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Effimera

La crisi ecologica globale è uno scenario in cui agiscono anche alcune tra le nuove prospettive critiche che stanno attraversando il dibattito planetario da decenni, obbliga a costruire nuove dinamiche dell’azione politica e richiede anche di ridefinire le pratiche in relazione alle possibilità concrete di costruire nuove forme di socialità. Si sta determinando, in modo sempre più evidente e su scala planetaria, un conflitto socio-ecologico che ancora non è definito nelle sue dirette conseguenze, ma che è necessariamente un campo di azione del pensiero critico. Per poter costruire un mondo radicalmente diverso bisogna confrontarsi con questo scenario, con la crisi in atto e con le possibilità concrete di mutamento.

1. Il vivente è una categoria rivoluzionaria

Al centro della mia riflessione c’è un assunto reso evidente dalla crisi socio-ecologica: il capitalismo è incompatibile con la perpetuazione del vivente. È incompatibile anche con la stessa struttura della biosfera, con il suo funzionamento e i suoi tempi, inoltre il capitalismo nella sua storia ha costantemente mirato a inglobare e ridefinire il funzionamento della vita. Dalla base biologica però è riuscito a passare alla sua espressione più generale, con il termine vivente intendo infatti qualcosa di più ampio: è l’insieme delle capacità produttive della vita, comprende, ad esempio, anche la capacità di produrre il pensiero e di definire la realtà, è tutto ciò che è vivo.

Il conflitto tra capitalismo e vivente è stato il fulcro centrale della storia degli ultimi secoli, ha prodotto in forme dirette una lunga serie di diversi metodi di sfruttamento e adesso ci ha portato alla crisi ecologica globale. È una fondamentale contraddizione interna al capitalismo, l’ennesima potenzialmente fatale per il sistema. Più di altre contraddizioni può però essere un luogo di mutamento perché si tratta di una contraddizione particolarmente radicale, in cui viene direttamente coinvolta anche la sopravvivenza generale della biosfera. Non si tratta della sussunzione della natura alla sfera della produzione, ma della progressiva tendenza, che si manifesta dall’inizio della modernità capitalista, ad inserire l’intera biosfera nei processi di produzione e di creazione del valore. Il capitalismo fin dalla sua nascita ha la tendenza ad incorporare gli stessi processi di funzionamento del vivente, la sua più intima natura e le modalità di riproduzione che ne rappresentano le fondamenta. Arrivati a questo punto, bisogna però ribaltare il punto di vista sulla questione, perché il problema riguarda il processo fondamentale che è iniziato con l’affermazione della modernità capitalista e adesso è giunto alle sue estreme conseguenze: bisogna considerare il vivente come una categoria potenzialmente rivoluzionaria.

Ristabilire il principio che il lavoro di riproduzione, per come è stato definito nel dibattito femminista, si debba contrapporre allo schema della produzione capitalista significa anche pensare ad un modo radicalmente differente di far funzionare le comunità umane in relazione alla biosfera, di ricomporre la frattura storica che tende a dividerle. Buona parte del dibattito critico costruito intorno alla questione della crisi ecologica globale è in realtà direttamente collegata ad una parte del pensiero rivoluzionario. Penso inoltre che sia evidente quanto già le prime formulazioni teoriche sulla crisi ecologica abbiano espresso una critica radicale all’ecologia filo-capitalista, così come al modello di produzione sovietico, ponendosi al di fuori della storia del modello industriale e dell’idea di crescita che ha caratterizza la modernità capitalista. Si può sicuramente definire quella critica come una forma di ambientalismo operaio. Adesso ritengo necessario mantenere il dibattito sulla crisi ecologica globale nel campo della critica indirizzata alla costruzione di un mondo diverso, un mondo non capitalista. Non si tratta semplicemente di discutere sulle conseguenze dell’affermazione del neoliberalismo; nel caso europeo, l’analisi delle contraddizioni che emerge sempre più chiaramente all’interno dei conflitti ecologici può trovare, ad esempio, una forte radice nell’impianto teorico dell’operaismo. Da alcuni nodi del dibattito dell’operaismo italiano, pesantemente represso anche nelle sue espressioni di critica ecologica, proviene, tra le altre cose, una seria indicazione di azione nel campo dell’ecologia politica. Non si tratta neanche di costruire una relazione tra due questioni separate, per cui l’ecologia politica di stampo marxista cerca di incorporare nel proprio discorso alcuni nodi del dibattito operaista. Al contrario è proprio la naturale conseguenza di un percorso che ha determinato l’allargamento progressivo dei campi di azione e di lotta, dal soggetto sociale alla generalità del mondo costruito dal capitale.

2. La macchina converte il vivente

«Dalla riformulazione della questione dell’accumulazione all’attenzione ai processi attuali come nodo centrale su cui agire. […] il lavoro si presenta come un organo cosciente […] nella forma dei singoli operai vivi; frantumato, sussunto sotto il processo complessivo delle macchine» [1].

Per comprendere il legame forte tra l’operaismo e l’attuale sviluppo teorico dell’ecologia politica, bisogna necessariamente ripartire da quello che da Panzieri in poi, con il decisivo apporto di Negri, è diventato il nostro Marx, quello dei Grundrisse, soprattutto del frammento sulle macchine. Quel passo deve la propria fortuna anche alla capacità di ribaltare completamente il modo in cui i testi marxiani sono stati letti per almeno un secolo. Quel dibattito ha aperto una strada per il superamento della visione monolitica del marxismo e dei processi rivoluzionari, attraverso la sua proposta di rilettura dei testi di Marx e della visione della società e della storia che ne emergevano. Soprattutto ha esaltato l’enorme portata filosofica del pensiero marxiano e la sua caratteristica di lavoro incompiuto, come devono essere necessariamente tutti i lavori rivoluzionari. Lo sforzo intellettuale che emerge da quella rilettura dei Grundrisse è chiaramente qualcosa di ancora più ampio di quanto contenuto nel Capitale e soprattutto permette di rivedere un progetto generale di cui la critica dell’economia politica era solo una parte. Personalmente non sono mai riuscito a vedere il pensiero di Marx come quella struttura monolitica e inflessibile proposta dai partiti comunisti europei né come un percorso compiuto che si potesse concretizzare solo in una specifica forma politica.

Come i sistemi di potere per perpetuarsi devono adattarsi facilmente al mutamento, così un pensiero rivoluzionario deve essere capace di preconizzare le scelte del sistema che intende cambiare e agire su piani differenti. Il dibattito operaista ha consentito finora proprio di liberare dal loro interno quelle riflessioni sulla rivoluzione che correvano, ad esempio, il rischio costante di cadere nella tentazione dell’esaltazione della fabbrica, come se non fosse il luogo della massima alienazione e dello sfruttamento. Lo stesso approccio, comune a molti dei vecchi partiti comunisti, che ha tentato di far diventare altro, di far mutare pelle alla grande proposta di liberazione dentro cui ci siamo mossi sempre, con il passo incerto di chi deve disegnare i propri sentieri. Si tratta di un lavoro folle e grandioso che continua ad aprire un potenziale conflittuale enorme e in cui in qualche modo siamo coinvolti su tutti i fronti nella nostra quotidianità e in cui adesso agiscono consapevolmente migliaia di esperienze conflittuali a livello planetario.

Il frammento sulle macchine ha una relazione fortissima con molte altre parti del pensiero di Marx e ne rivela un’interpretazione precisa, riesce infatti a chiarire parti complesse e più rigide, come i capitoli XX e XXI del libro II del Capitale, necessari a comprendere il processo di riproduzione complessiva del sistema. Quei passaggi ci dicono che il capitalismo riesce a produrre il proprio mondo e che il mondo è diventato la fabbrica di sé stesso; è uno dei principi che hanno guidato la composizione di un’area che si è data uno statuto politico molto forte e che ha saputo mettere in discussione la supposta radicalità del pensiero socialista europeo. Gli spazi di vita sono interni ad un sistema che ha bisogno di convertire a spazio di accumulazione ogni aspetto e luogo del vivente.

La città-fabbrica è lo stesso spazio in cui agiscono Lefebvre e Gorz, è lo spazio in cui è nata l’ecologia politica di stampo marxista, prima che si ponesse il problema della crisi ecologica globale. Il mondo prodotto dal capitale è lo spazio in cui deve agire adesso un pensiero della trasformazione costruito sulle dinamiche del vivente. Di fronte all’avanzare del processo di distruzione non c’è però possibile via d’uscita, non si può evitare di riconsiderare le cose anche in vista delle modalità con cui si inasprisce la crisi e con cui il sistema si articola nelle sue forme di controllo. Non c’è altra via d’uscita perché la soluzione deve per forza essere radicale e fornire alternative di vita e deve farlo per tutto il vivente. La proposta che emerge adesso si trova esattamente dove doveva essere: nel solco dell’esperienza aperta dalla critica operaia al capitale.

Come ha chiarito il dibattito sul capitalismo cognitivo, il frammento sulle macchine rende esplicito il fatto che il problema non risiede nella struttura fisica della macchina, ma nel suo funzionamento, nelle modalità attraverso cui realizza una trasformazione che determina un cambiamento nella vita dei lavoratori, nel modo in cui la macchina è un mezzo per trasformare il lavoro vivo. Ciò perché a fondamento del sistema c’è la capacità del capitalismo di tramutare il vivente in valore e il valore in prezzo. Lungo tutto il testo di quel frammento, che è chiaramente parte di un progetto più ampio, l’autore riesce a chiarire in modo risolutivo che sarà necessario aprire un campo preciso di azione politica e ci dice che ancora è necessario andare avanti, proseguire nello sforzo di ampliamento del campo di conflitto.

3. Ricostituire il processo di vita reale

«In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa»[2].

Il tempo di lavoro è un’altra questione che si colloca a fondamento di una riflessione sulla liberazione delle potenzialità del vivente. Si tratta di un problema perfettamente interno allo stesso dibattito perché non si può scindere la riflessione sul tempo di lavoro dalla ricerca della compatibilità ambientale. La totalizzazione del tempo di produzione ha coinvolto progressivamente la biosfera, si tratta di uno dei processi costitutivi del capitalismo cioè della tendenza a portare all’interno dei processi di produzione di valore la biosfera, ad usarla liberamente come riserva a cui attingere, a convertirne le basi e i tempi riproduttivi.

La stessa frattura metabolica, un elemento centrale della separazione con quella che Marx definisce natura, che rappresenta un tema importante dall’area marxista dell’ecologia politica, in realtà risulta un processo interno a questa tendenza, non l’origine del problema. Si realizza proprio nella relazione di lavoro e nell’uso delle macchine, ma soprattutto nella creazione di un modo per convertire anche i tempi della biosfera in tempi di produzione e di creare valore da quel furto di tempo. Il tempo di produzione e il tempo di lavoro non sono compatibili con i tempi di retroazione ambientale, i ritmi della biosfera non possono coincidere con l’accelerazione del capitalismo, che arriva, ad esempio, a produrre gli animali destinati alla macellazione riducendo i tempi della loro fase di crescita o a distruggere intere aree del pianeta per l’estrazione mineraria in poche ore.

La capacità di riproduzione comprende anche la capacità di creazione dell’informazione come risultato dell’azione del vivente. I sistemi biologici funzionano seguendo uno schema di produzione dell’informazione, quello stesso schema di cui la produzione capitalista è riuscita ad appropriarsi[3]. Il vivente produce informazioni, anzi è l’unica struttura in grado di trasformare in informazione i principi fisici di funzionamento del mondo. Lo stadio finale del capitalismo è dunque l’appropriazione delle capacità creative del vivente, da quelle riproduttive a quelle cognitive, è questo il motivo per cui la liberazione dal lavoro capitalista riguarda tutto il complesso del vivente.

4. Bloccare l’accumulazione e uscire dai processi di valorizzazione capitalista

«La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici, ecc.. Essi sono prodotti dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del General Intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale»[4].
La contraddizione insanabile tra il capitale e il vivente, espressa già all’inizio della grande critica al capitalismo, si esprime quindi compiutamente nella collocazione del lavoro vivo all’interno del valore. Il campo di azione è però adesso chiaramente la modalità con cui si può impedire la conversione del vivente in capitale, il principio generale di funzionamento del sistema. Quel campo resta ancora il lavoro umano, nella sua azione produttrice generale e nelle modalità con cui rappresenta ancora la forza determinante del general intellect. Nel quadro della crisi ecologica questo ci pone un enorme problema di carattere politico: liberarsi dal lavoro deve comportare una liberazione dei processi vitali, deve necessariamente includere la possibilità di costruire una relazione con il vivente liberata dai processi di valorizzazione. Nonostante ci siano moltissime esperienze di lotta che da decenni si muovono su questo terreno, è evidente che ancora siamo lontani dall’aver elaborato una chiara linea di azione, anche se la grande novità è che abbiamo ricominciato ad elaborare forme di prefigurazione della società futura, idee e proposte su come il nostro mondo può concretamente funzionare al di fuori del sistema capitalista. Il processo che comporta l’appropriazione progressiva del vivente in tutti i suoi aspetti va chiaramente fermato; quale possa essere il risultato di una trasformazione così profonda, che porterebbe alla strana forma di un mondo devalorizzato, è ancora da definire. Liberarsi dal valore di scambio è un progetto politico molto più complesso di quanto sembri anche sul piano pratico e comporta la capacità di proporre un mondo altro, radicalmente diverso, in cui non esista più il corrispettivo della vendita del tempo e della determinazione del valore in termini di prestazione di lavoro. Ricondurre il vivente al centro di un progetto rivoluzionario rimane però un passaggio essenziale per poter costruire un reale percorso di liberazione.

Note

[1]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Milano, La Nuova Italia, 1968, p. 399. Per comodità ho utilizzato l’edizione italiana del 1968 curata da Enzo Grillo, sebbene proprio su quel frammento siano state poste diverse questioni di traduzione.

[2]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., p. 401.

[3]Dal Gobbo A. e Torre S., (2019). Natura Valore Lavoro. Logiche di sfruttamento, politiche del vivente. Etica & Politica / Ethics & Politics, XXI, 2019, 1, pp. 165-171.

[4]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., p. 402.

Tratto dal sito di Effimera, qui raggiungibile

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La distruzione delle relazioni per avanzamento dei rapporti mercantili è una minaccia che qualcuno ha deciso di combattere riempendo di nuovi contenuti i meccanismi stessi che hanno contribuito al deragliamento della società. Ed ecco l’emergere dell’economia solidale: esperienze di produzione, acquisto e credito gestite vissute non con lo spirito della concorrenza, della sopraffazione, del profitto, ma della cooperazione, del rispetto, della ricerca del bene di tutti.

A fare da apripista è stato molti anni fa il commercio equo e solidale nato con l’obiettivo di garantire condizioni dignitose ai piccoli produttori del Sud del mondo. E qualche tempo dopo nacquero i gruppi di acquisto solidale, famiglie che si mettono insieme per comprare prodotti biologici e a km zero direttamente dai produttori locali, non solo con lo scopo di salvaguardare l’ambiente e la salute, ma anche di fare crescere formule economiche che esaltano l’inclusione, le relazioni umane, il sostegno reciproco. Un modo per dire che prima vengono le persone e poi gli affari.

E quando si fa questa scelta, inevitabilmente sboccia la solidarietà, la trasparenza, la partecipazione, tre ingredienti che questo sistema ha messo dietro la lavagna, ma che possono dare risultati strepitosi se rimessi al primo posto. Un esempio sono i prezzi concordati insieme fra produttori e famiglie acquirenti, tenendo conto dei bisogni e delle difficoltà delle due parti. Oppure l’abitudine di prefinanziare i produttori pagando la merce con mesi di anticipo sulle consegne per aiutarli a superare i periodi difficili. Ed ancora l’attenzione alle famiglie in difficoltà e la disponibilità del resto del gruppo a venire in loro soccorso, facendosi carico di parte della loro spesa. Può anche succedere che a partire dalle necessità del gruppo d’acquisto, si avviino progetti che oltre ad essere un modello di rispetto ambientale sono opportunità di lavoro per categorie svantaggiate come migranti e disabili.

Quando l’attenzione si sposta dal denaro alle persone possono anche succedere miracoli come quello di Firenze dove si è formato un gruppo di microcredito che effettua prestiti a tasso zero, in linea con la posizione degli antichi Padri della Chiesa che per voce di San Tommaso d’Acquino definivano l’interesse un’ingiustizia. L’elemento umano è così preponderante rispetto a quello monetario che ogni persona richiedente il prestito è affiancato da “accompagnatori” che lo aiutano a cercare soluzioni durature per uscire dalla propria posizione di difficoltà.

Iniziative analoghe stanno nascendo anche in altre città spesso per iniziativa di realtà ecclesiastiche, a dimostrazione che l’economia solidale è possibile ed è efficace. E per rafforzarsi e acquisire maggiore visibilità, si è costituita la Rete di Economia Solidale che oltre a voler permettere alle molteplici esperienze di incontrarsi e dialogare, vuole stimolare la sperimentazione di altre formule innovative non solo nell’ambito del mercato e dell’economia di vicinato, ma della stessa economia pubblica dove c’è bisogno di rinsaldare la cultura della partecipazione, della democrazia, dell’equità, dei diritti, dei beni comuni. Siamo in un momento di passaggio: abbiamo chiaro cosa dobbiamo abbandonare, ma non ancora verso dove dobbiamo andare in forma compiuta. Per questo le sperimentazioni sono di fondamentale importanza: ci aiutano a mettere insieme un nuovo puzzle, ben sapendo che la cornice dovrà essere riscritta da un nuovo pensiero, non di matrice economica, bensì politica, morale, ambientale, addirittura psicologica. Perché l’economia non è il risultato di sé stessa, ma della visione che abbiamo del mondo e dei valori che ci portiamo nei nostri cuori.


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«Il pensiero della decrescita, quello dei commons e il pensiero ecofemminista – come raccontano in due importanti interviste, pubblicate da Comune, Massimo De Angelis e Serge Latouche – hanno cominciato a immaginare e a creare mondi nuovi. Secondo Paolo Cacciari, gruppi e comunità in tutto il mondo sperimentano già pratiche concrete “inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato”. Molto spesso si tratta di “pratiche promiscue, ibride, contraddittorie, per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune…”. Un bagaglio enorme attraverso il quale dimostrano che, nonostante tutto, “possiamo anzi osare processi inversi”, qui e ora è possibile vivere in un altro modo».

Propongo una lettura incrociata delle due importanti interviste con Serge Latouche, Capovolgere i modi di pensare e di fare,L’arcipelago dei commons che Comune ha recentemente pubblicato. Ambedue, poi, le confronterei con quanto dice Vandana Shiva nella intervista a Lionel Astruc, La Terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo più giusto, pubblicato da Emi, 2016.

Il pensiero della decrescita e quello dei commons – secondo me – sono collegati e si integrano. Latouche fa discendere la proposta di una società della de/a/crescita dalla constatazione del fallimento suicida del progetto della “occidentalizzazione” del mondo: «l’universalizzazione dell’Uomo Economico». Proprio nell’era della massima pervasività dei rapporti sociali capitalistici (alcuni chiamano questa l’era del Capitalocene) appaiono evidenti i limiti di capacità di carico del pianeta.

La crisi ecologica è l’effetto di ciò che Vandana Shiva chiama il “progetto maschile” di “morte della natura”. Scrive Latouche: «É ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo», dalla «cibernathropia (mescolanza di uomo e macchina)». Siamo prossimi all’«Apocalisse umanitaria» di cui scrive De Angelis. Ma emergono anche resistenze irriducibili dei popoli indigeni, dei contadini, delle popolazioni impoverite e di quanti non hanno smesso di usare il proprio cervello. I nostri autori non credono alla leggenda neocolonialista secondo cui le popolazioni dei “paesi sottosviluppati” desidererebbero imitare i modelli sociali ipercapitalistici. Nemmeno nelle aree geografiche più ricche sembra che prosperi la felicità, la joie de vivre, il “buen vivir”. Latouche, De Angelis ed anche Shiva vedono al fondo della crisi che viviamo una «perdita di senso della società della crescita» (Latouche); «Viviamo in un’abbondanza materiale, ma priva di senso» (Shiva); «La competizione economica […] è una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure» (De Angelis).

Oltre la pedagogia delle catastrofi

La sfida, allora, è quella di come riuscire a non farsi annientare dalla Megamacchina (così bene descritta già da Lewis Mumford in: Il mito della macchina, 1967) e che oggi appare nelle vesti della superpotenza delle imprese transnazionali, dei conglomerati industriali-finanziari. É qui che a me sembra che il pensiero dei commons (Massimo De Angelis, Omnia sunt communia, 2017) e quello ecofemminista (Vandana Shiva e Maria Mies, Ecofemminism, Zed Press, London 1993) possano integrarsi e dare gambe sociali alla critica al modello di sviluppo capitalistico e superare il rischio di un semplice attendismo palingenetico in cui incorre la “pedagogia delle catastrofi”.

I commons ci aiutano a delineare una idea di ordinamento sociale alternativo, liberato dal pensiero unico e dall’immaginario sviluppista, economicista, produttivista. Se superiamo le insidie di una traduzione dall’inglese che può generare equivoci (i “beni comuni” intesi solo come risorse, come common pool resources, giacimenti naturali, patrimoni preesistenti, bagagli di conoscenze e altro ancora) e pensiamo invece ai commons come un sistema di relazioni sociali di tipo cooperativo, capaci di auto-normarsi, allora possiamo immaginare forme comunitarie dove persone e cose si specificano e si integrano. Nei commons le esigenze umane sono connaturate con quelle ecosistemiche. Genius loci e genuis popoli sono inestricabili. Società insediata e ambiti territoriali si compenetrano. I commons sono una particolare forma di governance autonoma, di comunità auto-organizzate, alle diverse scale, capaci di relazionarsi tra loro, quindi, anche di federarsi. Come ha scritto John Holloway, i commons possono diventare quel «fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di “comunalità”, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune» (John Holloway, !Comunicemos!, in Herramienta, tradotto e pubblicato con il titolo: Mettiamo in comune il 3 novembre 2013 su Comune). O come hanno scritto Geroge Caffentzis e Silvia Federici:: «Le iniziative di commoning sono qualche cosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire» (Creare beni comuni e mondi nuovi, in Comune 2015). Ha scritto Raj Patel: «É il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise” (Raj Patel, 2007 Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano).

Varchi e cunei, resistenze e diserzioni

È possibile allora immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attività attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d’uso, comunità intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni… comunque utili a formare una bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento del cambiamento necessario, imposto agli eventi.

In questo senso possiamo concepire il “comune come modo di produzione” (Toni Negri, Lavoro e proprietà a fronte del comune, intervento al seminario Disarticolare la proprietà. Beni comuni e le possibilità del diritto, 8 ottobre 2013. Pubblicato su: euronomade.info e ControLaCrisi.org), che va oltre le relazioni sociali capitalistiche. «Queste realtà ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale – dice De Angelis – Ma se si guarda attentamente la cosa, questo è solo un problema di diffusione e di scala […] è una questione che dipende dalle forze sociali» che si mobilitano e dal «rapporto che stabiliscono con il sistema stato e il sistema capitale». Insomma si tratta di una questione eminentemente politica.

Non stiamo valutando un modello teorico scritto a tavolino, ma una famiglia di pratiche concrete inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell’economia di mercato. Molto spesso, quindi, le pratiche del commoning sono promiscue, ibride, contraddittorie; per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di altre modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Ma se le motivazioni etiche sono salde e gli obiettivi socio-economici sono chiari (rigenerazione della vita, solidarietà, accoglienza, giustizia, ridistribuzione) non ci dobbiamo preoccupare troppo del rischio della loro cattura e sussunzione dentro i meccanismi del mercato (competizione, profitto, accumulazione ecc.). Possiamo anzi osare processi inversi. Ad esempio Michel Bauwens e Vasilis Niaros (teorici dei sistemi di produzione paritarie e open sources) nella pubblicazione Value in the Commons Economy, co-edito da Heinrich Böll Foundation e P2P Foundation, formulano ipotesi sorprendenti. Piuttosto che discutere sul rischio di neutralizzazione dei valori creati dalle nuove modalità di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa può accadere se i commons riuscissero ad essere la base di «una nuova economia che nasce all’interno del vecchio sistema».

Si potrebbe allora «pensare ad una “cooptazione inversa” (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Può l’emergente economia commons-centrata, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale dal sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?». Si possono, cioè, ipotizzare «all’interno dei confini dell’economia già esistente, flussi di valore più ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?». Alcuni casi studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato.

La pratica dei commons, il fare e il mettere in comune, la produzione di nuovi commons, l’emergere di un commons movement, ci dicono che qualcosa si può fare, oltre la denuncia e la critica, per dimostrare nel concreto che sarebbe possibile vivere in un altro modo, provocando meno sofferenze, insopportabili ingiustizie, precarietà non necessarie, violenza. Ed è qui che il pensiero ecofemminista di Shiva ci viene in aiuto mostrandoci una filosofia dell’azione politica. Shiva dice che non è possibile «motivare all’impegno incutendo terrore». Meglio «accendere nei cittadini la voglia di vivere le loro migliori potenzialità […] La militanza comincia nella mente, nel cuore e nelle mani di ognuno». E, ancora: «Io vedo un numero crescente di persone pronte al cambiamento. Quel che manca non è la quantità dei cittadini in movimento, ma la connessione tra loro».

16 luglio 2017 (c.m.c)

«Prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale», osserva Naomi Klein. «È interessante il fatto che ci metta in difficoltà. Penso che dobbiamo farlo nostro». Klein è quanto di più simile a una rock star si possa trovare nella sinistra radicale. È un personaggio pubblico fin da quando la sua opera prima, No logo, è diventato un libro di culto del movimento no global nei primi anni duemila, ma lei rifugge la celebrità.

La incontro all’inizio di giugno al People’s summit, una grande riunione dei progressisti statunitensi organizzata a Chicago, un paio di giorni prima della pubblicazione del suo ultimo libro, No is not enough. Ma Klein non è qui per promuovere il suo lavoro. Come tutti gli altri, è qui perché le importa.

«Trump sta creando e alimentando il desiderio di un cambiamento sistemico. Incarna un fallimento di sistema, che, sì, a quanto pare è un motore più potente dei cambiamenti climatici. Questo potenziale di trasformazione mi emoziona».

Il lavoro più urgente e personale

Klein parla davvero così, senza mai fermarsi. Si capisce che crede in quello che dice. Nata in Canada negli anni settanta da oppositori alla guerra del Vietnam, non ha mai chiesto scusa per il fatto di essere un’attivista oltre che un’autrice e una giornalista. No is not enough è il suo lavoro politico più urgente e istruttivo, oltre che il più personale.

Klein passa senza difficoltà dal discutere nuove strategie per combattere il programma sessista, razzista e schiavo delle multinazionali dell’amministrazione Trump alla descrizione della sua esperienza di madre (ha un figlio di quattro anni) e del modo in cui la sua comprensione della responsabilità umana è cambiata dopo l’ictus che sua madre ha avuto quando Naomi era appena un’adolescente. Ciò che tiene tutto assieme è l’architettura del prendersi cura. E il prendersi cura, mi spiega Klein, «è tutt’altro che un segno di debolezza».

“Il prendersi cura” ha una brutta reputazione all’interno della sinistra. Fa pensare agli orsi dei cartoni animati o alle adolescenti che hanno sentimenti esagerati per i delfini. The leap, il movimento canadese guidato da Klein, che combatte contro il cambiamento del clima e per la giustizia sociale, ha come slogan “Dedichiamoci alla terra e agli esseri umani”. In effetti, ammette Klein, sembra uno spot pubblicitario dell’attivismo biologico. Ma è anche un riassunto di ciò che gli esseri umani non sono riusciti a fare negli ultimi secoli e di ciò che dobbiamo imparare a fare, se non vogliamo andare incontro alla catastrofe.

Il lavoro di cura dell’uno nei confronti dell’altro e delle nostre comunità non rientra tanto in un programma femminista quanto in un programma declinato al femminile, ed è per questo che per così tanto tempo è rimasto fuori dal quadro politico più generale. Dunque è perfettamente logico che il motore del People’s summit sia il principale sindacato di infermieri degli Stati Uniti, il National nurses united (Nnu), che ha più di 150mila iscritti, in maggioranza donne non bianche.

La resistenza nell’era di Trump

«Seguirei un infermiere ovunque», ha dichiarato Klein nel comizio d’apertura, e ripete il concetto durante il nostro incontro dietro una piccola fila di bancarelle di libri nel terzo giorno del vertice. Quattromila persone hanno già passato 36 ore in questo cavernoso centro congressi, tra discussioni e workshop, con la luce artificiale e l’aria condizionata ad alimentare la sensazione di essere in uno spazio fuori dal tempo, dove tutto è possibile, anche (e soprattutto) nell’America di Donald Trump.

Klein ha un sesto senso per pubblicare il libro giusto al momento giusto. No is not enough è stato scritto in quattro mesi, mentre l’autrice gestiva un gruppo di attivisti e cresceva un figlio. È un’opera brillante, una guida alla resistenza nell’era di Trump, costruita sull’idea che limitarsi a resistere all’oppressione non basta.

Come società, spiega Klein, dobbiamo decidere non solo quali atrocità sono intollerabili, ma anche cosa siamo pronti a costruire per combattere queste atrocità. Il libro ha un pregio rarissimo nella scrittura politica: è stimolante e profondamente sensato. Leggendolo – e partecipando al People’s summit – mi sono trovata ad annuire davanti alla richiesta di un cambiamento profondo nel modo in cui organizziamo la politica economica, quella ambientale, la giustizia razziale e molto altro, nello stesso modo in cui annuiamo davanti a un medico che ci spiega la cura per una grave malattia. È una proposta che fa paura, ma è anche l’unica sensata. L’urgenza di questa fase della storia umana lo impone.

«Le nostre idee si diffondono sempre di più, ma lo stesso si può dire delle idee più dannose e pericolose del pianeta», spiega Klein. «Si manifestano con atti estremi di violenza in strada, commessi dallo stato e dai suprematisti di destra, spinti dal fatto che alla Casa Bianca ci sono persone che la pensano come loro. È una sfida intellettuale, sociale, ambientale».

In caduta libera

Se dovete sentirvi male a un raduno di qualsiasi tipo, vi consiglio di farlo a un raduno di infermieri. Sono arrivata a Chicago per intervistare Klein e capire se c’è una speranza per la sinistra nella prima, torrida estate dell’America di Trump. Ma appena ho messo piede fuori dell’aereo sono stata colpita da quella che la scienza definisce malattia immaginaria galoppante.

Sentivo le ossa come se fossero in un calderone di zuppa bollente. La mia testa era piena di una melma tossica. Ho chiesto al banco del check-in se avevano antidolorifici. Dieci minuti dopo ero seduta su un divano di plastica e cercavo di non vomitare la colazione. Deborah Burger, copresidente dell’Nnu, che sicuramente aveva qualcosa di meglio da fare, mi chiedeva cosa mi facesse male.

Tutto, volevo dirle che mi fa male tutto, che tutte le persone che conosco lavorano come bestie per quattro soldi e che il tardo capitalismo sta lentamente strangolando ciò che rimane dell’energia giovanile della mia generazione. Il mio paese è in caduta libera politica e sembra che ogni settimana ci sia uno psicopatico religioso che decide di ammazzare un po’ di gente. Come se non bastasse, avevo la madre di tutti i mal di testa.

Burger mi ha dato gli antidolorifici e un bicchiere di succo d’arancia. Poi mi ha parlato dell’imminente fine della cleptocrazia. È un’infermiera convinta che il suo lavoro non finisca quando il paziente va a casa. «Non possiamo limitare il nostro sostegno al letto d’ospedale. Dobbiamo allargarlo, perché vogliamo evitare che la gente arrivi in ospedale. Vogliamo sostenere la prevenzione. Vogliamo tenere le persone lontane dalle prigioni, perché il denaro speso per incarcerare la gente potrebbe essere impiegato nel sistema sanitario e per quello scolastico».

Parte del motivo per cui Klein ha potuto scrivere un libro così dettagliato in così poco tempo è che in un certo senso si preparava a scriverlo da tutta la sua vita adulta. È la sintesi delle teorie contenute nei tre libri politici precedenti: il potere politico dei marchi in No logo, il modo in cui l’élite sfrutta le crisi sociali ed economiche per consolidare il suo potere in Shock economy e il modo in cui la prossima crisi climatica renderà necessario un nuovo genere di attivismo per la sopravvivenza della specie in Una rivoluzione ci salverà.

«Ho scritto il libro per molte ragioni, ma la più urgente derivava dalla sensazione che gran parte delle discussioni su Trump non avesse un contesto storico», mi ha spiegato. Secondo Klein troppe persone continuano a trattare la crisi costituzionale in atto alla Casa Bianca «come una sconvolgente aberrazione destinata a sparire una volta che ci saremo liberati di Trump. Ma abbiamo già commesso questo errore, per esempio con George W. Bush». Trump, in ogni caso, ha reso tutto molto più chiaro.

Qui nessuno è contento che Trump sia il presidente degli Stati Uniti. Ma la posta in gioco ormai è evidente anche a quelli che prima tentennavano. Per esempio, è ovvio che le politiche favorevoli alle imprese e contrarie ai princìpi ecologici, oltre al ritorno al potere di sentimenti sessisti e razzisti, sono intimamente connessi, e la resistenza a queste due tendenze è una resistenza unica. Trump potrebbe essere l’onda d’urto – per utilizzare un’espressione di Klein – che spingerà la sinistra globale a rimettersi in sesto.

Un sovrumano signore gentilissimo

A un certo punto interviene Bernie Sanders. Fa un bel discorso, per quello che riesco a sentire tra applausi continui. È come un pasticcio tra un sermone e le parti più stimolanti di I Miserabili. Questo significa che, anche se non si è convinti dalle idee di Sanders, si può capire perché la gente si appassiona a lui. Prima di Sanders ci sono stati altri oratori carismatici, e Bernie non ha detto nulla che non sia già stato detto durante tutti gli incontri. Ma su di lui si riversa l’entusiasmo della massa. In qualche modo la sua parlata semplice e il suo atteggiamento da zio incazzato risultano affascinanti. Non abbastanza da farmi alzare in piedi e ruggire insieme a tutti gli altri, ma io sono un po’ troppo britannica e troppo malata per farlo.

È qui che ho capito il vero senso di Bernie Sanders. Avere ragione non basta. Bernie personifica un’idea il cui tempo è finalmente arrivato, anche perché dopo due anni passati a riempire gli stadi ha ancora l’aria di uno che non capisce perché la gente lo stia a sentire ed è triste perché si trova in un punto della storia in cui è rivoluzionario chiedere che gli ospedali non rifiutino di prendersi cura dei bambini malati.
Non dovrebbe essere così, ma negli Stati Uniti è così.

Ciò che rende diverso il People’s summit è qualcosa che manca da generazioni alla sinistra globale: funziona. Le persone che non hanno più tempo per i teatrini si ascoltano a vicenda e con rispetto, cercando di stringere legami. Le sessioni sono aperte a tutti e concrete. Il cibo è sufficiente e decente. Gli organizzatori riescono in qualche modo ad assicurarsi che quattromila persone sappiano sempre dove devono andare e quando. Non è una cosa da poco per uno strato sociale caotico, segnato da lotte interne, da fragilità e dall’incapacità di mettersi d’accordo anche sulle cose più semplici.

«Ci ricorda perché lo spazio fisico è importante», spiega Klein. «Dobbiamo guardarci negli occhi. Penso che in questo momento ci sia un grande desiderio di creare una cultura della responsabilità e la capacità di ascoltare le critiche e di avere conflitti senza però mandare tutto all’aria».

Le infermiere sono all’avanguardia di questo cambiamento perché lo vivono da anni, come spiega Kari Jones, dell’Nnu: «Penso che il motivo per cui le infermiere si sono fatte avanti come leader del movimento progressista è che incarnano un sistema di valori che è l’opposto di quello guidato dal profitto, un sistema basato sulla cura, l’assistenza, la compassione, la comunità. È difficile intaccare la volontà di un’infermiera».

Questa architettura del prendersi cura è il vero luogo della resistenza. Può essere un compito noioso come prendersi cura di una giornalista malata o una grande missione come riorganizzare la cultura di una superpotenza per dare la priorità alla salute e all’assistenza sociale. Può essere facile come garantire che i nativi d’America siano adeguatamente rappresentati nei nostri dibattiti o difficile come chiedere che il petrolio sepolto sotto le loro terre resti dov’è. È qui che si vive la lotta per il cambiamento. Manifestare nelle strade aiuta, ma non basta. Il centro di tutto è ciò che vogliamo per la nostra società, per il nostro paese e l’uno per l’altro.

La teorica Nancy Fraser ha identificato una “crisi del prendersi cura” accanto a quella che molti hanno indicato come crisi del capitalismo. L’opera di costruzione delle famiglie, delle comunità, delle istituzioni e della democrazia non è un lavoro che il capitale può assorbire e monetizzare, ma senza di essa la componente umana del capitalismo si atrofizza. La gente diventa triste e malata.

Per questo la lotta per l’assistenza sanitaria universale, a prescindere dal reddito, è diventata un tema centrale della sinistra americana. Ripristinare Obamacare non è sufficiente. In tutti i dibattiti e in ogni intervento del People’s summit la richiesta di un’assistenza sanitaria per tutti viene ripetuta in diverse forme e suscita sempre le reazioni più calorose.

Per fornire assistenza medica per tutti negli Stati Uniti ci vorrebbe una radicale redistribuzione delle ricchezze dai ricchi verso i poveri. In California lo stato potrebbe permettersi questo enorme costo, ma la legge per la creazione di un sistema sanitario gestito da un unico ente è bloccata al senato locale. È una questione di priorità, di senso del bene e del benessere comune. È una questione d’amore, e dico sul serio.

Quando Hillary ha scelto “Love trumps hate”, l’amore sconfigge l’odio (gioco di parole con trump, sconfiggere in inglese) è sembrato uno slogan stupido, e lo era. Era insipido e banale perché non nasceva da una comprensione solida di cosa è l’amore. L’amore, in senso politico, non è un sentimento. È un’azione. È inarrestabile e spietato. È la disciplina dell’esserci l’uno per l’altro e per il bene collettivo, ancora e ancora.

Il potere della responsabilità

Amare le altre persone è molto difficile. Passare 36 ore in un centro congressi con gli esponenti della sinistra internazionale me lo ha ricordato. “La gente” è immorale e distratta, si emoziona davanti alle celebrità e agli slogan. Per metà del tempo le persone non riescono a stare in una stanza con altre persone. Ma quando arriva il momento decisivo niente di tutto questo è importante. Importa solo esserci l’uno per l’altro.

In tanti fraintendono il significato di “potere della gente”. Prima di tutto “la gente” non è unita di per sé, e la frase non si riferisce a un potere fisico. Non si intende il potere di resistere ai proiettili o agli attacchi dei droni. Quel tipo di “potere della gente” può essere abbattuto facilmente. Il vero potere della gente è il potere della memoria e della resistenza. Il potere di dedicarsi l’uno all’altro, il potere della responsabilità.

«È una responsabilità spaventosa», mi dice Klein. «Non è una responsabilità con cui sono cresciuta. Nella mia vita politica adulta non abbiamo mai pensato che avremmo conquistato il potere. Ma la campagna di Bernie Sanders, quella di Jeremy Corbyn e anche quella del candidato presidenziale francese Jean-Luc Mélenchon e di Podemos ci fanno capire che il potere è a portata di mano. E la spaventosa responsabilità di questa consapevolezza, mentre il conto alla rovescia del clima continua a correre e le crisi ci colpiscono sovrapponendosi l’una all’altra… no, non la chiamerei speranza. Ma la descriverei come un momento significativo. Non voglio sprecare tempo pensando alla speranza».

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

Intervista di D.Sacchetto a E.O.Wright, l'animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, in cui uguaglianza, libertà, partecipazione sono i principi guida.

il manifesto, 6 luglio 2017 (c.m.c.)

«È sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e sicuramente frutto di congetture.

Questo è uno dei motivi per cui Marx è sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico. Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi delle forme economiche alternative al capitalismo.

Abbiamo incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).

Negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto «utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori: uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà. Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia profondamente e solidamente democratica.

Cosa significa in pratica?
L’utopia di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche, le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.

Il punto saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.

La strategia di base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo. Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e nella società civile.

Questi mattoni sono anche nell’interesse di un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.

L’anticapitalismo è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la disabilità e l’emarginazione.

I movimenti sociali più recenti negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale, allora la classe deve essere importante, perché una delle caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.

L’identità di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici (l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del conflitto.

Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto riguarda la tassazione.

Quando la socialdemocrazia raggiunse il suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».

Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la rigenerazione del movimento operaio.

Ma sono divisioni che devono essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi, sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il lavoro migrante.

«Il rapporto “Verso un’economia trasformativa” analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo. Una rassegna di buone pratiche che creano lavoro e partecipazione».

Sbilanciamoci.info, 23 maggio 2017 (c.m.c)

55 territori coinvolti (46 in Europa e 9 nel resto del mondo), in 32 Paesi di cui 23 membri dell’Unione europea. Circa 30 organizzazioni della società civile attivate con oltre 80 ricercatori al lavoro che hanno mappato oltre 1100 pratiche rilevanti di Economia sociale e solidale intervistando oltre 550 stakeholder rilevanti tra i quali oltre 100 rappresentanti di autorità locali, nazionali e istituzioni internazionali. Il rapporto “Verso un’economia trasformativa”, realizzato nell’ambito del progetto europeo “Social and Solidarity Economy as Development Approach for Sustainability in Eyd 2015 and beyond” (Essdas) analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo.

Ma cosa intendiamo esattamente per Economia Sociale e Solidale (Ess)? Una sua definizione è stata data nel 2015 nel documento “Visione globale dell’economia sociale solidale” della rete Ripess (Rete Intercontinentale di Promozione dell’Economia Sociale Solidale): secondo questa l’ESS è «un movimento che si propone di cambiare l’intero sistema economico e sociale, promuovendo un nuovo paradigma di sviluppo che sostiene i principi dell’economia solidale. L’economia sociale solidale riguarda una dinamica di reciprocità e solidarietà che collega gli interessi individuali a quelli collettivi».

L’Ess è una pratica che si è sviluppata in America Latina agli inizi dello scorso decennio, e che in diversi Paesi ha avuto un riconoscimento sia formale che sostanziale: nel 2003 in Brasile è stata istituita la carica di Segretario dell’Economia Solidale, mentre, tra il 2011 e il 2012 anche il Messico e l’Equador hanno riconosciuto le nuove pratiche sociali attraverso leggi apposite. Si è poi diffusa successivamente in Europa, anche in Italia, dove esistono attualmente 10 leggi regionali sull’Economia sociale, ed una normativa nazionale sul diritto del commercio equo e solidale è in cantiere da tempo: entro la fine della legislatura potrebbe avvenire la sua approvazione.

Il primo documento ad analizzare lo stato dell’arte dell’Ess è un rapporto dell’Ilo del 2011: un settore, secondo il report, che conta il 6% dell’occupazione in tutta Europa, con due milioni di organizzazioni che rappresentano il 10% di tutte le aziende. Nel mondo, invece, il suo fatturato globale è del valore di 7,5 milioni di euro, e conta di oltre 2 milioni di lavoratori e agricoltori. Esperienze simili, conclude il rapporto, esistono anche nei Paesi emergenti, come l’India, dove 30 milioni di persone sono organizzate in 2 milioni di gruppi di auto aiuto.

Grazie al rapporto Essdas è ora possibile mappare la presenza di tutte queste esperienze alternative sul suolo non solo europeo, ma di tutto il mondo. Anche il nostro Paese è denso di esperienze simili: le regioni più “sensibili” sono Marche, Puglia, Emilia Romagna e Toscana.

I settori produttivi più attivi, secondo lo studio, sono soprattutto quelli legati alla produzione e distribuzione di prodotti agricoli: ben 34 realtà su 55 operano nel campo della sicurezza alimentare e agricola. Spiccano poi altri campi, quali il commercio equo e solidale (16), il consumo critico (15), la promozione di stili di vita sostenibili (14), le pratiche di riuso e riciclo (11).

Per quanto riguarda le funzioni economiche svolte all’interno di tali attività il documento segnala una prevalenza delle attività commerciali di beni e servizi (42%), seguite da quelle di lavorazione e trasformazione (29%), consumo (17%) e distribuzione (12%).

Il report sottolinea poi anche l’alto numero di partecipazione delle persone ai progetti Ess: secondo Essdas gli individui direttamente coinvolti sono circa 13.000, mentre altri 1.500 sono direttamente o indirettamente occupati. Tra le realtà più “virtuose” spicca la cooperativa Manchester Home Care, che conta in tutto 800 persone, mentre la Central Cooperative Marketing delle Isole Andaman e Nicobar dà lavoro a circa 160 persone. Altro esempio da segnalare è l’organizzazione di microcredito solidale inglese Shared Interest, con oltre 9000 soci sostenitori.

E dal punto di vista del reddito? Secondo il rapporto l’impatto economico di tutte queste attività è complessivamente di 90 milioni di euro: al primo posto c’è la già citata Shared Interest, con un giro d’affari di oltre 42 milioni di euro, mentre la Home Care di Manchester registra un “fatturato” annuo di 14 milioni. Secondo le stime, il reddito medio generato da ciascuna realtà attiva nell’ambito Ess è di circa 300 mila euro. E un’altra buona notizia è che non solo gli impatti sociali e ambientali di queste realtà siano positivi, ma anche come queste contribuiscano a creare network e partecipazione sul territorio.

Cattive notizie sul fronte istituzionale: oltre alle scarse performance in termini di comunicazione e advocacy da parte del settore Ess, viene sottolineato che molti Paesi non hanno ancora leggi nazionali quadro sull’economia solidale, e che oltre il 50% di queste realtà non hanno né fondi né sponsor istituzionali, né intrattengono rapporto alcuno con le istituzioni. Di conseguenza, conclude il rapporto, l’impatto sulla politica e sulla vita pubblica è basso o addirittura nullo.

Il rapporto è stato anche presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 26 aprile, alla presenza delle diverse forze politiche. L’obiettivo è quello di arrivare ad una legge condivisa che promuova e inquadri a livello legislativo le attività legate all’economia sociale e solidale: nello specifico lo studio, si propone di «contribuire ad aumentare le competenze delle realtà/reti che si occupano economia locale, in particolare rispetto al ruolo che può svolgere nella lotta globale alla povertà e nella promozione di uno stile di vita equo e sostenibile».

Il tutto in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015 – 2030 approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2014, dove nello specifico si sottolinea come tutti i partecipanti «richiedono trasformazioni significative delle nostre economie. Invitano a rendere i nostri modelli di crescita più inclusivi e sostenibili. La gente vuole un lavoro dignitoso, una protezione sociale, robusti sistemi agricoli e la prosperità rurale, città sostenibili, un’industrializzazione inclusiva e compatibile, infrastrutture resilienti e energia verde per tutti», e con gli obiettivi Europa 2020, che sostengono la necessità di creare un futuro più tecnologico, sostenibile e inclusivo. Un futuro in cui ci sia posto per tutti, una necessità per non lasciare indietro più nessuno.


Papa Bergoglio con un discorso pronunciato in Vaticano il 4 febbraio scorso ha compiuto un passo decisivo nella definizione del suo pensiero in materia di economia. L’occasione è stata un’udienza con il movimento dell’Economia di Comunione che si ispira a Chiara Lubich, un’imprenditrice che negli anni ’70 in Brasile dette vita ad esperimenti di imprese organizzate in “cittadelle” industriali che si sono date la regola di ripartire i profitti a beneficio dei dipendenti e di “coloro che sono nel bisogno”. Anche in Italia, a Loppiano in Toscana, esiste un Polo produttivo di imprese che seguono i principi dell’Economia di comunione e una Scuola di Economia civile coordinata dall’economista Luigino Bruni.

La novità del discorso di Bergoglio, rispetto alla stessa enciclica Laudato si’ (Papa Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, 2015) e a tutta la Dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2004), è che questa volta il Papa non si è limitato a denunciare i peccati (gli eccessi, gli effetti collaterali indesiderati) dell’economia, ma ha chiamato il peccatore per nome: il capitalismo. “Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il capitalismo continua a produrre scarti”, cioè poveri, emarginati, esclusi dalla società. Non mi pare che dalla Chiesa romana sia mai giunta una condanna così esplicita del capitalismo.

Vediamo alcuni passaggi dell’impegnativo discorso pubblicato sull’Avvenire di domenica 5 febbraio con il significativo titolo di prima pagina a 4 colonne: “Altra economia, ora”. Gli imprenditori che applicano i principi e le regole dell’“economia di comunione” operano un “profondo cambiamento del modo di vedere e di vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla”. Tre i temi scelti: il denaro, la povertà e il futuro.

Sul denaro Bergoglio ricorda il Gesù di Giovanni della cacciata dei mercanti dal tempio e prosegue con un bagno di realismo: “Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine (…) [quando] l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire”. La soluzione: “Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri”. Per Bergoglio la lotta alla povertà (“curare, sfamare, istruire i poveri”) ha bisogno di istituzioni pubbliche efficaci fondate sulla solidarietà e il reciproco soccorso. Qui sta “la ragione delle tasse” come forma di solidarietà e la condanna morale all’“elusione e alla evasione fiscale”. Ma attenzione, l’assistenza ai bisognosi non deve servire a nascondere le cause della povertà: “questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere”. Il ragionamento di Bergoglio riguarda il funzionamento dell’economia in senso generale e ridicolizza i puerili tentativi con cui un certo capitalismo tenta di riparare i danni arrecati alle persone e all’ambiente naturale. Lo scritto è davvero magistrale: “Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!”. Più avanti precisa: “Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione”. Leggendo queste parole a me sono venute in mente tanta parte della cooperazione internazionale, la fondazione Bill&Melinda Gates che pretende di insegnare agli africani come vivere, ma anche le illusioni distribuite a piene mani dalle industrie della green economy, dai “fondi di investimento etici”, dei certificati di Responsabilità sociale delle imprese e così via, tentando di umanizzare il capitalismo. Prosegue quindi Bergoglio più chiaro che mai, quasi a voler richiamare i suoi bravi interlocutori imprenditori dell’economia di comunione ad un impegno ancora più profondo: “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. E ancora: “Occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. Verso la fine torna sul concetto: è necessario “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti”.

Infine il tema del futuro; come comportarsi per apportare cambiamenti.“Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita”, dice Bergoglio. “Piccoli gruppi” possono funzionare da seme, sale ed enzima per il lievito. “Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri”. Dono e amore, reciprocità e condivisione sono le leve del cambiamento. “Il ‘no’ ad un’economia che uccide diventi un ‘sì’ ad un’economia che fa vivere”, conclude. Per quanti si occupano in vario modo e in varie forme di economia solidale questo discorso del Papa appare molto incoraggiante.

Un modo di protestare creativamente contro a perversione del sistema capitalistico, oppure un tentativo di costruire un sistema che lo superi? Non sembra che ci siano oggi una risposta largamente condivise.

la Repubblica online, 16 gennaio 2017

RONCO SCRIVIA (GENOVA). Una manciata di semi di zucca gialla in cambio di un pugno di fagioli di Feltre. Un cesto di limoni delle Cinque Terre per quei chicchi di frumento toscano. Conosce il cavolo lucano, perché non pianta questo bel melo trentino? Provi il peperoncino nero di Salerno, è una rarità. Niente denaro, qui si baratta. Si parla, ci si conosce. Vent'anni fa erano poche decine di fuorilegge, come minimo rischiavano un'ammenda. Adesso a ogni appuntamento sono migliaia. E alle loro spalle cresce un movimento "neorurale" che potenzialmente - tra campi, orti, giardini e balconi riadattati, in paese ed in città - conta in Italia sui tre milioni di praticanti. Almeno.

Ieri a "Mandillo dei semi" erano oltre duemila persone. A Ronco Scrivia, un paese sulle alture di Genova. Mandillo, in dialetto, sta per fazzoletto: e dunque, scambiarsi i semi prodotti dalla propria terra - piccola o grande che sia - , riporli in un mandillo per regalarli al prossimo. Uno sconosciuto, un nuovo amico. Un mercato di idee, di ribellione, di speranze: un nuovo modo di vivere. "Libera festa del libero scambio di semi autoprodotti e lieviti di casa, esposizione di frumenti e frutta antica", recitava la locandina. In Italia ci sono almeno 80 appuntamenti così, durante l'anno. Un altro mondo possibile: di piccoli contadini indipendenti, di appassionati che tornano alla terra per tanti motivi diversi. E non importa se è un campo, un orto urbano o sociale, un giardino o un grande vaso su di un balcone nel cuore della metropoli: "L'importante è vedere che la pianta cresce. E con lei, anche noi".

Giovanni Zivelonghi era operaio in una nota una industria chimica di Verona, la Glaxo. Da quando è in pensione, è una seconda vita sulle montagne della Lessinia. "Zappo, semino, bagno, raccolgo. Vivo bene". Vuole condividere, e allora con alcuni amici è venuto fin giù vicino al mare di Genova e in alcune bustine regalava semi di tutto: zucca forte, gialla, costoluta, insalata del Tita (il "Tita" era un vecchio contadino delle sue parti, che ha lasciato una "straordinaria eredità ", racconta), fagiolini nani, tegolini del Monte Pastello. Arriva un signore di Pieve Ligure, lascia un paio di limoni e si prende una bustina. Un altro allunga dei semi di tabacco: "Fa fiori bellissimi, se avete pazienza ci potete riempire la pipa". Giovanni ringrazia. Spiega che il mese scorso ha ritrovato una signora che a Milano fa l'architetto: "Le avevo dato del radicchio rosso veronese. Piccolino, non come quello di Chioggia: mi ha detto che lo ha tenuto in casa e al caldo ha sviluppato un cuoricino stupendo. Era felice". "Giangi" Benetti, un amico, sorride: pure lui faceva l'operaio, poi si è messo a coltivare i campi.

"Qui la gente scambia esperienze che a volte non ci credi: io piantavo da anni una zucca spinosa e non succedeva niente, poi è arrivato uno - di mestiere fa il bancario, pensa un po' - e mi ha spiegato come facevano dalle sue parti, in Piemonte. Ha funzionato". Una fetta di torta di mele: basta e avanza per portarsi via una pianta di fico nero e qualche talea di pruno. Altri arrivano a mani vuote, se ne vanno con le tasche piene. Di semi, di consigli, di storie. Massimiliano Nunziata è un cuoco torinese. Cinque anni fa è tornato per caso a Salerno nel casale del nonno, ha trovato dei vecchi fagioli in una cassetta di alluminio. "Li ho coltivati per sfida. Buonissimi. Magari non redditizi, lo so. Ma veri". La sua è diventata una missione: si è messo in contatto via Facebook con alcuni gruppi e ad oggi ha raccolto un migliaio di differenti varietà. Che regala, in cambio di altre sementi.

L'"altra" agricoltura. Quella che non punta al profitto ma alla qualità anche morale, alla piccola soddisfazione personale. Pure in un metro quadro, in un balcone o in un orto urbano o sociale, come quello chiesto e ottenuto da Luca Fiorelli, studente universitario di Cesate, provincia di Milano: "Un anno fa eravamo in 4: adesso siamo in 30, a coltivare".

Gli italiani riscoprono la terra, in campagna e in città. Vogliono sapere, informarsi. Il mensile Terra Nuova ha 130 mila lettori e come casa editrice ogni anno pubblica circa duecento titoli, altre case editrici - come Pentàgora - vivono di questo. Il gruppo Facebook di Terre Rurali, associazione protagonista del recupero delle varietà di frumento conta su oltre 12 mila iscritti. Sì, vent'anni fa erano dei fuorilegge. "Prima del 2000, scambiarsi semi prodotti dalla propria terra era un delitto punito dal codice con un'ammenda salata. Le uniche varietà di semi ammessi erano quelle stabili, nazionali", racconta Massimo Angelini. Che cominciò una sorta di disobbedienza civile: il primo "scambio delle sementi". Dieci anni fa il governo riconobbe la biodiversità italiana. "Da allora siamo passati da 5 o 6 varietà di frumento conosciute a 110. Tanti panifici, in Puglia e Toscana, Sicilia, li stanno adottando. È solo l'inizio".

«Un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione».

comune-info, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

È possibile saltare a piè pari il mercato con tutto il suo portato di competizioni tra imprese, conflitti di interesse tra produttori e cittadini consumatori, sprechi, fallimenti e altri vari danni collaterali? 324 famiglie di Bologna ci stanno provando incominciando dalla verdura. Hanno costituito una cooperativa di produzione e consumo sul modello delle Community Supported Agricolture statunitensi, tedesche, inglesi e l’hanno chiamata Arvaia: pisello in bolognese. In pratica un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione.

La comunità di Arvaia ha calcolato che per avere – più o meno – sei chilogrammi di verdura alla settimana ad ogni socio è necessario mettere a coltura almeno cinque ettari (dove fanno crescere settanta tipi di diversi ortaggi di piante selezionate naturalmente) e lavorare sodo in molti. Alcune decine di soci lo fanno per passione, volontariamente e gratuitamente nei momenti di maggior bisogno (agri-fitness, lo chiamano!), altri sono impegnati nella logistica, mentre cinque sono veri contadini impegnati a tempo pieno retribuito.

I costi di produzione e l’insieme delle spese vengono anticipati nella annuale assemblea generale di bilancio tramite una sorta di “asta” tra i soci. Ogni socio è libero di fare delle offerte segrete e commisurate alle proprie disponibilità economiche. Rimane stabilito che la quota-parte di verdura distribuita sarà comunque uguale per tutti.

Quindi, si fanno più “giri di cappello” fino a raggiungere l’importo previsto dal bilancio preventivo. Ad esempio, lo scorso anno, la quota media che i soci dovevano coprire era stata calcolata in 730 euro, Iva compresa. Le offerte pervenute hanno variato da 400 a 1.500 euro. Un modo decisamente inclusivo e mutualistico per affrontare le eventuali difficoltà economiche dei soci.

Alberto, agronomo, tra gli ideatori e i fondatori di Arvaia, nata solo tre anni fa, pensa che sia possibile “uscire dalla trappola del mercato in cui siamo rinchiusi come consumatori e ritornare cittadini auto-producendo nei territori ciò che davvero serve”.

Partiti con pochi ettari, hanno conquistato un terreno comunale di quarantasette ettari nell’immediata periferia di Bologna destinato a parco agricolo periurbano vincendo un bando comunale di affitto dell’area per 25mila euro l’anno. Ciò ha permesso alla cooperativa di avviare la coltivazione di seminativi – avena, orzo, grani antichi – con cui produrre farine, olio di girasole, miele, salse di pomodori, caffè di orzo ed altri trasformati. È stato avviato un percorso di progettazione partecipata. I sogni nel cassetto dei soci sono molti: un frutteto, attrezzature per passare le domeniche in campagna, una fattoria didattica, una piccola stalla per rendersi autonomi anche dei prodotti caseari.

Dimenticavo: la verdura viene prelevata dai soci due volte la settimana presso la azienda agricola in località Villa Bernaroli oppure in altri otto punti di distribuzione in città presso associazioni, parrocchie, negozi amici.

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Internazionale online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

Dopo anni che sento parlare di ecovillaggi senza averne mai visti, ho deciso di andare a visitarne un paio non lontano da dove vivo – in realtà ci sono ecovillaggi anche vicino a dove vivete voi. Volevo capire come vivono persone che hanno scelto di condividere la casa, a volte lo stipendio, spesso anche le idee e la visione del mondo. Persone che vanno d’accordo e decidono di darsi una mano, in sostanza. Piccole utopie contemporanee nell’era della fine delle ideologie.

Ero anche curiosa di vedere come vivono i bambini in posti del genere, se è vero il detto africano – oggi molto citato – secondo cui per crescere un figlio ci vorrebbe un intero villaggio, anche se poi ognuno sta chiuso nella propria casa.
Che la vita in comune possa essere una soluzione per combattere la piaga dei figli unici e la disoccupazione? Per dare vita a una vera alternativa antisistema? Sono andata a vedere tre comunità che fanno parte del Rive (Rete italiana villaggi ecologici) e che, con le dovute differenze, sono assimilabili alla definizione di ecovillaggio: un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.

La prima cosa che ho capito, visitando questi posti, è che qui bisogna essere pronti ad abbassare il proprio tenore di vita in cambio di una qualità della vita migliore: qui si lavora con meno stress, soprattutto per chi riesce a ritagliarsi un impiego all’interno della comunità, si vive in modo generalmente più sano, si usa meno l’auto, si mangiano cose più buone.

Certo non è una vita per tutti, però questa è la prima cosa da tenere presente. In alcuni ecovillaggi è necessario anche aderire a un «percorso di crescita personale», tuttavia queste comunità sono generalmente laiche. La seconda cosa che ho capito è che un ecovillaggio non è solo un posto dove si vive insieme, ma è, o dovrebbe essere, un centro di sperimentazione. Un luogo dove sperimentare l’agricoltura, i sistemi di riscaldamento, l’istruzione, l’edilizia, la cucina, l’economia ma anche nuove combinazioni di lavoro manuale e intellettuale, nuove forme sociali e nuovi rapporti tra le generazioni.

Più si sperimenta e più la comunità è viva e autosufficiente. Anzi, le comunità che 2016 hanno raggiunto l’autosufficienza economica – che non vuole dire non uscire mai a fare la spesa! – sono quelle in cui i residenti riescono a mantenersi lavorando internamente, talvolta rivolgendosi a un pubblico esterno organizzando corsi e seminari a pagamento.

Tuttavia, per parlare di ecovillaggi bisogna per forza tornare agli anni settanta. Tutto comincia nel 1971, quando un professore di San Francisco, Stephen Gaskin, le cui lezioni erano seguite da un folto pubblico e duravano intere nottate, fondò The Farm, il primo ecovillaggio del mondo, a Summertown, Tennessee (lo stesso anno in Danimarca era nata Christiana, la famosa comune di Copenhagen; e solo tre anni prima era stata fondata Auroville in India, anche se gli esperimenti comunitari cominciarono già nei primi dell’ottocento con le utopie socialiste).

Più di quarant’anni dopo The Farm esiste ancora, ospita 250 persone ed è impegnata a più livelli nel campo di ricerca sostenibile, nel frattempo la vita comunitaria è diventata una alternativa di vita più realistica (la rete Gen – Global ecovillagge network – che riunisce tutti gli ecovillaggi del mondo di cui fa parte anche Rive, la rete delle comunità italiane, testimoniano questa piccola e lenta fioritura).

Negli ultimi anni il fenomeno ha attirato un numero crescente di persone, anche solo in teoria e per varie ragioni: la sempre più bassa vivibilità delle grandi città, la crisi economica (vivere insieme normalmente costa meno), la fine della militanza politica o almeno di una certa militanza politica, una generale crisi dei valori, il radicamento del pensiero ambientalista e l’attenzione sempre più diffusa a uno stile di vita capace di futuro.

Ma quanti sono gli ecovillaggi italiani? Molte di queste realtà sono in costante divenire – se c’è una cosa da capire su di esse è che ci vuole tanto tempo per costruire una realtà di questo tipo – e secondo la Rive oggi in Italia ci sono una ventina di ecovillaggi, altri sedici in costruzione e ventidue progetti.

Si va dalle 600 persone di Damanhur in Piemonte e del Popolo degli elfi sull’Appennino pistoiese, le più popolate comunità nostrane, alla ventina di residenti che in media ospita una comunità. Per Francesca Guidotti, curatrice del libro Ecovillaggi e cohousing, i progetti sono in crescita esponenziale, ma come spesso accade più del 50 per cento fallisce nei primi tre anni, perché molti non capiscono il reale impiego di energie richiesto per realizzarli. Di solito, mi spiega Francesca, chi mette l’economia in condivisione totale è molto più forte, anche se per il singolo c’è molto più rischio e in ogni caso non tutti sono fatti per una vita essenziale e semplice.

Una lunga esperienza

Sulle colline tra Perugia e Terni, c’è Utopiaggia, l’ecovillaggio più antico e longevo d’Italia. Nel 1972 Ingrid, Bernd, Ildiko, Barbara e altri ragazzi decidono di fondare una comunità “anarchica e umanistica” in Bassa Baviera. All’inizio portano avanti la comunità Barhof in Germania e poi acquistano cinque ruderi abbandonati con 100 ettari di terreno in Umbria (per 480 milioni di lire). È il 1982 quando la comunità si trasferisce in Italia. Oggi Ildiko ha i capelli bianchi ma la stessa energia di trent’anni fa. Vive con Franco, bolognese, in una delle case del villaggio, lei tinge lana e seta con tinte naturali e lui è un ex giornalista di Lotta continua che ora scrive di bioagricoltura.

Beviamo un tè in una stanza inondata di luce e piena di libri, dove dal soffitto a travi penzolano gomitoli colorati. La loro è una vita semplice e ormai relativamente libera da impegni comunitari. Le riunioni sono una volta al mese e al venerdì sera c’è una serata ricreativa dove si fa musica e si sta insieme. L’età media dei 19 residenti (di cui solo sette italiani) è ovviamente abbastanza alta, ma ora abbassata dalla presenza di cinque bambini. «Vivere in coppia in un posto così selvaggio e isolato può essere molto noioso», mi dice Ildiko, «invece così ci divertiamo di più. Purtroppo una parte dei nostri figli è tornata in Germania, ma anche quelli che sono rimasti in Italia hanno trovato lavoro fuori di qui. La crisi non ha aiutato e forse non siamo riusciti a essere abbastanza autosufficienti. Facciamo pane, formaggio, ceramiche, tessuti, abbiamo le pecore, ma non basta».

Si vede che Ildiko e Franco sono persone speciali, emanano una sorta di dolcezza del vivere, nonostante lo stile di vita estremo che conducono. Sarà l’assoluta mancanza di fondamentalismo con cui si esprimono. O la lunga esperienza.

Allegria composta

Non lontano da qui, a Passignano sul Trasimeno, c’è Panta Rei, che ha l’ambizione di essere un centro di educazione permanente. Siamo accolti in un ampio refettorio che somiglia a un rifugio di montagna, con la differenza che dalle enormi vetrate si vede il lago Trasimeno. Le tavolate sono occupate quasi interamente da una quarantina di “studenti” di permacultura. Mangiamo verdure dell’orto, riso alla zucca e una buonissima tisana al rosmarino. Visitiamo le casette che sono belle e luminose, una è costruita sull’albero, un’altra ha una serra dentro casa.

Più a valle si intravede un orto gigantesco. C’è una allegria composta nell’aria. Appare subito chiaro che Panta Rei non è solo un villaggio ecologico, ma ha da sempre una vocazione all’educazione ambientale. Già negli anni ottanta, Dino Mengucci aveva fondato la cooperativa Buona terra, una azienda agricola biologica e fattoria didattica (la prima in Italia). Nel 1995 Mengucci e compagni decidono di recuperare un’area abbandonata e danneggiata da un incendio e nasce così Panta Rei. Formato da un’ampia struttura ricettiva e da piccole casette fatte di terrapaglia e materiali di recupero, il villaggio è completamente sostenibile al livello energetico (l’acqua viene da un sistema di fitodepurazione o dalla raccolta piovana, l’energia dai pannelli solari). Panta Rei oggi offre ospitalità anche a grosse comitive di studenti o di adulti ed è attivo quasi tutto l’anno con corsi e seminari di permacultura, yoga, ecologia.

All’interno ci sono anche una falegnameria e una calzoleria. «Panta Rei vuole essere una scuola da zero a cento anni», dice Beppe, residente dal 2011 e oggi braccio destro di Mengucci nel coordinamento. «A noi interessa attivare processi cognitivi, anche solo insegnare ai bambini a usare l’acqua in un certo modo. Sono cose semplici, che sembrano elementari, invece non è scontato essere coscienti di ciò che puoi cambiare e ciò che non puoi cambiare. In realtà le uniche cose che non puoi cambiare sono la nascita e la morte».

Come Findhorn in Scozia, un ecovillaggio che è stato un modello un po’ per tutte queste realtà, anche questa struttura sul piano legale è un “trust” (che si differenzia dalla fondazione perché anche se cambiano i capi la destinazione finale del luogo rimane le stessa). «Non siamo interessati a modelli, siamo interessati al cambiamento. Tutto scorre, panta rei».

La città della luce è un posto molto noto tra chi conosce il reiki. Nasce infatti come centro per l’insegnamento di questa pratica di guarigione e come associazione culturale, nel 1996, a Genova, ma nel 2006 approda sulle colline di Ripe, nelle Marche, dove una antica dimora storica di 2.500 metri quadrati accoglie oggi la comunità composta da una trentina di persone tra cui anche nonni e bambini.

Al primo impatto La città della luce sembra una sorta di centro benessere del bionaturale: oltre al reiki, qui si può praticare l’ayurveda, le costellazioni familiari, lo yoga e la meditazione, si possono comprare creme, monili, abiti in fibre naturali. In effetti l’intento di questo gruppo è proprio quello di offrire al mondo un nuovo modello di società, i cui pilastri poggiano sul benessere dell’individuo.

Ci accoglie Tirtha (Chiara) che ha 29 anni ed emana una notevole luce naturale, ha i capelli color mogano e i tratti di una nativa americana. Tirtha ci accompagna a vedere la grande casa, con le varie sale del reiki, dell’ayurveda e il campo degli ulivi, dove d’estate si fa yoga all’aperto. Poi andiamo alla Casa dei ciliegi, una casa a pochi chilometri dalla sede, dove abitano altre persone tra cui due bambini di tre anni e due asini. Qui Dhara (Janneke) ci mostra l’orto sinergico e il chicken tractor. Qui è dove d’estate si fa la cerimonia del temazcal o sweat lodge, in una specie di capanna fatta di legno di salice con all’interno pietre roventi. Finito il pranzo, vero momento conviviale della comunità, mi torna in mente una scena di Arcadia di Lauren Groff.

Arcadia è un romanzo americano che racconta la storia di una comunità utopica, dalla sua nascita al suo declino, passando dai suoi momenti più gioiosi a quelli più tragici (tra l’altro il romanzo è liberamente e parzialmente ispirato proprio a The Farm). Come tutti i bei romanzi Arcadia è anche la storia di un sogno infranto.

Ripenso alla scena in cui il ragazzino protagonista, dopo essere cresciuto dentro la comunità, approda a New York e qui realizza che non è la campagna a rendere unico l’esperimento di Arcadia ma la vicinanza, la connessione tra le persone. Che è poi quello che manca nella nostra società.

Vedendo queste persone vivere e mangiare insieme in questa sala affacciata sulle colline marchigiane, penso che in fondo hanno trovato un modo per non stare sole.

Ripenso anche a ciò che mi aveva detto Lauren Groff qualche anno fa: «Il problema è l’utopia. Perché l’utopia è un paradosso. È un esercizio intellettuale, che non tiene conto della natura umana: se sono coinvolte persone con i loro casini, le loro stravaganze, anche gli ideali sono per forza un po’ diversi. L’esperimento utopico è destinato a fallire. E sono convinta che il fallimento sia ciò che rende questi esperimenti così vitali, così simili alla vita stessa. Questo non vuol dire che siano meno importanti o meno interessanti. Sono interessanti, proprio perché falliscono. Le comuni utopiche non sono altro che una metafora della vita stessa e, come la nostra vita, destinate alla morte».

Certo, perché la forza vitale dell’esperimento comunitario risiede proprio nella dicotomia tra l’ideale e il limite connaturato nella natura umana: per vivere in una comunità non solo bisogna condividerne l’ideale, ma anche accettare il limite dell’essere umano, di ogni essere umano.

La città verde

Sono tante le ragioni che fanno fallire questi esperimenti. Secondo Francesca Guidotti «una comunità muore quando non ci sono più gli strumenti o le energie per mettersi in discussione». In generale mi pare che le comunità resistano meglio se non si allargano troppo. «Se manca la libertà, l’esperimento muore», dice Jacopo Fo, che 37 anni fa ha fondato con alcuni amici la libera università di Alcatraz e da due anni ha dato vita al progetto Ecovillaggio solare, dove per ora vivono 14 persone.

«A noi piace fare le cose piccole. Niente rigidità, nessun credo. Vogliamo solo facilitare il trasferimento delle persone in campagna, poi ognuno vive come vuole». In realtà l’ecovillaggio solare è un progetto di ampio respiro, una vera è propria “città verde”, dove ognuno avrà la sua abitazione e terreno, con aree comuni come la piscina, un’area di coworking, una sala per gli spettacoli; la particolarità sono le case restaurate o realizzate con le tecniche ecosostenibili più all’avanguardia per il fabbisogno energetico, all’interno di un’area protetta.

«Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta», diceva l’architetto Richard Buckminster Fuller, l’inventore della cupola geodetica e pioniere del pensiero olistico e ambientalista. Se aveva ragione Fuller, allora gli ecovillaggi sono davvero dei modelli nuovi e dei tentativi di anticipare elementi di un mondo migliore nelle crepe di quello esistente.

«Trump ha messo in evidenza la brutalità inerente l’apparato patriarcale dominante, che caratterizza la forma attuale del capitalismo e della sua espressione politica. Si sta formando un’immensa ribellione politica che può andare in direzioni opposte, verso la catastrofe o verso l’emancipazione».

Comune.info, 8 dicembre 2016 (c.m.c.)

E al risveglio, l’incubo non si è dissolto. Era nel mondo reale, non nel sogno. Ciò che ha cominciato a dissolversi è la percezione illusoria che si aveva della realtà sociale e di se stessi.

Gli apparati del regime politico statunitense sono ancora lì, ma è scomparso ciò che dava loro vita e alimento: la credenza generale che il processo elettorale esprima la volontà collettiva e che le persone elette tramite quel processo rappresentino gli interessi e i desideri di quella maggioranza. È venuto alla luce che quel regime è dispotico e ingannatore, ed è al servizio dell’1 per cento della popolazione mondiale. Cresce una sfiducia profonda nei politici e nell’apparato stesso.

C’è un tentativo molto generale di ristabilire quella credenza. Il presidente Obama e la signora Clinton hanno invitato a unirsi intorno al nuovo presidente fin dal mattino del 9 novembre, perché l’evidente polarizzazione non si approfondisse. Sebbene in molta gente ci siano vergogna, tristezza e paura, si continua ad alimentare l’illusione che la società statunitense tornerà ad essere esempio e modello per il mondo, una volta che sarà stato posto rimedio ad alcuni dei suoi mali oggi tanto evidenti.

Persino gli scontenti si esprimono ancora nel quadro convenzionale; confidano che il dispositivo generale di governo sarà in grado di correggere il pasticcio. Alcuni pensano, ad esempio, che il Collegio elettorale potrà ribaltare il risultato o che gli equilibri e i contrappesi della grande democrazia statunitense addomesticheranno Trump e gli toglieranno gli spigoli più offensivi e pericolosi.

Tutto ritornerà presto alla normalità…Non tutti hanno il coraggio di vedere che la normalità è una società profondamente razzista e sessista, a carattere dispotico. Ciò che oggi fa orrore è stato patito da milioni di persone per molti anni, dentro e fuori gli Stati Uniti. L’occultamento ha resistito a tutte le denunce. Non si voleva accettare che razzismo e sessismo caratterizzassero la società attuale, a tutti i livelli. Non si tratta soltanto delle patologie dei suprematisti bianchi statunitensi; sono atteggiamenti profondamente radicati ovunque e imposti nel mondo dagli Stati Uniti.

E neppure si tratta di vecchie tracce di un passato ormai superato, ma di caratteristiche intrinseche dell’apparato patriarcale che contraddistingue il mondo attuale e che contagia la maggior parte della popolazione. Senza dubbio Trump ha ravvivato e stimolato atteggiamenti di odio. Ma l’odio per la vita è inerente all’apparato patriarcale dominante, che caratterizza la forma attuale del capitalismo e della sua espressione politica, il regime dispotico che ancora si chiama democrazia rappresentativa. Il suo impeto distruttivo si manifesta allo stesso modo nella sistematica distruzione della Madre Terra, che mette a rischio la sopravvivenza della specie umana, e nella lacerazione sistematica del tessuto sociale e delle basi stesse della convivenza, il che comporta discriminazione ed esclusione sempre più intense.

Invece di chiudere di nuovo gli occhi, è il momento di tenerli ben aperti. Abbiamo bisogno di percepire con chiarezza l’attuale momento di pericolo. Si è prodotta un’immensa ribellione politica che può andare in direzioni opposte: il suo destino non è predeterminato nella sua origine e non è scritto nelle stelle. Può essere un cammino verso la catastrofe o verso l’emancipazione. L’esito sarà di liberazione se da tutte le parti la gente si mobiliterà in basso e a sinistra, e non per mantenere uno stato di cose che sarebbe inevitabilmente catastrofico. Fascista non è il termine appropriato per qualificare la congiuntura attuale. Neofascista nemmeno; non chiarisce le differenze sostanziali rispetto agli anni Trenta in Europa. Però dobbiamo imparare dal passato.

Dobbiamo studiare come si forma il desiderio di essere diretti, il desiderio che un’altra persona regoli la nostra vita, il che dà luogo all’istinto del gregge e ancora ci rinchiude, sia nei partiti che negli atteggiamenti di fronte al governo. È ancora attuale la domanda fatta da Reich a proposito degli anni Trenta: come è possibile dare origine a masse che desiderino la propria distruzione? Quelli che non vogliono rispondere ritengono che la domanda non li riguardi, che il fascismo sia una cosa che ha potuto succedere ad altri, ma che non è il loro problema.

Oggi dovranno affrontare questa domanda, come tutti e tutte noi.Il pericolo attuale non è iniziato l’8 novembre. Si è aggravato in quel giorno, perché il risultato ha agglutinato e incoraggiato impulsi molto distruttivi. Ma quel giorno ha anche risvegliato molte e molti dormienti, che si sono messi in moto. Molte persone reagiscono, ancora legate alle inerzie del sistema in cui confidavano. Molte altre, come ambientalisti, femministe e difensori dei diritti umani, si propongono di raddoppiare il loro impegno, sia pure senza abbandonare la via che seguivano.

Ma un numero crescente di persone si sta riconoscendo nello specchio della società abominevole che è venuta alla luce e cominciano ad organizzarsi per smantellarla insieme. Iniziano con l’autocritica. Evitano con cura le inerzie del passato. Militano nel gruppo, per la riorganizzazione dal basso della nuova società, ma facendo questo si lasciano alle spalle le formule patriarcali, autoritarie, fasciste, che caratterizzano molti gruppi rivoluzionari e partitici, spesso agganciati a un leader; stanno dando forma a una militanza gioiosa, festosa, radicata nell’impulso vitale.

Tollerare significa sopportare con pazienza, dice il vocabolario. Invece di tollerare l’altro, perché non è come loro, queste persone cominciano a festeggiare la sua radicale alterità, aprendogli ospitalmente le braccia, la testa e il cuore. Questa militanza gioiosa e questa nuova ospitalità caratterizzano già varie mobilitazioni che danno un nuovo senso al terremoto socio-politico dell’8 novembre.

Sole 24Ore, 3 novembre 2016

Siamo vicini all’alba del giorno dopo, del giorno in cui, subito dopo le elezioni americane ci sarà il brusco risveglio dalla retorica fiorita, dalle promesse facili, dai sogni impossibili, per confrontarsi con una realtà economica che resta difficile, problematica e non di facile soluzione. La sfida è duplice. Sul primo livello c’è quella economica. Come riportare il paese su tassi di crescita sostenibili più alti di quelli del nostro tempo? La seconda è il corollario della prima ed è ancora più complicata: come si riuscirà a rinfrancare, assicurare la classe media, delusa, preoccupata, infelice e pronta, non solo in America, al voto di protesta contro chiunque si trovi al governo o rappresenti presunti “poteri forti”?

La risposta la troviamo nel modello del “capitalismo inclusivo”. Un modello che vuole respingere le tentazioni ora “socialiste” ora “assolutiste” evocate dal populismo facile. Un modello messo a punto al Center for American Progress a partire dal 2012 sotto la leadership di John Podesta, con il brillante contributo creativo di Larry Summers, professore di economia a Harvard, autore, ex segretario al Tesoro, generalmente “larger then life”, come si dice da queste parti. Summers fu fra i primi, già durante il post crisi 2007-2009 a identificare il pericolo di una “stagnazione secolare”, capì prima di altri che le economie potevano ripartire, ma non avrebbero riproposto quei tassi di crescita del 4-5% che avevano caratterizzato i cicli economici degli ultimi 30 anni. E avendo identificato prima di altri il problema ha giocato d’anticipo identificando con altri economisti una soluzione che, necessariamente, passa non solo per lo Stato, ma anche e soprattutto per le aziende private che, solo negli ultimi dieci giorni, hanno annunciato operazioni di fusioni (preambolo del downsizing) per quasi 200 miliardi di dollari.

È ovvio dunque che per cambiare non bastano i governi, occorre partire per prima cosa dal coinvolgimento delle grandi aziende. Sono loro ad avere sul piano globale un forte impatto sull’occupazione e sui parametri di governance. Possono farlo applicando i tre principi del capitalismo inclusivo: 1) basta con gli obiettivi finanziari a breve e brevissimo termine, basta in sostanza di essere schiavi dei risultati trimestrali e dei gestori di portafoglio o di fondi pensione che “vendono” se non si raggiunge un certo parametro di rendimento. Occorre pensare al lungo termine, investire nel lungo termine anche nella gestione dell’occupazione; 2) aprire all’integrazione dei cosiddetti fattori ESG (environmental,social,governance) parte dell’ombrello della corporate social responsibility. Il modello per l’”inclusive capitalism” fa un passo in avanti, le scelte non diventano periferiche, parte della missione del “buon cittadino”, ma centrali alle politiche dell’istituzione che le persegue, centrali insomma in ogni aspetto delle decisioni di business che riguardano un’azienda. 3) La forza lavoro. Su questo Larry Summers non ha dubbi, non basta pensare all’addestramento, non basta concedere premi di produzione «occorre aumentare i salari, aumentarli in modo concreto e tangibile». Se l’aumento dei salari porta a una diminuzione dei profitti diventa allo stesso tempo motore dei consumi e dello sviluppo economico. Anche questa è lungimiranza: sacrifico oggi un 20% del profitto per vedermelo rientrare moltiplicato in un periodo anche breve, uno o due anni, grazie all’impatto macro sull’economia. Soprattutto se la scelta è fatta in modo unitario dalla comunità degli affari.

La cosa incoraggiante per chi si dovesse svegliare confuso la mattina del giorno dopo le elezioni americane è che in materia di “Capitalismo Inclusivo” siamo già passati dalla fase teorica alla fase pratica. Lynn Forester de Rothschild, donna d’affari di successo in America, vicina a Hillary Clinton, consigliere dell’Economist, di cui è azionista con il marito Evelyn de Rothschild, ha organizzato una “coalizione per il capitalismo inclusivo”, ha già allargato l’abbraccio a grandi aziende e istituzioni ed ha organizzato incontri operativi per passare dalla teoria alla pratica.

Ho partecipato al secondo seminario annuale organizzato dalla Rothschild qui a New York alcune settimane fa. Parterre “off the record” di altissimo livello, con interventi di alcuni dei principali capi di multinazionali americane e globali. Dialogo aperto e provocatorio, i leader, non solo aziendali, hanno davvero confrontato esperienze e problemi in libertà, certi che il “brain storming” restasse chiuso dietro le porte del Cipriani Wall Street, dove si è tenuto l’evento. Posso anche riferire che molti hanno preso degli impegni specifici per muoversi nella direzione di questa nuova frontiera che potrebbe essere quella capitalismo inclusivo.

Muoversi in questa direzione nuova, e farlo anche al di fuori dell’America è essenziale perché il problema del forte malessere della classe media è molto reale ed è complicato dal fatto che non si tratta soltanto di una forma di pessimismo psicologico.

Dobbiamo anche prendere atto che il percorso che ci ha portato a questa mancata risposta del capitalismo alle nuove sfide dell’economia non è quello tortuoso dei commerci, come sostiene Donald Trump, che vuole chiudere le frontiere, ma è la sfida dall’innovazione tecnologica, che non si può fermare con una semplice barriera tariffaria.

Ma Trump ha usato la dinamica della paura, come del resto ha fatto il concorrente a sinistra di Hillary Clinton Bernie Sanders, per denunciare questa accumulazione di potere e ricchezza. La miscela che ne consegue è esplosiva: da una parte quelli che “hanno” dall’altra quelli che “non hanno”.

Alcuni offrono altre soluzioni. L’economista Thomas Piketty, ad esempio,in base ai suoi studi lungo un periodo di 250 anni, ci dice che la concentrazione della ricchezza non si corregge da sola e propone una aggressiva redistribuzione del reddito attraverso fortissime tasse progressive.

Eccoci dunque alle alternative: a) ritorno allo statalismo con aliquote fiscali altissime, al 70-80% come succedeva negli anni Settanta, b) continuare lungo questa strada, della concentrazione dei poteri economici senza ritorni per la popolazione nel suo insieme c) abbracciare la strada del capitalismo inclusivo. Un paio di anticipazioni? Generiche, senza violare il segreto delle riunioni? I fondi pensioni hanno aperto al ritorno di lungo termine rassicurando i capi azienda. I capi azienda hanno capito che devono investire nel lungo termine in regioni come lìAfrica o il Sud America per incoraggiare le popolazioni a restare a casa. Hanno sottoscritto impegni per l’ambiente, meno carbone, meno miniere. E i minatori degli Appalchi votano compatti Donald Trump. L’equazione non è mai perfetta. L’importate è cominciare con il ridurre le incognite.

L'autore di "Vie di fuga"‭ (un ‬saggio su crisi,‭ ‬beni comuni,‭ l‬avoro e democrazia nella prospettiva della decrescita) illustra con parole semplici le vie necessarie e possibili per uscire dalle crisi del pianeta Terra e dell'umanità che lo abita

Il testo riproduce l'intervento dell'autore per un ciclo di incontri promosso dalla Biblioteca comunale di Treviso. Qui il testo integrale con le immagini

Le domande cruciali che da sempre si sono poste le‭ “‬scienze economiche‭” ‬sono:‭ ‬cosa produrre,‭ ‬come,‭ ‬quanto,‭ ‬dove,‭ ‬per chi‭? ‬

Proviamo a dare un ordine coerente a questi quesiti.‭Ma per riuscire a farlo,‭ ‬dobbiamo porci una domanda preliminare:‭ ‬perché produrre‭?

Vi è poi una meta-domanda che sovrasta tutte le altre‭ (‬a cui proverò a rispondere alla fine‭)‬:‭ ‬chi è abilitato a dare le risposte a tutte queste domande‭? ‬Ovvero:‭ ‬chi ha l’autorità e il potere di stabilire e decidere‭ ‬con quali modalità produrre,‭ ‬in quali quantità e località,‭ ‬a beneficio di chi ecc.‭ ‬ecc.‭?

Ovvero: chiha l’autorità e il potere di stabilire e decidere con quali modalitàprodurre, in quali quantità e località, a beneficio di chi ecc. ecc.?

1. Perchè produrre?

Perchéprodurre? Perché lavorare? La risposta è facile, persinobanale. Gli esseri umani si attivano per produrre strumenti, oggetti, manufattivari e sistemi organizzativi utili a rispondere a dei loro bisogni e a delle loro esigenze. Quali: soddisfarele necessità primordiali della sussistenza e della sicurezza personale, aumentarele comodità e diminuire le fatiche, dare risposte alle curiosità di conoscenzadei misteri del mondo ed anche cercare di soddisfare i desideri più fantastici.
Quindi, ci si dà da fare, si opera e si lavoraper fare cose utili a se stessi e agli altri. Il lavoro per essere un “buonlavoro” deve soddisfare chi lo compie. Deve far emergere il proprio saper fare,mettere alla prova le proprie attitudini. Allo stesso tempo il lavoro deveessere “vero”, cioè deve produrre concrete utilità. Persino quello menoutilitaristico che si possa immaginare, cioè il lavoro dell’artista, è un attoespressivo che ambisce ad entrare in relazione emozionale con gli spettatori.Il lavoro, al fondo, è sempre un atto di donazione del proprio tempo e delleproprie capacità a favore di chi ne usufruisce. Altrimenti è solo unpassatempo, un impiego per sfaccendati. Ha scritto Claudio Napoleoni: “Il lavoro non è positivo che a unacondizione, cioè che i prodotti siano contemplati e riconosciuti come buoni”(in Pallante, 2016).
In questo modo vi sarete accorti che ho posto,indirettamente e conseguentemente, dei criteri utili a rispondere anche alladomanda di come bisogna produrre e dicosa produrre. Bisogna produrre conmodalità che favoriscano la esplicitazione dell’intelligenza e della creativitàdegli individui che si applicano a quel lavoro. Potremmo così affermare che ilprimo diritto del lavoratore è poter scegliere cosa più gli piace fare. Tutti ilavori che invece svalorizzano chi li compie, che depotenziano i loro personalibagagli psicoattitudinali, che comprimono le loro prestazioni in un mansionariopredeterminato e fuori dal loro controllo, che riducono il lavoratore ad unprestatore d’opera robotizzato… sonoforme di produzione da condannare, disumanizzanti e alienanti.
Allo stesso modo sono riuscito a rispondere anchealla domanda “cosa produrre?”. Bisognaprodurre cose che siano beni, cioè, oggetti, strumenti, sistemi organizzativiche aumentino il benessere delle persone e delle comunità.
2. Quanto, dove, quando produrre?
Ci rimangono i quesiti: quanto, dove, quando produrre. Mentre lasceremo perultima la domanda per chi produrre.
Il lavoro produttivo è sempre una attività diprelievo e trasformazione di materie che si trovano in natura. Lo diceva ancheKarl Marx (che pure ha fondato la sua teoria del valore di scambio sul poteredel capitale): “La natura è la fonte diogni valore d’uso e di essa è fatta la ricchezza reale”. Prima di lui, unodei primi economisti, William Petty (1623-1687) scriveva: “il lavoro è il padre della ricchezza mentre le terre sono la madre”.Chiamateli come volete (terra, capitale naturale, flussi di materia e dienergia, materie prime, risorse naturali, ecosistem services…) si tratta sempredi doni della natura, dell’ecosfera, di Madre Natura, del Creato, di Gaia, diPacha Mama… E la Terra è per definizione limitata, circoscritta, finita. E’ un sistema chiuso per materia e apertoall’energia che riceve dal Sole. Le risorse materiali, gli ettari adisposizione procapite, quindi, si riducono per un effetto a tenaglia: da unaparte, l’aumento della popolazione e, dall’altra, la degradazione dellafunzionalità degli ecosistemi determinata dal rilascio di sostanze inquinantidai processi produttivi e di consumo, dall’eccesso di prelievi e, in generale,dall’aumento della pressione antropica.
[omissis fgure]
Da notare che il “consumo di natura”,calcolato con le tabelle del Phisical imput-output (anche l’Istat staincominciando ad elaborarle) che rivela i consumi mondiali di materie prime,cresce paurosamente smentendo le previsioni di quanti ritenevano che le nuovetecnologie, aumentando l’efficienza dei sistemi produttivi (meno sprechi, piùricicli ecc.), avrebbero “dematerializzato” l’economia, miniaturizzato apparecchie macchinari vari e che, in particolare, le tecnologie elettroniche applicatealla telecomunicazione avrebbero ridotto l’uso della carta e il bisogno di spostaremerci e viaggiatori. Nella realtà, si è verificato il contrario per effetto delnoto paradosso (effetto Rebounding o altrimenti detto “illusione tecnologica”) illustrato già daWilliam S. Jevons nel lontano 1865: Laresa maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi laloro diffusione e i consumi totali di carbone”. Ed è così per ogni cosa: seuso l’automobile di nuova generazione per aumentare i miei spostamentimotorizzati, annullerò i benefici del risparmio di carburante. Se mai fossevero che le nuove marmitte catalitiche riducono l’immissione di polveri sottilié sicuramente vero che l’aumento esponenziale delle automobili in circolazione nelmondo peggiora il bilancio complessivo dell’inquinamento. Ricordo solo che perprodurre un computer servono 15.000 kg di acqua, 250 kg di petrolio, 22 kg disostanze chimiche. Nel mondo ogni anno vengono venduti 150 milioni di computer,mentre vengono prodotti 50 milioni di tonnellate di RAEE (rifiuti elettronici).Un computer d’uso domestico viene dismesso ogni 3-4 anni ed uno ad uso aziendale ogni 12-18 mesi. Solo il 20% vienericiclato.
Indefinitiva il Total Material Requirement (il fabbisogno di materialipro-capite) non fa che aumentare. Secondo dei dati pubblicati da GiorgioNebbia, un cittadino americano “consuma” 85 tonnellate all’anno di materialivari, un tedesco 74, un europeo medio 51, un giapponese 45. Un altro studiocommentato da Gianfranco Bologna (www.materialflows.net)ci dice che dal 1980 al 2008 il consumo mondiale di materie prime (risorsebiotiche, quali biomasse da agricoltura, foreste, pesca, e materiali abiotici,minerali e metalli) è aumentato dell’80% (da 38 a 68 miliardi di tonnellateall’anno). Sono cifre enormi che stanno comportando danni irreversibili eirreparabili al pianeta. Tutti questi materiali prelevati dalla natura ce liritroviamo prima o poi, dopo cicli di utilizzazione più o meno lunghi (life cyclematerials) sotto forma di scarti, residui, rifiuti.
Gli scienziati hanno individuato noveprincipali emergenze planetarie, che sono: l’acidificazione degli oceani, l’utilizzo dell’acqua dolce, la riduzionedella fascia di ozono nella stratosfera, l’utilizzo del suolo fertile, il cambiamentoclimatico, la perdita di biodiversità, il ciclo bio-geo-chimico dell’azoto edel fosforo, l’aereosol atmosferico, gli inquinanti chimici (vedi il PlanetaryBoundariesdi di Johan Rockstrom).
Da una trentina d’anni (con la pubblicazionedel rapporto Bruntland, Our Common Future, del 1987 della Commissionemondiale sull'ambiente e lo sviluppo, WCED) il lemma “sviluppo sostenibile”è diventato d’uso comune. L’idea che ci sta sotto è il decoupling: la possibilità di disaccoppiare crescita economica epressione antropica sugli ecosistemi. Un’equazione che assomiglia a quelladella capra e del cavolo da trasportare in barca e che nessun modello economicosembra ancora essere riuscito a risolvere.
Se tutto ciò nonè solo una trovata per il marketing delle “green technology”, allora il primosenso pratico della sfida della sostenibilità dovrebbe essere quello dellariduzione netta del consumo di natura dentro i limiti della capacità dirigenerazione dei cicli bio-geo-chimici dell’ecosistema planetario. Solo cosìsi preservano le condizioni di abitabilità del pianeta e di sopravvivenza dellegenerazioni future.
E con questoabbiamo risposto anche alla domanda di “quanto produrre”: non si deve prelevarepiù di quanto la Terra non sia capace di metabolizzare, rigenerare, restituire.
3. La questione della sostenibilità

La questionedella sostenibilità non è solo quantitativa. Non si misura solo in tonnellate enon riguarda solo i bilanci di materia ed energetici. Come ci ricorda sempreGiorgio Nebbia: “L’ineguale distribuzionegeografica delle materie prime è alla base di conflitti per conquistare ocontrollare le risorse agricole, le foreste, i minerali e le fonti di energia”(Nebbia, 1998). C’è da rimanere allibiti, quando, ad esempio, nei consessipolitici intergovernativi (ad esempio le Conferenze delle parti sul cambiamentoclimatico) gli esperti attribuiscono ai paesi produttori asiatici laresponsabilità di emettere quote di gas inquinanti che vengono generate per produrre merci che poi vengono comprate eusate dalle popolazioni più ricche nei i paesi più ricchi. Siamo in presenza dinuove forme di colonialismo ipocrita che vengono attuate attraverso ladelocalizzazione di attività industriali obsolete e inquinanti, l’acquisto diterreni fertili (e della relativa acqua incorporata) per ricavarne prodottialimentari da esportazione (land grabbing),lo smaltimento nei paesi più poveri di rifiuti tossici e pericolosi provenientidagli Stati Uniti e dall’Europa (waste dumping),la sottrazione di minerali e metalli rari dai giacimenti dei paesi poveri.
Solo per citarela vicenda più macroscopica voglio ricordare che le guerre in corso in Congoper l’accaparramento del coltan ha provocato 5 milioni di morti. Le apparecchiatureelettroniche che comunemente usiamo (ma anche dispositivi militari e armamenti)non hanno bisogno solo di ferro, plastica e silicio, ma di minerali rari comeil tungsteno, il tantalio e il niobio (coltan), il vanadio, il berilio, il platino, l’oro…Sulle “terre rare” si sta giocando una buona parte della guerra commerciale traStati Uniti ed Europa, da una parte, e Cina dall’altra.
La questionedella sovranità sull’uso delle risorse naturali è quindi centrale per stabilirenon solo quanto produrre, ma anche dove localizzare le produzioni dei beni diconsumo. Le “ragioni di scambio” tra produttori e consumatori – in una economiadi mercato, come vedremo più avanti – sono sempre squilibrate a favore di chi èeconomicamente più forte e in grado di imporre sistemi produttivi a lui piùconvenienti. La asimmetria del potere fondato sul denaro provoca disparità ediseguaglianze di valore attribuito ai vari impieghi di manodopera e dimateriali. Il valore sul “libero mercato” di un quintale di caffè non consentiràmai ai suoi produttori ad eguagliare il prezzo di mercato di un computer o diun’altra qualsiasi mercanzia prodotta nei paesi che detengono tecnologie ecapitali, brevetti e titoli di proprietà. Si generano così divisioni ditipologie di lavoro e stratificazioni di classi sociali tra le varie areegeografiche del mondo a al loro interno. Banalmente, un’ora di lavoro non ha lostesso prezzo per diverse prestazioni e diversi territori. La globalizzazionedei mercati e dei capitali a fronte della inevitabile fissità territorialedelle popolazioni (a meno di non doverle costringere a migrazioni bibliche)provoca disparità e disuguaglianze. Chi ha già riesce ad ottenere sempre dipiù, chi ha meno si impoverisce. Gli studi sulle disuguaglianze sono oramai moltovasti. Economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Luciano Gallino sonodiventati autori molto popolari.
Questa tendenza alla diseguaglianza puòessere contrastata solo con un processo di ri-territorializzazione delleproduzioni (de-globalizzazione), da una parte, e di introduzione di clausolesociali e ambientali negli scambi internazionali, dall’altra. Sarebbenecessario rendere le diverse aree geografiche del pianeta (bioregioni) e, alloro interno, le comunità locali, sempre più autosufficienti e autonome, menodipendenti da poteri che agiscono fuori dal loro controllo, così l’umanitàintera potrebbe imparare a utilizzare al meglio le risorse disponibili senzaessere costrette ad andare a prenderle altrove (con le buone o con le cattive,con i denari o con gli eserciti). Bisognerebbe immaginare i rapporti commercialiinternazionali impostati sulla base di una effettiva reciproca, paritariautilità..

4. Per chi produrre?

Rimane ora la domanda: per chi produrre? La rispostaè: per tutti coloro che hanno il bisogno di ottenere beni e servizi utili alloro benessere. E’ questa una risposta semplice, apparentemente oggettiva eneutra che però nasconde difficili implicazioni e molte trappole. Vediamonealcune.
Innumerevoli studi di antropologia epsicologia sociale (oltre alle evidenze che ognuno di noi può riscontrare nellavita di tutti i giorni) ci dicono che le esigenze delle persone non solo mutanonel tempo, nei luoghi e nelle culture in cui sono inseriti, ma sono sempresocialmente determinate. Tutti i tentativi di catalogare e gerarchizzare ibisogni secondo un ordine raziocinante predefinito (beni necessari, benifondamentali, beni di largo consumo, beni superflui, beni voluttuari, beni dilusso ecc.) sono naufragati di fronte ai comportamenti “irrazionali” dellepersone che sono spesso determinati da convenzioni e convinzioni preconcette chetravalicano la logica teorica prescritta delle “scienze economiche”; il famoso tipo umano ideale - l’homo oeconomicus - che compra le coseche più gli servono al prezzo minore. Ad esempio, negli anni della crisieconomica è diminuito il consumo di generi alimentari, ma non quello deitelefonini. Vuol dire che l’esigenza di mantenere buone comunicazioni socialiera maggiore di quella di una buona alimentazione. Persino papa Bergoglio pensache la voce di Dio arrivi ai giovani tramite le onde elettromagnetiche deglismartphone! Nei paesi dell’ex Unione Sovietica, dopo il crollo, l’età mediadella vita si è ridotta drasticamente. Segno che le popolazioni tenevano di piùalla libertà che alla propria salute, alla piena occupazione e all’appartamentodi edilizia popolare. E ancora; é esperienza quotidiana constatare che lepersone sono più attente al lato estetico delle cose che comprano che non, adesempio, alla loro durevolezza e praticità. Avete mai provato a camminare suuna scarpa con il tacco a spillo?
Schiere di psicologi ci dicono che i nostristili di vita sono dettati da processi di imitazione, di ricerca diriconoscimento sociale attraverso lo statuse l’esibizione di beni posizionali. La nostra psiche è debole. Siamo invidiosie temiamo il giudizio degli altri più di ogni altra cosa, perché abbiamo pauradell’isolamento, della perdita delle reti di relazioni umane, della solitudine.
Gli addetti al marketing delle imprese sannomolto bene tutto questo. Un loro famoso motto è: “Non vendiamo cose, ma sogni”.Il presupposto fondamentale su cui si basa l’economia di mercato è che idesideri delle persone siano infiniti. Lo definì perfettamente già ThomasHobbes (Leviatano 1651) agli alboridel capitalismo: “La felicità è uncontinuo progredire del desiderio da un oggetto all’altro non essendo ilconseguimento del primo che la via verso il seguente”. Da qui la amara considerazionedi Bauman: “La società dei consumi sifonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità” (Bauman 2007).E la conclusione lapidaria dell’economista critico Bernard Maris: “Il capitalismo organizza la scarsità, ibisogni e la loro frustrazione” (Maris 2002).
In quest’ottica scopriamo che il sistemaeconomico esistente non è affatto finalizzato a produrre cose necessarie alminor prezzo possibile per renderle accessibili a chi ne ha più bisogno (e menodisponibilità economiche) - come si vorrebbe far credere -, ma alla produzionedi beni e servizi volti a soddisfare il numero sempre crescente dei bisogni diquei consumatori che hanno le maggiori possibilità di solvibilità sul mercato. Ilsistema capitalistico non si propone di produrre per soddisfare le necessità fondamentali, maper aggiungere sempre nuovi bisogni da soddisfare. Ha scritto Nicolas Ridoux: “voler creare un numero illimitato di bisogniper dovere poi soddisfarlo è come inseguire il vento” (Ridoux 2008).Uninseguimento che non finisce mai.
Qui sta l’errore di Keynes (ma anche dei marxistiche, da socialisti o comunisti, si sono trovati a dover governare l’economia)che pensava fosse possibile usare a fin di bene e transitoriamente il sistemadi produzione fondato sull’accumulo del capitale. Prima l’abbondanza (daraggiungere con i cattivi mezzi del capitalismo) poi la giustizia che ciproietterà nel regno delle libertà.
E’ noto che lord Keynes pensava che nel girodi pochi anni (scriveva nel 1930) i suoi nipoti avrebbero avuto vitto, alloggio,vestiario, salute e istruzione con poco sforzo (sarebbero bastate tre ore algiorno di lavoro per produrre tutto questo) grazie, appunto, agli straordinarisviluppi delle tecnologie e della produttività del lavoro. Così si sarebberisolto il problema della “scarsità” che è la ragione stessa dell’esistenza delle“scienze economiche”. Non solo i suoi nipoti, ma anche gli economistiavrebbero, quindi, potuto dedicarsi a lavori più creativi. Ma, scrive Keynes,c’è un prima, un frattempo: “almeno per iprossimi 100 anni dobbiamo pretendere da noi stessi e da chiunque altro che ilbrutto è il bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile, mentre ilbello non lo è. Ancora per qualche tempo l’avarizia, l’usura e le misureprotettive devono essere i nostri dei. Perché solo loro possono condurci fuoridal tunnel della necessità economica”. Come scrivono gli Skidelsky, padre economista e figlio filosofo (E e R.Skidelsky 2013), le ragioni del fallimento della profezia di Keynes (pienaoccupazione e riduzione dell’orario del lavoro) non è dipeso da un errore divalutazione sull’aumento della capacità produttiva del sistema capitalistico enemmeno dalla ricchezza monetaria in circolazione - anzi ! -, ma nell’aver sottovalutato la logica intrinsecadi funzionamento del sistema economico capitalistico che si fondasull’accrescimento indefinito e perpetuo della produzione. E’ pericoloso andarea patti con il diavolo! Nel prometterti tutto quello di cui hai necessitàaltera la percezione dei bisognirendendoti insaziabile. Già Epicuro aveva detto: “Niente è sufficiente a colui che il sufficiente non basta”.
Tutto ciòallontana indefinitamente la meta della “soluzione del problema economico dellascarsità”, rende impossibile il raggiungimento del soddisfacimento delle proprienecessità e condanna le persone a vivere in un perenne stato di necessità. L’eradell’abbondanza viene in continuazione posticipata. Le risorse (naturali, diconoscenza, tecnologiche, finanziarie…) sarebbero sufficienti, ma la logica che presiede il loro utilizzo in unasocietà dominata dalle ragioni mercantili non consente che vengano impiegatecon criteri di equità e sostenibilità. Al contrario genera in continuazionescarsità ed esclusione. Una spirale che allarga le distanze tra il verticedegli individui insaziabili e la base degli affamati. Una spirale che trascinal’umanità nella dissipazione insensata delle risorse naturali. Un sistemasociale irrazionale e ingiusto. Che alla lunga non regge né sul piano del banalecalcolo utilitaristico tra costi e benefici, né su quello dell’etica, dellaricerca del bene comune e condiviso.
Le risorse sono limiate, ma non “scarse”. La scarsità è sempre relativa. Égenerata da chi ne fa un uso eccessivo (a beneficio esclusivo), sottraendorisorse ad altri e ingenerando desideri di acquisizione in chi ne è escluso. Setutte le risorse venissero rese accessibili a tutti, basterebbero necessariamentea soddisfare i bisogni di ciascuno. Ognono si farebbe bastare ciò che ha adisposizione. L’economia di mercato e il diritto di proprietà sono le tecnichecon cui si rendere conveniente (in termini monetari) ed esclusivo (stabilendotitoli di proprietà) l’uso delle risorse a favore di pochi.
Ha scritto Gandhi: “La civiltà nel vero senso della parola, non consiste nel moltiplicare ibisogni, ma nel limitarli volontariamente”. Ogni individuo si dovrebbelimitare a possedere, usare e consumare solo quelle cose che anche tutti glialtri esseri umani possono permettersi.
Il problema, quindi, non è produrre sempre dipiù, ma al contrario trovare il modo di contenere, ridurre i nostri infinitidesideri di possesso e dissipazione.
Meglio allorasarebbe cambiare la visione delle cose. Smetterla di pensare al pianeta Terracome ad una matrigna avara (contro cui imprecare e cercare di ottenere sempredi più) e pensarlo invece come una madre nutrice, benefica, i cui doni sonobenedizioni (Illich), da rispettare nei suoi limiti e venerare per la suagenerosità.
Fuori da metafora dovremmo cambiare la teoriaeconomica fondamentale che si basa sul principio di scarsità e sostituirlo conquello del limite. L’assunzione delle condizioni biofisiche di funzionamentodel pianeta come vincoli inviolabili (ecocentrismo) ci deve condurre allaricerca del bastevole e della sufficienza. Cioè della condivisione.
La congiunzione di equità (giustiziadistributiva) e libertà (autonomia di scelte) che la cultura politicaoccidentale non è mai riuscita a realizzare potrebbe invece essere possibileinanellando altri due concetti: sostenibilità e condivisione. Riconoscimentodei limiti delle risorse a disposizione dell’umanità e loro equa messa incomune. Nessun individuo può essere escluso dal beneficiare dei doni dellanatura. Tutti devono essere responsabili del loro uso.
5. hi ha il potere di decidere?

Veniamo finalmente alla meta-domanda che mi ero posto all’inizio: chi ha il potere di decidere cosa produrre, per chi, dove, quantoecc. ecc.?
Come noto, grosso modo, due scuole di pensieroe d’azione si sono confrontate nella storia contemporanea. Ma nessuna delle dueha funzionato in modo soddisfacente.
Il liberismo e il socialismo (con tutte legradualità e le reciproche contaminazioni immaginabili e possibili: tra cui“l’economia sociale di mercato”, che vorrebbe moderare i due sistemi, e il“capital-comunismo” della Cina che invece esaspera il peggio dei due sistemi).Gli uni pensano che il gioco dei liberi mercati sia in grado di trovare l’equilibriodinamico tra la domanda e l’offerta di beni e servizi tale da soddisfare leesigenze di ogni individuo (lavoro in cambio di consumi). Gli altri pensanoinvece che tale equilibrio (piena occupazione e soddisfacimento delle necessitàessenziali) possa realizzarsi solo attraverso una procedimento (più o menodemocratico, più o meno partecipato politicamente) di pianificazione (più omeno centralizzata, più o meno decentralizzata).
Tra i primi troviamo i tecnocrati dellaespertocrazia come Mario Draghi, chepensa che la cosa migliore sia affidare l’economia ad un “pilota automatico”(programmato dalle autorità monetarie, ovviamente!). Tra i secondi ci sono i professionisti della politica che credono inuna capacità del sistema dei partiti di svolgere una funzione super partes al servizio dell’interessegenerale.
Le differenze tra i due sistemi non sono dipoco conto, ma non nella cosa essenziale: tutti e due i modelli e tutte leesperienze storiche che si sono fin qui verificate ritengono che lo scopoessenziale della cooperazione sociale tra le persone debba essere quello di accrescerein definitivamente la produzione di beni e servizi. Le differenze sono sullemodalità, non sull’obiettivo. I primi pensano che lo sforzo delle istituzionidebba essere quello di far funzionare nel modo più libero e automaticopossibile la “mano invisibile” che regola il bilanciamento della domanda edell’offerta. I secondi pensano che “gli spiriti animali” assetati di ricchezzache muovono le attività produttive debbano essere contenuti e guidati da maniforti e ben visibili delle istituzioni pubbliche dello stato.
Ma tutti e due pensano che si debba aumentare all’infinitol’efficienza, il rendimento, la convenienza, l’utilità del sistema economicoproduttivo. La partita doppia (il calcolo dei costi e dei ricavi, del dare edell’avere) è la forma mentis e il modus operandi che domina gli agenti tantodelle imprese quanto delle istituzioni pubbliche. Le altre cose che danno unsenso alla vita (il giusto, il bene, il bello; ovvero: la qualità dellerelazioni umane che si instaurano tra le persone, la solidarietà, l’aiutoreciproco, l’affettività, l’altruismo…) sono messe in secondo, terzo, quarto piano.Salvo poi, quando scoppia una crisi economica imprevista, sentirci dire chealla base di tutto ci sono “fattori esterni irrazionali” (che ovviamente nondipendono dagli economisti) che fanno cadere la “fiducia” degli operatorieconomici, provocano “panico” nei risparmiatori, “impigriscono” i giovani e così via psicoanalizzando il disagio sociale.
Alain Caillé ha detto che la società è stataridotta ad una orribile macchina per produrre”. L’economia è un procedimento che ha adisposizione una strumentazione (il denaro, le tecnologie ecc.) e undispositivo giuridico (le leggi, le istituzioni ecc.) che servono a ridurreogni cosa reale (res) ad un valoremonetario astratto (pecunia). Daibeni alle merci. Economia e denaro sono diventati la stessa cosa. L’economia siè ridotta ad occuparsi del denaro (da dove viene generato, come gira e comerigira…) e induce a pensare che con il denaro si possa ottenere ogni cosa. Ilpotere del denaro è diventato assoluto, supera ogni altro potere.
Bisogna allora pensare di cambiare in radiceil modo di pensare l’economia (oikos-nomos,le buone regole della dimora, che oggi è diventata il mondo intero) e inserirlanel sistema etico. Ripensare l’economia come una scienza morale. Quantomenosarebbe opportuno relativizzarla, metterla in relazione con le altre dimensionidel vivere umano.
Chi può compiere questa rivoluzione culturale?Castoriadis diceva che servirebbe una “rotturadell’ordine simbolico e fattuale”. Non c’è scampo, non c’è scorciatoia. Ilsoggetto del cambiamento siamo ognunodi noi. Sono le convinzioni morali profonde delle persone che devono spingercia comportamenti individuali responsabili e solidali, a trovare forme sempre piùdiffuse, pervasive, decentrate di comunità capaci di autosostenersi e di autogovernarsi.Bisognerebbe avere in testa un’idea di individuo, di comunità locali e diistituzioni sociali organizzate sui principi dell’eco-municipalismo.
Transitare da comportamenti ispirati allacompetizione e alla rivalità ad altri fondati sulla condivisione e sullareciprocità; dal dominio sui processi naturali alla loro cura; dall’egoismoalla solidarietà sociale cooperante e alla messa in comune delle ricchezze prodottesocialmente; dall’eccesso alla sobrietà; dal riduzionismo pseudo scientificodei “saperi esatti”, alla complessitàdei sistemi trans-disciplinari e olistici; dall’economia del massimo rendimentoad una del massimo risparmio, del riutilizzo, del riciclo; da un’economia deisoldi, del consumo e del debito alla bio-economia e al buon vivere. La felicità è una buonarelazione con l’ambiente e gli altri esseri umani.
Zigmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2007
Paolo Cacciari, , Marotta & Cafiero 2014
Ivan Illich, Bisogni, in Dizionario dellosviluppo, Edizioni Gruppo Abele 1998
Tim Jakson,Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011
Roberto Mancini, Ripensare la sostenibilità, Franco Angeli, 2015
Bernard Maris, Antimanuale di economia, Marco Tropea2003
Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, www.fondazionemicheletti.it,1998
Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio. Per una declinazione dell’uguaglianza,2016
Nicolas Ridoux , La decrescita per tutti, Jaca Book 2008
E. e R. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013

«Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma cosa produrre, per chi produrre, come produrre.».

Newsletter@comuneinfo.net, 9 febbraio 2016, con postilla

Ho letto su Comune l’articolo di Franco Berardi Bifo, Slump. La crescita non tornerà mai più (molto letto, condiviso e discusso in rete, ndr), e ne condivido tutte le considerazioni, in particolare che il tempo della crescita è finito e che di occupazione, intesa alla sua maniera, questo sistema non ne crescerà più. Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non convalidare questo sistema né dare l’impressione che anche noi ci aggiungiamo all’esercito di Tina, There is no alternative. L’alternativa, invece c’è e la dobbiamo rivendicare cominciando a denunciare tutti i fallimenti e i rovesci di questo sistema. Un’operazione che deve necessariamente partire dal linguaggio.

Questo sistema è in crisi e questo tutti lo sanno. Il problema è capire perché. Per autoassolversi il sistema parla di eccesso di produzione, quasi si trattasse di in un errore di calcolo nella valutazione dei bisogni. Ed anche noi, senza chiederci se l’affermazione sia vera o falsa, ripetiamo a pappagallo la stessa spiegazione. Ora va detto chiaro e tondo che a questo sistema dei bisogni della gente non importa un fico secco. Gli interessano solo le vendite per i guadagni che può procurare ai mercanti. Per cui la realtà la interpreta solo con gli occhi dei mercanti che quando si accorgono che di non riuscire a vendere tutto ciò che producono parlano di eccesso di merce.

Poi magari andando a vedere come sta veramente la gente potremmo scoprire che molti vivono in una tale miseria da richiedere non solo ciò che è avanzato nei magazzini, ma molto di più. Una situazione non dissimile da quella che viviamo oggi: mentre il sistema dice di essere in crisi da sovrapproduzione, le Nazioni unite ci informano che un miliardo di persone soffre di denutrizione, che tre miliardi di persone non dispongono di servizi igienici, che ottocento milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. E la lista potrebbe continuare con gli analfabeti, i senza tetto, i senza cure eccetera, eccetera.

Il termine giusto per descrivere la crisi del sistema, intesa come malfunzionamento, è mala distribuzione. Mentre il termine giusto per descrivere il suo fallimento, inteso come disastro sociale e ambientale, è mala impostazione. Da un punto di vista funzionale la crisi del sistema è dovuta a una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua che ha ridotto a tal punto la massa salariale mondiale da aver avuto come effetto finale una riduzione dei consumi. Basti dire che fra il 1975 e il 2015 la quota di prodotto mondiale tolta ai salari a vantaggio dei profitti è stata dell’ordine del 10 per cento. Se aggiungiamo le risorse sottratte agli Stati sotto forma di evasione fiscale (tramite i paradisi fiscali) e sotto forma di interessi pagati sul debito pubblico, otteniamo uno spostamento enorme di ricchezza a vantaggio dei capitalisti, che non potendo espandere i propri consumi all’infinito, hanno provocato una caduta degli acquisti.

Potremmo proseguire dicendo che per tamponare la situazione il sistema ha cercato di garantirsi un’alta domanda incoraggiando il debito. Ma a forza di accumulare debiti, poi arriva il momento in cui non si possono più pagare e tutto viene giù provocando non solo l’arresto del sistema economico con conseguente caduta di tutti i prezzi compresi quelli di risorse scarse come petrolio e minerali, ma anche la caduta delle banche, delle borse e dei bilanci pubblici. Capitomboli che alimentano ulteriormente la crisi. Esattamente come sta succedendo ai nostri giorni, prima con una crisi che avuto come epicentro gli Stati, poi con una crisi che ha avuto come epicentro la Cina. In ambedue i casi per il tentativo di fare correre il cavallo economico sotto la frusta del debito, che poi si è avvolta attorno al collo del cavallo strozzandolo.

Ben più grave il fallimento del sistema da mala impostazione. Al di là delle fanfare, questo sistema è organizzato solo per garantire affari alle grandi imprese sempre più orientate alla produzione di beni ad alta tecnologia. Una scelta di per se escludente perché coinvolge solo la parte di umanità con redditi medio alti, lasciando tutti gli altri alla deriva. Così abbiamo prodotto un pianeta con una minoranza che gozzoviglia e una maggioranza che non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Preso complessivamente questo pianeta non ha più spazi di crescita, anzi deve diminuire come mostrano i dati sull’impronta ecologica e sull’accumulo di anidride carbonica. Ma analizzando le singole situazioni, scopriamo che l’obbligo di decrescere vale solo per la parte di umanità in sovrappeso.

Quanto agli scheletrici hanno diritto ad avere di più, ma potranno farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante e solo se tutti insieme cambiamo impostazione economica. Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma. In una condizione di risorse scarse e di ambiente fortemente compromesso, la nostra pretesa libertà di produrre di tutto di più lasciando al portafoglio di ognuno di stabilire cosa comprare non funziona più. Nell’economia del limite la giustizia si garantisce fissando le priorità, che vuol dire programmazione, e predisponendo forme di produzione e distribuzione che garantiscono i bisogni fondamentali a tutti, che significa produzione di comunità con godimento gratuito da parte di tutti.

Un numero crescente di persone comincia a capire che per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma pochi hanno messo a fuoco che la vera scelta è fra mercato individualista e comunità solidale. Su questo, però, è bene saperlo, si gioca il nostro avvenire e la nostra civiltà.

postilla

Ha ragione Francesco Gesualdi nella conclusione del suo articolo: per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma chi deve decidere? Chi deve assegnare alla produzione i suoi fini: Chi deve decidere quali beni (non "merci") produrre? Qui si apre il grande discorso della politica, della democrazia, della gestione del potere. E, in parallelo, si apre il discorso altrettanto rilevante e complesso del lavoro, cioè dello strumento essenziale della produzione. Mentre sulla politica ci sembra che il dibattito sia ampio e fruttuoso, sul significato del lavoro ci sembra che l'opinione corrente sia dominata da una concezione del lavoro appiattita su ciò che il lavoro è nel sistema capitalistico, non - come a nostro parere dovrebbe - su una concezione dell'uomo.

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