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«La . Il manifesto, 19 ottobre 2016 (p.d.)
Ci sarà tempo, dopo l’8 novembre, per rimpiangere la presidenza Obama, e non solo se, malauguratamente dovesse essere Donald Trump a occuparne la scrivania della sala ovale. Ma oggi, dopo l’ultima cena alla Casa Bianca con Renzi, e tripudio di agnolotti, pacche sulle spalle e sorrisi tra leader e first lady, Obama ha indossato la giacca dell’amico amerikano, e noi quella della colonia.

Obama ha detto che il Sì al referendum sulla riforma costituzionale «può aiutare l’Italia a procedere verso un’economia più vibrante, verso un sistema più efficiente». Non solo. Il presidente degli Stati uniti ha voluto sottolineare che se, sfortunatamente, Renzi il referendum dovesse perderlo, «secondo me dovrebbe restare in politica». L’endorsment a stelle e strisce metterà le ali ai piedi del nostro presidente del consiglio, atteso a rapporto dai vertici di Bruxelles sui conti pubblici.

Non che in Europa gli siano mancati gli sponsor, da Merkel a Hollande a Moscovici, o che abbia da temere da chi, Osce, Fmi, JPMorgan, Ficht, governa la finanza internazionale. Ma certo il pieno, fragoroso sostegno americano, sul nostro mercato elettorale è un carico da novanta. Del resto già l’ambasciatore Usa in Italia aveva annunciato il convinto appoggio d’Oltreoceano.

Certo, quando Alcide De Gasperi, dopo la guerra, andò negli Stati uniti con il cappello in mano a ringraziare per gli aiuti del Piano Marshall, erano altri tempi.

Ma il vizietto di considerarci il fedele alleato da usare nel teatro europeo, e in quelli infiammati dalle guerre americane, non cambia. Forse, però, sono cambiati gli italiani, che hanno ben assaggiato i frutti avvelenati della grande crisi provocata proprio da chi oggi ci regala il suo Sì alla riforma costituzionale. Non avrebbe potuto scegliere giornata peggiore, Obama, per rallegrarsi delle riforme renziane. I dati sul fallimento del Jobs act, sulla ripresa dei licenziamenti, sul ritorno delle finte partite Iva, sui centri della Caritas frequentati più dai giovani italiani del Sud che dagli immigrati, ci tengono svegli anche di notte.

Questa mobilitazione internazionale a favore della rottamazione costituzionale dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’importanza del voto del 4 dicembre. E forse non esagerava Rino Formica quando, in una recente intervista al nostro giornale, spiegava che il referendum e la battaglia tra il No e il Sì sarà importante come quella tra monarchia e repubblica.

Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2016 (p.d.)

La legge c’era ed era giusta, ma nessun Comune d’Italia l’ha mai applicata a eccezione di Milano. Ora quella legge sarà modificata da un’altra che eliminai suoi effetti benefici.Il paradosso è tutto italiano. Sul piatto una delle prime emergenze del nostro Paese: la lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo. Per capire bisogna tornare al 2007, quando viene approvato il decreto legislativo 231 “concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo”. Il linguaggio, se pur tecnico, è sostanziale. All’articolo 10 viene iscritta una parola decisiva: obbligo.

La decisione, presa allora dal secondo governo Prodi, impone alla pubblica amministrazione di segnalare qualsiasi operazione sospetta. Questo appare evidente scorrendo il comma 2 dell’articolo 10: “Le disposizioni si applicano agli uffici della pubblica amministrazione”. L’obbligo viene ribadito all’articolo 41 della 231. In più si specifica che le segnalazioni raccolte dai comuni devono essere inviate all’Ufficio di informazione finanziare della Banca d’Italia. Ora la bozza della nuova legge-delega che sarà approvata dal governo entro il prossimo dicembre, ammorbidisce il castello normativo. E lo fa partendo da un punto cardine della 231, l’obbligatorietà. Questo particolare emerge dal nuovo articolo 10 dove la parola è stata cancellata. La retromarcia è evidente. Ma c'è di più: il testo prevede che “le disposizioni si applicano ai procedimenti” solamente “di autorizzazione o concessione”. La 231 rinnovata taglierà molti campi sui quali i comuni possono operare un lavoro informativo. Su tutti gli esercizi commerciali, strumenti primari per il riciclaggio. Insomma, accanto al cambiamento semantico (obbligo/non obbligo) si affianca un approccio difensivo. È evidente che collegare le segnalazioni ad atti autorizzativi significa limitare il rischio che la pubblica amministrazione venga utilizzata per riciclare.

Di ben altro tenore, invece, la vecchia 231 che dà ai Comuni un ampio raggio di azione, imponendo, attraverso l’obbligo, un atteggiamento di attacco. La nuova bozza di legge delega, scritta dai funzionari del ministero delle Finanze, opera una rivoluzione al contrario, eliminando le disposizioni obbligatorie. Evidentemente all’interno del governo Renzi qualcosa non funziona. Manca il dialogo tra i ministeri. Le future modifiche, infatti, smentiscono un decreto ministeriale firmato il 25 settembre 2015 dal capo del Viminale, Angelino Alfano. Quel documento è decisivo perché mette nero su bianco gli indicatori di anomalie che portano alla segnalazione di operazione sospette.

L’atto del ministero dell’Interno è frutto dell’esperienza, unica in Italia, del Comune di Milano. Il capoluogo lombardo, nel febbraio 2014, durante la giunta Pisapia e grazie alla spinta di David Gentili presidente della Commissione antimafia, dà sostanza alla 231. A oggi le segnalazioni di Palazzo Marino arrivate alla Uif sono undici per un valore complessivo di 150 milioni di euro. Diverse le tipologie: dal riciclaggio legato alla criminalità organizzata al finanziamento del terrorismo. A oggi Milano resta l’unica grande città d’Italia con un Ufficio specifico per l’antiriciclaggio con 53 funzionari tecnicamente formati sui vari indicatori di anomalie. Sul punto della nuova bozza il presidente David Gentili ha pochi dubbi: “È incomprensibile e inaccettabile pensare che oggi, dopo che dal 1991 in tutte le leggi di recepimento delle direttive antiriciclaggio, è sempre stata prevista la pubblica amministrazione come soggetto obbligato, questo venga annullato”.

Certo a voler essere sospettosi, in tutto questo potrebbe aver avuto un ruolo la lobby delle banche. È evidente che se il Comune denuncia persone fisiche con conti correnti che non sono stati segnalati dalla banca, l’istituto di credito sarà passibile di sanzioni.

«La piramide del potere si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una "deriva" mediatica, è una linea di frattura politica: è la scena stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi. Ecco la triste sorte di coloro che hanno perduto il "comune"e non hanno più il linguaggio». LaRepubblica, 30 settembre 2016 (c.m.c.)

Jorge Luis Borges evoca, in uno dei suoi testi più famosi e divertenti, una certa enciclopedia cinese secondo cui gli animali si dividono in: «a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi nella presente classificazione, i) che s’agitano come pazzi, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche»… Ho ripensato a questo testo del grande scrittore argentino osservando il moltiplicarsi dei candidati alle primarie che designeranno i rappresentanti dei partiti per le presidenziali del 2017. Ma siamo onesti, non è una specialità francese.

Il processo delle primarie favorisce la moltiplicazione delle candidature in seno a uno stesso partito, e talvolta perfino in seno a una stessa tendenza. Per dare conto di una simile proliferazione di candidature analoghe e cercare di distinguere fra postulanti così simili gli uni agli altri, i media fanno ricorso a metafore ispirate agli universi e ai riti del combattimento o del cimento: dalla corsa a ostacoli (ciclistica o ippica) alla competizione sportiva, al conflitto di archetipi (la forza di Achille, l’astuzia di Ulisse), allo spettacolo, alla serie tv ( House of Cards, Il trono di spade), o ancora al cronotopo della marcia con le sue figure associate (la traversata del deserto, l’ascensione ai vertici, lo stallo, la deriva, la caduta).

L’uso della metafora nel discorso politico non è certo nuovo, ma tende a rafforzarsi quando gli obiettivi politici o ideologici si fanno meno marcati e il personale politico, per forza di cose, diventa più omogeneo. Quando più nulla differenzia un candidato dall’altro sul piano ideologico o politico, bisogna trovare altre maniere per distinguerli, fuori dall’ambito della razionalità politica, in universi narrativi e registri linguistici diversi dalla sintassi politica.

Nell’accavallarsi delle candidature, l’elemento che fa la differenza è la freschezza del segno: lo scintillio di un tweet, di un’immagine o di un semplice accessorio. Matteo Renzi ha saputo sfruttare con abilità questa miniaturizzazione dei grandi obiettivi politici (#lavoltabuona, la camicia bianca e uno smartphone Apple, strizzata d’occhio alla serie House of Cards). La miniaturizzazione agisce come un transistor, il conduttore elettronico utilizzato nei circuiti come interruttore, come amplificatore di segnale, che consente di stabilizzare una tensione, modulare un segnale e tante altre cose.

Propongo di definire questo fenomeno della comunicazione «transistorizzazione » (per cambiare dal pigro storytelling), nel doppio significato di effetto transistor e di trasmutazione storica dei dati della politica. Lo sfavillio dell’eteroclita prende il posto del dissenso democratico. L’esibizione delle piccole differenze (e del narcisismo che le accompagna) si sostituisce alle spaccature politiche e alle battaglie ideologiche.

Il prezzo di questo spostamento è la personalizzazione della lotta politica che aggrava inesorabilmente la spoliticizzazione delle persone, che ci si sforza di compensare attraverso piattaforme digitali di ogni sorta seguite da operazioni porta a porta mirate (il clic e il toc toc). Ma a queste campagne partecipative manca l’essenziale, l’assicurazione di un linguaggio credibile e di un luogo comune dove scambiarlo, accreditarlo. Ed è qui che il testo di Borges, forse, ci dice qualcosa sulla crisi politica che attraversiamo.

Fino a questo momento la vita politica, che si tratti di processi elettorali, dell’organizzazione del dibattito pubblico, della pluralità dei partiti o dell’esercizio del potere, obbediva a una logica di negoziazione. Il campo politico era attraversato da conflitti di interesse che esprimevano, in ultima analisi, gli interessi conflittuali dei dipendenti e dei datori di lavoro. Negoziazione, partiti, rapporti di forza erano i tre concetti fondamentali della ragione politica.

La condizione politica è stata rimodellata negli ultimi trent’anni sotto l’effetto di quattro rivoluzioni intrecciate fra loro, che hanno segnato le società occidentali: 1. la globalizzazione neoliberista che ha trasformato il capitalismo e messo in crisi la sovranità degli Stati; 2. la rivoluzione digitale, la tv via cavo e lo sviluppo di internet, che hanno scompigliato le condizioni sociali e tecniche della comunicazione politica; 3. la rivoluzione manageriale che si è imposta sia negli apparati dello Stato sia nei partiti politici e ha promosso un nuovo modello di uomo politico, più performer che giurista; 4. una rivoluzione della soggettività che si traduce, nella sottocultura di massa, nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di mobilità e flessibilità a quelli di lealtà e radicamento.

Oggi la logica della negoziazione cede il posto a una logica di speculazione e poggia sull’anticipazione di una performance futura. Alla creazione di un rapporto di forza si sostituisce la logica dell’anticipazione. Governare non è più semplicemente prevedere, è speculare sul futuro immediato. E in questa logica non sono più i sindacati o i partiti rappresentativi che intervengono nell’ambito politico, ma attori che cercano di valorizzarsi o di bloccare la loro svalutazione.

Il modello è la start-up politica (come quella di Emmanuel Macron o di Donald Trump) e non più i partiti old school (come il Pd di Matteo Renzi o il Partito socialista di Manuel Valls). L’atomizzazione dello spettro politico evocata all’inizio di questo articolo ne è uno degli effetti. Per l’elettore-scommettitore, non si tratta più di decidere fra partiti, programmi o visioni del mondo, ma di scommettere sul futuro vincente. Il sondaggio si sostituisce all’elezione, il sondato all’elettore. La competenza o l’esperienza cedono il passo all’«indice di futuro» dei candidati. Le primarie hanno aggravato questa logica.

Sono gli stress test del capitale umano. Anch’esse sono basate su previsioni, scommesse, e non sulle qualità presunte o accertate di un candidato. L’homo politicus considerato alla stregua di un qualunque «capitale umano » è un valore in divenire che si apprezza prelazionando un’offerta politica invece che sforzandosi di rispondere alle domande dei cittadini. Una politica dell’offerta politica di cui i sondaggi sono lo strumento centrale: stanno alla democrazia come le agenzie di rating stanno al debito.

Valutano la credibilità dei candidati sul mercato delle opinioni allo stesso modo in cui le agenzie di rating valutano la solvibilità dei mutuatari sui mercati finanziari. Oltre a questo, gli uni e le altre hanno per missione orchestrare, stimolare, influenzare l’attenzione dell’opinione pubblica cittadini e produrre fede nel sistema. Lanciatori di narrazioni, i sondaggi hanno la funzione di mantenere l’attenzione, di scongiurare la fuga o l’astensione. Se li seguiamo, non è in virtù del loro valore informativo o predittivo, ma in virtù della loro funzione drammaturgica(…).

Oggi la perdita di credibilità nelle istituzioni politiche e nella parola pubblica non è un fenomeno congiunturale, è un sintomo della crisi di rappresentanza che colpisce se stessa, legata alla crisi dei vecchi modelli di sovranità statale. Tutto il processo elettorale ormai è visto con grande scetticismo dagli elettori: primarie, sondaggi, comizi, talk show. L’elezione, che prima accreditava l’esercizio del potere e la sua legittimità, è divenuta una sorta di diffidenza, un esercizio non più istituente, ma destituente.

Per dirla sinteticamente, tutta la piramide del potere si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una «deriva» mediatica che dobbiamo denunciare, è una linea di frattura politica: è la scena stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi. Perdita del luogo e delle forme stesse del politico. Ecco la triste sorte di coloro che hanno perduto il «comune» e non hanno più il linguaggio.

Che siamo contro questo sistema capitalistico dissennato ed ingiusto lo ripetiamo da molto tempo. E però da quando l’idea di come dovrebbe e potrebbe essere l’altro mondo possibile si è annebbiata, l’enunciazione ha perduto non poca della sua presa. Questa edizione di Terra Madre appena conclusa a Torino mi sembra importante, al di là del merito della sua specifica tematica, perché non solo ha dato concretezza a quella nostra critica e aspirazione, denunciando con la forza dell’esperienza di milioni di contadini gli effetti nefasti della distruzione della terra e della rapina che subisce per mano dei grandi protagonisti della globalizzazione, ma ha anche indicato i modi attraverso cui è possibile resistere e anche avanzare.

Non voglio descrivere questo evento straordinario perché lo hanno già fatto, e benissimo, nei giorni scorsi su questo giornale, Coscioli, Pagliasotti e Vittone. Mi sono riferita a questi cinque intensi giorni torinesi solo per lo stimolo che io credo offrano a una riflessione politica più generale. Mi spiego.

1) Noiosamente ci ripetiamo da tempo che il modo di far politica è cambiato, ma qualche conclusione pratica stentiamo a trarla. Ecco: Terra Madre rappresenta uno dei modi di un possibile rinnovamento, che consiste nel prendere atto che in questi ultimi decenni molte delle idee che nel passato hanno animato il nostro impegno si sono logorate e occorre adesso fare in modo che tutti riattraversino un’esperienza pratica diretta che faccia capire perché il capitalismo va combattuto. (Non solo la povertà e l’ingiustizia, proprio il sistema).

Informare che ogni anno 84.000 chilometri quadrati di terra fertile vengono sottratti all’alimentazione dalla dissennata cementificazione speculativa, generando obesità per i ricchi e fame per i poveri perché il lavoro contadino è stato a tal punto svilito e sottopagato dalla grande industria agroalimentare da desertificare le campagne e infestare il nostro cibo di veleni, apre un nuovo orizzonte del cambiamento necessario. Così come dar evidenza all’acquisizione da parte della Bayer della Monsanto è la forma più concreta e illuminante per denunciare la crisi della democrazia, visto che questo privato accordo commerciale avrà effetti sulla nostra vita quotidiana ben più pesanti di qualsiasi decisione votata dal Parlamento.

Ma la forza dei discorsi che qui si sono tenuti sta sopratutto nel fatto che non è stato solo ripetuto un astratto discorso sull’ecologia, ma che quel discorso è stato pronunciato da nuovi protagonisti della lotta anticapitalista, i contadini dell’Africa, dell’Asia dell’America latina, ma anche del nostro occidente che li ha dimenticati. Perché una nuova sostanza della politica può essere trovata solo se non ci si limita a denunciare ma se si riescono a mettere in moto i nuovi agenti del discorso che facciamo, se si individuano nuovi soggetti politici (o, come nel caso dei contadini, se si reinventano). Il salto di qualità qui a Torino si è avuto perché sono state coinvolte 500.000 persone, non privilegiati gourmets, ma cittadini che hanno imparato qualcosa di prezioso: nuovi modi di lavorare e anche nuovi modi di consumare. (È vero che il capitalismo ha trasformato i cittadini in consumatori, ma è anche possibile ritrasformare i consumatori in cittadini attivi). Qui si sono viste all’opera nuove reti militanti.

2) Ci arrabattiamo per scoprire cosa sia oggi il lavoro, ben consapevoli che la disoccupazione giovanile non è uguale al passato, ha anche una evidente causa nel ridursi del lavoro tradizionale, quello industriale e impiegatizio. Ebbene, guai se dovessimo finire per pensare che la sola nuova occupazione possibile sia quella offerta da una inutile, pletorica, patologica moltiplicazione del settore della comunicazione (o del fast food), e non, sopratutto, quella offerta da settori scelleratamente abbandonati e che oggi occorre reinventare: agricoltura e servizi collettivi, che rispondano ai nuovi urgenti bisogni che sono emersi: la indilazionabile cura della terra, dell’aria, delle città divenute invivibili. Non, dunque, un indifferenziato stimolo della domanda, come con un po’ di faciloneria viene invocato da qualche tardo keynesiano, ma un massiccio spostamento di risorse (e di attenzione) dal consumo individuale a quello collettivo.

Possibili e anzi necessari sono oggi mille mestieri che il mercato non crea, perché è tanto miope da vedere solo il profitto immediato e personale, non il vantaggio comune e di lungo periodo. («Non mangeremo computer» – ha ironizzato Carlin Petrini).

Il lavoro politico oggi necessario consiste nell’aiutare questo processo, impegnandosi a costruire i soggetti sociali e politici in grado di portare avanti questi discorsi.

3) Impegnarsi a fare queste cose vuol dire rinunciare al progetto di un nuovo e vero partito della sinistra, un soggetto in grado di coagulare attorno a un progetto energie e intelligenze? Non credo, anzi. Significa però evitare di ripetere quello che è stato un limite dei partiti comunisti e anche socialdemocratici: l’autosufficienza e, insieme, lo statalismo. Capire cioè che un partito è vivo nella misura in cui attorno alla sua organizzazione esistono forme più estese di democrazia organizzata, reti sociali attive, movimenti, che ne garantiscano la linfa e contribuiscano giorno per giorno, nell’immediato e senza delegare, ad un mutamento della società che anticipi i progetti di governi e istituzioni, impotenti se non accompagnati da questa trasformazione.

4) Ultima osservazione. Ho letto che un pezzo di Sel si è riunito in una piazza romana per dire che non è d’accordo con un altro pezzo di Sel perché occorre tornare a perseguire l’obiettivo dell’alleanza di centrosinistra anziché quello di dar vita a un partitino del 2%. Mi sembra una contrapposizione davvero pretestuosa. Quando si dice che oggi reinventarsi quell’alleanza non è più realistico non è perché si ritiene che non si debba più dialogare con i milioni di compagni che per quella formula hanno votato e che continuano a militare nel Pd. Ci mancherebbe! Vuol dire solo che non basta più rimettere insieme pezzi di vecchie organizzazioni di sinistra, neppure di quelle della sinistra c.d. radicale (per questo, del resto, con un atto coraggioso, Sel ha deciso di sciogliersi). Che, insomma, occorre un ripensamento più profondo, un mutamento più innovativo del far politica. Nel senso delle esperienze di cui prima ho parlato (A Terra Madre si è stretto un patto di lotta fra 75 associazioni contadine e ambientaliste, compresa, figuratevi!, la Coldiretti, quella che una volta chiamavamo con disprezzo «bonomiana», per raccogliere le firme sotto una petizione europea che blocchi la distruzione del suolo. Una coalizione ben più larga del centrosinistra!). Insomma: ormai non basta più rimettere assieme i cocci, sommare Bersani con Furfaro o con Fratoianni. È questo obiettivo a essere un po’ meschino e vecchiotto rispetto ai tempi che ci sono imposti.

È un obiettivo facile e immediato? No, ma il concetto di slow vale anche per la politica.

Parole di saggezza che vengono da esperienze e sentimenti del passato, ma che sono di stringente attualità per chi voglia comprendere e praticare la Politica senza perdere ciò che lega ogni uomo agli altri uomini.

Il manifesto, 27 settembre 2016


Tra il dicembre del 2009 e l’estate del 2012 Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno intrattenuto una fitta serie di conversazioni con Pietro Ingrao che ci ha lasciato un anno fa, il 27 settembre del 2015. Sono state registrate e trascritte per realizzare un volume. Alcuni capitoli sono pronti per la stampa, altri attendono una revisione.Nel marzo del 2011, frutto di quegli incontri, fu pubblicato Indignarsi non basta presso l’editore Aliberti, che ebbe grande diffusione ed è statoGli stralci qui proposti sono invece inediti, risalgono a un incontro seguente della primavera del 2011. Li abbiamo scelti, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, per l’attualità che i giudizi di Pietro Ingrao rivestono riguardo alle discussioni su Parlamento e legge elettorale.

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Ci accade ogni giorno di essere presi nelle maglie di una struttura artificiale. E questo sembra esserci “da sempre”. L’ordine ti prende e stringe fin dalla nascita, come se fosse un dato naturale appartenervi. “Stato” è il nome che diamo ad un insieme composito, forse per nulla ordinato e coerente, di regole, istituti, funzioni, dentro il quale svolgiamo le nostre vite.

La norma non realizza una parte insopprimibile della relazione e dell’esperienza umana. Che non può essere rimossa, relegata alla sfera privata. Non può essere cancellata, sia pure come eccedenza e differente dicibilità, nell’agire politico, o in quella sua peculiare manifestazione che è l’atto legislativo.

Se non altro come consapevolezza del limite, come dubbio sulla pretesa di imparzialità della legge. Personalmente non mi sono affidato in primo luogo alla scrittura di norme. Quando dico “volevo la luna”, nomino l’esigenza di un salto, prima di tutto nel linguaggio e nelle relazioni.

Nella politica è questo che mi coinvolge: nella vita umana le leggi contano, e dunque l’attività legislativa è importante, non può essere sottovalutata. Ma c’è un di più nella politica che è comunicazione, relazione. Una relazione che assume le forme più strane, particolari. Questo in me si è unito spesso con… come lo vogliamo chiamare? ma sì, chiamiamolo amore per la natura. I cieli, le inclinazioni del tempo che scorre, l’alzarsi della luna nelle notti di estate: mi ha sempre trascinato, mi ha dato molta emozione.

Sono stato immerso, incollato alla politica, nel suo farsi quotidiano, ma ho sempre avvertito chiaramente una riserva interiore. Lo testimonia la poesia che amo terribilmente… c’è un di più che la politica non esaurisce in sé stessa. E dal quale, tuttavia, non può prescindere.

Non credo alla separazione tra sfere distinte, segnate da confini definiti: privato e pubblico, interiorità ed esteriorità, individuo e collettivo, società civile e Stato. Non è così nella vita di ognuno di noi e la politica non può non intrecciarsi alla complessità dell’essere umano. Anche se non potrà mai comprenderla e darne conto, per intero.

Conosco bene la realtà del sistema istituzionale e dunque so quanto siano fondate le ragioni della critica. So quanto di tecnico e separato vi è nel Parlamento, e quanto questo contrasti con il suo ruolo costituzionale, di esercizio della sovranità popolare. Ho potuto verificare, soprattutto da presidente della Camera, quanto fosse difficile far funzionare il Parlamento, quale luogo effettivo di formazione delle scelte, di mediazione e di sintesi per le decisioni. Tuttavia non mi persuade la riduzione a “Palazzo” dell’Assemblea elettiva, e degli eletti a “casta”: un mondo separato, chiuso nei suoi privilegi e nei suoi meccanismi di autoconservazione.

La rappresentanza, di questo sono convinto, non è mai mera delega. È una relazione attiva, quali che siano concretamente le sue modalità. Ed è qui il problema. Se è una relazione costruita sullo scambio di interesse, o sul messaggio mediatico. O, viceversa, su una condivisione di esperienze, un dialogo sulle idee, in qualche modo un patto tra soggetti, diversamente coinvolti nella politica. Nella Costituzione è scritto che il parlamentare rappresenta la nazione, senza vincoli di mandato. Nella storia politica di cui sono stato partecipe sono stati i partiti a dare costrutto pratico, materiale, alla rappresentanza.

Crisi dei partiti di massa e crisi della rappresentanza sono due facce della stessa medaglia. O restituiamo sostanza e trasparenza alla relazione tra rappresentanti e rappresentati, e le Assemblee elettive tornano ad essere un luogo di confronto che conosce momenti di conflitto e momenti di mediazione e sintesi, oppure si acuirà la divaricazione tra procedure del consenso e sedi della decisione. Da un lato la personalizzazione della politica, affidata a poche figure di leader e al loro messaggio, dall’altro una miriade di tecnici, concentrati su questioni settoriali, nei vari gabinetti e vertici di concertazione corporativa.

È davvero singolare che mentre si invoca ad alta voce una semplificazione della politica ed un rapporto più diretto ed immediato dei cittadini con chi li governa, lo Stato si dilata. Cresce e si articola attraverso un insieme di apparati e organismi più o meno informali, in ogni modo sottratti ad ogni forma controllo e di trasparenza democratica. Ognuno di noi ne ha esperienza diretta.

Lo Stato è un prisma di specchi nel quale si rifrange ogni giorno, sui diversi aspetti della vita, una particolare modalità del potere politico. E né come individui, né come gruppi sociali possiamo fronteggiare questa influenza, senza le necessarie mediazioni. A questo sono servite le istituzioni della rappresentanza, sociale e politica. Francamente non vedo altri strumenti, altre forme politiche che possano svolgere questa funzione, in modo più efficace.

Nella Costituzione è il Parlamento, non il governo, a rappresentare la sovranità popolare. E’ vero, nei fatti ha prevalso una diversa, perfino opposta, concezione politica. Ma i guasti che ha prodotto, di inefficienza e degenerazione, sono ormai cronaca quotidiana. Sono stato sempre convinto che la prima riforma è il monocameralismo. Una platea di mille membri non può funzionare. Più alto è il numero, più cresce a dismisura la lentezza e l’inefficienza dell’istituzione.

Se riduci il numero dei parlamentari ed hai una sola sede rappresentativa la selezione dei deputati corrisponderà più a criteri politici che non ai mille rivoli degli interessi corporativi e delle clientele locali. Non è la sola riforma da fare. Anche la legge elettorale deve essere adeguata alla centralità dell’istituzione rappresentativa. Il modo in cui si formano le Assemblee elettive orienta le scelte dei partiti, il loro modo di organizzarsi, di scegliere i propri dirigenti, di rivolgersi all’opinione pubblica e costruire partecipazione e consenso.

Democrazia è parola che uso con sobrietà. Tanto più oggi. Ma non so ridurre la democrazia a mera procedura di legittimazione dei governanti. Se guardo al modo in cui ho agito politicamente la valorizzazione dell’istituto rappresentativo è un punto fermo. Sono stato Presidente della Camera in anni cruciali di transizione. Ho visto affermarsi culture e pratiche di frantumazione e scomposizione del sistema politico ed istituzionale. Si avvertiva già con forza la spinta verso il decisionismo e la governabilità assieme a quella, apparentemente opposta, alla proliferazione di sottosistemi, al peso crescente degli apparati e delle burocrazie. Mi sono convinto che non dipendevano da condizioni contingenti, ma avevano radici profonde.

Per capire ho ritenuto necessario studiare, ho rinunciato alla Presidenza della Camera e sono andato a presiedere il Centro studi per la Riforma dello Stato. Vorrei fosse chiara qual è stata la ragione di fondo che mi ha spinto: il coinvolgimento delle classi popolari nella formazione delle scelte, costruendo l’indispensabile raccordo tra la loro azione politica e le istituzioni.

Come si può realizzare questo coinvolgimento, se non si assicura trasparenza e libertà di confronto nelle Assemblee elettive? Come possono, altrimenti, esercitare un effettivo potere, a fronte della concentrazione e specializzazione dei poteri economici e finanziari, militari e burocratici, tecnologici e dell’informazione? In quel breve testo, Indignarsi non basta, riflettevo sulla mancanza di un comune collante politico.

Cambiano ovviamente le modalità con cui i poteri agiscono per dividere e frantumare, ma il deficit di rappresentanza ha un peso rilevante nella perdita di coesione sociale. In questo trovo conferma di una mia convinzione di fondo. Se la democrazia non si organizza e non si dota di poteri effettivi anche i conflitti sociali cambiano natura, muta e si restringe il senso di cosa è politica.

Non dimentico quanto fosse acuta, drammatica, la preoccupazione nel Pci che si riproducesse la frattura tra le classi popolari e le classi dirigenti, che la rivolta sociale assumesse le forme del “sovversivismo”. Se il Pci ha avuto una funzione nella storia politica di questo paese è stato quello di aver lavorato tenacemente a costruire legami tra le classi popolari e le istituzioni democratiche.

Non sempre ci siamo riusciti, ma non è arretrando da questo sforzo che si troveranno alternative ai nostri limiti e sbagli.

«Dopo i cinque anni al vertice, Kim si affaccia al secondo mandato senza avere rivali. Una farsa che in Banca mondiale va avanti da parecchi anni». Re:Common, 22 settembre 2016 (p.d.)

La settimana scorsa è scaduto il termine per la presentazione delle domande per l’ambita posizione di Presidente della Banca mondiale. L’unico a farsi avanti su proposta del governo statunitense – serve infatti un esecutivo che avanzi le candidature – è stato proprio l’attuale capo dell’istituzione, Jim Yong Kim.

Dopo i cinque anni al vertice, Kim si affaccia al secondo mandato senza avere rivali. Una farsa che in Banca mondiale va avanti da parecchi anni, dal momento che per tradizione è il governo americano di fatto a nominare il Presidente – così come i governi europei “indicano” il Direttore del Fondo monetario internazionale.

Questa volta tutti si attendevano che emergesse un candidato più forte e credibile. Anche perché Kim ha clamorosamente fallito. Il dottore americano di origini sudcoreane, fortemente voluto da Barack Obama per il suo passato nella lotta all’Hiv, ha infatti deluso tanti, che ne hanno chiesto le dimissioni, o quanto meno un non rinnovo del suo mandato. In primis l’Associazione dello staff della Banca stessa, che ha criticato ferocemente la sua riforma della struttura interna e la mancanza di leadership su molti dossier.

Inoltre Kim è stato giudicato in maniera negativa da diverse organizzazioni della società civile internazionale, che sotto la sua guida hanno constatato un annacquamento delle politiche ambientali e sociali, un utilizzo di nuovi strumenti finanziari opachi e un ritorno del sostegno alle grandi dighe in Africa e altrove, progetti che comportano spesso pesanti impatti ambientali e sociali. Kim ha fatto inorridire molti attivisti quando recentemente ha affermato che lo sviluppo comporta inevitabilmente spostamenti di massa.

Per dovere di cronaca va aggiunto che mai come negli ultimi cinque anni la Banca mondiale ha vissuto accesi conflitti Nord-Sud al suo interno, o per meglio dire paesi occidentali contro paesi emergenti. Diversi dossier sono stati fermati proprio dall’opposizione dei governi del Sud globale che oramai contano davvero, Cina in primis.

Nonché la World Bank per la prima volta vive la competizione di nuove istituzioni finanziarie internazionali create fuori dall’orbita statunitense, quali la Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture e la Nuova Banca di Sviluppo dei paesi BRICS. Una competizione tutta geopolitica, più che riguardo cosa queste realtà vogliano finanziarie, dal momento che parliamo sempre di grandi opere vecchio stile condite della solita ideologia liberista – vedi il nuovo mantra del settore privato come unico e indiscutibile motore di sviluppo.

Così la “vecchia” World Bank compete al ribasso, anch’essa tornando a finanziare mega opere infrastrutturali, facendo un po’ meno attenzione all’ambiente e ai diritti sociali, non parlando di diritti umani per non urtare le sensibilità di alcuni, sebbene a parole la difesa del clima e dei diritti delle donne sono la priorità.

Che succederà a questo punto? Kim facilmente otterrà il secondo mandato, già agli incontri di ottobre di Banca e Fondo monetario. Per i governi del Sud una Banca mondiale debole, ma che presta sempre tanto, è utile. I paesi del Nord, quali quelli europei, cercano sempre di prendere sufficienti appalti per le loro imprese, cercando di far contribuire un po’ di più i paesi emergenti. Insomma, tutto cambi affinché nulla cambi alla Banca mondiale.

«Siamo in una situazione critica», ha confermato la cancelliera Merkel. «Il rischio di sfaldamento dell’Europa non è mai stato così grande. Parlo proprio della separazione, del ritorno alle frontiere, del rifiuto della solidarietà, della fine dell’euro».

La Repubblica, 17 settembre 2016 (m.p.r.)

Un padre troppo rigido che vuole solo risparmiare. Una madre troppo frivola che pensa solo a spendere. Dei figli ingrati e ribelli che non aiutano in casa e pensano solo alla paghetta. Ora che la vecchia zia inglese, ricca ma rompiscatole, ha annunciato che se ne va, salvatela voi una famiglia così. Poiché l’Unione europea non si è ancora dotata di un consultorio familiare, i leader dei Ventisette si sono trovati ieri a Bratislava per cercare di risolvere «la crisi esistenziale» dell’Europa innescata dalla Brexit. Ma, proprio come succede a certe famiglie disfunzionali, non hanno trovato soluzione migliore che ignorare i troppi motivi di contrasto per concentrarsi sui pochissimi punti di possibile consenso. Non c’è da stupirsi che Renzi, ieri, abbia usato toni così duri nella conferenza stampa finale, prendendo le distanze da Berlino e Parigi e sottolineando senza perifrasi la sua insoddisfazione.

Tra i potenziali terreni di intesa c’è il rafforzamento di una vera Difesa europea, sulla base di un documento messo a punto dall’Alta rappresentante Federica Mogherini e ripreso da una lettera congiunta di Merkel e Hollande. Potrebbe essere un passo avanti molto importante sulla via dell’integrazione. Ma certo da solo non basta per tenere insieme una famiglia che appare sempre più divisa. E se la compagine non ritrova le ragioni della propria convivenza, anche la Difesa comune, in prospettiva, va a farsi benedire.

Uno dei pochi segnali veramente incoraggianti che è arrivato dal vertice informale di ieri, il primo senza la partecipazione degli inglesi, è nel linguaggio usato dai capi di governo. Per una volta, i leader europei hanno smesso di fare finta di nulla, hanno riconosciuto la profondità dei fossati che li separano e hanno ammesso esplicitamente la gravità del momento. «Siamo in una situazione critica», ha confermato la cancelliera Merkel. «Il rischio di sfaldamento dell’Europa non è mai stato così grande. Parlo proprio della separazione, del ritorno alle frontiere, del rifiuto della solidarietà, della fine dell’euro», ha detto Hollande che, forse perché è il più debole, appare anche il più sincero.
Alla fine, Merkel e Hollande hanno scelto di tenere una conferenza stampa congiunta. Anche questo, nonostante l’irritazione di Renzi, è un buon segnale, perché mostra che l’asse franco tedesco, nonostante tutto, continua a resistere. Se Francia e Germania reggeranno l’urto dell’ondata populista alle elezioni dell’anno prossimo, e non è detto che accada, c’è speranza che il nocciolo duro dell’Europa possa continuare a garantire l’Unione.
Dietro i troppi silenzi del vertice di Bratislava, proprio questa è infatti la partita che si sta delineando sul dopo Brexit. Una partita che avrà tempi necessariamente molto più lunghi della scadenza di marzo che si sono dati i capi di governo. L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, tema che ieri è stato sfiorato solo di sfuggita, dimostra infatti che l’idea di una Europa troppo elastica, capace di allargarsi all’infinito diluendo le ragioni di fondo del proprio esistere, non è in grado di reggere alle tensioni politiche che genera. Oggi la Ue non può permettersi nuove secessioni. Ma in prospettiva la soluzione di un nucleo centrale più ristretto, attorno al quale possano trovare una collocazione i Paesi che non vogliono più condividere la loro sovranità politica, come appunto gli inglesi e la galassia dell’Europa centro-orientale, appare come l’unica strada possibile a chi non vuole perdere quanto finora è stato costruito.
Sono stati proprio i Paesi del “gruppo di Visegrad”, Polonia, Slovacchia, Cechia, Ungheria, a porre ieri con più forza la necessità di ridefinire gli equilibri tra sovranità nazionali e sovranità europea. È una questione vitale, ma che la Vecchia Europa non può affrontare adesso per due motivi. Il primo è che deve innanzitutto sopravvivere alla sfida dei populisti, che dominerà nel prossimo anno le elezioni olandesi, francesi e tedesche. Il secondo è che in questa fase il patto fiduciario, indispensabile per ricompattare il nocciolo duro, è reso impossibile dalle crescenti divergenze sulla strategia economica da seguire. Il danno che deriva dall’incomprensione tra “falchi” e “colombe” sull’austerità va ben al di là dell’ambito contabile in cui si è formato. È diventato unvulnus politico, un deficit generale di fiducia che rende impossibile continuare sulla strada dell’integrazione, come dimostrano i toni irritati usati ieri dal presidente del Consiglio Renzi.
Come nelle vere famiglie, occorre che il padre avaro e la madre spendacciona ritrovino le ragioni del vincolo di fiducia e di solidarietà che li unisce. Solo a quel punto, se ci arriveranno, potranno confrontarsi con i figli. E costringerli a scegliere se restare in famiglia accettandone le regole e la coesione, oppure uscirne e decidere quale strada imboccare per il loro futuro. Ma, a Bratislava, questo momento della verità appare ancora lontano nel tempo.

«Repubblica, 4 settembre 2016 (c.m.c.)

Non c’è scampo alla retorica della purezza in politica: funziona fino a quando chi la brandisce non amministra.

Si tratta di una logica polemica, adatta a chi sta all’opposizione. Il problema è che quando un movimento di questo tipo si candida al governo della cosa pubblica, si espone fatalmente a subire gli effetti della retorica dei puri. Nella dimostrazione di impotenza che sta dando il Movimento 5 Stelle con il tentativo di formare una giunta nella Capitale vi è forse la prova più inequivocabile della logica aberrante e distruttiva cresciuta dalla macerie di Tangentopoli, sulla quale ha preso forma il movimento di Beppe Grillo: quella che identifica il buon governo con la purezza della coscienza morale, che crea un’alternativa tra “trasparenza”e “competenza”.

Lo scriveva molto bene Massimo Giannini in chiusura della sua analisi, due giorni fa: il «motto “meglio inesperti che disonesti”, per quanto rassicurante, non può più bastare».

Non solo non può bastare, ma è suicida; assurdo, sbagliato alla radice. Si sorregge sull’idea che la capacità politica sia diabolica e corrotta. Che l’ingenuità sia miglior divisa della prudenza; che anzi, a ben guardare, non ci sia nulla che si possa a ragion veduta chiamare “competenza politica”.

La competenza sarebbe infatti solo di un tipo: quella che si misura nei campi professionali, frutto di conoscenze tecniche e di valutazioni oggettive. Su queste premesse impolitiche ha preso corpo il metodo del M5S di raccogliere i curriculum vitae per scegliere candidati politici e amministratori. Come se essere un buon professionista sia lo stesso che essere un buon attore politico. Questa è l’idea di buon governo coltivata dall’antipolitico Movimento Cinque Stelle.

Il Movimento sta annaspando e, diciamo pure, rischiando di fallire la sfida per il governo di Roma (una sfida che, certo, è il frutto di decenni di cattivo governo e di illegalità di cui i cinquestelle non sono responsabili). Rischia di fallire a causa del suo rifiuto della politica e della forma partito come organizzazione moderna e, vivaddio, democratica della politica. Che ci siano stati e ci siano partiti e politici corrotti non vale a liquidare partiti e attori politici. La patologia non squalifica la fisiologia. Da qui i pentastellati dovrebbero procedere se vogliono far sì che il loro progetto di buon governo di Roma non fallisca e che l’appello alla trasparenza sia efficace.

La “trasparenza” nell’agire pubblico è definita da leggi e norme etiche condivise che danno certezza di conoscenza. Un gruppo politico ha alcuni obiettivi che tutti devono essere messi nella condizione di sapere se e come sono attuati; perché, per esempio, le persone preposte per la loro attuazione si sono ritirate. Quali sono le ragioni dei dissensi. La trasparenza non nasce per magia da una serie di commenti pubblicati sulla pagina Facebook della sindaca, scriveva Giannini, e non coincide con «una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto». È il giudizio politico, la valutazione sulle ragioni di quelle dimissioni come di ogni altra scelta pubblica che fa di un documento un documento politico. La trasparenza non consiste nel dare conto del fatto “nudo e crudo”.

Se i giudizi politici sono annullati per non uscire dal tracciato secco e spoglio del fatto, se la burocratica comunicazione è identificata con la trasparenza, allora la capacità di scelta e di azione, e infine di giudizio politico degli attori è gravemente menomata. Il blog al posto del partito e il resoconto scarno al posto del giudizio politico: sono queste le strategie che decretano la fatale impotenza del M5S. Mesi fa avevamo parlato dell’insostenibilità pratica della retorica della purezza, un ideale di onestà come qualità della morale soggettiva non dell’etica pubblica. Oggi gli effetti di quella logica si mostrano nell’impasse in cui si trovano Raggi e i “suoi” amici o gli “altri”, i non “suoi”.

È fatale: se la politica per essere nobilitata si fa una succursale o del comportamento privato o di quello burocratico, l’esito sarà non la buona politica ma una guerra tra gruppi. È paradossale che per evitare il “compromesso” (svilito spesso ad inciucio) e per praticare la regola della professionalità tecnica i cinquestelle finiscano per dare corpo al peggio della corruzione in politica: la lotta tra fazioni. Mentre chi sta fuori non è messo nella condizione di sapere e capire.

Riemerge «la possibilità e la desiderabilità che la società si governi da sola, senza un governo politico.Certo, la deregulation è dominante, il lavoro è precario, e la sicurezza pensionistica un sogno. Eppure tutto sembra andare per il meglio, come nel paese di Pangloss». La

Repubblica, 1 settembre 2016 (c.m.c.)

Il mito liberale e quello anarchico si incontrano in un punto: la possibilità e la desiderabilità che la società si governi da sola, senza un governo politico né una classe politica separata che ne diagnostichi i bisogni e imponga soluzioni.

Robert Nozick dedicò a questa utopia anarco-liberista riflessioni importanti e più che mai attuali. Pochi anni fa il Belgio riuscì a cavarsela egregiamente senza un esecutivo per un anno e mezzo. Oggi una simile situazione si ripropone in Spagna, dove la società civile sembra farcela molto bene pur senza un esecutivo che funzioni e con la prospettiva di una nuova tornata elettorale che, si spera, faccia uscire il Paese dal blocco del tripolarismo. Dallo scorso dicembre la Spagna è senza un governo stabile eppure, scriveva Ettore Livini ieri su Repubblica, non vi è alcuna catastrofe: il Pil cresce “a ritmi da tigre asiatica”, crescono i posti di lavoro, lo spread con i Bund è più basso di quello dell’Italia.

Certo, la deregulation è dominante, il lavoro è precario, e la sicurezza pensionistica un sogno. Eppure tutto sembra andare per il meglio, come nel paese di Pangloss.

Le discussioni politiche sulla necessità di governi forti corrono parallele alla cronaca di queste rare situazioni in cui sembra imporsi il mito di un apparato immateriale di norme condivise capace di tenere insieme la società con lacci meno arbitrari di quelli imposti dalla politica, dominata dalle volontà elettorali e dalle trattative tra i partiti. Ovviamente si deve presumere che la società sia coesa abbastanza da procedere pacificamente, con interventi coercitivi minimi o isolati. In tale condizione di forte omogeneità egemonica, la relazione tra governo politico e società civile può allentarsi. Questa è la premonizione del movimento liberista.

Commentando il collasso dei regimi socialisti e la conseguente consunzione delle ideologie politiche classiche nei Paesi occidentali, Francis Fukuyama sosteneva anni fa che queste trasformazioni post-democratiche avrebbero rafforzato la percezione che non solo non ci sarebbe stata alternativa al dominio neoliberale, ma inoltre che questo dominio sarebbe stato essenzialmente di natura non politica, capace di sopravvivere senza un governo centrale come quello messo in essere dagli Stati nel corso degli ultimi due secoli. Il declino della motivazione individuale a partecipare alla vita politica elettorale era secondo Fukuyama un fenomeno correlato al costituzionalismo funzionale di una società che si autogestisce. E gli esempi rari ma non irrilevanti come quelli del Belgio e della Spagna sono indicazioni conturbanti di quanto poco irrealistico sia il mito del nuovo ordine della self- governace society.

È interessante anche osservare come questi fenomeni eccentrici di autogovernance procedano paralleli all’argomento pressante a favore di esecutivi forti che vadano a correggere la democrazia parlamentare classica, iperpolitica e basata su una società strutturata per corpi intermedi e partiti. In entrambi i casi si auspica un minimalismo democratico.

Un’aspirazione che gli estensori del documento sulla Crisis of democracy per la Commissione Trilaterale avevano caldeggiato già nel 1975: per correggere una società civile troppo politicizzata e con una rappresentanza politica troppo direttamente nadprotagonista nelle scelte dei governi. Interrompere questo circolo vizioso tra società e politica era possibile, si legge nel documento della Trilaterale, correggendo il sistema istituzionale in senso esecutivista e nello stesso tempo liberando la società civile dai vincoli delle politiche redistributive e dallo stato sociale. Il minimalismo democratico è coerente con questo progetto di depoliticizzazione. In questa diagnosi, il declino della partecipazione nei partiti e nella politica elettorale non è soltanto desiderabile, ma segno della funzionalità dell’ordine sociale: l’apatia politica è indice di buona salute del sistema e di autonomia della società civile dallo Stato.

Tale concezione della governabilità nel volgere di pochi anni è entrata a far parte del discorso pubblico corrente, legata a un’idea secondo la quale gli individui sono meno desiderosi di associarsi, soprattutto in partiti, assorbiti dal perseguimento delle loro carriere. La politica è sempre più un orpello dunque e, come nel caso spagnolo, quasi il residuo di un mondo disfunzionale e antico.

Antonio Arroyo, 24 anni e una laurea in Economia aziendale mai sfruttata così sintetizza lo stato delle cose nell’intervista di Livini: «La politica ha fallito. Siamo orfani del bipolarismo. In questi giorni i partiti litigano persino su dove sedersi in Parlamento eppure le cose non vanno proprio male: da quando la Spagna non ha più medici al capezzale sta molto meglio!».

«». Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2016, con postilla (c.m.c.)

Una società frammentata che viene gestita senza progetti unitari e chiari. Che ha urgente bisogno di definire quali devono essere i rapporti fra il Parlamento e il governo, per ritrovare la capacità di individuare obiettivi definiti e specifici al di là delle esigenze del momento.

Nei giorni scorsi da Giuseppe De Rita è arrivata una provocazione. Si è domandato,con un artificio retorico, «se abbiamo oggi una politica della ricerca scientifica, una politica industriale, una politica dello sviluppo universitario, una politica della cultura, che siano espressione di progettazione e volontà politica» (Corriere della Sera, 22 luglio 2016). Per concludere che abbiamo, piuttosto, un avvicendarsi cumulativo di emendamenti particolari che lasciano spazio a una continua frammentazione delle scelte. La parola emendamento viene usata più volte da De Rita e significa la coazione di poteri particolari, settoriali senza impostazione politica.

Del resto, e lo sappiamo bene, le leggi finanziarie sono “omnibus” pieni di emendamenti, strumenti di tutela di interessi particolari. Viviamo in una società del frammento con il primato dell’emendamento. Gli strumenti di questa tendenza sono le leggi finanziarie, che sono l’area di rincorsa di pressioni burocratiche e corporative in vari settori del mondo politico.

Le leggi finanziarie avrebbero lo scopo di adeguare le entrate e le uscite del bilancio dello Stato, delle aziende autonome e degli enti pubblici che si ricollegano alla finanza statale, agli obiettivi di politica economica; attraverso le leggi finanziarie vengono operate modifiche a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio.

Prescindendo dalla funzione della legge di bilancio va sottolineato il risvolto politico istituzionale della stessa legge che rappresenta la verifica puntuale del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Essa compone una serie di provvedimenti concreti e spesso singolari. La legge mette in evidenza l’integrazione politica di due organi ed esalta la crisi perenne del loro incerto rapporto.

La prassi politica che non ha saputo rinunciare ai benefici immediati della causalità e frammentarietà non in funzione dei bisogni di una programmata gestione della cosa pubblica, ma di tendenze e richieste momentanee corporative messe in evidenza proprio dall'andamento disordinato e approssimativo dell’azione di governo.

«Governare con provvedimenti finanziari non è propriamente governare ma andare dietro alle cose per tenere in rotta in qualche modo la barca con un timoniere continuamente all’erta e un equipaggio inquieto sulla propria sorte». Così scriveva nel 1986 Giorgio Berti, il quale aggiungeva che «si afferma una concezione del caso e dell’emergenza».

Il sistema fiscale segue alla perfezione la politica degli emendamenti . «Quando sotto falso nome si impongono veri e propri tributi al di fuori della regola costituzionale della capacità contributiva. Il sistema viene impostato al di fuori della regola della solidarietà, perché la tecnica legislativa è funzionale alla politica degli emendamenti e ne segue la casualità».

Vengono moltiplicati, così, i casi di tassabilità (bis, ter, quater, quinquies, così vengono gonfiati i commi delle leggi fiscali); vengono modificate le leggi di applicazione vanificando i termini, il sacrosanto principio della decadenza e quindi dell’affidamento del contribuente; viene fatto ricorso alle leggi interpretative con effetto retroattivo.

E resta da vedere se la riforma appena varata della legge di bilancio saprà superare questi difetti.Sono tante, infatti, le leggi che nell’introdurre nuove forme di tassazione si fregiano del pomposo titolo di «semplificazione» e «certezza del diritto». Ma l’ordinamento tributario alla ricerca, comunque, di un aumento scriteriato di gettito produce l’aumento dell’evasione, perché si inasprisce la tassazione esistente e non si colpiscono i veri evasori.

Le norme non sono individuabili e non sono leggibili, quando sono fatte di articoli dove domina il rinvio e la ricostruzione della legge emendata. Non sono scritte come prescrive lo Statuto del contribuente «riportando il testo continuamente modificato» (articolo 2, comma 4 della legge 212/2000), ma hanno una scrittura che sembra affatto opposta per non essere compresa da giudici e funzionari. Ci pensano, poi, i privati con sedicenti codici tributari che non vincolano i giudici a cercare di ricostruire un quadro comprensibile.

Ma come si esce dalla politica degli emendamenti? Si potrebbe dire con una cultura politica diversa. Ma se il problema è quello dei rapporti fra Governo e Parlamento: bisogna stabilire i confini tra i due poteri. Dobbiamo ancora decidere se siamo una repubblica parlamentare. Dove il Parlamento traccia le linee di programma di governo e non cogestisce con la politica degli emendamenti. Questa è la vera riforma costituzionale alla quale si deve ancora pensare.


Veramente singolare che il commentatore del giornale del padronato italiano non si sia accorto che la "riforma" per la quale Renzi e i suoi supporter continuano a dare spallate straordinarie sia l'esatto contrario di quello auspicato dal prof. De Mita: né Governo né Parlamento, tutto il potere al Capo.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (p.d.)

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit,è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione). Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato –né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2.Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto,tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari. Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all ’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élitefin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioniedalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

».

Il manifesto, 24 giugno 2016 (c.m.c.)

Nel budello arroventato di via Cupa, all’entrata del plurisgomberato Baobab, simbolo dell’accoglienza dei migranti apolidi e senza dimora nella Capitale, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il portavoce di Diem 25 («Democracy in Europe Movement 2025») e l’ex ministro dell’economia greco Yanis Varoufakis hanno esposto ieri le prime linee di un’«agenda paneuropea formata da un rete di città, regioni e governi ribelli» contro l’austerità.

Sarà, verosimilmente, questa la cornice in cui si muoverà il «movimento» di cui parla De Magistris dalla rielezione a palazzo San Giacomo. Un movimento che dovrebbe essere coordinato dal fratello del sindaco Claudio, «spin doctor» e accreditato come mente dell’operazione.

Messa in ombra dall’affermazione del movimento Cinque Stelle a Roma e Torino, e liquidata con la categoria di «populismo» (che, per il mainstream ormai non vale più per i grillini), la formula politica descritta da De Magistris e Varoufakis sembra più complessa rispetto alle astratte categorie liquidatorie degli editorialisti moderati. L’intreccio con la prospettiva di Diem 25, realtà fin’ora rimasta in ombra e quasi disincarnata, permette di tracciare una prospettiva europea all’esperienza municipalista napoletana, permettendo di liberarla dai luoghi comuni antimeridionalisti.
«Iniziamo da questo marciapiede – ha detto Varoufakis – per dimostrare che c’è un’alternativa alle politiche tossiche e alle economie sbagliate di Bruxelles. La nuova politica europea deve partire dalle strade e dalle città sotto l’ombrello di un movimento europeo».
Lo schema politico è quello della federazione politica delle città contro l’Europa degli Stati: un’idea di decentralizzazione e autogoverno che trae spunto dalle Costituzioni antifasciste del Dopoguerra, dalle varie sfumature della democrazia partecipativa (Social Forum di Porto Alegre, il modello «bolivariano», l’orizzontalità della rete, movimenti come Podemos a poche ore dalle elezioni spagnole). Forte è anche il riferimento al concetto di «autonomia» in senso sia municipalista sia politico.
Oltre a Napoli, sostiene Varoufakis, ci sono Barcellona e Madrid, La Coruna e Dublino. Su questa scia, De Magistris svela un altro motivo del blitz romano davanti a 500 persone, strette e accaldate: sondare gli umori della città dove i Cinque Stelle hanno spazzato via il «Sistema Pd». «Buon lavoro alla sindaca Virginia Raggi. Mi auguro – ha detto l’ex magistrato – che tra Napoli e Roma ci possa essere un rapporto di fattiva collaborazione. Guardiamo con interesse soprattutto a chi è contro il sistema».

Sono le prime prese di contatto con i Cinque Stelle, una realtà ormai data al 30% nazionale, in continua trasformazione e accreditamento. È di ieri la loro sorprendente conversione europeista: nell’imminenza degli esiti sul «Brexit», un post sul blog di Grillo sembra avere abbandonato l’alleanza con Farage e cambiato l’orientamento politico «no-euro» del movimento: «L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale – si legge – per questo il Movimento 5 Stelle si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».

Resta da capire se ai Cinque Stelle interessa la proposta De Magistris-Varoufakis o se continueranno ad occupare tutti gli spazi politici a disposizione nella battaglia finale contro Renzi e il Pd. Da questo si capirà anche lo spazio per l’esperimento europeista di Napoli.

«Se mi vedo alla guida di un movimento sinistra in Italia? No – ha detto De Magistris – Io mi vedo sindaco di Napoli» ma «porteremo la nostra esperienza oltre i confini». Per il momento vede Napoli città autonoma sul modello di Barcellona. «Rientra in una cornice costituzionale agli articoli 117 e seguenti. Non condivido il neocentralismo autoritario» del governo Renzi «che non aiutano le comunità locali. Dal basso si può costruire un nuovo modello».

«I governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro- destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5S è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti».

La Repubblica, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia. In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D’altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi.

In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva “fondato” Forza Italia sull’anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall’irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte - o quasi - le aree del Paese.
Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l’impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l’inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni - cioè, circa 50 - ha, infatti, cambiato colore.
Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro- destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno. A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.
Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori “diversi”. Che provengono da partiti e da aree “diverse”. Ma soprattutto da “destra”, quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com’è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.
Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum “costituzionale”. Pardon, “personale”. Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un’arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi.
Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la “domanda di cambiamento”. Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti “in tempi di cambiamento”. Come quelli che stiamo attraversando.
Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al disorientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la “politica” ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la “messa è finita”. Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene - e diverrà - un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne - e prevederne - i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni.
L'ultimo libro di Paolo Leon

«Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo». Il manifesto, 16 giugno 2016

Avevo conosciuto Paolo Leon ai tempi della nostra libera docenza, tempi accademicamente migliori di quelli presenti, e ne avevo poi sempre letto gli scritti con stima e simpatia per la sua padronanza dei Classici: Smith Ricardo Marx Keynes, per la sua sprezzatura nei confronti della teoria economica oggi dominante, per la sua conoscenza dei fatti e del contesto istituzionale, e per la sua passione politica.

Il 31 maggio di quest’anno mi aveva annunciato l’invio di un suo libretto, ma l’11 giugno se ne è andato.

Il libretto è: Paolo Leon, i poteri ignoranti, Castelvecchi 2016, e queste ne sono le conclusioni: «Le ragioni economiche per le quali gli Stati e la politica non intervengono direttamemente per aumentare la domanda effettiva dopo il crollo, la depressione e la deflazione, sono certamente di origine sociale e politica. Il meglio che si possa dire è che gli Stati non sono stupidi, ma sono ormai un potere ignorante che agisce sulla base della cultura di chi li governa, e questa è ormai resa ottusa dall’ideologia del libero mercato, che sostiene come qualsiasi intervento pubblico genera più costi che benefici – e questa convinzione accomuna gli imprenditori ai capitalisti, i sostenitori della “terza via” come i partiti conservatori e libertari. Allo stesso tempo, questa ideologia resiste agli urti della crisi, quando i costi superano largamente i benefici, perché la crescente concentrazione della ricchezza per i capitalisti e dei compensi per gli imprenditori giustifica continuamente il diritto dei pochi – e perciò il dovere alla povertà degli altri».

Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo.

«» . La Repubblica, 12 giugno 2016

Ho sempre trovato a suo modo struggente un aneddoto che riguarda gli ultimi anni della vita di Freud riportato dal suo biografo Ernst Jones. Invitato in una prestigiosa università americana a tenere una conferenza in presenza delle maggiori autorità accademiche, mentre stava tenendo il proprio discorso il padre della psicoanalisi veniva costantemente disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio dissenso.

A nulla servirono gli interventi del direttore dell’università per calmarlo, al punto che si dovette prendere la misura estrema di allontanare il facinoroso dall’aula. Ma anche fuori dall’aula l’uomo continuava a strepitare disturbando lo svolgimento della conferenza e costringendo il direttore a comunicare a Freud la sua decisione di chiamare la polizia per ristabilire l’ordine. A quel punto Freud stesso intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione, ma di fare rientrare in aula il “dissidente” offrendogli la possibilità di parlare apertamente.

In questo aneddoto troviamo riassunta efficacemente non solo l’etica della psicoanalisi — dare la parola, includere, ascoltare l’Altro che disturba — ma anche una lezione di democrazia politica più ampia: dare la parola e ascoltare l’Altro che disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.

L’immagine biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome proprio.

Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.

I babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io. Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?

Il peccato dei babelici è non aver considerato che l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche, ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal racconto freudiano.

E quando Dio discende per osservare più da vicino l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione», al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.

Non si tratta di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle lingue e la fatica della traduzione.

In primo piano non è il Dio geloso preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme esclude la comunione,l’immedesimazione, la massificazione, perché “il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.

È una indicazione che ritroviamo anche nell’aneddoto di Freud: solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana.

». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)

Il discredito che ha colpito l’arte della politica è sotto gli occhi di tutti e trova una delle sue ragioni più evidenti nel comportamento corrotto di molti politici. Ma esiste una ragione ancora più profonda della sua perdita di prestigio: il nostro tempo è infatti allergico a tutto ciò che impone qualunque differimento alla soddisfazione immediata della pulsione.

La politica come difficile arte della mediazione di interessi differenti e conflittuali per il bene comune della polis appare come un intralcio fastidioso alla realizzazione del programma della pulsione che esige il suo soddisfacimento senza differimenti. Di qui – più profondamente che non a causa della sua corruzione – l’accanimento critico che colpisce l’arte della politica.

Nondimeno è proprio la sua vocazione al confronto con la pluralità dei protagonisti della vita della città e della loro necessaria mediazione che la rendeva già agli occhi di Aristotele un’arte superiore a tutte le altre. Questo significa che la vita della città non scaturisce dalla spinta affermativa di interessi particolari che diventano egemoni, ma dal concerto delle loro differenze.

Senza la faticosa opera di mediazione alla quale l’arte della politica è votata, la vita della città sarebbe facilmente preda della demagogia populista o della tentazione autoritaria. Mentre la seconda elimina le ragioni della politica con il ricorso al potere sovrano del padre- padrone, della prima, oggi di grande attualità, Platone ne fornisce un ritratto efficace quando equipara il politico degno di questo nome ad un medico che si preoccupa della salute di bambini malati (la città) prescrivendo ad essi le giuste diete e i giusti rimedi nonostante possano nell’immediato risultare difficili da digerire, paragona il demagogo-populista a colui che anziché seguire la linea difficile e severa della cura ammalia i suoi piccoli pazienti offrendo loro i dolci più prelibati.

L’immagine di Platone è lucidissima nell’isolare la scaltrezza del demagogo, la quale consiste nel dare al popolo quello che il popolo chiede senza preoccuparsi del destino della città. Tutto il suo operare è asservito all’ottenimento del più largo consenso nel più breve tempo possibile.

È l’essenza anti-politica del populismo che comporta una disgregazione falsamente libertaria del concetto di rappresentanza. Il politico dovrebbe essere soppresso dal Popolo o dovrebbe coincidere con il Popolo stesso in una simbiosi che, in realtà, ha storicamente sempre generato mostri. È il sogno sbandierato qualche tempo fa da un movimento populista nostrano: ottenere il 100 per cento del consenso parlamentare per realizzare l’identificazione integrale dei cittadini con lo Stato. Non deve sfuggire il carattere seduttivo e incestuoso di questa ambizione: ogni differenza deve essere annullata, ogni dissenso appianato, ogni cultura particolare estinta nel nome di una coincidenza assoluta tra il Bene e il Popolo.

La difficile arte dell’integrazione di soggetti e interessi differenti di cui si incarica l’arte della politica deve lasciare il posto ad una fusione tra Stato e cittadini che vorrebbe liquidare la politica come un vecchio tabù da dimenticare. I Partiti sono una casta che il capo carismatico di quello stesso movimento populista nostrano ha una volta definito “letame”. L’anti-politica cavalca l’illusione di identificare il Popolo col Bene contro la politica come difficile pratica della mediazione dei conflitti. Il conflitto politico in quanto tale viene sostituito dalla lotta tra il Bene (il popolo) e il Male (la politica e i politici) senza rendersi conto che la demonizzazione della politica coincide con il collasso della vita stessa della città.

La retorica populista odia la sfumatura, l’analisi, la complessità, la contraddittorietà, gli intellettuali, il pensiero critico, il disordine che accompagna la vita della città. La sua inclinazione paranoica si sposa con una idealizzazione infantile di sé stessa che esclude il disagio che comporta il confronto con il dissenso sia interno che esterno.

In un recente libro intervista titolato Corpo e anima (Minimum fax 2016), curato da Christian Raimo, Luigi Manconi, ex-leader di Lotta continua, protagonista del movimento Verde in Italia e attualmente senatore per il Pd, prova a restituire, nel tempo dell’antipolitica, la giusta dignità all’arte della “politica” ripensandola radicalmente dai piedi”, sottraendola alle chimere totalitarie degli universali: la politica non si occupa dell’Uomo, del Popolo, della Storia, della Solidarietà astratta, ma solo di nomi propri, di persone in carne e ossa, di corpi, di esistenze reali, plurali, soprattutto di quelle che appaiono ai margini della vita sociale.

Dal vertice di questa allergia verso l’universalismo, Manconi propone una definizione lucida e precisa della politica come “governo del disordine”, sforzo per “trovare un posto al disordine”. È l’esatto contrario del sogno paranoico- populista dell’affermazione assoluta del Bene contro il Male.

Non si tratta né di imporre l’Ordine con la violenza (tentazione autoritaria), né di annullare la rappresentanza seguendo la retorica dell’ideale benefico del Popolo (tentazione populista), ma di prendere atto che la vita della polis implica necessariamente il disordine della vita: «Intrecci, innesti e contaminazioni e non un’autarchica sistemazione di tratti originari esclusivi ed escludenti».

«Per lo storico Geert Mak l’assetto istituzionale attuale non sopravviverà oltre il prossimo decennio: o è svolta o disintegrazione

». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

In questo inizio di primavera, Amsterdam non delude le attese. Il primo sole dell’anno induce a sfidare le folate di vento freddo provenienti dal Mar del Nord, accomodandosi ai tavolini all’aperto, mentre tra le dimore seicentesche si fanno strada le consuete biciclette scampanellanti. In un cielo attraversato da nuvole minacciose, la luce è tersa. La capitale olandese non tradisce il letterato Gregorio Leti che nel 1690 reputava Amsterdam «la più libera e la meglio regolata» delle città. Eppure, la metropoli sta attraversando un periodo tormentato: come in altre occasioni, il futuro dell’Europa passa anche dall’Olanda.

Il Paese di Pim Fortuyn e di Geert Wilders è nuovamente alle prese con dubbi e angosce. In aprile, gli olandesi hanno colto l’occasione di un voto sul futuro accordo di associazione tra l’Unione e l’Ucraina per esprimere nuova e profonda disaffezione per l’Europa. «I Paesi Bassi sono sempre stati divisi tra un Ovest più cosmopolita e moderno, e un Est, oltre la città di Utrecht, più conservatore e provinciale – spiega Geert Mak –. In questa fase sembra purtroppo prevalere la seconda delle due tendenze. D’altro canto in quasi tutti i Paesi assistiamo a un ritorno del nazionalismo».

Mentre l’Europa aspetta con timore l’esito del referendum inglese di giugno, dedicato alla permanenza del Paese nell’Unione, le pessimistiche impressioni di Mak sono utili per capire i sentimenti che segnano l’intellighentsia del Nord Europa in una fase in cui il continente affronta come non mai il rischio della disintegrazione. Giornalista, storico, documentarista, Mak, 69 anni, è una delle voci più ascoltate della pubblicistica olandese, una specie di A.J.P. Taylor di lingua fiamminga. Mentre passeggiamo per il centro di Amsterdam alla ricerca di un locale, i passanti accennano un saluto discreto.

Nel 1999, il nostro interlocutore fece un lungo viaggio attraverso l’Europa per raccontare il secolo che stava per concludersi. Per un anno pubblicò tutti i giorni le sue impressioni nel giornale «NRC Handelsblad». Nel 2004, trasse dalla sua rubrica quotidiana un libro venduto in oltre 400mila copie e tradotto in una ventina di lingue - in Italia da Fazi con il titolo In Europa. «Stiamo inciampando – dice oggi – da una crisi all’altra, in mezzo alla tempesta. Dobbiamo fermarci in un porto e riparare la nave. Vorrei essere ottimista, ma non riesco ad esserlo…».

Agli occhi di Geert Mak, le risposte alle diverse crisi affrontate dall’Europa in questo ultimo decennio – quella finanziaria, poi economica, poi ancora debitoria, ora terroristica e migratoria – non sono state convincenti. «Guardate alla politica monetaria ultra accomodante della Banca centrale europea o al discusso accordo dei Ventotto con la Turchia: su entrambi i fronti sembra prevalere il panico. Sono molto preoccupato per il futuro dell’Europa».

Se i partiti più radicali stanno mettendo radici a livello nazionale – nei Paesi Bassi, in Francia, Italia, Austria e anche in Germania - non è solo per la perdurante crisi economica. «L’attuale assetto europeo è a metà federale e a metà confederale. L’Unione è nata per trovare soluzioni tecniche, non politiche. Il populismo è anche una reazione al modo in cui vengono ideate e applicate le politiche europee. Gli elettori hanno l’impressione che la classe politica non abbia il controllo della situazione, e quindi si stanno affidando sempre più a chi offre loro soluzioni prettamente nazionali».

Secondo lo storico olandese, l’emergenza provocata dall’arrivo di milioni di migranti in fuga dal Vicino Oriente o dal Nord Africa rischia di rivelarsi per l’Europa ciò che fu il disastro di Tchernobyl per l’Urss: un campanello d’allarme dalle conseguenze imprevedibili. «I sovietici scoprirono all’improvviso le enormi deficienze del sistema politico. Così sta avvenendo oggi in Europa. L’Unione non è neanche capace di inviare nelle isole greche i funzionari necessari per gestire in modo rapido ed efficiente lo sbarco dei rifugiati. Gli europei stanno scoprendo le gravissime debolezze della costruzione comunitaria».

Seduto in un animato e rumoroso caffè di Amsterdam, Mak non ha nulla dell’intellettuale estremista. Anzi, il sorriso caloroso, i capelli arruffati, i modi simpatici gli danno un’aria rassicurante e bonaria. Prima di iniziare la nostra conversazione, aveva premesso di sentirsi «più un europeo che un olandese». Eppure, oggi non riesce a essere fiducioso: «Mi sembra impossibile che l’attuale assetto istituzionale possa sopravvivere al prossimo decennio. Non funziona e non gode di sufficiente legittimità. Sto dicendo questo con il cuore affranto».

Ammette di essere d’accordo con la cancelliera tedesca Angela Merkel che qualche mese fa, riprendendo il titolo di un famoso libro dello storico Christopher Clark, ha definito i dirigenti politici europei dei «sonnanbuli», diretti inconsapevolmente, come all’inizio del Novecento, verso una catastrofe. «Lo sconquasso della moneta unica così come la crisi dell’Ucraina hanno dimostrato che c’è bisogno di un profilo politico, e non solo tecnico. L’Europa deve pensare il proprio ruolo geopolitico. È destinata ad affrontare nuove grandi crisi. Per questo, mi aspetto una sua disintegrazione, e una sua ricostruzione su basi più piccole». Cosa intende per grande crisi: c’è il rischio di una guerra? La risposta tarda ad arrivare. Finalmente, dopo un lungo silenzio di riflessione, Mak risponde: «Siamo in bilico tra pace e guerra. Le fratture potrebbero rimarginarsi, oppure peggiorare drammaticamente.

Vi sono per esempio molti fattori che in Crimea potrebbero portare a un conflitto aperto. Altri focolai sono l’Egitto e la Libia, che non sono più un baluardo a difesa dell’Europa contro l’arrivo di milioni di migranti dall’Africa. La Turchia, poi, è un Paese sull’orlo della guerra civile, fosse solo per la presenza della folta minoranza curda». Alla ricerca di un confronto storico sull’attuale stato dell’Europa, trova un esempio nella repubblica confederale che governò le Province Unite tra il 1581 e il 1795.

«In parte, la fine del Secolo d’Oro fu determinata dalla difficoltà a creare un potere centrale. I federalisti americani videro nel caso olandese la ragione per puntare con decisione verso un assetto federalista». Torna alla mente James Madison in Il Federalista: la repubblica olandese, scrisse nel 1787, mostra «l’imbecillità nel governo, il disaccordo tra le province, l’indegna influenza straniera, una precaria esistenza in tempo di pace e calamità in tempo di guerra».

Le parole dell’uomo che da lì a poco sarebbe diventato il quarto presidente degli Stati Uniti suonano attuali, se riferite a una Europa che continua tra le altre cose a ospitare truppe americane sul suo territorio. Simbolica delle differenze europee, l’Olanda è al tempo stesso proiettata oltre Atlantico e al centro del continente europeo. Tornando alla descrizione di Gregorio Leti, appare permissiva quando si tratta di omosessualità e droghe leggere; rigorosa quando bisogna risanare i conti pubblici o applicare le regole. Gli olandesi usano spesso nelle loro risposte l’espressione moet kunnen che si traduce liberamente con «E perché no!». L’esclamazione riflette tolleranza e pragmatismo. Rileggendola alla luce del pessimismo di Geert Mak, sembra quasi autorizzare l’impensabile.

Un'analisi attenta al modo in cui, sotto la retorica dell'Universalismo, vengono camuffati i nazionalismi, razzismi, e le altre perversioni del pensiero e violazioni dei diritti, nel mondo di oggi (e soprattutto nell'Europa).

Il Fatto Quotidiano online, 5 maggio 2016 (c.m.c.)

Gli Stati-nazione e la loro ideologia di governo, il nazionalismo, compaiono grosso modo contemporaneamente al credo del valore universale dell’Umanità.

Si potrebbe dire che se c’è una prova dell’essenza ipocrita dell’universalismo, questa è la prova perfetta. Probabilmente nel corso della storia non ci sono mai state così tante persone assassinate dal nazionalismo, dal razzismo e dalle altre ideologie come nel XX secolo sotto il sole universale dell’Umanesimo. Si potrebbe replicare che se il genocidio è diventato per noi il male assoluto è proprio grazie alla validità dei valori universali. Dopo tutto la letteratura inizia con il genocidio. Troia fu distrutta, tutti gli uomini vennero uccisi e le donne prese come schiave, ma per molte generazioni questa è stata solo una bella storia da leggere. Cartagine fu arata e cosparsa di sale; vero o meno che fosse, sta di fatto che i Romani se ne vantavano.

Cosa è cambiato? Ci sono delle alternative. Molti giudizi negativi sulle altre razze, religioni non vengono più dati per scontati, ma respinti come pregiudizi. Mentre gli antichi conquistatori erano fieri di definirsi conquistatori, oggi preferiscono chiamarsi liberatori. E’ ipocrita? Per lo più sì. La creazione di molte istituzioni internazionali, in primo luogo le Nazioni Uniti, incorpora (almeno apparentemente) il concetto di universalità. Non siamo estranei e ancor meno nemici, siamo nazioni diverse di un pianeta comune. E’ ipocrita? Per lo più sì.

E’ ipocrita in primo luogo perché l’universalismo nulla significa per molte culture, con la sola eccezione della scienza e della tecnologia. Sebbene quasi tutti gli Stati del mondo abbiano firmato la Dichiarazione universale delle Nazioni Unite, tale firma ha o può avere conseguenze pratiche solamente nelle democrazie liberali. Se ricordo la contraddizione o solo la tensione tra valori universali e la posizione antropologica fondamentale, ho in mente soltanto le democrazie liberali. Non solo gli Stati totalitari, ma anche le autocrazie ricorrono ai pregiudizi contro l’Altro come arma per garantirsi l’appoggio popolare.

Al tempo stesso il rapporto con l’”Altro” diventa selettivo. I pregiudizi nazionali, razziali, religiosi, sessuali rimangono vivi, anche se a volta nascosti, se confermano la posizione antropologica fondamentale, la convinzione che “noi” siamo il centro dell’universo, la sensazione di sicurezza. Per molti altri aspetti, tuttavia, la curiosità e l’interesse per l’Altro hanno guadagnato terreno. La Cina, l’Africa nera, lo yoga, il buddismo, la religione Krishna vanno di moda. I ristoranti offrono cucine di ogni parte del mondo. Nelle sale da concerto, nelle gallerie, alla televisione non c’è quasi più un “noi” e un “loro”.

La scena cambia completamente quando l’”estraneo” si stabilisce permanentemente tra “noi”.

La tensione tra posizione naturale e universalità non ha il medesimo significato in tutte le democrazie liberali. A questo punto c’è una sostanziale differenza tra Stati-nazione e altri Stati moderni, una differenza tra Europa e il cosiddetto “nuovo mondo”.

Parlo dell’attuale Europa, di Stati nei quali la “nazione” è diventata una identità onnicomprensiva nella quale tutti i bambini imparano a scuola o dai genitori quanto la loro nazione sia superiore. In queste nazioni i bambini vengono allattati al seno con le leggende del passato nazionale, con le storie sulla grandezza della loro nazione e su come fu tradita. Si fondono insieme identità etnica, politica, culturale, tradizionale e talvolta persino religiosa. Per definizione si esclude la doppia identità. Nel nuovo mondo si può essere “irlandesi americani”, “afro-americani”, “cino-americani” “Italo-americani” ecc., in Europa no. I francesi sono solo francesi, i tedeschi solo tedeschi, gli ungheresi solo ungheresi. In uno Stato-nazione l’”estraneo” non si sarebbe potuto integrare senza essere assimilato. L’assimilazione comporta la totale identificazione con la nazione ospite, l’abbandono della cultura, della religione, del modo di vestire, delle leggende, del passato tradizionale dei migranti. Chi non riesce ad assimilarsi rimane un paria. Al contrario del “nuovo mondo”, l’emancipazione politica, vale a dire l’aspetto principale dell’integrazione, significa poco o nulla in uno Stato-nazione.

Il carattere escludente degli Stati-nazione è chiarito nel migliore dei modi possibili dalla storia degli ebrei europei nel XIX e XX secolo e dalla storia di due guerre mondiali. Il moderno antisemitismo (al contrario dell’originario anti-ebraismo) è stato il prodotto degli Stati-nazione. La trasformazione del nazionalismo in razzismo non è stato un mero caso in quanto il nazionalismo etnico contiene in sé un elemento di razzismo. Ho detto in precedenza che la prima guerra mondiale è stata una guerra europea, la vittoria degli Stati-nazione contro l’internazionalismo e il cosmopolitismo. Allo stesso modo in cui l’intreccio tra etnia e razza è stato la motivazione (almeno da parte tedesca) della seconda guerra mondiale.

Dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, alcuni Stati europei tirarono le conseguenze in ordine al lato oscuro degli Stati-nazione e crearono l’Unione Europea. Non bisogna sottovalutare il significato di questo grande progetto. Gli Stati membri dell’Unione Europea si sono impegnati a non iniziare mai più una guerra gli uni contro gli altri. Non di meno a tutt’oggi nessun sentimento identitario europeo ha conquistato la stessa forza o lo stesso significato delle identità nazionali degli Stati membri. Se chiedessi ad un qualunque bambino di un qualunque Paese dell’Unione Europea: “cosa significa per te essere europeo?”, dubito che sarebbero in molti a rispondere o a capire il senso della domanda. Il problema non va individuato nei conflitti di interesse, ma nei conflitti in ordine al significato di appartenenza, al problema dell’identità e della legittimazione generali, se non universali.

E tuttavia gli europei non sono più “estranei” per gli altri europei. Un francese non è estraneo per un tedesco, uno slovacco o un ungherese. L’ideologia nazionalista, i miti e le leggende nazionali mobilitano ancora popolazioni frustrate e, quanto più frustrate sono tanto più efficaci sono i vecchi miti. Oggi, tuttavia, il vero estraneo non è più l’altro europeo, ma il migrante. I migranti sono gli estranei che arrivano tra noi da chissà dove, hanno costumi e religioni diversi, hanno tradizioni, leggende, punti di vista diversi su ciò che e vero e ciò che è falso. Sono terroristi, occupano la nostra terra e la distruggono. Il pericolo intrinseco nello Stato-nazione si ripresenta. L’estraneo deve assimilarsi o scomparire completamente.

Da un lato l’Europa ha un tasso di natalità insufficiente e ha bisogno dei migranti. Nell’arco di circa 60 anni gli europei hanno ucciso cento milioni di europei. Mancano non soli i figli, i genitori, i nonni, i bisnonni. I peccati dei padri e dei nonni vanno espiati.

Dall’altro lato, gli europei sono pronti sono disposti ad accettare i migranti solo se sono disposti ad assimilarsi. Assimilarsi non all’Europa (che non ha una memoria tradizionale e culturale comune né una medesima lingua), ma a questo o a quello Stato-nazione.

I rifugiati provenienti da zone di guerra dell’Asia o dell’Africa, oggi si rifanno alla dichiarazione universale: “voi europei avete inventato che tutti gli uomini nascono ugualmente liberi, quindi noi siamo come voi. Di conseguenza dovete trattarci come esseri umani con pari diritti e lasciarci vivere con voi nel vostro pacifico, abbondante e piccolo continente”. Gli europei rispondono: “è vero, tutti gli uomini nascono ugualmente liberi e noi siamo tutti uguali, ma la maggior parte degli uomini debbono rimanere dove si trovano. Noi abbiamo lavorato per le nostre ricchezze che sono comunque a rischio in quanto dobbiamo sfamare la nostra popolazione povera. Abbiamo dei diritti sulla nostra terra e siamo noi a decidere che può vivere qui. Chi possiede una casa, detta le regole. Anche i parenti prossimi che vengono a trovarci e sono nostri ospiti a Natale debbono rispettare le nostre regole”. L’estraneo chiede: “avete bisogno di regole per potere salvare da morte certa chi si trova in una casa in fiamme? Se non è così, perché non consentite ai rifugiati di entrare in casa vostra senza alcuna condizione?”. Gli europei rispondono: “accogliamo i rifugiati senza condizioni e li ospitiamo nei campi profughi fin quando non potranno tornare da dove sono venuti senza correre pericoli. Ma debbono comunque rispettare delle regole. Le stesse regole della casa? O altre regole? Che regole sono le regole della casa?”.

Un americano risponderebbe: “le regole della casa sono le regole dello Stato. Tutti debbono osservare le leggi dello Stato sia che riguardino il comportamento verso gli altri sia che riguardino il comportamento da tenere tra voi o nei confronti di vostra moglie o dei vostri figli”. “Questo può essere accettabile”, risponderebbe l’estraneo “ma alcune regole della nostra religione non ci consentono di onorare sempre le leggi dello Stato”. “Mi spiace”, risponderebbe l’americano. “In tal caso non potete sistemarvi in casa mia”. Ma io non sono americano, io sono europeo, cittadino di uno Stato-nazione…nei nostri Stati-nazione ci sono molte più regole della casa rispetto al nuovo mondo. Dovete imparare la lingua dello Stato, la tradizione della nazione, osservarne i costumi, adottarne il comportamento pubblico e privato e considerarvi membri di quella particolare nazionale”. “E se non lo faccio?” “Sarai un emarginato, non troverai un lavoro decente, i tuoi figli non avranno la possibilità di salire la scala sociale”. “Ci chiedete troppo”, protesta l’estraneo. “Sì, lo so, ma dovete capire che abbiamo le nostra tradizione. A lungo ci siamo considerati caucasici rispetto alle persone di colore e questo genere di razzismo sfortunatamente è importante per molti nostri compatrioti. Ci siamo considerati il continente cristiano e non è facile abbandonare questa tradizione. Ci siamo considerati progressisti, non solo nel campo dell’hi tech, ma anche in quanto democratici liberali in molti aspetti della vita di tutti i giorni”. “Siete gente molto strana”, sottolinea l’estraneo.

Riferimenti
la lectio magistralis della filosofa Agnes Heller si terrà il 6 maggio al Bergamo Festival “Fare la pace” (5-15 maggio).

». LaRepubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

La svolta arriva nella notte. Quando Silvio Berlusconi, sbarcato a Roma per cercare di sedare l’ennesima rivolta interna a Forza Italia, convoca Guido Bertolaso a palazzo Grazioli per comunicargli il suo fine corsa. Troppe le gaffe, disastrosi i sondaggi: tutti concordi nel condannare gli azzurri a morte certa, nella capitale e non solo. Continuare a insistere sull’ex capo della Protezione civile sarebbe stato un suicidio. Mr emergenze prova a resistere, in fondo gli era già accaduto di incontrare “Silvio” per valutare il ritiro, ma quando capisce che è tutto inutile, pone un’unica condizione: che almeno si viri su Alfio Marchini, mai sulla “traditrice” Meloni. Esattamente ciò che l’ex Cavaliere voleva.

E così di buon mattino Berlusconi si predispone al suo ultimo colpo di scena. Prima convoca l’imprenditore del cuore, il simbolo della sua lista; con lui sigla l’intesa; insieme chiamano Storace per chiedergli di essere della partita; quindi, a cose fatte, riunisce i maggiorenti azzurri. Facendo diramare una nota in cui si spiega che «per vincere occorre una proposta unitaria delle forze moderate e liberali, con un forte spirito civico», per cui «con il dottor Bertolaso abbiamo deciso di fare nostra la candidatura dell’ingegner Alfio Marchini», che tra l’altro «non è una scelta nuova. Era la nostra prima opzione, caduta per i veti posti da un alleato della coalizione».

Parole chiare, che rendono l’onore delle armi all’uomo rimasto stritolato nella guerra fratricida in atto nel centrodestra (malinconico il twitt diffuso in serata, con foto di lui in Africa: «Resto in panchina ma a disposizione della mia città»); ricompattano una Fi sull’orlo della scissione; rilanciano il sogno di un grande centro che metta all’angolo l’ala lepenista di Meloni e Salvini. E infatti, come per incanto, la polifonia azzurra diventa coro. Intonato da Paolo Romani, capo della fronda del Nord: «Berlusconi si conferma leader e guida dell’intero centrodestra». Finanche Gianfranco Fini si complimenta per «aver reso possibile a Roma un‘alternativa alla sinistra che non sia né populista né demagogica».

Chi non la prende bene è Giorgia Meloni: «Fi sceglie di convergere sul candidato di Alfano, Casini e di quell’ex centrodestra che ama governare con Renzi. Vogliono aiutare il Pd ad arrivare al ballottaggio nella città in cui il premier è più in difficoltà. È il pattone del Nazareno ». A risponderle ci pensa Storace, pure lui in procinto di sostenere Marchini: «Ora ritirati e riuniamo la coalizione come a Milano. Altrimenti sei tu che aiuti Renzi». A godere è il candidato dem Roberto Giachetti: «Io non temo nessuno, sono consapevole della mia forza».

». Il manifesto, 28aprile 2016 (c.m.c.)

Ci risiamo, per l’ennesima volta. La Grecia stretta in un angolo, con le richieste dei falchi – ad iniziare dall’Fmi e da Schauble – che non si accontentano e chiedono continuamente tagli, in un eterno presente che pare impossibile lasciarsi alle spalle. Nel ben noto gioco di ruoli, questa volta la parte del cattivo la sta giocando il Fondo monetario internazionale, che richiede l’approvazione, da parte del parlamento greco, di misure preventive per un ammontare di 3,6 miliardi di euro. Dovrebbero entrare in vigore nel caso i tagli accettati sinora da Atene si dovessero dimostrare troppo «buoni», non abbastanza efficaci.

E ovviamente si sono subito posti due problemi, uno di natura formale ed uno assolutamente pratico. Da una parte, la legislazione ellenica non prevede che il parlamento possa legiferare su misure «eventualmente applicabili in futuro», ma solo su questioni di natura certa. Anche perché, rispetto alle clausole di salvaguardia italiane c’è una sostanziale differenza: nel caso del governo Tsipras, non gli si permette di includere le misure «di garanzia» all’interno di una finanziaria, ma si chiede una legge ad hoc.

In più, dal punto di vista dei cittadini, tartassati da cinque anni di austerità senza limiti, queste nuove misure richieste dal Fondo monetario – se dovessero venire applicate – porterebbero a nuovi tagli di stipendi e pensioni per una percentuale intorno all’8% del loro ammontare totale, e all’ulteriore innalzamento delle aliquote Iva. Obbligando a chiudere, per esempio, anche le case editrici che finora erano riuscite, tra mille sacrifici, a resistere alla crisi. Il governo di Syriza propone un meccanismo che controbilanci automaticamente eventuali minori introiti per le casse dello Stato, ma chiede di salvaguardare le classi sociali più deboli e di non dover presentare in parlamento, ovviamente, la legge richiesta dai creditori.

Il premier Alexis Tsipras, constatato che le trattative con i creditori si sono arenate, ha chiesto la convocazione di un vertice europeo straordinario per discutere della situazione e riuscire a trovare una via d’uscita politica. La decisione definitiva al riguardo dovrebbe essere presa oggi, ma la posizione del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, non sembra delle più incoraggianti: i suoi collaboratori hanno lasciato trapelare che la soluzione deve essere trovata solo ed esclusivamente all’interno dell’Eurogruppo. Quello in programma per oggi, ovviamente, è stato annullato e l’ulteriore perdita di tempo può andare solo a discapito della Grecia.

Il presidente del gruppo dei socialisti e democratici all’Europarlamento, Gianni Pittella, si è schierato apertamente a favore di Atene, chiedendo di non strangolare la Grecia, e di non chiederle di adottare misure supplementari. Lo stesso Juncker, secondo la stampa greca, parlando al collegio dei Commissari, sembra aver definito irragionevoli e anticostituzionali le misure ex ante, richieste alla Grecia.

Pare essere una prima presa di posizione contro l’asse del rigore assoluto, quella costruita da Berlino e dall’Fmi con sede a Washington. Ma è chiaro che a questo punto sono più che necessari degli interventi chiari, di sostegno energico e visibile, sia da Parigi che da Roma, se si vuole sperare ancora che qualcosa possa cambiare. Altrimenti, entro fine maggio Atene potrebbe avere nuovamente problemi di liquidità e il pagamento di pensioni e stipendi sarebbe ancora una volta a rischio, come avvenne nel giugno del 2015.

Non bisogna essere particolarmente malevoli per ricordare che proprio poche settimane fa, WikiLeaks aveva diffuso il contenuto di una lunga teleconferenza tra Poul Thomsen, a capo del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, la rigidissima Delia Velculescu – che lo rappresenta ai colloqui con il governo greco – e un’altra responsabile dell’Fmi. Nel colloquio in questione si faceva chiaramente riferimento alla possibilità di portare nuovamente il paese al collasso economico, viste anche le resistenze del governo di Syriza ad accettare i diktat neoliberistici.

Tutto ciò, in un paese che continua ad ospitare più di 50.000 migranti e profughi arrivati negli ultimi mesi, sopportando un peso pratico ed economico enorme. E che malgrado le difficoltà non ha chiuso le proprie frontiere, come ha fatto, invece, l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia e sta minacciando di fare, ora, anche l’Austria. Atene spera che si esca dall’impasse, per arrivare alla conclusione della trattativa e passare, così, alla delicatissima fase che dovrà riguardare l’alleggerimento del debito pubblico greco. Più i giorni e le settimane passano a vuoto, e più l’economia greca non riuscirà a riprendersi, con il solito circolo vizioso: consumi al minimo, alta disoccupazione, minori entrate per lo Stato e richiesta di ulteriori tagli dai creditori.

I falchi del rigore sembrano non aver imparato assolutamente nulla in tutti questi anni. E forse non hanno neanche capito la cosa più importante: che in Grecia, per loro, non ci sono comode alternative politiche. Un eventuale governo conservatore, o anche di larghe intese, non riuscirebbe mai a portare avanti i nuovi piani lacrime e sangue voluti da Fmi e ultraliberisti.

Intervista di Aldo Cazzullo a Piercamillo Davigo. « Nel 1994 con Tangentopoli erano crollati cinque partiti. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».

Corriere della Sera, 22 aprile 2016 (m.p.r.)

Piercamillo Davigo - consigliere presso la Cassazione, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati - 24 anni fa era nel pool di Mani Pulite.

Dottor Davigo, com’è cambiata l’Italia da allora?
«Con i colleghi stracciammo il velo dell’ipocrisia. E questo ha peggiorato le cose».

Vale a dire?
«La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nella Prima Repubblica se non altro si riconosceva la superiorità della virtù. Quando Tanassi fu arrestato e parlò di “delitto politico”, io non capivo cosa dicesse. Poi ho realizzato che forse intendeva dire: “È un delitto politico perché vado in galera solo io”. Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose; perché quando le sappiamo partono i processi».

E partì Mani Pulite.
«Dopo l’arresto di Mario Chiesa, Craxi disse che a Milano non un solo dirigente del Psi era stato condannato con sentenza definitiva, fino al “mariuolo”. Nessuno esplose in una fragorosa risata. Il velo dell’ipocrisia teneva ancora».

E ora?
«Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti».

«Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Lo disse davvero?
«Certo. In un contesto preciso. Ma mi citano fuori contesto per farmi passare per matto».

Qual era il contesto?
«Appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano. Prenda la Metropolitana Milanese. Costruita da imprese associate, con una capogruppo che raccoglieva il denaro da tutte le aziende e lo versava a un politico che lo divideva tra tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Di giorno fingevano di litigare; la notte rubavano insieme».

Voi però l’opposizione non l’avete colpita.
Davigo si inalbera: «Non è vero! Questa è una leggenda diffusa ad arte per screditarci! Io stesso condussi una perquisizione a Botteghe Oscure!».

Ma Forlani si dimise, Craxi morì ad Hammamet. Occhetto e D’Alema restarono al loro posto.
«Forlani fece una figuraccia al processo Enimont. Su Craxi si trovarono le prove, infatti fu condannato. Su altri non trovammo le prove. Il Pci era finanziato dalle coop in modo dichiarato e quindi legittimo. Ma a Milano, dove partecipavano alla spartizione delle tangenti, abbiamo mandato sotto processo diversi dirigenti comunisti».

Il Paese era con voi.
«Gli italiani non hanno mai avuto una grande considerazione di sé: siamo gli unici a dire di noi stessi cose terribili nell’inno nazionale, “calpesti”, “derisi”, “divisi”. All’epoca sembrò che tutto potesse cambiare. Ricordo un’intervista ai volontari che friggevano le salamelle alla festa dell’Unità; erano i primi a volere in galera i dirigenti che li avevano traditi. Ma cominciò presto il coro opposto: “E gli altri, perché non li avete presi?”».

Oggi la situazione è come allora?
«È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: “Qui non si fa la battaglia contro le mosche?”. “L’abbiamo fatta - risponde il podestà -. Solo che hanno vinto le mosche”. Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti».

Davvero pensa questo del nostro Paese?
«È il rimprovero che mi fece Vladimiro Zagrebelski. Al Csm erano ospiti 35 magistrati francesi, che mi chiesero di Tangentopoli. Risposi che nel 1994 erano crollati cinque partiti, tra cui quello di maggioranza relativa e tre che avevano più di cent’anni. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre zebre erano diventate più veloci. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».

Fu Berlusconi a fermarvi?
«Cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un po’ genuflessi sì».

Ad esempio?
«La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla».

Con Renzi come va?
«Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?».

Renzi ricorda spesso di aver aumentato le pene e di conseguenza la prescrizione per i corrotti.
«Ma prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta. Lo diceva anche Cantone; anche se ora ha smesso di dirlo».

Perché Cantone ha smesso di dirlo?
«Lo capisco. E non aggiungo altro».

Quindi si ruba più di prima?
«Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata».

Com’è la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati?
«L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano».

Renzi viene paragonato ora a Craxi, ora a Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Non mi piacciono i paragoni».

E del caso Guidi cosa pensa?
Davigo sorride: «Non ne parlo perché se capita a me in Cassazione poi mi ricusano».

«Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni». Autentica anche questa?
«Sì. Ma non è una mia opinione; è un dato oggettivo. L’Italia è il Paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione. Ed è il Paese della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, della sacra corona; e della corruzione diffusa. Certo che servono nuove carceri. Con le frontiere ormai evanescenti, i Paesi con una repressione penale più forte esportano crimine; quelli con una repressione penale più debole lo importano».

L’Italia lo importa.
«Una volta a San Vittore trovai un borseggiatore cileno. Era stato arrestato quattro volte in un mese. Mi accolse con un sorriso: “Che bel Paese, l’Italia!”. Prima era stato arrestato a Ottawa ed era stato in galera due anni».

In Italia ci sono troppi avvocati?
«In una riunione europea degli Ordini professionali il presidente di turno ha detto che nell’Ue ci sono quasi 900 mila avvocati; e un terzo sono italiani. I più interessati al numero chiuso a giurisprudenza dovrebbero essere gli avvocati; se non altro per tutelare i loro redditi».

E ci sono troppi pochi magistrati?

«Ne mancano un migliaio. Ma non è un mestiere facile: ogni anno facciamo un concorso con 20 mila domande per 350 posti, e non riusciamo ad assegnarli tutti. Non è che ci sono pochi magistrati; è che ci sono troppi processi».

Come ridurli?
«In Italia tutte le condanne a pene da eseguire vengono appellate; in Francia solo il 40%. Sa perché? Perché in Francia si può emettere in appello una condanna più severa rispetto al primo grado. Facciamo così anche in Italia, e vedrà come si decongestionano le corti d’appello».

Ci sono troppi magistrati in politica?
«Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza; e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici».

establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”?». Micromega-online, 23 aprile 2016

Pessimo, pessimo, pessimo Cantone (inteso come Raffaele Cantone, il magistrato di renziana predilezione, investito dal premier del cruciale incarico di presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione”) che ha lanciato un’intemerata contro Piercamillo Davigo al grido di «dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione». E pessimissimo Giovanni Legnini, plurisenatore Pd e plurisottosegretario, fortissimamente voluto da Renzi alla vicetesta del Consiglio superiore della Magistratura (a presiederlo, di diritto ma di fatto solo in circostanze eccezionali, è il Presidente della Repubblica) che ha bollato le parole di Davigo con un «rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno».

Quali parole false, diffamatorie, oscene, violente aveva infatti pronunciato l’ex magistrato di Mani pulite, da qualche giorno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, da giustificare questo corale stracciarsi di vesti istituzionale?

Piercamillo Davigo aveva in realtà pronunciato un’ovvietà: «la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi». Qualsiasi persona sensata, in qualsiasi democrazia, una frase del genere la sottoscrive, e se non la pronuncia è perché considera che vada da sé. Una classe dirigente, quando delinque, certamente e incontrovertibilmente fa più danni del ladro di polli, dello scippatore, e perfino del rapinatore di banca.

Cantone pensa che invece una classe dirigente, quando delinque, faccia danni meno gravi? Non risulta lo abbia mai detto o scritto, anzi, e se davvero lo pensasse sarebbe opportuno che lasciasse il suo incarico per manifesta incompatibilità. Ma che lo pensi è una ipotetica di terzo tipo.

Perché allora gli viene in mente di tradurre automaticamente la frase inoppugnabile e priva di equivoci di Davigo in un “la classe dirigente è tutta corrotta” che Davigo non ha mai pronunciato e anzi in un quarto di secolo di notorietà ha sempre combattuto? La risposta standard di Davigo, quando un politico o un giornalista polemizzava con lui chiedendogli perché ritenesse che tutti nella classe dirigente fossero corrotti è sempre stato: «lei è corrotto? No. Io neppure, come vede è falso che tutti siano corrotti. Lo sono molti politici, ma si tratta di un’affermazione ben diversa e purtroppo suffragata da molte indagini e sentenze».

Eppure alle orecchie di Cantone, dire che “una classe politica quando delinque …” e che “tutto è corruzione” hanno suonato come frasi sinonime. Perché attribuire a Davigo quello che non ha detto, e che anzi nella sua intera carriera ha sempre rifiutato? Forse Cantone, dal suo osservatorio, trova quotidianamente fin troppi sintomi che gli fanno temere che la quasi totalità della classe dirigente sia corrotta, e inconsciamente gli viene perciò da assimilare le due affermazioni? Altra spiegazione non vedo.

In che senso l’ovvietà pronunciata da Davigo (e per la quale è agevole rintracciare una panoplia di analoghe affermazioni nei classici del pensiero e della politica democratica) rischi di alimentare un conflitto di cui il Paese non ha proprio bisogno risulta ancor più misterioso. Un danno micidiale per il paese sono i politici che rubano e gli imprenditori corruttori o corrotti, non i magistrati che li scoprono. Un danno micidiale per il paese sono governo e parlamentari che non fanno leggi più efficaci per contrastare il multiforme ingegno dei crimini di establishment e si muovono anzi in direzione opposta, rendendone più agevole l’impunità, non i magistrati (o qualsiasi altro cittadino) che richiamino all’ovvio della convivenza democratica.

Quando però una verità ovvia e banale scatena lo scandalo diventa doveroso capire il perché di una reazione che dal punto di vista logico è palesemente assurda. Perché l’establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”? La risposta la sanno anche i sassi: i padroni della politica e della finanza vogliono opacità anziché trasparenza, non vogliono controlli di legalità (cioè una magistratura che possa davvero indagare autonomamente) ma mani libere, benché Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, ormai quasi tre secoli fa, abbia cominciato a teorizzare la divisione dei poteri proprio a partire dalla consapevolezza che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente.

Perciò, o ci mobilitiamo noi cittadini a difesa dell’autonomia dei magistrati, o Renzi nei prossimi mesi distruggerà dalle fondamenta la possibilità di ogni azione efficace di contrasto ai crimini di establishment, hybris di corruzione in primis.

«Il manifesto, 23aprile 2016 (c.m.c.)

L’Europa continua a chiedere sacrifici alla Grecia, e il governo di Syriza cerca di proteggere le classi sociali più deboli. È questo, in sostanza, il messaggio arrivato ieri dall’Eurogruppo e dal governo Tsipras. Per chiudere la fase di valutazione dei progressi compiuti finora da Atene, i ministri delle finanze Ue, chiedono all’esecutivo Tsipras di approvare delle misure straordinarie, che somigliano molto a quelle che in Italia ci si è abituati a chiamare clausole di salvaguardia: misure che verranno adottate solo nel caso in cui non dovessero venire centrati gli obiettivi di bilancio previsti, con particolare riferimento alle entrate.

Nei prossimi giorni dovrebbero venire definite nel dettaglio, in collaborazione con il ministro delle finanze, Efklidis Tsakalotos. Per il prossimo giovedì, 28 aprile, infine, si dovrebbe arrivare a un Eurogruppo straordinario per poter chiudere questa delicatissima fase. Il problema, ovviamente, è sotto gli occhi di tutti. Se si insiste nel chiedere misure basate sulla logica dell’austerità, è molto probabile che la ripresa non riesca ad arrivare, e che non si possa, quindi- in una situazione di perenne depressione- centrare gli obiettivi di bilancio. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha dichiarato che negli ultimi giorni ci sono stati importanti progressi nelle trattative con la Grecia, insistendo, tuttavia, sull’importanza dell’approvazione delle clausole di salvaguardia le quali, ha chiarito, dovranno essere approvate dal parlamento ellenico.

Il governo di sinistra greco si trova davanti ad una ennesima, difficile sfida: da una parte impedire che il paese rimanga senza liquidità e non permettere che ambienti della finanza ultraliberista riescano ad asfissiare economicamente la Grecia. Dall’altra ribadire -e confermarlo nel concreto- che la priorità politica deve essere costituita dalla protezione delle classi sociali più deboli, che sono state dissanguate da cinque anni di austerity scriteriata. E le difficoltà non mancano neanche dal punto di vista pratico: il ministro Tsakalotos ha sottolineato, in conferenza stampa, che la legislazione greca non permette al parlamento di votare delle misure che potrebbero essere applicate, in futuro, solo nel caso in cui si dovessero verificare determinate condizioni.

«È in limite che pone non solo la legge ellenica, ma anche quella francese», ha aggiunto. Tuttavia, Tsakalotos ha sottolineato che Atene sta collaborando con i creditori per cercare di trovare una via praticabile, che soddisfi le loro richieste, ma anche le esigenze greche. Per ora, le istituzioni creditrici chiedono che queste misure straordinarie da approvare e attuare in futuro, arrivino a 3,6 miliardi di euro. Cifra che corrisponde al 2% del prodotto interno lordo del paese. Uno dei problemi principali, riguarda il peso dei provvedimenti decisi lo scorso luglio, con il compromesso seguito al vertice europeo che ha scongiurato l’uscita della Grecia dall’Euro. Il governo di Alexis Tsipras e l’Europa ritengono che quanto pattuito nove mesi fa permetterà al paese di giungere, nel 2018, ad un avanzo primario del 3.5% del Pil. Il Fondo Monetario, invece, prevede che non si dovrebbe andare oltre l’1,5% e chiede nuovi interventi.

Un pessimismo che non viene suffragato, tuttavia, dagli ultimi dati: secondo quanto reso noto questa settimana da Eurostat, la Grecia, nel 2015, ha fatto registrare un avanzo primario dello 0.7%, mentre l’Fmi sinora continuava a parlare di disavanzo. Atene, in tutto ciò, spinge per poter chiudere questa fase e passare alla discussione sulla modalità per l’alleggerimento del debito pubblico del paese e l’Eurogruppo di ieri ha dato l’incarico a Dijsselbloem di verificare verso quale direzione ci si dovrà muovere.

La maggior parte dei paesi europei si pone a favore di un allungamento dei tempi di pagamento, senza un taglio netto dell’intero ammontare del debito. Tsipras e Tsakalotos, tuttavia, vogliono che venga mandato un segnale chiaro: che il paese non rischia e non rischierà di fallire, in modo da cercare di allontanare definitivamente avvoltoi e speculatori. A condizione, certo, che finalmente, sia il Fondo Monetario che Berlino si rendano conto che la stagione dell’austerità è finita, e che senza delle mosse coraggiose, è e sarà impossibile uscire dal pantano.

». Il manifesto, 23 aprile 2016 (p.d.)

Un recente articolo di grande interesse apparso sul Corriere della Sera riferisce delle ultime acquisizioni nel campo delle neuro scienze. Pare, secondo gli studi dei neuro scienziati, che la lingua e il tipo di linguaggio utilizzato dalle persone influisca sulla qualità dei loro pensieri.

La temperie dei social network, in particolare di quelli che chiedono di esprimersi con estrema sintesi e con la loro lingua schematico-primitiva, deve verosimilmente esercitare effetti nefasti sulle capacità del cervello umano.

Gli esempi di decadenza antropologica mostrato dagli infimi livelli di espressione delle opinioni che si è instaurato nel cyberspazio planetario, oggi ci regala un riscontro perfetto di questo stato delle cose. Il sindaco tory di Londra, Boris Johnson, ha commentato l’opinione critica espressa dal presidente degli Stati uniti nei confronti del Brexit, ovvero la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea a seguito di un prossimo referendum, con una reazione stizzita articolata in due epititeti: ipocrita e mezzo keniota! Ora, il primo, un insulto, può starci nella visione di un politico ultraconservatore, ma mezzo keniano è un fatto, il problema è che Boris l’imperiale lo usa come attributo infamante di stampo razzista.

Non male come esternazione del primo cittadino di una delle più grandi e importanti metropoli del mondo. La colpa imperdonabile di Barack Obama agli occhi di Boris è quello di essere un mezzo ex colonizzato, revanscista. Il suo retro pensiero inespresso, a mio modo di vedere, è: «come si permette questo mezzo negro di gettare fango sul nostro prestigio imperiale che ci permette di fottercene dell’Europa Unita».

L’insulto a Barak Obama, per ciò che riguarda le relazioni diplomatiche fra le due nazioni cugine, è un minuscolo incidente diplomatico, al quale per altro il presidente Usa sembra non attribuire la minima importanza. Per ciò che attiene all’ordine del discorso qualifica Johnson per quello che è: un residuato dell’infame colonialismo e del suo parto più coerente, il razzismo.

Ma per quanto interessa noi cittadini europei, l’esternazione di Boris Johnson sollecita una domanda. Cosa ci fanno politici come questo sindaco di Londra in Europa? Boris Johnson è solo uno di loro, ma questi personaggi stanno crescendo come funghi, l’arrivo di grandi flussi migratori favorisce populismi, parafascismi e nazionalismi di ogni sorta.

Gli eurocrati miopi e proni ai grandi interessi, nutriti da una cultura ottusamente economicista, non hanno considerato in prospettiva strategica il contrasto ad ogni eredità del velenoso passato dell’Europa. Hanno lasciato correre per quieto vivere o per pavidità i progressivi e crescenti rigurgiti di intolleranze, xenofobie e razzismo. Le pur sfiancate forze democratiche dell’Europa Comunitaria dovrebbero riprendere con forza, come un tonico per ritrovare senso, la lotta per affermare come priorità assoluta, i principi di Ventotene e quelli delle grandi Carte costituzionali.

Il tempo per questo tipo di impegno non scade mai!
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