di porre al centro della propria esistenza la casa e la famiglia, di condividere le ore di tempo libero, do partecipare a gruppi che offrono socialità e la possibilità di essere utili agli altri. ... Per quanto imperfetta, Levittown è un buon posto per abitare”.
Titolo originale: How Jane Jacobs Became Jane Jacobs – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il nuovo libro Jane Jacobs: Urban Visionary, aggiunge un volto umano alla donna il cui viso un po’ arcigno nascosto da spesse lenti si era pietrificato sino a diventare un’icona, lasciandosi alle spalle, in questi processo di distillazione, tutti gli aspetti, sottigliezze personali e sorprese.
L’autrice, Alice Sparberg Alexiou, nota giornalista, racconta la storia della Jacobs dalla nascita a Scranton alla morte da cittadina canadese l’anno scorso, all’età di 89 anni. In questo lungo arco di tempo il libro, relativamente breve, circa 200 pagine, espone sia le radici del pensiero originale e innovativo della Jacobs, che la sua attività, complessa e sfumata.
Ad esempio non avevo mai saputo che la Jacobs non avesse un titolo di scuola media superiore, e che fosse stata una pessima studentessa. In un primo tempo non si era nemmeno iscritta al college. Più tardi, dopo essersi trasferita a New York City dalla native Scranton, fece domanda al Barnard ma fu respinta per i pessimi punteggi delle medie. A scuola, veniva spesso fatta uscire dall’aula per impertinenza, il che col senno di poi rappresenta un segno della sua indipendenza e della non deferenza nei confronti dell’autorità.
La Jacobs, dopo aver iniziato come giornalista freelance a Vogue e ad altri periodici, cominciò a scrivere di urbanistica e architettura quasi per caso nei primi anni ‘50. Dopo solo pochi anni teneva corsi a Harvard e aveva elaborato le idee che sarebbero diventate la base del suo fondamentale La vita e la morte delle grandi città. É ancora scioccante, leggere la precisione e padronanza della scrittura della Jacob, pensare quanto fosse relativamente poco esperta dell’intera materia, oltre che priva di qualunque formazione specifica riguardo a piani o progetti.
Dopo la pubblicazione de La vita e la morte .., Alexiou ci racconta come la Jacobs abbia guidato la battaglia contro la trasformazione urbanistica del suo Greenwich Village, il trasferimento a Toronto nel 1968 per l’opposizione alla guerra del Vietnam, l’orientamento alla scrittura su temi economici anziché urbanistici. In termini generali, queste sono cose che anche chi conosce superficialmente la storia dell’urbanistica già sa. É il racconto più complete e approfondito a rendere importante il libro della Alexiou.
Lewis Mumford, ad esempio, spesso presentato nelle ricostruzioni giornalistiche come il grande avversario della Jacobs, appare nella più precisa ricostruzione della Alexiou delle medesime opinioni della Jacobs su gran parte dei temi, e pare l’abbia anche aiutata a fare i primi passi della sua carriera. I due grandi studiosi della città erano uniti dallo sdegno per le brutali trasformazioni urbane, per i piani di Robert Moses di scavare con autostrade urbane tutta Manhattan. I due si dividevano invece sulle particolari soluzioni alla crisi urbana, con Mumford favorevole alla realizzazione di città giardino esterne ai centri. La Jacobs descrisse con disprezzo ne La vita e la morte le città giardino e il sostegno di Mumford per l’idea, determinando così una rottura con quello che era stato un suo amico.
Mumford e la Jacobs erano molto simili da molti punti di vista. Entrambi avevano iniziato come giornalisti, entrambi erano privi di titolo superiore, essenzialmente autodidatti. La Alexiou a quanto pare non coglie questi parallelismi, perché non ne parla e ad un certo punto usa Mumford come esempio di spocchia accademica.
Nel raccontare la vicenda della Jacobs, la Alexiou scrive con ammirazione della donna, ma non ne fa certo un’apologia. Mostra come avesse dei grossi difetti, e potesse dire anche cose stupide, come quando nel 1970 frivolamente chiese ai newyorkesi di non pagare il biglietto della metropolitana come strumento per piegare l’amministrazione. Alexiou critica anche la Jacobs per non aver sottolineato a sufficienza la questione razziale come fattore concorrente nel degrado urbano. Personalmente non sono molto convinto di queste critiche, ma la Alexiou le argomenta piuttosto bene.
Per quanto ne posso dire, questo libro scritto da una nota professionista uscita dalla Scuola di Giornalismo della Columbia University, è la prima vera e propria biografia di Jane Jacobs. Ne verranno delle altre quando gli accademici, che la Jacobs non aveva mai molto considerato, forse per la distanza alla quale la tenevano inizialmente, scaveranno la vicenda di questa grande pensatrice del secolo scorso, alla ricerca di nuovi materiali.
Nota: su Jane Jacobs, in queste pagine vari articoli: Il genio di Jane Jacobsda The Nation; il ricordo dal New York Times; l'accostamento delle Tre Rivoluzionarie con Rachel Carson e Betty Frieda, di Rebecca Solnit, e molti altri. Basta cercarli digitando ad esempio Jane Jacobs nel motore di ricerca interno (f.b.)
La città delle donne – Un approccio di genere alla geografia urbana, a cura di Gisella Cortesi, Flavia Cristalli, Joos Droogleever Fortuijn, Patron Editore Bologna 2006
Nel 2003, a Roma, per iniziativa della Commissione “Genere e geografia” dell’Unione geografica internazionale, si è svolto un seminario dal titolo Gendered cities: identities, activities, networks – a life corse approach. Circa 3 anni dopo, con il sostegno del Comune di Roma e in particolare di Mariella Gramaglia, assessora alle politiche per la comunicazione, la semplificazione e le pari
Alla presentazione di questo libro, può essere utile premettere due brevi osservazioni. La prima riguarda i tempi: ci si può ragionevolmente chiedere se sia utile leggere, in un libro pubblicato nel 2006, relazioni svolte 3 anni prima, quasi sempre basate su ricerche precedenti. La risposta è positiva, perché il campo d’indagine, ma soprattutto la modalità di approccio rappresentano una novità. La “geografia urbana” si colloca certamente fra le discipline gender blind e questo è vero soprattutto per il nostro Paese: ce lo confermano le appendici bibliografiche alle relazioni, dove gli autori sono prevalentemente stranieri (e il testo più vecchio citato risale al 1978). Questo libro rappresenta quindi uno stimolo necessario all’apertura di una linea di gender studies anche in questo contesto disciplinare.
Quanto al titolo, è evidente che quello italiano (del libro) è una traduzione che distorce il senso del titolo inglese (del convegno). Come gender non indica il genere femminile, così gendered cities vuol dire “città di genere”, città lette attraverso la lente del genere, in modo da capire come donne e uomini in esse vivono, si spostano, lavorano ecc., e quindi quali politiche, sociali, urbanistiche, ecc. possono/debbono essere adottate per consentire agli uni e alle altre una migliore abitabilità del contesto urbano. Sottotitolo perfetto, titolo sghembo, quindi, che può far pensare che si voglia costruire una città delle donne per superare le difficoltà che esse trovano nella città costruita dagli uomini. Tutti i saggi sottolineano invece la necessità di leggere la realtà in modo da individuarne la dimensione di genere e misurarsi con questa nell’individuazione delle soluzioni ai problemi.
I quindici saggi (ne segnaleremo soltanto alcuni) che compongono il libro sono raggruppati in quattro parti. Quelli contenuti nella prima, Sentire la città: identità e senso del luogo, hanno in comune il tentativo di capire come le donne si sentono a proprio agio nelle città in cui vivono. Qui troviamo la ricerca di Tovi Fenster su Città e genere: nozioni di comfort, appartenenza e impegno a Londra e a Gerusalemme, che analizza il modo in cui le relazioni di potere fra uomini e donne si traducono nella individuazione di spazi proibiti e permessi, e addirittura nell’imposizione patriarcale di determinati modi di vestire.
Dina Vaiou in Ri/costituire ‘l’urbano’ attraverso le storie di vita delle donne, illustra come la narrazione ufficiale di un luogo (un quartiere di Atene) possa differire profondamente dalla narrazione che di quello stesso luogo può essere fatta da donne.
Marina Marengo in Creazioni di luoghi e di dinamiche relazionali nei contesti urbani a forte presenza straniera: il caso dell’agglomerazione di Losanna, sottolinea il ruolo delle donne immigrate nel percepire e assecondare le trasformazioni urbane, soprattutto favorendo la nascita di spazi associativi a carattere interculturale (mentre gli uomini tendono a riprodurre il modello classico dell’associazione di comunità).
La seconda parte, Vivere la città, mette a fuoco le contraddizioni fra le opportunità che un contesto urbano offre alle donne e le difficoltà che esse incontrano quotidianamente. Il saggio di Antonella Rondinone, ‘L’aria della città rende libere?’ per un’analisi geografica della qualità della vita femminile in India, sottolinea come la città si presenti in positivo come il luogo dell’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, alla varietà alimentare, consentendo alle donne che arrivano dalla campagna di migliorare la loro “condizione”, senza peraltro sfuggire alle regole di una struttura sociale patriarcale.
Marieke van der Meer analizza Le reti di sostegno sociale degli anziani nelle aree urbane e rurali dei Paesi Bassi, per capire, date le differenze fra città e campagna, che ruolo giochi il genere degli attori che costituiscono tali reti.
Nella terza parte, Spostarsi in e tra le città, vengono analizzati i motivi per i quali donne e uomini si spostano, in relazione alle scelte residenziali e lavorative, familiari e individuali. Gisella Cortesi, Marco Bottai e Michela Lazzeroni riferiscono i primi risultati di una ricerca ( Differenze di genere e mobilità residenziale urbana: primi risultati del progetto Housing, Household, Habitat) sull’incidenza di ‘genere’ e ‘generazione’ rispetto alla localizzazione abitativa e agli spostamenti giornalieri legati a scuola, lavoro ecc. in una città italiana di medie dimensioni.
E’ in Finlandia, Paese in cui il tasso di attività femminile è di poco inferiore a quello maschile, che Taru Järvinen studia Mobilità residenziale e opportunità lavorative delle famiglie finlandesi con doppia carriera, ponendo l’accento soprattutto sulla incidenza del genere nel mercato del lavoro.
Ultima, ma per alcuni aspetti più ricca di stimoli della altre, la quarta parte del volume affronta il tema Pianificare la città. In Politiche urbane e movimenti di donne: specificità del caso italiano, Silvia Macchi ricostruisce un percorso di ricerca stimolato dal ‘disagio sussurrato delle donne’ nel momento della pubblicazione e della discussione sul Piano regolatore generale di Roma (giugno 2002). Da qui, andando a ritroso nel tempo, Macchi individua posizioni e pratiche politiche di donne: un documento dell’Udi del 1964 che anticipa nelle richieste quella che sarà poco dopo la normativa sugli ‘standard urbanistici’, la proposta di legge di iniziativa popolare del 1989 sui ‘tempi della città’, le più recenti esperienze di ‘bilancio di genere’.
Anna Ortiz, Maria Garcia-Ramon e Maria Prats parlano di Pianificazione e senso del luogo nelle donne in un quartiere storico di Barcellona, descrivendo come donne diverse (cioè diversi gruppi di donne) hanno vissuto in modo diverso e talvolta conflittuale un’importante trasformazione urbana. Di estrema attualità, proprio perché si tratta di un tema che spesso viene scorrettamente definito in termini gender blind, il saggio Città sicura: considerazioni sulla paura delle donne nei piani di programmazione per una maggior sicurezza nelle città, di Carina Listerborn. In esso vengono esaminati i due approcci prevalenti al problema: safety (sicurezza) contro security (protezione). Il primo approccio si basa sull’accettazione della molteplicità di presenze nella città e quindi sulla valorizzazione delle differenze: l’obiettivo si ottiene creando una città più aperta, non vuota, ma piena di cose interessanti. Il secondo approccio invece presuppone un forte controllo sociale, una sorveglianza continua che punta alla prevenzione del crimine, creando una città più chiusa, dove è facile individuare l’altro, l’estraneo. Queste due politiche affrontano in maniera opposta il problema della paura delle donne la cui debolezza reale nella città è peraltro inferiore alla debolezza ‘percepita’, perché buona parte della violenza contro di esse si consuma, invisibile, nello spazio domestico. In sintesi l’approccio safety (sicurezza) è quello che offre le migliori risposte alle donne e alle loro paure. Lavorare su ‘paura e sicurezza’ vuol dire lavorare contemporaneamente sulla crescita di potere delle donne ( empowerment) e sulla rottura del potere degli uomini, potere rafforzato dal fatto che sono loro a proteggere le donne dagli altri uomini.
Il saggio di Judit Timàr, La politica urbana e la dimensione di genere: il ruolo della scala geografica nella partecipazione delle donne al governo locale in Ungheria, mette a tema la partecipazione delle donne alla politica. Nonostante l’Ungheria abbia una storia particolare rispetto ad altri Paesi europei, fra cui l’Italia, colpiscono i punti in comune: le donne sono più presenti nei governi locali, ma spesso con una netta divisione di mansioni; le donne hanno il problema della conciliazione fra sfera pubblica e privata; per le donne non c’è la progressione di carriera che porta molti uomini a partecipare ai livelli nazionali dopo essersi fatti le ossa nei processi decisionali locali: ad ogni gradino per le donne le difficoltà aumentano.
Il volume non ha conclusioni, ma una frase dall’introduzione ne sottolinea il senso complessivo. “Il movimento delle donne e gli studi di genere sulla città hanno…lo scopo di rendere le città migliori nella vita di ogni giorno, nelle strutture e nelle politiche urbane”.
AA. VV., Modello Roma. L’ambigua modernità , Roma, Odradek edizioni, 2007, pp. 192, € 15,00.I testi sono di Bruno Amoroso, Paolo Berdini, Alberto Castagnola, Antonio Castronovi, Giovanni Caudo, Carlo Cellamare, Giovanna Ricoveri, Bernardo Rossi-Doria, Vittorio Sartogo, Enzo Scandurra, Riccardo Troisi
Roma Può una «grande mutazione urbana» profondamente contraddittoria diventare un «modello» per la politica nazionale? Certo che può. Basta vivere in un paese senza idee forti, sballottato dalla mondializzazione e alla ricerca di un orientamento purchessia che dia speranze di sopravvivenza: basta stare nel centrosinistra, presi dal panico, e sperare che le formule dell'«isola felice» siano esportabili fuori dalla capitale.
E' il «modello Roma», che sfonda sulle pagine dei principali quotidiani nazionali - come viatico per l'assunzione di Walter Veltroni a segretario del Partito Democratico - proprio mentre viene vivisezionato in un libro collettivo di alcuni tra i più noti studiosi dell'Urbe (Modello Roma. L'ambigua modernità, a cura di Enzo Scandurra, edizioni Odradek). Presentato lunedì sera in Senato da Mario Tronti, Salvatore Bonadonna, Maria Luisa Boccia e don Roberto Sardelli (il prete che, insieme ai ragazzi della sua scuola, ha definito il «buonismo» una «patologia della bontà» che occulta le miserie dietro le quinte dello spettacolo continuo).
Dell'amministrazione «buonista» non si negano i lati positivi, ma si parte dalla constatazione di un apparente paradosso: quanto più questo «rinascimento» ha successo, tante più esclusioni e lacerazioni produce (silenziate dalla «cooptazione partecipativa» dei dissenzienti locali). Urbanisti, economisti, sociologi, storici si misurano perciò sui processi materiali in atto da anni, senza nascondere la propria cultura di sinistra e le proprie (deluse) aspettative. Consapevoli di star trattando un oggetto complesso, esaltato dai «modernizzatori» ma per nulla contestato dai «conservatori». Un mistero che trova qualche spiegazione solo nel fatto che interessi enormi - come quelli della speculazione edilizia e finanziaria - trovano qui un «accompagnamento» efficace, mai un contrasto.
Il Pil a Roma cresce più che nelle regioni del Nord. Eppure gli insediamenti produttivi sono in diminuzione. Le chiavi di volta sono due: la prima, appariscente, è la trasformazione di Roma in meta turistica primaria, che accentra flussi in virtù del suo immenso patrimonio artistico e degli «eventi» (auditorium, festival del cinema, notte bianca, estate romana); la seconda, silenziosa per natura, è il trionfo della speculazione immobiliare e della grande distribuzione. Un «secondo sacco di Roma» che dissolve la città in fasce concentriche, con un centro storico musealizzato ad uso e consumo del turismo archeologico-culturale e periferie che se ne allontanano in proporzione inversa al reddito. La «modernità» liberista impone la «cancellazione delle regole che presiedono i rapporti sociali» e l'indebolimento selettivo del «ruolo regolativo del potere pubblico»: qui è stata assecondata in pieno.
Sul piano urbanistico la prima sperimentazione fu fatta nella «Milano da bere». E nella scorsa legislatura stava per diventare legge il «disegno Lupi», che affidava il futuro metropolitano ad amministrazioni e proprietà fondiaria: consociate. Ma quel modello agisce comunque con gli «accordi di programma» che, in deroga ai piani regolatori, rendono pressoché automatici i cambi di destinazione dei terreni (da agricolo a edificabile; un modo semplice di trasformare l'acqua in champagne). Scompare così - senza neppure doverlo dire - ogni traccia di programmazione urbanistica, lasciando campo libero a chi ha le risorse per realizzare i «progetti». Un esempio? La «città della Roma», dove è stato concesso alla società di calcio - in difficoltà per 100 milioni di euro - di edificare sui fin lì poco redditizi terreni vicini al campo di allenamento.
Una volta gelò l’intera giunta regionale dell’Emilia Romagna presentandosi con queste parole: «Dovete rimettere l’acqua nelle valli di Comacchio». Un’altra volta venne a Bologna per vedere di persona il recupero del centro storico secondo il "piano Cervellati", e si mise a misurare androni e corridoi e a far fotocopie di planimetrie. Chi lo fermava, Antonio Cederna, «ambientalista furioso» come l’Orlando imparato a memoria. A Bologna l’uomo che inventò la tutela ambientale in Italia aveva buoni amici, dallo stesso Pierluigi Cervellati a Andrea Emiliani, da Lucio Gambi a Giovanni Losavio, e molti ne ha ancora, dal momento che è qui, per iniziativa dell’Istituto per i beni culturali e i tipi della Bononia University Press (308 pagine, 23 euro), che a dieci anni dalla scomparsa vede la luce un piccolo monumento di carta tutto per lui, Un italiano scomodo, sottotitolo nostalgico e ironico Attualità e necessità di Antonio Cederna, antologia di saggi, ricordi, omaggi curata da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala. Viceversa non sempre Bologna gli fu amica: severi i suoi giudizi sul sogno interrotto della tutela integrale, sullo scarso coraggio delle giunte in materia di tutela del centro storico, sulla proliferazione delle periferie, severissimo il consuntivo che tracciò, in un convegno bolognese dell’86, sullo stato della tutela ambientale in questa regione: «nessun parco realizzato, arenato il parco del delta del Po, mano libera a quell’autentica industria del dissesto che sono le cave, ipersfruttamento della costa, perniciosa profusione di opere autostradali», pessima pagella che, fosse vivo oggi, Cederna non potrebbe forse del tutto correggere al rialzo. Ma Cederna, «archeologo sulle barricate», urbanista, ambientalista, fondatore di Italia Nostra, giornalista e infine anche parlamentare e legislatore, non faceva sconti neppure agli amici. Ben sapendo che per fermare «I vandali in casa» (primo di una serie di efficacissimi titoli-slogan) nessuna tenerezza era consentita, che contro i distruttori del bello l’unica scelta era la «persecuzione metodica e intollerante». Scambiato agli esordi per un ingenuo naturista («ma fumo due pacchetti al giorno, alla campagna preferisco la città, alle passeggiate la Settimana enigmistica»), lo accusarono più tardi di ripetersi, nella smisurata produzione di j’accuse pubblicati nell’arco di quasi mezzo secolo prima sul Mondo, poi sul Corriere, infine su Repubblica. Rispondeva: «Scriverò sempre lo stesso articolo finché le cose non cambieranno». Il Colosseo «ridotto a spartitraffico», le valli «scorticate», i Fori imperiali asfaltati, l’Appia antica assediata dai «gangster», infinito l’elenco delle sue battaglie da «visionario» contro il nemico mortale, la «cementificazione» (neologismo suo), affetto da cronico «malessere da scempio», secondo la diagnosi piena d’affetto del figlio Giuseppe, innamorato ormai sempre più solitario di una parola scomoda: «bene pubblico». Doppio binario per ringraziare retrospettivamente la scomoda eredità del primo ambientalista del malconcio Stivale: le testimonianze dei suoi molti, ancora fedelissimi compagni di viaggio, assieme quelle più private dei figli; e una scelta di pagine fatta dai medesimi, un’«antologia del cuore» che, per una volta, non racconta le male sorti del Belpaese, ma le scelte coraggiose di un uomo che ebbe il coraggio di amarlo lo stesso, anche malconcio, anche vandalizzato.
Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, brave e coraggiose, sono riuscite a pubblicare «Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna » (Bonomia University Press). Brave già nel titolo. Cederna è attuale come all'inizio della sua attività e sarebbe indispensabile ricordarlo sempre, non solo in occasione del decimo anniversario della morte. Brave perché sono riuscite a legare i ricordi personali (del tutto inedito quello di Giulia Maria Crespi) sull'uomo scomodo e il suo profilo di giornalista denigrato come inutile «Cassandra ». L'incisiva selezione dei suoi testi, che sembrano scritti oggi, dimostrano la nostra scellerataggine. Antonio Cederna non è stato solo un agguerrito difensore del patrimonio culturale e paesaggistico del nostro Paese. E' stato un precursore, un drammatico augure, dello scempio culturale che ha devastato (e continua a devastare) l'Italia.
Maria Pia Guermandi, archeologa anche lei come Cederna, nella bellissima introduzione mette in luce il «combattente di una infinita battaglia di civiltà». Ricorda l'amico che scrisse: «Cederna non ha vinto. Non poteva vincere». Concorda con questo parere, ma precisa come la sua battaglia abbia aumentato, nonostante il permanere della rendita fondiaria, la sensibilità verso il mantenimento e la manutenzione dei beni culturali. E abbia diffuso, nonostante il sostegno dato dallo Stato al turismo di rapina, una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro territorio, «bene irriproducibile ».
Cederna non ha perso. I perdenti siamo noi. Anche noi, emiliano-romagnoli, abbiamo dimenticato la lezione di Cederna. Abbiamo dimenticato il suo incitamento alla pianificazione quale «unica soluzione » per progettare presente e futuro.
Le due curatrici lavorano presso l'Istituto dei Beni Culturali, l'istituto regionale che ha sostenuto la pubblicazione di questo libro. Oltre che brave, hanno avuto - dunque - molto coraggio. La Regione Emilia- Romagna ha abdicato sul fronte della pianificazione territoriale e ha accantonato il piano elaborato alla fine degli anni Ottanta. Proprio quando Cederna citava l'Emilia-Romagna come esempio, sia per la salvaguardia del paesaggio che per la politica di tutela dei centri storici. Adesso anche l'Istituto — sorto come supporto della pianificazione e programmazione dei beni culturali della Regione — sembra lanciato verso la disoccupazione. Ci lavorano oltre un centinaio di persone, ma di ricerche sul territorio e sull'ambiente nemmeno l'ombra. Solo sui centri storici è ritornata una nefasta attenzione: l'obiettivo è riuscire a inserire al loro interno l'architettura moderna. Convegni e perfino filmati per convincere che il restauro della città storica impedisce all'architettura moderna di manifestarsi. «Sciagurati» li avrebbe definiti Cederna. Ed è assai preoccupante osservare come sempre più spesso l'Istituto sostenga, anche partecipando direttamente, iniziative tese a cancellare quelle stesse leggi che la Regione si era data negli anni in cui si cercava di mettere in pratica l'etica di Antonio Cederna.
“Un paese ci vuole/ Ripartire dai luoghi” di Enzo Scandurra (Città Aperta, pp. 179, euro 13,50) è un libro singolare. E l’autore lo sa. Non a caso apre con una lunga introduzione, intitolata “Perché questo libro scritto in questo modo”. Nella quale innanzitutto dichiara: “Non sono uno scrittore. Al più mi piacerebbe che di me si dicesse: narratore.” Cioè qualcuno che “soprattutto a partire dalle proprie riflessioni di vita, ci racconta il mondo così come lo vede, senza presunzioni letterarie.” E annuncia che il lavoro si compone di due parti, la prima è in forma saggistica, la seconda “nel linguaggio della narrazione”.
Qualsiasi libro, qualunque sia il suo contenuto e il suo intento, è sempre - come noto - in qualche misura un’autobiografia. Ma questo, di Scandurra, lo è in modo così evidente che la parte narrativa, dichiaratamente autobiografica, costituisce un tutt’uno perfettamente omogeneo con l’altra. E ciò benché il libro sia tutt’altro che di lieve impegno, si misuri anzi con ponderosi quanto urgenti interrogativi e coraggiosamente li dichiari: “E’ possibile modificare la corsa di questa modernità fuori controllo, fondata sulla manipolazione della natura, sull’uso dissennato delle sue risorse, sulla riduzione dei cittadini a sudditi idioti del mercato e dei consumi, sull’uso della guerra come mezzo sostitutivo della politica?” Insomma, è possibile cambiare il mondo?
Il fatto è che in questo libro l’esercizio intellettuale, acuto, colto, raffinato, si applica a una materia direttamente sofferta e non decantata, ancora palpitante. E’ un libro soprattutto di sensazioni, che però scavando nell’angoscia si fanno meditata riflessione, per aggredire il disagio di una realtà non più accettabile, non più rapportabile al sentire del passato, che la memoria rifiuta di riconoscere. E qui sta forse la sua qualità più originale e il suo fascino.
Scandurra è un urbanista, e da urbanista ha scritto diversi libri che trattano della città come centro e soggetto della complessità sociale. Nei titoli più recenti però (“La città che non c’è”, “Città morenti e città viventi”, ecc.) già si affaccia la consapevolezza della crisi, il presagio di un deterioramento forse irrecuperabile della città. In quest’ultimo lavoro oggetto centrale del suo osservare riflettere e narrare, è la periferia, ovvero la città cresciuta fino a farsi illeggibile, privata della sua razionalità, città divenuta sterminata metropoli: appunto periferia sterminata, dove non esiste più il concetto di comunità, e la stessa convivenza appare mero agglomerato di umani in eccedenza, messi in parcheggio, esclusi dal futuro; ma periferia anche della mente, dove si accumulano scarti del pensiero, della cultura, della memoria. Città senza senso, come oggi il mondo intero. Città-mondo, che non esiste più, città-periferia che copre l’intero pianeta, e racconta il fallimento della modernità.
Un non-luogo dove si affollano e confusamente trovano rappresentazione tutti i problemi del nostro presente. Dimensioni centrali dell’esistenza, come il lavoro e la cittadinanza, cancellate dal consumismo. Identità smarrite nell’incalzare della modernizzazione e della tecnologizzazione. Antichi e gloriosi concetti-guida come sviluppo e progresso impoveriti e stravolti, nella famelica e acritica dipendenza dal mercato, nel dominio della merce. Sradicamenti prodotti da una mobilità diventata norma, dalla crescente secolarizzazione, e dalla stessa emancipazione. “Spariscono di colpo categorie che rendevano la città il luogo pubblico della politica e della convivenza, per essere sostituite dallo spazio indifferenziato del consumo”.
La seconda parte del libro, quella “in linguaggio narrativo”, consiste in una serie di flash su momenti dell’infanzia e della prima giovinezza dell’autore, vissute al Prenestino, allora estrema periferia romana, poi rapidamente ingoiata dal cemento. Povertà, ingenuità, modesti svaghi tra l’oratorio, il primo cinema e il prato dietro casa, amori vissuti solo di sguardi e qualche sorriso, il centro di Roma come un lontanissimo, lussuoso miraggio. Vite faticate, pesanti limitazioni, e anche cattiverie e brutalità. Ma sempre il senso della comunità, il calore dell’ appartenenza, un luogo che è “un paese”. Una ventina di pagine in tutto, e però il più significativo contrappunto alla desolata alienazione del mondo attuale. E anche in qualche modo motivo alla speranza.
Già, perché nonostante tutto questo non è un libro disperato. Scandurra lo dice e lo sottolinea: “Il progetto neoprometeico di assimilazione del mondo a categoria economica, sotto il dominio della Tecnica e del Mercato, forse è ancora lontano dalla sua catastrofica realizzazione.” Forse è ancora possibile dare scacco ai tanti fondamentalismi che ci assediano, aprirci alla pluralità delle differenze, “organizzare una rivincita dei valori della vita su quelli della morte”. Dopotutto “il futuro non è stato deciso per sempre”.
La storia del melo è esemplare fra le tante storie di alberi da frutto di cui Giuseppe Barbera narra in Tuttifrutti (Mondadori, pagg. 201, euro 9,40, con prefazione di Carlo Petrini), un libro che dietro il titolo rockettaro racconta invece la grande, favolosa, ma a tratti triste avventura del rapporto fra gli uomini e l´ambiente. Barbera insegna Colture arboree all´università di Palermo. Nella Valle dei Templi di Agrigento ha allestito un museo che raccoglie millecinquecento alberi i quali documentano trecento varietà di mandorli. Poco più in là, nel vallone profondo fra il Tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano, insieme a un altro agronomo, Giuseppe Lo Pilato, e al Fai, ha riportato alla luce il giardino della Kolymbetra, dove ai tempi della città greca c´era una piscina con pesci e cigni, e che ora, dopo essere stato abbandonato per decenni, è di nuovo uno spettacolo di orti e di agrumi che ha la forza suggestiva di contrastare l´abusivismo edilizio che vilipende la Valle.
Il libro di Barbera è una storia culturale dell´albero da frutto, si aggira fra botanica, letteratura e mito, fra agronomia ed economia. E ogni capitolo è intestato a un albero: albicocco, arancio, carrubo, castagno, ciliegio, fico, ficodindia, limone, fino a pistacchio e susino. La storia inizia diecimila anni fa, quando gli uomini, stanchi di vagare fra le boscaglie africane, impararono i rudimenti della tecnica agricola e diventarono più stanziali. Ma per allevare gli alberi da frutto occorreva una città e quindi si attesero ancora cinquemila anni prima che si giungesse a prodotti commestibili. «La frutticultura», annota Barbera, «compie i suoi primi passi in compagnia della scrittura, della religione, della filosofia e della metallurgia». Segna la nascita della civiltà. Ma fa anche emergere un orizzonte simbolico meno dominato dalla paura. L´albero delle foreste cresceva e moriva, e soprattutto giganteggiava, inducendo negli uomini un senso di sottomissione che scompare con l´albero fecondo, che invece dona i suoi frutti e che stimola una migliore confidenza con la natura.
L´albero da frutto, racconta Barbera, viaggia da un continente all´altro, arriva in Europa dalla Cina, dalla Mesopotamia, dalla Palestina, dalle Indie occidentali e diventa il protagonista del paesaggio mediterraneo soprattutto quando, dopo la rivoluzione agraria avvenuta nell´Ottocento, dal chiuso di un giardino dilagherà sulle colline e nelle pianure e si arrampicherà sui fianchi delle montagne o disposto sui terrazzamenti. È un´evoluzione controllata dall´uomo, che riordina i paesaggi seguendo consuetudini antiche, ma anche innovando - e innovando nel rispetto di un codice genetico, di uno statuto dei luoghi.
Storia culturale degli alberi significa intanto storia delle colture, della sapienza contadina che innerva le discipline agronomiche fino a quelle a più alto contenuto scientifico. E di questi acquisti della civiltà il libro di Barbera è ricco di esempi. Ma storia culturale è anche quella che raccontano le esperienze letterarie. Per definire la luminosità di un dipinto, Virginia Woolf scrive che ha qualcosa «di roseo e morbido, di splendente e tenero come le albicocche pendenti da un muretto di mattoni nel sole pomeridiano». Carlo Emilio Gadda, invece, includeva le albicocche fra «i materiali preziosi, limpidamente tramutabili in vita, il più accreditato precedente del mio cervello donde irrorare di vitamine e rifornire d´idrati la città senza frutto». Il carrubo lo ritroviamo nell´epopea di Gilgamesh e iscritto nell´onomastica dei Malavoglia di Giovanni Verga - la Mangiacarrube. E quando la letteratura declina verso le parole in musica, conservando comunque l´aspetto di grande documento antropologico, si ascolta il rimpianto di un´Italia primi Novecento che si cibava di zuppa di ciligie secche con pane bollito: «Reginè quanno stive cu mmico / nun magnave ca pane e cerase, / nui campavamo ‘e vase, e che vase / tu cantave e chiagnive pe´ me» (le cerase in napoletano sono appunto le ciliegie).
Barbera racconta poi le sorprendenti avventure storiche e botaniche del ficodindia che si possono intitolare alle meraviglie della biodiversità. Dopo la scoperta dell´America in entrambi i continenti prevalse la reciproca diffidenza. La paura induceva a guardare alla diversità dei prodotti dell´uno e dell´altro come una nebulosa piena di insidie. Una paura culturale e non biologica. Il ficodindia ha origine azteca e ai primi conquistadores penetrati nelle foreste centroamericane apparve come «la più selvatica e la più brutta» delle piante del nuovo mondo, una specie di alieno rispetto alle migliaia di specie che popolavano la flora europea. Ma dopo qualche tempo, il ficodindia aprì un varco e prese a colonizzare l´agricoltura mediterranea, uscì dai giardini delle corti dove veniva esibito come fenomeno eccentrico e diventò uno degli elementi paesaggisticamente distintivi delle colture siciliane, per esempio, inserendosi nei nuovi ambienti con straordinario spirito di adattabilità, finendo per essere assimilato come tipico di un habitat mediterraneo. Gustave Flaubert, per esempio, disegna con i fichidindia il paesaggio cartaginese dove si svolge il dramma di Salammbô.
E arriviamo così al melo, la cui storia sintetizza quella recente del paesaggio agrario, segnata dal degrado. In generale i frutteti, sopravvissuti per secoli ai bordi delle città, sono stati i primi baluardi a cadere sotto i colpi della dissennata espansione urbana avviata negli anni Cinquanta del Novecento. Ne sono triste documento i giardini di agrumi nella Conca d´Oro intorno a Palermo, e in particolare quelli dove nel secondo dopoguerra venne messo a punto il Tardivo di Ciaculli, un mandarino con pochi semi che matura fra febbraio e marzo: quei giardini sono assediati dalla mafia e dall´ingordigia della speculazione edilizia.
L´altro aggressore dei frutteti che tanta ricchezza apportarono all´agricoltura è la coltivazione industriale che ha specializzato le colture - tutto mais, tutto soia, tutto girasole - e banalizzato i paesaggi, abolendo siepi, alberature e piantagioni promiscue. Il melo, l´albero più diffuso al mondo, è stato vittima di questi processi. Fino agli anni Sessanta, scrive Barbera, in un ettaro di terra si piantavano da cento a cinquecento alberi alti anche otto metri, oggi si arriva a tredicimila, mai più alti di due metri, sostenuti da pali di cemento e fili di ferro, concimati chimicamente e protetti con teli di plastica. È la mitologia della produttività, la quale impone, spiega Barbera, la rincorsa a varietà che incontrino il gusto globale e in grado di resistere anche dodici mesi. E come tutte le mitologie, anche questa nasconde una falsa credenza, quella di contrastare con la quantità invece che con la qualità le mele che si producono in luoghi con costi di manodopera anche cento volte inferiori ai nostri.
Dagli anni Sessanta non è più possibile arrampicarsi sugli alberi di mele. Sopravvivono come delle rarità protette alcune antiche varietà, le Annurche, la Roggia, la Panaia, la Broccia, la Bianchina, la Rosa, la Ciucca, la Conventina, ognuna delle quali associata a un determinato luogo e a uno specifico paesaggio, «frutta / con dentro ancora una volta, tutta la campagna, sconfinata», avrebbe detto Rainer Maria Rilke.
Nel pieno delle polemiche fra lo schieramento di sinistra e quello moderato-conservatore sul Piano Intercomunale milanese degli anni ’50, la proposta di Giovanni Malagodi per una speciale authority metropolitana a governare l’area milanese, viene liquidata dalla stampa di orientamento socialcomunista come pura tattica politica, per affossare in qualche modo l’attuazione del decentramento regionale previsto dalla Costituzione, e appunto molto avversato dal Partito Liberale.
E non c’è alcun motivo particolare per dubitare della fondatezza, anche in una prospettiva storica, di tale giudizio: l’autorità speciale metropolitana di coordinamento territoriale proposta dai liberali si colloca in relativa continuità con alcune ipotesi (tecniche, amministrative, urbanistiche) di epoca fascista, che vedevano ad esempio al centro l’impresa, il nucleo urbano maggiore … quelli che oggi potremmo chiamare gli attori forti. Mettendo in disparte sia le ipotesi partecipative dal basso che alcune spinte ideali, come quelle per un assetto spaziale non più pensato ai soli fini dell’efficienza, ma anche a quelli dell’equità.
Al convegno di presentazione della proposta authority, però, basta ascoltare l’intervento dell’esponente liberale Cesare Chiodi, “Considerazioni urbanistiche sulla Provincia Ambrosiana”, per cogliere qualche elemento di complessità in più. Perché lo stesso Chiodi, esattamente sul medesimo tema (la dimensione sovracomunale di governo del territorio milanese), era già intervenuto in modo organico almeno due volte: dieci e vent’anni prima. Nel 1925 da assessore all’Edilizia del comune di Milano, inserendo anche nel bando di concorso per il piano regolatore l’obbligo di considerare la dimensione metropolitana dei processi edilizi, infrastrutturali, socioeconomici. Nel 1936 al convegno lombardo sulla casa popolare, dove aveva declinato secondo uno schema di matrice europea il tema del rapporto casa-lavoro nella regione milanese, ipotizzando qualcosa di simile a un sistema di new-towns nel quadro di un decentramento anche produttivo concordato con l’impresa industriale. Senza dimenticare, l’infinità di interventi puntuali su varie riviste, a divulgare la cultura di piano internazionale, e a proporne contestualizzazioni normative e operative nel nostro paese. Fili conduttori di questo percorso culturale – naturalmente non privo di qualche incoerenza – da un lato la centralità dei grandi operatori economici nel determinare l’organizzazione del territorio, dall’altro la costante necessità di ricondurre le spinte ideali entro l’ambito controllabile di una disciplina scientificamente fondata, e per ciò più legittimata anche al confronto col potere dei grandi operatori. Il tutto, come già detto, in una prospettiva liberale.
Tutto questo, e naturalmente molto altro, nella bella, utile e corposa raccolta di scritti di Cesare Chiodi curata da Renzo Riboldazzi per le Edizioni Unicopli (468 pp. 30 €), che si affianca alla ripubblicazione l’anno scorso per i tipi Gangemi de La Città Moderna. Tecnica Urbanistica, un libro che nell’edizione originale della Hoepli ha rappresentato un fondamentale manuale di riferimento per generazioni di studiosi e professionisti, dagli anni ’30 al periodo della ricostruzione e oltre.
Forse più de La Città Moderna, l’antologia proposta da Riboldazzi propone un aspetto della cultura urbanistica italiana assai poco conosciuto fuori dalla solita cerchia di studiosi più o meno specializzati. Ovvero quello di un percorso complementare ma distinto rispetto a quello prevalente (e pressoché unico, nella pubblicistica non di settore) dell’architetto demiurgo che progetta il territorio così come disegna oggetti o edifici. Basta scorrere, titoli, temi, testate e occasioni degli interventi di Chiodi, per cogliere l’estrema complessità e articolazione storica delle culture che via via confluiscono a formare prospettive cangianti di un territorio che a sua volta non è mai lo stesso (e come potrebbe esserlo?), e soprattutto non mai è possibile sintetizzare in un “disegno”.
In uno degli ultimi testi - una critica alla confusione decisionale e disciplinare della pianificazione intercomunale milanese - Chiodi mette educatamente in ridicolo la scelta di passare d’incanto dal “piano-progetto” al “piano-processo”, ovvero di abbandonare uno slogan basato su un disegno, a favore di un altro slogan, stavolta basato sulla discrezionalità delle decisioni. E si chiede: siamo ancora nel capo della pianificazione, oppure altrove?
Una domanda le cui possibili risposte si possono anche trovare nella lunga introduzione del curatore, che da un lato tenta di ricondurre a unità il lunghissimo percorso (da un testo di tecnica stradale quasi contemporaneo all’affondamento del Titanic, a una critica “sociale” del progetto realizzato di Brasilia), dall’altro ne sottolinea molte sfaccettature e alcune contraddizioni.
Una delle preoccupazioni principali di Riboldazzi, sembra essere quella di contestualizzare il pensiero di Chiodi sulla città nel quadro dei suoi principali riferimenti internazionali. Il che aiuta a comprendere e chiarire il suo ruolo fondamentale (e, appunto, sinora abbastanza in secondo piano) di “maestro” per generazioni di studiosi e professionisti. A partire, ad esempio, dalla straordinaria modernità dello schema territoriale per Foggia (1927) con la corona delle newtowns o borghi rurali, separate dalla città centrale da una greenbelt agricola, significativamente riportato in copertina, e che basterebbe solo accostare ai progetti di sventramento suoi contemporanei (come quello di Veccia per Bari) per un impietoso confronto, anche sul versante del “piano-progetto”.
Emerge forse un po’ meno, dalla prospettiva critica scelta dal curatore, proprio quello che secondo me rappresenta uno degli aspetti più interessanti del contributo di Chiodi, ovvero il suo collocarsi praticamente da subito in quello che parecchi lustri più tardi qualcuno chiamerà “piano-processo”, facendolo appunto sorridere.
Un ruolo da co-protagonista delle grandi decisioni naturalmente svolto nella discutibile prospettiva della fede liberale, della collocazione sociale e culturale vicina al mondo delle “combinazioni finanziarie e provvidenze amministrative” (come le definiva il Giovannoni) senza le quali anche i migliori progetti sono condannati a coprirsi di polvere sugli scaffali degli uffici tecnici. Un ruolo che in parte recupera e aggiorna in modo originale più l’approccio degli ingegneri alla città del primo periodo igienista-efficientista, che quello delle grandi utopie spaziali di architetti e riformatori (sempre che si vogliano considerare separati questi due mondi).
In conclusione, questa raccolta curata da Renzo Riboldazzi, completa di schede e guida all’Archivio Chiodi, mette a disposizione sia uno strumento di facile accesso ad aspetti davvero poco studiati della disciplina urbanistica italiana del ‘900, sia una nuova prospettiva di collocazione nel contesto culturale europeo e mondiale. Un libro da non perdere.
Nota: l’antologia, per quanto molto estesa e articolata, non è esaustiva. Ad esempio mancano le “Considerazioni urbanistiche sulla Provincia Ambrosiana” citate in apertura, nonché molti altri testi e articoli di Chiodi. Qui su Eddyburg sono anche disponibili in ordine cronologico: Per una scuola di urbanismo (La Casa, feb. 1926); Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia (intervento al congresso FIHUAT, Roma 1929); Urbanistica Rurale (intervento al convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell’Agricoltura a fini autarchici, 1938); Urbanistica nazionale o urbanistica provinciale? (l’Ingegnere, dicembre 1951). Sul convegno del Partito Liberale per la Provincia Ambrosiana, vedi anche l’intervento generale di Giovanni Malagodi. Una nota biografica su Cesare Chiodi è disponibile anche su Wikipedia; del medesimo volume curato da Renzo Riboldazzi, vedi anche la recensione di Lodo Meneghetti (f.b.)
Scarica il pdf di questa recensione, con allegata la riproduzione della tavola del concorso per il Piano Regolatore di Milano 1926-27, progetto motto Nihil Sine Studio, di Cesare Chiodi con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola
La presentazione si è svolta ad Alghero, il 26 marzo 2007, con la sociologa Antonietta Mazzette, che ha coordinato e l'attore Elio Arthemalle, che ha letto alcune pagine del libro
Quando un libro piace quanto a me è piaciuto La ghianda è una ciliegia vuol dire che si è realizzato un cortocircuito tra ciò che il libro è (non parlo dell’autore, parlo del libro, che ha una sua esistenza autonoma rispetto all’autore) e ciò che è il lettore: i suoi interessi, sentimenti, esperienze, curiosità.
Devo dire subito che se quel cortocircuito non ci fosse stato, se quello di Mameli mi fosse sembrato solo un bel libro, non avrei accettato di venire qui a presentarlo: che c’entro io, un urbanista, alle prese con un tema letterario, con un’esercitazione letteraria, con un’occasione letteraria su argomenti così diversi da quelli che mi sono familiari?
Nel riflettere su questa occasione d’incontro mi sono sforzato perciò di comprendere che cosa avesse determinato quel corto circuito tra me e il libro di Mameli. Ho trovato alcune risposte, ma soprattutto un paio di domande che rivolgerò a voi tutti.
Le storie della guerra mi sono piaciute molto. Ho trovato in qualche passo la stessa emozione che mi ha dato l’incipit del Sergente nella neve di Rigoni Stern, e spesso mi sono trovato nello stesso clima dell’altrettanto sardo Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu. Ma non è stato questo a determinare quel corto circuito.
Mi ha colpito moltissimo (e qui cominciamo ad avvicinarci al punto, alle domande) la descrizione della vita in Sardegna, a Perdasdefogu, negli anni raccontati dalle storie del libro. Mi ha terribilmente colpito l’estrema condizione di vita – la povertà, la fame, la fatica, la durezza della vita, sentite e patite come tali, non imbellite dal ricordo o dalla nostalgia – e insieme l’attaccamento per il luogo e le persone di quella condizione - la terra, la casa e l’albero, la fonte, il paese, la comunità immediata e quella un po’ più larga, i luoghi, le durissime “pietre di fuoco”. Sono pagine commoventi quelle che raccontano (dove si raccontano) vite drammatiche, spesso tragiche, dove i momenti di gioia nascono come licheni sul sasso.
Rileggendo le quattordici storie e cercando di comprenderle nel loro insieme ho visto che il percorso narrato poteva essere considerato composto da due parti. Una prima parte, la vita a Foghesu, contrassegnata da fame, povertà, durezza, fatica, e bellezza. Una seconda parte, la guerra e soprattutto il mondo, ciò che c’è oltre il percorso mulo – corriera – bastimento – tradotta: essersi affacciati là dove esistono altre lingue, altre e inaspettate ricchezze, e soprattutto altri diritti e regole, a tutela anche del debole.
Ma gli uomini e le donne che raccontano la storia sono ancora vivi quando l’autore li intervista. Hanno vissuto perciò anche dopo la guerra: nella pace, nella democrazia, nella “Repubblica fondata sul lavoro” (che espressione desueta!). Mi sarei aspettato perciò una terza parte: chiamiamola “il riscatto” dalla condizione di “prima della guerra”.
Ne ho cercato qualche traccia. Ve la racconto partendo da un episodio, tristissimo e bellissimo, che mi sollecita alle due domande che vorrei farvi. Un episodio, anzi, una storia antichissima, raccontata da Vittorio Palmas. La storia di Maria Cercapane, orfana di padre e di madre dall’età di otto anni.
“Maria aveva solo un fratello che era stato ucciso per vendetta”. Franciscu, ecco la sua storia.
Il fratello, Fracìscu, aveva visto un uomo che metteva fuoco sotto gli alberi di olivo e di leccio di Tuèri in una giornata di vento forte. “Sei un assassino dei boschi”, gli aveva urlato. L’incendiario era fuggito, il bosco era mangiato dal fuoco. Le fiamme alte avevano disegnato un cerchio rosso. Si sentiva il lamento delle foglie che piangevano e bruciavano. Erano morti conigli e cinghiali, anche le volpi e le martore, e due cervi. Francìscu aveva trovate bruciate dal fuoco anche una pernice e otto suoi piccoli perniciotti. Aveva pianto vedendo quell’orrore. Il bosco verde era diventato un campo di cenere, un cimitero nero. E l’odore bruciava la gola. I tronchi sembravano i cadaveri del bosco. Francìscu era rientrato in paese, in piazza aveva urlato:
“Il bosco di Tuéri lo ha ucciso Gonario, il figlio di Rubategole”.
“Ma cosa dici, quello era fuoco fuggito” gli avevano risposto tre uomini.
“Fuggito? Quello è fuoco messo. Messo dalle mani dell’uomo, dalle mani di Gonario di Rubategole. Tuti i fuochi sono messi dalla mano dell’uomo”.
“Tu non sai quello che dici, moccioso. E se sei sicuro vai dal barracello”.
“Io già ci vado ma lui non fa nulla, non ha mai fatto nulla. E tutti sappiamo chi lo mette il fuoco”.
“Tu vuoi vivere poco”, lo avevano minacciato.
“Io lo so quello che dico. E voglio vivere molto. Ma senza fuoco. Invece vedo le campagne del nostro paese senza piante e senza ombra. E la terra è cenere. Quello di Tuéri era fuoco messo. Gonario lo ha messo”.
Francìscu è “ucciso a pallettoni nella discesa del fiume. Ucciso da uno che si era appostato sopra la pianta delle ghiande perché Francìscu era stato colpito in testa”.
Ed ecco la prima domanda che mi viene. Vedo in questa storia un contrasto.
Francìscu ama la natura, il bosco e i suoi alberi, gli animali che lo vivono. Sente l’incendio come un’ingiustizia profonda, cosmica. Se non si può evitare questa ingiustizia non vale più nemmeno la pena di vivere.
Ma il popolo al quale Francìscu appartiene non sente la distruzione della natura come un’ingiustizia. Sa che bruciare il bosco è uno strumento per allargare il pascolo o migliorare la fertilità della terra. “Bue rosso terra nera” è il responso di Salomone al contadino che gli chiede come può rendere fertile la sua terra stremata dai molti raccolti, e alla fine comprende che la saggezza del Re gli suggeriva di dar fuoco ai campi per rendere nera e fertile la terra per i successivi raccolti.
Oggi alla fertilità per il coltivo o per il pascolo si è sostituito quello che viene definito lo “sviluppo del territorio”: e cioè il susseguirsi di lottizzazioni che cancellano la natura e distruggono il paesaggio, ma danno un reddito immediato ai proprietari e ai promotori immobiliari.
Francìscu è ancora in minoranza e finirà ammazzato da una palla in fronte, oppure può diventare maggioranza?
La storia di Maria Cercapane, dopo la morte del fratello, è struggente. Già nel funerale di Francìscu resta sola. “Perché anche in paese non sempre la verità piace”.
Aveva dovuto scavare lei la tomba attorno alla chiesa. E la bara, con due legnetti, l’aveva fatta un falegname di buon cuore, quello zoppo. Per calarla nella fossa erano intervenuti tre ragazzi, poi erano fuggiti.
Dopo i funerali
Maria era povera e bella, anche se era magra come un filo d'erba, era la più alta del paese, occhi neri come i suoi capelli lunghi. Aveva sempre la stessa gonna nera e un maglione di lana pungente di pecora, non aveva scarpe, errava sempre, sempre e solo in cerca di cibo. Camminava e camminava, e i piedi spesso le sanguinavano. Camminava per vivere, per passare dal giorno alla notte, o dall'inverno all'estate. Nel tempo dei fichidindia e delle more mangiava fichidindia e more, mangiava anche corbezzoli, la minestra la faceva con le patate dell'orto e con i porri che andava a cogliere fra i sassi del vulcano addormentato di Còmina Trinta. E lì trovava anche l'ortica, ce n'era un campo sterminato sotto i lecci che guardano il fiume che nasce a Ulassai. Brodo di ortica e, quando c'era, pane duro, quello che buttano ai cani. Carne mai, formaggio quasi mai. Una volta un pastore, zio Bartòlu, le aveva regalato una forma di ricotta secca. Maria lo aveva ringraziato con un bacio e con poche parole che le erano uscite dal cuore: "che Dio glielo paghi". Non aveva più neanche la capretta che dorme in casa e la mattina presto ti assicura il latte. Eppure la capretta l'aveva avuta. Ma a lei, a Maria Cercapane, l'avevano rubata ragazzi di un paese vicino per tare spuntino con una capra arrosto alla festa di mezzagosto. Loro in festa, Maria Cercapane senza più latte. E quando non trovava fichidindia e more, porri e corbezzoli, andava alla fonte di giù a bere. Bevendo uccideva la fame. Oppure si doveva arrangiare. Fu così che un giorno la moglie severa di un ricco vaccaro la trovò nel pollaio di casa. Maria aveva in mano due uova, non fece in tempo a nasconderle sotto la blusa e a scappare. Colta con le mani nel pollaio fu portata davanti al barracello e poi impiccata al patibolo del cocuzzolo della forca. E tutto il paese a vedere. Aveva ventun anni Maria. Nessuno sa dire dove sia stata sepolta.
Ho letto questa storia perché Maria Cercapane mi aiuta a formulare una ipotesi che è anche la seconda domanda che vorrei farvi.
Maria entra all’inizio del libro, nel primo racconto. È la prima storia di donna. Storia dolente, ma anche storia di rivolta. Maria lotta, per cercare il pane, per ricordare suo fratello. Oggettivamente (con l’oggettività dei miti) si oppone al paese divenuto ostile: “usque ad mortem”.
Ebbene, torniamo alla questione che ponevo prima, alla mia ricerca di tracce della “terza parte del libro”: il riscatto.
La mia sensazione è che, nei racconti raccolti e interpretati da Giacomo Mameli i segni di riscatto ci siano nelle poche – ma fortissime – presenze femminili.
I segni del riscatto del lavoro ci sono nella storia delle “donne del rosmarino”. Nel 1937 arrivano dei forestieri dal Continente, “i bolognesi”. Vengono per raccogliere il rosmarino e farne essenze per profumi. Il rosmarino lo raccolgono le donne, sono pagate un tanto a sacco. Angela fa i conti, si accorge che i bolognesi fregano sul peso. Lo dice alle compagne, escogitano il modo per ristabilire la giusta mercede: infilano una pietra nel sacco e la sfilano dopo la pesata.
I segni del riscatto morale ci sono nella storia di Stella Bianca. Così viene chiamata Marella Ferrigni, fioraia di Rovigo, spedita in un paese di fantasia (Gadàmu) perché antifascista e staffetta partigiana. Per vivere nella miserie del confine si prostituisce. Ma si nega alla prepotenza dell’appuntato dei carabineri e lo denuncia nella piazza grande.
Perché per far cambiare le cose bisogna dirle e urlarle le cose guaste. Per far cambiare le cose non bisogna aver paura. Marella non aveva accettato che qualcuno le mettesse i piedi in testa. A Gadàmu e nei paesi vicini aveva fatto scuola quella povera ragazza giunta dal nord.
I segni del riscatto politico sono nella storia della “Confinata di Corleto”, Maria Caterina Lo Giudice, confinata anche lei per antifascismo, che a Foghesu diventa l’animatrice di un piccolo gruppo di antifascisti attraverso le cui vicende si prepara il domani politico. Attrevarso la fiducia nei libri, nella cultura, nella crescita dell’intelligenza Maria Caterina comprende la via del riscatto e la indica ai suoi nuovi compaesani:
Mi stavo integrando con i foghesini e avevo pensato che sevuoi il fuoco devi avere la legna ma anche qualcosa per accendere. Se ti manca o la legna o il fiammifero fuoco non ne puoi fare e la fiamma non la vedi. Così è per l’intelligenza: cosa può essere senza sapere, senza vedere, senza viaggiare? Se finisce la guerra - avevo pensato – torno a Corleto e con i pochi denari che avrò comprerò libri. E tornerò a Foghcsu a dare libri a chi so io, a chi ho capito che è intelligente davvero.
[…]
La guerra finì. Caterina tornò a Corleto, comprò i libri.
Quei libri entrarono nelle case di Foghesu dove ancora non c'era la luce elettrica ma era entrata altra luce, quella delle elezioni libere, dei comizi, degli scontri a parole. Ma questa é storia del Dopoguerra.
Con la storia privata, segreta e tormentata di una confinata ci furono storie meno angosciate, ci furono le elezioni anche a Foghcsu. A sinistra c'erano tre gruppí: sardisti, socialisti, comunisti. Erano più dei dodici carbonari della seconda riunione capeggiata da Raimondo l'ex minatore, erano diventati cento, quattrocento. E c'erano i democristiani, molti democristiani, più di quelli di sinistra. Ma tutti finalmente liberi. Raimondo e Francesco, Fernando e il maestro Lai, e gli altri che volevano potevano parlare.
Come mai – ecco la mia seconda domanda – nel libro di Giacomo Mameli i segni di riscatto hanno tutti un’impronta femminile? Visione dell’autore, o panorama della Sardegna?
GIACOMO MAMELI RISPONDE
“La ghianda è una ciliegia” nasce a Perdasdefogu, in piazza di chiesa, nel rione del gelso, “Sa mura gessa”. Ascoltavo i racconti dei novantenni-centenari, sulla seconda guerra mondiale, sulla loro vita da ragazzi a Perdasdefogu, che noi chiamiamo “Foghesu”, aggettivo di “fogu” (fuoco). In piazza ho deciso di trasformare il parlato degli altri in uno scritto mio per evitare – come dice Mario Morcellini – di far “smagnetizzare la piazza”. Da quei racconti, dagli incontri ripetuti con i protagonisti e le protagoniste di 50 anni di storia locale, è nato il mio libro di raccontatori puri. Ho fatto in modo che a parlare fossero “loro”, i testimoni della tragedia nel Don o nei campi di prigionia in Sudafrica o in India, nei campi di concentramento tedeschi, evitando mie intromissioni. Il libro è così diventato il racconto corale di un paese, che è un po’ un paese non dell’Ogliastra o del Salto di Quitta ma del mondo. Un paese povero, misero. Perché Cristo si era fermato anche a Foghèsu.
Edoardo Salzano – che invito con file in rete, mio ospite, a visitare il mio paese – chiede se Francìscu è oggi un personaggio minoritario. Dico di sì: perché ancora oggi il coraggio di urlare la verità è di pochi, i soprusi continuano, gli interessi forti sono tanti, i potenti si difendono a vicenda, fanno cartello urbi ed orbi. Isole comprese. In un altro mio libro, “Donne sarde”, racconto di una ragazza, Pina Paola Monni, di Orune: ha avuto – tre anni fa - il coraggio di fare i nomi degli assassini del fidanzato. Oggi lei non vive più a Orune ma, sotto scorta, nella penisola. Lei ha infranto la legge dell’omertà. L’aveva infranta anche Francìscu urlando in piazza che “Gonario, figlio di Rubategole”, aveva dato fuoco al bosco di lecci di Tuèri. Era stato ucciso.
Vengo alla seconda domanda: il riscatto passa per le donne? A Foghesu è avvenuto così. Sono state le donne le prime antifasciste, sono state le donne le prime a voler leggere e studiare, sono state le donne del rosmarino le prime a ribellarsi ai soprusi dei padroni in un posto di lavoro. Oggi la Sardegna è una delle regioni italiane col più alto tasso di scolarizzazione in Italia. Il riscatto sardo non potrà che essere griffato donna. È questione di anni, forse di lustri. Ma il dominio maschile, molto arrogante e un po’ ignorante, è destinato - giustamente – a finire. Oggi, in Sardegna, è donna il nuovo turismo, la nuova ecologia, sono donne le direttrici delle aziende innovative di successo. Occorre attendere. Mi auguro non troppo.
Concludo con la richiesta di Eddy: ci sarà il riscatto? Sì, spero che avvenga presto. Con “La ghianda è una ciliegia” ho raccontato Foghesu dal 1900 al 1945. Mi auguro di scrivere (prendo in prestito “dum spiro spero”) il seguito dal 1945 al 1970 circa.
Prima di lasciarvi: io sono un ottimista, la Sardegna di oggi è profondamente cambiata, crede più di prima in se stessa, lo fa senza miti stupidi, la Sardegna fa parte del mondo. I segnali di cambiamento ci sono. Spero che trionfi la Sardegna delle donne del rosmarino, di Itala che voleva leggere libri, di Francìscu che non accettava la legge del più arrogante, dei vecchi di Foghesu diventato ottimi storici.
Un sociologo dell’università di Cagliari, di origini emiliane, Gianfranco Bottazzi, ha scritto un libro sulla Sardegna economica contemporanea titolandolo “Eppur si muove”. Aggiungo: eppur si è mossa. Ci sono più ciliegie che ghiande.
Mentre in Francia perdurano i positivi riscontri sulla serie del detective-imbalsamatore Efisio Marini, Giorgio Todde arriva nelle librerie d’oltralpe anche con la sua opera più nera e letteraria edita da Il Maestrale: La matta bestialità, tradotto da Vincent Raynaud per la prestigiosa editrice Albin Michel ( La Folle Bestialité). La qualità e le vicende narrate nel libro stanno conquistando lettori e critici. Romanzo attraversato da una forte vena metafisica, La matta bestialità è al contempo una storia profondamente corporale che mette il lettore di fronte agli aspetti più brutali della natura umana, attraverso una serie di omicidi segnati da una folle simbologia e da cui viene investita la vita del meteorologo Ugolino Stramini.
Sulle pagine di Liberation (22 febbraio) Jean Baptiste Marongiu ha parlato di «roman abdominal». Il critico letterario di lontane origini isolane ha dedicato ampio spazio a un intervista con l’autore, dove si parla tra l’altro del prossimo nuovo romanzo con Il Maestrale: Al caffè del silenzio.
Anche Le Monde dedica largo spazio alla Folle Bestialità con un articolo a firma di Gérard Meudal, che insiste sulla singolarissima natura dei personaggi toddiani, ma si concentra anche sul motivo che ha ispirato il titolo: il peccato della «matta bestialità» citato da Dante nell’Inferno, ma che lo stesso poeta non volle trattare nella Divina Commedia, perché peccato eccessivo anche per la sua opera. Così il libro di Todde si inventa per intero il canto mancante della Divina Commedia, che ha un ruolo centrale nell’intrigo costruito dallo scrittore. Queste ed altre peculiarità contenute ne La matta bestialità fanno dire a Claude Le Nocher che con Todde ci si trova «agli antipodi del poliziesco ordinario». «Un romanzo deliziosamente sconcertante».
Joel Kotkin, The City. A Global History, Random House, 2005 (edizione europea paperback 2006)
Utilissimo: su questo non c’è alcun dubbio. Utilissimo, perché è comunque opera meritoria concentrare in un libro di 160 pagine (più un’altra cinquantina fra note, indici, riferimenti bibliografici), che nell’edizione economica costa come qualunque romanzetto, tutta l’incredibile epopea dai primi grumi di capanne ai piedi di qualche santuario-fortezza agli albori della civiltà, alle torri di Shanghai che spuntano dallo smog del XXI secolo.
A dire il vero, a qualcuno come me, abituato forse troppo a certi riferimenti, fa una certa specie scorrere l’indice dei nomi e non trovare citati da nessuna parte per esempio Gutkind, o Gottmann. E magari posso trovare istintivamente curioso vedere nel testo che Howard è citato come “ planner”, e Jane Jacobs “ urbanist”. Ma si tratta ovviamente di personalissime fisime: i riferimenti sono sterminati, tanto quanto gli spunti, le prospettive di lettura, i semplici fatti esposti.
L’intento è sia divulgativo, che – come vedremo meglio poi – formativo, il che è una sfida non da poco coi ritmi forsennati che la narrazione imbocca da subito. Solo per fare un esempio, di questo passo: a pagina 4 siamo nella mezzaluna fertile mesopotamica, cinquemila anni a. C., coi primi grumi di insediamento stabile di tipo urbano, la mitica Ur, i sacerdoti, i rudimentali commerci; e a pagina 32 troviamo Roma già nel pieno del fulgore imperiale. Incalzante è dir poco.
Altra caratteristica è quella del linguaggio piano e scorrevole, nonché del frequente e affatto banale accostare tematiche storiche e contemporanee. Per esempio alla stessa pagina 32 si osserva come le strutture tecniche e sociali della capitale dell’Impero rendano possibile l’emergere di una rete commerciale assai diversa dai primitivi luoghi di scambio degli antichi villaggi e cittadine. “Commercianti di libri, pietre preziose, mobili e arredi si concentrano in quartieri specializzati. C’è l’horrea, che funge da supermercato, e una serie di botteghe più piccole al pianterreno delle insulae. Nell’epoca di maggior sofisticazione, Roma anticipa lo shopping center contemporaneo, col Mercato Traiano che offre una vasta gamma di prodotti organizzato su cinque livelli di negozi”. Questa del commercio è naturalmente una delle caratteristiche costanti dell’ascesa e organizzazione urbana delle varie città che nell’arco dei millenni, sparse qui e là per il pianeta a seconda delle fasi storiche, si collocano all’avanguardia dell’evoluzione sociale. Qualche secolo – e sedici pagine – più tardi dell’apoteosi di Roma, si ritrovano i medesimi ammiccamenti al trambusto del moderno mall anche nell’era di massimo splendore del Cairo, coi suoi bazaar tra cui spicca la Qasaba: “centinaia di botteghe, e i piani superiori ad ospitare 360 appartamenti, per una popolazione di circa quattromila persone … uno scrittore egiziano contemporaneo narra dell’incredibile abbondanza e diversità delle merci, nonché dell’assordante baraonda in cui spiccano le grida degli scaricatori che portano i prodotti alle barche sul fiume”.
Come sottolinea sin dalle prime battute Kotkin, la città affonda però le sue radici e la natura stessa della propria esistenza in una triade, articolata quanto inestricabile: fede, potere, scambi. Quando una delle componenti la triade viene a mancare, o si indebolisce troppo rispetto al ruolo sbilanciato delle altre, le città iniziano un declino: a volte inesorabile, a volte “temporaneo” (anche se in effetti è abbastanza difficile accettare la “temporaneità” di qualche secolo, o più). E dunque ecco la crisi che incombe sulle sorti delle città santuario, troppo dipendenti economicamente da un contado incontrollabile, o della fortezza quando non è più in grado di dominare il territorio da cui trae forza, o infine la decadenza nel lusso e nella pigrizia di una classe urbana brillantissima nel lucrare sugli scambi, ma che ha perso le spinte morali e ideali dei padri fondatori … E qui, per quanto riguarda il sottoscritto, inizia per così dire a cascare l’asino.
Perché mai? Ci si potrebbe chiedere. In fondo è pur vero e documentabile (Kotkin lo argomenta e documenta, nella sua relativamente sterminata serie di letture e riferimenti) questo intreccio inscindibile fra le tre ragioni d’essere della città, certo mai riconducibili alla sola ragione sociale della bottega o impresa, alla fede qualsivoglia, alla forza bruta di armi e politica di potere. Ad esempio l’energia per la rinascita delle città europee dopo i secoli bui dalla caduta di Roma, è ben riassunta (a p. 66) da Kotkin con la frase di Henry Pirenne, secondo cui “ l’amore del profitto si sposa al patriottismo locale”. Ma anche in questo caso l’agilità del volume di poche pagine e agevole lettura aiuta moltissimo: basta procedere gradevolmente attraverso la città della rivoluzione industriale, fino all’ingresso nel secolo scorso, e doppiare il capo di pagina 100, o giù di lì.
È appunto nel secolo breve, detto da qualcuno anche il secolo americano, che parecchi nodi sinora elegantemente distribuiti e diluiti iniziano e stridere sul mio personalissimo pettine. Ad esempio, quando all’alba del movimento per la città giardino Kotkin pare scordarsi di botto l’amore per dettagli ed equanimità che sino ad ora sembrava pervadere la narrazione, e taglia netto: la città industriale fa schifo, viva la suburbanizzazione. Il che, tra parentesi, è l’esatto opposto di quanto sostenuto per parecchi lustri sia dal “ planner” Howard che da molti suoi collaboratori e allievi. E questa “crisi” della città intesa in senso tradizionale, come agglomerazione e vicinanza fisica, di fatto caratterizza sottotraccia tutta la parte (un terzo, circa) che il volumetto dedica alla città contemporanea, dallo white flight del secondo dopoguerra, alle megalopoli povere dei paesi in via di sviluppo, fino al recupero urbano di fine millennio e alle sue spesso (condivisibilmente) ridicole ideologie. Detto in altre parole, la triade fondativa delle città (meglio se diffuse) sembra infine declinarsi in un impasto tra fede, potere e mercato, che ricorda molto certe culture, abbastanza note anche a casa nostra.
Chi non l’avesse ancora fatto, ora è meglio vada a vedersi la breve nota biografica di Joel Kotkin in apertura, la quale nota chiarisce meglio certi punti di vista. Kotkin, oltre che autore piuttosto prolifico e di ampie prospettive disciplinari, è Irvine Senior Fellow alla New American Foundation. Proprio la fondazione nota, ad esempio, per ostentare nel consiglio direttivo il famigerato Francis Fukuyama, quello della Fine della Storia. E che nelle tematiche sociali, ambientaliste, politiche, militari ecc. da sempre affianca le posizioni neoconservatrici. Solo per limitarsi alla parrocchietta della forma urbana, ad esempio, le posizioni di gran lunga prevalenti sono quelle del suburbio auto-dipendente come scelta di libertà, pressoché automatica quando si raggiunge un certo livello di disponibilità economica, e che non deve essere in alcun modo ostacolata perché “naturale”. Siamo insomma ancora nei pressi di Robert Bruegmann, stavolta proiettato anche nel tempo e nello spazio, dalla culla di Abramo a Ur, al comunismo di mercato da cui spuntano nel suburbio di Shanghai le prime villone pacchiane con piscina: è la Storia, baby!
Soltanto una cultura del genere, può permettersi tranquillamente di iniziare uno dei paragrafi finali con “Il Medio Oriente islamico rappresenta la minaccia più immediata e letale alla sicurezza delle città a scala globale” (sic: p. 155). E il sottoscritto lettore, adesso, si è onestamente stufato di consumare gli occhi su un’opera più che discutibile, più che criticabile. Per fortuna a pagina 160 la tiritera si conclude, con un messaggio apparentemente aperto e di grande respiro: “È nella città, antica confluenza fra la dimensione sacra, quella della sicurezza, e delle attività, che si forgerà l’umanità del futuro nei secoli a venire”. Speriamo soltanto che non sia governata dalla New American Foundation!
Nota: per capire meglio l’Autore, di Joel Kotkin, su queste pagine, anche, Suburbio è bello (Architecture, gennaio 2005); Ascesa della Città Effimera (Metropolis Magazine, aprile 2005); La Città del Futuro (The Washington Post, 24 luglio 2005); Cos’è il Nuovo Suburbanesimo(Planetizen, 24 aprile 2006); molti dei temi di questi articoli, e spesso anche loro interi paragrafi, costituiscono con poche modifiche i capitoli finali del volume recensito (f.b.)
In Sardegna, negli ultimi cinquant’anni, il passaggio dalla tradizione alla modernità ha lasciato tracce profonde, e di generi diversi. Tra i segni più evidenti, quelli rimasti incisi sul paesaggio. In «C’è di mezzo il mare» (Cuec, 179 pagine, 13,00 euro) Sandro Roggio, architetto ed esperto di problemi di governo del territorio, ricostruisce il lungo passaggio di un guado periglioso, che s’è lasciato dietro più di un’irrimediabile devastazione. Parte, il racconto ricco e intrigante di Roggio, dall’isola percorsa da Lamarmora quasi come l’Africa da Livingstone e da Stanley, e arriva al Piano paesaggistico da poco approvato dalla giunta presieduta da Renato Soru. Passando attraverso il sogno realizzato dell’Aga Khan in Gallura, la prima legge di tutela delle coste varata negli anni Ottanta grazie alla tenacia dell’allora assessore regionale all’Urbanistica Luigi Cogodi, il braccio di ferro sul Master Plan, i progetti di Tom Barrack e i tanti progettini di imprenditori locali che, fuori dal cerchio dei riflettori dei media, hanno provocato i danni maggiori. Qui pubblichiamo uno stralcio della presentazione al volume di Antonietta Mazzette (sociologa urbana) e un brano della postfazione di Eduardo Salzano, uno dei più noti urbanisti italiani. Due interventi che hanno approcci diversi. Contributi, come il testo di Roggio, al dibattito in corso.
Servono regole certe e vera partecipazione
Antonietta Mazzette
Il tratto saliente del territorio sardo riorganizzato sulle funzioni del consumo (in primis del consumo turistico) è la giustapposizione di elementi tradizionali e tardomoderni. Tra questi elementi è tuttavia difficile segnare confini netti, in ragione della rapidità dei mutamenti e del continuo mescolamento. Vale a dire che anche in Sardegna si è aperta la fase iper-turistica - definizione arbitraria ma utile per distinguere il turismo di prima generazione da quello attuale -, innanzitutto per il fatto che è da considerarsi ormai ampiamente sedimentato il rapporto tra industria turistica, aree urbane e sistemi locali; in secondo luogo perché il turismo ha innescato meccanismi riflessivi su ogni singola comunità locale, e ciò ha prodotto un pluralismo (e un relativismo) delle produzioni culturali, siano esse definite tradizionali o moderne, locali o globali.
È auspicabile invertire questo processo di consumo che riguarda anche la Sardegna? E se sì, è possibile? Recentemente nell’Isola si è aperto un dibattito, spesso dai toni aspri, tra chi ritiene che il turismo sia un’ancora di salvezza e chi invece considera i sostenitori del turismo malati di «sviluppite». Talvolta anche Sandro Roggio sembra che si collochi tra questi ultimi, a mio avviso per una propensione al pessimismo che lo caratterizza. Confesso di non collocarmi né tra i primi né tra i secondi. Il settore turistico è fondamentale per la Sardegna per i benefici economici che è possibile trarne, perché «costringe» i territori a riflettere su se stessi e ad entrare nei circuiti globali con le proprie risorse e perché l’incontro di popolazioni diverse comunque dà effetti positivi, anche quando non vengono percepiti immediatamente. Ma il turismo ha bisogno di regole certe e condivise e oggi il problema di governare sviluppo turistico e consumo in Sardegna si lega immediatamente al problema di rispondere alle distorsioni prodotte, in una prima fase, dalle politiche pianificatorie adottate, in una seconda fase, dall’assenza di pianificazione; assenza che ha contribuito ad affermare l’idea che il territorio sia da considerare come una sommatoria di interessi individuali. Distorsioni da intendersi tanto come consumo del territorio urbano e costiero - che ha avuto come effetto speculare lo svuotamento delle aree interne -, quanto come modalità distributiva delle merci, quanto ancora come stravolgimento delle qualità urbane, di cui la perdita delle funzioni dei centri storici è il primo e più importante effetto negativo. Ma le regole sono più difficili da porre in essere se riguardano comportamenti sociali che si instaurano in un territorio costruito per troppi anni come «macchina del consumatore», laddove lo scambio di beni simbolici (che non prescindono dai beni materiali) produce quella che è stata definita metacultura.
In un territorio dove non sono più delimitati gli spazi/tempo per il consumo, ma tutti gli spazi/tempo del singolo individuo e dei gruppi di riferimento (quindi delle città e del territorio tout court) sono beni da consumare, l’assenza di pianificazione - faccia pubblica della provvisorietà e dell’instabilità, che poi sono le qualità primarie del consumo - da molti viene considerata un valore; viceversa, istituire strumenti di governo, che necessariamente si traducono in limiti, produce conflitto tanto più acceso quanto più forti sono gli interessi individuali da tutelare. Vanno anche in questa direzione i numerosi ricorsi al Tar contro il Piano paesaggistico regionale, e non è un caso che Roggio si soffermi a lungo sul Ppr, sui risvolti del processo decisionale e sull’acceso dibattito che ha suscitato e che continua a suscitare. Il conflitto generato dallo strumento del Ppr è paradigmatico sia perché gli esiti non sono affatto scontati sia perché avrebbe dovuto vedere la partecipazione attiva della popolazione (non mi riferisco all’iter formale previsto e rispettato) e sia perché è illusorio pensare che bastino poche «menti illuminate» per cambiare una cultura del consumo che si è rapidamente sedimentata in tutti gli strati sociali della popolazione. [...] Ma attivare un circuito di partecipazione attiva è faticoso e soprattutto ha tempi più lunghi di quelli di cui dispongono oggi i rappresentanti istituzionali che, anche per questo, potrebbero essere facilmente indotti a fare scelte «in solitudine», senza l’ingombro della democrazia partecipativa.
La lunga marcia da Porto Cervo al Piano paesaggistico
«I poteri pubblici devono mettere in valore le qualità costruite dalla natura e dalla storia»
Edoardo Salzano
Una domanda mi è tornata alla mente, leggendo le pagine di Sandro Roggio [...]. Come sarà mai possibile sconfiggere interessi così corposi e vasti, rovesciare abitudini così consolidate, affermare verità così forti ma così controcorrente come quelle che Renato Soru testardamente proclama e rende concrete con coerenti atti di governo?
Mi venivano in mente tentativi analoghi, speranze in altri tempi sollevate da interventi di amici e compagni sardi, conosciuti e ascoltati in riunioni di partito o di associazioni culturali: Gianni Mura, in una riunione del Pci a Palermo, nella quale si affrontavano quanti, in quel partito, erano tolleranti nei confronti dell’abusivismo e quanti si battevano per sconfiggerlo; e Luigi Cogodi, approdato a responsabilità di governo regionale mentre stendevamo a Roma e a Cagliari una prima valutazione della «Legge Galasso», e Cogodi combatteva con nuova energia episodi di degradazione del bene comune delle coste dell’Isola. Nel succedersi conseguente degli atti legislativi e amministrativi del Presidente della Sardegna vedevo quei tentativi e quelle speranze diventar concrete: segni, durevolmente espressi nel territorio, di una nuova storia.
A quella storia sono stato poi chiamato a partecipare, come membro del Comitato scientifico incaricato di suggerire soluzioni culturali e tecniche ai progettisti del piano. Non conoscevo Soru, m’incuriosiva la determinazione che rivelava nei pochi incontri che ebbe con il comitato. Registrai le parole che pronunciò quando aprì i nostri lavori, le pubblicai nel mio sito, eddyburg.it. Ne riporto gran parte, anche perché rimangano in un testo cartaceo: «Che cosa vorremmo ottenere con il Ppr? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la «valorizzazione» non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale. Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perché pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre».
Quando si esprimeva con queste parole il suo viso rivelava una volontà cocciuta. [...] Credo che senza quella volontà cocciuta, senza quella determinazione che veniva da antiche solitudini, non sarebbe stato capace di condurre all’attuale punto di approdo la vicenda che Sandro Roggio racconta.
Un punto di approdo che non è definitivo, ma che segna un punto di svolta dal quale nessuno potrà prescindere nei prossimi anni. Né in Sardegna, né nel continente. Un punto d’approdo scandaloso. Costituisce infatti la testimonianza che, almeno in una parte dell’Italia, si è stati capaci di ribaltare il primato della merce sul bene, del valore di scambio sul valore d’uso, di sconfiggere lo sfruttamento miope del paesaggio mediante «valorizzazioni» cementizie che lo degradano e sostituirlo con decisioni e azioni che tendono alla messa in valore delle qualità costruite dalla natura e dalla storia.
Se si può farlo in Sardegna, si può farlo anche altrove. Anche altrove si può affermare, nei fatti, che la Regione assume in pieno il compito che la Costituzione affida all’intera Repubblica di tutelare il paesaggio. Anche altrove si possono utilizzare gli strumenti forniti dalle leggi degli ultimi decenni (dal decreto Galasso del 1985 fino all’ultima stesura del Codice del paesaggio) per affermare la priorità della tutela del bene comune del paesaggio su ogni sua trasformazione per le necessità dell’oggi.
Titolo originale: Housing that will make you feel good - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La psicogeografia dell’abitazione si installa in noi sin dalla più tenera età. Quando facevo la consegna dei giornali, portavo i miei pacchi di Mirror e di Sun in una zona della città caratterizzata da due principali tipi di case: solidi, graziosi, cottage in linea costruiti per gli operai di epoca vittoriana; e più in alto sul ciglio della collina, più anonime schiere di edifici vari moderni in mattoni delle case economiche. Era impossibile capire esattamente perché, ma nelle brume del primo mattino mi sentivo sempre a mio agio nelle strade dei villini vittoriani, mentre avvicinavo gli isolati delle case popolari con una strana trepidazione. Stessa gente, stessa scelta di giornali: ma in qualche modo si avvertiva di attraversare un invisibile confine, verso uno spazio diverso e inquietante.
Un bellissimo libro della giornalista Lynsey Hanley, pubblicato questa settimana, spiega vivacemente e approfonditamente perché il paesaggio mentale di ognuno di noi venga modellato dall’ambiente fisico. É cresciuta in un enorme complesso pubblico degli anni ’60 a Chelmsley Wood, Solihull, e ora abita a Bow, nella zona est di Londra. Ha imparato sulla propria pelle come i posti migliori per abitare vi facciano sentire al sicuro, liberi e soddisfatti, mentre i peggiori – colloca molti complessi di case popolari in questa categoria, coi blocchi di cemento armato, i sottopassaggi e passerelle – inducono “batticuore e paura”. Ambienti che sembrano quasi esalare miasmi, sostiene, ed è praticamente sicuro che inducano disagio, stress e ansia.
Come lo stato sociale britannico sia arrivato a realizzare spazi tanto mostruosi, rappresenta parte dell’obiettivo del lavoro della Hanley. Ricostruisce la parabola discendente della casa sociale, dal fugace idealismo del periodo fra le due guerre, all’immediato dopoguerra delle “case per gli eroi” , all’abominio dei complessi modernisti degli anni ’50 e ‘60.
Descrive quanto rapidamente la necessità politica ed economica di costruire case economiche e di massa abbia travolto le visioni della cultura socialista “bevanita”, delle spaziose casette a tre camere per ogni famiglia, indistinguibili da quelle borghesi. A metà anni ‘60, spuntavano dappertutto e senza pensarci troppo gli enormi complessi autosufficienti delle case popolari ai margini delle città e cittadine: centinaia di alloggi stipati in poco spazio, senza un pub, un ufficio postale, una chiesa, figuriamoci un centro comunitario, o trasporti pubblici vicini. A questo punto, l’immagine sociale della casa pubblica era cambiata: “Si potevano riconoscere a chilometri di distanza”.
Escono da queste pagine semplici insegnamenti per urbanisti, architetti, costruttori: progettate case di alta qualità; non usate materiali scadenti; chiedete agli abitanti in quali case vorrebbero abitare; fate una buona manutenzione ai complessi una volta terminati. Non sono cose originali, ma escono dalla pura forza dell’esperienza diretta. La Hanley ricorda quando insieme a un gruppo di inquilini accompagnavano una delegazione di “master planners” per un progetto di rigenerazione nel suo quartiere dello East End. Mentre arrancavano tristemente di fianco ad auto bruciate, coi ragazzini che sfrecciavano in motorino, uno dei visitatori si chiedeva ad alta voce chi avesse mai concepito spazi tanto poco funzionali. “La risposta arrivò, spontanea come il sorgere del sole” ricorda la Hanley: “Qualcuno che non abita qui”.
Nonostante la sua difesa quasi religiosa del sistema delle abitazioni pubbliche e dello stato sociale, la Hanley finisce per esprimere idee eretiche sul fatto che le case popolari abbiano un futuro, oppure no, se non altro perché la loro immagine pubblica è stata tanto denigrata da associarsi automaticamente a droga, criminalità, piccoli comportamenti idioti, “una specie di follia strisciante indotta dalla povertà cronica, da menti umane ingabbiate tra le rigide sbarre di classe e la scarsa voglia di sapere di chi dovrebbe”. Alla fine, conserva la sua fiducia, ispirata in questo dalla visita al complesso Old Ford di Tower Hamlets, dove gli abitanti hanno pensato e progettato la rigenerazione dei propri spazi. Le nuove case popolari nascono dalle macerie delle vecchie, l’Autrice è colpita da quanto sembrano belle. Poi capisce perché: “Non hanno l’aspetto di case popolari”.
Titolo originale: Country Life marks 110th birthday – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La rivista Country Life, quintessenza della vita di campagna britannica, ha compiuto ieri 110 anni celebrando l’anniversario con un numero souvenir.
Una retrospettiva che ricostruisce l’influenza del periodico sull’architettura, il giardinaggio, gli sport che si praticano in campagna, gli immobili, ed esamina il modo in cui sono stati trattati i momenti che hanno costruito il XX secolo.
Country Life nei suoi 110 anni è cambiata radicalmente. Quando Edward Hudson fondò la rivista col titolo Country Life Illustrated nel 1897, si concentrava sul golf e le corse, oltre ad occuparsi delle case di campagna che sono diventate il suo nucleo centrale.
Ma Hudson era anche impegnato a diffondere immagini e sensazioni di quell mondo rurale che già allora gli appariva in rapida scomparsa.
Ora inserita nel gruppo di riviste della IPC, di proprietà Time Warner, Country Life viene composta in un palazzo a torre a sud di Londra, ma resta uno spazio per le persone della campagna la cui voce spesso non si ascolta nei media nazionali.
Il periodico, che vende circa 40.000 copie la settimana, si occupa di architettura, giardini, immobili, belle arti e mercati locali.
“La rivista si è spostata un po’ rispetto al suo percorso storico. Si fondava su eredità e capitali di vecchia data” spiega il direttore, Mark Hedges, che dallo scorso marzo ha preso il posto di Clive Aslet.
“Quello che vediamo sempre di più è che gli immobili [di campagna] appartengono a persone diverse. Circa il 40% delle abitazioni vendute a ltre 5 milioni di sterline lo scorso anno sono state comprate da Russi”.
“Quello che resta ancora valido e sempre lo sarà, è che la campagna inglese è un rifugio per chi ha dei soldi”.
La rivista può vantare una prestigiosa lista di collaboratori, e anche Elizabeth Bowes-Lyon, diventata più tardi la Regina Madre, è comparsa regolarmente sui sommari.
Ci sono stati famosi scrittori di giardinaggio come Gertrude Jekyll e Christopher Lloyd, e Edwin Lutyens, il progettista di New Delhi, si occupava di architettura.
Il grande poeta John Betjeman mandava regolarmente articoli, e così Auberon Waugh; Simon Jenkins, poi direttore del Times, iniziò la sua carriera nella rivista come pubblicista.
Fra gli altri Roy Strong, ex direttore del Victoria and Albert Museum, e il romanziere Alexander McCall Smith.
Negli anni più recenti la rivista ha lanciato vigorose campagne su questioni come la criminalità nelle campagne, il dibattito sulla caccia e lo sprawl urbano.
“Stiamo tornando alla campagna, celebriamo quanto ha da offrire, e facciamo campagne per assicurarle un futuro solido” spiega Hedges.
Per il numero commemorativo sono stati intervistati 1.000 cittadini britannici, e si stima che 48 milioni su una popolazione di 60 preferirebbero abitare in campagna. Ci abitano effettivamente in 12 milioni.
Quando c’erano le sezioni Pci (una per ogni campanile, già, era un vero partito di massa): lui dedica all’argomento due capitoli (“Vita di sezione” e “(Dolce vita di sezione”). «Le sezioni erano posti da frequentare anche la sera della domenica. A Torino ricordo la Eric Giacchino, la Bravin di Mirafiori, la Ilio Baroni, la Gino Scali, dove si andava a ballare... Alle 23 la musica si interrompeva ec’erailmomentodi “richiamo politico”».
Lui è Diego Novelli, ex giornalista dell’“Unità”, ex sindaco di Torino (per dieci anni, 1975-1985), ex parlamentare di lungo corso, nonché comunista non pentito. L’autoritratto se lofa con poche righe Ben tirate,proprio nell’incipit del suo nuovo libro (ne ha scritti altri venti), appena uscito per gli Editori Riuniti con un titolo-manifesto: “Come era bello il mio Pci” (pp. 153, euro 10). «Non sono un apostata come Giuliano Ferrara. Non mi sono iscritto al Pci per combattere il comunismo, come ha dichiarato Piero Fassino. Il partito di Berlinguer e il Pci per me erano la stessa cosa, contrariamente a quanto vorrebbe far credere Walter Veltroni. Non è vero che non sono mai stato comunista, come ora dice di sé Claudio Petruccioli. Sono stato comunista non solo perché avevo intascaunatesseradipartito.E oggi non sono un ex comunista solo perché non ho in tasca una tessera di partito».
Quel che si dice parlare fuori dai denti. Un vero outing, per di più assolutamente temerario, dati i tempi. Non un’operazione nostalgia, non il santo Pci icona venerabile; ma un libro di contingente polemica politica. Un libro che, proprio dal confronto con il Partito che fu (quello appunto che venne “sepolto vivo”, come accusa la Rossanda) trae ottima linfa per un puntatissimo pollice versus, contro Un Presente che non lo attrae né tanto né poco, diciamo Quercia e dintorni. Un ripudio del Botteghino (ma anche i tentativi ultimi, e perfino ultimissimi, di dare vita ad altri soggetti a sinistra dei Ds non lo vedono entusiasta: vedi l’ultimo rassmblement, quello in data 24 settembre 2006, della Sinistra europea, dove ,«il dibattito, se così si può chiamare, mi ha ricordato tristemente sproloquianti assemblee sessantottine »).
Insomma, “non va più”. Niente consolazione, dopo la Sepoltura, ma anche niente resurrezione, niente formidabile Nuovo Inizio, macché. Il Pci era rock, questi sono lenti, e questi sono i Ds e simili, sostiene Novelli. Raccontare di «come era bello il mio Pci», è per lui,quindi, oltre che un momento della Memoria, anche lo specchio per mostrare di come invece non è affatto bello - anzi piuttosto bruttino - ciò che è venuto dopo. A Babbo (Pci) morto.
Per esempio. Allora «la sezione aveva aspetti sacrali, sia nella distribuzione dei locali, sia per gli ideal-tipi che la frequentavano. La stanzetta della segreteria era il “tabernacolo” della nostra piccola chiesa, dove il segretario convocava i compagni per colloqui riservati, o per affidare loro dei compiti particolari e dove, in una minuscola scrivania, venivano gelosamente custoditi gli elenchi degli iscritti, le tessere in bianco da compilare per i nuovi reclutati, un quadernetto a quadretti, sul quale venivano registrati i movimenti di cassa». Immarcescibili sezioni Pci. «La vita della sezione, aperta tutti i giorni alle nove della mattina fino a sera tardi, aveva un suo preciso dipanarsi», secondo i giorni della settimana.«Al giovedì c’era l’assemblea degli iscritti. All’ordine del giorno, in primo piano, le campagne che il Partito promuoveva, ma dove si discuteva di tutto», ivi compreso la rete dell’illuminazione e la sistemazione delle strade.
Una volta. Allora. «Oggi le cose vanno diversamente. L’attuale classe dirigente dei Ds non ha alcun rispetto non dico per gli elettori, ma nemmeno per gli iscritti. Loro fanno tutto in televisione,attraverso “Ballarò” e “Porta a porta”. Ci vanno sempre gli stessi». Un sassolino dalla scarpa o un sasso in fronte? (la domanda è retorica).
Per esempio. Allora «molto forte era lo spirito di solidarietà». L’episodio che Diego Novelli racconta è quello relativo all’alluvione del Polesine nel ’51. «Dalla Federazione arrivò un lapidario messaggio telefonico, ricevuto da Rosalia, l’impiegata, a tempo pieno, della sezione. «Bisogna organizzare subito gli aiuti per quella gente e provvedere a ospitare a Torino il maggior numero di bambini». Questa era “la direttiva”. In poche ore ci fu una straordinaria mobilitazione. Il giorno dopo, all’alba, partivamo con un camion Isotta Fraschini D/65, di proprietà di una ex cooperativa partigiana, carico di masserizie, indumenti, sacchi di pane, formaggi, scatolame, acquistati con fortissimo sconto presso lo spaccio della Alleanza cooperativa torinese di via Di Nanni. Tre giorni dopo eravamo di ritorno con una quarantina di bambini di Cavarzere », (tutti ospitati in casa di compagni della sezione).
Per esempio. Allora «il grande vivaio dei leader del Pci era la fabbrica, soprattutto a Torino. Dalle fabbriche arrivavano non solo operai, ma anche impiegati e tecnici. Diversi dirigenti della Federazione torinese furono paradossalmente eletti da Vittorio Valletta, visto che erano stati licenziati dallaFiat a causa della loro attività politica». Come Emilio Pugno, come Vito D’Amico diventati in seguito deputati. «C’era il culto degli operai nelle istituzioni, oggi non se ne vede più neanche uno. Non ci sono operai in parlamento, ma neppure nel Consiglio comunale di Torino». Quei fantastici metalmeccamici torinesi, capaci di«rifare i baffi alle mosche»,quegli strenui resistenti comunisti di Mirafiori, quei mitici compagni della Officina 32, il reparto “confino”, la famigerata Osr (officina sussidiaria residui), subito ribattezzata Officina stella rossa. Quei tipi come il Bonaventura Alfano e l’Antonio Bonazinga, i due operai iscritti al Pci, che «guidano la lotta dell’Officina 32»...
E quei tipi come il Nega - Celeste Negarville, ex operaio, dirigente del Pci torinese, poi deputato - «il Nega che aveva fatto dieci anni di “università speciale” nelle patrie galere, che conosceva a memoria tutti i canti dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, e che ci esortava a studiare dicendoci: “Ricordatevi, l’istruzione è obbligatoria, mentre l’ignoranza è facoltativa” ». E anche quei tipi come «il segretario della 39ª sezione di Torino che cerca di giustificare l’invasione sovietica dell’Afghanistan con la motivazione che “l’Armata Rossa è fatta per muoversi” ». I famosi tipi comunisti doc, quelli delle altrettanto famose frasi fatte, «nella misura in cui», il problema «che si pone», o, al contrario, «si solleva», il dibattito che «si apre» ed è sempre «approfondito », mentre «il Partito lo esige». «Un altro vezzo era quello di indicare nelle risposte tre punti. Come dice ancora spesso Piero Fassino, “le questioni sono tre”»... Sassolini dalle scarpe (uno si chiama Macaluso, un altro Chiamparino...), schizzi e ritratti, il libro ne abbonda. Uno riguarda Giuliano Ferrara (quello d’antan, quello di allora, dirigente del Pci torinese): infuriato con l’assessore della cultura Giorgio Balmas, reodinonaverdatosubitolanotizia della strage di Sabra e Chatila per non interrompere un concerto di Berio, per la pace, che il Comune aveva organizzato in piazza, «perdeva il controllo di sé, insultava l’assessore, malmenava il funzionario della ripartizione cultura, stendendolo sul selciato, con un cazzotto in pieno viso». Pci, un’altra storia
Il padre del Monopoli in realtà era una madre, e il gioco del capitalismo era in realtà un passatempo ideato contro i ricconi latifondisti. Dietro lo sterminato riscontro commerciale del gioco da tavola più famoso al mondo - 125 milioni di copie, diffuso in più di 40 paesi e tradotto in oltre 20 lingue - si nasconde infatti un figlio degenere, una creatura sfuggita alle mani dei suoi ideatori fino a convertirsi nell'esatto opposto di quello a cui era destinata. Il primo passatempo capitalista della storia - bandito a suo tempo dall'Urss, all'indice anche in Cina, Corea del nord e Cuba (dove Fidel Castro, si favoleggia, ne avrebbe ordinato una requisizione per l'intera isola) - fu inventato da Lizzie Magie, una fervente seguace dell'economista americano Henry George, che considerava la speculazione sul suolo la madre di tutti i mali economici e sociali e aveva proposto la tassazione unica sulla terra.
La piccola scatola rettangolare che conteneva il Monopoly partì dagli Usa alla conquista del globo nel 1933, su iniziativa di Charles Darrow, un ingegnere di Germantown in Pennsylvania, caduto improvvisamente in disgrazia durante la grande depressione. La storia ufficialmente tramandata parla di un riparatore di radiatori disoccupato - Darrow, per l'appunto - che improvvisamente grazie ad un idea semplice e geniale riesce ad accumulare una ricchezza immensa. Detta così, sembra l'incarnazione stessa del sogno americano: un emblema del capitalismo almeno come lo è il gioco di cui Darrow si auto-assegnò la paternità.
Tuttavia le cose non erano andate esattamente in questo modo. Una versione primitiva del Monopoly circolava già più di un trentennio prima di quella commercializzata da Darrow. Si chiamava The landlord's game (il gioco del proprietario terriero) e fu registrata il 23 marzo 1903 da Elizabeth Magie, una donna americana nata nel 1866 in Illinois. Le caratteristiche della versione di Magie erano praticamente identiche a quelle della versione di Darrow: un tabellone di gioco di quaranta caselle disposte lungo i bordi, quattro ferrovie, la Prigione e delle proprietà i cui valori erano superiori man mano che si procedeva lungo il percorso. C'era però un piccolo particolare che determinava una differenza sostanziale.
L'obiettivo dichiarato de The landlord's game era quello di diffondere le virtù del «Single tax movement», il movimento per la tassazione unica che fece seguito alle teorie di Henry George. Magie infatti era affascinata dall'economista e giornalista George e attraverso lo strumento del gioco voleva dimostrare i mali connessi alla concentrazione della terra nelle mani di pochi. Il pensiero di George infatti partiva proprio dal presupposto che la terra fosse di proprietà dell'intera collettività. Stando così le cose nessun individuo o impresa avrebbe potuto possederla. Questo non escludeva però la possibilità di sfruttamento economico del fattore da parte dei privati, ai quali bastava pagare un affitto allo stato per poter mettere in marcia qualsiasi attività, dalla fattoria alla fabbrica. Ai singoli andava comunque riconosciuto il diritto di proprietà su tutti i frutti che riuscivano a ricavare dallo sfruttamento del suolo, come riconoscimento al loro sforzo per renderlo produttivo.
In questo contesto l'economista statunitense introdusse il concetto di single tax (tassa unica); ovvero un'imposta che gravava esclusivamente sulla terra e non sui profitti che da essa derivavano. L'aliquota doveva essere abbastanza alta da garantire un'adeguata remunerazione allo stato, e rappresentava la rendita ceduta alla collettività per poter beneficiare dell'uso privato della terra. Contemporaneamente qualsiasi altra tassa sui redditi o sul lavoro doveva essere totalmente abolita.
Secondo George il programma per la tassazione unica avrebbe dato un forte impulso alla crescita, spingendo verso un sistema economico volto ad incoraggiare investimenti sia di capitale che di lavoro, visto che questi due fattori sarebbero stati integralmente esenti da imposte. Dall'altra parte si sarebbero evitati comportamenti indesiderati come lo sfruttamento della rendita del suolo o la speculazione sul valore della terra. Un'alta tassa sulla proprietà, inoltre, avrebbe fatto sì che la terra finisse nelle mani di chi l'avesse resa più produttiva. Questa piccola rivoluzione avrebbe assicurato, secondo i suoi sostenitori, profitti più alti, salari migliori, e un più efficiente funzionamento del mercato del lavoro.
Henry George espresse il suo pensiero in Progress and poverty, la sua opera più importante che catalizzò l'attenzione di molti che si autodefinirono seguaci. Tra questi c'era anche Elizabeth Magie, a cui venne in mente che forse un gioco da tavolo sarebbe stato più efficace di un libro per trasmettere la proposta della tassazione unica.
Nonostante le buone intenzioni di Magie però The Landlord's game non raggiunse l'effetto desiderato, ma anzi si tramutò nel trampolino di lancio per tutt'altra propaganda.
Una copia del The landlord's game, fini' infatti casualmente nelle mani di Charles Darrow. Le piccole modifiche che Darrow apportò al gioco stravolsero l'impianto ideologico creato da Magie, ma lo resero molto più appetibile al pubblico americano che con un fascio di banconote false in una mano e una coppia di dadi nell'altra sognava di uscire dall'incubo della grande depressione. A onor del vero c'è da dire che Darrow si accorse subito delle potenzialità del gioco e -capitalisticamente - decise di rischiare del suo nell'impresa: produsse di tasca propria le prime 5 mila copie, che andarono letteralmente a ruba. Con questi numeri l'ingegnere disoccupato si presentò negli uffici della Parker Brothers, allora come adesso una delle aziende leader del settore dei giochi da tavolo, dichiarando di essere l'inventore di quello strano gioco.
Alla Parker fiutarono l'affare e firmarono immediatamente un accordo con lui che rese alle due parti un'autentica fortuna. Era la primavera del 1935 e da quel momento Charles Darrow sarebbe stato per tutti l'inventore del Monopoly.
Titolo originale: Cholera and the City - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Verso la metà del XIX secolo, molti ritenevano che Londra, città con quasi due milioni e mezzo di abitanti, fosse impossibile da mantenere. Per due decenni, le epidemie di colera l’avevano devastate, insieme ad altre grandi città d’Europa, e l’opinione diffusa era che avendo stipato un numero senza precedenti di persone in un’area delle dimensioni della Londra vittoriana, la diffusione della malattia fosse inevitabile. In qualche modo, avevano anche ragione. In The Ghost Map: The Story of London’s Terrifying Epidemic—and How It Changed Science, Cities, and the Modern World, Steven Johnson ci racconta la storia dell’esplosione di colera a Londra nel 1854, e di come due uomini brillanti risolsero il mistero della propagazione del morbo mortale.
A metà del XIX secolo, l’aspettativa di vita di un londinese era spaventosamente bassa: “il gentleman medio moriva a quarantacinque anni, chi lavorava, addirittura verso la metà dei venti”. Per quanto la Londra vittoriana si fosse abituata alla morte, l’esplosione di colera del 1848-49 lasciò attonita la popolazione uccidendo oltre 50.000 abitanti della città. Si viveva con il costante terrore che la malattia si prendesse delle vite senza alcun avvertimento.
Come in tutte le zone urbane dell’epoca, anche a Londra mancavano le infrastrutture per una grande città moderna. Nel 1854 aveva cominciato a comparire un sistema fognario esteso a scala urbana, in parte per arginare l’apparire del colera. Questo nuovo sistema coesisteva col vecchio metodo di gestione degli escrementi umani, quello degli uomini dello “scavo notturno”, del letame di cui erano praticamente pieni i seminterrati delle case, e che veniva trasportato nelle fattorie ai margini della città. “Nessuna descrizione realistica della Londra di quel periodo mancava di menzionare la puzza della città” nota Johnson.
Il nuovo rudimentale sistema fognario semplicemente scaricava i liquami di origine domestica nel Tamigi, contaminando così le acque sotterranee che rappresentavano una delle principali risorse idriche della città. Ironicamente, l’uomo responsabile di tutto questo era il commissario alla sanità di Londra, Edwin Chadwick. Sostenitore della Teoria del Miasma, ovvero che il colera fosse trasmesso dal puzzo che si spandeva nell’aria, Chadwick credeva che scaricando i liquami nel fiume, lontano dalle case, si impedissero altre emergenze della malattia. Ma naturalmente, contaminando la principale fonte d’acqua di Londra, contribuì molto alla diffusione del colera. Come sottolinea Johnson, un terrorista biologico del XX secolo non avrebbe potuto mettere a punto un piano più ingegnoso per mettere in pericolo la popolazione della città.
Ad ogni modo, non si trattava solo di Chadwick. Nel 1854, la comunità medica non aveva idee migliori per prevenire il colera di quando aveva colpito Londra per la prima volta nel 1832. Continuava la teoria della diffusione per via aerea, rafforzando i pregiudizi dei tecnocrati. Secondo il pensiero dominante, chi viveva nello sporco e tra i cattivi odori, come accadeva alla maggior parte dei poveri lavoratori di Londra, più probabilmente sarebbe morto per la malattia. Pochi avevano notato che gli “scavatori della notte”, nonostante il rapporto quotidiano con lo sporco, spesso vivevano sani e a lungo.
Uno di quelli che lo avevano notato era il dottor John Snow. Di umili origini, Snow era salito al culmine della medicina del XIX secolo: la Regina Vittoria lo aveva chiamato nel 1853 per la somministrazione di cloroformio durante il parto, una tecnica perfezionata dallo stesso Snow. Inoltre, era un medico sistematico e sperimentatore scientifico con vaste prospettive intellettuali. Dubitando della Teoria del Miasma, Snow tentò di dimostrare che il colera durante l’esplosione del 1848-49 si era trasmesso attraverso la fornitura d’acqua. Ma le prove concrete di questa sua ipotesi si dimostrarono vaghe: statistiche pubbliche dei decessi carenti, e poca chiarezza su quali famiglie ricevessero l’acqua da quali compagnie private, resero l’analisi di Snow troppo complessa da portare a termine.
Sul finire dell’estate 1854, il colera si diffuse in un particolare quartiere di Londra: Soho, il cortile di casa di Snow. “Quasi settecento persone che abitavano entro un raggio di 250 metri dalla pompa di Broad Street erano morte, in un periodo di meno di due settimane” scrive Johnson. Snow percorreva il quartiere a passi frenetici, raccogliendo campioni d’acqua e intervistando le famiglie sulle abitudini di consumo.
Ma Snow non avrebbe cambiato da solo il corso della storia. Fu il Reverendo Henry Whitehead, che in un primo tempo dubitava della sua teoria, che contribuì a sistematizzare i rilevamenti e a convincere il Commissario Chadwick che la malattia si diffondeva attraverso l’acqua. In quanto ministro, e intellettuale uomo di mondo, Whitehead conosceva più di ogni altro le famiglie di Soho. Furono le sue conoscenze a consentire a Snow di scoprire dove si era originate l’esplosione di colera; non si sarebbe potuto convincere Chadwick, senza questa fondamentale informazione.
Allo stesso modo di Snow, anche i funzionari della sanità pubblica che avevano frettolosamente indagato sull’emergere del morbo in città mancavano di conoscenza sul campo a Soho. Insieme, Snow e Whitehead furono in grado di convincere Chadwick a chiudere la pompa di Broad Street prima di un altro scoppio di epidemia.
Snow morì pochi anni più tardi, quarantacinquenne, prima che fosse accettato diffusamente il fatto che il colera si trasmetteva via acqua, ma aveva messo in moto una trasformazione dei sistemi fognari che alla fine glia avrebbe dato ragione. Non si verificarono più grandi manifestazioni di colera a Londra, dopo la modernizzazione della rete, completata nel 1866.
Il capitolo conclusivo del libro di Johnson tratta i problemi contemporanei delle città dei paesi in via di sviluppo, spaventosamente simili a quelli della Londra vittoriana. Nairobi e Dacca hanno popolazioni che si avvicinano ai 20 milioni, e pure la loro lotta in assenza di acqua potabile e adeguati sistemi sanitari passa in gran parte sotto silenzio. Le risposte a questi problemi verranno solo da massicci investimenti nelle infrastrutture urbane, ma le differenze culturali e di proporzioni richiederanno approcci innovativi.
Johnson indica che la nostra capacità di risolvere i problemi delle città attuali potrebbe essere vanificata se non teniamo conto delle conoscenze locali di figure come Snow e Whitehead. E Johnson chiarisce come risolvere i problemi delle aree urbane richieda sia un approccio dall’alto che uno dal basso. La questione che lascia senza risposta, è se siamo ancora in grado di ascoltarle, le idee di persone come Snow e Whitehouse, nell’epoca del Department of Homeland Security.
La crescita inarrestabile del blob urbano - non più correlabile a trend demografici o a improbabili tassi di sviluppo - richiede strumenti efficaci di verifica e di blocco, strumenti necessari per contrastare un fenomeno che fino a pochi anni fa gli urbanisti credevano ancora di poter gestire con interpretazioni progettuali mirate o con misure articolate. Oggi la clamorosa (e spesso rozza) occupazione dei «paesaggi italiani» da parte della città «diffusa», con i processi di degrado e dissesto che ne derivano, traduce sovente - anche tra gli urbanisti - la riflessione in preoccupazione.
Per questo, il principale motivo di interesse della raccolta di saggi No Sprawl curata per Alinea da Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano (pp. 250, euro 28) consiste forse nel fatto che il volume segna un passaggio di fase (verso il recupero dell'esistente) e in generale un mutato atteggiamento di disciplina e politica urbanistica. Così, mentre continua la cementificazione del «Bel Paese» (peraltro secondo dinamiche riscontrabili in altre aree europee e occidentali), i connotati del fenomeno - e i suoi effetti sulla qualità dell'ambiente e della vita quotidiana - sono oggi restituiti da molte indagini, di cui questo libro offre un esemplare spaccato.
Accanto all'infaticabile lavoro di documentazione e denuncia compiuto dal sito Eddyburg.it (promosso dallo stesso Salzano), sono infatti sempre più numerosi gli studiosi o i tecnici che, sia pure con accenti diversi, indagano sui processi di deterritorializzazione già prefigurati da Alberto Magnaghi: fra gli altri, Anna Marson, attenta in particolare alla «marmellata insediativa veneta», Osvaldo Pieroni, studioso delle situazioni meridionali e segnatamente calabresi, e ancora Paolo Berdini, Giovanni Caudo, Giulio Tamburini, Arturo Lanzani e Giorgio Ferraresi.
Riferendosi più o meno esplicitamente a questi autori, No Sprawl ne approfondisce e aggiorna alcuni studi: notevoli le descrizioni della distruzione dell'ambiente dell'agro campano da parte di Antonio Di Gennaro e Francesco Innamorato, la «Roma diffusa» nella campagna urbanizzata (anche quale esito delle politiche riformiste recenti) di Paolo Berdini, l'implosione del territorio vasto di Bologna osservata da Piero Cavalcoli e soprattutto «il viaggio» attraverso il mare (una volta) verde della megalopoli padana, da Torino al Brenta, descritto argutamente da Fabrizio Bottini, secondo un profilo interpretativo che potrebbe essere utilmente messo a confronto con quello proposto da Arturo Lanzani nel suo Paesaggi italiani (Meltemi 2003).
Anche i contributi di taglio più metodologico e normativo confermano la qualità complessiva del lavoro. Di notevole interesse per esempio la distinzione operata da Maria Cristina Gibelli tra diffusione urbana (espressione fisiologica di antropizzazione matura) e dispersione (patologia dovuta a una cementificazione inarrestabile e ingiustificata). Da parte sua, Georg Josef Frish istituisce un confronto tra le politiche di contenimento dello spreco di suolo in Europa: e se la situazione italiana è tra le peggiori, il quadro presenta comunque molte analogie, come già avevano previsto a suo tempo Bernardo Secchi e Giuseppe Dematteis. Al centro dell'intervento di Alfredo Dufruca sono invece i macroscopici errori di politica infrastrutturale, che certamente alimentano il fenomeno dell'iperurbanizzazione: un tema, questo, affrontato più ampiamente in un altro volume uscito di recente a cura del Wwf, La cattiva strada. La prima ricerca sulla «Legge Obiettivo», dal ponte sullo Stretto alla Tav (Perdisa, pp. 272, euro 15).
Indagando sull'efficacia degli strumenti di contenimento del consumo di suolo proposti da alcuni recenti provvedimenti di legge regionali (a livello nazionale nulla, e meno male che si è bloccata la proposta di legge Lupi), Luigi Scano sottolinea come in alcuni casi - Toscana, Calabria, Sardegna, tra gli altri - il problema venga messo correttamente a fuoco. E tuttavia anche in questi disegni autenticamente riformisti si sconta la contraddizione creata dalla «perequazione», dalla necessità cioè di «tutelare i diritti edificatori», almeno nelle zone urbanizzabili e anche a fronte di fabbisogni inesistenti e di contesti già compromessi. Ne deriva, naturalmente,l'esigenza di coordinare politiche urbanistiche e paesaggistiche: la tutela del patrimonio territoriale, infatti, richiede un approccio che accosti ancora di più i due concetti, senza tuttavia integrarli nello stesso strumento (come è l'aporia - più volte segnalata - contenuta nella legge toscana, che contribuisce ai vari «abusi istituzionalizzati»: si pensi al caso, non isolato, di Monticchiello).
Quanto sia opportuno accostarsi al recupero di territorio con un'impostazione paesaggistica è dimostrato nel libro dallo studio di Massimo Zucconi sulla Val di Cornia. E proprio questo contributo ricorda come il «No Sprawl» si possa perseguire solo con un'azione sociale dal basso forte e continua: la crisi della politica territoriale è crisi delle istituzioni politiche tout court e non si risolve soltanto con gli strumenti e le logiche già consolidati nella disciplina urbanistica.
In libreria il lavoro di Charles Fishman, giornalista che indaga tra i carrelli del mercato globale e i bilanci delle grandi company. L'avvento del «basso prezzo a tutti i costi» ha sconvolto il lavoro, l'ambiente, l'economia e le abitudini di spesa. In tutto il pianeta
Pordenone Perché una catena di supermercati americani dovrebbe interessare il pubblico italiano? Ormai da anni, in tutta Europa, si è affermato il modello del low cost , non solo alimentare: dagli hard discount caserecci ai modelli in scala tipo Lidl, fino ai prezzi stracciati di grandi compagnie aeree come Ryanair, che hanno rivoluzionato il mercato mettendo in crisi diversi vettori nazionali. Per comprendere i vantaggi e i rischi del «prezzo basso a tutti i costi» bisogna guardare necessariamente alla Wal-Mart, la catena di distribuzione statunitense che proprio sul low cost ha costruito un impero, riuscendo a diventare l'impresa più grossa del mondo e della storia. Attirandosi, insieme a questi successi, le critiche di ambientalisti e sindacati, attenzioni un tempo riservate ai big globali come la Nike o McDonald's. In queste settimane è in libreria la preziosa inchiesta di un giornalista statunitense, Charles Fishman, dal titolo «Effetto Wal-Mart - Il costo nascosto della convenienza» (Editrice Egea).
Interessante, perché l'autore non parte da posizioni preconcette (Wal-Mart è tutto bene, Wal-Mart è tutto male), ma cerca di capire come, in particolare negli ultimi due decenni, il «basso costo» abbia cambiato l'economia Usa, influenzando i tassi di inflazione e le abitudini dei consumatori, accelerando la delocalizzazione delle industrie e l'abbassamento dei salari, arrivando a stravolgere, in alcuni casi, equilibri ambientali e comunità locali. Abbiamo incontrato Fishman in una delle presentazioni italiane del volume, all'associazione «Cinema zero» di Pordenone: un cinema pieno e un pubblico attento, che si è trattenuto per più di due ore a parlare di precarizzazione del lavoro, prezzi, globalizzazione dei mercati. Evidentemente temi che «tirano». L'inchiesta di Fishman parte da un oggetto di tutti i giorni, una scatola di cartone. In questo caso, l'involucro di un comune deodorante, prodotto che milioni di persone acquistano ogni settimana in ogni angolo della Terra. E' un modo per illustrare uno dei tanti «effetti Wal-Mart»: la multinazionale della distribuzione, a inizio anni Novanta, si chiese infatti che senso avesse rinchiudere un deodorante dentro una confezione di cartone. Nessuno, dato che il prodotto è già efficacemente protetto nel suo contenitore in vetro o in plastica, e dato che - soprattutto l'esistenza della scatola di cartone comporta costi in più, assolutamente superflui: prende più spazio sugli scaffali del supermercato, fa pesare di più il deodorante nel trasporto, bisogna pagare il materiale e il lavoro per realizzarla. E allora?
Eliminiamola, pensò WalMart: cominciò un'opera di convincimento presso tutti i produttori del settore perché rinunciassero alla confezione, e in effetti nel giro di qualche anno non esisteva più non solo sugli scaffali Wal-Mart, ma in tutti i supermercati Usa, un solo deodorante che fosse contenuto in un involucro cartaceo. Il risparmio - calcolò il big della grande distribuzione - sarebbe stato di cinque centesimi per ogni singolo deodorante, da distribuire tra produttori, catene commerciali e clienti finali. Con un vantaggio per tutti, anche per l'ambiente (si pensi a quanti alberi abbattuti in meno), e con un solo danneggiato, evidente: chiunque lavori in una fabbrica di confezioni di cartone. Un piccolo episodio, un aneddoto, che però spiega l'effetto dirompente della Wal-Mart sull'economia Usa, e sulle abitudini degli stessi americani. «Vendi sempre più basso» Il segreto del successo della WalMart sta tutto nella filosofia del suo fondatore, Sam Walton, che aprì il primo store nel 1962: «Vendi sempre più basso degli altri». Anche se di pochi centesimi, il prezzo di Wal-Mart deve essere il più basso in assoluto che si trovi nel mercato per un prodotto di qualsiasi genere, anche di marca. Attenzione: non stiamo parlando di un hard discount , quello cui siamo abituati in Europa, dove in negozi spartani e disadorni vengono vendute merci perlopiù sconosciute per risparmiare sui costi della pubblicità: Wal-Mart risparmia certamente sull' appeal degli ambienti e sugli ornamenti, ma offre prodotti di marca. Solo che riesce a venderli tutto l'anno (e non solo nei periodi degli sconti) anche fino al 15% in meno degli altri, il che fa una bella cifra per le tasche dell'americano medio. E' il principio dell' everyday low price , ogni giorno prezzi bassi, un vero e proprio «patto con il consumatore» di cui Wal-Mart si è fatto alfiere. Ancora: sugli scaffali del colosso, possiamo trovare ben 120 mila prodotti diversi, tanto che si è calcolato che la stessa persona potrebbe fare la spesa quotidianamente da WalMart per 5 anni e non comprare mai lo stesso prodotto pur mettendo nel carrello 60 articoli differenti al giorno.
Una comodità per chi vuole comprare il necessario per la settimana (non solo alimentari) con un solo viaggio in macchina. E sempre nei 5 anni, il prezzo della lampadina Ge - molto diffusa negli Usa - si è abbassato dai 2,19 dollari del 2001 agli 0,88 del 2005. Grazie all'imperativo del prezzo basso, Wal-Mart dunque è riuscita a diventare la più grande catena di distribuzione, negli Usa e nel mondo. Non solo: attualmente è anche l'impresa con il più alto fatturato del pianeta, e verrà superata a fine 2006 dal gruppo petrolifero Exxon solo grazie al notevole rincaro del greggio nell'ultimo anno. In ogni cittadina o metropoli in cui WalMart si è insediata, ha cominciato infatti ad imporre un abbassamento dei prezzi a tutti i negozi vicini, costringendoli a chiudere o ad operare con i suoi stessi obiettivi. Wal-Mart ha così orientato il mercato, non solo localmente: la recente fusione dei big Gillette e Procter & Gamble (stiamo parlando di due multinazionali Usa che non hanno certo bisogno di presentazioni) è stata motivata dalla necessità di avere maggiore forza contrattuale rispetto all Wal-Mart. Se infatti il prezzo basso può essere - a prima vista - molto vantaggioso per il consumatore, non è detto che alla lunga questo principio non comporti grossi svantaggi al sistema economico e alle comunità. Wal-Mart - e di conseguenza tutti i suoi concorrenti - chiedono infatti ai propri fornitori un costante abbassamento dei prezzi, in contrasto persino con le leggi dell'inflazione (l'esempio della su citata lampadina parla da solo). Oggi comanda il distributore Bisogna anche tener conto che l'ultimo decennio, quello che ha visto trionfare la Wal-Mart, è anche quello in cui il settore del retail (commercio) ha superato per addetti quello dell'industria, fatto storico per gli Usa: 14,9 milioni di occupati nel commercio contro i 14,5 nel manifatturiero nel 2003. La distribuzione si è messa al centro dei processi economici, al pari se non in posizione di superiorità rispetto alla produzione, una novità leggibile proprio nell'effetto Wal-Mart: i fornitori, per abbassare il prezzo su richiesta dei distributori, hanno dovuto via via ridurre la qualità dei prodotti, ridurre i salari o licenziare gli operai per delocalizzare nelle aree del mondo a minor costo di manodopera.
Così, oggi, gran parte della merce venduta nei WalMart viene da paesi come il Bangladesh, la Cina o il Cile. Effetto Wal-Mart che non risparmia - come anticipato - i lavoratori, e forse questo è il fenomeno più noto al grande pubblico europeo, aspetto non certo messo in ombra da Fishman: innanzitutto gli 1,6 milioni di dipendenti diretti della multinazionale, spesso sotto i riflettori mediatici a causa dello sfruttamento cui sono costretti. Bassi salari, straordinari imposti, discriminazioni di genere (Wal-Mart è oggetto della più grossa class action della storia: 1,6 milioni di lavoratrici hanno fatto causa perché discriminate nelle retribuzioni e nell'avanzamento di carriera); senza contare il caso dei dipendenti chiusi di notte nei negozi, o degli immigrati irregolari (e ovviamente sottopagati) impiegati dalle ditte di pulizia. Ma che dire degli operai che cuciono i jeans in Bangladesh? Un episodio del libro riporta la testimonianza di una giovane operaia tessile picchiata dal caporeparto con il paio di jeans che sta cucendo. In Cile, gli addetti alla lavorazione del salmone non se la passano meglio, ma nel paese sudamericano c'è un effetto Wal-Mart ancora più macroscopico: il salmone fino a 12 anni fa non esistev a nei mari cileni, mentre oggi - grazie alle massicce importazioni di Wal-Mart - il Cile è diventato addirittura il primo esportatore di salmone del mondo. Un vantaggio per il paese, non per i suoi oceani: gli allevamenti intensivi, infatti, stanno sconvolgendo l'ambiente sottomarino a causa degli scarichi industriali e delle feci dei pesci che si depositano sul fondo. E infine, molti commessi dei negozi vicini a Wal-Mart hanno perso il lavoro, causa chiusura per impossibilità di reggere la competizione, come tanti dipendenti dei fornitori di Wal-Mart. Il libro di Fishman si conclude con le interviste ad alcune operaie della L.R. Nelson, azienda costruttrice di irrigatori: sono state licenziate in 300, perché a causa delle insistenti richieste di Wal-Mart - «abbassate i costi» - l'impresa ha deciso di delocalizzare parte della produzione in Cina. Un «ricatto» tipico, in epoca di globalizzazione: uno dei tanti «effetti Wal-Mart».