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« La caduta verso il basso di questi ceti – egli scrive - destabilizza il sistema perchè lo spaesamento per la perdita di una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici, e i sentimenti di frustrazione e rabbia che ne derivano, spingono verso posizioni politiche estreme. » La curvatura del ragionamento di Ignazi, tuttavia, privilegia un aspetto limitato, anche se condivisibile, del problema: la necessità di dialogare con il movimento 5 Stelle per sbloccare l'impasse politica attuale ed evitare la formazione di più ampi poli di destra populista. Il problema andrebbe tuttavia declinato anche su altri versanti. In primo luogo occorrerebbe collegare i cosiddetti populismi ( termine non sempre condivisibile e che uso qui per brevità) non solo al gigantesco smottamento sociale che stanno subendo le classi medie, ma anche al fatto che molte di esse hanno perduto ogni riferimento politico nei partiti tradizionali, ogni legame e luogo di rappresentanza. L'organizzazione politica della volontà collettiva si è liquefatta. Non solo – e qui il riferimento specifico è alla sinistra italiana del recente passato e oggi al PD - i ceti medi e popolari che subiscono l'emarginazione non hanno ricevuto la protezione che si aspettavano. Essi sono stati privati dei loro tradizionali riferimenti culturali, del loro precedente orizzonte, di ogni senso di direzione. Il disagio sociale è un ingrediente formidabile di disarticolazione, ma lo smarrimento culturale e ideale non lo è di meno. La politica, per lo meno nella tradizione della sinistra, è non solo rappresentanza di interessi materiali, ma anche sentimento collettivo, visione, valori condivisi. La politica del PD degli ultimi tre, quattro anni costituisce una delle sorgenti principali di alimentazione del populismo grillino. E dunque l'analisi di quest'ultimo fenomeno dovrebbe guardare anche in tale direzione.

Occorre tuttavia alzare lo sguardo e osservare fenomeni più generali e più vasti. Io credo che la crisi abbia accelerato un fenomeno da tempo in atto, che non riguarda, ovviamente, solo l'Italia. Il ceto medio sta subendo colpi formidabili un po' in tutti i paesi di antica industrializzazione. La crescita mondiale delle diseguaglianze colpisce anche questa fascia, riducendo la stratificazione sociale creatasi a metà Novecento. Negli Usa da tempo cresce la saggistica sulla Crisis o sulla End della Middle Class. Chi ha studiato le causa del tracollo finanziario iniziato nel 2008 sa che il suo epicentro è nella stagnazione pluridecennale dei redditi della middle class negli USA, costretta a indebitarsi per sostenere la corsa ai consumi della macchina produttiva americana e mondiale .

Dunque, oggi appare in via di esaurimento un assetto di potere egemonico del capitalismo che si era affermato dal 1945 agli anni '70. Qualcuno ricorda la formulazione della “società dei due terzi” del sociologo socialdemocratico tedesco Peter Glotz nel 1987? Una ampia stratificazione di ceti medi e alti dominante su una fascia ristretta di gruppi subordinati. Così è stata controllata la classe operaia, mentre i partiti comunisti e socialdemocratici sono finiti col diventare elementi costitutivi della società capitalistica. Ma oggi la parte maggioritaria di quel due si va assottigliando e quella dell'uno si va allargando. Probabilmente ci troviamo di fronte a una gigantesca novità di scenario nella dislocazione e nel ruolo del capitalismo del nostro tempo. Un consolidato blocco sociale si va sgretolando. La crisi, infatti, ci impone questa domanda radicale: riuscirà più il capitalismo a offrire a miliardi di persone il livello di redditi e di benessere, l'orizzonte di emancipazione che ha garantito ai paesi dell'Occidente per diversi decenni? Riuscirà il capitalismo a ricostruire le condizioni della propria egemonia, (perché di egemonia, in senso gramsciano, si è trattato)mentre oggi sempre più brutalmente si regge sul puro dominio?

E' questa una delle domande fondamentali che il maggiore partito italiano di centro sinistra dovrebbe porsi, smettendo di esorcizzare la propria insormontabile impotenza con la critica al populismo. Il fenomeno della crisi dei ceti medi investe infatti in pieno il PD. Non c'è dubbio che il suo antico e fedele elettorato (ereditato dal PCI) con gli anni si è concentrato tra i ceti medi, parte dei quali provenienti dal mondo operaio: « una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici » per dirla con le parole di Ignazi. Ma si pensi anche a un fenomeno sociale poco considerato nei suoi effetti politici: l'enorme disoccupazione giovanile. Essa coinvolge ormai la gran parte delle famiglie italiane, anche quelle dei ceti medio alti, che vedono eroso il loro reddito dall'obbligo di dover sostenere una intera generazione senza lavoro. Ma non è in gioco solo il reddito. Mentre le famiglie si impoveriscono, i giovani che vengono dalle loro fila perdono fiducia nei confronti dei partiti perché non trovano lavoro, o lo trovano precario, si imbattono in strade sbarrate per la loro stessa formazione ed emancipazione: numeri chiusi all'università, alte tasse di iscrizione, mancanza di borse di studio, scarsità di risorse per la ricerca, ostacoli innumerevoli disseminati in ogni ambito della vita sociale. E questi giovani formano l'opinione dominante nelle famiglie, costituiscono il punto di vista radicale sulla società che li emargina. Da tempo, tra i ceti medi e il PD si va verificando dunque una deriva dei continenti: da una parte le trasformazioni materiali radicalizzano i disagi sociali e il modo di viverli, e dunque dislocano vaste masse su territori sconosciuti, dall'altra quel partito si fa sempre di più custode delle compatibilità finanziarie del sistema e naviga perciò in altre direzioni. Ma certo lo sbocco nella pura protesta, nell'aggressione selvaggia e disperata a tutte le istituzioni e simboli della politica tradizionale, non sarebbe così automatico se il nuovo continente sociale che la crisi fa emergere venisse adeguatamente rappresentato e organizzato. Il cosiddetto populismo ha ragione di crescere e prosperare anche a causa di una sinistra radicale che non riesce a costituire un punto di riferimento unitario, capace di offrire per lo meno speranze e senso di marcia a un magma sociale che attende ancora una forma politica.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

La trappola in cui si trova incastrata l'Italia è ormai evidente...>>>

La trappola in cui si trova incastrata l'Italia è ormai evidente non solo ai tecnici e ai politici che hanno contribuito a costruirla. Da una parte è vincolata ai ceppi della moneta unica e a una politica di austerità perfino costituzionalmente imposta, dall'altra ha una strada sbarrata: l'impossibilità di uscire dall'euro e di ritrovare la propria autonomia monetaria senza un collasso economico-finanziario di imprevedibili proporzioni.

Il nostro Paese, come altri dell'Unione, subisce oggi una doppia perdita di sovranità. Da una parte patisce quel che patiscono tutte le realtà nazionali: la crescente sottrazione di potere da parte delle nuove feudalità finanziarie internazionali. Come un tempo i baroni insidiavano il potere del re sul territorio, allo stesso modo grandi banche e finanza occulta – « gli ignoti sovrani », come li chiama Guido Rossi - condizionano la vita e la politica economica dei governi. Ma al tempo stesso noi, come gli altri stati d'Europa, abbiamo perduto lo strumento che da millenni, insieme alla forza militare, fonda la sovranità degli stati: la moneta.

Ora, qualunque uomo di stato – figura di cui in Italia si è persa traccia e temiamo anche la “semenza” - da tempo avrebbe indirizzato i propri sforzi a raccordare le forze europee interessate a combattere la guerra di distruzione sociale ingaggiata dalla Troika e dalla Germania contro l'Unione. I governanti italiani avrebbero dovuto mantenere contatti febbrili non solo con la Francia, ma anche con la Spagna, con la Grecia, con il Portogallo, con l'Irlanda E non solo con i loro governi, anche con i loro popoli, la loro gioventù, gettati nella disperazione dalla crisi e dalla politica di austerità. Avrebbero dovuto contrastare una pratica autoritaria di governo dell'Unione con la forza e la mobilitazione di una parte vasta di popoli che ne fanno parte.

Certo, ai politici nostrani questa sarebbe apparsa come una iniziativa populistica: ci si muove attraverso le istituzioni rappresentative, non si mobilita il popolo. Ma questo popolo, come ricorda Fitoussi nel Teorema del lampione, vede ormai da troppo tempo la politica economica dell'Unione « indipendente da ogni processo democratico ». E si può costruire un grande edificio sovranazionale senza mobilitare le grandi masse dei vari paesi? In realtà l'Unione sta cancellando la più grande pagina di emancipazione politica della seconda metà del '900: l'avvento della democrazia. Vale a dire la società democratica, quella avanzata forma di vita associata che nasce dopo la seconda guerra mondiale. Nasce allora, perché quelle precedenti, a parte fascismo e nazismo, anche in USA, erano solo società liberali.

Ma oggi in Italia l' inerzia e il vuoto tramestìo da parte delle forze del centro-sinistra e del governo in carica, si combinano con un atteggiamento attendista e con una inettitudine di manovra che sgomenta. Si crede di esorcizzare il sisma sociale che va sgretolando il paese annunciando riprese prossime venture, uscite dai tunnel, scatti, crescita, ecc. consumando 9 mesi per riformare l'Imu: con l'effetto di non cambiare nulla della pressione fiscale, e aggiungendo supplementari e frustranti difficoltà al cittadino contribuente. Un'altra bandierina pubblicitaria recente è il semestre europeo dell'Italia, che naturalmente non cambierà assolutamente nulla della nostra sorte, come nulla hanno cambiato i precedenti semestri per i paesi di turno. Pura politica degli annunci, la sola dimensione in cui pare essersi rifugiata la superstite creatività del ceto politico del nostro tempo. Ma nulla autorizza svolte e riprese senza un cambiamento radicale della politica dell'Unione. Usando prudentissimi condizionali, il Bollettino di gennaio della Banca d'Italia ricorda implacabile: « il miglioramento dell'economia si trasmetterebbe con i consueti ritardi alle condizioni del mercato del lavoro:l'occupazione potrebbe tornare a espandersi solo nel 2015». Il «2015»! «potrebbe»! E nel frattempo?

Sul piano politico non è chi non veda il grande pericolo che è davanti a noi. Oggi in Italia, a criticare in maniera radicale e convincente la politica autoritaria e antipopolare della UE è la destra e il movimento 5 Stelle. L'irresponsabile “senso di responsabilità” del centro sinistra sta consegnando alla destra la critica all'austerità, questo terreno irrinunciabile per salvare il nostro paese e la stessa Unione. Di questo passo il governo Letta prepara le condizione di un successo elettorale del centro destra dagli esiti imprevedibili.

Di fronte a questo scenario uno spiraglio importante si apre con le prossime elezioni europee. La candidatura a presidente del Parlamento di Alexis Tsipras - caldeggiato, su questo giornale, da molti compagni e promosso ora da un importante gruppo di intellettuali (Manifesto, 18.gennaio) - incarna una scelta politica densa di significati e di opportunità. Tsipras e non Martin Schulz – degna persona – perché il leader tedesco è il rappresentante di una partito, la SPD, che ha scambiato, entrando nel governo di coalizione, i vantaggi nazionali per il proprio elettorato con l'accettazione della politica di austerità sostenuta dalla CDU e dalla Merkel. Una scelta apertamente antieuropea, di egoismo nazionalistico simile (non nella gravità, ma nella condotta politica) a quella del 1914, che portò i socialisti tedeschi ad appoggiare l'entrata in guerra del loro paese. Come opportunamente ricordato da Gad Lerner (Repubblica, 4.1.2014)Una candidatura, aggiungiamo, calata dall'alto, senza nessuna contrattazione, assunzione di impegni, senza nessun sondaggio dell'opinione del popolo della sinistra.

Ma Tsipras merita il nostro appoggio anche per altre ragioni. Non solo perchè incarna una critica radicale ma costruttiva nei confronti dell'Unione. Egli è il leader di Syriza, un partito che ha conseguito il 16% dei consensi, grazie a una paziente politica di tessitura delle disperse forze della sinistra greca. Syriza è una lezione per tutti noi. Per noi che costituiamo, senza dubbio, una delle costellazioni politico-intellettuali fra le più variegate e creative dell'Occidente, ma non riusciamo a solidificare la nostra fluida vitalità in un organismo unitario e potente. Abbiamo sviluppato sino al parossismo il gusto della distinzione e della differenza e abbiamo perduto l'intelligenza strategica che ci consegnava la tradizione comunista italiana: la ricerca dell'unità. La ricomposizione delle diversità e dei conflitti interni come orizzonte imprescindibile per sconfiggere l'avversario. Qualcuno ricorda che Gramsci volle chiamare Unità il giornale del suo partito?

Ma c'è un' altra ragione, di grande portata, da aggiungere alle tante che nelle ultime settimane sono state espresse, per la quale dobbiamo sostenere Tsipras. Anche la campagna elettorale in suo favore deve essere un primo passo per riprendere il dialogo tra l'Europa e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Oggi il Mare Nostrum, il cuore di una delle più fiorenti civiltà della storia, è diventato per questa “Europa carolingia” un focolaio di disordine migratorio, un problema di polizia frontaliera. Eppure, già dalla metà degli anni '8o del secolo passato, Francia e Spagna avevano avviato una timida politica di cooperazione con alcuni paesi africani. Le iniziative sono culminate nel 1995, dando corso al cosiddetto “processo di Barcellona”, che pur con molti limiti e parzialità, avviava un nuovo protagonismo mediterraneo dell'Europa. Tutto pare finito.
Oggi il mondo arabo viene percepito dall'opinione pubblica occidentale come una fucina ingovernabile di fondamentalismi. Si interpretano i suoi estremismi come la semplice evoluzione di una religione intollerante al cospetto della modernità. In realtà essi costituiscono in gran parte la reazione irrazionale e distruttiva alla violenza multiforme dell'Occidente. Alla oltraggiosa mercificazione della vita dei suoi modelli culturali, oltre che e ai vecchi e nuovi soprusi coloniali. Oggi l'Europa mediterranea deve elaborare la sua verità storica. Non possiamo continuare ad assecondare la vulgata americana sul Medioriente. Non possiamo dimenticare che lo stato di Israele ha violato le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU per oltre 70 volte , togliendo prestigio e legittimità a questo organismo, creando uno stato di illegalità permanente nelle relazioni internazionali del nostro tempo. Non possiamo sorvolare sulla disonestà sistemica dei governi USA, che per 60 anni hanno tenuto in piedi fantocci dittatoriali utili alla diplomazia imperiale ed “esportato democrazia”, quando è sembrato conveniente, con i bombardamenti aerei e il massacro delle popolazioni. Non è possibile pensare che tale politica non crei reazioni violente, rinfocolando divisioni interne, rivalità etniche, terrorismo. Non è possibile dialogare con popoli tenuti per secoli sotto lo scarpone coloniale con i vecchi schemi novecenteschi.
Oggi dobbiamo elaborare un nuovo dialogo con questi paesi, di cooperazione paritaria, di aiuti, di creazione di condizioni di benessere per le grandi masse popolari, di fondazione di nuove basi di pace. L'evoluzione di un grande continente, l'Africa, che peserà sul destino dell'Europa, dipende anche dalle nostre scelte. Perciò la sinistra che guarda al Mediterraneo può essere portatrice di nuovi ed esaltanti orizzonti di politica estera. Per questa via essa può rendere evidente sino al ridicolo la pochezza dei tecnocrati che ci governano, mostrare che la civiltà e l'avvenire del Continente è finita in mano ai sacerdoti di un culto defunto.

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Cara ministra Carrozza, ho nutrito qualche speranza per le sorti della nostra Università quando lei ne ha assunto il dicastero. Ho immaginato che – pur all'interno di un governo che tradiva il mandato degli elettori e nell'auspicata brevità del suo mandato – potesse intervenire almeno su un aspetto limitato, ma importante della vita dei nostri atenei. Un aspetto, come chiarirò più avanti, che non comporta alcuna spesa, realizzabile in tempi brevissimi con un dispositivo di legge. L'ho sperato perché lei è donna di scienza ed è per giunta pisana, come Galilei. E dunque rammenterà bene il motto cui si ispirava l'Accademia del Cimento: « Provando e riprovando ». Dove quel “riprovando”, come lei ben sa, non significa “provare di nuovo”. Questo in genere lo credono gli economisti neoliberisti – per lo meno quelli che hanno notizia dell'Accademia del Cimento – i quali immaginano che le loro ricette falliscono e producono effetti dannosi, perché male applicate e non perché errate in sé e alla prova dei fatti. Per tal motivo vogliono “riprovare” a imporle. Mentre il “riprovare” galileiano significa rigettare, rifiutare come erronea una ipotesi che ha mostrato la sua fallacia alla verifica sperimentale.

Ora lei aveva (e ha) la cultura e gli strumenti per cominciare a riprovare il Grande Errore, sperimentato in Europa negli ultimi 15 anni, che sta distruggendo le nostre Università. E il Grande Errore – che ha certificato il suo universale fallimento nella Grande Crisi in cui ci dibattiamo – ha la sua radice nell'idea di assoggettare l'intero sistema formativo alle stringenti necessità competitive delle imprese. l'Università ridotta ad azienda, secondo la perfetta esemplificazione popolare. Tale pretesa, imposta a suon di leggi, senza alcun confronto e dibattito con la comunità dei docenti e degli studenti, ha cambiato radicalmente la vita delle nostre Università. Essa ha dissolto ogni preoccupazione del legislatore per la qualità dell'insegnamento e della ricerca, per il contenuto delle discipline, il modo di insegnarle (non solo nell'Università, anche nella scuola), e ha trasferito tutta l'attenzione riformatrice, con una furia normativa senza precedenti, sul versante della “produttività” , dei risultati e del loro asfissiante controllo. Non più il che e il come, ma il quanto. Quanti “prodotti”( è questo il termine che si usa ormai per nominare libri e saggi) sono stati pubblicati dai docenti, quanti laureati producono le varie Facoltà, in quanto tempo, per quale mercato del lavoro? Il mostro burocratico dell'Anvur, inefficiente e sbagliato, è figlio di questa idea. Ad essa ubbidiscono ormai da anni gli sforzi quotidiani di docenti, amministratori, studenti impegnati nel compito di rendere misurabili e giudicabili le loro prestazioni. E sotto lo stesso cielo basso si muove ora la sua trovata del Liceo breve. In Italia, in maniera particolare, la pressione del Ministero e dei rettori ha un carattere manifestamente punitivo, come ha ben mostrato Gaetano Azzariti sul Manifesto (12.11.2013 ) Sicchè, parodosso già evidente in vari ambiti sociali, la cultura neoliberista, che critica l'intromissione dello stato e il peso delle burocrazie, opera in direzione esattamente contraria. Non c'era mai stato, nelle nostre Università, tanto stato e tanta burocrazia quanto oggi.

Lentamente il modello storico dell'Università cambia, da istituzione che realizza ricerca e fornisce insegnamento, diventa il luogo in cui si fa insegnamento ( sempre meno alimentato dalla ricerca) e amministrazione. Affannosa amministrazione di norme sempre nuove. La pretesa del legislatore di controllare l'economicità di ciò che si studia e di ciò che si insegna non solo ruba tempo ed energia agli studi e alla ricerca. Non solo ha portato a sottrarre risorse rilevanti alle discipline umanistiche considerate poco utili all'economia del paese. Non solo tende a impedire per l'avvenire progetti di grande respiro, che richiedono lavoro di lunga lena da parte dei giovani studiosi. Lei immagina oggi, cara ministra, un giovane Fernand Braudel che investe anni di ricerca per scrivere il suo vasto affresco sul Mediterraneo, non avendo alcuna certezza della sua stabilità, mentre i suoi colleghi vincono i concorsi pubblicando brevi articoli? Non è solo questo, che è già grave: un piano di rimpicciolimento delle figure intellettuali delle generazioni venture. Avanza l'idea perniciosa di piegare il mondo degli studi e della ricerca a una pianificazione di tipo “sovietico”, nel tentativo di stabilire non solo quali discipline, ma anche quali professioni sono da privilegiare e quali da bandire. Il numero chiuso, gli sbarramenti che tante Facoltà innalzano per impedire le iscrizioni dei giovani, annunziano questa crescente subordinazione della formazione delle nuove generazioni alle richieste mutevoli e contingenti del mercato del lavoro. Ma qui c'è una frontiera invalicabile che l'Università deve difendere. Debbo proprio ricordarle che l'Università già ubbidisce, in maniera mediata, alla divisione sociale del lavoro del nostro tempo? Per quale ragione le nostre Facoltà laureano ingegneri, chimici, medici se non per rispondere con saperi specialistici al mercato del lavoro di una società industriale avanzata? Ma tra le imprese e l'Università sino a oggi ha operato l'autonomia di quest'ultima. Oggi la tendenza dispiegata è di piegare le Università a criteri di economicità aziendale e rozzamente produttivistici. Il modello irresistibile è quello delle imprese di ricerca biotecnologiche, quotate in borsa, che finalizzano gli studi alla produzione di brevetti e alla realizzazione di profitti. Sapere per fare danaro. Ma questa linea decreterebbe la morte del sapere libero quale finora l'abbiamo conosciuto, il taglio delle radici della nostra civiltà. E si tratta per giunta di una tendenza miope e miserabile anche sotto il profilo economico. E' la cultura che crea l'economia, non il contrario. Occorre capovolgere il pensiero neoliberista. Non sono le ragioni transitorie di un capitalismo selvaggio e senza regole che devono comandare gli orizzonti della ricerca. L'Università non deve solo ubbidire al mercato del lavoro, lo deve anche creare. Il sapere deve inventare nuovi scenari e professioni possibili. Carlo Cattaneo, nel suo secolo (forse più lungimirante del nostro), usò una suggestiva metafora per indicare l'apporto che la scienza e il dinamismo urbano avevano dato alla sviluppo delle nostre campagne. « La nuova agricoltura – scriveva – nasce nelle città ». E' questa oggi l'altezza della sfida. L'Università non solo deve creare la “nuova economia”, deve contribuire a una idea di società possibile, perché quella che ci lascia in eredità il capitalismo tardonovecentesco è in rovina.

E allora, cara Ministra, anche senza risorse lei, col concorso di tanti parlamentari, potrebbe azionare la leva capace di avviare un processo di “liberazione” della nostra università. Bandisca i crediti come criterio di misurazione delle discipline. Tolga dalle nostre Facoltà e dalle menti degli studenti l'ossessione dell'accumulo di esami e lezioni come mezzi finanziari per realizzare un profitto. Restituisca ai saperi la loro dignità, li rifaccia diventare Letteratura italiana, Filosofia teoretica, Antropologia culturale, Storia contemporanea... Oggi sono numeri di una banca virtuale. Favorisca il ritorno di una didattica orientata da materie fondamentali e complementari con cui gli studenti possano programmare con semplicità il loro curriculum. A molti può sembrare una richiesta minimale, soprattutto alla luce della drammatica scarsità di risorse in cui l'Università è stata gettata. Non è così. Occorre strappare almeno in un punto l'ordito totalitario del pensiero unico. Da qui si può partire per cominciare a rovesciare il Grande Errore, che è prima di tutto culturale, trovare lo slancio per cancellare a poco a poco la montagna burocratica sotto cui sta soffocando il mondo degli studi. Anche così la rivendicazione per nuove risorse e investimenti in sapere può ritrovare energia e prospettiva.

Conosciamo, cara ministra, l'obiezione possibile a tale iniziativa: i crediti sono uno strumento di valutazione ormai utilizzato negli atenei d'Europa. La risposta che viene d'istinto è: non c'è alcun obbligo a imitare la stupidità sol perché essa viene praticata a scala continentale. Quella meditata dice: si possono far corrispondere ai vari insegnamenti delle numerazioni per l'interfaccia con quelli europei e il problema è risolto. Perché non dovremmo essere noi italiani a far uscire dal sonno dogmatico gli atenei d'Europa? Dopo tutto, l' Università è nata da noi. Avremmo qualche ragione storica e autorevolezza per avviare la liberazione dell'università europea dall'abiezione e dalla stupidità dell'economicismo.

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Dal lessico politico-pubblicitario di Matteo Renzi, esibito con dovizia nelle sue recenti rappresentazioni pubbliche, è utile selezionare una espressione che suona come la sintesi del suo programma... >>>

Dal lessico politico-pubblicitario di Matteo Renzi, esibito con dovizia nelle sue recenti rappresentazioni pubbliche, è utile selezionare una espressione che suona come la sintesi del suo programma: « prender voti in tutte le direzioni ». E' un imperativo strategico che riassume tutto il suo pensiero politico. Per dire così. Ma al tempo stesso costituisce una delle spie più evidenti e definitive del percorso storico compiuto dai partiti politici nell'età post-contemporanea. Presentato come una smagliante novità, non è che il punto terminale di una parabola di declino. La categoria del « partito pigliatutto », ( catch- all party) era stata già elaborata nel lontano 1966 da Otto Kirchheimer, politologo tedesco, collaboratore della Scuola di Francoforte e poi docente in importanti Università americane. Kirchheimer individuava una linea di tendenza, già allora visibile in alcuni partiti di massa, di allontanamento dalle proprie origini classiste o di annacquamento dei legami con i gruppi originari di riferimento, al fine di allargare il raggio della propria influenza ai più diversi ceti sociali. Tale tendenza ha percorso un lungo cammino e ora ha bloccato il sistema politico in gran parte degli stati occidentali. I grandi partiti che un tempo incarnavano il bipartitismo, più o meno perfetto e davano vita alla cosiddetta democrazia dell'alternanza, ormai da tempo pescano negli stessi ambiti sociali, elaborano lo stesso programma politico e tendono a spartirsi equamente i consensi elettorali, dando vita a maggioranze di governo sempre più risicate e instabili. Allontanandosi dai ceti popolari e dai loro conflitti, anche i partiti di sinistra, si sono trasformati in agenzie di marketing elettorale: vendono lo stesso prodotto pubblicitario a una platea di consumatori sempre più stanca e sempre più disillusa.

Tale tendenza è oggi entrata in una morsa micidiale con l'esplodere della crisi economico-finanziaria. La perdita di sovranità di stati e governi a favore del potere finanziario internazionale ha tolto ai partiti il potere residuale di ripartire quote della ricchezza nazionale nel welfare, favorendo la formazione di una vasta e crescente area di diserzione elettorale e l'esplodere di movimenti di protesta e di populismi di varia natura. Da qui la spasmodica ricerca da parte delle forze politiche di trovare soluzioni abborracciate di governo ( le grandi coalizioni) e il ricorso crescente a dispositivi di ingegneria istituzionale: premierato forte, presidenzialismo, modifica dei sistemi elettorali, ecc. Il potere politico tende insomma ad acquistare parte della forza sottrattigli ( per sua scelta e responsabilità) dal potere finanziario, rafforzando la centralità del comando, restringendo gli spazi della democrazia, estendendo i dispositivi autoritari del controllo sociale. Sicché mentre il potere capitalistico-finanziario muove la sua guerra di classe contro le masse operaie e i ceti medi, partiti e governi, che non intendono rappresentare, con finalità redistributive, questi interessi colpiti, si infilano nel vicolo stretto di una “mediazione repressiva” per la difesa del sistema. Essi sperano di resistere fino a che la ripresa dell'economia non ridia loro lo spazio per una mediazione socialmente sopportabile ed elettoralmente premiante.

La posizione di Renzi è dunque doppiamente rivelatrice. Appare come l'ultimo tratto di definitiva dissoluzione della identità dei partiti e al tempo stesso viene a coincidere con il populismo di Berlusconi in un punto fondamentale: il privilegiamento della vittoria elettorale come scopo supremo dell'azione politica. Il fine è interamente assorbito e cancellato dal mezzo. Si partecipa alla lotta politica come al campionato mondiale di calcio: per vincere. Quel che si fa poi con la vittoria è poco importante. Perché il ceto politico gioca essenzialmente per sé stesso, per rafforzare le condizioni della sua sopravvivenza e del suo successo. E quel che accade nel paese che ospita il campionato è poco importante, ed è comunque sempre subordinato allo scopo supremo della riproduzione delle élites.

Tale linea, tuttavia ,ha successo per almeno una ragione: raccoglie e distorce un bisogno diffuso dei cittadini, quello di una rappresentanza politica liberata dalla opacità degli apparati, non dilaniata dai micro-interessi di gruppi e fazioni. Di fronte al disagio sociale, alla incertezza montante della vita quotidiana, all'impotenza della politica tradizionale nell'arginare poteri sovranazionali sempre più intrusivi, diventa naturale la richiesta dell'unicità del comando, della prontezza dell'iniziativa e dell'azione. I cittadini italiani chiedono una politica forte e capace, ma che assomigli il meno possibile alla politica dei partiti politici. L'odore delle segreterie è diventato un tanfo insopportabile. E' questa una delle ragioni importanti del successo di Renzi, che è anch'egli un “pollo di batteria”, ma si è presentato da subito come un anti-partito.

Naturalmente confidiamo assai poco in tale successo. Intanto, non è dato sapere – in caso di probabile vittoria di Renzi alle primarie del PD – se alla sua maestria nel vincere battaglie elettorali corrisponderà una pari capacità di governare il suo partito. Quel che appare oggi certo é che sul piano dell'azione di governo - sia in campagna elettorale che nell'indirizzo di un eventuale esecutivo, uscito da una competizione vittoriosa - Renzi cercherà di promuovere una politica delle “larghe intese” senza Pdl. Vale a dire la politica tipica di un partito piglia-tutto, che deve rispondere agli interessi molteplici, e soprattutto a quelli più forti, in cui si frantuma oggi la vita italiana. Dunque, è evidente che senza mutamenti di rilievo sulla scena politica, senza uno spostamento dell'asse strategico nel campo della sinistra, il disastro per il nostro paese diventa una prospettiva certa.

Non si tratta di profezie artatamente fosche. E' la scena presente, l'azione dell'attuale governo, che mostra l'inanità di una strategia in cui si debbono comporre interessi inconciliabili, surrogato fallimentare di quel che sarebbe necessario: una grande manovra di trasferimento di ricchezza ai ceti popolari e ai settori produttivi. E non è certo il caso di ricordare quel che è noto: il bollettino di guerra sulle statistiche della disoccupazione, dei fallimenti delle imprese, della caduta costante dei consumi. Benché un dato clamoroso occorre qui rammentarlo, perché i media, con una carità pelosa forse “comprensibile”, sono scivolati rapidamente sulla notizia: il debito pubblico è salito ancora, è arrivato al 133,3% del PIL.La ragione per la quale i governi degli ultimi anni stanno distruggendo l'economia nazionale e trascinando nella miseria masse crescenti di cittadini italiani, è ancora tutta lì: anzi è diventata più grave. E il ministro Saccomanni non sente il dovere di scusarsi, di spiegare al paese, di dichiarare la propria incapacità e di andarsene?

Dunque, se gli scenari dei prossimi mesi e anni confermeranno questo quadro, è evidente quale grande spazio potrebbe schiudersi alle forze di sinistra dotate di progetto, oggi segmentate e disperse in vari ambiti e territori. Ci sono in prospettiva scadenze importanti come le elezioni europee ( su cui hanno insistito utilmente, sul Manifesto, Tonino Perna con Alfonso Gianni e Guido Viale) : occasione imperdibile per mettere in discussione le politiche di austerità e rilanciare su nuove basi le prospettive dell'Unione Europea. E prima o poi ci saranno anche le elezioni politiche. Il Pd si presenterà a queste scadenze con addosso la corresponsabilità, insieme al Pdl, di aver aggravato le condizioni materiali degli italiani.

Lo sventolio della bandierina di una “ripresa che verrà” sarà solo uno straccio al vento e non incanterà gli elettori. E allora, chi si fa avanti, chi si candida a rappresentare il vasto popolo della sinistra? Sappiamo bene che la politica non si esaurisce nei partiti e neppure nelle rappresentanze e nei governi. Ma oggi queste rappresentanze al potere stanno demolendo mezzo secolo di conquiste in tutti i settori della vita nazionale. Le lasceremo fare? Lo scenario presente non offre molte alternative.

Ma i punti di partenza potenziali esistono. Perché Sel non si muove ? E la Via maestra, il movimento di Rodotà, Landini e altri ? Nessuno si illuda che esso possa evolvere rapidamente in un partito politico. E' giusto prendere in parola le dichiarazione dei fondatori. E tuttavia, questo movimento raccoglie una vasta platea di forze e di raggruppamenti, gode di un prestigio e di un consenso, sia politico che morale, incommensurabilmente distante dal discredito gravante sui partiti politici. Dunque, con la cautela necessaria, non si pensa di spenderla in qualche modo nello scontro elettorale che verrà? Si tratta, crediamo, di un nodo rilevante su cui ragionare al più presto, evitando di restare bloccati nell'impotente testimonianza di una alterità inascoltata, o di cadere, sotto l'urgere della fretta e delle ambizioni personali, nei pasticci elettoralistici delle passate stagioni.

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Com'era prevedibile, l'ultimo Rapporto Svimez sullo stato del nostro Mezzogiorno ha, giusto per un paio di giorni, prodotto la consueta rassegna di denunce e di pianti...>>>

Com'era prevedibile, l'ultimo Rapporto Svimez sullo stato del nostro Mezzogiorno ha, giusto per un paio di giorni, prodotto la consueta rassegna di denunce e di pianti, di cifre urlate e brandite, di commiserazione di circostanza sugli eterni e rinnovati mali del Sud. In effetti, i dati offerti dalla benemerita Associazione illustrano una situazione visibilmente più drammatica del solito. Ma siamo certi che fra poco non se parlerà più e che, soprattutto, non seguirà alle lacrime nessuna svolta politica concreta. Sarebbe perciò il caso - culturalmente più coerente con l'ipocrisia dominante che si esibisce ormai da decenni - di istituire una giornata di commemorazione nazionale del Sud, di mettere in calendario una nuova festività civile, come il 20 settembre o il 2 giugno e di onorarla come si deve. Non solo, naturalmente, con cerimonie in tutte le città, con la banda musicale, ma anche con la visita solenne del capo dello Stato a un luogo altamente simbolico (a Teano, a Calatafimi?) per deporre una corona di fiori ai caduti per il Mezzogiorno d'Italia. Ne saremmo tutti più felici e moralmente sollevati, anche se, come ora, non cambierebbe nulla della situazione reale.

Quando il tema Mezzogiorno torna alla ribalta del dibattito pubblico, il giornalismo nostrano dà sempre l'impressione di trattare un fenomeno eterno ed immobile della storia del nostro paese: quasi si trattasse di ricordare che la Penisola termina con le montagne delle Alpi e che ai lati continua ed esserci il mare. Una falsificazione della realtà che serve a soddisfare la recriminazione dozzinale – e probabilmente la convinzione dominante - di chi lamenta il fatto, dopo decenni di intervento straordinario, di risorse pubbliche investite a favore delle ragioni meridionali, che nulla è cambiato. Una inerzia culturale, la quale non solo nasconde i grandi mutamenti strutturali che hanno attraversato il Sud dal dopoguerra a oggi, ma serve a cancellare le responsabilità politiche recenti di problemi e divari nuovi.

Ancora oggi grava sul Mezzogiorno l'atmosfera denigratoria elaborata dalla Lega a partire dagli anni '80 e poi diventata filosofia di governo. A pensarci bene, non c'è stato alcun paese, in Europa, dove un partito dell'esecutivo abbia fatto della criminalizzazione di una parte ampia della popolazione l'oggetto della propria propaganda e pratica politica. Ci ricordiamo quanto è durata la campagna di Bossi e soci contro il “Sud ladrone e mafioso”, prima che arrivassero gli extracomunitari a rinverdire la figura del nemico? In questo caso, per la prima volta nella nostra storia, attraverso una forza politica di governo, lo stato è stato indotto a elaborare politiche contro una parte del territorio nazionale e contro i suoi cittadini. Una campagna ben riuscita, se si osserva che da anni nessuno ha il coraggio intellettuale di alzare la voce e di proporre un piano di intervento pubblico all'altezza delle necessità.

Ancora oggi che il Sud appare stremato, dopo 5 anni di feroci e suicide restrizioni anticrisi, si continua a guardare ai divari produttivi, di investimenti, di reddito, di consumo, di occupazione (cioé ai dati economici che dominano la rappresentazione pubblica della realtà) come agli unici rilevatori degli squilibri. Quelli, per intenderci, degli scorsi decenni e di sempre. Quasi fosse una realtà che non cambia mai, come il colore del cielo. In realtà non si tratta solo di questi dati, che certo restano fondamentali. Come hanno rilevato su Stato e mercato (2013, n.98) Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò – due docenti dell'Università della Calabria – tra il Sud e il Nord emergono sempre più nettamente «divari interni di civiltà» che non si giustificano con gli squilibri strettamente economici. In altre aree d'Europa, dove si registrano differenze nell'apparato produttivo e nella distribuzione del reddito, simili a quelli Nord-Sud, non si danno le sperequazioni nei servizi e nelle dotazioni pubbliche che si trovano abbondantemente nelle regioni del Sud: nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nell'assistenza agli anziani. Si pensi, tanto per fornire qualche dato indicativo, che i servizi per l'infanzia coprono in Campania solo il 14% del fabbisogno a fronte del 70% in Lombardia. In Sicilia solo l'11% degli anziani sopra i 65 anni usufruisce dell'Assistenza integrata domiciliare(ADI), contro il 34% della Liguria e il 93% del Veneto. Più della metà della famiglie calabresi non può bere acqua dal rubinetto a fronte del 3% delle famiglie trentine. Si realizza per questa via, come sottolineano i due autori, l'aperta violazione dei diritti costituzionali di «un cittadino meridionale a godere di un insieme di servizi essenziali nella identica quantità e qualità di un cittadino che vive in una regione del Nord».

A generare queste come altre innumerevoli disparità concorrono non tanto le dinamiche del mercato, quanto il comportamento dello Stato, e comunque il potere pubblico, tanto nelle sue manifestazioni centrali che periferiche. Una inclinazione alla disuguaglianza delle politiche pubbliche, ovviamente alimentata dai dati strutturali, oltre che dai comportamenti delle classi dirigenti locali (pur sempre collegate strettamente a quelle nazionali) che andrebbe corretta con politiche apposite, ubbidendo non certo allo “statalismo” - come hanno urlato i neoliberisti in tutti questi anni – ma a un dettato della nostra Costituzione. Sappiamo bene in che considerazione è tenuta oggi la Carta dal ceto politico di governo. Ma sappiamo spesso poco di come lo Stato ha operato per accrescere disuguaglianze e povertà. Pochi sanno, ad es. che il Fondo nazionale per le politiche sociali è passato da una dotazione di 789 milioni di euro del 2008 a soli 178 milioni nel 2011. E naturalmente il Sud si è giovato enormemente di questa riduzione dell'assistenza, del dilagare della povertà e della disperazione sociale, potendosi lanciare, senza più lacci e lacciuoli, nella competizione, nell'agone del libero mercato. Come pigolano sempre più piano tanti economisti un tempo acclamati.

Una scelta di tagli che disvela l'ipocrisia dei pianti di questi giorni, mostrando la cultura miserabile dei governi che dal 2008 hanno in mano le sorti del Paese. Si affrontano problemi laceranti di disuguaglianza sociale riducendo le risorse che possono attenuarle, demolendo un piccolo pilastro del welfare, colpendo i più deboli nei territori più emarginati. E allora che gli uomini di governo e i rappresentanti delle istituzioni piangano pure sulle sorti del Sud, ma in una data prestabilita, in modo che la finzione abbia la sua piena rappresentazione istituzionale. Come accade per la commemorazione dei caduti per la patria, che si onorano ogni anno, mentre si continua a fare guerra nei vari angoli del mondo. Si portino, da parte delle “più alte cariche dello Stato”, come gracchia la bolsa retorica dei telegiornali, sontuose corone di fiori, non solo sulla tomba della “questione meridionale”, ma anche su quella della politica italiana.
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A ogni osservatore ragionevole, pensoso delle sorti del paese, le ragioni perché Letta, compiuta la riforma elettorale, mandi a casa il governo, dovrebbero.. >>>

A ogni osservatore ragionevole, pensoso delle sorti del paese, le ragioni perché Letta, compiuta la riforma elettorale, mandi a casa il governo, dovrebbero apparire evidenti. Non ritorno sulle ragioni morali e di etica pubblica, già altre volte evocate. Questo ceto di governo ha letteralmente disseccato le basi morali della politica e fa sentir vano il solo parlarne. Rammento almeno che l'attuale esecutivo, avendo capovolto il mandato ricevuto e tradito la fiducia di tutti gli elettori - ottenuta con un sistema elettorale estorsivo del consenso popolare - si fonda su un atto di fellonia che non ha precedenti nella nostra storia. Poggia, per così dire, su una scelta fondativa di immoralità pubblica. Tralascio, per brevità, anche le gravissime questioni di ordine economico, che certo non fanno un passo in avanti con la recente “legge di immobilità”.

Mi limito qui alle ragioni strettamente politiche. Ammesso, per pura esemplificazione espositiva, che queste ultime, legate come sono alla trama della legalità, possano essere separate dall'etica pubblica. Dunque, un nuovo totem è stato innalzato in piazza e dato in pasto ai media come un animale sacrificale: la stabilità. Giornali e telegiornali hanno trovato un nuovo motivo su cui suonare le loro quotidiane fanfare. Pare che il fine supremo dell'azione del governo sia diventato lo stare uniti dei suoi ministri, indipendentemente da quel che si fa. Come se sostare in stazione guardando i treni che passano ci facesse arrivare da qualche parte. Mentre la stabilità ci viene imposta come uno stato di necessità, quasi che il governo delle larghe intese, con la sua sola presenza, dovesse salvarci da una catastrofe imminente. Certo, mostrare un minimo di stabilità governativa aiuta ad abbassare lo spread e porta qualche vantaggio alle finanze pubbliche. Come negarlo ? Ma basta questo e i recentissimi provvedimenti per uscire dalla situazione in cui ci troviamo? E a questo rattrappito orizzonte si è rassegnata la politica, stare accucciata, rattoppare di compromesso in compromesso una maggioranza rissosa e innaturale per tranquillizzare i mercati finanziari? I quali, come sappiamo, sono già così tranquilli che acquistano ormai a mani basse i capisaldi della nostra industria. Qui l'opera del governo somiglia a quella di chi raccoglie per strada i calcinacci di un edificio in cui è già crollato il primo piano.

Ma quanto ci costa la stabilità su altri versanti? Esiste, ad esempio, un vastissimo ambito della vita nazionale su cui non arriva, se non episodicamente, il nostro sguardo. E' il vasto mondo delle amministrazioni e della politica locale. Qui, negli ultimi mesi, in molte aree, si è bloccata la dialettica politica. Nella periferia del paese l'emarginazione o la scomparsa di ogni opposizione fornisce un alimento formidabile alla cultura dilagante della collusione, dentro e fuori i partiti. Se PD e Pdl sono alleati a Roma, nei comuni, nelle Regioni, nelle provincie , nelle varie partecipate, il controllo di legalità si affievolisce, talora diventa esilissimo.Le persone intransigenti, che pure non mancano, sono sospinti ai margini della vita politica e amministrativa dai tantissimi figuri che praticano la politica come affare. Esemplare appare il caso della Calabria. Qui, nell'ottobre del 2012, è stato sciolto per collusione con la mafia nientemento che il comune di Reggio Calabria.Non proprio un villaggio di montagna, ma una città di 180 mila abitanti. L'ex sindaco e ora presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti ha ricevuto l'anno scorso un avviso di garanzia e naturalmente, secondo il costume inaugurato e reso normalità dal berlusconismo, sta splendidamente al suo posto. Ma da quando si è formato il governo Letta una pax augustea è scesa sulla vita politica della regione. Come fa il partito che era il maggiore oppositore, il PD, a fare lotta politica, in Calabria e altrove, contro un alleato di governo? Appare evidente, a chi sa osservare, l'innesco di una tendenza pericolosa, in un paese segnato da tre forme storiche di criminalità. Un governo delle larghe intese, che durasse degli anni, distruggerebbe la legalità repubblicana e il tessuto civile della nazione.

Ma i guasti delle larghe intese si vedono benissimo anche dal Centro dell'Italia. La più evidente specificità della crisi italiana non è solo data dalla inettitudine del ceto politico a elaborare una strategia efficace e credibile. E' anche la profonda sfiducia dei cittadini nella loro capacità di governo e nella loro onestà e trasparenza. Ora, come si risponde a tale elementare e universale esigenza, fonte di ogni democrazia, se non si attribuiscono le responsabilità storiche della crisi in cui versa il paese e della sua fallimentare gestione? Con il governo Letta, che alcuni strateghi del Pd e qualche supremo ispiratore (non mi riferisco alla Spirito Santo), vorrebbero tenere in vita un altro anno e mezzo, scompare alla vista degli italiani ogni responsabilità storica di quanto accaduto. Eppure, gli italiani versano in una delle condizioni di più grave disagio e immiserimento della storia repubblicana. Assistono sgomenti alla decomposizione dei fondamenti della loro economia e del loro benessere. E ad essi non solo non viene indicata una via d'uscita credibile, ma neppure chiarita la ragione storica, la responsabilità politica di chi li ha condotti a questo punto. Certo, anche il Centro-sinistra ha fatto la sua piccola parte, ma è evidente che l'Italia sfasciata di questi anni è il prodotto storico, la creatura fallimentare del centro-destra, interprete provinciale e cialtronesco delle ricette neoliberiste che hanno portato alla crisi mondiale e ancora la alimentano.

Ma se il PD rimane così lungamente abbracciato al suo avversario, se non riesce, com'è evidente, se non a rattoppare ricette compromissorie e senza risultati, come si presenterà agli elettori nella prossima campagna elettorale? Chi sarà l'avversario da battere e dunque da indicare come il responsabile del presente disastro? Davvero si può pensare che in un anno e mezzo la condizione del paese cambi al punto da rendere meritevole di consenso, agli occhi degli elettori, l'operato di questo governo? Tale linea di marcia ha poi varie altre conseguenze. E' evidente che se nello scenario politico italiano non emerge una forza politica di sinistra riformatrice, capace di una critica radicale al centro-destra e alle sue ricette ( una forza che corrisponde alla nostra storia, al comune sentire e alle aspettative di una vastissima, forse maggioritaria parte di italiani ) allora l'Italia diventerà ingovernabile, qualunque sarà il sistema elettorale. E' evidente che l'astensionismo è destinato a diventare il primo partito e il movimento 5S un centro stabile del sistema politico. La spinta di alcuni settori di Sel a gravitare nell'orbita satellitare del Pd è foriera di sicuri disastri. Finirà col rendere irrilevante questa formazione nello scenario nazionale, rafforzando nel PD l'anima centrista e neoliberista e aprendo ampi spazi ai 5S .

Ma ci sono altre conseguenze di medio periodo, che dovrebbero allarmare tutti. La sconfessione, da parte di Grillo, dei parlamentari che al Senato avevano provato ad per abolire il reato di clandestinità, è un segnale non episodico. Disputare se Grillo è fascista o meno serve a poco. Una delle caratteristiche costitutive dei movimenti populisti è la loro volubilità e mancanza di programma. I loro capi adattano le politiche alle circostanze e alle correnti dominanti che attraversano l'opinione pubblica, peraltro da essi stessi influenzata e manipolata. Il movimento 5S nel nostro prossimo futuro, può diventare qualsiasi cosa. Potrebbe ereditare in nuove forme il populismo berlusconiano. Lo si comprende guardando anche al crescente successo delle destre in Europa e soprattutto ai recenti sondaggi che in Francia danno il partito di Marie Le Pen al primo posto. L'attuale situazione francese mostra una evoluzione ormai da manuale. Il presidente Hollande, che aveva ricevuto il consenso della maggioranza dei suoi connazionali, non è riuscito a incanalare il crescente disagio popolare in una prospettiva credibile di soluzione a vantaggio della grande massa dei lavoratori e del ceto medio.

Il solito gatto che si morde la coda. Perché se le forze di sinistra, giunte al potere, non danno corso alle politiche di sostegno popolare promesse , ma finiscono con l'accettare le compatibilità della finanza, perdono poi l'appoggio popolare di cui avrebbero bisogno per forzare quelle compatibilità e far vincere le proprie soluzioni. Il grande rischio è che, col passare dei mesi, diventino allora sempre più facili e più credibili le spiegazioni xenofobe e nazionaliste della crisi. Gli “stranieri che rubano il lavoro” diventerà un motivo dominante della propaganda di destra, alimentata inesorabilmente dalla decomposizione dei tanti stati del Nord Africa e dalle nuove correnti d'immigrazione. E' prevedibile che, continuando in Europa la politica economica attuale, il rancore antitedesco, che cova storicamente nell'anima della Francia profonda, dia alla destra un consenso ancora più vasto. E se dovesse vincere Le Pen è evidente che l'avventura dell' Unione europea è finita.
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C' è una ragione fondamentale di opposizione alla TAV in Val di Susa, che emerge poco…>>>

C' è una ragione fondamentale di opposizione alla TAV in Val di Susa, che emerge poco nella discussione, e ovviamente mai nelle argomentazioni dei suoi intrepidi fautori. Una ragione che si aggiunge alla sua inutilità, alla devastazione ambientale che verrebbe a provocare, alla violenza contro una intera comunità. Ciò che si dimentica di ricordare agli italiani è che tale grande opera non si cumula ad altre pur così visibilmente necessarie e vitali per il nostro paese, ma le esclude, ne costituisce una alternativa permanente e probabilmente definitiva.

Se si investono decine di miliardi di euro per realizzare qull'opera, diventerà sommamente difficile che lo stato metta a disposizione – in una fase di ristrettezze finanziarie che si annuncia assai lunga – altre risorse per un'altra “grande opera”, che appare urgentissima di primissimo ordine per l'avvenire dell'Italia: la messa in sicurezza del nostro territorio. Si tratta di due strade opposte e nettamente divaricate: o si costruisce il grande traforo e la linea Torino Lione per trasportare merci che transitano sempre meno lungo quell'asse, o si investe per arginare fiumi e torrenti, per riparare frane e abitati, per ricostruire strade, attivare o ripristinare linee ferroviarie leggere, creare scuole e ospedali nei piccoli centri. Questa “grande opera” affidata all'azione molecolare di mille piccole opere appare oggi come una via drammaticamente obbligata per alcune ragioni molto semplici da spiegare.
Come già sapevano gli ingegneri idraulici dell'800, il nostro Appennino imprime un carattere sistemico al rapporto montagna-pianura della Penisola. I vasti processi erosivi che lo segnano costantemente si riversano a valle e vanno a interessare, in maniera molecolare , ma talora violenta, i territori delle piane e delle coste. Alluvioni, frane, smottamenti che devastano sistematicamente l'Italia hanno prevalente origine da li. Perciò l'intera sicurezza del territorio nazionale dipende dal mantenimento di tale equilibrio . Ma un tempo la vasta area , tra le montagne e le pianure litoranee, era controllata dal lavoro quotidiano delle famiglie contadine. Un grande filtro proteggeva in qualche misura le aree a valle. Ora non più. E le campagne interne, i borghi, le cittadine si vanno spopolando lentamente andando a intasare le aree litoranee, dove ormai si addensa poco meno del 70% della popolazione nazionale.
Una grande minaccia incombe dunque sugli abitati, le imprese, le infrastrutture, la ricchezza nazionale, che si ammassa in un'area sempre più ristretta: alluvioni potenzialmente sempre più distruttive. Ebbene, negli ultimi tempi, si è utilmente lavorato a una nuova strategia per rompere il drammatico squilibrio economico, demografico e territoriale che segna l'Italia di oggi. Fabrizio Barca, quando era ministro, ha messo in piedi un vasto progetto per il recupero le aree interne, passato ora in eredità al ministro per la Coesione Territoriale, Carlo Trigilia. Si tratta di un piano - alla cui elaborazione collaborano tecnici, sindaci, studiosi di varia provenienza - che non si esaurisce in un qualche cantiere destinato a costruire una singola grande opera. E' un progetto, che incorpora in sé un modo diverso di protezione del territorio, affidata in minima parte al lavoro ingegneristico di riparazione, ma che punta a rigenerare antiche economie e a crearne di nuove: ad es. attraverso l'agricoltura di qualità fondata sulla biodiversità agricola, agli allevamenti avicoli, allo sfruttamento delle acque interne, alla selvicoltura di pregio, al turismo , soprattutto a quello escursionistico, alla valorizzazione dei beni archeologici e culturali dei borghi antichi. Il territorio viene protetto, il paesaggio mantenuto e ricostruito attraverso il ripristino di antiche e nuove pratiche produttive in grado di attrarre popolazione ( i nostri giovani e quelli che fuggono dai paesi dell'Africa) ridando o conservando i servizi nei piccoli centri, riempiendo di vita vasti territori oggi in via di definitivo abbandono.

Dunque, com'é evidente, si tratta di un progetto che, per visione e modo di procedere, si distacca nettamente dal modello di sviluppo economico tardo-novecentesco rappresentato dalla TAV. Non è solo una diversa concezione dell'economia, ma incarna un nuovo modo di procedere dell'azione politica, che non muove imponendo dall'alto piani di modificazione rilevanti dell'assetto ambientale, e invece si mette a servizio delle popolazioni con un rapporto di cooperazione aderente alle multiformi realtà locali. Più democrazia, maggiore partecipazione, più elevato rispetto dell'ambiente, costruzione di economie stabili, esaltazione delle culture locali messe in condizione di aprirsi e arricchirsi nel nuovo scenario cosmopolita che avanza..

Ebbene, è evidente che tra TAV e impegno per la valorizzazione delle aree interne tertium non datur. Sono due strade opposte e culturalmente inconciliabili. Ma proprio questo nodo potrebbe costituire un banco di prova per fare chiarezza all'interno del PD . E' sempre più evidente che i dirigenti favorevoli al progetto della TAV in Val di Susa nel migliore dei casi sono legati a un vecchio modello di sviluppo economico e hanno una visione autoritaria del rapporto tra stato e popolazioni. Nel peggiore, ovviamente, sono collusi e in affari con il mondo delle imprese. Come emerge di tanto in tanto, non certo per denunce che vengano dall'interno del partito, ma per l'azione della magistratura. L'arresto dell'ex presidente della Regione Umbra – interessata costruzione del Tav sotto Firenze - è solo uno dei tanti casi in cui la passione di alcuni dirigenti del PD per le grandi opere fa venire alla luce i torbidi interessi personali che la ispirano.

Ecco, dunque, un nodo strategico su cui confrontare due opposte visioni del nostro paese, che tagliano in profondità anche alcuni nodi essenziali di moralità civile. Quante realtà locali a livello partitico, oltre che nella pubblica amministrazione, verrebbero bonificate nelle loro pratiche affaristiche se vincesse una linea di opposizione alla TAV in Val di Susa? Il Pd si aprirebbe per questa via a centinaia di migliaia di giovani, che si oppongono a quell'opera. Quale attrattiva offre infatti all'immaginario giovanile la TAV? E che cosa può rappresentare il progetto di rinascita delle aree interne, che significa nuovi posti di lavoro, protezione dell'ambiente e del paesaggio, accoglienza dei disperati, una nuova dimensione di vivere e operare con spirito di cooperazione su un territorio che non replica le dinamiche caotiche e degradate delle nostre realtà urbane?Senza dire che, sperperare miliardi di euro per una singola opera significa di fatto opporsi alla protezione dei nostri habitat, militare contro la sicurezza del territorio nazionale.

La crisi, dunque, è oggi una grande occasione di pulizia intellettuale e di onestà politica. E' finita l'epoca dei minestroni elettoralistici grazie ai quali il discorso pubblico del ceto politico può essere infarcito di tutto e del suo contrario. Occorre smascherare sistematicamente chi inganna l'opinione pubblica mettendo insieme obiettivi incomponibili. E' evidente che chi caldeggia l'acquisto degli F-35 lavora per sottrarre risorse alla scuola e all'Università e non è più autorizzato a parlare di “ futuro” e dell' ”avvenire dei nostri giovani”. Cosi come chi è favorevole al nostro “impegno di pace” in Afganistan - che ci costa diverse decine di milioni di euro al mese - non può in coscienza affermare di essere favorevole al potenziamento della sanità pubblica e al pagamento di pensioni decenti per i nostri vecchi. Bisogna avere l'onestà di stare da una parte o dall'altra, Dunque, sono questi temi che potrebbero fare del congresso PD un terreno di contesa di reale respiro strategico.

Per nostra fortuna, la sinistra, in Italia, non finisce col PD. Di sicuro, la sua parte culturalmente più alta e più avanzata, più onesta, sta fuori di esso. Questa parte, com'è noto, ha trovato di recente una forma organizzata provvisoria nell'iniziativa di Rodotà e Landini, La via maestra, che mette al centro della sua azione la difesa della Costituzione e la sua piena attuazione.Il 12 ottobre, a Roma, questa organizzazione darà prova della sua forza e del suo slancio con una grande manifestazione. Contrariamente a quanto ha fatto Angelo D'Orsi, su Micromega on line il 27 settembre, io esorto a partecipare. Si tratta di un gesto politico importante. Ma le lucidissime osservazioni di D'Orsi sono tutte da meditare. Certamente, la dirigenza di Rodotà e Landini costituisce garanzia contro antichi errori, soprattutto contro il patriottismo dei piccoli partiti , contro il velleitarismo minoritario, che in passato hanno prodotto tanti danni. E la rimessa al centro della Costituzione, interpretabile come un progetto politico di società più giusta e avanzata, costituisce un forte collante, non solo ideale, per tenere insieme il multiforme e disperso arcipelago della sinistra. Ma è evidente che la manifestazione del 12 deve essere vista come un punto di partenza, altrimenti l'esperimento naufragherà, com' è successo con il movimento dei girotondi e altre consimili esperienze.

Di sicuro, La via maestra può svolgere un'importante azione di elaborazione e di influenza culturale. Quella pratica oggi abbandonata dai partiti, ormai immersi in un pragmatismo opaco e senza orizzonti. E in questa elaborazione culturale dovrebbe trovare certamente un posto centrale la questione territoriale e ambientale. Non c'è in Europa e forse nel mondo un paese storicamente così dipendente, come l'Italia, dalla salute dei suoi habitat eppure popolato da cittadini e classi dirigenti così clamorosamente dimentichi di questa drammatica originalità. La cultura ambientale e territoriale degli italiani è a livelli infimi. E oggi da noi lo studio della geografia è bandito dalle scuole! Con un'altra cultura nazionale la TAV in Val di Susa avrebbe goduto di pochi consensi. Ma non voglio certo suggerire temi a Rodotà e Landini.Al contrario credo che, perché abbia un futuro, La via maestra dovrebbe selezionare pochi obiettivi, legati all'attuazione della Costituzione, in grado di creare mobilitazione e articolazione territoriale duratura e radicata. Dovremmo imparare dai gruppi dominanti, che utilizzano le catastrofi per imporre le loro scelte come stati di necessità. Il paese subisce oggi una delle più gravi catastrofi della sua storia: milioni di persone senza lavoro. Approfittiamone per imporre una tassa di scopo e finanziare il reddito di cittadinanza. Creiamo un nuovo pilastro del welfare, attuiamo in questo modo la Costituzione, percorriamo l'unica strada che oggi potrebbe restituire in tempi brevi, a milioni di uomini e donne, ai nostri giovani, la perduta dignità del vivere.

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Non dirò certo che la caduta del governo Letta era prevedibile. Profezia troppo facile per chi l'ha avversato prima ancora che nascesse. Quel che è da capire oggi è altro ...>>>

Non dirò certo che la caduta del governo Letta era prevedibile. Profezia troppo facile per chi l'ha avversato prima ancora che nascesse. Quel che è da capire oggi è altro e ben più importante e decisivo per l'avvenire. Non è possibile infatti che politici di lunga e consumata esperienza, leader accorti, uomini saggi si siano infilati per ingenuità in un vicolo che sin dai primi passi si rivelava impercorribile. Non era noto, il 27 aprile, allorché si è formato il governo delle “larghe intese” ( quanto è innovativo il linguaggio politico in un Paese in cui la politica non cambia nulla) che di li a poco la Cassazione avrebbe con ogni probabilità inflitto una condanna definitiva a Berlusconi? E che quindi Letta avrebbe governato con uomini a servizio di un criminale? Certo, per decoro istituzionale si poteva chiedere ai ministri del Pdl di prendere le distanze dal loro Capo e di rispettare con atto formale la sentenza della magistratura. Non avevano giurato costoro, all'atto di formazione del governo, fedeltà alla Costituzione? E quale fedeltà c'è nel rifiutare, come essi continuano a fare, la sentenza definitiva di un potere costituzionale dello Stato? Ma questo passo non è stato compiuto.

Con danni incalcolabili all'onore della Repubblica, all'etica civile del nostro paese. Con l'instaurazione di prassi imbarazzanti e al limite della legalità: quando Angelino Alfano si recava dal Capo dello Stato entrava nelle stanze del Quirinale come ministro o come messo servente di un pregiudicato? E quanto controproducente è stato imporre, non solo agli elettori del PD, ma a tutto il vasto popolo della sinistra, un governo innaturale, che tradiva il voto degli elettori, che vedeva alleato quanto resta di una grande tradizione politica, con il partito azienda di un uomo che milioni di italiani considerano la più grave sciagura capitata all'Italia negli ultimi 20 anni? Quanto nuovo discredito nei confronti del ceto politico portava agli occhi dell'opinione pubblica questo accordo incestuoso tra due partiti tradizionalmente avversi? E non sapevano i fautori delle larghe intese che la crisi italiana è anche morale, di sfiducia dei cittadini nei confronti delle capacità e dell'onestà dei gruppi dirigenti e in primo luogo dei partiti politici? Davvero si poteva pensare che l'accordo di governo fra due screditate oligarchie avrebbe pacificato gli italiani? Come si può pensare di unire i cittadini, galvanizzare il loro spirito di cooperazione per far riprendere slancio e fiducia a tutto il paese, quando esso resta lacerato da disuguaglianze e ingiustizie crescenti, disparità oltraggiose di fortune private, a cui non solo non si mette mano, ma che vengono confermate con atti di governo?

Ma, al di là dell'etica civile, di cui il ceto politico italiano sembra aver perso memoria, sbagliate e controproducenti apparivano sin dall'inizio le strategie anticrisi del PDL. Non era noto che quel partito avrebbe lottato allo stremo per abolire l'IMU sulla prima casa? E davvero si poteva pensare che su questo punto si sarebbe trovato un compromesso? Una leggerezza rivelatrice, che mostra i limiti dell'approccio moderato ai fondamenti della crisi italiana. Senza un trasferimento rilevante di ricchezza, sottratta alla rendita fondiaria e finanziaria, a favore del lavoro e del mondo produttivo, la macchina industriale del paese non si rimetterà in moto. Altro che togliere l'IMU sulla prima casa anche alle famiglie ricche, quel 10% che detiene il 50% della ricchezza nazionale! E invece si sono persi 5 mesi per far tornare i conti senza nessun risultato, anzi tornendo indietro: il debito è continuato ad aumentare, il deficit ha superato il tetto fatidico del 3%, forse aumenterà l'IVA, il PIL è ancora in calo, nuovi posti di lavoro zero. Nel frattempo l'industria italiana va in pezzi o viene acquistata a prezzi di saldo dal capitale straniero. Gli ultimi dati ISTAT danno il fatturato industriale di luglio in calo dello 0'8% rispetto a giugno e un – 3,6 rispetto allo scorso anno. Dire che ci sarà la ripresa a fine anno, come fanno Letta e Saccomanni, è uno slogan penoso lanciato dai nostri governanti sin dal lontano 2009. Ormai è un dato immaginario del calendario, come annunciare che sul finire di dicembre arriverà il Santo Natale. Solo che almeno Natale arriva davvero.

Ma allora, come hanno fatto a sbagliare così clamorosamente i dirigenti del PD e il loro supremo ispiratore, Giorgio Napolitano? La risposta ovvia e nota è che non c'erano alternative. Io credo al contrario – insieme a non pochi altri – che le alternative c'erano e che invece è stata perseguita la strada perdente con abilità, calcolo e determinazione.

Lo spazio non consente la ricostruzione storica che il ragionamento meriterebbe. Ma è evidente che dal 2009, con il precipitare della crisi internazionale, le fortune politiche di Berlusconi sono crollate. Qualcuno ricorda i dati dei sondaggi elettorali dell'autunno 2011? Era evidente che l'incanto tra il narratore di ciance e l'elettorato moderato italiano si era rotto. Un gruppo di potere che governava da poco meno di 20 anni presentava al paese un bilancio desolante di fallimenti pressoché in tutti gli ambiti della vita nazionale. Apparve allora chiaro che il centro-sinistra aveva davanti a sé un potenziale di consenso senza precedenti e si candidava a succedere a un governo palesemente allo sbando. Eravamo a uno snodo storico di rilevante portata. E invece Napolitano non sciolse le camere e chiamò Monti. Poco dopo, conclusa l'esperienza Monti, si è aperta una campagna elettorale nella quale il leader del PD, Pierluigi Bersani, chiedeva agli elettori di non farlo vincere troppo, al fine di poter condividere il governo con il moderato Monti. Mai nulla di simile si era visto in tutta la nostra storia politica. E' stato, com' è noto, accontentato. Ma pur avendo vinto di misura il capo dello Stato non gli ha poi consentito di andare in Parlamento e verificare la fiducia. Il resto è noto.

Ebbene, qual' è la spiegazione di questo lucido ma fallimentare percorso strategico? La risposta , che è seria e non moralistica, è una sola: l'onesta viltà intellettuale di gran parte dei gruppi dirigenti del PD. Costoro, divisi al loro interno, sanno perfettamente di essere inadeguati ad affrontare una crisi di tale gravità e ampiezza come quella in cui annaspiamo. E Napolitano lo sa meglio di loro. Hanno costruito un partito d'opinione, incapace di organizzare e rappresentare le istanze popolari, e in grado di far valere una forza di massa negli attuali rapporti di classe che soffocano il paese e che condizionano la ripresa . Essi dovrebbero entrare in conflitto con i gruppi dominanti con cui ormai dialogano come governanti, quando non sono collusi in pratiche affaristiche. Avrebbero bisogno di una capacità di manovra almeno di raggio europeo e invece vegetano nel tran tran quotidiano di una Italia sempre più provincia dell'Impero. E' per questo che il PD non ha osato muoversi da solo in mare aperto. Condividere con l'avversario le responsabilità anche di un eventuale fallimento – oltre a gestire insieme gli effetti socialmente dolorosi dell'austerità - mette al riparo da sconfitte catastrofiche e consente di conservare parte del potere politico fin qui conseguito.

Naturalmente con l'auspicio di “uscire dalla crisi” e puntare più in là a nuove prospettive. Ma, a parte il tamponamento di problemi d'emergenza ( cassa integrazione, esodati, pagamento di debiti da parte dello Stato, ecc) quale strategie era in grado di esprimere il governo delle larghe intese per affrontare la crisi? Oggi è evidente che il distillato strategico della politica economica dei governi neoliberisti è l'aggiornamento di uno schema neocoloniale. Ogni stato deve avere i conti in ordine, il lavoro flessibile, l'amministrazione efficiente, una bassa pressione fiscale perché il capitale finanziario che gira per il mondo in cerca di affari trovi conveniente investire. E dunque muovere la crescita economica, creare lavoro. Organizziamo i vantaggi comparati, in competizione con altri paesi, perché vengano a colonizzarci. Davvero un salto di qualità, sia di visione che di compiti, per la politica del nostro tempo.

Ora l'esperimento è rovinosamente fallito. Ma da esso non bisogna limitarsi a trarre la conseguenza che Berlusconi è uno dei più torvi lestofanti mai apparsi sulla scena politica del globo. Questo, almeno noi, lo sapevamo da un pezzo. La grande e luminosa lezione è che con le tresche trasformistiche della vecchia politica, con i pannicelli caldi delle ricette neoliberiste non si va da nessuna parte. La caduta del governo Letta segna la sconfitta di una linea moderata del centro- sinistra che non potrà non avere conseguenze sui rapporti di forza interni al PD e su tutta la sinistra. A destra le stampelle politiche si sono rotte. Nei prossimi mesi e anni o il PD cambia rotta, affrontando il mare aperto, aprendosi alle realtà in fermento nella società, nelle fabbriche, nei gruppi intellettuali, o trascinerà con sé il paese sempre più in basso, ai margini dell'Europa e del mondo. Certo, se nel frattempo non avremo costruito alternative.
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Per gli storici e per la storia bastava la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 a certificare ufficialmente, oggi e per le generazioni future, che Berlusconi è un criminale…>>>

Per gli storici e per la storia bastava la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 a certificare ufficialmente, oggi e per le generazioni future, che Berlusconi è un criminale. La sua decadenza da senatore – salvo sortite suicide in aula dei parlamentari PD- taglia ora profondamente nella carne della politica, tanto dei suoi alleati che dei suoi avversari. Chiude vent'anni di storia nazionale. Ma la sentenza è stata importante perché – nell'ipotesi improbabile che Berlusconi debba uscire indenne dai processi che l'attendono – mette già il bollo della legalità repubblicana sulla fedina penale del personaggio e colloca nell'indiscutibilità storica la sua condanna. E' un atto formale importante, perché la legalità, in Italia, è diventata opinabile, oggetto di contese. Benché oggi sia lo stesso Berlusconi a mettere la sua firma autentica sotto la propria biografia di delinquente. E' dalla data della sentenza definitiva che egli ha dismesso i panni dello statista e ha assunto quelli del capo eversivo, frenato solo dai quotidiani calcoli di convenienza. Non solo egli non accetta la legge dello stato, ma è all'opera per ricattare il governo, il Parlamento , la Presidenza della Repubblica e lanciare minacce in ogni direzione. Tale violenta insubordinazione illumina sinistramente sia le sue oscure origini di imprenditore che l'intero suo percorso di uomo politico. E' evidente che egli non si è mai fermato di fronte ai vincoli di legalità quando li ha incontrato come ostacoli sul suo cammino. Così come è chiaro che i tanti processi, passati e pendenti, dipendono da questa sua attitudine al crimine, negli affari e nella politica, e che la cultura del personaggio è quella del gangster. Gangster, termine già usato da Eugenio Scalfari, è etimologicamente calzante, perché trae origine da gang, banda e dunque rinvia al carattere organizzato del suo agire delittuoso. La condanna di Previti, compratore di giudici e proposto dal Capo quale ministro della Giustizia– in un processo da cui Berlusconi è uscito grazie alla prescrizione – lo ha provato ampiamente. Non a torto Roberto Saviano – lo ricorda Francesco Erbani su Repubblica del 5 settembre - ha osservato che Berlusconi usa un linguaggio di discredito della magistratura e di rifiuto delle sentenze che è il medesimo dei mafiosi e dei camorristi.

Dunque, tutto racconta che un malvivente è stato per ben tre volte capo dell'esecutivo nel nostro paese e ha dominato per vent'anni la scena pubblica. Non era mai accaduto nella nostra storia né in quella dell' Europa contemporanea. E in effetti il cesarismo criminale mancava alla collezione storica delle nostre perversioni politiche. Una parabola che si chiude nell'ignominia della persona e nel declino generale del paese, trascinato per quasi vent'anni dietro le sue politiche fallimentari. Insisto su tale aspetto – su cui molti commentatori si sono già soffermati – per sottolineare l'abisso da cui usciamo. Per tentare di tracciare una demarcazione di fuoco, tra questa fase e quella che deve necessariamente seguire.

Ma Berlusconi non ha agito da solo, né sul piano criminale né su quello legale. Non mi riferisco alla sua ristretta corte: il più squallido campionario antropologico che abbia mai calcato la scena politica in Occidente. Egli a lungo ha goduto dell'appoggio incondizionato di grandissima parte della borghesia italiana e dei suoi intellettuali. Sino all'esplodere della crisi ha avuto la Confindustria dalla sua parte. Perfino i giovani industriali erano entusiasti di lui. Qualcuno ricorda i raduni annuali nei quali i giovani imprenditori si spellavano le mani in applausi alle sue battute ? Certo, essere un bravo imprenditore non sempre si accompagna all'accortezza politica. Ma scambiare Berlusconi per uno statista non è un errore da poco, benché nazionalmente così diffuso. Ma quanta stampa, anche non alle sue dipendenze, gli ha fatto coro e dato sostegno per anni? Occorrerebbe ricordare almeno gli editorialisti del Corriere della Sera, che hanno messo la propria autorevolezza e quella del loro giornale, con finti contorcimenti – si coniò allora il termine “cerchiobottista” - al servizio del gangster. Ricordo almeno un articolo di Angelo Panebianco, dell'11 novembre 1997. che gridava a « un regime più o meno soft, fondato su un soffocante conformismo », incarnato nientemeno che dal governo Prodi. Un articolo di cui non si sa se stupirsi di più per la faziosità dello scienziato della politica o per l' inconsistenza predittiva del giornalista, che vedeva un regime nascente in un traballante governo, destinato a cadere 11 mesi più tardi. I governi del Cavaliere (proprietario di 3 canali TV, di case editrici, giornali, produzioni e distribuzioni cinematografiche, istituti finanziari) ovviamente, per gli editorialisti del Corriere , fieri liberal e nemici dei monopoli, non incarnavano tali rischi. Ma Berlusconi ha goduto anche dell'appoggio della Chiesa italiana e soprattutto della CEI, fino a quando l'indecenza scandalosa dei suoi comportamenti l'ha reso possibile, e tollerabile agli occhi dell'opinione pubblica cattolica. E qui bisogna dire – e lo dico nel momento in cui papa Francesco sta inaugurando una pagina straordinaria di rinnovamento e di speranza - che la Chiesa, nel mercimonio sistematico con Berlusconi e i suoi governi, ha scritto una delle pagine più opache e scadenti della sua storia recente. Ci siamo dimenticati il rozzo e feroce razzismo di stato praticato dalla Lega dall'alto dell'esecutivo? Ebbene, prima che papa Francesco si recasse a Lampedusa, la Chiesa – evidentemente attenta ai vantaggi economici contrattati con l'esecutivo - ha taciuto o appena balbettato tanto sulla barbarie culturale della Lega che sui migranti respinti o segregati nei CIE, quando non perivano nel Mediterraneo. Per non dire della brutalità integralista con cui le autorità religiose, spesso col concorso di ministri che avevano giurato fedeltà alla Repubblica, sono intervenute per privare i cittadini italiani del diritto a nascere e a morire.

Ma del ventennio fanno parte anche gli avversari del Cavaliere, indubbiamente rimpiccioliti e immiseriti, dall'aver avuto come controparte nulla più che un malfattore, ancorché abile comunicatore di ciance. Raccontano le cronache che Massimo D'Alema abbia agli inizi considerato un vantaggio politico il fatto che Berlusconi fosse gravato da un così enorme conflitto d'interesse. E Luciano Violante ha poi rivelato che ci fu un accordo tra gli ex-comunisti e Berlusconi per non toccare le sue televisioni. Ma vantaggio per cosa? Il vantaggio che si trae dalla posizione di illegalità dell'avversario non può che essere la sua ricattabilità. E la ricattabilità quale beneficio potenziale offre se non quello di realizzare accordi sottobanco ? Ma vantaggio per chi?Per una parte politica, forse, non per il paese. Il non scalfito impero mediatico del Cavaliere, oltre ad alterare gravemente il gioco democratico, ha inferto un colpo mortale al pluralismo della comunicazione, ha fatto delle TV, private e pubbliche, la macchina incontrastata per la colonizzazione consumistica dell'immaginario nazionale. Vent'anni di desertificazione culturale hanno spianato la vita pubblica italiana.

Ma gli avversari hanno anche fatto propri gli stilemi, il linguaggio, la cultura mercantile del magnate televisivo. Chi non ricorda gli elogi di D'Alema per la TV? Ma egli ha trasformato il vecchio PCI – che indubbiamente andava rinnovato – nel partito del leader, che può fare a meno del legame con i territori, delle federazioni e delle sezioni, e che parla direttamente ai militanti, ormai solo elettori, nuovi consumatori di messaggi, tramite la voce televisiva del capo. Naturalmente affinità di linguaggi e di modalità d'azione rivelano affinità di programmi, di orizzonti culturali. In questi vent'anni non abbiamo soltanto subito il danno dell'azione dei governi berlusconiani e la macelleria sociale della sua fase finale, ma anche il calco soffocante di questa versione cialtronesca del neoliberismo sulla sinistra storica. L'attuale governo è l'esito naturale – il “piano inclinato” di cui ha parlato Asor Rosa – di questa affinità di due ceti politici che hanno finito per rassomigliarsi nell'intento di salvare se stessi, prima ancora che il paese. Il voto (obbligato) degli uomini del PD alla decadenza di Berlusconi dovrebbe perciò essere occasione di una rottura definitiva con un passato i cui errori e i cui danni generali sono sotto gli occhi di tutti. Il cambiamento del gruppo dirigente del PD è anch 'esso obbligato. Un cambiamento di uomini, ma anche di strategia e di visione, di modo di operare di un partito. Per questo, fatta la riforma elettorale, il governo Letta – figlio di una legge incostituzionale - deve chiudere. Non è certo sufficiente mandare a casa Berlusconi e il governo delle larghe intese per uscire dalla miseria del berlusconismo, ma certo è un passo preliminare e fondativo.
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Metteremmo in gravi difficoltà perfino la Sibilla Cumana, se dovessimo chiederle di predire le sorti prossime venture del Pd e dunque l'assetto su cui poggerà lo schieramento di centro-sinistra. Su tale fronte - noi che non disponiamo di strumenti divinatori - ci limitiamo a una modesta profezia e alla formulazione di un auspicio. La profezia, alquanto ovvia, è che il PD non si spaccherà, come alcuni temono e altri auspicano. Nessuno lascerà la barca e affronterà il mare. Le acque sono troppo agitate e il coraggio non è tra le prime virtù del ceto politico. Oggi poi il “centro”, il punto geometrico del sistema più agognato degli ultimi anni, è diventato un luogo maledetto. E ' un buco nero, un gorgo, il Maelström, che trascina e inghiotte anche i marinai più provetti. Ricordate Rutelli e l'Api? Scomparsi nel nulla. E Casini ? E Monti? L'avevano scambiato per un fondatore di imperi. Ora è al centro, pestato, che si dibatte tra i flutti con i vecchi politicanti di una Italia che non passa mai. E si comprende anche facilmente perché il centro sia così mal messo. La crisi si manifesta come iniqua distribuzione dei redditi , che spacca la società e spinge alle ali estreme chi dalla politica attende trasformazioni reali e giustizia. Il centro – l'abbiamo detto più volte – è il luogo galleggiamento del ceto politico, che vive di mediazioni quotidiane nel proprio sopramondo, per il fine supremo della propria perpetuazione.

L'auspicio è un messaggio nella bottiglia. Si desidererebbe, al prossimo congresso del PD, nientemeno che una collettiva autocritica del gruppo dirigente. Simile, per lo meno nelle motivazioni etico- politiche, a quella personale di Goffredo Bettini ( Manifesto,13/8/), orientata da due specifici indirizzi. Il primo riguarda la revisione della politica di liberalizzazione e formazione di un mercato finanziario deregolamentato, a cui il PD ha contribuito, come tutti gli altri partiti socialisti e socialdemocratici europei. Mentre il secondo, coerente e legato al primo, riguarda la spinta fornita sino ad ora alla “flessibilità del lavoro”, il nuovo, moderno servaggio del nostro tempo, la creazione di un esercito di precari, che ha sostituito l'esercito industriale di riserva di marxiana memoria. Come è facile intuire, si tratta dei due assi strategici di una politica che è all'origine della presente crisi e al tempo stesso la ragione dell'attuale impotenza di partiti e governi e in primo luogo della sinistra. Come tutti gli altri partiti, il PD ha rafforzato i poteri dominanti e indebolito e tagliato i legami con le classi sociali che a lungo avevano costituito la propria base di riferimento, il proprio punto di forza. L'autocritica mostrerebbe facilmente che il partito degli ex comunisti (e successive incarnazioni) ha vissuto , sul piano dell'elaborazione culturale, sui cascami rimasticati dell'avversario storico. Un presa d'atto che, ovviamente, non ha fini di autoafflizione penitenziale, ma dovrebbe servire a ridisegnare l'intero progetto riformatore.

Esiste un'altra strada, tuttavia, più realistica, che potrebbe aprire una prospettiva all'intera sinistra italiana. Proviamo a simulare uno scenario molto semplice. Nichi Vendola lascia il posto di presidente della Puglia e si dedica interamente a dare una struttura più solida al suo partito. Ad es. rendendo più ampio e visibile il gruppo dirigente di Sel – che conta politici bravi e di lunga esperienza – rafforzandolo con nuovi elementi, auspicabilmente giovani, portatori di esperienze, culture e geografie dell'Italia di oggi. In questo modo Sel apparirebbe un partito meno dipendente dal suo leader. Vendola e il nuovo gruppo potrebbero dedicarsi più sistematicamente a battere territori e periferie d'Italia, là dove conflitti e movimenti hanno fatto emergere figure di potenziali dirigenti. Qui Sel potrebbe incontrare militanti in grado di presentarsi ai cittadini non con il volto delle vecchie, ancorché rade, figure di apparato, ma con l'aspetto di una società civile che si autorappresenta al meglio delle sue possibilità. Un partito così potrebbe essere alimentato da un programma politico che Sel, ovviamente, già possiede anche se mortificato dall'alleanza fallimentare con il PD. Ma puntando essenzialmente su due assi fondamentali. Il primo riguarda il lavoro e in primissimo luogo il lavoro della gioventù. Non era mai accaduto nella storia d'Italia che almeno due generazioni di giovani venissero lasciate senza possibilità di occupazione e senza prospettiva di vita. E' un suicidio della nazione di proporzioni inaudite, dal momento che tra questi giovani si trovano centinaia di migliaia di laureati, ricercatori, studiosi: l'élite di un moderno paese industriale.

Dunque, la richiesta del reddito di cittadinanza dovrebbe uscire dalle nebbie della propaganda elettorale e trovare formulazioni concrete e pressanti. Crediamo che l'evoluzione “naturale” di una società industriale dovrebbe essere l'accorciamento della giornata lavorativa e la distribuzione del lavoro su una più vasta platea di occupati Ma i rapporti di forza totalmente sbilanciati a favore del capitale – resi tali anche dalla ritirata dei partiti di sinistra dalla rappresentanza politica della classe operaia - spinge gli imprenditori a cercare strade più profittevoli nell'uso flessibile della forza-lavoro e nella speculazione finanziaria. Non abbiamo altra strada, per molti anni ancora, che la redistribuzione parziale dei redditi attraverso un atto politico. Pensare che la “ripresa” porterà il mercato del lavoro, a breve, a una condizione di normalità, significa svilire l'attività stessa del pensare.

Il secondo asse strategico dovrebbe riguardare le prospettive dell'Unione. E qui occorre partire da una presa d'atto. L'Europa attuale è morta da tempo nella coscienza dei cittadini europei. Se ne erano avuti significativi segni, già prima della crisi, con il no di Francia e Olanda al referendum del 2005 sulla Costituzione europea. L'Unione si può rilanciare solo attraverso una severa critica dei modi in cui essa è stata realizzata. Altrimenti si suonano solo le trombe stridule della retorica. E la critica deve risvegliare e far leva – dobbiamo pur dirlo – sull'orgoglio nazionale, mortificato dalla politica di austerità della Troika. Davvero si può credere che non sia successo nulla, nella coscienza degli italiani, nel constatare che le condizioni della loro vita dipendono dal fanatismo di ristrette oligarchie straniere?Naturalmente la critica all'Unione dovrebbe essere accompagnata da quello che è clamorosamente mancato: uno sforzo di 'alleanza con gli altri paesi paesi mediterranei e il Portogallo per ridiscutere il debito e avviare una prospettiva politica all'altezza delle sfide che si aprono in questo angolo del mondo.

Crediamo che, collocata in tale prospettiva, Sel potrebbe attestarsi nella prossima campagna elettorale su una percentuale del 10% e forse oltre. L'ottimismo della previsione si fonda su alcune basi certe. La prima è sicuramente data dal fallimento cui è condannato il governo Letta. Un esecutivo che spende mesi della propria attività per partorire il mostriciattolo dell'abolizione dell'IMU, mentre il paese va a picco, è un piccolo monumento all 'attuale tragedia italiana. E non sono certo le promesse della ripresa che conforteranno i milioni di cittadini indebitati e senza lavoro nei prossimi mesi ed anni. E' certo che le condizioni sociali dell'Italia peggioreranno ancora, visto che l'arretramento economico non si è ancora fermato. E dunque il PD pagherà la sua politica moderata, peraltro condotta insieme a un partito che fa scudo al suo capo criminale: un uomo condannato dalla giustizia italiana, che continua a sconvolgere il nostro sistema costituzionale e ad avvelenare lo spirito pubblico. Non meno consensi Sel potrebbe sottrarre al movimento 5 Stelle. Il fallimento di questa formazione è sotto gli occhi di tutti. A un movimento, nato e cresciuto grazie alla corruzione e alla impotenza dei partiti tradizionali, non sarà perdonato di aver contrapposto, sul piano politico e parlamentare, nulla più che una onesta inettitudine. Per non dire dell'impoliticità irrimediabile di Grillo e del suo socio.

C'è infine una condizione storica di fondo da considerare. Come ha ricordato di recente Ilvo Diamanti (Un salto nel voto, Laterza), le antiche fedeltà elettorali si sono ormai dissolte. Le inerzie che tenevano idealmente legati milioni di persone, da decenni, a uno stesso partito hanno ormai ceduto. Nulla è più garantito ai detentori di vecchi e onorati marchi.

Un così probabile successo elettorale farebbe di Sel il centro del sistema politico italiano, punto di riferimento di gran parte dei movimenti sociali, capace di attrarre il consenso di gruppi e figure intellettuali di larga influenza nazionale. Nessun governo sarebbe possibile senza di essa. Allora l'alleanza con il PD potrebbe avvenire su nuove basi e sconvolgere gli assetti del suo gruppo dirigente. Nuovi scenari a sinistra.

Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale >>>

Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale. Quasi una disarticolata e spontanea risposta dei popoli alla globalizzazione dei mercati e dei capitali. Ricordiamolo, il millennio scorso – salvo le ombre anticipatrici della guerra nei Balcani e dell'invasione americana dell'Irak - sembrava voler chiudere con una solenne pacificazione, il '900: il secolo più sanguinoso dell'età contemporanea. D'altronde, non era uscito di scena, con il crollo del blocco sovietico, il Grande Nemico dell'Occidente? Non era stata sanata, con la riunificazione delle due Germanie, la più grave ferita lasciata dall'ultima guerra nel cuore dell'Europa? Non si avviava il Vecchio Continente all'agognata unificazione e alla creazione di una moneta comune? E non apparivano ormai tutte le società del pianeta – perfino la Cina comunista, perfino il Vietnam, simbolo dell'epica antimperialista dell XX secolo - affratellate sotto l'ombrello uniforme del “consenso di Washington”? Per un momento, l'americanizzazione del mondo è apparsa un fatto compiuto. Con significativa coerenza ideologica, ma con troppa fretta e somma ingenuità, qualcuno proclamò la “fine della storia”.

Sappiamo che la grande rete della pacificazione si è smagliata ben presto. Lo stesso Novecento, come si ricordava, prima di uscire dal calendario, ha lasciato un'orrida scia di sangue nell'Europa balcanica. Sappiamo che con il nuovo millennio il conflitto antimperialista ha assunto le forme fanatiche del terrorismo religioso con l'attacco dell' 11 settembre alle Torri Gemelle. E si è potuto subito constatare che la storia non era ancora finita. Ma oggi la pentola mondiale ribolle per l'alimentazione di altri fuochi. Certo, non si può commettere l'errore di ricondurre tutti gli eventi che oggi vanno esplodendo un giorno dopo l'altro, a poche e uniformi cause.

Grande è sotto il cielo la varietà dell'universale scontento. E la considerazione non vale solo per le rivolte di questi giorni. Non vale soltanto per gran parte del popolo dell'Egitto, trascinato dal moto delle “primavere arabe”e mai rassegnato a subire il calco autoritario e oppressivo dell'islamismo. Non vale per le folle in tumulto del Brasile, che hanno rovesciato per le strade i vecchi idoli del calcio, al cui oppio si erano troppo lungamente assopiti. Né per i giovani turchi di piazza Taksim, anima di una rivolta nazionale innescata dalla difesa del bene comune di un parco. Anche in Europa i movimenti e le lotte che l'hanno attraversato in questi ultimi anni avevano diverse cause e ragioni. Dalle lotte dei francesi contro la riforma delle pensioni del governo Sarkozy, alle proteste degli studenti inglesi contro l'aumento delle rette universitarie, dalle diverse ondate del movimento degli studenti e degli insegnanti italiani, alle prolungate proteste dei giovani spagnoli che hanno occupato le piazze di Madrid e Barcellona. L'Italia meriterebbe una considerazione a sé, per la varietà dei conflitti sociali: da quella dei ricercatori universitari agli operai arrampicati sulle gru per difendere il posto di lavoro, dalle manifestazioni di massa delle donne alla straordinaria campagna popolare contro la privatizzazione dell'acqua. Certo, la crisi economico-finanziaria apertasi nel 2008 ha funzionato da grande detonatore. E non solo nel Vecchio Continente, dove la Grecia è stata squassata dalle proteste disperate della sua popolazione repentinamente immiserita, ma perfino negli USA, dove il movimento Occupy Wall Street ha testimoniato la colossale iniquità su cui si regge il modello sociale americano.

Dunque, dobbiamo concludere che cause molteplici e non collegabili fra loro oggi agitano le nostre società? Niente accomuna questa straordinaria novità storica: il fatto che le lotte non sono limitate all'Europa, ma investono ormai tutti i continenti, pullulano a migliaia nella Cina della Grande Trasformazione, nelle campagne dell'India, in America Latina, nell'Africa settentrionale?

In realtà - benché occorrerà affidare a meno occasionali analisi la ricognizione su una scala così vasta – a osservare da vicino gli eventi, alcuni elementi comuni saltano agli occhi. Il primo fra tutti è che la grandissima parte di questi moti non sono organizzati da partiti politici. Certo, ci sono qua e là i sindacati, quando sono in campo i conflitti operai. Ma i partiti sono assenti. Vale a dire : mancano dalla scena allestita dai movimenti le figure che dovrebbero trasformare le ragioni della protesta in azione politica dentro lo stato. Com'è evidente, soprattutto in Occidente, questo non accade perché i partiti sono diventati, indistintamente, stato. Essi sono sempre meno rappresentanti degli interessi collettivi, e sempre più controparte. Si tratta della conferma di una realtà già nota.

La grande ritirata dei partiti da massa da una rappresentanza effettiva degli interessi popolari ha finito col porre non uno, ma due distinti poteri sulle spalle dei ceti popolari: il dominio dei gruppi economico-finanziari e i partiti-stato. Da tempo questi ultimi sono impegnati, con capacità mediatoria che varia da caso a caso, a trasformare il potere mondiale del sopramondo economico finanziario in agende politiche nazionali. Con effetti stridenti sempre più noti ed evidenti. Mentre sono impegnati a liberalizzare e a privatizzare, a piegare tutti gli spazi della vita umana e sociale a regole profittevoli di mercato, a scatenare insonni campagne pubblicitarie sulla competizione e sul merito, a rendere “contendibili” le imprese – come suona le retorica predatoria della finanza - flessibile il lavoro, essi marciano in direzione inversa. I partiti si statalizzano, non premiano il merito ma le clientele, non attivano la competizione, ma più spesso gli accordi segreti, non sono “contendibili”, non adottano flessibilità, a volte sono corrotti e collusi coi poteri criminali. Si sono trasformati, di fatto, in chiusi oligopoli impegnati a perpetuare il loro ruolo e potere.

Questa evidente contraddizione tra ciò che si impone alla società e si risparmia a se stessi è certo causa non ultima del rancore che si va accumulando nel fondo dell'anima popolare e che di tanto in tanto esplode. Eppure non è questa la grande causa comune che noi crediamo di percepire al fondo dei moti che vanno dilagando in ogni punto del pianeta. Il fuoco che alimenta le rivolte, a prescindere della varietà delle occasioni locali, è una contraddizione che ormai stride sotto gli occhi di chiunque vuole osservare. Una conoscenza diffusa, una informazione quotidiana a scala universale di cui si impossessano ormai masse crescenti di cittadini, confligge con violenza contro l'opacità, la distanza, l'impenetrabilità perdurante del potere, di tutti i poteri.

Il cittadino che sa, comprende sempre di più che le scelte operate dallo stato o dall'amministrazione locale influenzeranno la sua vita e perciò pretende di dire la sua, vuole partecipare alle decisioni.Egli va scoprendo, di giorno in giorno, i diritti lungamente occultati di cui non gode. Ma a fronte della conoscenza di cui dispone, il suo potere di influenza sulle scelte del ceto politico è spesso nullo. Non accade solo in Cina, dove, come ormai si dice, c'è il Wi Fi, la connessione libera alla rete, in ogni villaggio, mentre il potere del Partito rimane gigantesco e imprescrutabile. Ormai accade anche nei paesi dove vige da tempo il moderno stato di diritto. In Italia i gruppi dirigenti continuano la guerra in Afganistan, violando la Costituzione, in aperto disprezzo della grandissima maggioranza dell'opinione pubblica nazionale. Con la sensibilità delle vecchie dittature latinoamericane del '900, essi continuano nella fabbricazione e acquisto di armi di combattimento, nella dilapidazione di ingenti risorse per fini di morte, mentre fanno precipitare in condizioni umilianti le nostre scuole e Università. E' anche per questa ragione che utilizziamo qui il termine popolo. Sappiamo bene che le moderne società industriali hanno sviluppato complesse stratificazioni sociali. Ma oggi, mentre vediamo sempre più limitate le sovranità nazionali, sempre più inascoltate le richieste e le proposte che salgono dalla società, tale regressione aggiornata all' Ottocento richiede che si torni a parlare di popolo e di popoli. E questi popoli oggi sono stanchi. Stanchi di non essere ascoltati, stanchi di contare sempre meno. Stanchi di osservare l'avanzare in ogni dove di una nuova democrazia dell'informazione, i segnali di un nuovo mondo possibile e di trovarsi addosso inette oligarchie che paiono trascinarli nell'opaca passività dei secoli passati.

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L'Italia non è solo – in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa – terra di città. E' anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati >>>

L'Italia non è solo – in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa – terra di città. E' anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati lungo la dorsale appenninica e preappeninica e fin sulle Alpi, ma presenti anche, con caratteristiche proprie, nella Pianura padana. E una saliente caratteristica è la loro varia origine storica, che va da epoche remotissime sino all'Otto-Novecento, insieme alla diversità delle genti e delle colonizzazioni che li hanno plasmati. Si pensi a un centro come Bobbio, in Emilia Romagna, abitato in età neolitica, poi colonizzato dai Liguri, dai Celti, dai Romani; oppure Pitignano, in Toscana, parimenti attivo nel neolitico, colonizzato dagli Etruschi e successivamente romanizzato. E ancora, sempre per sottolineare l'antichità della fondazione e la varietà delle civilizzazioni – ma per cenni necessariamente avari e sporadici – si può ricordare, scendendo verso Sud, Norcia, in Umbria, centro d'incontro di varie etnie nel mondo antico, poi assoggettata ai Romani; Gerace, in Calabria, colonizzata dai Greci a partire dal VIII-VII secolo e poi divenuta bizantina.
Nel Lazio e in parte dell'Italia meridionale dominano i borghi di origine medievale del cosiddetto incastellamento -studiato dallo storico Pierre Tourbet – risultato dell'aggregarsi degli abitati intorno a un castello feudale, per proteggersi dalla incursioni saracene e poi normanne di quell'età turbolenta. Ma è solo per suggerire una idea della vetustà storica e della multiformità delle culture. Non sorprende, dunque, se un numero grandissimo di questi borghi possiede al suo interno e nei suoi immediati dintorni un patrimonio immenso di resti e di manufatti, che custodiscono la memoria millenaria d'Italia, l'operosità di innumerevoli generazioni di artigiani e artisti. In questi centri sono disseminati santuari, torri, casali, abbazie, chiese, pievi, palazzi signorili, necropoli, ville, mausolei, sepolcri, chiostri, affreschi, statue e dipinti, anfiteatri, aree archeologiche, cinte murarie, strade, porte, vasche termali, cisterne, acquedotti.
I resti, insomma, talora ben conservati, di una civiltà impareggiabile. Nel 1980 Federico Zeri curò l' VIII volume della Storia dell'arte italiana per Einaudi, dedicata ai Centri minori dove tanto tesoro è illustrato per ricchissimi esempi. Mentre le benemerite guide rosse del Touring Club, come ricordava Italo Calvino, costituiscono il “catalogo nazionale” dove così innumerevoli beni sono registrati nel loro contesto storico e territoriale.

Ora che cosa accade nella nostra civilissima Italia? Accade che una parte crescente di questi borghi sono a rischio di abbandono, o sono già divenuti dei centri fantasma. Si calcola che siano almeno 5000 in tali condizioni. Naturalmente, la tendenza in atto non è senza contraddizioni. Esistono territori montani, come il Mugello, in Toscana, dove la popolazione tende a crescere. Negli ultimi anni i paesi intorno a Roma si sono gonfiati di popolazione. A causa degli elevati costi dei fitti, molti cittadini che lavorano a Roma sono andati a vivere nei paesi vicini, eleggendoli quali dormitori rurali del loro pendolarismo. Ma la corrente prevalente è l'abbandono, lo svuotamento demografico, soprattutto lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne.

A questa situazione da tempo si vanno opponendo con varie iniziative non pochi enti e gruppi, come l' Associazione Borghi più belli d'Italia, sorto nel 2001 per impulso della Consulta del turismo e dell'Anci, il Gruppo Touring Club, il Paesi Fantasma Gruppo Norman Brian (che si occupa della mappatura dei borghi) e varie altre associazioni a scala locale, come l'Azione Matese, impegnata a favore dei paesi del Massiccio del Matese. Ciò di cui queste associazioni e varie altre hanno bisogno, tra l'altro, è senza dubbio una visione territoriale più ampia delle aree interne italiane e della formazione di una rete veramente attiva di informazione, scambi e cooperazione. Le aree interne fanno oggi parte di un vasto progetto, necessariamente di lunga lena, avviato da Fabrizio Barca all'interno del Ministero per la coesione territoriale.
Si tratta di un disegno di riequilibrio demografico, sociale, ambientale che può offrire nel tempo vaste prospettive al lavoro italiano e alla valorizzazione delle immense risorse naturali ospitate in queste terre. L'agricoltura della biodiversità agricola e la sua trasformazione agroindustriale, la selvicoltura, l'allevamento, l'utilizzo delle acque interne, l'escursionismo, il turismo, l'agricoltura sociale, le fattorie didattiche, la produzione di energia su piccola scala, l'artigianato del riciclo costituiscono le leve potenziali della rinascita di queste aree dove è prosperata per secoli la nostra civiltà rurale. A condizione, naturalmente, che i servizi fondamentali ( scuole, ospedali, trasporti) riacquistino o conservino il loro ruolo irrinunciabile.
Ma i borghi possono svolgere una specifica funzione attrattiva. Al loro interno si custodiscono non solo i manufatti artistici che abbiamo sommariamente elencato, ma, assai di sovente, essi sono scrigni invisibili che custodiscono antichi saperi, dialetti, culture e letterature popolari, strumenti musicali tradizionali e canti antichi, conoscenze di erbe e piante, forme di preparazione e conservazione dei cibi, cucine multiformi. Ma in questi luoghi si conserva dell'altro. In realtà, il nostro immaginario colonizzato dal demone dell'utile ci impedisce di scorgere tanti invisibili tesori immateriali. Si ritrovano infatti in tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare, lentezze e assaporamenti della realtà circostante che nella città sono ormai perduti per sempre.
Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che si ritrova ancora conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico.
Perciò occorre stabilire un nuovo rapporto di curiosità e scoperta, creare un nuovo sguardo sul nostro passato - come da tempo va facendo Franco Arminio, anche sulle pagine del manifesto - mescolare l'antico con il presente: ad es. trasformando vecchi edifici in abbandono, riattivando antiche manifatture con nuove produzioni, o cambiandole in “manifatture delle idee”, cioé in sedi di nuovi centri di ricerca. Occorrerà dunque seguire e documentare le iniziative che vanno sorgendo nei borghi, perché essi segnano il sentiero di un nuovo possibile rapporto degli italiani col proprio territorio e con il proprio passato.
A tal fine trovo qui quanto mai opportuno soffermarmi, sia pur per pochi accenni, su una singola esperienza in uno degli angoli più difficili e fisicamente avversi della nostra Penisola. E anche impervi sul piano civile, a causa della criminalità endemica. Mi riferisco alle attività che dal 2010 va svolgendo l'Agenzia dei borghi solidali nei comuni dell'estrema Calabria come Pentedattilo, Roghudi (spezzato in due da una alluvione nel 1971) e Montebello, all'interno del progetto “i luoghi dell'accoglienza solidale nei borghi dell'area grecanica”. L'Agenzia, aggregazione di numerose altre associazioni, ha sede, a Pentedattilo – pittoresco paese sullo Jonio che scende a cascata da una rupe - in un edificio, Villa Placanica , sottratto alla mafia. E, tra le varie iniziative messe in cantiere, organizza campi di lavoro estivo nazionali e internazionali, il che porta centinaia di ragazzi provenienti da ogni dove negli ostelli presi in gestione nei borghi.
E' un modo per valorizare il patrimonio edilizio pubblico e privato in abbandono, per riportarlo a nuove funzioni e utilità. E in questi spazi si vanno aprendo anche le cosiddette Botteghe solidali. Nel frattempo, all'interno dello Spaziofiera di Roghudi nuovo e di Pentedattilo, sono all'opera botteghe artigiane che puntano a riscoprire e dare nuovo valore alle tradizioni manifatturiere grecaniche, offrendo nello stesso tempo lavoro a immigrati e cittadini svantaggiati. Si tratta di una esperienza agli inizi, condotta da giovani molto capaci e legati al proprio territorio per passione e sensibilità storica. Con un tenace sforzo di aggregazione vanno creando e diffondendo culture di solidarietà e di legalità e soprattutto mettono in moto rapporti interculturali e di cooperazione fra le persone: quelle forme di comunicazione e di scambio che erano già vive su queste terre quando nel Mediterraneo fioriva la civiltà greca e il mare era luogo di vicinanza e di dialogo fra popolazioni diverse.
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Non è chi non lo veda. Quanto è accaduto con la formazione del governo Letta costituisce un episodio che non ha precedenti nella storia dell'Italia repubblicana. Con la scelta di formare un esecutivo insieme al PDL, il Partito Democratico ha stracciato il proprio programma elettorale, rovesciato il patto sottoscritto con i propri elettori. Non solo. Aspetto poco rilevato dalle cronache, ha tradito con noncurante protervia il contratto solennemente sottoscritto con l'alleato della coalizione, Sinistra, Ecologia e Libertà, costretta a ingoiare i vincoli del fiscal compact imposto da quei superbi uomini di Stato che operano a Bruxelles e a Berlino, e a subire un repentino tracollo dei consensi del suo elettorato di riferimento. Il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo, come altri hanno già fatto, che anche gli elettori del Popolo delle libertà sono stati traditi: anche costoro non avevano votato per una coalizione di governo col PD.
Ricordo questo per sottolineare che l'attuale esecutivo non solo si regge sui voti di meno della metà dei potenziali elettori italiani, ma lo fa rovesciando e tradendo il loro mandato politico. Davvero un evento unico nella storia d'Italia. E un colpo devastante alla credibilità della democrazia rappresentativa. Dunque, il governo Letta dà compiutezza anche simbolica al tracollo storico del sistema politico nazionale: i partiti sono una realtà a sé, chiusi nel proprio sopramondo, ormai disancorati da una società che subisce impotente le loro scelte. Sono diventati una specie di limbo: schiacciati in alto dai poteri ottusi e protervi dell'Unione Europea e pressati in basso dalle masse popolari, che covano ormai contro di essi solo odio e rancore. Quelle masse popolari che, se fossero state ascoltate e mobilitate, avrebbero potuto piegare le resistenze di una politica economica che ormai l'intero orbe terraqueo denuncia come sbagliata.

E' noto che, nel tracollo del sistema politico, la posizione del PD è diventata tragica. 101 parlamentari che tradiscono gli accordi del proprio gruppo e che non hanno il coraggio civile di manifestare la propria diserzione, hanno inferto una ferita immedicabile al corpo di un partito già lacerato da innumerevoli conflitti interni. Questo partito, che ha il compito di reggere l'attuale esecutivo, che ha messo docilmente il capo sotto la ghigliottina di Berlusconi, che rischia non solo di perdere le elezioni prossime, ma di esplodere per le proprie faide interne, oltre che per la sconfitta probabile, ha poche strade per uscire dal vicolo cieco costruito zelantemente con le proprie mani. Io credo che il prossimo congresso straordinario sia forse l'ultima occasione perché il Partito democratico mostri alla sinistra e al Paese la propria utilità politica, la propria necessità di esistere.

Ma perché questo accada occorre, a mio avviso, che questo congresso sia davvero straordinario, che non si costruisca e si svolga come al solito, con i signori delle tessere che ridisegnano le vecchie geografie oligarchiche al centro e in periferia. Io credo che ci sia una via d'uscita a tale vetusta prassi, la quale non sanerebbe i conflitti interni e riconsegnerebbe alla fine il partito a questo a o quel gruppo maggioritario, lasciando intatta la sua forma oligarchica.

Credo che costituirebbe non solo un risarcimento politico e morale, ma qualcosa di più, se i tre milioni del cosiddetto “popolo delle primarie” rivendicassero il diritto di partecipare ai congressi preparatori che si svolgeranno in tutti i territori del Paese. In queste sedi potrebbe essere messo alla prova quel progetto di “mobilitazione cognitiva”, di cui parla Fabrizio Barca nel suo recente documento: vale a dire la partecipazione alla vita dei partiti anche di chi non è iscritto, di chi è semplicemente portatore di idee, conoscenze, rivendicazioni, proposte. Un congresso che coinvolga i milioni di uomini e donne, che si sono messi in fila in tutta Italia per eleggere i leader del centro-sinistra, potrebbe immettere nel corpo svuotato del partito un'ondata di fermenti sociali e di conflitti materiali che solo potrebbe rimetterlo in vita. Ma quest'onda potrebbe travolgere utilmente anche i presidi di potere feudale che ancora immobilizzano questo partito non solo nel suo gruppo dirigente centrale, ma anche in periferia. Non bisogna dimenticare che il Partito democratico ha in tutto il Paese centri di potere clientelare detenuti da pochi dirigenti che spadroneggiano nel partito e nelle amministrazioni locali. Sono figure che interpretano la politica come affare, legate ai poteri economici e soprattutto alla rendita fondiaria, che hanno sfigurato l'immagine della sinistra italiana negli ultimi decenni.

Ebbene, hic Rhodus, hic salta, come si diceva una volta. Questo è il momento o forse non ce ne sarà più un altro. Credo che questo passaggio possa costituire un'ultima prova. E' assai probabile che, oltre un congresso in cui non esploda un rinnovamento profondo, non ci sia più né tempo, né spazio per un lavoro di lunga lena, come quello generosamente intrapreso da Fabrizio Barca dentro le maglie organizzative del PD. Temo che la disperazione sociale toglierà a milioni di italiani la capacità di attendere che questo partito diventi capace di intercettarne le angosce e di approntare qualche via d'uscita. Potrebbero rifugiarsi, come in parte hanno fatto, sotto le più varie e disperate insegne. Mentre c'è un arcipelago di forze di sinistra, portatore di idee e senza potere, che attende un vasto e generale sforzo di raccordo e unificazione: il solo, a quel punto, che potrebbe far rinascere quel partito democratico, popolare e riformatore che manca all'Italia da troppi anni.

Cari amici 5 Stelle, ho compreso in maniera definitiva che il vostro movimento correva verso il precipizio allorché Beppe Grillo auspicò un'alleanza di governo PD-PDL >>>

Cari amici 5 Stelle,

ho compreso in maniera definitiva che il vostro movimento correva verso il precipizio allorché Beppe Grillo auspicò un'alleanza di governo PD-PDL che lo avrebbe condotto a guadagnare il 100% dei consensi elettorali degli italiani. Da quella base amplissima, a suo dire, senza più opposizioni, sarebbe partita l'azione riformatrice che avrebbe cambiato l'Italia. Questo modo di ragionare è improvvido per più ragioni, su cui non mi soffermerò. Ma è anche privo di fondamenti storici. E' verissimo che il sistema politico italiano è al collasso, ma che cosa può venir fuori dalla sua definitiva distruzione non sta nelle disponibilità personali di Grillo. All'indomani della prima Guerra mondiale il sistema politico liberale si decompose, anche per effetto dell'ingresso delle grandi masse popolari nella scena politica.
Ma non furono né i socialisti né i popolari a ereditare il potere dai notabili liberali. La borghesia italiana trovò una soluzione insperata e imprevista nel fascismo, che regalò all' Italia vent'anni di dittatura. C'è nelle vostre file un grave errore di prospettiva e di valutazione, oltre ai mille altri deficit di cui son gremite le cronache. Senza dire dello stalinismo mediatico su cui si regge la vostra organizzazione. Quale prospettiva di democrazia suggerite col vostro stile di disciplina interna? Voi credete di incarnare un movimento storico in ascesa – e in parte lo siete – ma oggi rappresentate soprattutto, alle attuali dimensioni, un evento elettorale. La sproporzione tra i numeri dei vostri militanti e quelli dei vostri elettori (oltre 8 milioni) si spiega con un moto di protesta e di “rivolta elettorale “ di milioni di italiani letteralmente disperati di fronte all'inettitudine e all'egoismo affaristico del ceto politico nazionale. Ma quei voti disperati erano anche gonfi di speranza nella vostra capacità di cambiare al più presto anche la natura tortuosa, attendista, opaca dell'agire politico. Nei pochi mesi seguiti all'elezione voi avete mostrato di tenere più alla vostra purezza ideologica e alla vostra unità interna (con un egoismo non diverso da quello della “casta”) che alle sorti del Paese. E gli italiani che hanno potuto – gli elettori del Friuli Venezia Giulia - vi hanno inviato un messaggio che vi dovrebbe allarmare.

Ora, poiché con la formazione del nuovo governo, si è realizzato quanto Grillo sperava ( insieme a Berlusconi e a parte del PD, ma guarda un po'!) si apre per voi non la prospettiva di crescita che speravate, ma l' avvio di un accelerato declino. Vi spiego perché. La tentazione di credere che il governo in carica rinfocolerà i risentimenti degli italiani contro il sistema politico, accrescendo il consenso al vostro movimento, solo sulla base dalla vostra assenza dai giochi del potere, è un'illusione nefasta. Gli italiani chiedono certo trasparenza, ma anche qualcos'altro. Se voi spenderete i prossimi mesi di vita parlamentare solo per criticare le iniziative governative e le mosse dei partiti, alle prossime elezioni ( che possono essere decise a ogni momento da Berlusconi) sarete severamente ridimensionati. Tutto possono oggi tollerare gli italiani, tranne che lo spettacolo di 163 parlamentari impegnati a testimoniare la loro inutilità.

Servono a poco gli urli di protesta, se ignorate che la capacità di sopportazione degli italiani ora vi riguarda direttamente. Gli elettori oggi pretendono anche da voi quello che è mancato in questi ultimi 20 anni: una opposizione reale alle forze dominanti, fatte non di chiacchiere pubblicitarie, ma di azioni concrete. Perciò non solo la vostra crescita, ma la vostra stessa salvezza è affidata all' efficacia dell'azione parlamentare che saprete condurre nei prossimi mesi. Altrimenti non solo indebolirete una potenziale opposizione della sinistra in Parlamento – continuando a favorire il centro-destra, come avete fatto sin qui - ma molti di voi chiuderanno assai presto la loro avventura, accrescendo il tracollo delle rappresentanze popolari e democratiche alle prossime elezioni. Eppure, voi avete ancora la possibilità di dare un impulso nuovo all'opposizione in Parlamento. Io credo che voi potreste concentrare la vostra azione su un paio di temi rilevanti su cui tessere un'alleanza alternativa. Il primo è senza dubbio quello relativo al reddito minimo. Tale rivendicazione appare oggi -a parte il suo merito - una grande contromossa alla carta ricattatoria giocata da Berlusconi su tutto il fronte progressista, quella dell'abolizione e restituzione dell'IMU.
E' più efficace, contro la recessione, il reddito minimo distribuito a milioni di non abbienti, che lo trasformeranno immediatamente in spesa e consumo, o la restituzione di poche centinaia di euro a tutti i proprietari di prime case, fra cui ci sono milioni di abbienti, che neppure si accorgeranno del nuovo introito? Quanto consenso trasversale può far guadagnare il fornire un sostegno pur contenuto a milioni di giovani mai entrati nel mercato del lavoro, ai disoccupati di lungo corso? Il secondo punto riguarda la scuola e l'Università. Quest'ultimo tema riveste grande importanza strategica per le sorti future dell'Italia. Esso comporta, certo, una nuova strategia di investimenti, l'immissione di nuovi docenti, risorse per la ricerca, se non vogliamo che un grande paese industriale finisca alla periferia del mondo. Ma ci sono riforme da introdurre subito nell'Università che sono senza spesa. Si pensi alla cancellazione del nefasto 3+ 2, all'abolizione dei crediti, alla semplificazione della macchina burocratica e dell'organizzazione didattica, alla limitazione della durata dei rettori, ecc.
Alcune riforme come l'abolizione dell'ANVUR, nuovo carrozzone clientelare di italica fattura, farebbero risparmiare centinaia di milioni di euro, da destinare a borse di studio per studenti e neolaureati. E su questo terreno potreste legavi ai movimenti, ai giovani, agli studenti. E naturalmente potreste creare alleanze trasversali con i parlamentari di Sel, ma anche con i tanti parlamentari del PD disponibili a battaglie riformatrici e dotati anche di esperienza politica e del sapere istituzionale che a voi manca. Naturalmente, condizione perché questo si realizzi è che tutti voi cessiate di immaginare che la politica sia una pratica onanistica, sia pure di gruppo.

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto

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E' difficile intervenire sul documento di Fabrizio Barca Un partito nuovo per un buon governo, in un momento nel quale il partito oggetto del disegno riformatore è andato in frantumi. E mentre quello speciale sopramondo che è la vita politica italiana è precipitato nel caos. Anche se non si può fare a meno di pensare che proprio in momenti drammatici come questi si possono generare gli ardimenti delle svolte risolutive. D'altra parte, quello di Barca vuole essere un progetto di medio-lungo periodo, com'è giusto, perciò la discussione può riguardare aspetti progettuali per cosi dire fondativi della sua proposta, lasciando sullo sfondo – ma solo fino a un certo punto – le spinosissime questioni immediate.

Di tali aspetti progettuali io privilegerei, per brevità, l'idea di separare nettamente il partito dallo Stato. Un “Partito-palestra”, scrive Barca, radicato localmente, fondato sul volontariato, «sfidante dello Stato stesso» e in grado di procurarsi dal basso le risorse necessarie alle sue attività. Si tratta di un punto di portata strategica. Come da tempo ha messo in evidenza la politologia internazionale, in quasi tutti i paesi avanzati il sistema politico si è andato configurando come un meccanismo di cartel party, un cartello controllato da due partiti dominanti. Nelle democrazie inglese e americana il bipartismo perfetto incarna pienamente tale modello, con due organizzazioni che fanno la stessa politica e competono per il controllo del potere. Questi partiti sono diventati nei decenni i gate keepers, come li chiamano Y. Meny e Y Surel. In Populismo e democrazia, «i guardiani che vietano l'accesso ai nuovi arrivati», impedendo loro l' accesso alle risorse pubbliche e tenendo lontane tutte le forze, i movimenti, le culture politiche minoritarie che vogliono entrare nelle istituzioni. Il PD è nato per incarnare questo modello in una fase storica in cui esso mostrava tutta la sua grave usura storica, il deficit crescente di democrazia che imponeva negli stessi paesi in cui era nato, dove pure aveva garantito, con alti e bassi, un qualche tasso di rappresentatività. Dunque la nascita del PD costituisce un tentativo tardivo e involutivo di “modernizzazione” del sistema politico, che ha creato molti più problemi di quanto non ne abbia risolti. Intanto, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, ha finito con l'emarginare e cacciare dal Parlamento le varie culture politiche disseminate nel Paese che non trovano più rappresentanza. La sinistra radicale – formazione anche tatticamente utile in un Parlamento nel quale si vogliono vincere resistenze conservatrici - è stata messa in un angolo. Non senza responsabilità – questo è ovvio – da parte della medesima.

Un partito siffatto, nella fase storica in cui le risorse da distribuire con il welfare diminuiscono costantemente, che ha abbandonato gli ancoraggi con le realtà locali e dunque il supporto della militanza diffusa, vede nelle risorse finanziarie pubbliche (ma anche private!) lo strumento fondamentale per la competizione con il partito avverso. Diventate sempre più ristrette le basi del consenso popolare, anche per effetto delle scelte neoliberiste – promotrici delle virtù del mercato su quelle del governo dei fenomeni sociali – il PD diventa un partito che non promuove più azione sociale, ma produce messaggi e ha perciò bisogno di televisione e di tutti i costosi strumenti del marketing elettorale. Ma ha bisogno anche di potere e di danaro per tutti i suoi dirigenti a livello centrale e periferico. E tale necessità diventa, a sua volta, inevitabilmente, il fine dell'agire politico di un numero crescente di figure sociali, sempre più svincolate da obblighi di appartenenze ideologiche. Il lettore può agevolmente riempire tale schema con la cronaca politica e giudiziaria degli ultimi anni. Quanto la trasformazione di un partito di massa in una macchina elettoral-clientelare abbia devastato lo spirito pubblico nazionale, specie nel Sud, e favorito la crescita della criminalità, è intuibile. Senza dimenticare che tale partito competeva con una forza politica che faceva e fa della violazione delle regole dello Stato di diritto il suo marchio d'origine.

Si comprende, dunque, come la proposta di Barca va a colpire una struttura fondamentale della degenerazione di un potenziale partito di massa. Una questione normativa – dunque eminentemente tecnica - che ha riflessi politici e perfino morali di grande rilevanza. Io credo molto in questo approccio “tecnico” di Barca per una ragione fondamentale. I partiti e soprattutto i partiti della sinistra, hanno perduto ovunque il loro più straordinario collante interno: la religiosità del fine da raggiungere, che metteva a tacere gli egoismi e la riottosità dei singoli, e rendeva il collettivo sufficientemente coeso da reggere agli urti della lotta. Oggi questa coesione si è dissolta, anche per motivi storici generali e positivi. Le società occidentali si sono secolarizzate, la religione ha cessato di essere istrumentum regni – salvo nelle goffe sette sopravvissute nei partiti italiani – il pluralismo delle fedi costituisce la stoffa della soggettività delle grandi masse. Occorre che un partito di sinistra ritrovi il collante capace di surrogare la vecchia religiosità militante. E a tale fine le prediche morali servono a poco.

Ciò che è utile – oltre alla rappresentanza dell'interesse collettivo - sono le norme, la sapienza dei vincoli e delle sanzioni, il coinvolgimento partecipativo. Perciò la questione del finanziamento – affrontato da Barca - diventa rilevante. Io credo, ad esempio, che l'imposizione di un tetto egalitario di spesa a tutti i candidati, nella competizione elettorale, costituisca uno strumento fondativo per separare i partiti dai poteri economici dominanti. Per renderli autonomi e più legati agli interessi popolari, obbligati a cercarsi il consenso con la presenza militante nei territori. Non per nulla negli USA i due maggiori partiti, che raccolgono danaro per faraoniche campagne elettorali, sono alle dipendenze del potere economico-finanziario e la politica dei presidenti è una mediazione faticosa (nel migliore dei casi) che lascia intatti gerarchie e privilegi. Oggi possediamo la strumentazione tecnica - la rete - utile non solo per un monitoraggio costante degli eletti da parte dei cittadini militanti, ma anche per la veicolazione dei saperi, che si producono nei territori, all'interno del partito.

Quali sono questi saperi? Sono un impasto di conoscenze, valori, passioni che si esprimono nella cura dell'ambiente, nella difesa del paesaggio, dei beni culturali e monumentali, nella tutela dei beni comuni dell'acqua, dell'aria e della terra fertile,nella volontà di accesso al sapere, nella critica alle forme devastanti dell'urbanesimo neoliberista, nella ricerca del cibo senza da contaminazioni, nella rivendicazione dell'eguaglianza sociale, nella difesa dei diritti, dei valori dell'accoglienza e del dialogo con gli altri, nella difesa della pace e dei popoli sotto dittatura e privi di cibo, nella rivendicazione del ruolo protagonista delle donne, nella volontà di avere ascolto, di controllare chi detiene il potere e di squarciarne le opacità, di mantenersi costantemente informati sulle cose del mondo.

E' a questa cultura, che fa la sostanza più profonda di una nuova sinistra diffusa e maggioritaria nel Paese, che occorre dare forma organizzata e capacità di partecipazione. Nel gruppo dirigente PD non c'è quasi nulla di tutto ciò. Potrà entrarci con un lavoro sia pure di lunga lena? Qui la prospettiva deve fare i conti con il presente. Il PD è un partito impotente. Una delle ragioni non dette della mancata scelta di andare alle urne nel novembre 2011 è che esso non avrebbe retto alla prova per le proprie divisioni interne e sarebbe esploso, come un areo in volo.

Nessuno si è accorto, in questi ultimi anni, del silenzio fragoroso dei dirigenti di questo partito su episodi anche gravi della vita nazionale? La ragione è semplice: se qualcuno prende posizione si scatena la canea delle contrapposizioni. Ed è il caos. Ciò che è accaduto con l'elezione del capo dello Stato è l'ultimo suggello. Nel frattempo, questo partito fa mancare al paese una reale opposizione, una forza di sinistra, un rappresentanza degli interessi popolari sempre più colpiti dalle politiche recessive, esattamente ciò che sarebbe più vitalmente necessario per trovare uno sbocco alla crisi. La quale nasce, com'è noto, dalla iniqua distribuzione delle ricchezze. E' Grillo che ha supplito a questa assenza clamorosa. E allora? Non sappiamo se la collera popolare ci darà il tempo. Forse Barca potrebbe tentare una vasta ricognizione nelle periferie del PD per verificare se, almeno qui, il partito è ancora vivo e se può essere utilizzato, almeno in parte. Perché il suo gruppo dirigente, in quanto dirigente, è morto da un pezzo.

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Sono quasi 5 anni dall'inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d'Italia e d'Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza >>>

Facciamo un po' di storia. Disporre gli eventi in profondità prospettica illumina di più chiara luce la scena del presente. Nel 2009, il presidente della BCE, Trichet, prevedeva una « ripresa graduale » dell'economia nel 2010 (Il Sole 8.11.2009). Ad aprile del 2011 Mario Draghi, prossimo presidente BCE, annunciava la sua « fiducia nella ripresa» per l'anno in corso, dal momento che nel 2010 nessuno l'aveva avvistata.(Corriere della Sera 18 .4. 2011).Nel gennaio 2012, Mario Monti preannunciò una crescita del 10% del Pil italiano per effetto delle liberalizzazioni del suo governo. Qualcuno se ne ricorda? E nell'estate predisse: « l'economia riparte nel 2013» (Il Sole, 21.9.2012). Oggi Mario Draghi promette «Ripresa nel 2014» ( La Repubblica 7.3.2013).Vedremo quali saranno i prossimi vaticini.

Sono dunque quasi 5 anni dall'inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d'Italia e d'Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza. Sul piano della veridicità gli annunci, di cui ho fornito solo qualche esempio, non si discostano molto dalla profezie dei cartomanti, che un tempo richiamavano folle di creduli nelle fiere di paese. Ma i vaticini dei cartomanti erano innocui, non pretendevano di predire l'andamento economico delle società. E invece l' economia è l' unica scienza, insieme alla meteorologia, che si arroga il diritto non solo della previsione a breve, ma addirittura della profezia. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti.
Non voglio tuttavia indugiare nella derisione. Anche se essa è culturalmente e politicamente necessaria. Occorre che la disistima, il discredito, l'irrisione delle capacità tecnico-scientifiche di queste figure, nuovi padroni delle nostre vite, diventi diffuso, popolare, senso comune universale. Il radicamento di un progetto alternativo di società, la sua emersione politica, passa attraverso l'annichilimento di qualsivoglia aura scientifica del discorso economico neoliberista. D'altro canto, è evidente che quei messaggi di prossima ripresa sono pura ideologia, forme di copertura di una feroce lotta di classe con cui i gruppi dirigenti europei tentano di uscire dalla crisi col miglior risultato possibile: la resa senza condizioni della forza lavoro e la riduzione al minimo del welfare.

Le cronache recenti hanno tuttavia mostrato un aspetto inquietante dell'economia, un tempo regina delle scienze sociali e oggi ridotta al rango di tecnologia della crescita: vale a dire un puro dispositivo di calcolo, privo di pensiero, svuotato di cultura e valori, che tende a replicare dei meccanismi. Com'è noto, ai primi di quest'anno, il capo economista del FMI, Olivier Blanchard – confermando uno studio del World Economic Outlook dell ' ottobre 2012 – ha scritto in Errori previsionali di crescita e moltiplicatori fiscali, che i modelli della troika per i programmi di aggiustamento dei paesi UE si fondavano su un moltiplicatore sbagliato. E' straordinario! « Uno sbalorditivo mea culpa», l'ha definito il Washington Post. Qui tuttavia non si tratta semplicemente di stupirsi dell'errore. L'errore fa parte del procedimento scientifico, così come la sua onesta ammissione.

Quel che è clamoroso è l'assottigliarsi oligarchico del sapere e del potere economico-finanziario che governa le nostre società. Il destino economico e sociale di milioni di cittadini europei, la vita di tutti noi, sono stati affidati alla fondatezza di un calcolo finanziario. Un suo errore ha deciso l'immiserimento e la disperazione di un numero incalcolabile di persone. E allora?Il potere politico, quell'insieme di saperi e volontà istituzionali, chiamato a rappresentarci per nostra designazione - a vale a dire i partiti politici – dove erano, dove sono? Che fine fa la democrazia quando, sulla base di un calcolo di pochi “esperti”, si decide della nostra vita? A chi si è consegnata la civiltà europea, le sue culture secolari, le sue opinioni pubbliche mature?
Sappiamo che ai primi del 2013 il nostro debito pubblico ha sfondato i 2000 miliardi, passando dal 120% del PIL del 2011, quando si è insediato il governo Monti, a quasi il 129% di oggi. Nel frattempo apprendiamo che, nell'anno della riforma Fornero, sono stati licenziati 1 milione di lavoratori.
Ebbene, io chiedo: che cosa si attende a prendere coscienza che è in atto a Bruxelles e in tanti gruppi dirigenti nord europei, un disegno ormai evidente di emarginazione economica dei paesi mediterranei nella gerarchia dell' Unione? Che cosa si attende a prendere atto che l'attesa della ripresa, con i presenti vincoli di politica economica imposti dalla UE, è un'agonia senza speranza?Lo ripetiamo da tempo. Luciano Gallino ha mostrato l'impossibilità “econometrica” di uscire dalla trappola in cui i vincoli europei ci tengono legati. Ma ammettiamo pure che la situazione si stabilizzi, che ci sia finalmente la tanta auspicata “ripresa”. Perché l'economia si può “riprendere”, nel senso che almeno una parte delle imprese possono riprendere il loro processo di accumulazione.
Nel prossimo decennio, tuttavia, la società continuerà a impoverirsi e a spappolarsi. E che modello di paese prevarrà? Con la scuola e l' Università messe ai margini, la ricerca in un angolo, i nostri beni culturali in svendita, è evidente che le chances competitive dell'Italia sarebbero affidate all'estrema flessibilità della forza lavoro e ai bassi salari. Con ai piedi i ceppi del fiscal compact l'Italia dovrà ritagliarsi, in Europa e nel mondo, un destino di irrimediabile marginalità.

Ebbene, il bivio che nessuna acrobazia ideologica e nessuna menzogna può più occultare è davanti ai nostri occhi. Dovrebbe essere chiaro anche ai ciechi istitupidi che ci hanno condotto fin qui: o spezziamo tali vincoli o l'Italia si avvierà in un sentiero di immiserimento e di ingovernabile disgregazione sociale. E' molto probabile che essa sarà accompagnata in questa deriva da altri paesi e che l'Europa si frantumi in un caos esplosivo di nazionalismi xenofobi. Le capacità di governo delle attuali oligarchie hanno dato tali prove, da autorizzare le più fosche previsioni. Possiamo accettare che un grande paese industriale venga messo in ginocchio dall'ottusa ortodossia di un pugno di tecnocrati? Ci rassegniamo alla fine del grande progetto dell'Unione?

Ebbene, io credo che ci sia una sola e obbligata strada per evitare questo scenario. Può apparire la via più estrema, ed è la via più ragionevole. Perché i creditori stranieri, che posseggono circa il 50% del nostro debito, hanno più possibilità di essere ripagati da un 'Italia che riavvi i propri meccanismi economici, che non da un paese che affonda. Un paese fallito cancella i suoi debiti, o li rinegozia al ribasso. Personalmente non credo che abbiamo oggi la forza di imporre un audit, una revisione storica della composizione del debito. Ma occorrerà una qualche forma di rinegoziazione, perché il debito è un problema mondiale. Abbiamo tuttavia la forza per imporre la violazione del patto di stabilità in tutti i comuni per spese indirizzate agli investimenti. Ricordo che, con singolare ottusità e protervia, si è finora impedito anche ai comuni senza debiti di utilizzare le proprie risorse.

Ebbene, in tutti i comuni d'Italia, sede secolare del potere popolare, deve essere avviata una rivolta coordinata contro il patto di stabilità. Uno moto organizzato che si accompagni a progetti economici riguardanti gli aiuti alle imprese, gli interventi sul territorio, la scuola, la mobilità e in una parola il progetto di conversione ecologica che li racchiude. Ci sono due propellenti che possono rendere vittoriosa l'iniziativa. Il primo riguarda la rabbia incontenibile che cova nel fondo della società italiana. Il secondo è l'individuazione del “nemico”: l'oligarchia tecnocratica che domina l'Europa.

Chi oggi vuol salvare ciò che di storicamente importante rappresenta ancora l'Unione deve far leva sulla rabbia democratica e sull'orgoglio nazionale per sconfiggere una politica suicida. Un'onda di popolo incontenibile deve sollevarsi contro le mura della cittadella oligarchica. Ma questa è anche l'occasione perché la sinistra smetta di fare politica al vecchio modo, come accordo fra gruppi e si metta alla testa delle iniziative popolari. La sinistra radicale, i movimenti, potrebbero trovare una nuova carica di energia politica guidando la ribellione, trovando consenso nei ceti più vari, e cooperando con le amministrazioni per rimettere in moto le languenti economie locali. O questo grande compito di riscatto nazionale l'assume la sinistra o lo faranno i populisti a modo loro, e probabilmente l'Europa si disintegrerà. E nessuno può prevedere ciò che accadrà alla democrazia. Ricordo che, per una volta, una politica di sinistra contro l'austerità godrebbe dell'occhio benevolo degli USA.

(articolo inviato contemporaneamente a il manifesto)

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La scena politica italiana ci mette ormai da anni di fronte a tali e tante enormità che oggi ci mancano le parole, lo sdegno ci ammutolisce. Eppure bisogna alzare la voce... >>>

La scena politica italiana ci mette ormai da anni di fronte a tali e tante enormità che oggi ci mancano le parole, lo sdegno ci ammutolisce. Eppure bisogna alzare la voce, far sentire il grido della nostra coscienza offesa. Perciò avverto il bisogno di dichiarare che come cittadino italiano mi sono sentito umiliato dal comunicato di Napolitano a proposito della gazzarra inscenata dal PDL nel Tribunale di Milano. La gravità dell'intervento del Capo dello stato è stata già stigmatizzata da autorevoli (pochi) giornalisti (Massimo Giannini su Repubblica del 13 marzo, Marco Travaglio sul Fatto dello stesso giorno) e da un duro comunicato Libertà e Giustizia. Oggi sul Manifesto da Mauro Volpi. Ma non ci si può fermare, non possiamo girare pagina, passare ad altre notizie, come se l'Italia fosse dentro un qualche telegiornale, e dovessimo correre dietro al consumismo bulimico dei media.
La marcia dei parlamentari del PDL dentro il Tribunale di Milano è episodio troppo grave e inaudito per coprirlo col rumore delle notizie sul nuovo papa. E' accaduto che un corpo dello stato, come una qualunque squadraccia, è entrato nella sede dove la magistratura, un altro corpo dello stato, stava svolgendo il proprio difficile e delicato lavoro, per intimidirla. E debbo qui sorvolare sul fatto che tanti di quei manifestanti hanno già coperto di vergogna e di disonore il Parlamento italiano, giurando sull'incredibile fandonia di Ruby “nipote di Mubarak”. Un sopruso che ha ferito la dignità della Repubblica italiana agli occhi del mondo. Anche quanto successo a Milano non era mai accaduto nella storia dell'Italia unita, fascismo a parte. Che cos'altro doveva accadere, per il Presidente della Repubblica, perché pronunciasse una condanna senza alibi né contrappesi, di fronte a un'azione di così estrema gravità?

So bene che il Capo dello stato deve svolgere un'azione di persuasione morale e cercare di attenuare le asprezze dei conflitti tra le parti, specie in una fase complicata e difficile nella vita del nostro Paese. Ma come può Napolitano controbilanciare la condanna dell'episodio al Palazzo di Giustizia di Milano, aggiungendo di comprendere la preoccupazione del Pdl di « veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento>> ? E' difficile far rientrare una simile affermazione nella sfera della moral suasion, come si dice con “nobilitante” gergo inglese. I giudici impediscono a Berlusconi di svolgere la sua funzione? Ma l'intera vita politica italiana degli ultimi venti anni è la storia dei tentativi di Berlusconi di sfuggire alla giustizia con tutti i mezzi. Un fine perseguito, come in questi giorni, con i cavilli e le dilazioni di squadre di avvocati.parlamentari, pagati dunque anche da noi.

Ma soprattutto attraverso il soggiogamento del Parlamento, la manipolazione delle leggi della Repubblica, piegate alle sue personalissime e inconfessabili necessità. Berlusconi, l' anomalia di potere più grave e insanata di tutto l'Occidente e oltre, sarebbe impedito nello svolgere le sue funzioni?
Ci sono due aspetti molto gravi in questa posizione di Napolitano su cui occorrerebbe riflettere. La prima riguarda l'influenza paralizzante che in questa come in altre circostanze ha avuto ed ha sulle scelte di quello che era, o doveva essere, il maggiore partito d'opposizione. Lo si è visto con la scelta del governo Monti e lo si vede ora. Dal PD non abbiamo sentito alzarsi un voce in difesa dei magistrati di Milano. Non sono costituzionalista e non azzardo giudizi di merito. Ma il peso che Napolitano ha da tempo sul PD mi pare, di fatto, distorcente di una normale dialettica democratica.
Naturalmente il PD fa la sua parte in fatto di inerzia, silenzio e inettitudine. Fatto sta che da tanto tempo uno dei maggiori stati industriali del mondo è privo, nella sostanza, di un'opposizione politica.
La seconda osservazione riguarda questa speciale Realpolitik italiana - da decenni linea di condotta del centro-sinistra - che prende atto prudentemente dei rapporti di forza in campo e sorvola “cattolicamente” sui peccati di legalità, di corruzione, di abuso, di sopraffazione dell'avversario. Non aver risolto il gigantesco conflitto di interessi di un impero mediatico piantato nel cuore di uno stato di diritto è conseguente a tale condotta. Ed è un veleno mortale che intossica la vita pubblica. Questo è, storicamente, il modo in cui il PDS, Ds, ora PD ha guardato e continua a guardare a Forza Italia, PDL e alla condotta di Silvio Berlusconi. Com'è noto, il più conseguente teorico di tale filosofia è Massimo D'Alema, la cui cultura politica mi appare “un amalgama mal riuscito” di cinismo da Terza Internazionale e lustrata ideologia neoliberista. Ebbene, tale realismo – dovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti – ha costituito uno dei germi più perniciosi della malattia italiana.
Perché il male più grave del nostro Paese, ancora più difficile da curare della crisi economica, è l'immoralità dilagante, l'abuso, la corruzione, l'accaparramento privato del bene pubblico, il godimento esibito dei privilegi, l'ingiustizia quotidiana fatta normalità, e soprattutto l'esistenza di una oligarchia politica al di sopra del bene e del male. Non sono né moralista, né giustizialista, per ricorrere al gergo corrente. Credo di star facendo il mio mestiere di storico. E sono abituato a esaminare la realtà del passato con più varie categorie, che non quella della semplice moralità pubblica. Ma cade ormai sotto l'ambito del giudizio storico il fatto che tale realismo, l'assenza di intransigenza morale nella lotta politica, ha costituito uno degli ingredienti micidiali per la corruzione dello spirito pubblico nazionale. Lo spirito pubblico non è l'infatuazione di un momento, una moda transitoria. E' l'anima di una nazione. Ed è in questo grave decadimento morale, di cui i partiti sono stati gli agenti fondamentali, che affondano le ragioni del declino del paese e del fallimento del sistema politico italiano.
Vorremmo ricordare al presidente Napolitano che c'è una linea sottile in ogni tentativo di persuasione, di pratica del buon senso, oltre la quale il messaggio scivola nell'indistinto morale, oltre che politico. E questo finisce con l'accrescere la distanza tra i cittadini e le istituzioni, crea ulteriori lacerazioni nell'anima civile degli italiani. Ma so che è inutile. Nel crepuscolo della cosiddetta seconda Repubblica si mostra in cristallina luce quanto avevano compreso gli antichi Greci, gli antenati di un popolo che l'Europa oggi mette in vendita al migliore offerente: « Gli dei accecano coloro che vogliono perdere.» E davanti a noi possiamo bene osservare quanto sono ciechi i comandanti di oggi, che continuano a marciare sicuri verso il precipizio. Purtroppo non possiamo rallegrarcene, perché nel baratro stanno trascinando anche noi.

(questo articolo viene contemporaneamente inviato al manifesto)

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Dunque lo tsunami, annunciato da Beppe Grillo come un allegro tour nella campagna elettorale, è arrivato. Esso ha creato l'«onda nel porto», come la chiamano i giapponesi, trascinando nel suo urto l'intero sistema politico italiano. Ma il richiamo alla metafora del maremoto ha una nascosta ambivalenza, come tanti aspetti del movimento 5 stelle. Lo tsunami, infatti, non soltanto rovescia sulla costa la sua smisurata massa d'acqua che travolge ogni cosa. Ha anche un movimento inverso, un risucchio, un moto di ritorno dell'onda verso il mare, che trascina con se i resti disordinati della sua distruzione. E' quel che Grillo rischia di creare nella vita politica italiana, incarnando così la metafora del fenomeno naturale nella sua completa catastroficità.

Diciamo la verità, il risultato elettorale, esaminato come mente fredda, e con molti più elementi di valutazione dei primi giorni dopo il voto, ha diradato non poche' delle cupe ombre che esso aveva sollevato. Soprattutto il grande successo del movimento 5 Stelle ha rivelato – ne hanno parlato vari commentatori anche su questo giornale – che esso ha assorbito e proiettato verso le istituzioni rappresentative l'energia politica e gli obiettivi dei vari movimenti italiani.

Assai più che i partiti della sinistra radicale – imbozzolati nelle vecchie logiche e strutture della forma-partito. Un movimento che trascina dietro di sé altri movimenti e fornisce loro una visibilità di vaste proporzioni. Ma il successo elettorale di Grillo ha mostrato – e ancora mostra – una grande potenzialità: la possibilità di realizzare finalmente trasformazioni significative nelle strutture istituzionali e nella vita materiale del Paese che probabilmente neppure il centro-sinistra avrebbe messo in opera. Dunque, in pochi giorni, le aspettative di milioni di italiani consegnate al voto, si sono trasformate, a urne chiuse, in speranza di prossima realizzazione dei risultati tanto attesi. A torto o a ragione, il vincitore delle elezioni, appare come colui che nei prossimi mesi può realizzare le riforme che i partiti politici non sono stati in grado di realizzare negli ultimi 20 anni.
E soprattutto come colui che può radicalmente innovare un sistema politico insostenibile: costoso, corrotto, criminale. Il sistema della tre C, potemmo definirlo, confortati ( si fa per dire) dalle ultime inquietanti notizie dell'affare De Gregorio. Questo montare di aspettative degli italiani è dentro l'onda d'ingresso dello tsunami 5 S, lo ha rafforzato anche oltre il risultato elettorale. Ma il moto rischia di essere trascinato dall'onda di risucchio, di riportare in mare il disordine di una distruzione senza esito. Il comportamento di Grillo, in questi ultimi giorni, suscita perplessità, anche facendo la tara agli aspetti tattici e propagandistici delle sue mosse. L'entusiasmo e la speranza, che si trasformano rapidamente in delusione, rischiano di creare un moto inverso di imprevedibile forza, destinato a mettere in crisi il movimento 5 stelle e a preparare un avvenire infausto, o comunque di confusione ingovernabile per il nostro paese.
Certo, responsabilità enormi ha in questo momento il Partito Democratico. Esso dovrebbe – come ha indicato Salvatore Settis su Repubblica del 3 marzo – avviare un profondo ripensamento delle proprie strategie, e non limitarsi a verniciature superficiali della facciata del proprio edificio. E deve avanzare proposte coraggiose, come chiesto da tanti. Ma se Grillo non prova a realizzare con il centro-sinistra alcune importanti riforme, che sono oggi possibili, e lascia l'iniziativa al Quirinale, a forme comunque camuffate di stallo, le possibilità che il riflusso dello tsunami si verifichi sono, a mio avviso, elevatissime. E per un insieme non picciolo di ragioni.

Beppe Grillo, apparirà come il vincitore che, clamorosamente, non vuole governare. Una volta che il movimento 5S si sarà insediato nel Parlamento italiano, esso farà parte a pieno titolo del sistema politico e tutte le inerzie, le guerriglie tattiche entro cui opererà lo faranno somigliare sempre più ai partiti. Credo inoltre che Grillo e Casaleggio sottovalutino molto un sentire comune di questa fase, l'impazienza: forse lo stato d'animo più diffuso degli italiani. La situazione economica, sociale, imprenditoriale del paese peggiora di giorno in giorno. Basta una piccola ricognizione storica su quanto sta avvenendo da alcuni anni per rendersene conto. I comunicati periodici dell'Istat sono ormai dei bollettini di guerra. Gli italiani ritengono non più tollerabile l'attesa.

Perché dovrebbero premiare il movimento 5S se si dovesse rivotare dopo mesi di stallo, di confuse battaglie tattiche? Che cosa c'è di non credibile nell'immaginare che nuove elezioni sarebbero vissute da milioni di italiani come uno spreco intollerabile, di tempo e di danaro, di mancati interventi, di soluzioni possibili non realizzate? E infine, comè facile prevedere, in che condizioni avverrebbero queste ulteriori elezioni ? Certamente in una situazione economica deteriorata e sotto il ricatto della finanza internazionale. Non la speranza di un radicale cambiamento almeno delle regole politiche, sarà allora il sentimento dominante degli italiani, ma la paura. Paura di perdere i risparmi di una vita, di vedere dissolversi il tessuto produttivo del paese, di non avere più prospettive di lavoro per molti anni a venire.

Quella stessa paura che ha permesso a Monti e alla sua perversa maggioranza di infliggere colpi gravissimi all'economia e al welfare dell'Italia. Non dimentichiamo che l'”europeo” Monti doveva proteggerci dai ricatti finanziari dell'Europa. Perché questi italiani spaventati dovrebbero tornare a votare per il movimento 5S? Perché tanti media italiani, che hanno portato la voce di Grillo anche in televisione ( penso soprattutto ai programmi di Michele Santoro) dovrebbero continuare a guardare con simpatia a questo fenomeno politico? In tale situazione la freschezza, l 'ingenuità dei ragazzi del movimento 5S entrati in Parlamento, lievito potenziale di un grande cambiamento, rischieranno di apparire drammaticamente inadeguati alle necessità del momento.

E infine: è sicuro Beppe Grillo che la maggioranza degli italiani si sentirebbe tranquilla immaginandolo come il padrone assoluto del sistema politico nazionale? Un leader che controlla i propri militanti come un capo-azienda? Non ne sono proprio sicuro. Che Grillo sconvolga un sistema politico visibilmente decomposto va bene ai più, non ci si poteva augurare di meglio. Ma che egli divenga alla fine il padre-padrone della vita politica italiana è prospettiva che ha perso la sua carica liberatoria e che allunga su di noi più ombre d'inquietudine che non luci di speranza.

www.amigi.org articolo inviato contemporaneamente anche a il manifesto

Universale risuona intorno a noi la critica e il biasimo ai partiti politici, alla scadente qualità dei loro linguaggi e delle loro narrazioni. Ma quale contributo di riscatto e di elevazione danno ad essi i mezzi prevalenti attraverso cui i partiti ricevono voce e rappresentazione? Quanto e in che modo la stampa e la TV contribuiscono a rendere evidente la modestia culturale e morale del ceto politico e quanto invece concorrono ad alimentarla finendo col fare, insieme allo stesso mondo politico, sistema? Questione troppo vasta. Anche se qui intendo riferirmi solo alla grande stampa democratica e alla TV di stato, lasciando da parte gli immensi condizionamenti dell'impero mediatico di Berlusconi: ferita sanguinante della democrazia e del clima culturale italiano. Ma il problema può essere offerto alla discussione, nella sua voluta parzialità, affrontando aspetti all'apparenza minori.

Bene, un primo di tali aspetti, laterali e “minori”, riguarda il linguaggio: veicolo potente di messaggi , che trasformano in senso comune, in persuasione generale i dettami espliciti o occulti del potere. Si pensi a vulgate all'apparenza banali. L'uso sempre più diffuso del termine governatore per designare il presidente delle nostre regioni, non è solo un modo con cui tanti giornalisti italiani si gonfiano il petto: il presidente del Molise equiparato al governatore della California. Si fa passare l'idea leghista che il nostro sia uno stato federale. Cosa non solo infondata, ma storicamente irrealizzabile, essendo già il nostro uno stato unitario, che non deve “federarsi” per trovare un'unità che già possiede. Non meno importanti gli anglismi utilizzati al posto delle nostro vocabolario. Spesso di origine neolatina, si immagina ch'essi assumano una patina culturale più elevata allorché vengono deformati dalla lingua inglese. Rammento uno dei lemmi più inflazionati del linguaggio corrente, governance. Eppure quel termine( dal latino gubernare, lett. “reggere il timone”) nella storia della nostra lingua ha finito col significare una delle finalità più alte dell'agire politico: guidare le sorti degli uomini uniti in società. Oggi che la parola ha fatto un bagno nel mondo della finanza e delle imprese, caricandosi di significati economici e manageriali, viene utilizzato come se si fosse accresciuto di significato, non invece reso più specifico e unilaterale. Noi abbandoniamo le nostre parole con la loro densa storia e pensiamo di allargare gli orizzonti utilizzando quelle delle élites al comando, senza comprendere il nuovo marchio di potere che recano. Subiamo così una doppia insolenza: mentre i poteri dominanti manipolano ai loro fini le parole del nostro grande passato, noi le riutilizziamo, deformate, per introiettare ideologie del nuovo ordine che esse veicolano.

Ma le parole del giornalismo nostrano svolgono ben più importanti compiti. Si pensi alla vera e propria costruzione dell'immaginario collettivo cui esse contribuiscono. In questo senso, nel panorama della carta stampata spiccano alcune testate che offrono un condensato di forme linguistiche (poi diluite nel linguaggio della stampa non specialistica)finalizzato a creare universi psicologici di stampo neoliberista. Si prendano gli inserti “Corriere economia” del Corsera o “Affari e finanza” di Repubblica. Qui le titolazioni degli articoli sono un fuoco d'artificio futurista che esalta la velocità, la competizione, le fusioni:« Non si ferma Esaote, anzi aumenta la velocità,« si scatena lo shopping, «corsa alle fusioni. A volte esse mimano quello delle competizioni sportive: « Morandini prepara la staffetta», «L'energia rinnovabile è in corsia di sorpasso». Più spesso vengono curvate in senso bellico e predatorio: «Colao scatena la guerra del “mobile”», «Il Nord Est insorge per non perdere il treno dell'Europa». «Lottomatica alla guerra del Gratta e Vinci». Certo metafore, anche se talora superano il grottesco: «Armi, navi, jeep tutti senza piloti nelle guerre future.» (Affari &Finanza del 1.2. 2010). Siamo quindi esortati a diventare più veloci, individualisti, competitivi, a incarnare la nuova antropologia di questa modernità da pescecani.

Non si comprende, tuttavia, l'efficacia persuasoria di simili titolazioni se non leggendole nella pagina stampata. Con tali titoli gareggiano, infatti, le foto piccole o grandi dei manager, dei capitani d'industria, dei banchieri, che corrono di pagina in pagina, divinità del nuovo Olimpo economico-finanziario. In tale sopramondo ideale ci sono solo capi, soldi, banche, mercati, gadget elettronici,paradiso in terra del nostro “nuovo mondo”. E' come se la ricchezza promanasse dalle mani di questi santi in effige, perfetta metafora del dominio del capitale finanziario, che crea danaro per mezzo di danaro senza passare per l'inferno della fabbrica. E infatti in questo lucente universo parallelo, che scorre sopra la realtà dei mortali, non c'è posto per il lavoro, per gli operai in carne ed ossa.Ma non deve qui sfuggire un aspetto rilevante dei valori veicolati da tale nuovo divismo. Sela ricchezza è frutto delle capacità di comando, dell'energia e dell'astuzia dei singoli, non solo scompare il lavoro sociale come produttore dei beni e servizi, ma viene esaltato l'individuo primeggiante sugli altri quale prototipo antropologico cui modellarsi. Tale divismo imprenditoriale, che in Italia si combina perfettamente con quello calcistico, crea degli idoli a cui sono consentiti livelli oltraggiosi di arricchimento personale, fortuna e successo da ammirare quale frutto di un merito conseguito sul campo. Gli stipendi milionari dei calciatori rendono popolare e legittimata la disuguaglianza, che viene trasferita nel mondo del gioco e del sogno. Così, l'iniquità che lacera il tessuto della società, viene sublimata agli occhi della massa dannata dei mortali, riscattabile solo in un possibile al di là: quel luogo dove il caso, l'astuzia personale, il duro lavoro, qualche fortunata vincita può condurre solo pochi eletti.

Naturalmente non è solo questione di linguaggio. Un problema fondamentale dei nostri media riguarda la realtà rappresentata. Anche qui domina il divismo. Le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali sono stracolme delle gigantografie dei leader politici immortalati nella loro gestualità sacrale. Mentre gli articoli sono per lo più il racconto aneddotico delle loro chiacchiere. Certo, la TV non è da meno. I telegiornali, di qualunque rete, mettono in scena, ogni sera, una vera e propria apoteosi del divismo del ceto politico. E così i talk-show, abitati quasi sempre dagli stessi ospiti di riguardo. Non sottovaluto gli squarci di vita del paese reale che essi offrono. E' giusto ricordare che essi hanno interrotto, a partire da Samarcanda di Michele Santoro, un decennio, gli anni '80, di cancellazione della realtà sociale del nostro Paese dai teleschermi. Ma non si può non notare che in tali trasmissioni si mostrano gli operai disoccupati, disperati, sui tetti o sulle gru: quando cioè fanno spettacolo. Mai nella loro normale condizione quotidiana, fatta di viaggi in treni sporchi e affollati, di sveglie all'alba, di lavoro dentro capannoni dove per almeno 8 ore non si vede il cielo e si è assordati dal rumore dei macchinari. E' l'ignoranza di questo mondo di dura fatica quotidiana che fa accettare a tanta opinione pubblica le disposizioni di economisti e governanti sugli orari, le pensioni, i salari di una umanità del tutto sconosciuta ai suoi zelanti medici.

Certo, occorre riconoscere che in questa apparizione costante dei visi dei leader politici sui teleschermi di casa si manifesta un effetto di democratizzazione del potere. Tutti possiamo constatare l'umana modestia di chi sta al comando, spesso l'evidente mediocrità. In passato il potere era largamente invisibile e questo rendeva più insondabile il suo enigma. Ma bisognerebbe capire se ciò non accada anche per il fatto che il potere reale, quello che orchestra i nostri destini collettivi, non sia nel frattempo trasmigrato altrove, lasciando apparire in propria rappresentanza solo dei modesti figuranti.

Ma un'altra grande responsabilità grava sul giornalismo italiano, diretta conseguenza del “servilismo spettacolare” nei confronti del potere politico. Tale subalternità induce a fabbricare una realtà deformata della società italiana. Non solo ingigantisce oltre il dovuto la capacità del ceto politico di governare le cose reali. Ma cancella o lascia in ombra l' operosità e creatività, negli ambiti più disparati della vita civile, degli italiani che non sono divi. Potrei testimoniare di decine di iniziative culturali e politiche – anche di rilievo internazionale - sistematicamente disertate dal giornalismo italiano. Dove c'è puzza di serietà e di cultura i giornalisti italiani si tengono lontani. A meno che non sia prevista la presenza di un leader politico o di qualche divo equivalente. Così gli italiani si specchiano in questa mediocre e rattrappita rappresentazione di sé stessi e del paese intero e non hanno ragioni di ben sperare per il futuro. Per queste vie “indirette” anche la stampa democratica di un paese in declino gioca la sua parte nel risospingerci all'indietro.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto, dove è stato pubblicato il 18 febbraio 2013.


Credo che mai, alle persone della mia generazione, sia capitato di iniziare un nuovo anno con la certezza che esso sarà peggiore del precedente. E' quanto accade in questo 2013. Sotto il profilo sociale, per il nostro paese, per milioni di cittadini, l'anno che verrà sarà uno dei più devastanti nella storia dell'Italia repubblicana. Dopo tante prove - su cui si fonda tale sconsolata certezza - se ne è appena aggiunta un'altra, che rende il quadro economico nazionale perfettamente delineato.L'Istat ha comunicato un 'inflazione annua del 3%. Inflazione ufficiale, naturalmente, cioé sottostimata, ma che già da sola dà la misura di uno sconvolgimento senza precedenti dell'economia nazionale. Ma come, un Paese in cui il PIL scende del 2%, la disoccupazione dilaga a livelli di dopoguerra, il potere di acquisto della popolazione regredisce di decenni, migliaia di imprese chiudono i battenti, noi abbiamo un aumento dei prezzi di beni necessari di tale misura? I montiani collocati in tutto l'arco costituzionale – come si diceva una volta – hanno di che gloriarsi.

Queste considerazioni costituiscono la premessa indispensabile per alcune riflessioni politiche che riguardano la sinistra nel suo insieme, ma in primo luogo il centro-sinistra. Non c'è dubbio, tanto per cominciare, che quest'ultimo – se sarà chiamato a governare, come speriamo - erediterà un paese in condizioni peggiori di quanto non fosse un anno fa. Quando era possibile andare alle urne. In aggiunta esso dovrà fare i conti con la gabbia d'acciaio – alla cui costruzione ha dato un volenteroso contributo – del fiscal compact, su cui si è appena soffermato Luciano Gallino (Repubblica dell' 8 gennaio). E' uno svantaggio di partenza enorme, sia per l'insieme dei problemi urgenti che si presentano, sia per come si configureranno i rapporti tra i partiti. E' già evidente, da queste prime battute di campagna elettorale, che le forze politiche che hanno condotto l'Italia alle attuali condizioni, e tra queste anche Monti, si libereranno di ogni responsabilità pregressa. Si presenteranno e già si presentano come oppositori di lungo corso, che mai hanno messo piede nelle stanze di Palazzo Chigi. E' prevedibile che tale situazione politica venga aggravata da due componenti, in parte oggettive e in parte psicologiche. Le pretese delle masse popolari in condizioni di crescente disagio saranno maggiori nei confronti del centro-sinistra, più incalzanti di quanto non siano stati con i precedenti governi. A dispetto dei “buoni uffici” che può svolgere la CGIL. Anche perché le condizioni sociali si sono nel frattempo deteriorate: ciò che prima era grave oggi è intollerabile. Ci sarà poco tempo, al governo sarà concessa poca attesa. Il tempo che c'era per attenuare le punte più aspre delle sofferenze se l'è mangiato il governo Monti, impiegandolo per renderle ancora più estreme. Al tempo stesso, la psicologia da eterni penitenti degli ex comunisti, che si considerano sempre sotto esame di ortodossia da parte dei poteri europei, li porterà ad essere più realisti del re e a muoversi nel recinto della suddetta gabbia. Se il centro-destra si sposterà, come già sta facendo, su una strumentale posizione di critica antiliberista e realisticamente antieuropea (dell' Europa della Troika) le difficoltà politiche del centro-sinistra, già in campagna elettorale, aumenteranno di giorno in giorno. Ma potrebbero costringerlo ad assumere finalmente un profilo più smarcato dalle varie agende neoliberiste. Se perfino Monti prova a smarcarsi dal suo precedente governo!
Entro queste strettoie le possibilità di un qualche successo del centro-sinistra e della sinistra intera sono affidate innanzi tutto a una capacità di manovra con i paesi del Sud d'Europa e della Francia, che li metta in condizioni di rinegoziare il debito e spingere la Bce ad un nuovo ruolo: condizione per uscire dalla turbolenza finanziaria e per puntare a una nuova architettura istituzionale dell'Unione. Ma il centro sinistra e la sinistra – che mi auguro possa avere anche una presenza in Parlamento – debbono invertire la rotta con iniziative interne mirate soprattutto ad alleviare le condizioni di sofferenza sociale diffuse nel Paese. Con la consapevolezza che siamo in grave ritardo. Ricordo un particolare non da poco. Non è da ieri che le varie forze politiche della sinistra sono consapevoli che il problema centrale dell'Italia ( e del nostro tempo) è il lavoro, l'occupazione. Ebbene, non dovevano queste forze, già da qualche anno, chiamare a raccolta le migliori intelligenze della nazione per studiare soluzioni, proposte, vie d'uscita, strategie di medio e lungo periodo? Non dovevano richiamare l'attenzione di tutte le classi dirigenti con una iniziativa anche simbolicamente dirompente? Non è mai successo. L'unica iniziativa di tal genere l'ha realizzata ALBA, un piccola e nascente formazione politica, priva di mezzi, ai primi di ottobre dello scorso anno. «Un po' di lavoro» suole ripetere Pierluigi Bersani, come un tempo i mendichi chiedevano »un po di pane» sugli usci delle case. Espressione in cui traluce lo spirito del nostro tempo, riflesso dei rapporti di forza ormai abissali tra operai e capitale. Ma se si resta a questo livello minimo non si andrà lontano. Io credo che gli sgravi fiscali sul lavoro, l'eliminazione di barriere burocratiche vessatorie alla costituzione di imprese, e altre misure consimili possano, certo, avere degli effetti benefici. Ma è una illusione credere che da qui passi la “ripresa” e ritorni la piena occupazione. Sappiamo già dalla storia recente degli USA – che pure oggi stanno facendo una politica opposta a quella della UE – che la ripresa è jobless recovery, cioé senza occupazione. E' accaduto già ai primi anni '90, sta accadendo anche oggi malgrado i fiumi di dollari a buon mercato profusi dalla Federal Reserve e la crescita del PIL. La ripresa economica, la cosiddetta crescita, avviene soprattutto tramite incremento della produttività del lavoro ( sostituzione di uomini con macchine, oltre che con intensificazione della fatica degli occupati) e quindi il nuovo lavoro che nasce è “poco”. Questo rinvia a una incapacità sistemica ormai conclamata del capitale e alla necessità di una nostra consapevolezza di prospettiva: il vecchio modello di accumulazione non regge. Genera sempre meno occupazione e turbolenza finanziaria endemica. Consapevolezza da tenere ben presente anche per gli interventi immediati, che riguardano il nostro dannato presente. E sotto tale profilo l'istituzione di un reddito di cittadinanza – avanzata a modo suo persino dall'algido Monti - costituisce il nesso che lega la prospettiva strategica alla rivendicazione immediata. Oggi appare come un passaggio obbligato se si vuole separare reddito da occupazione (che non c'è), lavoro da dignità umana, prestazione produttiva da godimento dei diritti ed esercizio della democrazia. E' una necessità per lo stesso capitalismo in questa fase tarda della sua storia. Per noi dovrebbe costituire uno degli elementi da inserire nella costellazione dei diritti universali, nuova energia cosmopolita – come ci ricorda Stefano Rodotà nel suo ultimo libro - che spinge le comunità umane ad abbattere vecchie gerarchie e ad affrontare con buone armi i poteri che si sono liberati dei controlli degli Stati nazionali.

C'è un altro versante di problemi immediati su cui intervenire. Mi riferisco al mondo della scuola, dell'Università e della ricerca. Non è più tollerabile che le strutture fondanti di un grande paese industriale, della nostra stessa civiltà, siano considerate come fonti di spreco da punire e demolire. Su questo punto, nei primi 100 giorni il governo che verrà dovrà dare segnali inequivocabili, in termini di risorse e di mutamento radicale di indirizzo politico. Tale scelta necessaria non costituisce soltanto la premessa di una strategia di alto profilo, impegnata a delineare un nuovo modello di economia, ma rappresenta la condizione indispensabile per dare un segnale immediato di speranza a milioni di giovani. Studenti che vogliono proseguire gli studi, laureati, dottori, ricercatori che oggi sono senza mezzi e prospettive. Fornire a tali figure un ruolo da protagonisti non solo significa, per l'avvenire, ricercare un superiore assetto alla nostra società di capitalismo maturo, ma dare subito ai nostri ragazzi, alla classe dirigente in formazione, il senso di un mutamento generale in cui credere e a cui appassionarsi. Chi appoggerà nel paese un governo che si limita ai piccoli passi e a indolori aggiustamenti, mentre la sofferenza sociale dilaga ? La politica si fa certo "acendo le cose", ma anche suscitando passioni, inserendo anche le giuste piccole cose in un quadro d'insieme: una prospettiva che faccia intravedere orizzonti più larghi, mete plausibili di cambiamento generale per le quali si è disposti a lavorare e a resistere. Sotto tale profilo non c'è dubbio che il problema del lavoro e quello della formazione, della cultura e della ricerca, trovano il punto d'incontro in una prospettiva d'insieme: la riconversione ecologica dell'apparato produttivo. La qual cosa in Italia significa, soprattutto (ma non solo), un nuovo rapporto tra economie e territorio. La sfida di porci dentro i marosi del mercato mondiale con una nostra specifica forza economica che conservi saperi e bellezze, che tuteli il suolo e gli abitati e che nello stesso tempo offra lavoro produttivo e di restauro è una partita di grande respiro. Già da sola potrebbe offrire a tutta la sinistra un'occasione di unità di intenti e al tempo stesso un vessillo identitario dietro cui trascinare masse sociali, istituzioni, imprese. I movimenti sono già attivi in vario e frammentario modo su tale terreno. Costituiscono le esperienze politiche più originali della storia italiana recente. Da essi, i partiti hanno molto da imparare in termini di procedure e di competenze acquisite sul campo. Ma devono mettere da parte la logica delle grandi opere. In tale ambito le opere devono essere piccole e innumerevoli, in grado di dare lavoro, non attraverso il saccheggio una tantum del territorio, ma tramite la sua cura e la sua valorizzazione permanente.

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Indovinare se Berlusconi si presenterà o meno, quale leader del centro-destra, alle prossime elezioni rappresenta uno deiIndovinare se Berlusconi si presenterà o meno, quale leader del centro-destra, alle prossime elezioni rappresenta uno dei misteri gloriosi del momento politico italiano, visto che chi racchiude l'arcano non sa egli stesso che cosa farà domani. Incertezze della squallida scena nostrana, che dopo momenti di ripresa e addirittura di entusiasmo popolare per le vicende della politica (primarie del centro-sinistra ), ripiomba nel solito confuso tran tran. Naturalmente non ci tormenta più di tanto il ritorno in scena del vecchio e torbido padrone della vita politica italiana. Certi miracoli non sono più replicabili. Gran parte della borghesia italiana e quel frammento di potere-ombra che ha sede entro le mura del Vaticano hanno dovuto ormai da tempo voltargli le spalle. Senza dire che un po' di senso della decenza si è fatto strada anche nelle coscienze di chi, per odio contro la sinistra, per superficialità, per antica abiezione morale lo aveva sin qui osannato. Ma il breve ritorno in scena di Berlusconi, le sue apparizioni televisive, sono bastate per anticiparci i lineamenti di uno scenario possibile: per farci comprendere la potenza eversiva del programma che oggi potrebbe mettere in campo la destra in Italia. Alla trasmissione televisiva Servizio Pubblico del 13 dicembre, l' ex ministro Giulio Tremonti, senza scadere nello sguaiato antioeuropeismo della Lega, ha completato il quadro, mostrando quale nuova miscela potrebbe creare una alleanza di quel che resta del PdL e dintorni con il partito di Maroni. Intanto, si deve far notare come gli uomini che stanno al governo da quasi un paio di decenni sono già in grado di collocarsi perfettamente nel ruolo degli oppositori. Mentre Monti ha messo in atto una delle più feroci manovre antipopolari della storia repubblicana, i suoi stessi sostenitori, coloro che in Parlamento hanno approvato e talora ispirato le sue leggi, ora lo accusano di avere affamato il popolo. Sono già passati dall'altra parte della barricata. Salvo pentirsi il giorno dopo, chiedendo all'accusato di mettersi a capo delle loro schiere. Ma questo a riprova della spregiudicatezza con cui queste figure, senza ideali e senza fedi, sanno muoversi in una situazione di grande confusione.

C'è tuttavia un punto dei motivi programmatici fatti balenare dal centro-destra che genera allarme: la rivendicazione della autonomia e della dignità nazionale di fronte alla proterva configurazione oligarchica dell'Unione Europea. Tale tema è infatti destinato a un grande successo popolare nei prossimi mesi e anni. Perché, come dovrebbe essere evidente, il progetto europeo ha perso tutte le seducenti idealità da cui era stato accompagnato alla sua nascita, e oggi – come ha mostrato Barbara Spinelli in un perfetto articolo su Repubblica del 12 dicembre – appare responsabile dei più gravi problemi che gravano sul Vecchio Continente. L'Unione è diventata una gabbia di ferro, un ristretto ufficio di ragioneria, che tiranneggia con le sue manovre finanziarie gran parte delle popolazioni dei vari stati.

Ebbene, allo stato attuale non credo che il centro-destra sia nelle condizioni di imbastire in poco tempo una campagna elettorale di tipo nazional-populista in grado di condurlo alla vittoria elettorale. Questo pericolo non è immediato, ma può assumere ben altre dimensioni e forza più avanti, una volta che un governo di centro-sinistra si sia insediato al potere. A fare temere l'evolversi di una tale disastrosa prospettiva sono molti elementi del quadro presente. Intanto la situazione economica. E' davvero singolare come i fenomeni economici, a partire dal 2008, si siano svolti sotto i nostri occhi secondo le sequenze che Marx aveva descritto nelle crisi del suo tempo. «La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione». E infatti è occorso del tempo prima che dal disordine finanziario si passasse alla vita delle imprese, dalle imprese alla società e ai lavoratori. Ma ai meccanismi per così dire spontanei della crisi si aggiunge oggi la politica di austerità, che replica le cause profonde della crisi stessa e continua ad alimentarla. Così non stupisce che ormai da anni quasi ogni mese ci riserva una “rivelazione”. Un giorno è la notizia del calo del Pil , un altro ci annunzia la riduzione della produzione industriale, un altro ancora il crollo dei consumi. In questi giorni, oltre il record del debito pubblico, che ha sfondato il muro storico dei duemila miliardi (chi dà un premio a Mario Monti, salvatore della patria, per tale risultato?) l'Istat ci ha informato che la disoccupazione ufficiale ha superato l' 11%, la Banca d'Italia ci comunica che la disuguaglianza dei redditi familiari è ancora cresciuta e che un 10% delle famiglie si gode il 45% della ricchezza nazionale. Purtroppo, chi crede che le rivelazioni finiscano qui si sbaglia. Perché nei prossimi mesi noi avremo le notizie quotidiane delle migliaia di cassiintegrati che diventano disoccupati, dei lavoratori precari che perdono anche l'occupazione provvisoria, delle famiglie indebitate che non possono pagare più il debito, delle imprese che chiudono perchè non ricevono credito e non sanno a chi vendere i loro prodotti. Il tempo prossimo che ci attende peggiorerà una situazione già pessima, perché esso non lavora per noi, ma per dispiegare interamente i meccanismi di distruzione della crisi e della politica di austerità. Solo chi mente dice che l'uscita dal tunnel è prossima. E ricordo che la storia di queste menzogne, raccontata con ridicola protervia da schiere di economisti e uomini politici, inizia già a un anno dall'esplosione della crisi, nel 2009. Si potrebbe scrivere un'antologia di queste fandonie, che segnano un'apoteosi di profezie fallimentari dell'analisi economica neoliberista.

Ebbene, è difficile immaginare che il vento del disagio sociale che spazza l'Italia si placherà nel 2013. Se il centro-sinistra, com' è probabile, vincerà le elezioni, si troverà a dover fronteggiare una situazione economica e sociale di inedita gravità. Di fronte a tale realistico scenario, a parte la debolezza e la confusione che regna nel campo della sinistra radicale, sgomenta ( ma non stupisce) il traccheggio del PD dopo l'indubbio successo delle primarie. Certo, onestà vuole che si riconosca la difficoltà della situazione in cui si trova questo partito e soprattutto Bersani. Chi fa analisi politica dovrebbe praticare l' esercizio di modestia di immaginare le proprie capacità di manovra calandosi nella posizione del soggetto giudicato. Bersani è oggi tirato dall' alto, dal basso, dal centro, da dentro e da fuori e la sua stessa resistenza è un piccolo miracolo. Ammetto anche che costituisca una saggia pratica politica non lasciarsi andare in astratti proclami rivoluzionari e realizzare poi nei fatti un'opera di giustizia sociale e di redistribuzione della ricchezza. La vera “manovra finanziaria” che il centro sinistra dovrebbe varare. Ma non si può non ricordare che la politica è fatta anche di cose dette, di messaggi, di parole nuove, di visioni che creano consenso ed energia di mobilitazione. Il centro-sinistra è stato premiato con le primarie al di là dei suoi meriti, perché in questo momento le masse popolari democratiche non hanno altro fronte politico-istituzionale in cui esprimere la propria testarda volontà di “prender parte”. In Italia un indomito popolo di sinistra continua a tenere alte le insegne della lotta come in pochi altri paesi del mondo. Ma questo patrimonio di consenso e di fiducia rischia di essere disperso, di trasformarsi in delusione e abbandono se esso non avrà la risposta che si attende: una decisa politica di riduzione delle iniquità che lacerano il paese, di difesa dei beni comuni, del welfare, della scuola e dell'Università, di orgogliosa rivendicazione della sovranità politica del nostro Paese di fronte ai poteri vessatori della finanza e delle istituzioni non elettive della UE. Ebbene, è difficile vedere oggi una tale nettezza di visione, di determinazione politica nel maggiore partito del centro-sinistra. Non scorgiamo la volontà di un raccordo con i popoli e i governi dei Paesi d'Europa messi in ginocchio dagli interessi e dalla superstizione finanziaria della Troika. Sentiamo solo toni dimessi e soprattutto la scarsa rivendicazione della dignità del Paese, dei suoi istituti democratici, che tanti, in Italia e in Europa, vorrebbero sotto la tutela di un uomo, Mario Monti, deputato a rassicurare i poteri finanziari.

Quanta miseria di pensiero c'è in questo universale osanna di un uomo che ha fallito tutti gli obiettivi economici del suo programma! Ma se questo dimesso profilo dovesse diventare anche la sostanza della politica governativa del centro-sinistra, diventa altamente probabile il fallimento dell'alleanza e di tutto il progetto. Un paese che da anni ormai precipita all'indietro sul piano delle conquiste materiali e dei diritti, non si accontenterà di qualche pannicello caldo per lenire le ferite più recenti. Se non si danno segnali significativi di svolta, non solo verrà meno quella spinta di popolo senza la quale non si realizzano gli spostamenti di ricchezza e di potere con cui si esce dalla crisi. Ma il centro-destra avrà a sua disposizione praterie per organizzare la sua riscossa. I risultati elettorali in Giappone sono un ammonimento per tutta la sinistra. Mettere sotto accusa l'ottusità dei dirigenti della UE, rivendicare l'autonomia e la dignità offesa dell'Italia e dei popoli europei, rivendicare meno tasse, darà nuova dignità e linfa vitale al populismo della destra. E' del resto un fenomeno già in atto. Da tempo i dirigenti dell'Unione stanno gettando legna sui mille focolai del populismo accesi in ogni angolo del continente. Ma se il populismo dovesse vincere in Italia, sulla sconfitta del centro-sinistra, contro l'europeismo democratico e progressista, l'edificio della UE rischia il suo definitivo disfacimento.

www.amigi.org. l'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto


Intervenire sulle alluvioni che ogni anno provocano disastri ambientali e morti in qualche angolo della Penisola fa sentire come i sacerdoti che celebrano uno stanco e inutile rito, cultori di una religione ormai spenta. L'Italia impone ai suoi osservatori l'”eterno ritorno dell'eguale”. Eppure corre sempre l'obbligo di ripetere, di tenere vive le armi della critica, di ricordare. La lotta è fatta anche di ripetizioni e di repliche. E in questo caso sono più che mai necessarie. Com'è noto, quello che è accaduto in questi giorni nel Grossetano e nell'Umbria meridionale è infatti il nuovo capitolo di uno spettacolo a puntate che si ripete ormai puntuale in ogni autunno e inverno. E occorre anche aggiungere che questa volta l'esito sarebbe potuto essere ben più tragico, se la pioggia avesse continuato a cadere per un altro giorno. Pochi sanno, infatti, che la diga di Corbara che sbarra il Tevere – poco distante dallo scalo di Orvieto, dove è tracimato il fiume Paglia – era minacciosamente colma, mentre i caseggiati di Ciconia e dintorni erano già allagati.

Se il maltempo avesse continuato il suo corso, si sarebbe reso necessario aprire la diga con conseguenze imprevedibili , ma sicuramente devastanti, per tutti i centri abitati lungo la Valle del Tevere fino a Roma. Il ritorno del bel tempo ci ha risparmiati, lo spuntare del sole ha evitato una catastrofe. Ma fino a quando dovremo affidarci al caso, alla buona sorte, alla cessazione benigna di un temporale per evitare alluvioni, frane, morti, devastazione di case e imprese, distruzione di strade e ponti? Non è evidente ormai a tutti che l'intero territorio nazionale è in pericolo? Che bastano pochi giorni di pioggia intensa, concentrati in una qualunque area, per determinare danni ingenti alle popolazioni e agli habitat, imponendo poi costosissime ricostruzioni?
Appare evidente che oggi paghiamo a caro prezzo una urbanizzazione selvaggia, la quale ha coperto disordinatamente di costruzioni e infrastrutture un territorio che è fra i più vulnerabili dell'intero bacino del Mediterraneo. L'acqua che scende dalle Alpi o dall'Appennino è sempre meno assorbita dai campi agricoli o incolti delle colline e delle pianure, ormai non più abitate dai contadini, ed è al contrario resa più vorticosa nel suo corso dall'asfalto e dal cemento che incontra. Un paese, tra i pochi in Europa, privo di una legge urbanistica , che ha assistito con poche resistenze a una svolta inaudita. Alla consueta attitudine illegale di classi dirigenti e popolazioni a occupare il territorio con costruzioni abusive ( che hanno sfigurato tante nostre città ) è venuta in sostegno la versione italiana del neoliberismo: il verbo che ha fatto dei nostri habitat delicati materia di “libero mercato”. Oggi, dopo tre decenni di “furia liberale”, il territorio nazionale mostra le stimmate della sua trasformazione mercantile, riplasmato, com'è dalle spinte caotiche delle convenienze private: terre d'altura e aree interne in stato di abbandono, valli e pianure - la polpa ricca - intasate di popolazione, edifici, strutture produttive, vie di comunicazione. Qui l'acqua piovana non ha più spazio, come era accaduto in tutti i secoli passati, e perciò appare come il grande nemico. Come e quanto può durare tale conflitto tra le forze imprevedibili della natura e i nostri abitati?
Ebbene, questa drammatica novità storica impone oggi un nuovo atteggiamento della pubblica opinione nei confronti delle classi dirigenti italiane e del ceto politico nazionale. Sappiamo da studi decennali che all'Italia è toccato in sorte un paradossale destino. Il paese fisicamente più fragile d'Europa (insieme all'Olanda) è stato governato da classi dirigenti privi di ogni cultura territoriale, sguarniti anche delle più elementari forme di consapevolezza, di memoria storica dei caratteri dei vari habitat locali e dei loro delicati equilibri. Tale carattere originale della nostra cultura, il suo sradicamento metafisico dalle condizioni materiali della vita, oggi rappresenta una minaccia per la collettività nazionale. A questa incultura originaria, infatti, si aggiunge oggi la religione della crescita che alimenta nuovi e disordinati appetiti speculativi nei confronti del nostro territorio. Ancora oggi il suolo nazionale non appare come un habitat da proteggere, per tutelare i beni, la ricchezza storica del paese dagli eventi atmosferici, ma come la materia prima per “continuare a crescere”, come recita la superstizione contemporanea. E' altamente esemplare che un paese, il quale ha i problemi drammatici che osserviamo puntualmente ad ogni inverno, si ostini a progettare il Tav in Val di Susa. I nostri governanti sono pronti a sperperare svariati miliardi per un' opera inutile e non trovano tempo, energia, risorse per mettere in campo un progetto assai meno costoso e generatore di nuove economie finalizzato a proteggere il nostro territorio in pericolo.

Ebbene, credo che sia tempo di rendere evidente il carattere drammatico che ormai occorre dare alla nostra opposizione. Abbiamo mostrato in altre occasioni che il nostro territorio può essere messo in salvo solo attraverso una vasta opera di ripopolamento e valorizzazione delle aree interne. Ma oggi occorre agire anche con misure di urgenza. E' necessario chiarire che tutte le nuove costruzioni, tutte le manipolazioni dell'habitat che si progettano e si realizzano in Italia sono contro l'interesse collettivo, minacciano il bene comune della sicurezza nazionale. Ogni metro quadrato di nuovo asfalto o cemento sottrae spazio alle acque, accresce la vulnerabilità dei nostri abitati e delle nostre vite. Non possiamo più tollerarlo. Io credo che ormai bisogna incominciare a considerare sotto il profilo penale gli interventi che consumano suolo. Questo bene non è infinito, esso è la spugna che assorbe l'acqua, è dunque un bene di tutti che ci protegge , chi lo cementifica rende più pericolosi i nostri abitati, rende più insicura la nostra incolumità, le nostre case, i nostri beni, i nostri animali. E' perciò necessaria una iniziativa legislativa che dia nuovi strumenti all 'interesse collettivo oggi così gravemente minacciato. Occorre rendere possibile, alle associazioni impegnate nella difesa del territorio e del paesaggio, di costituirsi parte civile nei vari luoghi dove si progetta il consumo di verde, da configurare, com'è ormai drammaticamente necessario, quale fattispecie criminale. Privati, amministratori locali, imprenditori non possono più utilizzare come bene privato ciò che con tutta evidenza appare un bene comune intangibile e irrinunciabile.

C'è una contraddizione troppo grande ed estesa allabase del terremoto che sta investendo i partiti politici italiani alla provadelle recenti elezioni siciliane e delle campagne elettorali in corso.Terremoto, va ricordato, che dirigenti politici e commentatori con la testagirata all'indietro, tentano di esorcizzare con vecchi rituali, definendolo frutto del populismo, dell'antipolitica, della demagogia,ecc. Un vecchio e impotente armamentario propagandistico.Troppo estesa, infatti, è diventatal'informazione, lo spirito critico, la consapevolezza dei cittadini a fronte della opacitàcrescente del potere, della chiusura oligarchica del ceto politico, delrestringimento generale della democrazia. E' un fenomeno generale che haportato cospicue avanguardie cittadine nelle strade e nelle piazze di Roma, diMadrid, Londra, New York. E il montante disagio sociale rende sempre menosostenibile tale contraddizione, perché appare sempre più evidente la preminenteresponsabilità del ceto politico nell'esplosione della Grande Crisi e il suotentativo di uscirne indenne, cavalcando la politica del rigore antipopolarechiesta dai grandi poteri capitalistici. In Italia essa appare poiintollerabile mano a mano che i privilegi castali che i partiti si sonoritagliati all'interno dello spazio pubblico appaiono immodificabili, mentreintorno milioni di persone, interi ceti sociali precipitano all'indietro, nellecondizioni di alcuni decenni fa.


Anche Roma mostra oggi segni diinsofferenza democratica crescenti. Segni destinati a ingigantirsi nei prossimimesi, quando le politiche di austerità in corso getteranno altro sale sulleferite recenti e i problemi cronici della città – come quelli dei rifiuti –assumeranno forme incontenibili. Ho avuto una prova recente di tale sentimentodiffuso all'assemblea del 27 ottobre, tenutasi alla Facoltà di Ingegneria dellaSapienza, su cui è già intervenuto Antonio Castronovi ( Manifesto dell'1/11)E'bastato l'appello de La Roma che vogliamo per richiamare una massaconsiderevole di romani, rappresentanti di circoli, associazioni, comitati,tutti attratti non dalla notorietà dei proponenti, ma dal suo messaggiosemplice e dirompente: prima i problemi della città, i bisogni e le domande deiromani, dopo il nome del leader. Partiredal leader equivale a confermare la logica oligarchica dominante che asfissiala vita politica del nostro paese. Chi designa il leader, infatti, non fa checalare dall'alto un deus ex machina senza alcuna consultazione dei cittadini, iquali sono chiamati ad applaudire una scelta fatta nel chiuso di una qualchesegreteria. Com'è noto, e come si fa finta di non sapere, i partiti non sonopiù il luogo in cui si organizza ed esprimela volontà popolare. In questa visione i cittadini continuano ad essere passiviconsumatori di messaggi politici preconfezionati, il cui unico protagonismo siconsuma con un segno di matita apposto su una scheda. Ma la stessaossessione della ricerca del nome del candidato da incoronare, da indicare alleimprobabili folle osannanti, fa parte di una vecchia e ammuffita cultura di cuinon riusciamo a liberarci. Esso esprimeuna divinizzazione dell'individuo, la ricerca del capo, del comandante che dovrebbeda solo guidare le truppe, risolvere eroicamente i problemi di tutti. El'individuo deve avere le caratteristiche del grande comunicatore – adatto almezzo televisivo, che è il linguaggio della politica corrente – secondoi canoni consunti della società dello spettacolo. Si tratta di una concezioneantidemocratica, il distillato della cultura politica neoliberista affermatesinegli ultimi trent'anni, dilagata anche nella sinistra e diventata ormai senso comune dominante.
E' evidente che la popolarità delcandidato a sindaco costituisce un fattore importante per il successoelettorale. Ma io credo che sia necessario, per incominciare a capovolgerela logica oligarchica, porre in evidenza soprattutto le caratteristichedella” squadra possibile” destinata adaccompagnare l'azione del sindaco. Le competenze professionali, i saperi, ilprofilo intellettuale e morale di donne e uomini che di concerto si dovrebberomettere al lavoro per il governo della città, sono da mettereal primo posto, come segno di una inversione democratica dell'operare politico.Ricordo che i partiti di massa sorti nel dopoguerra erano retti non da un capo,ma da gruppi dirigenti. La politica è per eccellenza un'opera collettiva,altrimenti è tatticismo, tran tran, sopravvivenza da ceto politico,coltivazione di interessi individuali, affarismo.
Dunque, il ripristino el'allargamento della democrazia è uno dei punti programmatici e insieme dimetodo del gruppo che promuove La Roma che vogliamo. Credo che questocorrisponda a una esigenza sempre più avvertita dai cittadini romani. Ma per realizzarlo occorre essere consapevolidei deficit, delle manchevolezze della democrazia rappresentativa, oggi ridottaa un simulacro. Occorre prendere attoche non è più possibile affidare una delega così ampia e temporalmente così lunga agli eletti delpopolo. Perché tutti sappiamo che gli uomini e le donne elette, così presenti epieni di zelo durante le campagne elettorali, una volta eletti, scompaiono allavista per tutta la durata del loro mandato. Salvo a rendersi visibili incircostanze che costituiscono occasioni di visibilità mediatica, perrinfrescare la loro popolarità presso gli elettori dimentichi. Ebbene, io credoche questa esperienza non possa più essere replicata. Propongo di inserire nelprogramma de La Roma che vogliamo l'impegno di sindaco e giunta aincontrare ogni 6 mesi i cittadiniromani, tramite le loro varie rappresentanze istituzionali e sociali, per darconto dell'attuazione del programma e delle questioni sul tappeto. Potrebberoprendervi parte associazioni, corpi intermedi, singoli rappresentanti – comegià avviene in alcuni comuni - e dar vita così alla fusione della democraziarappresentativa con quella deliberativa e associativa. I cittadini devonoessere informati sul governo cittadino, devono essere resi consapevoli del lorodiritto ad avere informazione da coloro i quali essi hanno mandato al governodella città. Democrazia è trasparenza, informazione, ma anche partecipazione.La partecipazione, tuttavia, non può essere costante e permanente – come spessosi illudono tanti generosi giovani e non giovani dei movimenti, in Italia efuori d'Italia – perché la società civile è assorbita nei propri ruoli dilavoro e di organizzazione familiare e sociale e solo occasionalmente puòimpegnare il suo tempo nell'esercizio della cittadinanza. Questo tempooccorrerà farlo crescere in futuro, dimezzando la giornata lavorativa diognuno, ma per il momento si può incrementare la partecipazione con una piùampia trasparenza e informazione, oggi resi possibili dallo sviluppo dellatecnologia informatica. Penso alla possibilità di trasmettere via rete e in qualche canale di TV locale leriunioni dei consigli comunali impegnati su questioni rilevanti e di far partecipare gruppi organizzati dicittadini tramite le piattaforme telematiche oggi a disposizione. Ma questo nonbasta. Occorre sottoporre i governanti alla vigilanza costante etecnicamente attrezzata dei governati.Io credo che si possa proporre la costituzione di un organismo esterno per ilcontrollo sistematico del bilancio municipale, da affidare a giudici contabili,che informino correntemente i cittadini dell'andamento dei flussi di entrata edi spesa. Su questo essi potrebbero intervenire tempestivamente. Far sentire laloro voce. La vigilanza della Corte dei Conti non è sufficiente, essa arriva tardi e nonpuò intervenire nel merito politico delle scelte. Questo dovrebbe esserecompito dell'opposizione politica, ormai sempre meno agguerrita. Oggi siamo al punto che i romani non sannoquale ammontare di debito l'indimenticabile giunta Alemanno lascia loro ineredità. D'altra parte, il bilancio di una grande città costituisce uncomplesso groviglio di voci a cui la grande maggioranza dei cittadini fatica adaccedere. Una esemplificazione comunicativa da parte dei tecnici, che sitrasforma in costante informazione viarete, coinvolge l'attenzione e la partecipazione generale, ma al tempo stessomette gli atti dei governanti sotto il grande faro del controllo pubblico.
Dunque, Roma potrebbe davverocostituire un laboratorio di nuova democrazia - utilizzando esperienze già incorso altrove - fornire un messaggioall'Italia intera. Perché una trasparenza così piena e istituzionalizzata degliatti di governo non rappresenta solo la via maestra per una moralizzazionedella condotta dei partiti, per farsoffiare un nuovo vento di pulizia nella vita pubblica. Essa costituirebbe una componente strategicaimportante per ridurre gli spazi di manovra dei gruppi affaristici e dellacriminalità vera e propria, che del potere politico ha bisogno come i pescidell'acqua. Ma c'è un altro nodoimportante, che tale modello di trasparenza viene a toccare. Una indicazione divalore più generale. Esso può incominciare a incidere i legami tra i partiti eil potere finanziario. E' qui, in effetti, che oggi si gioca la grande partitastrategica per la sinistra e le masse popolari. Debbo ricordare che il punto di vulnerabilità sistemica del capitaleè il controllo del potere politico? Spezzare i legami della politica con leforze economiche dominanti, significa restituirla alla sua autonomia esovranità, grazie non a prediche moraleggianti, ma a un più ampio e sistematico controllo delle massepopolari.
Roma può diventare laboratorioanche per altri contenuti del programma, ma di questo in altra occasione.
laromachevogliamo_@googlegroups.com. Questo articolo è invuato contemopraneamente anche a il manifesto.

Qualunque sia il grado di condivisione delle sue tesi, l'articolo di Alberto Asor Rosa, sul manifesto del 14 ottobre, ha il merito di centrare il cuore dei problemi politici di questa fase. E difatti una importante discussione si è aperta su questo giornale, a riprova ancora una volta, della insostituibilità del manifesto come luogo di confronto politico-teorico dell'intera sinistra. Il mio intervento, che succede agli articoli di Livio Pepino e di Paolo Favilli (16 e 18 ottobre) ha l'ambizione di ampliare lo spettro dei ragionamenti che si son fatti sin qui. Se non sono troppo sbrigativo nella mia sintesi, credo che le obiezioni di fondo mosse dai due autori alle tesi di Asor Rosa, consistano essenzialmente nel non aver egli posto nel dovuto rilievo la natura moderata e sostanzialmente neoliberista del Pd, e nell'aver sottovalutato, di fronte all'alleanza Pd-Sel, l'alternativa possibile rappresentata dai movimenti e da altre forze politiche della sinistra. Per quanto riguarda l'analisi impietosa che i due intervenuti fanno delle politiche del Pd credo che ci sia poco da obiettare. Tuttavia essa è parte, certo importante, ma di un ragionamento incompleto. Credo di possedere un eccellente pedigree di critico radicale di quel partito da non poter essere sospettato di nascoste simpatie. E tuttavia, se dobbiamo ragionare intorno ai caratteri arduamente problematici dell'alleanza Bersani-Vendola, dobbiamo compiere uno sforzo di ragionamento più freddo, come quello che , a mio avviso, ha compiuto Asor Rosa. Ma anche più largo. Occorre una sorta di simulazione di scenario, per avere un quadro più complesso della situazione in cui viene a cadere la scelta di Nichi Vendola.

Poniamo, ad esempio, che Sel avesse scelto di non allearsi con il Pd, cecando al contrario di rappresentare il vasto e variegato mondo della protesta sociale, i gruppi dei movimenti referendari, ecc. Prospettiva che anch'io auspicavo come una svolta necessaria per la sinistra. E tuttavia l'ipotesi deve farsi carico di immaginare effetti e variabili che non compaiono né nel ragionamento di Pepino né in quello di Favilli. E' evidente che se Vendola fosse «andato per la sua strada», il Pd sarebbe stato completamente fagocitato nella logica centrista di Casini. L'«agenda Monti» sarebbe rimasta la linea maggioritaria e dominante delle forze di governo per i prossimi anni. Con le pressioni potenti che vengono dall' Ue, l'Italia sarebbe rimasta a galleggiare con le sue iniquità intollerabili, con la mortificazione a livelli inauditi del lavoro umano, con la progressiva emarginazione della scuola pubblica e dell'Università, con la restrizione ulteriore degli spazi della nostra malandata democrazia. Chi ci assicura che Vendola, insieme a Di Pietro, e a Ferrero avrebbero potuto rappresentare una opposizione forte e unitaria, in grado fronteggiare la definitiva plasmazione neoliberista del nostro Paese? Accolgo subito l'obiezione secondo cui l'occasione era propizia e ci si poteva provare. In effetti, nelle scelte della politica occorre affrontare le incognite che nessun Dio può decifrarci in anticipo. Ma ci sono un paio di perplessità che vorrei esplicitare. La prima riguarda il Pd. Dobbiamo considerare questo partito, nel suo insieme, definitivamente perduto alla causa del welfare, della democrazia, della lotta per i diritti e l'eguaglianza sociale? Visto il seguito di cui ancora gode, credo che si tratterebbe di una grande perdita per tutta la sinistra. La seconda perplessità riguarda l'alternativa al Pd. Una vittoria ( improbabile) del nostro schieramento avrebbe esposto il governo e l'intero Paese ai continui e logoranti ricatti della finanza internazionale. E' difficile avere dubbi su questo punto. L'Italia, con il suo enorme debito, ha perso una parte rilevante della sua sovranità. E noi avremmo bisogno di sostegni internazionali, soprattutto europei, per alimentare la lotta contro l'austerità: sostegni che siamo lontanissimi dall'avere. La scena della sinistra europea è drammaticamente frantumata. Ci si para di fronte e contro un capitale-mondo di enorme pervasività e noi siamo minoranza dentro un paese sotto tutela. Infine una considerazione più specifica sulla sinistra radicale, la nostra parte.

E' indubbio che esista un vasto e variegato fronte di gruppi e movimenti disseminati nel nostro Paese, culturalmente più attrezzati - come ha ricordato Norma Rangeri - di quanto non fossero le formazioni degli scorsi decenni. E' questa la condizione di partenza delle nostre speranze. Ma oltre a essere frantumato ed eterogeneo, quel fronte stenta ad assumere una configurazione politica stabile. L'estremo pluralismo che lo caratterizza rende arduo il suo approdo nella sfera della rappresentanza. Si, la rappresentanza! Considero lo svuotamento dei risultati del referendum sull'acqua da parte di governi e amministrazioni locali, la verifica drammatica dell'impotenza a cui sono condannati i movimenti quando il loro potere è affidato unicamente agli sforzi della società civile. Dobbiamo insediarci stabilmente nei luoghi in cui si decide, si fanno e si applicano le leggi. E senza il governo politico del pluralismo sociale e culturale non si va lontano. Tutti oggi possiamo osservare quanto sia difficile mantenere la coesione all'interno di un mondo in cui è penetrato un individualismo dissolvitore che ha cambiato i connotati storici della militanza. Potrebbe vivere un sol giorno Sel senza il carisma di Nichi Vendola? E sarebbe stato possibile il Movimento 5 stelle senza l'affabulazione di uno strano leader-attore come Beppe Grillo? Stessa considerazione vale per l'Idv di Di Pietro.


Certo, Alba - evocata da Pepino - rappresenta una novità, ma una novità allo stato ancora nascente. E' un'alba, appunto. Essa è per il momento un ricco e plurale laboratorio di idee. Nulla di più. Ma è priva di mezzi e di influenza soprattutto nel mondo dei media. L'importante assemblea di Torino del 6-7 ottobre, dedicata al lavoro, è avvenuta nel silenzio mediatico più completo. Non fosse stato per il manifesto e per una nota del Fatto, il vasto pubblico nazionale non se sarebbe accorto. 
Tale debolezza dell'Alleanza - che contrasta con la ricchezza di analisi e proposte al suo interno e con le tante figure intellettuali che la animano - la mette oggi in una condizione di paralisi. Essa non può prendere parte all'appuntamento elettorale del 2013: presentare una propria lista sarebbe, infatti, un evidente suicidio. Dov'è oggi, a sinistra, lo spazio per una ennesima formazione? Paul Ginsborg, a Torino, ha invitato a non considerare un dramma l'eventualità di una mancata partecipazione di Alba alla competizione elettorale. Considerazione saggia, ma che contiene anche una visione un po' irenica della lotta politica. E' come se pensassimo che il mondo stia nel frattempo ad attendere la nostra crescita. Non partecipare alla competizione elettorale del prossimo anno è invece, a mio avviso, per le tante figure intellettuali e politiche che i movimenti hanno espresso negli ultimi anni, una perdita secca. Nella fase storica in cui si verificherà un prevedibile sommovimento della composizione del Parlamento italiano, non avere al suo interno i rappresentanti delle donne e degli uomini che hanno lottato contro il Tav in Val di Susa, il Sottopasso di Firenze, che hanno animato le lotte nelle scuole e nelle Università, che hanno guidato le popolazioni locali contro la distruzione del loro territorio, è, con ogni evidenza, una sconfitta.
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Questo articolo è stato inviato contemporaneamente anche al manifesrto. www.amigi.org

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