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Titolo originale: A look back: planner Ed Bacon – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edmund N. Bacon, l’ultimo di una generazione di urbanisti di forte impegno è scomparso il 14 ottobre. Come Robert Moses a New York o Edward Logue a Boston, Bacon ha lasciato un’impronta incancellabile sulla città di Filadelfia negli anni del dopoguerra. Come direttore generale della City Planning Commission dal 1949 al 1970, ha rivitalizzato un centro in decadenza con un insieme di strategie paragonabili a quelle di Sisto V per Roma nella visione progettuale di obiettivi.

Negli anni ’50 Bacon iniziò a trasformare una malconcia vecchia zona fra Independence Hall e il fiume Delaware, eliminando il mercato delle carni e isolati di case in linea in decadenza per Society Hill. Edifici storici del XVIII e XIX secolo furono rinnovati, aggiunti edifici negli spazi vuoti, inseriti parchi e percorsi pedonali; il tutto culminante nelle alte torri ad appartamenti di I.M. Pei. A ovest della sede del municipio, sostituì alla stazione di Broad Street della Pennsylvania Railroad, e alla “Muraglia Cinese” del viadotto lungo otto isolati, il Penn Center: un complesso per uffici nello stile del Rockefeller Center, collegato ai trasporti pubblici, con piazze, corti ribassate, grandi viali pedonali.

Come ha osservato Alex Garvin, ex vicepresidente della Lower Manhattan Development Corporation, nel 2003, “Nel 1970, i proprietari avevano recuperato più di 600 elementi storici di Society Hill, i valori immobiliari erano più che raddoppiati, e la popolazione aumentata di un terzo”. Le attività riempivano i palazzi per uffici dei centro, e cominciò un rinascimento che, anche se piuttosto duro a volte, fu rivoluzionario per i suoi tempi.

Bacon ebbe l’energia e la semplice volontà di collaborare con amministrazione e costruttori privati per rende re possibili le cose. “Utilizzò un insieme di disparate idee urbanistiche, come demolizioni o tutele puntuali, mettendo il tutto insieme in un unico progetto” dice G. Craig Schelter, che collaborò con Bacon nella commissione urbanistica, prima di diventarne a sua volta capo negli anni ‘80.

Le audaci trasformazioni urbanistiche di Bacon, non sorprende, disturbarono molti. Per esempio, il suo contenere il deflusso dei ceti medi e alti dalla città, attirando giovani e agiati dal suburbio verso il centro e Society Hill non aiutarono i poveri. Circa 1.000 famiglie furono spostate dalla gentrification di Society Hill. E nei grandi progetti urbani sviluppati in altezza non ci fu spazio per gli architetti più creativi di Filadelfia, Louis Kahn – che presentò schizzi di massima per il Penn Center negli anni ’50, come membro del Citizens Advisory Committee – o Venturi Scott Brown – che collaborò a stroncare l’idea molto alla Moses di Bacon per un’autostrada urbana veloce lungo South Street. Bacon preferì architetti come Vincent Kling e Emery Roth, che progettarono anonime torri per uffici da inserire nel piano del grandioso Penn Center. Anche abbattere il terminal ferroviario del 1893 e la Muraglia Cinese significò distruggere l’opera di Frank Furness, ora l’architetto del XIX secolo più stimato di Filadelfia.

Al cune delle altre visioni di Bacon – la rivitalizzazione di Market Street East, una via commerciale e a uffici che collega City Hall a Independence Mall e che era andata deprimendosi negli anni – impiegarono più tempo a consolidarsi. Un piano per trasformare Chestnut Street in un passeggio pedonale si limitò ad accelerare la trasformazione di quella che un tempo era una via commerciale in una fascia di attività a basso profilo. E Penn’s Landing, il progetto per 15 ettari di colmata sulle rive del fiume per attività varie, non ha sviluppato in pieno il proprio potenziale, in parte per il collocamento della Intestate 95 parallela alla sponda, che rende difficile per i pedoni raggiungerla (Bacon la voleva sotterrata, ma lo fu solo in parte a causa dell’alto costo).

Dopo aver preso la laurea in Architettura alla Cornell University nel 1932, Bacon lavorò a Shanghai e studiò urbanistica con Eliel Saarinen a Cranbrook, prima di tornare a Filadelfia nel 1939 come direttore esecutivo della Housing Authority. Uomo dalle decisioni sempre nette, Bacon si arruolò in Marina durante la seconda guerra mondiale, anziché registrarsi come obiettore di coscienza. Nel 1947, si unì all’amico architetto Oscar Stonorov (allora socio di Louis Kahn) per progettare la “ Better Filadelfia Exhibition” ai grandi magazzini Gimbel, dove Bacon presentò idee urbanistiche basate su grandiose vedute, sequenze percettive, sistemi per il movimento pedoni, modalità di trasporti interconnesse. Nel corso di questi anni portò la sua famiglia nella città che stava trasformando: sei figli, tra cui Karin Bacon, ora progettista e organizzatrice di eventi, e Kevin Bacon, l’attore, vivevano in una casa di città a Locust Street.

Dopo le dimissioni dalla City Planning Commission nel 1970, Bacon diventò vicepresidente dello studio Mondev di Montreal, e insegnò in varie università. In questi anni Bacon, sempre un combattente, rimase impegnato nelle questioni urbanistiche di Filadelfia. Ruppe i rapporti con Willard Rouse quando Rouse costruì Liberty Place, violando il gentlemen’s agreement secondo cui nessun edificio poteva superare i 150 metri della statua di William Penn sulla cima di City Hall.

Alla cerimonia di commemorazione di Bacon a Filadelfia il 23 ottobre, il sindaco Street ha annunciato che intendeva proporre una risoluzione al legale municipale per cambiare lo statuto, in modo che il responsabile dell’urbanistica potesse avere un posto fisso nel gabinetto del sindaco, anziché un ruolo solo consultivo.

A trentacinque anni dal pensionamento di Bacon, l’eredità della sua direzione è ancora evidente (compresa l’istituzione della Ed Bacon Foundation nel 2004) anche se le filosofie dell’urbanistica e i modi di attuazione hanno subito grandi mutamenti. Pianificare ora significa tener maggior conto dei gruppi di abitanti, che ritenevano come si dedicasse troppa attenzione alle grandi visioni autocratiche, a spese delle comunità e delle abitazioni economiche. E anche se la partecipazione dei privati ai progetti di trasformazione urbana fu tanto importante nella rinascita della Filadelfia di Bacon, ora, coi finanziamenti statali e federali sempre più ristretti, questo tipo di alleanze ha portato spesso ai un’influenza determinante dei privati nella progettazione della città. Nondimeno, come osserva Schelter, “Bacon fu la persoone perfetta per la Filadelfia dell’epoca”.

Nota: il testo originale al sito di Architectural Record; qui su Eddyburg uno dei primi articoli dopo la scomparsa, e qualche link (f.b.)

Noi preoccupati da sempre del disinteresse della stampa per le questioni ambientali non ci possiamo più lamentare. C’è stato il Living Planet Report 2006 del WWF, poi prima che quello finisse nel dimenticatoio è uscito l’Observer con il Rapporto di Sir Nicholas Stern commissionato da Blair, e subito appresso Nairobi... La prima volta, che io ricordi, che l’ambiente è stato per più di una settimana di seguito su tutti i giornali. Su Liberazione si sono seguiti gli editoriali di Piero Sansonetti, Ritanna Armeni e Carla Ravaioli mentre Sabina Morandi forniva il suo quotidiano contributo di informazioni preziose, e poi le corrispondenze sul vertice in Africa (ennesimo fallimento, tra l’altro, con l’ulteriore rinvio di qualunque decisione importante)... In tutti i casi: a me questa sembrava una buona occasione per far fare un passo in avanti al modo di ragionare delle sinistre al riguardo.

Provo a spiegarmi. Carla Ravaioli notava che da buon economista Nicholas Stern, per esser certo di richiamare l’attenzione sul suo Rapporto, ha provato a tradurne i risultati in quattrini. Al di là dei guasti climatici, degli scioglimenti di ghiacci, delle desertificazioni avanzanti, dei 200 milioni di profughi scacciati da terre sempre più inaridite, ha sparato la cifra di 3,68 trilioni di sterline (5,5 trilioni di Euro, il 20% del Pil mondiale) come prezzo per il mancato intervento sul mutamento climatico. E’ stata quella la cifra strombazzata da tutti i giornali. Evidentemente lo ha fatto perché è consapevole che quello dei soldi è il solo linguaggio comune a tutte le sfere di potere del mondo.

Approccio al problema che comporta il rischio però (è questa la critica di Ravaioli) che anche le soluzioni vengano ricercate soltanto attraverso strumenti economici, oltreché tecnologici: rifiutando ancora una volta cioè di imboccare la strada più giusta, che è quella di sgombrare le nostre menti dai criteri monetari come unico metro per valutare le cose e deciderci a perseguire le finalità dichiaratamente anti-economiciste - della maggior possibile riduzione degli sfruttamenti di risorse terrestri nei cicli correnti di produzione-e-consumo.

Vorrei provare adesso a riprendere il filo del discorso da un altro capo messo in particolare evidenza da Ritanna Armeni. Quello della dimostrazione data da Stern dell’impossibilità materiale per un solo paese, per importante che sia, di incidere in misura apprezzabile sulla soluzione di questi problemi fintantoché gli altri seguitano a non darsene per intesi. La conclusione che ne discende “o tutti insieme o nessuno” a me sembra peggio che catastrofica. Significa in pratica un invito a tutti a non far niente di niente, perché tanto non servirebbe... Probabilmente è per questo che Stern mette avanti la questione dei soldi: perché ritiene meno difficile metter d’accordo le grandi potenze economiche che i singoli Stati. Cadendo però nell’altro rischio che Ravaioli denuncia: che dall’interesse delle Multinazionali, che vedono nella questione ambientale soltanto una nuova occasione di guadagni e di affari, non possa venire in sostanza niente di buono. Anche perché, aggiungerei, non è affatto detto che sia più facile metter d’accordo i colossi economici che le Nazioni.

Ritanna Armeni, nel ricordare le conclusioni di Stern sulla necessità di “un accordo globale di tutti i paesi del mondo per un intervento immediato e pianificato”, mette in evidenza che questo significa riconoscere a tutto l’ambiente fisico planetario il carattere di “bene comune”. Un’idea di sinistra, d’accordo, positiva teoricamente, ma che non mi sembra possa arrivare a nascondere lo sconforto profondo che ci deriva dall’impossibilità materiale di fare praticamente alcunché per levarci davvero dai guai. La convinzione che ormai “non ci resta che piangere”.

Sta di fatto che il genere umano non s’è mai trovato di fronte a una tragedia futura-prossima di questa portata. Trilioni di sterline a parte: si tratta né più né meno della sopravvivenza per popoli interi. Sappiamo infatti che c’è già chi pensa a salvare sé stesso a spese della distruzione degli altri: c’era anche questa tra le motivazioni dei neocons statunitensi nel loro tentativo (fortunatamente fallito, come stiamo vedendo) di procedere a suon di bombe alla conquista del mondo. Già nel 1970 il sociologo USA Garret Hardin scriveva “se non ce n’è per tutti meglio a noi soli, e che crepino gli altri”)... Mentre l’idea solidaristico-socialista del pari diritto di tutti alla vita si scontra dovunque con difficoltà continuamente crescenti.

Già, perché qui sta il busillis. Giorgio Ruffolo parlava su la Repubblica di “gigantesco problema di ristrutturazione sociale, riorganizzazione politica e ripensamento etico della società umana”. E in quell’editoriale del 25/10 Sansonetti metteva in discussione la natura stessa del capitalismo, “che porta nel suo dna un enorme definitivo difetto: la dittatura della crescita dei consumi e quindi il rischio di rovina del pianeta”.

Vedete dov’è che voglio andare a parare? Da quel che ci dice Ritanna Armeni sull’ambiente fisico “bene comune” e dalle parole di Sansonetti sulla messa in crisi del capitalismo, mettendo insieme due- più-due mi sembra risulti evidente che, se c’è ancora una qualche speranza di riportare a vivibilità questa Terra (niente è recuperabile al cento per cento, d’accordo, ma niente è mai nemmeno completamente perduto), sta oggi nel realizzare una nuova forma di comunismo che basi la ricerca di equità nella ripartizione dei beni su motivazioni profondamente diverse da quelle passate. Un comunismo lontano, cioè, dal contesto ipotizzato da Marx di ricchezza complessiva in aumento, e fondato invece sulla realtà dello squilibrio crescente fra popolazione mondiale e risorse, e quindi sull’assioma lapalissiano che se le risorse scarseggiano la sola cosa ragionevole e decente da fare è metterle in comune e ripartirle fra tutti il più equamente possibile.

Come dire che in un momento tanto drammatico di situazione di bilico per il futuro del genere umano, la sola speranza di salvezza è “spostata a sinistra”. Dipenderà da noialtri - così frastornati ed incerti finora sul nostro destino sgombrarci la testa da qualunque residuo di fisime economiciste mutuate dai nostri avversari, abbracciare convinti l’idea della messa in comune del bene unitario rappresentato dalla biosfera terrestre, trasmettere ad altri la nostra convinzione, batterci senza sosta e senza quartiere contro il mostruoso aggregato degli interessi capitalisti ostinati a non voler vedere quel che sta cambiando sotto i loro stessi occhi, ristabilire i valori della solidarietà interumana, unire le forze per la ricostituzione ancora possibile della vivibilità della Terra...

Che dite? Sto vaneggiando? Può darsi. Ma se si riflette alle difficoltà che abbiamo incontrato finora nel definire la nostra idea di rifondazione di un comunismo del XXI° Secolo, se poniamo mente a quanto si sta rivelando problematico individuare una linea di pensiero e di azione per la Sinistra Europea, non è difficile accorgerci che ci si sta offrendo se pure in extremis e quando già quasi-tutto sembra perduto una prospettiva di validità incontestabile. E che noi soli attenzione possiamo portare avanti. Un compito storico per le sinistre come non l’hanno mai avuto, che ci piomba addosso già quasi-fuori dal tempo massimo. Il che lo rende ci piaccia o meno ancor più impegnativo.

Chiaro che questo è un discorso che va approfondito e verificato portandolo avanti. Troppe cose ci sarebbero ancora da dire...

Limitiamoci a una. Che per tentar di risolvere la questione ambientale le “terapie morbide” non bastano più. Beninteso: sperimentare energie alternative, razionalizzare edilizia e trasporti, riciclare i rifiuti e quant’altro sono cose che vanno fatte. E’ quel che hanno cominciato a capire (Ravaioli ricorda) perfino i potentati economici pronti a metter le mani sul nuovo business-ambiente... Ma non è questo (quantomeno non questo soltanto) che serve. E’ produrre di meno, è consumare di meno, è ritornare per certi aspetti a condizioni pre-industriali di parsimonia nei comportamenti. E’ adattarci definitivamente all’idea (ricordate la polemica dell’anno scorso su queste pagine?) di sostituire un sistema basato sui consumi crescenti con un sistema industrial-produttivo “in decrescita”. In aperto contrasto con gli interessi economici dominanti nel mondo e con la mentalità che c’è dietro. E’ dedicare d’ora in avanti gran parte delle forze lavorative mondiali al risanamento ambientale: rimboschimenti, risanamenti idrogeologici, ripuliture e quant’altro.

In altre parole: è rifiutare una volta per tutte e per sempre di lasciarci guidare da criteri di competitività e concorrenza. E’ mettere realmente alla base di tutte le nostre scelte politiche la solidarietà fra gli esseri umani. E’ batterci contro la rete oppressiva e violenta dei potentati economici che detengono i massimi poteri nel mondo. Cose da far tremare soltanto a pensarle, d’accordo. Ma che rappresentano per la sinistra (di questo faremo bene a convincerci, per quanto difficile ed ostico sia) la più grande occasione storica che le si sia mai presentata per assumere il ruolo protagonista in una travagliatissima fase della vicenda umana.

Senza cadere in eccessi di catastrofismo né di retorica: a me sembra che ci si prospetti se saremo capaci di tenerci all’altezza dei problemi reali la possibilità di dedicarci a una missione certamente drammatica, ma forse decisiva per la prosecuzione dell’avventura umana su questo pianeta.

Quattro articoli di Liberazione

per Fabrizio Giovenale

Piero Sansonetti

E’ morto Fabrizio Giovenale. Aveva 88 anni. E’ morto la sera del 21 dicembre, proprio quando noi abbiamo iniziato lo sciopero dei giornali. I lettori di Liberazione lo conoscono benissimo. Sanno quanto fosse difficile spiegare bene, come lo faceva lui, perché l’ambientalismo è diventato un pilastro per ogni politica di sinistra. Fabrizio, credo, è stato il padre più importante dell’ambientalismo italiano, uno dei primi a scoprire quanto fosse stretto il legame che unisce la difesa dell’ambiente alla lotta per la giustizia sociale. Lui ci ha fatto capire come e perché il sistema capitalistico - il liberismo moderno - non è compatibile con la difesa dell’ambiente. E come la distribuzione equa delle ricchezze - e dunque la lotta contro gli eccessi di accumulazione - è fondamentale per salvare le risorse della terra, cioè il futuro del pianeta.

Su questo giornale, anche recentemente, Fabrizio è stato protagonista di battaglie culturali “epiche”, di dibattiti di altissimo livello. Per esempio quello che abbiamo ospitato nell’estate del 2005, aperto da un suo articolo di formidabile lucidità, e che ha visto impegnati - con grande passione e persino con punte di faziosità - da una parte quelli che la politologia chiama gli “ambientalisti” e dall’altra quelli che chiama gli “operaisti”. Per operaisti si intendono i sostenitori della crescita economica come condizione indispensabile per la giustizia sociale; gli ambientalisti invece - come Fabrizio - sostengono che l’urgenza di un nuovo modello di società può ammettere anche fasi di contenimento dello sviluppo economico e persino di decrescita.

Fabrizio odiava il pil, la politica del pil, l’economia del pil, la religione del pil. Sentiva che il pil, cioè quello che lui riteneva un feticcio, era diventato la bussola di tutti - il cuore del pensiero unico - e deviava le idee della sinistra spedendole su un binario

Non so come faremo da ora in avanti, noi di Liberazione. Fabrizio aveva una capacità di scrittura, una efficacia nel sollevare i temi, nel dirigere le discussioni, nello spiegare i processi più complicati, che nessuno di noi ha. Il giornale perde non solo uno dei suoi collaboratori più prestigiosi: perde una penna che è molto difficile sostituire.

Ho conosciuto recentemente Fabrizio. Solo quando sono arrivato a Liberazione, nel 2004. Prima sapevo chi era (era stato anche amico di mio padre, negli anni ’70 e ’80, quando lavorava al ministero dei lavori pubblici ed era una delle teste più intelligenti del socialismo lombardiano), e con lui ho avuto un rapporto prevalentemente telefonico. Però davvero intenso. Perchè lui, quando ti chiamava, non voleva solo proporti un articolo, voleva parlare delle grandi questioni, dire la sua opinione e sentire la tua, proporti la visione del mondo, aiutarti a costruire delle idee. Era difficile non volergli bene, non farsi conquistare da questo vecchio, con la voce ormai un po’ fioca, ma col cervello sempre in movimento, e con idee nuove, giovani, fresche, assolutamente anticonformiste.

Roberto Musacchio

Fabrizio Giovenale è stato un uomo importante. Importante per la sua famiglia, per sua moglie Marina, i suoi figli e i suoi nipoti. A questi ultimi ha dedicato alcuni suoi scritti a simboleggiare la sua straordinaria capacità di attraversare le generazioni guardando sempre, da ambientalista, a quelle future. Lo è stato per noi, donne e uomini della politica, delle sinistre e dell’ambientalismo italiano che abbiamo avuto il privilegio e il piacere di essergli vicino con quella sua capacità unica di offrire i contributi più ricchi e preziosi con una disponibilità totale e una assoluta semplicità. Fabrizio era egualmente presente agli appuntamenti più solenni e prestigiosi come alle riunioni più comuni e ordinarie. Ma lui è stato un uomo importante per questo Paese, l’Italia. Lo dico con convinzione e senza alcuna retorica sapendo quanto ne fosse lontano e insofferente. Giovenale è stato un dirigente di primo piano di importanti strutture pubbliche; ha collaborato in gabinetti di ministri nell’esperienza del primo centrosinistra; è stato alla guida di associazioni ambientalistiche storiche, nuove e nuovissime; ha accompagnato le sinistre italiane in modo ricco e creativo. E’ stato un uomo di fortissima impronta morale in cui l’etica non era astratta ma si concretizzava in un senso del pubblico come bene comune e un amore per la fisicità e la materialità di questo pubblico, e cioè l’ambiente, il territorio, le città. L’ambientalismo è stato per lui esattamente l’espressione di questa etica pubblica. In nome di essa ha instancabilmente operato da dirigente pubblico, da politico ambientalista, da uomo di cultura. Ha denunciato le miserie e le stoltezze delle classi dirigenti che specie in questo paese nella degradazione dell’ambiente hanno mostrato tutta la loro mancanza di senso civico. Ma ha anche costantemente incalzato le sinistre, criticato senza sconti le culture industrialiste, le povertà culturali o la meschinità di compromessi privi di sguardi sul futuro. Lo ha fatto con una grande capacità di conoscenza delle cose concrete, l’ambiente e le sue leggi; e con una incessante opera di ricerca e di innovazione di pensiero. Per questo è stato naturale trovarsi assieme in questi ultimi quindici anni della sua vita nell’impresa di rifondare contemporaneamente un ambientalismo e una sinistra critici. Lui che aveva dato tanto di se a Italia Nostra e a Legambiente si impegnava ora nella costruzione della Sinistra Rossoverde e del forum ambientalista. Lui uomo di sinistra si trovava accanto a noi di Rifondazione comunista e della Sinistra europea. E questo trovarsi insieme non avveniva in momenti saltuari ma in un impegno quotidiano e minuzioso. Né questa nuova impresa della sua vita lo aveva sottratto agli altri soggetti di impegno di anni precedenti con cui aveva sempre mantenuto una relazione convinto che occorresse comunque mantenere un profilo unitario. Anche perché voleva che provassimo a cambiarlo questo Paese sprofondato del berlusconismo. Ne sentiva un’urgenza testimoniata da tanti suoi scritti come l’ultimo libro che volle uscisse prima delle elezioni con bellissimo titolo “La risalita”. Ma questa propensione unitaria si accompagnava a una grande radicalità e acutezza di pensiero. Le sue elaborazioni critiche della globalizzazione e sul valore dell’economia locale e dei beni comuni sono tra il meglio della cultura altermondialista in cui lui si trovava a proprio agio. Giovenale è stato anche uno scrittore importante, giornalista, saggista, uomo di cultura militante, quotidiana, fuori da ogni torre d’avorio. Un uomo bello che amava il suo paese e la sua città, Roma, e il mondo. Rendere omaggio a questa tua vita importante è il minimo che possiamo fare insieme a dirti che ti vogliamo bene e che continueremo a sentirti vicino nel fare le cose che ci hai insegnato.

Sabina Moranti

Fabrizio Giovenale se n’è andato il 21 dicembre scorso, dopo una lunga vita piena d’affetti, d’impegno e di riflessioni lucide e profonde sulle quali si sono formate più generazioni di ambientalisti. La morte però, rende egoisti e chi ha conosciuto Fabrizio non può che sentirsi un po’ più solo, come se fossimo stati abbandonati dalla guida sicura di una mente ben ancorata alla realtà, una mente critica e lucida ma anche in grado di conservare e dispensare a piene mani una speranza combattiva. Personalmente non ho avuto la fortuna di formarmi alla sua scuola come tanti urbanisti diventati in seguito famosi Antonio Cederna o Vezio De Lucia, tanto per citare i più noti e il nostro rapporto è nato giusto qualche anno fa, in seguito alla lettura di alcuni articoli che lo avevano spinto a contattarmi. Rassicurata e lusingata da un “tifo” così autorevole, mi sono volentieri lasciata coinvolgere in un confronto serrato durante il quale, malgrado la differenza generazionale, abbiamo scoperto una comunanza di vedute che stupiva entrambi. Per quanto mi riguarda, ho attinto a piene mani dal suo ottimismo, un ottimismo tanto concreto quanto informato e nient’affatto ingenuo.

Ero prevenuta, lo ammetto. Non mi aspettavo in un ottantenne tanta lucidità e tanta capacità di tenere il passo con gli eventi. Ogni volta che ci parlavi, Fabrizio aveva sempre letto il libro appena uscito, la rivista più contestata, l’articolo più discusso, e argomentava con un entusiasmo e un’umiltà che fanno difetto a molti quarantenni. Non c’era traccia in lui dell’arroganza che scaturisce dall’aver fatto tante cose importanti. Le sue esperienze di politica istituzionale fu a capo del servizio studi e programmazione dei Lavori pubblici durante gli anni d’oro del primo centro sinistra, quando le riforme si facevano sul serio non l’hanno né corrotto né sfiduciato ma sono probabilmente alla base di quella concretezza che ha continuato a mostrare in tutti i suoi scritti.

Ai dilettanti di ogni categoria Fabrizio insegnava quella serietà che forse solo una formazione scientifica può garantire. Ai professionisti della scienza e dello sviluppo cercava di insegnare invece che non esistono solo le strade già tracciate e che l’utopia non è un sogno da lasciare ai poeti ma un impegno, una responsabilità della politica che non rinuncia a cercare di trasformare l’esistente. In La risalita, libretto pubblicato in fretta e furia da Punto Rosso durante la scorsa campagna elettorale, Fabrizio aveva individuato alcune strade per risalire dalla spirale distruttiva che il mondo sembra avere imboccato. Il punto di vista di Giovenale, com’è noto, è sempre stato quello rosso-verde, il che non significa soltanto poter vantare una militanza durata mezzo secolo ma avvertire con forza l’impellenza di una crisi ambientale divenuta sempre più evidente eppure, paradossalmente, sempre più lontana dagli orizzonti della politica. Com’è possibile che la politica abbia rinunciato a ogni tentativo di regolare l’espansione di una globalizzazione basata su di una crescita cieca e meramente quantitativa incapace di fare i conti con i limiti fisici del pianeta? Ma soprattutto si chiedeva Fabrizio - come invertire questa tendenza?

Con parole leggere e scrittura colloquiale Fabrizio metteva, come si dice, i piedi nel piatto. Per esempio invitando, nel suo ultimo scritto, a interrogarsi su alcune questioni a lungo rimandate, come ad esempio «la deformazione economica della laicità illuminista» che ha fortemente influenzato la sinistra anche perché «la dottrina marxista, che ha guidato l’azione delle sinistre nel mondo per un secolo e mezzo, si fonda sulla stessa interpretazione economicista della realtà del capitalismo suo antagonista» ovvero, sempre per dirla con le sue parole, si è trattato di «contendersi il manico della padella per cuocere la stessa frittata». Però, sosteneva Fabrizio, la stagione delle guerre permanenti insieme all’accelerazione delle crisi ambientali riporta alla ribalta quell’intuizione basata su di un’idea di società «intesa come equa distribuzione dei beni collettivi quanto come limitazione dei diritti individuali su di essi», limitazione che però va direttamente in rotta di collisione con quell’idea dello sviluppo illimitato condivisa dalla maggior parte della sinistra.

Il problema è che per sperare ancora nella pace, per uscire dallo sfruttamento neo-coloniale dei popoli e delle risorse del sud del mondo, o anche semplicemente per dar da mangiare a tutti quanti, non ci sono scorciatoie: bisogna abbandonare il paradigma dominante e imboccare drasticamente la via della decrescita, ovvero abbracciare con forza «l’idea di ridurre i consumi delle risorse terrestri (e cioè delle materie prime per le lavorazioni industriali) che incontrava e incontra l’ostilità del “popolo di sinistra”». Lungi dal coltivare, sia per l’Italia che per l’Europa nella sua interezza, la rincorsa della competitività a ogni costo, Fabrizio suggeriva di abbracciare decisamente un altro modello, diventarne i campioni e poi magari “venderlo” altrove. Come? Premiando ad esempio il “ciclo corto” (ovvero i cicli locali di produzione e consumo) e favorendo il rimpiazzo delle risorse mancanti, in primo luogo metalli e petrolio, attraverso ogni tipo di agevolazione fiscale che sostenga le iniziative di risparmio energetico sia nella produzione che nell’edilizia di riconversione e di diffusione delle rinnovabili. Tutto ciò, oltre a prepararci per la crisi alimentare causata dal simultaneo aumento della popolazione planetaria e dall’esaurimento dei combustibili fossili (che sono alla base dell’agricoltura industrializzata), restituisce sovranità agli Stati e sottrae il controllo alle gigantesche multinazionali, le prime beneficiarie della globalizzazione.

Decrescita, beni comuni, giustizia climatica, ri-localizzazione delle imprese. Per quanto poco utilizzate nel nostro paese, queste sono le parole d’ordine dei movimenti antagonisti di mezzo mondo, parole che riescono perfino a trovare udienza nella politica istituzionale, lì dove ha preso il potere una sinistra non troppo asservita agli interessi delle grandi corporation. In Italia, dove anche chi aveva la competenza e l’esperienza per fare questi discorsi come Fabrizio ha imboccato la strada della subalternità culturale, queste sono ancora parolacce perfino in casa comunista. Fabrizio chiamava “sogni” le sue arrischiate panoramiche, aggiungendo che sognare è un diritto e insieme un dovere per chi non s’accontenta dell’esistente e percepisce l’orrore di una crisi ecologica terminale. Volentieri raccogliamo il testimone dalle mani di uno che, questo dovere, se lo è accollato fino alla fine. Anche se, senza di lui, sognare sarà molto più difficile.

Franco Russo

Di Fabrizio Giovenale, del suo pensiero e dei suoi propositi testimoniano i suoi libri, articoli, documenti; delle sue molteplici attività, ci parleranno a lungo le organizzazioni politiche e le associazioni ambientaliste di cui è stato partecipe e ispiratore. Io lo ricordo quando venne, a metà degli anni ’80 al cinema Andrea Doria, nel quartiere Trionfale di Roma, occupato per impedire la sua trasformazione in centro commerciale (e ci riuscimmo). Giovenale sostenne con la sua autorità e intelligenza quella lotta che continuava le iniziative per difendere la città dallo scempio urbanistico e anticipava quelle per darle un nuovo volto proprio attraverso la conservazione delle sue straordinarie risorse storiche, architettoniche, ambientali. Sindaco Petroselli, fu con Cederna e La Regina tra i più convinti sostenitori del parco urbano dei Fori imperiali da congiungere a quello dell’Appia, per salvare così i monumenti romani e aprire il più grande sito archeologico del mondo. Fabrizio pensava a una città capace di innovarsi preservando storia e natura, anzi si sforzava sempre di immaginare come rinaturalizzare l’ambiente urbano e conservare le grandi testimonianze del passato. Negli ultimi anni spiegava come la riforestazione e la cura del territorio sarebbero state le vere modernizzazioni per il nostro paese. Parchi urbani e parchi archeologici, ridisegno della città per riavvicinare luoghi del lavoro e luoghi della vita, per superare i ghetti dormitori e il vuoto di sera nei quartieri degli uffici: la sua inventiva era inesauribile, e la sua produzione di proposte non si fermava davanti agli interessi costituiti. Per questo è stato sempre a sinistra, cercando in questo ‘luogo’ le risorse per le sue azioni culturali e politiche.

Nasce socialista lombardiano, impegnato come dirigente del Ministero dei lavori pubblici, sostenne con determinazione i tentativi di riforma urbanistica dei primi anni ’60 del secolo scorso. Protagonista di Italia nostra, vera fucina dell’ambientalismo italiano, poi tra gli ispiratori di Legambiente vissuta come un’esperienza della nuova società civile impegnata in un processo di trasformazione oltre i limiti dell’agire politico tradizionale. Quando sentì che questa operazione si scontrava con nuovi limiti, giustificati con le compatibilità del presente, Fabrizio già con alle spalle decenni di impegno, ma giovane come sempre di mente e di cuore, si lanciò in nuove avventure senza paracadute.

Alla fine degli anni ’80, Fabrizio con altri ambientalisti di rango Nebbia, Ravaioli, Falqui, De Lucia, Ricoveri, Amendola, Bettini, Berdini, Prestipino, Molinari dà vita ad associazioni, gruppi di lavoro, iniziative che, pur senza avere dimensioni di massa, hanno avuto la forza di suscitare e orientare le diffuse mobilitazioni sul territorio e di salvaguardare il nucleo di innovazione culturale del pensiero ambientalista. Il pensiero ambientalista era per Fabrizio la via per costruire la sinistra alternativa e la base per individuare le vie della trasformazione del capitalismo. Partecipò, con Nebbia, alla rinascita dell’Università verde a Roma, voluta da L. Nieri al Podere rosa, per insegnare e diffondere le idee dell’ambientalismo rossoverde. Continua fu la sua polemica con l’economicismo della sinistra tradizionale, che vedeva riaffiorare anche nelle nuove formazioni politiche, e con l’idea gemella dello ‘sviluppo sostenibile’ che giudicava un’illusione perché non metteva in discussione l’illimitatezza propria del capitalismo globalizzato. Prese parte, con pazienza e tolleranza, alle diverse aggregazioni a cui demmo vita per espandere e dare consistenza politica al pensiero rossoverde; puntuale a tutti gli appuntamenti nelle sedi più disagiate, ha legittimato i nostri sforzi, è stato il nostro ‘padre nobile’, la cui intelligenza ci aiutava a trovare il filo culturale delle nostre ipotesi e delle cose da intraprendere.

Scriveva libri di analisi teorica ma anche documenti politici, si cimentava con le questioni organizzative e con la povertà dei nostri mezzi: se oggi si può parlare di rossoverdi, lo si deve in gran parte a Fabrizio. Era un laico convinto, e questo gli consentiva di dialogare anche con coloro di cui non condivideva le posizioni o da cui si era separato u2212 forte di un accorto scetticismo che gli evitava di cadere in posizioni dogmatiche. Anche il suo stile affabile, cordiale lo rendeva prezioso in mondi difficili, inclini a dividersi piuttosto che trovare le comunanze; non aveva ambizioni di potere: gli bastava, a ragione, la sua autorevolezza, intelligenza e cultura, che lo rendevano ‘oggetto del desiderio’ di tutti. Non a caso scriveva su diversi organi di stampa della sinistra, sempre mantenendo le sue posizioni chiare, impegnate, motivate. Nel tragitto degli anni ’90, attraverso il Forum ambientalista, ci siamo incontrati con Rifondazione comunista, dove ambientalisti di antico impegno Musacchio innanzitutto e dirigenti politici come Gianni, Sentinelli, Vinci hanno saputo cogliere la ricchezza delle proposte e il potenziale di innovazione del pensiero rossoverde. Fabrizio ci ha dato la forza di avviare nuovi percorsi, che venivano illuminati dalla sua ricerca intellettuale che non si è mai fermata, se non con la sua morte. Io gli sarò sempre grato della sua fiducia, e del tempo che ci ha dedicato. Sono sicuro che ha avuto una splendida vita, piena di affetti l’amore di una intera esistenza con Marina -, e tesa sempre al futuro che vedeva nei suoi figli e nei suoi nipoti a cui ha dedicato un bellissimo libro.

Titolo originale: Edmund Bacon, 95, Urban Planner of Philadelphia, Dies – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edmund N. Bacon, uno dei principali urbanisti del dopoguerra, che ha ricostruito gran parte di Filadelfia, è morto venerdì nella sua casa. Aveva 95 anni.

La morte è stata annunciata dalla figlia, Elinor Bacon.

Direttore esecutivo della City Planning Commission di Filadelfia dal 1949 al 1970, Bacon ha avuto sulla sua città natale un’influenza paragonata da alcuni a quella di Robert Moses nel suo lungo regno su New York.

Rappresenta, anche un’epoca finita, quando gli urbanisti erano considerati delle celebrità, come oggi il figlio minore di Bacon, l’attore Kevin. Nel 1964 Bacon fi ritratto sulla copertina della rivista Time nel numero dedicato al rinnovo urbano in America. Nel 1965 Life dedicò un’altra copertina alla sua opera. Del 1967 il suo libro, Design of Cities, tuttora considerato un testo fondativo per l’urbanistica contemporanea.

Il suo segno su Filadefia risulta forse più evidente nel Penn Center, enorme insediamento nel centro città degli anni ’50 e ‘60. Il complesso, che comprende uffici e alberghi, era il più grande che si fosse visto in città dagli anni ‘20.

Sostituendo la cosiddetta Muraglia Cinese, insieme di ferrovie sopraelevate che dividevano la città, Bacon intendeva fissare una solida spina est-ovest. Aggiunse edifici nell’area attorno alla Stazione della 30° Strada al margine occidentale del centro città. Le idee del progetto di Bacon portarono anche agli insediamenti di Market East, Penn’s Landing, Society Hill, Independence Mall e Far Northeast. “Univa una filosofia demolisci-ricostruisci da urban renewal all’inizio della cultura della conservazione storica” scrisse Paul Goldberger sul New York Times nel 1988.


Il suo lavoro di urbanista non fu sempre giudicato positivamente dalla critica. Nel 1998 Herbert Muschamp scrisse sul New York Times che il Penn Center era “famigerato come uno dei primi esempi di disastrosa urbanistica moderna: discutibile nella geometria essenziale dei suoi edifici, la sua scarsa considerazione per la vitalità della strada tradizionale”.

Dal punto di vista personale, Bacon era noto per essere pungente, come può verificare chiunque nel documentario del 2003 My Architect, sul leggendario architetto Louis Kahn. Nel film, realzizzato dal figlio di Kahn, Nathaniel, Bacon difende vigorosamente – a dire il vero in modo irritabile – la sue decisione di respingere il progetto urbano di Kahn per Filadelfia.

Vigilò sempre attentamente sugli elementi storici fondamentali della città; per esempio, favorì il mantenimento di un tetto all’altezza massima degli edifici di Filadelfia, onorando la tradizione secondo cui nessuno poteva superare i 150 metri, ovvero l’altezza della statua di William Penn sopra il palazzo comunale. “Una volta infranta, non esiste più” dichiarò Bacon nel 1984.

Contrario al grattacielo One Liberty Place, si rifiutò di partecipare alla cerimonia di apertura del cantiere del 1986 e tolse il saluto al suo amico Willard G. Rouse III, che lo costruiva. “Credo che sia molto, molto distruttivo, il fatto che lui, lui solo abbia scelto di distruggere una tradizione storica che ha conferito belle e regolari forme alla città”, dichiarò Bacon all’epoca.

Contemporaneamente, si scontrava coi conservazionisti per la demolizione e ricostruzione di tanta parte della città.

Nativo di Filadelfia, Bacon aveva conseguito un bachelor in architettura alla Cornell University nel 1932, e poi continuato gli studi alla Cranbrook Academy of Art di Bloomfield Hills, Michigan, con l’architetto e urbanista finlandese Eliel Saarinen. Lavorò come architetto in Cina e a Filadelfia, prima di diventare urbanista municipale a Flint, Michigan

Da Flint, Bacon si spostò a Filadelfia come direttore della Housing Association, per cui progettò l’Esposizione Better Philadelphia del 1947, una mostra di piani e progetti modello. Fu anche fra i primi membri del City Policy Committee, protagonista del movimento politico riformista di Filadenfia.

Dopo le dimissioni dalla City Planning Commission nel 1970, Bacon fu vicepresidente della Mondev International Ltd., studio di urbanistica privato. Produsse anche Understanding Cities, una serie di film sull’urbanistica.

Fu professore associato all’Università della Pennsylvania, e insegnò anche a quella dell’Illinois a Urbana-Champaign. I riconoscimenti ricevuti comprendono tra l’altro lo American Institute of Planners Distinguished Service Award e il Philadelphia Award.

Oltre a Elinor, che abita a Washington, e a Kevin, che vive a New York, Bacon lascia altri quattro figli: Karin e Michael, a New York; Hilda, a Cherry Hill, New Jersey; e Kira, a Vashon, Washington, oltre a sei nipoti e un pronipote.

Bacon ha continuato sino alla morte a sostenere le proprie idee per Filadelfia, con modifiche a Independence Mall, Penn’s Landing e la Benjamin Franklin Parkway negli anni ‘90. Nel 2002 aveva protestato per la proibizione degli skateboard nel parco urbano di LOVE, nell’area orientale della parkway, attraversandolo illegalmente su proprio su uno skateboard.

Nota: il testo originale al sito del New York Times ; per capire meglio il contesto dell'opera di Edmund Bacon, si veda per esempio il saggio (disponibile online) di Mimi e John Lobell: The Philadelphia School 1955-1965 - A Sinergy of City, Profession and Education (f.b.)

Lo conobbi quarant’anni fa, nel mio primo giorno di lavoro al servizio studi e programmazione del ministero dei Lavori pubblici dove ero stato destinato dopo aver vinto un concorso per urbanista del genio civile. Avevo deciso di intraprendere la carriera ministeriale avendo seguito con appassionato interesse l’inchiesta condotta dal ministero sulla frana di Agrigento dell’estate del 1966. L’architetto Fabrizio Giovenale era il capo del servizio, veniva dall’Ina casa, l’ente benemerito che, a partire dal 1950 realizzò alcuni dei migliori interventi di edilizia pubblica del primo dopoguerra (e dissennatamente sciolto all’inizio degli anni Settanta). Ministro dei lavori pubblici era il socialista Giacomo Mancini, erano gli anni d’oro del primo centro sinistra, una stagione attraversata da un’autentica e operativa volontà di riforma in campo sociale ed economico. Il servizio studi era incardinato nella direzione generale dell’urbanistica, regno incontrastato di Michele Martuscelli, uomo potentissimo che controllava l’attività urbanistica ed edilizia di tutti i comuni italiani. Era diventato famoso per aver curato, per conto di Mancini, l’indagine sulla frana di Agrigento provocata dalla turpe speculazione edilizia che aveva snaturato la città dei templi. Il dibattito che si sviluppò alla Camera mise sotto accusa la Democrazia cristiana e, più in generale, la sordida alleanza fra speculatori e amministratori che non era una prerogativa di Agrigento ma riproponeva la situazione di tutte le città italiane, con l’eccezione di Bologna e dintorni e di pochi altri luoghi.

Al termine del dibattito parlamentare, Mancini mise mano al provvedimento poi noto come “legge ponte”, che doveva avere carattere temporaneo: un ponte verso quell’organica e compiuta riforma che ancora stiamo aspettando. Giovenale partecipò attivamente alla stesura della legge ponte, che non fu una misura marginale, anzi, con il passare degli anni, ha assunto un rilievo cruciale nella vicenda urbanistica nazionale. Obbligò tutti i comuni a dotarsi di un piano, moralizzò l’istituto della lottizzazione e inventò i cosiddetti standard urbanistici, quelli che, trentotto anni dopo, la controriforma proposta da Maurizio Lupi, deputato milanese di Forza Italia, intendeva condannare a morte. A Giovenale si devono in particolare le norme puntuali ed efficaci relative alla tutela dei centri storici, tema allora non certo popolare. Se in Italia, a differenza degli altri paesi europei (e di questo dovremmo essere fieri), i centri storici sono stati conservati, anche se ormai prevalentemente occupati da funzioni improprie, lo si deve a quelle rigorosissime prescrizioni e all’indiscussa competenza di Giovenale: è un suo grandissimo merito di cui credo che pochi siano informati.

Alla successiva stesura degli standard urbanistici, con Martuscelli, Giovenale e il presidente del Consiglio superire dei lavori pubblici, Vincenzo Di Gioia, partecipò il meglio della cultura urbanistica italiana, Mario Ghio (che si impegnò moltissimo), Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Luigi Piccinato, Giuseppe Campos Venuti, Alberto Todros, Marcello Vittorini, fra i più giovani Edoardo Salzano. Mi colpì il fatto che Campos, Salzano, Todros e altri erano comunisti, esponenti dell’opposizione, eppure perfettamente integrati nell’attività ministeriale. Era consociativismo? In un certo senso, sì. Ma penso che raramente l’interesse pubblico sia stato così efficacemente perseguito come in quelle circostanze. Il nostro lavoro era seguito da un gruppo di giornalisti che potrei definire specializzati, fra i quali Antonio Cederna, Vittorio Emiliani, Vito Raponi. L’approvazione del decreto sugli standard (forse l’atto più importante dell’urbanistica italiana contemporanea) fu preceduta da ripetute riunioni, caratterizzate da aspri scontri, in particolare con alcuni sindaci e costruttori che contestavano l’obbligo di prevedere negli strumenti urbanistici congrui spazi per il verde pubblico, considerato un lusso, uno spreco che l’Italia non poteva permettersi.

Dopo l’esperienza del servizio studi del ministero, per qualche tempo Giovenale fu direttore generale dell’Ises – istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale, un ente pubblico che si occupò in particolare della ricostruzione dei comuni della valle del Belice distrutti dal terremoto del gennaio del 1968 – dove lavorava anche Marcello Fabbri, un altro importante protagonista dell’urbanistica progressista, recentemente scomparso – e so della sua partecipazione alle vivaci assemblee che si svolgevano nei consigli comunali dei comuni disastrati per discutere della forma dei nuovi abitati. Si occupò a lungo d’Italia nostra, di cui fu anche vicepresidente, ma non tollerava il disimpegno politico che prevaleva allora in quell’associazione. Partecipò alla fondazione della Lega per l’ambiente (che ebbe origine da una costola dell’Arci). Poi si dedicò all’ambientalismo a tempo pieno, a mano a mano estendendo il campo dei suoi interessi e del suo proselitismo dall’urbanistica all’ecologia, scrivendo moltissimo, soprattutto su Avvenimenti e poi su Liberazione, fino a pochi giorni prima della morte, contestando con determinazione l’economicismo della sinistra, affrontando anche i temi terribili della crisi ecologica terminale e del destino dell’umanità.

Giovenale, anzi Fabrizio (appena lo conobbi, mi disse subito di darci del tu, cosa che mi parve stupefacente, venivo da un’attività privata dove vigevano rapporti molto formali) fu dunque il mio primo e impareggiabile maestro di urbanistica. L’urbanistica era tutt’uno con la politica (che l’urbanistica è una parte della politica l’ho imparato da lui). Mi fece capire che non si può non essere schierati. Era un militante socialista della sinistra di Riccardo Lombardi, severamente critico verso l’inclinazione ai compromessi e ai vantaggi personali che cominciava a dilagare nel Psi, ma non fu mai anticomunista come succedeva a tanti suoi compagni. Il lavoro ministeriale non era chiuso nelle stanze di Porta Pia ma si dilatò subito al mondo dall’associazionismo, del volontariato, dei poteri locali: l’Arci, l’Uisp (indimenticabile il rapporto con Giuliano Prasca), le Acli, l’Udi (che fornì un contributo importantissimo per la definizione degli standard), la Cgil e alcuni sindaci e assessori che sperimentavano l’urbanistica partecipata furono nostri interlocutori abituali. Mi fu anche maestro di scrittura, un maestro severissimo. Leggendo la mia prima relazione, disse che dovevo impegnarmi con zelo per raggiungere un livello accettabile per un funzionario dello Stato. Insisteva per la semplicità e la chiarezza del linguaggio. In seguito, lavorando con altri, ero stupito del fatto che non mi correggessero con pignoleria, come faceva Fabrizio, ogni riga delle cose che scrivevo.

Se ho raccontato di me medesimo è solo per testimoniare la straordinaria attitudine di Fabrizio nella formazione dei giovani, che è il modo migliore, come ha ricordato eddyburg, di operare “per il futuro di noi tutti”.

L’italia possibile di Manlio Rossi-Doria

Il "finito di stampare" reca la data del 17 gennaio 1981. Appena due mesi dopo il tremendo terremoto del 23 novembre 1980, il Centro studi di Portici diretto da Manlio Rossi-Doria aveva già pronto un volume con un’indagine puntigliosa dell’area investita dal sisma – quasi trecentomila ettari fra Campania e Basilicata – , una sua descrizione geografica, economica e antropologico-culturale, un’indagine che si chiudeva indicando una serie di direttrici da seguire per la ricostruzione.

È in questa esperienza di studio militante, di analisi e di concretezza politica rigorosamente concepita sui campi lunghi della storia, che si condensano il metodo e la personalità stessa di Rossi-Doria, economista agrario, meridionalista e uomo di battaglie civili di cui in questi giorni ricorre il centesimo anniversario della nascita (ieri la sua figura è stata commemorata a Roma da Giorgio Napolitano durante un convegno organizzato dal Senato e dall’Animi, Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia).

Rossi-Doria nasce a Roma, figlio di un assessore della giunta radicale di Ernesto Nathan, ma a diciannove anni le sue passioni lo conducono verso il Mezzogiorno, dove si iscrive alla facoltà di Agraria di Portici. È il luogo dove il Sud viene indagato al riparo dalle grandi sintesi storiche e ideologiche che lo descrivono come un universo compatto: Rossi-Doria studia chimica, botanica, entomologia, microbiologia, mineralogia e geologia. In Val d’Agri, in Lucania, impara da Eugenio Azimonti, un grande agronomo, come si conduce un’azienda, quali sono le pratiche colturali e zootecniche. Azimonti è anche autore di un libro, Il Mezzogiorno qual è, che contiene già nel titolo un programma d’azione avverso alle fumisterie o alle illusioni che deformano la percezione della realtà.

Il Mezzogiorno e la sua arretratezza. I paesaggi coperti di immensi possedimenti fondiari in mano a poche persone, incolte e incapaci di migliorare. I terreni abbandonati, la miseria contadina, una natura ostile: sono questi gli spezzoni d’immagine che si stampano nei suoi occhi e che il giovane studioso porta con sé nel carcere fascista, dove resta dal 1930 al 1935, nel confino in Basilicata – dove partecipa alle discussioni che conducono Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a scrivere il Manifesto di Ventotene – nel partito d’Azione e poi nella Resistenza romana.

Nel ‘44 al Nord la guerra continua, ma Rossi-Doria ha lo sguardo concentrato sugli elementi di fondo che attraversano la società italiana, con o senza il fascismo. E ammonisce quei compagni azionisti convinti che nel ventre del Sud vibri un fermento rivoluzionario: «Ormai», scrive in una lettera a Leo Valiani, «camminavo tenendo davanti agli occhi la diversa prospettiva che la rivoluzione non ci sarebbe stata, che il vecchio avrebbe preso il sopravvento sul nuovo, che la sinistra sarebbe stata sempre sconfitta sino a quando non avesse imparato a fare i conti con la realtà e ad acquistare le doti dei cavalli dal fiato lungo».

L’argomento razionale, la sua verificabilità, la costante messa in discussione dei dati acquisiti sono i cardini della sua mentalità di studioso e di politico. L’analisi e la passione civile. Rossi-Doria partecipa al dibattito sulla riforma agraria, alla fine degli anni Quaranta, spinge affinché lo Stato rompa gli assetti proprietari, distribuendo le terre a chi le avesse fatte fruttare. Critica l’opposizione dei comunisti e fra il ‘49 e il ‘52 lavora in Calabria, cura gli espropri e gli accorpamenti delle particelle fondiarie. Ma poi rimane molto scettico quando constata che la Democrazia Cristiana oltre che avviare lo sviluppo dell’agricoltura, agevolando la formazione di moderne aziende, intende soprattutto creare una truppa di piccoli contadini proprietari del solo terreno, incapaci però di renderlo produttivo, perché senza mezzi e senza cultura, una truppa che avrebbe ingrossato l’elettorato clientelare e le file dell’emigrazione (non è un caso che qualche anno dopo Rossi-Doria sarà l’autore di un rapporto-denuncia sugli scandali di quel grande baraccone che era la Federconsorzi).

Rossi-Doria rifiuta di chiudersi entro confini specialistici e anzi pratica un dialogo fitto fra i saperi tecnico-scientifici e quelli umanistici. Prima della guerra ha collaborato con i grandi artefici delle bonifiche, fra i quali Arrigo Serpieri, e ha appreso quanto fosse difficile riportare fertilità in luoghi paludosi senza indagare, oltre che le condizioni fisiche dei suoli, anche la storia degli uomini e delle loro pratiche, i rapporti sociali, le abitudini culturali.

È la stessa attitudine che ispira l’indagine nelle zone colpite dal terremoto dell’80. Rossi-Doria ha settantacinque anni, è ancora mentalmente agilissimo e non sopporta i luoghi comuni che si abbattono sulle regioni piagate, quasi un secondo sisma. Sente dire che quella è una civiltà che andava estinguendosi, infetta dalla miseria e ormai senza storia, senza destino se non quello di distruggere e sbaraccare tutto, gli uomini e le bestie, di trasferire i paesi altrove e di avviare uno sviluppo industriale tutto incentivato e che non avesse alcun rapporto con i saperi locali: una specie di tabula rasa urbanistica e sociale. È il solito Mezzogiorno di cui molti parlano, che pochi conoscono, salvo le sue classi dirigenti che lo conoscono bene ma hanno l’occhio lungo sugli affari e sui modi per conservare potere.

Le frasi del rapporto (il volume si intitola Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980 ed è edito da Einaudi) sono dettate da limpidità di stile, dall’umile e ironica consapevolezza del sapiente rispetto allo sfoggio magniloquente: «Il dato che deve far meditare di più coloro che all’improvviso sono venuti in contatto durante l’ultimo mese con questi luoghi e questa gente, è di trovarsi in una regione antica, di antica e solida civiltà». Qui le popolazioni hanno vissuto per secoli «con la durezza e la modestia delle migliori società contadine d’Europa, accompagnate da un tenore di vita e da una dignità superiori a quelle allora esistenti altrove». Altro che civiltà in coma, che attende l’eutanasia delle ruspe: «Si è avuto, negli ultimi anni, un notevole consolidamento e rinnovamento dell’agricoltura, una diffusione delle attività terziarie tipica di una società in sviluppo e persino il sorgere (sia pure nelle forme sommerse tanto frequenti oggi anche altrove) di nuove piccole iniziative industriali». La ricetta di Rossi-Doria e dei suoi collaboratori, detta molto sinteticamente, esclude trasferimenti di popolazione e prevede interventi capillari, molto dettagliati e aderenti allo statuto dei luoghi, seguendo il motto: "per problemi diversi, politiche diverse".

La strada che viene intrapresa è tutta diversa: il cemento invade colline e vallate, i centri storici (non tutti, ma quasi) si svuotano, le aree industriali sono allestite su terreni golenali, le aziende nascono già morte, le opere pubbliche sono inservibili, i paesi senz’anima. E, dopo una pausa che durava da decenni, i più giovani tornano a emigrare. Le terapie proposte da Rossi-Doria, una specie di cura omeopatica che facesse perno sulle risorse di un organismo debilitato, ma non morente, restano sul fondo, ma non pietrificate, avvolte dalla nebulosa delle politiche e degli affari, eppure capaci di of

Un grande merito del libro di Marco Biraghi (Progetto di crisi: Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, Edizioni Marinotti, pagg. 318, euro 22) è certamente quello di aver dedicato un lavoro di trecento pagine al più intrigante e geniale storico dell’architettura italiano dell’ultimo mezzo secolo: Manfredo Tafuri. Scomparso undici anni or sono e rapidamente dimenticato, dopo il numero doppio di Casabella da me diretta del gennaio 1995.

Tafuri era nato a Roma nel 1935 ed ha insegnato all’Istituto Universitario di Venezia dal 1968. Collaboratore della rivista Contropiano ed autore di una monografia sul suo maestro Ludovico Quaroni, i suoi testi, a partire da Teoria e storia dell’architettura del 1968 (una delle analisi più acute ed inventive della nozione di avanguardia in architettura), Progetto ed utopia (1973), La storia dell’architettura italiana dal ‘44 all’85, La sfera e il labirinto (1980), sino a Raffaello architetto del 1984, a Venezia ed il Rinascimento (1985) ed a Ricerca del Rinascimento sono analizzati da Biraghi con acutezza critica, che, giustamente, soggiace anche al fascino del modo di scrivere per ribaltamento e rotture del grande storico.

Dopo l’introduzione dedicata all’idea tafuriana di storia come progetto in opposizione sia allo storicismo positivista sia alla critica prescrittiva («Il modo con cui guardo ai fenomeni storici può dirsi progettuale anche se continuo a rifiutare qualsiasi categoria operativa», scriveva Tafuri nel 1980), l’interpretazione di Biraghi del lavoro storico-critico di Tafuri (la distinzione tra le due attività era per lui impossibile e la critica non deve porsi come semplice ornamento delle opere) si concentra, come propone il titolo del libro, sull’idea di "progetto di crisi", come incessante costruzione di ipotesi critiche sugli avvenimenti dell’architettura interconnessi con il mondo storico delle mentalità e delle condizioni di produzione, che hanno il compito di lavorare sullo spazio di relazione e quindi sulle divergenze e le contraddizioni ideologiche della stessa architettura.

Il metodo storico di Manfredo Tafuri gli permette di parlare sempre delle questioni del presente anche quando, o forse specialmente quando, egli parla con grande rigore investigativo del Sansovino a Venezia o delle vicende della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma (le poche pagine introduttive del libro sul Rinascimento a Venezia ne sono un esempio).

Biraghi percorre nel suo studio (con abbondanza di citazioni filosofiche) le varie fasi del percorso di Tafuri, con i giudizi critici su Louis Kahn e Robert Venturi, sulla linguistica strutturale, sui temi delle tecniche e delle politiche della realtà; concludendo giustamente con un giudizio di decisa appartenenza del pensiero di Tafuri alla cultura ed al progetto moderno. Un’appartenenza senza illusioni, ma credo, per quello che l’ho conosciuto, senza disperazioni.

Giustamente Biraghi si chiede però ad un certo punto se «la crisi che scuote incessantemente l’analisi storico-critica è la medesima a cui è stato sottoposto il reale» e se, aggiungo io, proprio negli anni recenti, dopo la sua morte non abbiamo fatto coincidere le due cose e che quindi, proprio il lavoro storico di Tafuri abbia (non tanto inconsciamente) previsto come, a partire dal piano inclinato delle nuove condizioni, l’architettura sarebbe finita nel cinismo del "gioco delle perle di vetro"; anche se dobbiamo constatare che le perle sono diventate false e persino il vetro è fatto di materia plastica, cioè la finzione dell’arte è divenuta finzione del suo stesso essere pratica artistica.

La "crisi del referente" di cui Tafuri ha sovente scritto (a partire da Robert Klein) con tanta acutezza, dopo cinque secoli di contraddizioni irriducibili si è finalmente risolta incollandosi entusiasticamente, e con vantaggi, alla condizione postsociale, e mettendo in questione l’ontologia stessa della nostra pratica artistica.

«Non è compito della storia», scriveva Tafuri in Ricerca del Rinascimento, «ricomporre l’infranto ma neanche identificarsi con i vincitori e con l’apologia del presente».

L'immagine è tratta da www.archfranzine.fiume10

Relazione ufficiale preparata per il ciclo di seminari Verso il Piano di indirizzo territoriale 2005-2010 , organizzati dalla Regione Toscana e dalla Sezione toscana dell’Inu. Primo incontro su “La buona urbanistica”, Capalbio 15 settembre 2006.

Non esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministratori.

Se alla Toscana è stato riconosciuto qualche merito negli assetti e negli usi del territorio, si deve agli uomini e alle donne che fin dalla Ricostruzione seppero governare con capacità e lungimiranza prima le trasformazioni dello sviluppo economico e sociale, poi il consolidamento di una struttura territoriale che è ancora il patrimonio più prezioso su cui contare.

E’ a questo progetto politico e culturale, a cui contribuirono partiti, intellettuali, settori professionali, funzionari pubblici, sindacati, che ci si dovrebbe riferire quando si parla di modello toscano di pianificazione territoriale: non uno schema da riprodurre meccanicamente.

Ci chiediamo ancora se il cosiddetto modello toscano di pianificazione territoriale possa ambire a divenire riferimento per l’intero Paese, quanto meno utile indirizzo di riforma nazionale.

Ci dobbiamo confrontare con altre domande.

La prima: questo modello, che ha fatto della Toscana un territorio di eccellenza, può contare su capacità politiche, culturali, amministrative e tecniche – malgrado la proliferazione degli strumenti e delle procedure, la pervasività burocratica, il continuo mutamento di disposizioni e indirizzi – per contrastare – se contrastare si deve! – le iniziative di un’economia nuova che proprio su quella eccellenza fa aggio per piazzare sul mercato mondiale insediamenti ricadenti in zone dichiarate patrimonio culturale dell’umanità?

Si deve prendere atto della divaricazione tra gli strumenti che pretendono essere di governo del territorio – tuttavia mi chiedevo nel librino dello scorso anno: Chi governa, cosa? Chi effettivamente governa? – e il valore che il nuovo capitalismo (appunto globale) annette a territori (a luoghi, a città) come quello toscano, per strategie che non possono essere definite (unicamente) rendita immobiliare, tanto meno speculazione edilizia – quella che la politica urbanistica combatteva 50/40 anni fa – e che si avvalgono di progetti di qualità (anche su questo fronte la battaglia risulta persa)?

Il territorio deve costituire una vertenza nazionale per la nuova compagine governativa che fino ad oggi ha dimostrato scarso interesse per questo fronte di scontro economico e sociale?

Sussistono le condizioni e le capacità politiche, amministrative, economiche e sociali generatrici di quel modello? Quali suoi fondamenti risultano “esportabili”, se non è un fenomeno “locale” prodotto da quelle particolari condizioni? Se la pianificazione territoriale non è separabile dalla conquista e dalla gestione del potere, a seguito delle trasformazioni politiche e culturali il modello è destinato al collasso (ma non lo riteniamo un esito scontato)?

Pretendere di innovare e di progredire senza cambiamenti radicali è illusorio: per quanto possa dispiacerci, dobbiamo congedarci dal modello toscano di pianificazione territoriale?

Nondimeno l’operatività della pianificazione non è mai stata pre-stabilita, imposta, calata dall’alto; si è fatta nell’esperienza politica, amministrativa e tecnica, da cui scaturiva la condivisione di criteri, indirizzi, convinzioni, regole, che nel tempo hanno dato luogo a una riconoscibile figura di piano.

E’ emersa da questo piano la forma del territorio toscano: la Toscana dell’odierno immaginario collettivo, la Toscana come è percepita universalmente, non solo dal turista ma anche dalla popolazione autoctona.

Se il successo di un’operazione si giudica dai risultati, si può definire urbanistica buona il risultato di una parte consistente della storia del territorio che copre i 50 anni dal 1945 al 1995, durante i quali l’urbanistica pretende la propria autonomia dalla programmazione economica, in quanto tesa a realizzare il disegno del territorio regionale.

La separazione della pianificazione territoriale dall’urbanistica, già presente nella legge regionale del 1995, sancita definitivamente dalla 1/2005, se da un lato ha dato luogo ad un proficuo chiarimento, ben individuando le finalità e i contenuti degli strumenti di pianificazione, ha contemporaneamente disperso l’urbanistica, annullando il piano come forma, figura del territorio, come disegno, strumento compositivo dello spazio che ha rappresentato la grande tradizione degli architetti-urbanisti italiani: Giovannoni, Piacentini, Piccinato, Quaroni.

Edoardo Detti soleva dire che un piano bello è necessariamente un piano buono.

La crisi è anche di una figura professionale, divaricando il solco tra architettura, sempre più autoreferenziale e l’urbanistica che ne era il presupposto (nel 1935, Piccinato sosteneva la “netta subordinazione dell’architettura al fatto urbanistico”).

Quando si immagina la Toscana – il grande porto, la piattaforma logistica, le fasce infrastrutturali nord-sud, est-ovest, gli interporti, le ferrovie metropolitane, le città –, si sta disegnando il territorio regionale, si propone una forma territoriale, si rilancia sul tavolo l’assetto urbanistico.

Ma nella 1/2005 gli atti conformativi – che danno luogo all’assetto, al disegno, alla forma –, sono presenti solo a livello comunale (regolamento urbanistico, piani attuativi, piani complessi di intervento).

Quanto tempo c’è voluto per creare la cultura, inscindibilmente urbana e rurale, del territorio toscano? Un artefatto prezioso da conservare, pur senza pretesa di verità.

Quando può dirsi conclusa l’evoluzione del territorio toscano? Quando la cultura del territorio toscano si stabilizza in un patrimonio indisponibile? Quando la società regionale, nel suo insieme, trascurando aspetti e situazioni pur rilevanti, assume la conservazione integrale come riferimento stabile della politica territoriale?

La rottura del secolare legame città/campagna, dopo il termine della mezzadria e l’esodo dalla campagna, per un momento profila un collasso territoriale e sociale che la stabilizzazione della cultura del territorio, pur privata dei suoi motivi strutturali, per cause fortuite ma soprattutto per la scelta responsabile della classe dirigente toscana, in breve evita.

Più che in termini economici e sociali, quanto accade e si consolida attiene a una coscienza collettiva diffusa, trasfusa in un patrimonio politico e culturale che caratterizzerà da allora in poi la società toscana, delineandone una figura riconoscibile nel complessivo panorama italiano, le cui trasformazioni territoriali avrebbero allontanato il resto del Paese dalla Toscana.

Ricorrerà da allora l’immagine di isola, inevitabilmente felice in contrapposizione alle vicende cariche di traumatismi e di costi che investono le altre regioni italiane.

Tanto più la situazione è eccezionale o almeno tale la si giudica, tanto più viene difesa con l’energia che a volte sfiora l’arroganza, pur necessaria a fronte di interventi di puro sfruttamento dell’eccellenza ambientale; l’allarme di documenti recenti di varia provenienza, in merito ai mutamenti economici, sociali e territoriali che vengono avvertiti come una minaccia alla quiete e al benessere finora assicurati, provano quanto si fosse convinti di vivere in un isolamento dei cui vantaggi possono godere i toscani ma anche coloro che provengono da altrove, confidenti di una felicità territoriale in gran parte reale ma in qualche misura dovuta anche a un mito astutamente creato.

Le reazioni, a volte scomposte, di chi ha perso un progetto, invece di insistere sulle peculiarità regionali e di affermare l’eccezionalità di una cultura, sembrano rivolgersi verso prospettive estranee, lasciando in un contenzioso diretto, senza pervasive mediazioni politiche, coloro – in primo luogo gli amministratori locali –, che si trovano a dover decidere in merito all’irruzione sui propri territori di iniziative nei cui confronti possono avvertire di essere privi di tale progetto; per altro verso non indifferenti sia per migliorare i magri bilanci comunali sia per affidarsi a una speranza di sviluppo. Dover contare esclusivamente sulle proprie capacità negoziali, concentrate necessariamente sulla contingenza, può aprire brecce nelle condizioni di minore avvertenza e comunque distrae dalla necessità di un progetto politico complessivo di cui si avverte l’insufficienza se non la mancanza.

Appunto un modello: per questo motivo, il riferimento al dialogo.

Il dialogo non è praticabile in presenza di una pretesa di verità assoluta; è altrettanto necessario che gli interlocutori riconoscano un patrimonio comune di diritti e di valori, pur nella convinzione che ciascun individuo è responsabile del suo progetto di vita.

Esiste tuttavia un limite oltre il quale comprensione e tolleranza decadono in rinuncia (ai diritti) e dispersione (dei valori).

Distratti dagli aspetti procedurali, non abbiamo colto la innovazione contenuta nella legge regionale del 2005 sul governo del territorio: la netta separazione tra pianificazione territoriale e urbanistica, tra piano e progetti, l’abbandono del modello di piano suddiviso tra parte strutturale e parte operativa, presente nella legge regionale del 1995, che nel passaggio in corso tra piani strutturali e regolamenti urbanistici, sta identificando il regolamento urbanistico con un piano, se non con il piano regolatore generale di cui ripete contenuti e fisionomia.

Un’ambiguità rintracciabile nella legge del 2005, vuoi perché ripropone il regolamento urbanistico come piano, vuoi perché non libera il piano strutturale dalla parte strategica, dando modo di confondere ancora una volta piano e progetti.

I tre strumenti di pianificazione territoriale (regionale, provinciale, comunale) sono inoltre simili: nei tre compaiono una parte statutaria e una strategica e nei tre lo statuto del territorio ha gli stessi contenuti, come matriosche.

Cosa si propone? Di togliere dagli strumenti di pianificazione territoriale (piano di indirizzo territoriale regionale, piano territoriale di coordinamento provinciale, piano strutturale comunale) il contenuto strategico, spogliando inoltre il regolamento urbanistico dalla connotazione di piano, assimilato a un testo di regole urbanistiche e edilizie.

Lo strumento di pianificazione territoriale si riconosce esclusivamente nello statuto del territorio: quel qualcosa di immutabile, identificabile con la cultura del territorio toscano, nella consapevolezza della sua storicità.

Malgrado la complessità, non sempre evidente, della definizione e dei contenuti dello statuto del territorio negli articoli della legge regionale, lo statuto del territorio risulta essere compiutamente uno strumento di pianificazione territoriale.

Lo statuto contiene le invarianti strutturali che sono elementi cardine della identità dei luoghi, di cui lo statuto stabilisce le regole d’uso, i livelli di qualità e le relative prestazioni; persegue la tutela del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile e a questo fine si compone di un nucleo di regole, vincoli e prescrizioni.

Individua inoltre i sistemi territoriali e funzionali che definiscono la struttura del territorio, e ha valore di piano paesaggistico.

Lo statuto del territorio è il contenuto della pianificazione territoriale regionale, provinciale, comunale; l’urbanistica opera esclusivamente in ambito comunale. Come è noto, negli strumenti di pianificazione territoriale non risultano localizzazioni edificatorie, non si conoscono le aree ma nemmeno gli intorni (le utoe) di edificazione; determinate aree divengono edificabili solo al momento del progetto (indifferentemente d’iniziativa pubblica o privata): è il progetto che rende edificabile un’area e quindi soggetta a regime fiscale (Dl 223/2006, art. 36, comma 2).

Le strategie degli strumenti di pianificazione sono confutabili, controvertibili, soggette a mutamenti anche in tempi brevi, non lo statuto del territorio.

Solo lo statuto del territorio è pubblico, attiene alla totalità sociale.

Lo statuto del territorio (il piano pubblico) è per così dire, bendato nei confronti delle iniziative, dei programmi, dei progetti, degli usi delle risorse a fini di sviluppo e delle prestazioni che da esse si attendono: in generale dei propositi e delle azioni dei soggetti pubblici e privati che operano sul territorio (è qualcosa di simile alla “posizione originaria” di Rawls, nella quale gli individui, all’oscuro della loro posizione nella società), stabiliscono le regole.

I progetti (programmi d’impresa, pubblica o privata) non sono predisposti, non fanno parte del piano: rispondono alle esigenze e agli interessi (alle strategie) di coloro (indifferentemente soggetti pubblici o privati) che li promuovono, in modi anche concorrenziali. Essi fanno i conti non tanto con la disponibilità di beni e risorse, quanto con la capacità (Amartya Sen), con le funzioni che si è in grado (si è capaci di) esercitare effettivamente con quei beni e quelle risorse.

I progetti presuppongono la fiducia nei confronti di coloro che li attivano e la loro responsabilità personale: questo indirizzo limita la pervasività burocratica, ostacolo all’innovazione, fonte di formalismi e moltiplicatrice di strumenti e procedure.

Queste conclusioni non pretendono una terza legge regionale dopo che due leggi si sono succedute in breve tempo sottoponendo amministratori, tecnici, operatori a un notevole impegno di risorse, scelte e decisioni; nondimeno non acquietano la domanda essenziale: quanto l’apparato di strumenti di pianificazione territoriale e di atti di governo del territorio, oltre che di procedure, risponde, è adeguato alla nuova tipologia di sviluppo?

Si avverte che la legge dello scorso anno non ha determinato quel sussulto politico e culturale che seguì la precedente legge.

Indubbiamente non ci si poteva attendere una reazione paragonabile a quella di dieci anni fa: la stagione dei nuovi strumenti urbanistici avviata dalla 5, non è affatto conclusa (è noto che mancano ancora alcuni piani strutturali e molti regolamenti urbanistici, mentre viene dato fondo alle previsioni dei precedenti piani regolatori). Inoltre la 1 è stata considerata modifica e integrazione della precedente legge: per questo motivo non è considerata il riferimento per le nuove linee di sviluppo (i contenuti del PIT in circolazione profilano – o no? - un congedo dalla 1, malgrado le affermazioni di coerenza).

La pianificazione ha tempi lunghi: c’è voluto mezzo secolo per sostituire la 1150 con le leggi regionali di riforma della pianificazione; gli assetti e gli usi del territorio toscano sono stati governati per 50 anni con utensili poveri: la legge del 1942, le zone omogenee e gli standard del Dm. 1444.

Di nuovo, gli strumenti di pianificazione definiti dalla legge vigente sono adeguati alla governance della città globale? Sono capaci di governarne le contraddizioni? Rispondono alle esigenze del cittadino-produttore (produttore politico, economico, culturale)? Sono utilizzabili da parte della società del rischio?

La domanda è tanto più plausibile se si “visiona” l’intera regione come città globale - non una sua parte -, in cui urbano e rurale sono connessi, inscindibili, ovunque presenti contemporaneamente. L’urbano storico – le città, i borghi, i nuclei, persino i casolari sparsi - non sopravvivrebbe se non fosse emergenza di un contesto rurale, della campagna: Anghiari è, insieme, l’edificato entro le mura e la collina di cui fa parte, fino a comprendere la piana della famosa battaglia: la collina è indisponibile.

La piana di Bagno a Ripoli è altrettanto indisponibile della collina di Anghiari!

La collina a sé stante, non esiste; separarla dal territorio e sottoporla come tale, a tutela, a salvaguardia – tutt’altra cosa dalla conservazione –, non ne garantisce l’incolumità; la salvaguardia può essere disattesa (accade, e questa non è buona urbanistica), anche in nome di un’equivoca architettura di qualità.

Il metaobiettivo della collina è la metafora (l’allusione) del territorio (della cultura del territorio toscano): la norma di PIT che lo riguarda darebbe corpo al divieto di ulteriore impegno di suolo per insediamenti, contenuto già nella 5, ma rimasto inascoltato.

Un criterio di pianificazione che per altro prende atto dell’assenza di una grande capitale regionale, di un forte baricentro urbano, dovuta alla costante, a mio giudizio voluta ma anche per motivi storici, estraneità di Firenze nei confronti del territorio regionale.

I comuni toscani sono molto più di centri politico-amministrativi: per un verso sono un patrimonio di democrazia, di appartenenza civica, per altro verso i depositari della cultura urbana, di formazione storica, costituenti con le loro identità la fisionomia della città globale toscana, definibile come un insieme piuttosto che un sistema.

Già Foscolo aveva paragonato la Toscana tutta a un giardino: è pacifico che nessuno vuole morire giardiniere, ma l’immagine illumina uno stato di eccellenza, oggi piazzato sul mercato mondiale, a volte con risultati insoddisfacenti. La conservazione del territorio è un dovere per la società toscana: la premessa dell’innovazione e della creatività del nuovo corso di sviluppo.

Il modello toscano di pianificazione territoriale che qui si ripropone in quanto espressione di un’irrinunciabile cultura del territorio, non è il procedimento unico o il quadro conoscitivo, la valutazione integrata o la perequazione: è anche questo certo, ma è oltre. È ancora un progetto politico e culturale per una possibile classe dirigente.

In ricordo di Romano Viviani

di Giuseppe De Luca

«Fare Urbanistica? Prima di tutto cultura e poi politica». E’ con queste parole che Romano chiudeva una lunga lettera di risposta ad alcuni miei rilievi epistolari fatti in occasione dell’uscita di uno dei suoi numerosi asciutti e densi “libricini” (Postposturbanistica della casa editrice Alinea) nell’inverno del 1997. In queste poche parole può racchiudersi l’esperienza di vita e di lavoro accademico, professionale e politico di Romano Viviani. Scomparso improvvisamente, martedì 21 novembre all’età di 79 anni, nel pieno di una intensa attività di lavoro come pianificatore. Aveva appena visto adottare il Piano strutturale e relativo Regolamento edilizio e urbanistico di Gioia Tauro, era occupato all’aggiornamento del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Siena, alla redazione dei Piani strutturali e relativi Regolamenti Urbanistici di Sassetta, Capoliveri, Monteverdi, del Regolamento Urbanistico di Signa, all’avvio del Quadro conoscitivo di Palmi; ma anche di una selezionata attività di progettista, l’ultimo in ordine di tempo l’ampliamento della Fiera di Massa Carrara (inaugurata qualche settimana addietro); nonché di una altrettanto intensa attività di esploratore “sul campo” – come amava definirla – sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Non frequentava più le aule universitarie da molti anni, un po’ le mancavano, ma continuava a dare assistenza a studenti e giovani laureati, convinto com’era che il sapere tecnico oltre ai percorsi formativi accademici trovasse ninfa rigenerante soprattutto nell’incrocio con le pratiche del reale quando, ponendo interrogativi e prospettando soluzioni, si libera dall’aureola elitaria, per miscelarsi, contaminandosi fino a mettersi in discussione, nelle comunità e nei territori della quotidianità. Di questo sua attività di indagatore amava parlare e discutere a lungo, quasi a voler testare la sua capacità di interpretazione, condividendola, e confrontandola con l’altrui pensiero. Non ho avuto mai l’occasione di lavorare direttamente con lui professionalmente. Ho lavorato molto, moltissimo intellettualmente e su diverse ricerche, facilitato in questo dall’aver diviso e condiviso da molti anni lo spazio di lavoro e il desinare giornaliero. Questo suo “giovanile” spirito irrequieto emergeva in maniera istintiva, nel commento di letture o documenti di piano, nello scambio di numerose lettere (pur avendo le stanze attigue), negli schizzi e schemi che affidava alla provvisorietà del tovagliolo di carta, ma soprattutto dalla consuetudine di trasferire le sue riflessioni in documenti, molti dei quali destinati alla stampa.

«Urbanistica è politica» continuava a ripetermi; e «il piano lo strumento per darle senso». Concepiva il piano come un processo cooperativo interistituzionale che tramite azioni specifiche doveva tendere a correggere il tessuto economico e sociale esistente, più che la forma della città e del territorio. Rivendicando, in tal modo, una sorta di “politicità” essenziale nell’operare tecnico, di “olivettiana” memoria. Se urbanistica è politica, di conseguenza, il piano non può che essere pubblico. Questo il suo più forte messaggio che lo accosta ai grandi pensatori del Novecento, proiettandolo al futuro. Solo il piano pubblico, infatti, può affrontare le questioni dell’equità distributiva e della regolamentazione del mercato, di quello edilizio prima di tutto. Il piano pubblico, nella visione di Romano, non era altro che un progetto implicito di governo del territorio, non solo di urbanistica. Un piano atto a indicare i solchi da seguire e al contempo la matrice con la quale controllare quanto avviene nella quotidianità, lasciando alla libera estrinsecazione dell’azione privata la trasposizione del progetto implicito in progetto di trasformazione esplicito.

Proprio per questo, continuava a dire, l’attenzione deve essere rivolta verso «la cultura politica e l’apparato amministrativo», sono loro infatti che svolgono un ruolo essenziale nella costruzione del progetto implicito, che danno cittadinanza alle idee di trasformazione, che «conservano attivamente» e «costruiscono» i paesaggi e il territorio. La disciplina, gli strumenti, il sapere tecnico stratificato hanno certo un peso e un ruolo significativo nella definizione delle politiche pubbliche e nel loro trasferimento in piani, programmi e progetti. Ma è la sensibilità della cultura delle classi dirigenti, dei politici e degli amministratori che dà vibrazione e gambe al governo pubblico delle città e dei territori.

Questo è il percorso che Romano ha praticato e che lascia a noi, alla maniera dei grandi maestri, come insegnamento.

“Lucio Gambi è il più grande geografo italiano, il primo dell’Italia democratica”, così me lo definì, molti anni fa, un addetto ai lavori qual era Francesco Compagna, direttore di “Nord e Sud”. Ebbene, questo scienziato di straordinario valore è scomparso senza che i grandi giornali, in tutt’altre faccende affaccendati, gli abbiano dedicato, a quanto ne so, una riga di ricordo. Così va l’Italia. Eppure Gambi, legato ai geografi francesi, curatore dei volumi sulla megalopoli americana di Jean Gottmann, impresse ai nostri studi di geografia umana un’autentica svolta, a partire dagli anni ’50. “La polemica che da vari anni sto conducendo contro le impostazioni tradizionali di una geografia calcificata in un antiquato schematismo…”, scrisse nei primi anni ’60 parlando delle trasformazioni di Ravenna dove era nato nel 1920. Nemico quindi di una geografia come “disciplina puramente descrittiva e misurativa di oggetti e fenomeni”.

Lucio – posso chiamarlo così per aver avuto lunga consuetudine con lui – veniva dall’esperienza formativa della Resistenza alla quale aveva partecipato come azionista. Di lui si ricorda, prima che s’incamminasse verso gli alti studi, la creazione in Romagna di una radio popolare che seguiva in diretta i processi ai gerarchi fascisti. Un impegno politico che, sia pure espresso in termini culturali, non venne mai meno. Negli anni cruciali e febbrili del Movimento, dopo il ’68, Gambi fu, con Marino Berengo e Franco Catalano, il docente che più si espose, alla Statale di Milano, nel partecipare al tentativo di dare un altro senso all’Università sin lì “baronale”, con la cattedra lontana, a volte lontanissima, dagli studenti.

Poi – pur mantenendo sempre casa a Firenze - tornò nella sua terra, cioè in Emilia-Romagna avendo cattedra a Bologna. Dove fu anche il primo presidente dell’Istituto Regionale dei Beni Culturali, che negli intendimenti dei fondatori doveva essere un organismo di alta qualità scientifica al servizio della programmazione e della pianificazione regionale. Uno dei dati di fondo della vita e del magistero di Lucio Gambi, fra l’altro oratore suadente e lucido scrittore, rimase sempre la visione larga, planetaria, dei problemi della geografia umana e, insieme, l’interesse puntato sui problemi della storia e dell’esistenza, individuale e collettiva. Convissero in lui gli studi sulla megalopoli e quelli sulla casa rurale dell’Appennino o della pianura, la vasta monografia sulla Calabria, oppure il lavoro di gran mole su Milano (una delle fatiche più recenti) e la partecipazione al convegno locale, per esempio sulla marineria romagnola, adriatica in generale, dal quale, grazie anche alla sua regìa, doveva poi scaturire, a Cesenatico, il solo museo galleggiante dedicato alla gente del mare, alle sue barche con le vele giallo ocra e rosso scuro, a losanghe, coi simboli di famiglia.

Una volta disse che “difronte alla complessità della realtà umana, la ricostruzione di un paesaggio topografico è poco più di un elementare schizzo”. Un’idea, quest’ultima, che riprese mentre componeva il magistrale affresco della introduzione alla Storia d’Italia di Einaudi. Un modo laico di porsi di fronte alla storia. Lucio Gambi aveva speso molte delle proprie energie nello studio del paesaggio umano, osservandolo, studiandolo in una fase di trasformazione tanto profonda - per esempio, la estirpazione della “piantata” di pianura, risalente agli Etruschi e ai Celti - da prefigurarne la scomparsa. Specie in quella pianura resa dalle macchine sempre più piatta e pelata. Era uomo di improvvise accensioni, con gli umori tipici delle sue origini. Un anno, al premio Cervia per l’Ambiente, dove lui era in giuria, dopo la cerimonia nel piccolo, delizioso teatro della città delle saline e delle pinete, proprio in un enorme magazzino dei “pignaroli”, alla Bassona, si tenne una cena affollatissima. Siccome faceva già un freddo autunnale, il sangiovese corse generosamente. Alla fine, insomma, un coro intonò la famosa canzona degli “scariolanti” ravennati, i braccianti della bonifica, che già nella notte si avviano al lavoro con le carriole (“A mezzanotte in punto/ si sente un gran rumor”) e, nell’attacco, il noto geografo Lucio Gambi, alzatosi in piedi, esibì, da solista, una nitida voce tenorile.

Nota: Di Lucio Gambi, su eddyburg_Mall un contributo sul tema delle circoscrizioni amministrative (f.b.)

Titolo originale: Jane Jacobs, Social Critic Who Redefined and Championed Cities, Is Dead at 89 – Scelto e tradotto per eddyburg_Mall da Fabrizio Bottini

Jane Jacobs, scrittrice e studiosa che aveva rivolto il suo sguardo penetrante e profondo alla danza sui marciapiedi delle strade nel suo Greenwich Village, in un libro che ha sfidato e trasformato il modo in cui la gente guarda le città, è morta ieri a Toronto, dove si era trasferita dal 1968. Aveva 89 anni.

Si trovava in ospedale, ha detto una lontana cugina, Lucia Jacobs, che non ha riferito particolari sulle cause specifiche del decesso.

Col suo libro, The Death and Life of Great American Cities, scritto nel 1961, la Jacobs aveva raggiunto l’enorme risultato di andare oltre le proprie fulminanti critiche alla pianificazione urbanistica del XX secolo, proponendo principi radicalmente nuovi per ripensare le città.

In un’epoca in cui sia il senso comune che il pensiero più ispirato auspicavano di radere al suolo gli slum per aprire nuovi spazi urbani, le indicazioni della Jacobs erano per più diversificazione, densità, dinamismo: di fatto, verso un maggior affollamento di persone e attività insieme, in una gioiosa confusione urbana.

La sua critica alle città del paese spesso viene accorpata al lavoro di scrittori che negli anni ’60 scuotevano le fondamenta della società americana: l’attacco di Paul Goodman alle scuole; l’aspro ritratto della povertà di Michael Harrington; il fuoco di sbarramento di Ralph Nader contro l’industria automobilistica; o lo spietato percorso di Malcolm X attraverso le divisioni razziali dell’America, solo per citarne alcuni. E ancora oggi, continua ad influenzare una terza generazione di studiosi.

" Death and Life" prescriveva tre raccomandazioni base per realizzare varietà locale: 1. La strada, o distretto, doveva svolgere numerose funzioni. 2. Gli isolati dovevano avere dimensioni limitate. 3. Gli edifici dovevano essere diversi per età, condizioni, usi. 4. La popolazione doveva essere addensata.

La tesi della Jacobs si sviluppava attraverso letture eclettiche e approfondite. Ma la cosa più irresistibile era la descrizione della vita quotidiana osservata dalla casa sopra il negozio di dolciumi al 555 di Hudson Street, vicino all’incrocio con l’11°.

In quelle descrizioni, scende a portare la spazzatura, in bambini vanno a scuola, lavanderia e barbiere stanno aprendo le serrande, le donne escono a chiacchierare, i portuali entrano al bar del quartiere, gli adolescenti tornano da scuola e si cambiano per uscire con gli amichetti, e un altro giorno è passato. Qualche volta succede qualcosa di diverso: uno zampognaro appare in una sera di febbraio, per la gioia di chi si raccoglie ad ascoltarlo. Vinci o estranei, tutti si sentono al sicuro perché non sono mai soli.

"La gente che conosce bene queste strade animate di città sa com’è" scriveva la Jacobs.

Robert Caro, storico, ha dichiarato ieri in una intervista che la Jacobs non era certo la prima ad enfatizzare l’importanza del vicinato e della comunità. "Ma nessuno l’aveva mai raccontato in modo tanto brillante prima" ha aggiunto. "Diede voce a qualcosa che aveva bisogno di essere raccontato".

Alcuni critici hanno usato aggettivi come "trionfante" o "germinale" per descrivere " Death and Life". Altri, non pochi dei quali col dente avvelenato, sono stati meno gentili. Lewis Mumford, critico e storico sviscerato dalla Jacobs nel libro, scrisse in una recensione sul New Yorker che dimostrava “filisteismo estetico e vendetta”.

Le battaglie di cui ha acceso la scintilla sono ancora in corso, e le critiche erano probabilmente inevitabili, visto che un lavoro tanto ambizioso veniva da una persona che non aveva nemmeno terminato gli studi superiori, né aveva un ruolo professionale nel settore.

Indiscutibilmente, il libro fu una sfida radicale al pensiero corrente, come nel caso di Silent Spring di Rachel Carson, uscito l’anno successivo e che contribuì a lanciare il movimento ambientalista, o The Feminine Mystique di Betty Friedan, che influenzò profondamente i rapporti fra i sessi, del 1963.

Come queste due altre scrittrici, anche la Jacobs riuscì ad evocare prospettive nuove. Alcuni le liquidarono come dilettantismo, ma per molti altri si trattò di un punto di vista non solo accettabile, ma improvvisamente ed eminentemente ragionevole.

"Quando un intero campo di riflessione sta andando dalla parte sbagliata, quando l’applicazione routinaria del pensiero corrente ha prodotto risultati disastrosi come credo avvenisse per l’urbanistica e le trasformazioni urbane degli anni ’50, allora probabilmente toccava a qualcuno dal di fuori indicare l’evidenza" ha scritto Alan Ehrenhalt nel 2001 su Planning, la rivista della American Planning Association.

"Ecco cosa fece Jane Jacobs 40 anni fa" ha concluso.

Azioni, non solo parole

Jane Jacobs non si limitò alle parole. Nel 1961, insieme ad altri contestatori fu allontanata da un’udienza della City Planning Commission su un progetto di urban renewal per il Greenwich Village a cui si opponevano, dopo che si erano alzati dai posti a sedere e avevano raggiunto la presidenza.

Nel 1968, fu arrestata con accuse di sommossa e comportamenti criminali, per il disturbo di una seduta dedicata all’approvazione di un’autostrada urbana che avrebbe tagliato in due la Lower Manhattan e distrutto un tessuto centinaia di famiglie e attività. La polizia sostenne che aveva cercato di strappare il nastro con le trascrizioni stenografiche.

La battaglia contro quell’autostrada lanciò la signora Jacobs in una battaglia impari contro Robert Moses, l’immensamente potente autocrate e grande costruttore dell’epoca. Gli oppositori vinsero.

La Jacobs si trasferì a Toronto nel 1968 per l’opposizione alla Guerra in Vietnam e per evitare il servizio militare ai suoi due figli in età di leva, impegnandosi rapidamente anche nelle battaglie urbane locali. Si trovò quasi subito alla guida di una lotta per fermare una freeway anche qui.

Divenne un’apprezzata intellettuale di frontiera, caratteristica con la sua faccia rotonda, il sorriso birichino, le scarpe da tennis, la frangetta e gli occhiali spessi. Ma Roger Starr, ex amministratore per l’edilizia popolare a New York City spesso avversario della Jacobs, fa notare la tempra d’acciaio dietro quella gentilezza.

"Che personaggio, caro e dolce, che non era" ha detto.

Dopo essere stata allontanata dall’udienza della Planning Commission nel 1961, sono le sue stesse parole a sottolineare l’atteggiamento indomito. "Siamo stati solo uomini e donne spintonati" dichiarò.

Ma scontrarsi col governo, anche essere arrestata insieme a Susan Sontag e Allen Ginsberg durante una protesta contro la leva obbligatoria, era qualcosa che, dichiarava, era stata obbligata a fare di fronte a decisioni “spaventose”.

Quello che odiava di più, di questa attività, era il fatto che le togliesse tempo alla scrittura, a quello che definiva il suo modo di pensare. E almeno in cinque ambiti di riflessione lo faceva in modo profondo e innovativo: urbanistica, storia della città, economia regionale, moralità dell’economia e natura dello sviluppo economico.

Ciascuno dei suoi libri principali portava naturalmente al successivo. Partendo dal rapporto fra le persone e la città, analizzò il ruolo delle città nella nazione, i rapporti delle nazioni l’una con l’altra, il ruolo di ciascuna in un mondo di principi morali in conflitto, e infine la crescita economica in quanto sviluppo di organismi biologici.

Un piccolo libro del 1980 che sosteneva la separazione del Quebec creò una certa tensione in Canada, e una memoria del 1996 che curò sull’esperienza di una nipote insegnante nell’Alaska rurale, impressionò la critica per la sua semplice saggezza.

Ma fu " Death and Life", pubblicato da Random House, a scuotere il mondo dell’architettura e dell’urbanistica.

Da un lato, era il primo attacco progressista all’idea progressista di urban renewal. Contemporaneamente, il critico del New York Times Brooks Atkinson ci lesse una visione antica della comunità che paragonò a quella del Grover's Corners immaginato da Thornton Wilder. La stessa Jacobs riteneva che l’attualità rinnovata del libro stesse nel suo scavare in profondità la natura umana, come in un buon romanzo.

Nel 2003, Herbert Muschamp, principale critico di architettura del Times, scrisse che il libro della Jacobs era stato "uno degli eventi più traumatici del XX secolo per l’architettura" anche perché metteva in secondo piano l’importanza della progettazione.

Negli anni più recenti, era diventato di ispirazione per architetti e urbanisti che avevano abbracciato il cosiddetto New Urbanism, tentativo di promuovere l’interazione sociale inserendo caratteri “jacobsiani”, come i negozi al pianterreno, nei complessi suburbani.

Patrick Pinnell, architetto di questa corrente, dice che " Death and Life" ha rappresentato l’ultima espressione di ottimismo sulle città americane. Già nel 1974, John E. Zuccotti, allora presidente della New York City Planning Commission, definì la Jacobs profetica, e sé stesso "neo-jacobsiano" annunciando un approccio alle trasformazioni urbane più sensibile e attento alla piccola dimensione. La Jacobs era nata Jane Butzner il 4 maggio 1916, a Scranton, Pennsylvania. Suo padre era medico e la madre insegnante. Ha ricordato di essere stata un’alunna indisciplinata, che faceva stupidaggini come gonfiare e far scoppiare sacchetti di carta in refettorio. Preferiva leggere libri sotto il banco che ascoltare l’insegnante.

In un’intervista a Azure del 1997, ha raccontato la sua abitudine di immaginarsi conversazioni con Thomas Jefferson mentre faceva commissioni. Quando non riusciva a pensare più a niente da dirgli, lo sostituiva con Benjamin Franklin.

"Anche lui, come Jefferson, era interessato a cose elevate, ma pure a piccolo cose terrra-terra" raccontava, "come il motivo per cui il vicolo dove stavamo passeggiando non era asfaltato. Si interessava di tutto, e quindi era una compagnia interessante".

Anni dopo, capì di aver sviluppato il proprio talento per esporre idee complesse in termini semplici, proprio facendo pratica con l’immaginario Franklin. Si guadagnò anche un altro amico interiore grazie a Alfred Duggan, romanziere storico inglese. Era Cerdic, capo sassone. Anni dopo, continuava a chiacchierare con lui sbrigando faccende in casa.

"C’erano solo due cose in casa che gli erano familiari" scriveva; "il fuoco (anche se non capiva il camino) e la spada," souvenir della Guerra Civile. "Tutto il resto dovevo spiegarglielo".

Non volendo andare al college, trovò un posto non retribuito come giornalista di rubriche femminili per The Scranton Tribune. Nel 1934, raggiunse a New York la sorella, di sei anni più anziana, e trovò lavoro nel settore arredamenti di Abraham & Straus, grande magazzino di Brooklyn. La sorella abitava in cima a un edificio di sei piani senza ascensore a Brooklyn Heights.

La metropolitana porta verso il lavoro

Ogni giorno, Jane saliva sulla metropolitana e sceglieva a caso una fermata per scendere a cercar lavoro. Dato che le piaceva il suono “Christopher Street”, scese lì e trovò prima un appartamento al Greenwich Village, e subito dopo un posto di segretaria in una fabbrica di dolciumi.

Lavorò come segretaria cinque anni. Le sorelle non avevano molti soldi, e spesso sopravvivevano a fiocchi d’avena e banane, come ha ricordato la Jacobs in un’intervista a Metropolis Magazine del 2001.

Cominciò allora, a scrivere articoli, prima per una rivista del settore metalli. Vendeva gli articoli in varie zone della città, come quella delle pellicce, a Vogue, guadagnando 40 dollari a pezzo quando ne prendeva 12 la settimana come segretaria. Pubblicò tra l’altro pezzi domenicali per il New York Herald Tribune e altri articoli per Q Magazine sui tombini.

Anche se lavorava, frequentò la School of General Studies della Columbia University per due anni, corsi di geologia, zoologia, diritto, scienze politiche ed economia. Nel 1944, mentre lavorava allo Office of War Information, partecipò a una festa nell’appartamento di una delle colleghe d’ufficio. Fra gli ospiti c’era Robert Hyde Jacobs Jr., architetto specializzato nella progettazione di ospedali. Era aprile, si sposarono in maggio.

La Jacobs ha raccontato a Azure che non avrebbe mai scritto nessun libro senza l’incoraggiamento del marito. Fu lui a decidere che la famiglia si spostasse a Toronto nel 1968, dopo che i figli avevano dichiarato che sarebbero andati in prigione piuttosto che prestar servizio in Vietnam. Mr. Jacobs è morto nel 1996. Jane Jacobs lascia i figli, James, a Toronto, e Ned, a Vancouver; la figlia, Burgin Jacobs, a New Denver, British Columbia, e una nipote.

Sorgono sospetti

Nel 1952, Jane Jacobs trova un lavoro da giornalista per Architectural Forum, dove rimarrà dieci anni. Questo le da’ un punto di vista da cui osservare i progetti di urban renewal. Durante una visita a Filadelfia, nota che le strade di un quartiere sono deserte, mentre quelle di una zona più vecchia lì vicino sono affollate.

"Così, sono diventata sospettosa sull’intera faccenda" ha raccontato al Toronto Star nel 1997. "L’ho fatto notare al progettista, ma era assolutamente disinteressato. Non gli interessava, quanto funzionassero le cose.

"Non gli interessava quanto piacesse alla gente. Aveva un’idea completamente estetizzante, staccata da tutto il resto".

I dubbi crescono quando William Kirk, allora direttore dello Union Settlement a East Harlem, le insegna nuovi modi per guardare ai quartieri. Inizia a considerare le idee urbanistiche correnti, ovvero la demolizione di fabbricati bassi nei quartieri poveri e la loro sostituzione con alti edifici ad appartamenti e spazi aperti, come una specie di fede superstiziosa, non diversa da quella della medicina del XIX secolo sui salassi.

"Esistono qualità anche più sinistre dell’esplicita bruttezza o del disordine" scrisse in Death and Life, "si tratta dalla disonesta maschera del falso ordine, ottenuto ignorando o abolendo quello autentico che lotta per esistere ed essere osservato”.

William H. Whyte, direttore di Fortune e autore di libri sulla vita urbana oltre al celebrato " Organization Man," chiese nel 1958 alla signora Jacobs di scrivere per Fortune un articolo sui centri urbani. Il saggio, ristampato poi in The Exploding Metropolis (Doubleday, 1958), si trasformò nella traccia del suo primo libro.

"Progettare una città da sogno è facile" concludeva. "É ricostruirne una vitale, che richiede fantasia".

L’articolo su Fortune attirò l’attenzione della Rockefeller Foundation, che le offrì una borsa per tutto il 1958 per scrivere sulle città. Due rinnovi della borsa e tre anni più tardi, terminava il manoscritto di Death and Life sulla macchina da scrivere Remington che userà sino alla morte.

Le sue apparentemente semplici ricette per la diversificazione dei quartieri, le dimensioni degli isolate, densità di popolazione e mescolanza di edifici hanno rappresentato un grande ripensamento dell’urbanistica moderna. Si accompagnavano alla feroce condanna degli scritti di urbanisti come Sir Patrick Geddes o Ebenezer Howard, oltre all’architetto Le Corbusier e a Lewis Mumford, che sostenevano torri aggraziate al centro di meravigliosi spazi aperti. Mumford si trattenne per un anno, prima di rispondere in un articolo per il New Yorker, sardonicamente intitolato " Home Remedies for Urban Cancer".

"Come una squadra di operai che spazza via tutte le abitazioni di un quartiere, buone o cattive che siano” scriveva Mumford, "lei spazza via dall’esistenza qualunque auspicabile innovazione urbanistica dell’ultimo secolo, insieme a qualunque altra idea alternativa, senza nemmeno tentare una valutazione critica".

Più forma che sostanza?

Anche il critico di architettura Paul Goldberger, pur esprimendo profonda ammirazione per la Jacobs in un articolo sul New York Times del 1996, ammette che possa aver sovrastimato l’importanza della forma fisica delle città.

"Qualche volta anche le grosse e brutte torri funzionano benissimo” scrive.

Il libro successivo della Jacobs, The Economy of Cities (Random House, 1969), metteva in discussione l’idea che le città nascessero su una base economica rurale; piuttosto, sosteneva, erano le economie rurali ad essere costruite direttamente attraverso quelle delle città. Poi venne The Question of Separatism: Quebec and the Struggle for Sovereignty (Random House, 1980). Sosteneva che Canada e Quebec sarebbero stati meglio ognuno per conto suo, secondo l’idea generale che piccolo è bello.

Si tuffò nel profondo dei rapporti fra città ed economia con Cities and the Wealth of Nations: Principles of Economic Life (Random House, 1984), dove sosteneva che i governi nazionali indeboliscono le economie delle città, considerate i motori naturali dello sviluppo.

Il suo Systems of Survival: A Dialogue on the Moral Foundations of Commerce and Politics (Vintage, 1994) guarda ai fondamenti morali del lavoro esaminando diversi sistemi di valori. The Nature of Economies (Modern Library, 2000) paragona l’attività economica a un ecosistema. Il suo ultimo libro, Dark Age Ahead (Random House, 2004), sostiene che la cultura nordamericana è al collasso, suggerendo modi per invertire la tendenza.

Negli ultimi anni, in Canada si sono organizzate conferenze in onore di Jane Jacobs. Per gli abitanti di New York, la sua immagine è ancora quella della famosa foto con birra e sigaretta alla White Horse Tavern del Greenwich Village, oltre ai ricordi dei suoi racconti sulle nefandezze municipali in qualche assemblea al Village. Per generazioni di urbanisti, architetti, studiosi delle città, quella della Jacobs resta un’influenza germinale.

Forse pensava a sé stessa come ad un’avventuriera intellettuale in grado di seguire il proprio brillante, spesso donchisciottesco istinto, verso territori sempre più affascinanti.

In Systems of Survival, uno dei suoi personaggi si preoccupa di non essere competente.

"Perché non noi?" risponde l’uomo che ha invitato tutto il gruppo. "Se ci stanno provando persone più competenti, meglio per loro. Ma siamo capaci anche noi, no?"

Nota: la comparazione fra le "rivoluzionarie" Jacobs, Rachel Carson e Betty Friedan, qui su Mall in un recente articolo da The Nation ; interessante anche la comparazione fra i giudizi della Jacobs e i temi specifici della città europea in questo articolo di Jonathan Glancey dal Guardian ; da un altro numero di The Nation un ragionamento sulla metodologia scientifica della Jacobs (f.b.)



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É scomparso ieri sera nella sua casa romana Fabrizio Giovenale, urbanista, scrittore, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, fin all’ultimo ha collaborato a Liberazione. Ho avuto la fortuna di conoscerlo quarant’anni fa, fu il mio primo e mai dimenticato maestro di urbanistica. Era capo del servizio studi e programmazione dei Lavori pubblici, quando era ministro Giacomo Mancini, gli anni d’oro del primo centro sinistra. Allora le riforme si cercava di farle davvero, e Porta Pia era frequentata dal meglio della cultura urbanistica italiana. Il capo indiscusso, il direttore generale, era Michele Martuscelli. Con lui e con Giovenale collaboravano Giovanni Astengo, Antonio Cederna, Edoardo Detti, Luigi Piccinato, Giuseppe Campus Venuti, Mario Ghio, Alberto Todros, Marcello Vittorini, il giurista Massimo Severo Giannini, fra i giovanissimi Edoardo Salzano e chi scrive. Ero stato destinato al Servizio studi dopo aver vinto un concorso per urbanista del Genio civile (anzi, sulla Gazzetta Ufficiale stava scritto concorso per ingegnere architetto urbanistico). Avevo deciso di intraprendere la carriera ministeriale avendo seguito con appassionata partecipazione le vicende della frana di Agrigento del 1966 e la successiva rigorosissima indagine condotta dagli uomini di Mancini. Non mi pareva vero di poter collaborare con tante personalità. Giovenale, anzi Fabrizio (mi disse subito di darci del tu, cosa che mi lasciò sconvolto, venivo da luoghi dove vigevano rapporti molto formali) mi fu anche maestro di scrittura. Un maestro severissimo. Leggendo la mia prima relazione, disse che non ero analfabeta, ma dovevo impegnarmi per raggiungere un livello accettabile per un funzionario dello Stato. Insistette per la semplicità e la chiarezza del linguaggio. E accanto all’urbanistica e alla scrittura, educava alla politica, alla solidarietà, all’antifascismo. Mi fece capire che non si può non essere schierati.

Collaborammo tutti alla stesura del famoso decreto sugli standard urbanistici, una grande vittoria dell’Italia civile, dopo scontri furibondi con i difensori degli interessi fondiari. Ancora oggi, trentotto anni dopo, non manca chi cerca di fare marcia indietro. Finita ahimé la stagione del primo centro sinistra, si occupò di Italia nostra, della ricostruzione del Belice e sempre di politica (l’urbanistica come parte della politica credo che sia stato il primo a sostenerlo). Quando lo conobbi era un militante socialista, duro e puro, mai anticomunista come succedeva a tanti suoi compagni. Negli ultimi anni ha militato in Rifondazione.

Come spesso succede in queste dolorose circostanze, scrivendo di una persona che se n’è andata si finisce di scrivere di se stessi. Me ne dispiaccio, ma questo piccolo ricordo vorrei che fosse inteso soprattutto come omaggio alla straordinaria attitudine di Fabrizio di formare i giovani. Scrisse sempre moltissimo, sempre rivolto soprattutto ai giovani. Era questo il modo migliore, per Fabrizio, di lavorare (come ricordava eddyburg.it nel dare la notizia) “per il futuro di noi tutti”.

Su questo sito vedi Che coraggio quel piano ambientale per la Sardegna!, la recensione al libro di Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, e Costruire altre case? Se ne può fare a meno

Titolo originale: Building civilisation – Traduzione di Fabrizio Bottini

Da ragazzo, Richard Rogers era considerato stupido, e fu mandato in una scuola per bambini ritardati. Quando alla fine riuscì ad uscire dal sistema di educazione formalizzato (dopo aver tentato troppo a lungo di superare almeno un esame), fu per diventare uno dei più amati e ammirati architetti della Gran Bretagna. Nominato cavaliere nel 1991, pari nel 1996, ha superato la dislessia per diventare la coscienza dei nostri spazi pubblici, convincendo il paese che la progettazione delle città è sintomo e indicatore di salute sociale. Ha fatto più di chiunque altro per diffondere l’idea che edificando bene si diventa più civili, ci si arricchisce culturalmente ed emotivamente.

La scorsa settimana è stato inaugurato uno dei più importanti progetti mai intrapresi dalla Richard Rogers Partnership (RRP): il nuovo terminal all’aeroporto Barajas di Madrid, più di un milione di metri quadri di edifici, con investimento di un miliardo di Euro. Questo audace hub, disseminato di cortili luminosi e ricoperto da un calmo tetto di bambù conformato come l’ala di un gabbiano, è un tipico progetto di Rogers: integrato nel tessuto urbano, preoccupato non solo dei bisogni della clientela, ma anche di quelli generali della città.

È stata una grande settimana per la RRP, dato che si è aperto alle attività anche il nuovi edificio governativo dell’Assemblea del Galles (che non sarà inaugurato formalmente se non il giorno di San David, il 1 marzo, dal Principe Carlo). Commissionato originariamente nel 1988, l’edificio dell’Assemblea può aver avuto una lunga gestazione, ma valeva la pena di aspettare. La struttura di acciaio, lastre di vetro e legno che si affaccia sul mare, con la sua trasparenza e gli spazi pubblici, sembra pronta a diventare uno dei più bei monumenti moderni della Gran Bretagna.

Non pensereste mai, guardando l’agenda di Lord Rogers, o qualunque altra cosa lo riguardi, che ha superato i settant’anni. Parla anche, velocemente, le parole con l’inflessione italiana che rotolano l’una sull’altra nella fretta di uscirgli dalla testa, probabilmente prima che debba lasciarsele dietro per prendere un altro aereo. Ogni volta che l’ho visto negli ultimi mesi, stava per partire in qualche direzione, soprattutto New York, dove la RRP sta realizzando un centro congressi “grande come Central Park” sulle rive dell’Hudson.

”Quando c’era il concorso per il centro congressi ci hanno detto ‘Se ve lo diamo, capisce che ci aspettiamo lei resti qui 45 giorni senza muoversi?’. Gi ho risposto che ero troppo importante”. Ride, perché è uno scherzo, anche se da un certo punto di vista non lo è affatto. “Ma Ruthie mi ha dato di gomito sussurrando ‘E dai, è New York!’ Così ho accettato”.

Così adesso è bloccato lì, anche se sta con quarto dei cinque figli, che abita in un loft in centro. E riesce anche a sgattaiolare a Londra di tanto in tanto. Ha passato il giorno precedente al nostro colloquio a consultarsi con Ken Livingstone, di cui è uno stretto collaboratore. Il giorno dopo, portava 130 persone dallo studio all’edificio dell’Assemblea in Galles per un “picnic” di celebrazione.

Lavorare a New York è stata un’esperienza strana, racconta Rogers, perché per molto tempo dopo il progetto per il Centro Pompidou, gli era stato chiesto di concentrarsi su un’unica cosa. La maggior parte del tempo, essere presidente della RRP comporta stare al centro di un turbine di attività. Ci sono i grandi progetti, come l’aeroporto di Madrid, o il Terminal Cinque a Heathrow, o il concorso per riprogettare Darling Harbour, a Sydney (sono tra i primi cinque); poi ci sono i progetti piccoli, come una casa da 60.000 sterline (per dimostrare che gli alloggi poco costosi possono essere diversi da un modello disneyano), o un Maggie’s Centre, in fondo alla stessa strada dello studio.

Quest’ultimo sta particolarmente caro a Rogers. Conosceva Maggie Keswick Jencks, nel cui nome si realizzano i centri, prima della scomparsa precoce per cancro al seno. Era un ammiratore del suo classico libro sui giardini cinesi e conosce suo marito, il critico di architettura Charles Jencks. “E a dire il vero – racconta guardandosi attorno qui nel River Cafe – lei tenne una magnifica cena qui quando stava meglio”.

I Maggie's Centres offrono ogni tipo di sostegno non medico per i malati di cancro; questo, sui terreni del Charing Cross Hospital, sarà il primo al di fuori della Scozia, dove Frank Gehry e Zaha Hadid ne hanno progettati altri. E ha il problema di aver creato uno spazio domestico e tranquillo che si affaccia sulla rumorosa e brutta Fulham Palace Road.

E si tratta di un problema, per la RRP, molto più di quanto non sarebbe per molti studi di architettura, perché se c’è qualcosa a mettere insieme i molteplici progetti a varie dimensioni di Rogers, è la preoccupazione per gli spazi fra e attorno agli edifici.

Molto dell’orientamento progettuale oggi, come vi diranno gli osservatori, viene da due soci giovani, Graham Stirk e Ivan Harbour. Ma anche lo stesso Rogers continua ad offrire due contributi fondamentali: la capacità di mettere insieme persone di talento e una grande incombente etica dello spazio pubblico. Rogers mi racconta che la sua novantenne madre adottiva ama stare seduta sui gradini di ingresso della casa (a dire il vero, due case pressate insieme, dove occupa l’alloggio al pianterreno) e guardare il mondo che passa. “Dovremmo poter tutti stare seduti in veranda” dice. È sostanzialmente un essere sociale, che crede nelle possibilità creative di passare il tempo con altre persone. Sua moglie, Ruthie, afferma: “Non ho mai sentito Richard dichiarare ‘ Ho bisogno di più tempo da solo’ e ridendo mi dice che ‘il nostro soggiorno è una piazza’”.

Sostiene di essere capace di concentrarsi anche quando è circondato da persone. “Mi concentro bene. Amo lavorare nei caffè. Quando ero un bambino a Trieste, c’era un piccolo caffè austriaco di fronte al nostro appartamento. C’era un contabile che arrivava tutti i giorni alle 9 del mattino, gli portavano un caffè e un telefono, e lavorava lì tutto il giorno. Quando avevo sei anni, pensavo che quella fosse la vita ideale”.

Richard Rogers è nato in Italia nel 1933 da genitori anglo-italiani. Suo padre era dottore, sua madre ceramista, e da buoni continentali di ceto medio possedevano un arredamento stile Bauhaus. Suo cugino sarà tra i più importanti architetti italiani del dopoguerra. È cresciuto, racconta, “senza la paura del nuovo del dopoguerra inglese”.

La famiglia si trasferisce in Inghilterra nel 1939, ed era un momento non facile per essere italiani alla scuola inferiore, anche senza essere dislessici. E Rogers lo era, profondamente. “L’unico vantaggio di essere dislessico – dice ora – è che non sono mai tentato di guardarmi indietro e idealizzare l’infanzia”. Ricorda di aver dovuto imparare l’inglese – “era abbastanza difficile, e tutti ridevano” – ma non era niente rispetto alla sensazione di essere respinto perché stupido. “La dilessia non era riconosciuta, e così la conclusione era che eri incapace di pensare. Ho perso fiducia. È stato un grave limite, per quasi vent’anni della mia vita”.

Ora che è circondato da persone che possono selezionare la sua pronuncia e sintassi, dice che l’unica traccia visibile e fastidiosa della sua dislessia è qualche “occasionale vuoto di parola, se sto parlando con due o tre persone. Qualche volta, che c’è Ruthie, semplicemente riempie quel vuoto. Ma la cosa curiosa è che non succede quando sto tenendo una conferenza, e comunque quando sono sotto pressione”.

Non vuole dare troppo peso alla parte italiana della sua cultura, ma seduti nel ristorante River Cafe di sua moglie, è difficile non farci caso. Ama il cibo. La cucina di sua madre ha influenzato sia Ruthie che Rose Gray, la socia nel River Cafe. È vestito benissimo in un soffice maglione di cashmere color limone, una tonalità in cui pochi inglesi sarebbero completamente a proprio agio. E anche se ricorda di essere stato in imbarazzo per i vestiti a colori sgargianti di sua madre quando era alle scuole medie, ora dice: “Non capisco perché tutti debbano vestirsi di nero, grigie e bianco”.

È il Signor Piazza, felice in piazza e per strada, a conversare, a confrontarsi con altre persone. E la famiglia ha una profonda importanza per lui, come una passione. I due si sono scontrati, quando ha incontrato Ruthie. Lui era a metà del trent’anni, lei ne aveva 19, studentessa americana di arti in anno sabbatico. Lui era sposato, con Su Brumwell, che era anche sua socia di studio (avevano fondato Team 4 con Norman Foster e sua moglie, Wendy) e avevano tre figli piccoli.

Sembra che in qualche modo lui abbia fatto un compromesso dove stanno al primo posto sia la passione che la famiglia. Parla di Su con gratitudine un paio di volte nel corso della conversazione. Con Ruthie, nel frattempo, restano vicini a tutti e cinque i figli e nove nipoti. Quando gli faccio presente che anche il ruolo di primo piano della famiglia potrebbe essere una cosa italiana, risponde: “Non so da dove venga. Ruthie è molto simile a me in questo, ed è ebrea. C’è anche una tradizione ebrea della famiglia, ma se è per questo non tutte le famiglie italiane o ebree sono unite. Mia madre era molto legata alla famiglia. E io amo stare coi miei figli”.

Anche lo studio, non è molto diverso da una famiglia. Beviamo qualcosa insieme il venerdì sera e facciamo un sacco di cose come andare domani in Galles a celebrare. Praticamente non c’è nessuno che se ne va”. Robert Booth, direttore di Building Design, dice: “La tecnica di Rogers è di creare un piccolo cerchio magico all’interno del quale è molto bello stare, e all’esterno del quale ci si sente molto a disagio. Se si dovesse tracciare un albero genealogico dei suoi collegamenti – e un alcuni casi si tratta davvero di un albero di famiglia – si otterrebbe una rete molto potente che si estende agli affari e alla politica”.

Vedendo poca divisione fra lavoro, tempo libero e famiglia, e tentando costantemente di erodere quella che ancora esiste, vuole continuare a lavorare per sempre? “No. Abbiamo uno statuto che dice dopo i 70 anni, il presidente deve rinnovare il mandato ogni anno. Quindi, in qualche momento [i suoi occhi brillanti scintillano ancora di più], probabilmente decideranno che ne hanno avuto abbastanza di me. Parte del mio lavoro è preparare quel passaggio di funzioni. Ma mi piace pensare che sarò in grado di fare qualche tipo di lavoro, anche se non sono presidente”. C’è un punto di domanda dal punto di vista professionale, sulla possibilità dello studio di continuare ad operare con successo anche senza di lui, afferma Booth : “non per mancanza di capacità, che è indiscutibile, ma perché tanta dell’attività si basa su potere e reti di relazione in tutto il globo”.

Oltre ad avere avuto la possibilità di costruire in tutto il mondo, una delle prime generazioni di architetti per cui ciò è stato possibile, ed è un bel traguardo per chi non riusciva ad avere i massimi punteggi a scuola, è diventato un’importante voce dal punto di vista politico, contro i costruttori avidi e senza immaginazione, contro l’urbanistica incompetente, insistendo sul fatto che una buona progettazione conduce all’inclusione sociale.

Lo scorso autunno, ha pubblicato una versione aggiornata del rapporto Urban Task Force, studio del gruppo di lavoro di nomina governativa che ha coordinato sei anni fa. L’incarico all’epoca era di riferire sullo stati dei centri urbani nazionali. L’aggiornamento loda la nuova attenzione della politica per le città, ma avverte contro un’edificazione troppo scoordinata e kitsch, oltre che di basso livello (“abbiamo gli standards residenziali peggiori dell’intera Europa occidentale”), i troppi organismi sovrapposti responsabili per la rigenerazione urbana, oltre alla mancanza di potere concreto da parte delle amministrazioni cittadine e regionali, e la costante tendenza alle enclaves monoculturali. Si tratta di una denuncia decisa, con pungenti implicazioni politiche.

Alcuni critici giudicano che Rogers stia battendo sullo spesso punto da troppo tempo. Ma di fronte alla crescente infiltrazione suburbana, all’americanizzazione delle città, la sua fede nella città come grande piazza non può che rinnovarsi. Naturalmente, non tutti hanno sempre ammirato sia le sue architetture che i suoi punti di vista. Il Principe Carlo per un certo periodo è stato piuttosto ostile. “Ha avuto un’influenza sfavorevole. Alla fine abbiamo perso parecchio lavoro, come risultato immediato. Ma su queste cose si diventa fatalisti. Quando stavamo facendo il Centro Pompidou, non abbiamo avuto un articolo favorevole sulla stampa per tutti i sei anni, salvo n pezzo davvero memorabile sul New York Times. Siamo stati fatti a pezzi sino al giorno in cui si sono aperte le porte. Allora da un giorno all’altro i media hanno cambiato atteggiamento. È pericoloso prendersela troppo a cuore per le cose che dicono su di noi: sia le buone che le cattive. Il giudizio su quello che si fa deve venire da più vicino.

”Nessuno ama essere attaccato direttamente. Ruthie mi dice di non leggere la cattiva stampa, ma è difficile non farlo. Però la dislessia mi ha fatto capire che chi dice “ ma non puoi fare questo” non conta davvero molto. Non li prendo troppo sul serio, questi “no”.

nota: qui alcuni estratti dal rapporto Urban Task Force

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«Durare per pensare ancora». E' l'invito che Fabrizio Giovenale con disperato ottimismo rivolgeva a tutti e a se stesso nel suo ultimo libro, La risalita (Punto Rosso, 2006). Questo mi è tornato a mente ieri mattina quando mi è stata data la notizia della sua fine. Questo in qualche modo descrive il coraggio con cui per alcuni anni di grave malattia ha continuato a lavorare, a scrivere, a pensare, a regalare agli altri il frutto del suo «durare».

Questa è d'altronde la chiave di tutto il suo operare come urbanista e come ambientalista della prim'ora (attivo con i padri dell'ecologismo italiano, Aurelio Peccei, Antonio Cederna, Laura Conti, uno dei fondatori di Legambiente, vicepresidente di Italia Nostra). E' la regola della sua capacità di indignazione di fronte agli scempi disinvoltamente perpetrati ai danni di città e paesaggi, e ai volgari intrallazzi e ai grossi interessi che li mettono in moto, ma anche del suo insistere nella speranza di poter raddrizzare le cose di poter porre argine allo sfascio del mondo. Perché, dopo aver denunciato il paradosso della specie umana, da sempre impegnata a contrapporsi alla natura, alla quale d'altronde continua a appartenere, dopo aver inveito contro la sua storia, che ha usato sfruttato modificato la natura, fino a aggredirne e stravolgerne le leggi e a smarrire quella coscienza del limite che è regola e base di continuità per tutte le altre specie viventi, Fabrizio si ferma a riflettere sul percorso evolutivo dell'umanità, sulla fioritura del pensiero, ciò che - afferma - dovrebbe bastare a ridarci la carica, a ritrovare il coraggio di sperare. E' così che nei suoi libri ( Come leggere la città, 1977, Il tempo delle vacche magre, 1981, Nipoti miei, 1995, Rapporto Uomo-Terra: che cosa è cambiato, 2005) e più ancora nella sua attività giornalistica (svolta su Paese Sera, Avvenimenti, il manifesto, e ora principalmente su Liberazione, La nuova ecologia, QualEnergia) ha condotto una continua martellante intelligente militanza. Incapace di rassegnarsi all'idea che l'umanità non sappia recuperare la consapevolezza dell'intrinseco rapporto tra la propria realtà e l'ecosistema, non si renda conto che la Terra ha delle misure precise e non dilatabili che gli umani ai tempi di Cristo erano circa 260 milioni e oggi sono 6 miliardi e 300 milioni, e che i loro consumi sono andati sempre aumentando e oggi aumentano a ritmo vertiginoso; che dunque non è più possibile far quadrare i conti, che anzi i conti sono già sballati da un pezzo, e peggiorano. Che non sappia insomma arrestare in tempo la sua corsa verso l'abisso.

Ma i suoi attacchi non erano certo genericamente diretti contro la specie umana. Altri erano i bersagli che colpiva più duro. Era l'indifferenza, quasi senza eccezioni, della politica in presenza del problema ambiente. Era «una politica malata di economicismo», e non soltanto a destra. Perché - diceva - anche a sinistra ben pochi riescono a sottrarsi alla razionalità dominante, di un impianto sociale e economico tutto proiettato verso l'assurdo di una crescita senza limiti; anzi si spingeva a sostenere che anche la tradizione marxista è in qualche misura viziata da una lettera economicistica della realtà, per certi versi non lontana da quella del capitalismo.

Fabrizio pubblicava gran parte dei suoi articoli su Liberazione, il giornale di Prc, votava e apertamente dichiarava di votare per il Prc, ma questo non gli impediva di parlare chiarissimo, d'altronde apprezzato dalla maggioranza dei lettori, e anzi da molti guardato come un maestro. Fu lui tra l'altro, nell'estate del 2005, ad aprire proprio sulle colonne di Liberazione un dibattito su crescita e consumi che si protrasse a lungo con numerosi e qualificati contributi, debordando anche sulle pagine del manifesto, e però suscitando non poche reazioni di pesante dissenso. Fabrizio era fatto così. Si occupava ampiamente anche di quelli che sono, dovrebbero essere, i provvedimenti elementari per la difesa dell'ambiente, dal risparmio idrico e energetico, al risanamento del territorio, al rimboschimento, all'organizzazione della città per la sua migliore utenza da parte della popolazione, ma non perdeva mai di vista l'obiettivo centrale: la necessità di un sistema economico compatibile con la realtà naturale, riparando «ai guasti che la logica di mercato produce in tutti i cervelli del mondo». Non un piccolo programma. Ma a lui più che a ogni altro si attagliava il detto gramsciano «il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà». Non c'è dubbio che l'ottimismo alla fine in lui prevaleva «durare per pensare ancora», sollecitava. Lui l'ha fatto fino all'ultimo. Tre giorni fa ha scritto ancora un articolo, mi dice Marina, la sua amatissima consorte. Persone come Fabrizio Giovenale non sono facili da sostituire. Ci mancherà davvero molto.

Titolo originale:Frank Wilkinson's Legacy– Traduzione di Fabrizio Bottini

Gli articoli commemorativi in occasione della scomparsa di Frank Wilkinson, morto il 2 gennaio all’età di 91 anni, si concentrano principalmente sul suo ruolo di oppositore di punta del maccartismo e la fervente dedizione al Primo Emendamento. Gli anni trascorsi lottando per le nostre libertà fondamentali furono catalizzati dall’esperienza personale del 1958, quando fu una delle ultime persone imprigionate per aver sfidato lo HUAC [ House Un-American Activities Committee]. Dopo la prigione, formò quello che poi divenne il National Committee Against Repressive Legislation, e sino alla morte dedicò le proprie energie e acume ai nostri diritti fondamentali.

Perdiamo un campione proprio al momento in cui l’assalto alle nostre libertà civili si sta intensificando: Patriot Act, spionaggio della National Security Administration, sono solo i più evidenti tentativi dell’attuale Amministrazione di distruggere ciò che Frank aveva difeso.

La dedizione di Frank alle libertà civili varrebbe da sola un intero libro di memorie. Comunque, dobbiamo ricordarci che cominciò la sua carriera come attivista per le case popolari. La sua crociata per il primo emendamento in realtà iniziò quando fu licenziato dalla Los Angeles Housing Authority per le sue scelte politiche radicali.

Per la generazione di idealisti a cui appartiene Wilkinson – maturata durante la Depressione degli anni ’30 – l’abitazione pubblica fu parte di un vasto movimento per le riforme sociali e la giustizia economica. Il fatto che la casa popolare oggi porti impressi i segni del fallimento, non si deve certo ai valori di progresso che ispirarono Wilkinson e altri, ma all’influenza politica delle forze di destra che lottarono si dall’inizio per indebolire l’abitazione pubblica.

Los Angeles e altre città si trovano ora di fronte a gravi carenze di case a prezzi accessibili. Molte delle stesse battaglie combattute da Wilkinson 50 anni fa – per l’urbanistica, i sussidi governativi ai bassi redditi, l’integrazione razziale, contro l’opposizione “ not in my backyard” alle case economiche – sono ora quelle dell’attuale generazione di funzionari pubblici ed esponenti della società civile.

Frank Wilkinson era cresciuto a Beverly Hills, era un Repubblicano da studente alla UCLA, e pensava seriamente di diventare pastore metodista. Entrò nella nuova Los Angeles Housing Authority nel 1942, quando era un ufficio indipendente con la missione di porre fine all’esistenza degli slums in città. Sotto il sindaco dell’epoca Fletcher Bowron, riformista liberale Repubblicano eletto nel 1938, la LA Housing Authority sosteneva l’idea di costruire case dignitose per poveri e famiglie a basso reddito, e credeva nell’integrazione razziale per lo sviluppo urbano.

Dopo la seconda guerra mondiale, Bowron tentò di ampliare il programma, in particolare per i molti veterani che si trovavano di fronte una disperata carenza di alloggi. Sostenne un piano per radere al suolo alcune case nella zona di Chavez Ravine e sostituirle con un grande intervento di edilizia pubblica progettato dall’architetto di fama mondiale Richard Neutra, con due dozzine di edifici da 13 piani e oltre 160 case a due piani, oltre a campi da gioco e scuole. Bowron, Wilkinson e altri riformatori vedevano nel piano per Chavez Ravine un modo di migliorare le condizioni di vita dei poveri losangelini. L’opposizione al progetto venne dagli immigrati che abitavano nell’area, allora essenzialmente una zona rurale con un insediamento di baracche, strade sterrate e priva di fogne. Questa opposizione era comprensibile, dato che nonostante le condizioni la gente considerava queste alture come la propria casa. Uno degli incentivi offerti ai residenti fu la promessa assoluta che sarebbero stati i primi a trasferirsi nelle nuove abitazioni. Nel 1950, fu presentato loro il progetto.

Se Frank e la Housing Authority volevano ricostruire la zona per chi ci abitava, altri in città – imprenditori e politici di destra – erano d’accordo sulle demolizioni ma per altri motivi. Terreni tanto vicini al centro valevano molto più per la rendita dell’offerta di case popolari. Utilizzando le tattiche maccartiste del “ Pericolo Rosso”, queste forze si unirono per bollare la proposta di Chavez Ravine – e in generale le case popolari – come pianificazione socialista. L’attacco si concentrò sul sostenitore principale – Frank Wilkinson – dipingendolo come pericoloso comunista. Condotto di fronte allo House Un-American Activities Committee, rifiutò di ripondere alle domande in base al Primo Emendamento, e fu licenziato dal suo lavoro, processato e messo in una prigione federale.

Poi gli stessi interessi che si erano opposti a Wilkinson e alle case popolari misero fine alla carriera politica di Bowron. Scelsero il rappresentante al Congresso Norris Poulson per candidarlo contro Bowron e ne orchestrarono l’elezione a sindaco nel 1953. Durante la campagna, Poulson si impegnò a fermare il piano per Chavez Ravine e altri esempi di spesa “antiamericana”. Con Poulson, la municipalità ricomprò l’area di Chavez Ravine dal governo federale a prezzo di favore.

Los Angeles lasciò Chavez Ravine a laguire nel suo stato di slum e semiabbandono sino alla metà degli anni ‘50, quando il consigliere municipale Kenneth Hahn face fare al proprietario dei Brooklyn Dodgers, Walter O’Malley, un giro in elicottero, indicandogli la vicinanza dell’area alle freeways e al centro. Per far sì che O’Malley portasse la sua squadra a Los Angeles, la città fece radere al suolo dalle ruspe le case restanti, evacuando con la forza gli ultimi abitanti. Nessuno venne ricollocato in abitazioni migliori, non si realizzò nessuna casa dignitosa per i poveri che abitavano lì. I profondi avvallamenti furono colmati per realizzare il piatto campo da gioco del Dodger Stadium.

La “ battaglia di Chavez Ravine” è diventata una leggenda dell’urbanistica, ha ispirato un lavoro teatrale del gruppo Culture Clash, un recente album del chitarrista Ry Cooder, e molti libri e studi accademici.

L’attacco a Frank Wilkinson in quanto sostenitore dell’edilizia pubblica per i meno abbienti fu solo uno dei molti, replicati in molti modi in tutto il paese.

Fino alla Depressione, la maggior parte dei leaders d’opinione americani riteneva che le forze private di mercato, sostenute dalla mano della filantropia, potessero rispondere ai bisogni nazionali della casa. Nei primi tre decenni del XX secolo, alcuni sindacati e riformatori per la casa realizzarono interventi modello per le famiglie della classe lavoratrice, ma senza sussidi governativi. Il collasso economico offrì ai riformatori lo spiraglio politico per far avanzare le proprie idee “radicali” secondo cui il governo federale avrebbe dovuto sostenere “case sociali” e aiutare a creare un settore non commerciale, libero dal profitto e dalla speculazione. Come i loro corrispondenti europei, essi pensavano anche ai ceti medi oltre che ai poveri.

Questi riformatori – attivisti sindacali, economisti, urbanisti, architetti, operatori sociali e giornalisti – avevano fiducia nel ruolo propositivo del governo riguardo alla società e alle città. Credevano che abitazioni ben concepite con servizi adeguati potessero elevare i poveri. Volevano progetti di abitazioni destinati a ceti a vario reddito, non commerciali, sussidiati dal governo, sostenuti dai sindacati, dalle associazioni religiose, da altre strutture non-profit, dagli uffici pubblici. Nei primissimi anni, il New Deal realizzò alcuni insediamenti modello che riflettevano questa visione. Comprendevano centri day care e campi da gioco, coinvolgevano gli abitanti in attività culturali e di istruzione, erano formalmente belli e attraenti anche perché ci abitassero le famiglie del ceto medio.

Ma sui riformatori ebbe presto la meglio il settore immobiliare. Preoccupati che abitazioni ben concepite, a buon mercato e sostenute dal governo potessero competere coi privati nell’offerta ai consumatori della middle-class, questi sventolarono lo spettro del “ socialismo”. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’impennata della domanda e il timore per la concorrenza delle abitazioni pubbliche, il settore mobilizzò una grossa campagna contro questi programmi. Specialmente nel caso dello housing act del 1949, i privati sabotarono il programma esercitando pressioni sul Congresso perché tagliasse i finanziamenti, lasciasse alla discrezionalità degli enti locali se e dove realizzare gli interventi, li limitasse ai ceti più poveri. I Senatori degli stati del Sud fecero sì che le amministrazioni locali avessero la possibilità di mantenere la segregazione razziale nell’edilizia pubblica.

Con un bilancio limitato, molti progetti furono mal realizzati e/o mal concepiti: brutti contenitori per poveri, col termine “ case pubbliche” a stigmatizzare un’abitazione di livello infimo. Le autorità locali per la casa – generalmente dominate dai rappresentanti delle imprese e del settore immobiliare – spesso collocavano gli interventi in aree senza servizi adeguati di negozi, trasporti, scuole, isolati dai quartieri della middle-class, contribuendo alla concentrazione dei poveri all’interno delle città. I problemi che ora associamo alle case pubbliche non erano inevitabili. Furono il risultato di scelte fatte dal Congresso e a livello locale.

Le abitazioni pubbliche si identificarono con la guerra della droga e il crimine, posti dove i bambini avevano paura a camminare sino a scuola, dove per gli anziani androni e ascensori erano pericolosi quanto le strade, e avevano paura a uscire dai propri appartamenti, posti dipinti come una trappola anziché uno strumento di elevazione sociale. Alla fine, furono costruiti soltanto 1,3 milioni di alloggi pubblici – meno dell’1% delle abitazioni a livello nazionale – e le realizzazioni terminarono nell’era Nixon. Poi sono stati attuati altri programmi – buoni casa per gli inquilini poveri e finanziamenti per alcune piccole realizzazioni – ma di fatto gli Stati Uniti si allontanarono dalla responsabilità di dare alloggio a tutti – compresi i più poveri nel momento in cui abbandonammo l’edilizia pubblica.

Oggi, Washington fornisce qualche tipo di sostegno all’abitazione per meno di un quarto dei poveri a livello nazionale. E anche se questo numero di poveri è aumentato da quando è entrato in carica il Presidente George W. Bush, la sua amministrazione ha tagliato i sussidi per la casa alle famiglie a basso reddito.

Si utilizzano ancora alcuni fondi federali per costruire nuove case per poveri. Ironicamente, la maggior parte delle abitazioni con sussidio governativo di oggi è costruita da organizzazioni locali non-profit. Generalmente sono ben progettate per inserirsi all’interno dei quartieri, e di piccole dimensioni paragonate ai massicci progetti residenziali costruiti negli anni ’50 e ‘60. un numero crescente di questi complessi è per redditi misti, e comprende asili nido, formazione professionale, programmi di educazione e animazione. In altre parole, assomigliano al tipo di progetti che i primi riformatori per la casa e i loro discendenti politici, come Frank Wilkinson, avevano ideato. Ma senza sufficienti sussidi federali, queste organizzazioni locali mancano delle risorse per rispondere seriamente alle carenze per i poveri.

E ancora oggi, i politici di destra usano lo stereotipo delle case pubbliche per attaccare la stessa idea di intervento governativo. Durante la sua campagna del 1996, il candidato alla nomination Repubblicana Bob Dole disse che l’abitazione pubblica è “uno degli ultimi baluardi del socialismo nel mondo”, definendo gli uffici responsabili “padroni di casa della miseria”. Più di recente, dopo l’uragano Katrina, il rappresentante al Congresso Richard Baker (repubblicano della Louisiana) è stato ascoltato mentre diceva ai lobbisti, “Abbiamo finalmente fatto piazza pulita delle case popolari di New Orleans. Noi non ci eravamo riusciti, ma Dio sì”.

Il fatto che il governo federale abbia girato le spalle all’idea della casa per tutti non ha posto fine alla crisi. Le città del paese affrontano sempre una seria crisi delle abitazioni, e senza avere a fianco le autorità federali. A Los Angeles, dove Frank trascorse l’intera esistenza, consiglieri eletti e attivisti stanno tentando di misurarsi coi risultati dell’assenza governativa, compresi gli 80.000 homeless e un mercato immobiliare dove anche le famiglie di ceto medio non possono permettersi l’acquisto di una casa. Ora il sindaco progressista Antonio Villaraigosa si rivolge ai sostenitori cittadini dell’edilizia pubblica – e allo spirito di Frank Wilkinson – per trovare soluzioni alla soverchiante crisi, trovare risorse per un trust fund locale, sperimentare politiche come lo housing inclusivo, “appartamenti dei nonni” e maggiori densità, oltre a spingere i proprietari a riparare gli edifici dei quartieri degradati.

Dopo che Wilkerson uscì di prigione, non gli venne consentito più di lavorare per l’edilizia pubblica. Continuò invece fino a diventare uno dei principali esponenti nazionali dei diritti civili. Come nel caso della sua battaglia per le garanzie del Primo Emendamento di libertà di parola, Frank Wilkinson vedeva nell’abitazione dignitosa, sicura e a buon mercato un diritto fondamentale. Fu di ispirazione per decine di migliaia di attivisti di questo paese. In sua memoria, rinnoviamo il nostro impegno allo smantellamento del Patriot Act, nello stesso modo in cui lui lottò per quello della HUAC. E in sua memoria lottiamo per un luogo sicuro, dignitoso e alla portata di tutti, da chiamare casa.

Nota: anche in Italia, il quotidiano Il manifesto ha ricordato la figura di Wilkinson in questo articolo di Luca Celada (f.b.)

here English version

A dieci anni dalla morte c’è un ritorno di attenzione verso Antonio Cederna, come dimostra anche la riedizione de «I vandali in casa» curata da Francesco Erbani. Ci è mancato, il contributo di Cederna. Il movimento che si batte per la tutela delle coste, i sardi, gli devono molto: senza le sue denunce chissà quanti altri scempi si vedrebbero in giro per la Sardegna. La sua assenza ha pesato nel confronto di questo decennio di cui sarebbe stato informatissimo, per la propensione ad affezionarsi ai luoghi che visitava.

Qualcuno ha notato un aspetto rimasto in ombra: che un intellettuale nato al Nord e trasferito a Roma si fosse innamorato della «città più bella e più complessa del mondo», preoccupato dei pericoli che correva fino al punto di dedicare ad essa la gran parte dei suoi studi e delle sue attenzioni di archeologo-urbanista. La sua generosa disponibilità a muoversi continuamente, lo portava a riflettere con puntuale attenzione, e con molta rabbia, sulla progressiva distruzione del paesaggio del Bel Paese (di cui rischia di restare solo l’etichetta di un formaggio, aveva detto in uno dei tanti dibattiti); un’attenzione che ha sempre sottinteso il senso unitario del paesaggio italiano e avvertito il rischio di una irreversibile perdita di scenari differenti ma collegati da vicende storiche comuni.

Per tanti anni ha scritto sul Mondo di Pannunzio, poi sull’Espresso e sul Corriere della Sera, quindi su La Repubblica articoli di fuoco contro gli scempi di località più o meno note delle diverse regioni italiane. Le sue denunce sono arrivate, provvidenziali (o sgradite), ad interessare moltissimi casi variamente ubicati. Contro gli sventramenti di Roma e le speculazioni sull’Appia antica, per la tutela dei centri storici, per l’istituzione di vincoli su aree a rischio ecc. Una linea coerente di interventi che ha contribuito a far crescere una più estesa ed articolata nozione di bene culturale.

Ha iniziato a occuparsi della Sardegna tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Quando era sulla cresta dell’onda l’iniziativa dell’Aga Khan in Gallura. E quasi tutti applaudivano senza riserve e passava inosservato il fatto che il Programma di fabbricazione di Arzachena - una previsione spropositata in riva al mare di 370.000 vani - era redatto dal progettista di fiducia del principe, inaugurando la sciagurata teoria della coincidenza degli interessi dell’azienda Costa Smeralda con quelli pubblici.

Cederna, irritato dalla «speculazione d’assalto» alle coste sarde, prefigurava con la metafora della città lineare l’esito che in parte si realizzerà. «E’ un’impresa - scriveva - che abbiamo definito di speculazione e di colonizzazione perché si è avvalsa della depressione economica della zona [...] Un’impresa che si è giovata in parte della compiacenza pubblica e che oggi [...] ad altro non mira che alla massima, diffusa edificabilità per ottenere il massimo profitto nel mercato dei terreni. Una impresa destinata a provocare difficoltà e distorsioni economiche senza scampo».

Tra il 1970 e il 1972 scrive diversi articoli sui lavori in corso nelle coste sarde sul Corriere diretto da Giovanni Spadolini (che più tardi, nel 1975, costituiranno la struttura di un capitolo del libro «La distruzione della natura in Italia» intitolato «I nuovi saraceni in Sardegna»). La sua denuncia arriva inattesa a guastare il clima di consenso unitario sulle iniziative di Karim e apre qualche breccia nel silenzio sulle prospettive di sviluppo di questa impresa. Soprattutto provoca nel 1970 il famoso incontro a Cagliari tra rappresentanti di ministeri, della Casmez e delle Soprintendenze che esprimono contrarietà alla proposta chiedendone il ridimensionamento. Un atto che segna la prima la prima minaccia sdegnata del principe di lasciare l’isola.

Due articoli pubblicati nel luglio del ‘70 scatenano la reazione del giovane Aga Khan che cita una prima volta il quotidiano milanese per danni provocati alla immagine dell’ azienda, per proseguire con altre querele per articoli e interviste successive contro Cederna, Giorgio Bassani all’epoca presidente di Italia Nostra e Giorgio Bocca. Lo stesso Cederna si lamenta a posteriori della «gazzarra dei giornali sardi» che da una parte raccontano di una congiura dei milanesi a danno dell’isola, dall’altra insinuano un inesistente interesse dei Crespi, proprietari del Corriere, a spostare il baricentro degli investimenti a sud della regione.

Nonostante lo sdegno di altri commentatori (su alcuni quotidiani italiani e anche su Le Nouvel Observateur) l’assalto alle coste non si ferma e specialmente i propositi negli anni Ottanta sembrano inarrestabili. La Nuova Sardegna pubblica il dicembre del 1982 e il gennaio del 1983 un’inchiesta curata interamente da Cederna dedicata alle previsioni dei comuni costieri. Il clima è mutato e questo nuovo intervento colpisce l’opinione pubblica; anche perché i dati che nel frattempo vengono forniti dalla Regione non possono lasciare indifferenti: 70 milioni di metri cubi - specialmente case da vendere - incombono dappertutto e si osserva amaramente che il fenomeno denunciato tempo addietro si è esteso, il danno è gravissimo e potrebbe assumere dimensioni estreme.

Si apre, anche a seguito di queste denunce, la fase che condurrà ai risultati noti, dalla legge urbanistica al piano paesistico del ‘93, durante la quale non mancheranno interventi schierati - ancora su La Nuova Sardegna- utili per incoraggiare gli atteggiamenti più consapevoli e rigorosi. La grande lezione di Antonio Cederna è più che mai attuale, la sua linea di conservazione radicale del paesaggio trova oggi eco in Sardegna anche nella politica, che lui guardava con diffidenza.

Avrebbe compiuto 75 anni a ottobre. È morto dopo una lunga malattia Per tutta la vita ha denunciato i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale ha subito ad opera di incompetenti retori e speculatori Le sue battaglie per una Italia diversa Personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato E l’Urbe si sviluppava a macchia d’olio santo

È scomparso l’uomo che voleva sconfiggere il cemento. Antonio Cederna stava per compiere settantacinque anni, e la sua contesa con una forza più potente della ragione e della storia - la Costruzione che diventa Distruzione - durava da quasi mezzo secolo. Ora che s'è interrotta, ripensando alla sua vita si può tracciarne un bilancio amaro: Cederna non ha vinto. Non poteva vincere. Era un'antiretorica, la sua, che coalizzava contro di sé interessi, convenzioni, mitologie bugiarde, seducenti demagogie: lo sviluppo, il lavoro, l’avvenire contrapposto al passato, l’asfalto delle autostrade confrontato ai sassi delle vie consolari, edifici sontuosi capaci di ridicolizzare gli umili tessuti urbani lavorati dal tempo. Una coalizione di interessi e di pretesti che avrebbe scoraggiato chiunque.

Antonio Cederna non si lasciava né intimorire né sedurre. Studiava. S'informava. Si documentava "sul campo" con la destrezza di un segugio e la passione di un missionario. Paragonava questa nostra Italia sventata a tanti paesi europei meno favoriti dall’arte ma più attenti a non offenderla. Nella redazione del Mondo, il settimanale che lo scoprì, fioccavano per lui i nomignoli. Lo chiamavano "l’Indignato speciale", l’"Appiomane", il "piccolo Borgese", con allusione alla sua discendenza, per parte di madre, dal celebre scrittore Giuseppe Antonio Borgese. Scherzi che nascondevano una grande stima per quel giovane don Chisciotte e le sue "campagne".

Il primo articolo di Cederna lo lessi nella primavera del 1950. S' intitolava "Via degli Obelischi". Era l’Anno Santo, e Roma lo festeggiava a modo suo: inaugurando via della Conciliazione con i suoi ventotto obelischi, disegnati dagli architetti Piacentini e Spaccarelli. Uno sconcio storico. Storico era anche il legame che in quell’occasione si stabilì, o si confermò, tra fascismo e Repubblica italiana. Già Mussolini aveva infatti progettato lo sventramento della "spina di Borgo", un modesto tessuto edilizio costruito nei secoli, che si apriva all’improvviso sullo scenario berniniano. Ora l’opera si completava, sommando al danno estetico il disastro ecologico. Dopo lo sventramento, migliaia di persone che abitavano quelle vecchie case vennero sbattute altrove. Antonio Cederna, allora ventinovenne, si scatenò.

Quello che uscì dalla sua penna era un intervento critico. Ma era soprattutto un’invettiva. Accorata. Sdegnata. Furente. Dopo quell’esordio, lungo sedici anni, il settimanale di Pannunzio ospitò più di quattrocento note, servizi, inchieste di Cederna. Tema: i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale subisce ad opera di incompetenti, retori e speculatori. Antonio, poco più d’un ragazzo, sembrava un personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato. Anche se diventò ben presto un maestro di giornalismo, il suo mestiere di partenza era un altro. Lombardo, si trovava a Roma per caso. S'era laureato in archelogia a Pavia e ora frequentava nella Capitale una scuola di perfezionamento, oltre a partecipare a certi lavori di scavo a Carsoli, in Abruzzo. Erano le sue mansioni di studioso. Al Mondo affidava le sue denunzie di cittadino. E con grande efficacia. Nei suoi scritti cultura e giornalismo coincidevano.

Gli anatemi del giovane archeologo toccavano nervi scoperti dell’intellighenzia italiana. Agivano su una minoranza, ma in profondità. Comunicavano sdegno. Creavano allarme nei colpevoli. Se ora penso alle battaglie combattute da Cederna, mi trovo di fronte a un’ininterrotta sequenza di titoli. Alla "Via degli Obelischi" seguono "I vandali in casa". È il 1951. Il delirio distruttivo dell' Italia repubblicana prosegue. Il Comune di Roma rispolvera ancora un progetto di sventramento, compreso nel piano fascista del 1931, che dovrebbe spaccare il centro storico fra piazza di Spagna, il Babuino, via del Corso e l'Augusteo. Vogliono picconare le vecchie case sostituendole con palazzoni in uno stile "littorio ritardato". Chi potrebbe trattenere l’archeologo-urbanista? Anatema, anatema! Un altro titolo: "I gangsters dell’Appia". Cederna era stato raggiunto da decine di telefonate capaci di sconvolgerlo: si tenta di distruggere l’Appia antica. Nel suo appassionato talento semplificatorio, Antonio sceneggiò il destino di quella strada veneranda: stavano privatizzando i monumenti, i paesaggi, i tramonti di fronte ai quali Goethe, Gibbon, Gregorovius, Byron, Stendhal, De Brosse, Mommsen erano venuti a meditare sulla fine del mondo antico, l’invidia del tempo e la varietà della fortuna. Cinematografari, prelati, generoni anelavano a costruirsi la villa. Proprio lì. Cederna si scatena di nuovo. E lo seguono, nella sua ira, urbanisti insigni come Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni, mentre gli architetti di regime soffrono di fronte a questa intromissione nei loro progetti per la Roma del futuro.

C'è sempre un futuro in nome del quale sembra urgente disonorarsi. In Campidoglio governano sindaci che si chiamano Rebecchini e poi Cioccetti, nomi passati in proverbio anche per merito dell’"Indignato Speciale". A questo punto Antonio Cederna non è più un archeologo e neppure più soltanto un giornalista. È, a seconda di chi lo giudica, uno spauracchio o una provvidenza. Diventa un centro di raccolta per le novità, spesso agghiaccianti, che si profilano in materia di speculazione edilizia a Roma. La battaglia per la difesa del centro storico è vinta, o quasi. Ma, appena fuori, la città si sviluppa secondo i desideri delle grandi proprietà, titolari di migliaia di ettari a ridosso delle strade consolari, Tiburtina, Prenestina, Tuscolana, Aurelia, Portuense. Una dilatazione incontrollata e irresponsabile. Immobiliare, Torlonia, Gerini, Scalera, Lancellotti sono i nomi segnati nel taccuino di Cederna, il reporter dello scempio. La vicenda reca impresso lo stemma del Vaticano.

"L’Urbe si sviluppa a macchia d’olio santo", scrive Mino Maccari sotto le sue vignette. I titoli-slogan di Cederna maturavano a grappolo. "La città Eternit" (sui nefasti della baraccopoli romana) l'inventò Flaiano, che del Mondo era allora caporedattore. "Mirabilia urbis" era un’immagine riesumata dallo stesso Cederna spulciando le antiche guide turistiche di Roma. E poi "Napoli città omicida", "La morte a Venezia", "Palermo decomposta", "La caduta di Milano", "Il turco a Bologna", "Cremona sventrata", "Urbino in pericolo", "Ravenna al macello". Il Mondo morì nel 1966. Per la cultura italiana fu una sconfitta, ma Cederna non aveva fallito. I suoi temi diventavano di dominio comune. Era nata Italia Nostra, uno strumento di vigilanza, denunzia, intervento in campo urbanistico. In materia di tutela ambientale, la periferia rispondeva agli appelli emanati dal centro. Cederna fungeva da terminale per un enorme flusso di segnalazioni, suggerimenti, memoriali, proposte provenienti da ogni angolo d’Italia. Dighe fasulle al servizio di un'agricoltura che non c' è più, autostrade inutili, scempi di edifici storici, musei inagibili, parchi nazionali che stentano a nascere. I giornali accolgono queste campagne.

Ma a Cederna non basta mai. Dopo un breve flirt con L' Espresso, ecco la sua firma sul Corriere della sera, in una fase in cui su quelle pagine influisce Giulia Maria Crespi, assai sensibile ai temi cederniani. Antonio lavora con tre direttori, Alfio Russo, Spadolini e Ottone. Poi, dal 1980, comincia a collaborare alla Repubblica. I suoi libri sono ormai dei classici: ai Vandali in casa e a Mirabilia urbis si affiancano La distruzione della natura, Mussolini urbanista, Brandelli d' Italia. I lettori non sono più soltanto una pattuglia nobile e unanime. Crescono di numero. E Cederna agita le sue campagne anche in sedi politiche. Eletto consigliere comunale e poi deputato come indipendente nelle liste del Pci, si scontra, nella sua materia, con antiche sordità. C'è da lavorare e da litigare. Anche a sinistra, lungo buona parte degli anni Ottanta, l'abusivismo edilizio viene protetto o tollerato perché lo si considera un'arma nella mani dei poveri. Il ricatto "occupazionale" domina.

Eppure, nella vicenda dell'Indignato Speciale non manca qualche trionfo della ragione. Il suo candore mette a segno punti insperati. Contribuisce a impedire (e siamo alla fine degli Ottanta) che nella piana occidentale di Firenze la Fiat e la Fondiaria piantino milioni di metri cubi di cemento: è la "Grande Firenze", che non si fa, anche per l' opposizione del Pci. Va in fumo il progetto Venezia Expo, così caro a Gianni De Michelis. Vanno a buon fine, almeno sulla carta, la legge su Roma capitale e quella sull' istituzione di parchi e riserve naturali. Uno degli ultimi progetti sul quale si sia accalorato il tenace Cederna riguarda i Fori imperiali. Si tratta di portare alla luce una delle illustri zone archeologiche del pianeta, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli romani. L’urbanista raccoglie consensi importanti: quello, ad esempio, del sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Ma gli ostacoli sono imponenti, il disegno rivoluzionario. Armato d’una vecchia macchina per scrivere, lui non demorde. Lo assiste la convinzione, o almeno la fiducia, di guadagnare ogni giorno qualcuno di più alla sua causa.

Gli articoli più recenti, usciti sulla Repubblica, parlano della nascita del Gran parco sul Litorale romano, in zona Maccarese; della creazione del Porto di Traiano, a Fiumicino; della sistemazione di piazza Augusto Imperatore, a Roma. L’elegia più sferzante, quando cadde la cupola della cattedrale di Noto, portava la sua antica firma. L’Indignato speciale non aveva cessato di esserlo. Adesso, pensando al Giubileo, ci domandiamo come faremo a sopportarlo senza ispirarci alle sue angosce e alle sue speranze.

Non è facile assorbire l’entusiasmo dei suoi estimatori, confrontarsi con i giudizi sbrigativi dei suoi detrattori, accettare che una persona con cui hai avuto un rapporto esclusivo sia trasformata in un monumento. Per fortuna, tra le cose che mi ha insegnato mio padre c’è innanzitutto il rispetto per i beni comuni.

Più difficile ancora è scriverne in forma privata. Con il passare degli anni, la tela che la fama comincia a tessergli intorno finisce per avvolgere i ricordi più intimi. Per scrivere questo articolo ho scelto di giocare in contropiede: ho tirato fuori dai cassetti decine di ritagli ingialliti e li ho sparpagliati sul tavolo. Elzeviri, interviste, testimonianze. “Scompare a 75 anni il difensore del Belpaese”. Mio padre avrebbe sorriso. “Il paladino dell’ambiente”. Si sarebbe schernito. “Addio a Cederna, tenero efurioso”. Si infervorava declamando l’Ariosto, Dante, Manzoni e Shakespeare. Per il resto era una persona pacata, non ricordo di avergli mai sentito alzare la voce. “Muore Cederna, il pioniere della coscienza ambientale”. E’ stato certamente uno dei primi a scrivere di beni artistici e naturali, poi di natura, quindi di ambiente, infine di ecologia e di limiti dello sviluppo. Ma allo stesso tempo è difficile immaginare un pioniere dai tratti più urbani di lui. “Intellectuel?” gli aveva domandato a bruciapelo un ufficiale svizzero, colpito dalla precisione con cui aveva portato a termine la corvée che gli era stata assegnata: pulire i cessi del campo di lavoro dove era recluso. Era il 1943, mio padre aveva appena varcato clandestinamente la frontiera per fuggire dalla guerra e dal fascismo.

“All’inizio incompreso. Ma rigoroso, pieno di coraggio, integerrimo”. Ricordo un’intervista a metà degli anni Settanta: “Cederna, lei è un ambientalista quindi le piace la campagna?”. “Preferisco la città”. “Conduce una vita sana?” “Fumo due pacchetti di sigarette al giorno”. “Fa passeggiate?” “Faccio la Settimana Enigmistica”. Allora si confondeva l’impegno per l’ambiente con la bucolica aspirazione di un ritorno alla natura…ma anche in seguito non è andata meglio. “E’ morto Cederna, l’uomo che voleva fermare il cemento”. Boom! A Don Chisciotte preferiva Sancho Pancia. Denunciava la “cementificazione” delle coste, le speculazioni dei palazzinari, le autostrade di Prandini, ma era favorevole alla riqualificazione delle periferie, alla costruzione di servizi, di quartieri più umani e perfino di strade che avessero un senso. (Ricordo una visita al cantiere della bretella autostradale di Roma, lo sguardo diffidente dei tecnici dell’Anas, l’articolo elogiativo pubblicato sull’Espresso). Per alcuni era “l’intellettuale che aveva il coraggio di dire di no”. (In famiglia ci aveva provato una volta: “o me o il gatto”, aveva intimato a mia sorella Camilla tanti anni fa, naturalmente erano rimasti entrambi). Altri lo accusavano di voler “imbalsamare le città”. (del tutto improbabile, era molto superstizioso, aveva il terrore delle mummie).

"Nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio – hadichiarato qualche anno fa Caltagirone su Panorama - Per decenni chiunque voleva intervenire sul territorio era combattuto come uno speculatore. Risultato: le altre capitali si adeguavano ai tempi, a Roma si impedivano le trasformazioni del semicentro". La solita (vecchia) tesi dei palazzinari aveva il potere di fare ritrovare a mio padre l’allegria e perfino il suo accento meneghino (“Oh signùr, signùr”). La responsabilità dell’arretratezza di Roma non era da rintracciare nell'intreccio di politica e affari che aveva governato la capitale per decenni, ma nella penna dei suoi critici! (“Il mondo alla rovescia”, avrebbe detto sorridendo). Non poteva immaginare che la stessa tesi sarebbe finita sui libri di storia. “Vittorio Vidotto mette sotto accusa anche Cederna e Insolera”. “La loro visione di Roma si è tradotta in una sostanziale incomprensione storica della città, incapace di cogliere e di volgere in positivo la complessità dei fattori della trasformazione urbana... Ispirata a un dirigismo illuministico, raramente una battaglia politico-culturale fu così avara di successi”. Non ho i titoli per entrare nel merito di questa polemica. Chi è curioso di sapere che cosa fosse e dove avrebbe portato “la complessità dei fattori di trasformazione urbana” a quei tempi, può leggersi I Vandali in Casa, appena ristampato da Laterza. Il riferimento all’illuminismo, invece, mi spinge a pensare che mio padre avrebbe citato Candide, il suo libro preferito, e in particolare le gesta del saggio Pangloss, che scambiava cause ed effetti, credeva di vivere nel migliore dei mondi possibili e, a chi gli faceva notare che gli uomini si sterminano a colpi di baionetta, rispondeva: “Anche questo è indispensabile. I guai privati compongono il bene generale; così che più ci sono guai particolari e meglio vanno le cose”.

Ricordo il coraggio scostante di Antonio Cederna, circondato spesso dall’irrisione, e, ora che è scomparso, elogiato con debita ipocrisia da quelli che lo dileggiavano”, scriveva Giuseppe Pontiggia nel 1997. Mio padre non si sarebbe scomposto, sapeva che sarebbe stato osannato soltanto da morto. Se fosse vivo starebbe scrivendo sempre lo stesso articolo sulle responsabilità della sinistra, “la casa politica dell’ambientalismo italiano – come ha scritto Michele Serra - a cominciare dal padre di tutte le battaglie Antonio Cederna… E’ normale che oggi le attese siano più pressanti che in passato. Perché non si può parlare, per anni, di sviluppo distorto e poi non sentirsi, una volta al governo, costretti a trarne delle conseguenze”.

Antonio Cederna era figlio della borghesia milanese, una borghesia ora assai difficile da immaginare: laico, antifascista, sobrio e ironico, rigoroso, con una forte passione civile. Impegnato dal dopoguerra nello sforzo per la ricostruzione dell’etica pubblica del nostro Paese. A partire dalla tutela del territorio, dei centri storici, dei beni culturali e ambientali, assunti quali beni comuni e valori in sé. E’ stato un archeologo che per dedicarsi alle battaglie di tutela ambientale e del paesaggio, per amore delle nostre bellezze divenne innanzitutto giornalista (il Mondo di Pannunzio dal 1950 al 1966, il Corriere della Sera della Mozzoni Crespi e di Ottone dal ’67 al 1981 e poi a Repubblica) ma anche urbanista, critico d’arte, saggista. E poi amministratore locale, parlamentare di rango, tra i fondatori dell’ambientalismo italiano ma anche concreto e attivo presidente del parco dell’Appia.

E’ davvero impressionante la mole di attività svolte da Antonio Cederna con libri, saggi, interventi, proposte di legge, articoli sui giornali; e sempre sul valore della conoscenza, dei beni storici e culturali, dell’ambiente, delle nostre radici nelle articolate e complesse identità territoriali.

Nei suoi articoli era capace di dissacrare i luoghi comuni del nostro Paese, ricco di tecnici e tecnicismi ma debole di cultura. Così scriveva oltre trent’anni fa, nel 1975: “In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e della immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità”, che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico ed urbanistico del loro intervento.” Considerazioni di un’attualità addirittura sorprendente, che Eddy Salzano mantiene scolpite sul bellissimo sito internet eddyburg.it, e che così commenta: “Parole oggi più vere che mai. Le città non competono scommettendo sulla migliore qualità della vita (migliori servizi, più verde, comunicazione tra gli abitanti, bellezza d’insieme, solidarietà) ma sulla più fantasiosa Grande Opera.”

Cederna intuì prima di altri che il grande problema del Paese era ed è l’aggressione al territorio, il bene comune che dà un senso effettivo alle comunità. Con lui intere generazioni di romani hanno imparato a sentir proprie le bellezze del territorio in cui vivevano. Un milanese pungente che divenne un profondo conoscitore e tutore intransigente delle bellezze ambientali, storico-culturali e paesaggistiche dell’area romana. Basti solo ricordare l’impegno profuso per l’Appia Antica e per il Progetto Fori, per unificare, liberare e far riemergere da sotto il cemento il più grande patrimonio archeologico del mondo e restituirlo a Roma. E in questo impegno trovò sponda attenta e appassionata in un “grigio funzionario di partito”, Luigi Petroselli, il sindaco più amato che la sinistra abbia avuto a Roma.

Con Cederna emerge un’etica fondata sulle regole e sul governo pubblico e democratico dei processi territoriali, in grado di coniugare istanze sociali e attenzione prioritaria ai beni ambientali e culturali. In particolare a Roma, dove pure non si sottrasse mai a misurarsi con le esigenze di una città che assommava alle esigenze di metropoli in crescita le funzioni di capitale nazionale e internazionale. Per questo avanzò la proposta di legge per Roma capitale (1989), con soluzioni coraggiose di riassetto metropolitano per una città moderna da edificare nella periferia orientale (il sistema direzionale orientale, lo Sdo) dove trasferire terziario, uffici e ministeri, per liberare un centro storico divenuto invivibile. E, come racconta Vezio De Lucia su Carta del 30 gennaio 2006, doveva trattarsi di un’operazione a “saldo zero”: gli immensi spazi lasciati liberi dagli uffici del centro non dovevano essere sostituiti con altri carichi urbanistici, ma divenire vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e zone pedonali, con la piena valorizzazione delle aree archeologiche poste nella Roma storica. L’archeologia, la memoria, l’identità stratificata diveniva il punto di partenza per un diverso assetto della città, per una nuova socialità. La modernità di Cederna è proprio nella sua idea di città imperniata sul bene comune della convivenza nella bellezza condivisa, sul benessere, assolutamente lontana da chi continua a delegare al mercato, al Pil, ad immobiliaristi e costruttori la definizione dei destini delle nostre comunità.

Tra i maggiori fenomeni che si vanno affermando, possiamo indicare i seguenti. L'enorme aumento della motorizzazione privata che, mentre crea una mobilità sconosciuta in passato, fa sorgere complessi problemi nelle aree urbane, dall'intasamento del traffico all'inquinamento, ed esige programmi ad ampio respiro. La creazione di grandi infrastrutture (superstrade, autostrade, eccetera), mentre accorcia le distanze, rende raggiungibile e quindi anche tendenzialmente edificabile ogni angolo del paese, creando nuovi problemi economici, sociali, urbanistici. Le migrazioni interne portano all'abbandono delle campagne e aggravano la situazione delle città che, in mancanza di adeguati controlli urbanistici, si dilatano confusamente ad abbracciare grandi "aree metropolitane", congestionate e insufficientemente dotate di servizi.

La ripresa economica porta alla realizzazione di impianti industriali, la cui localizzazione deve essere accuratamente programmata per evitare i peggiori effetti negativi, dall'inquinamento dell'aria e dell'acqua alla distruzione delle risorse naturali. La riduzione degli orari di lavoro, l'aumentato benessere, la disponibilità del mezzo privato consentono a masse sempre più numerose l'impiego del tempo libero, portando allo sfruttamento turistico delle zone più interessanti dal lato paesistico e naturale: le coste dei mari e dei laghi, colline, foreste e montagne vengono investite dall'edilizia; col pericolo che venga distrutta proprio la materia prima del turismo, cioè l'integrità del paesaggio, il prestigio della natura, il verde, la purezza dell'aria e dell'acqua.

Sono alcuni aspetti, coi loro vantaggi e i loro rischi, della seconda rivoluzione industriale. Termina il ciclo della città tradizionale, statica e chiusa: e l'occasione per il sorgere della città contemporanea, dinamica e aperta sulla natura circostante, il cui elemento essenziale è la mobilità. Vengono meno alcuni dei vincoli che hanno condizionato la città della prima rivoluzione industriale (con conseguente concentrazione delle industrie presso le fonti di energia, sviluppo indifferenziato lungo le principali arterie destinate al trasporto dei prodotti, loro saldatura in interminabili suburbi, crescita abnorme, eccetera): ha inizio una fase nuova e diversa, caratterizzata dalla libertà geografica degli insediamenti, dalla dispersione territoriale delle fonti di energia e della rete dei trasporti, da una più facile e rapida distribuzione dei prodotti, dall'attenuazione dei contrasti tra città e campagna, grazie alla disponibilità sempre più ramificata dell'energia e alla diffusione della motorizzazione e delle telecomunicazioni.

All'età precedente, di concentrazione e congestione, subentra l'età che può essere del decentramento e della decongestione: l'urbanistica cambia di scala, acquista la sua dimensione moderna, estesa a tutto il territorio. Essa si presenta necessariamente come il risultato di una programmazione economica che coordini tutti gli interventi, per garantire un massimo di benefici e un minimo di errori e di costi sociali. Due soprattutto sono i pericoli opposti da evitare: l'elefantiasi, il crescere incontrollato e continuo dei maggiori agglomerati urbani e, dall'altro lato, soprattutto nelle zone turistiche, l'indiscriminata disseminazione edilizia, che porta alla privatizzazione del suolo; alla costosa moltiplicazione di strade e servizi, col pericolo di ricoprire l'Italia di una coltre uniforme di cemento e di asfalto, cancellandone la fisionomia. Si tratta dunque, nel quadro di una pianificazione generale, di garantire l'equilibrata utilizzazione, cioè il miglior uso possibile di quella risorsa preziosa, limitata e non recuperabile che è il territorio, identificando quella che vien detta la "vocazione" delle sue varie zone, al fine di evitare il disordine, la degradazione, il caos: evitare ad esempio, come poi è abbondantemente capitato, di costruire impianti industriali sopra aree archeologiche, di inquinare irrimediabilmente spiagge e mare costruendo raffinerie sulle coste, di lottizzare pinete e persino parchi nazionali (e tutte quelle altre aree che devono invece servire alla ricreazione e alla cultura, in un ambiente naturale intatto), di "bonificare" ovvero trasformare insensatamente in campi di grano le superstiti paludi, essenziali valvole di sfogo per i corsi d'acqua, garanzia contro alluvioni ed altri disastri di cui il nostro paese è vittima a intervalli regolari.

Per raggiungere l'obbiettivo e ridurre al minimo gli errori occorreva dunque anche in Italia considerate e praticare più urbanistica come espressione di scelte civili e progredite. Scelte politiche, intese a riformare il nostro arcaico ordinamento, giuridico e combattere la rendita fondiaria; scelte economiche, e sociali, intese ad assicurare operazioni vantaggiose alla comunità e ad esaltare la qualità degli insediamenti; scelte culturali, perchè venissero risparmiati e riqualificati i valori della storia, del paesaggio, della natura. Ma è proprio questo che non si è voluto fare.

Scrivo sempre la stessa cosa”. Si schermiva così Antonio Cederna quando lo chiamavi per fargli i complimenti per l’efficacia di un suo articolo che ti aveva colpito più degli altri. La voce aveva la stessa impostazione di quando declamava a memoria i brani di poesia e letteratura classica da lui più amata. E forse aveva ragione, perchè dietro ai suoi scritti e alle sue invettive appariva sempre un’identica tensione per i destini del paesaggio, del patrimonio storico e artistico italiano. Sempre la stessa cosa.

Un compito scomodo, da portare avanti controcorrente. Erano sempre in agguato gli “etichettatori” scaltri, bravi nel dipingere a tinte fosche le opinioni altrui. Così nell’immaginario di molti passava per il severo censore che diceva sempre no. L’esatto contrario della verità. E’ certo vero che da rigoroso uomo di cultura qual’era sapeva dire no. Alle fameliche speculazioni edilizie e agli sfregi al patrimonio culturale. Ma se si guarda alla sua opera è facile scorgere una grande capacità di formulare obiettivi, di fornire proposte, di disegnare orizzonti.

Fu lui, quando negli anni ’90 sedeva nella Camera dei Deputati, a presentare il più organico e convincente progetto per “Roma capitale”. Erano essenziali –ma quanto complesse!- le proposte che aveva elaborato per la città a cui dedicò molta parte della sua opera. Il parco archeologico dei Fori imperiali che vedeva come il motore del cambiamento della città. Un grande spazio nel centro della città da lasciare al silenzio indispensabile per godere dell’incomparabile stratificazione storica e culturale del luogo. Senza più automobili, senza più la tronfia offesa di via dei Fori imperiali. Un progetto che avrebbe cambiato il destino del centro storico e, insieme al potenziamento dell’offerta museale, fatto diventare Roma capitale della cultura mondiale.

Il secondo progetto riguardava la realizzazione del sistema dei parchi urbani da realizzare nelle periferie per preservare natura e storia, quell’inscindibile connubio che contraddistingue la meravigliosa campagna romana. Ad iniziare dall’Appia antica a cui, dopo decenni di denunce, aveva dedicato gli ultimi anni del suo impegno quale presidente del Parco. Ancora, il recupero delle periferie da ottenere con il trasferimento dei Ministeri dal centro storico e con la fine dell’interminabile espansione edilizia della città. Infine, la realizzazione di una moderna rete su ferro che consentisse di diminuire gli effetti devastanti sulla salute dei cittadini e sui monumenti dei due milioni e mezzo di veicoli che ogni giorno intasano le strade della città. Un grande progetto urbanistico. Cederna era un archeologo, ma la sua cultura urbana e la sua curiosità verso quanto di nuovo e di bello avveniva nelle città del mondo era ineguagliabile.

Quella stessa sensibilità e cultura che gli permisero nei primi anni ’90, quando era consigliere comunale di Roma, di proporre la realizzazione del nuovo Auditorium al Flaminio così da evitare la compromissione della più centrale area del Borghetto Flaminio su cui allora sembravano essersi concentrati unanimi consensi. O le tante proposte, non solo no, elaborate con Italia Nostra.

Dopo tanti anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 agosto 1996, ciascuno di noi po’ tentare un bilancio, per quanto parziale e frammentario, dell’esito delle proposte di Cederna. Cogliendo le luci, quali ad esempio la realizzazione della rete dei parchi urbani e di tanti nuovi musei, ad iniziare da Palazzo Altemps, con la collezione Ludovisi, per il quale si era tanto battuto e che non riuscì a veder completato. E vedendo le ombre, ad iniziare dalla inarrestabile espansione urbana in atto e dalla morta gora in cui sembra essersi tristemente avviato il progetto dei Fori centrali. Si può essere certi che avrebbe saputo dare atto pubblicamente dei risultati raggiunti. E continuato a battersi per far sparire le ombre. Per far affermare la cultura della tutela. A dieci anni di distanza manca la sua voce che diceva sempre la stessa cosa.

Sono passati due lustri dalla scomparsa di Antonio Cederna (Milano 1921-Roma 1996) – uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano – archeologo e critico d'arte, poi straordinario giornalista: scrisse sul settimanale Il Mondo, e poi sul Corriere della Sera e la Repubblica. Fuanche consigliere comunale di Roma e deputato della sinistra indipendente. Non è stato dimenticato, e fioriscono le occasioni per ricordarlo. Francesco Erbani ha curato per Laterza una nuova edizione di I vandali in casa, il suo libro più noto, mentre la Corte del fontego, una nuova e benintenzionata casa editrice veneziana, ha pubblicato una nuova edizione di Mussolini urbanista, presentata da Adriano La Regina e Mauro Baioni. L’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna sta allestendo una pubblicazione con contributi di specialisti e compagni di viaggio. La provincia di Roma, che da anni ha istituito il premio Cederna, quest’anno lo assegna a figure che nel decennio hanno operato in continuità con il suo pensiero. Mi auguro che nei prossimi mesi anche Italia nostra, l’associazione che Cederna contribuì a fondare e che frequentò ed ebbe cara più di ogni altra, riesca a organizzare un necessario convegno di studi, per raccogliere e discutere le testimonianze, i contributi e i materiali intorno alla sua eredità prodotti nell’ultimo decennio.

Il nome di Antonio Cederna, si sa, è legato soprattutto al mondo dell’urbanistica, alla tutela del paesaggio, delle antichità e delle belle arti. Si occupò specialmente di Roma, e massimamente dell’appia Antica, e si deve in larga misura a lui se la Regina viarum e il vasto territorio che la circonda si sono salvati dagli assalti degli “energumeni del cemento armato” (oppure dei “nemici del genere umano”), come chiamava gli speculatori edilizi e i loro manutengoli annidati in parlamento e nel governo, nelle pubbliche amministrazioni, nei giornali e nelle università. All’inizio degli anni Ottanta, insieme al soprintendente archeologico Adriano La Regina e all’indimenticabile sindaco Luigi Petroselli, fu protagonista del cosiddetto progetto Fori, che prevedeva lo smantellamento della via dei Fori imperiali, lo stradone costruito per volontà di Benito Mussolini – dopo aver sventrato gli antichi quartieri costruiti nei secoli sopra le rovine romane, scempio accuratamente descritto in Mussolini urbanista – affinché da piazza Venezia si vedesse il Colosseo e per fornire uno scenario imperiale alla sfilata delle truppe. Il progetto Fori prevedeva il recupero e la ricomposizione del tessuto archeologico (fori di Traiano, di Cesare, di Augusto, di Nerva, eccetera) oggi spezzato dalla strada fascista, collocando la storia e la cultura al centro della città moderna. Morto Petroselli, i sindaci che lo hanno sostituito non hanno avuto il coraggio di andare avanti. La via dei Fori è rimasta al suo posto e continua inutilmente a scaricare automobili e inquinamento nel centro della capitale, mentre le rovine romane restano racchiuse in recinti laterali, a quote più basse, come i leoni allo zoo.

Su queste pagine c’interessa però ricordare che Antonio Cederna fu anche un accanito difensore della natura e anzi, in ogni suo intervento, la denuncia del malgoverno del territorio – il tema che credo possa correttamente sintetizzare l’insieme del suo lavoro di giornalista, di scrittore, di rappresentante del popolo – comprende sempre, in un solo intreccio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio necessario alla salute pubblica, lo smantellamento dei beni culturali, la privatizzazione del suolo. Ma anche se è difficile, e forse improprio, separare per gruppi e per generi la sua attività, penso che sarebbe tuttavia utile una riflessione ad hoc sui suoi interventi destinati esclusivamente o prevalentemente alla natura. Altrettanto, e forse ancora più utile, penso che sarebbe una ricerca volta a ricostruire puntualmente il contributo che Cederna deputato della X legislatura fornì alla formazione delle due fondamentali leggi approvate negli anni che lo videro legislatore: quella per la difesa del suolo (n. 183/1989) e quella per la protezione della natura (n. 394/1991).

Per ora mi limito a ricordare La distruzione della natura in Italia (Piccola Biblioteca Einaudi, 1975), il libro di Cederna, introvabile come ogni altra sua opera, dedicato in particolare alla natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. È un libro denso di pagine e di argomenti, che raccoglie saggi inediti e articoli scritti negli anni precedenti sul Corriere della Sera. È formato da un testo introduttivo e da tre parti tematiche: un’indagine sulle condizioni (pessime) in cui versavano i parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, d’Abruzzo e del Circeo; un’inchiesta sugli scempi realizzati o minacciati ai danni delle coste di Toscana, Sardegna, Lazio e Campania; un’indignata denuncia, sulla mancanza di verde pubblico nelle città di Roma e di Milano. Non senza qualche ingenuità. Come quando s’illude che le cose possano migliorare con l’entrata in funzione delle ragioni a statuto ordinario (avvenuta nel 1972), che dovrebbero spazzare via la vecchia mentalità accentratrice dell’apparato statale burocratico e prepotente. Non poteva immaginare – lui, altrimenti così preveggente – che trent’anni dopo dobbiamo troppo spesso rimpiangere i pregi del centralismo statale.

Come sempre, il linguaggio di Cederna è tagliente, talvolta feroce, il vocabolario spesso sorprendente, sempre efficacissimo. A titolo di esempio ho raccolto qui accanto una piccola antologia tratta dalle pagine introduttive del libro, e spero che, dopo le nuove edizioni dei Vandali in casa e di Mussolini urbanista, una benemerita casa editrice colmi la lacuna pubblicando anche La distruzione della natura in Italia.

(Roma, 28 giugno 2006)

Promemoria dal libro di Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975.

In realtà, nella maggioranza dei politici al potere si riscontra (parliamo in generale), prima ancora di ogni comprovata malizia, una vera e propria forma di imbecillità. [p. XII]

In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e delle immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità” (!), che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico e urbanistico del loro intervento. [p. XIII]

… tutta l’Italia, in assenza di qualsiasi effettiva programmazione economica e urbanistica, rischia di essere a poco a poco ricoperta, dalle Alpi al Capo Passero, da un’uniforme, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto … [p. 17]

… ancora è l’avverbio su cui si regge l’Italia, e su cui riposano le residue speranze … [p. 18]

L’Italia contadina divenuta malamente urbana è soggetta a deprimenti distorsioni psicologiche: scambia spesso per progresso l’inumana malformazione delle città, per civiltà il biossido di carbonio, per benessere il fumo delle ciminiere, per affermazione di libertà l’eliminazione di ogni parvenza di natura. [p. 19]

Scontiamo, s’è detto, gli effetti di una cultura che ha teorizzato la preminenza dell’uomo “artista” sulla natura, di una filosofia che ne ha negato l’oggettiva esistenza e di una religione che, ai suoi livelli più bassi e diffusi, ne ha sempre considerato con sospetto e incomprensione le manifestazioni (siamo passati dal “cantico delle creature” a un papa che ha benedetto il tiro al piccione). [p. 20]

… la conservazione della natura è essenziale per offrire alla collettività un impiego sempre più adeguato del tempo libero, altro grande problema del mondo moderno. [p. 21]

… la conservazione della natura, nel quadro di una politica del territorio che subordini ad essa ogni altro intervento (edilizio, industriale, autostradale) deve essere dunque considerata l’obiettivo primario di ogni società previdente e socialmente progredita. [p. 21]

Conservazione della natura significa soltanto, alla fine, conservazione dell’uomo e del suo ambiente, incolumità e salute pubblica e quindi anche, proprio per questo, progresso economico, culturale e sociale. [p. 22]

Un passo avanti e due indietro, questo l’andamento della politica italiana, già tanto precaria, in materia di tutela paesistica e territoriale. Non avevamo fatto in tempo a rallegrarci per la legge urbanistica approvata ai primi d’aprile dal consiglio regionale sardo, ed ecco che sabato scorso il Consiglio dei ministri la boccia con motivazioni inconsistenti e la restituisce al mittente: a una regione che finalmente e dopo gravi ritardi predispone efficaci misure contro il dilagare del cemento, lo Stato risponde con cavilli cedendo, è ovvio supporre, alle pressioni delle forze che traggono le loro fortune dal saccheggio di quella risorsa scarsa e irriproducibile che è il territorio. La legge sarda bloccava infatti l’assalto edilizio alle coste: in sostanza, e per semplificare, prescriveva la loro inedificabilità temporanea (per due anni), in attesa della predisposizione dei piani paesistici. Una prescrizione del tutto ragionevole e da gran tempo auspicata, se appena consideriamo lo stato di fatto e di progetto. Pensiamo che 20 milioni di metri cubi sono già stati costruiti, e altri 50 circa sono previsti dagli sgangherati strumenti urbanistici dei sessantotto comuni costieri: se questa folle previsione venisse realizzata, i 1.569 chilometri delle coste sarde verrebbero sommersi, devastati, privatizzati, sconciati, distrutti sotto un ininterrotto tavoliere di cemento e asfalto, per ospitare oltre un milione e mezzo di turisti, (in pratica raddoppiando in un sol colpo la popolazione dell’isola). Con la legge che blocca l’edificabilità per due anni la Regione Sardegna ha voluto sventare questa autentica soluzione finale delle più belle coste del Mediterraneo, prendere il tempo necessario a riesaminare piani, lottizzazioni e convenzioni per sottoporli a elementari principi di pianificazione: insomma, opporsi al dilagare dell’urbanizzazione selvaggia dettata solo dal capriccio della speculazione e disastrosa, oltre che per territorio ambiente paesaggio, anche per l’economia in generale, perché fatta per tre quarti di seconde case, perché crea pochissimi posti di lavoro (un addetto ogni quaranta posti letto) e perché scarica sulla collettività i costi di servizi e infrastrutture. Bocciando la legge, il governo torna a rendere possibile quella sinistra prospettiva. E lo fa con proterva insipienza, come ha osservato il presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Edoardo Salzano: infatti, quello che più colpisce è l’improprietà delle motivazioni addotte. Dice il governo che la legge sarda è in contrasto con l’ordinamento giuridico dello Stato, in particolare con gli articoli 41 e 42 della Costituzione. Sono gli articoli che regolano i modi di acquisto e di godimento e i limiti eccetera della proprietà privata: e quindi non hanno nulla a che fare con la legge in questione, la quale, anziché in contrasto con l'ordinamento giuridico dello Stato, non fa che attuare una legge dello Stato, in vigore da quattro anni, la legge Galasso. Una legge che ha vincolato intere categorie di beni territoriali (parchi, foreste, montagne, coste di mare fiumi laghi) in quanto irrinunciabile patrimonio di bellezze naturali; e ha sottoposto vasti territori a inedificabilità temporanea, in attesa dei piani paesistici regionali (che poi ben poche regioni, in testa l’Emilia-Romagna, abbiano provveduto, è un altro discorso). Non solo: la legge regionale sarda è perfettamente conforme a una famosa sentenza della Corte Costituzionale, la n. 56 del 1968, che ha sancito la piena validità dei vincoli ambientali in quanto tutelano territori che sono di per sé, originariamente, di interesse pubblico; e ha affermato a tutte lettere che la pubblica amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare, e in tal caso non comprime alcun diritto sull’area, perché quel diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive. Un principio che è stato ribadito in un’altra sentenza di tre anni fa, quando la Corte ha affermato che l’attività urbanistica deve essere piegata a realizzare il valore estetico-culturale del paesaggio, la cui tutela è uno dei principi fondamentali della Costituzione (articolo 9): perché il paesaggio costituisce un interesse primario e prioritario al quale vanno subordinati tutti gli altri interessi, compresi quelli economici. Tutto ciò viene negato dal governo, che dopo essere stato per anni incapace di esercitare le sue funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio, mette ora i bastoni tra le ruote di una regione che ha fatto una buona legge. E la Sardegna resta senza legge urbanistica, il tempo dei piani paesistici si allontana (intanto sarebbe bene che la regione rinunciasse a iniziative deleterie, come il porto turistico a San Teodoro e ai campi da golf che spianano la macchia mediterranea). Si vede che a Roma si sono rifatte vive le forze economiche che in consiglio regionale erano state battute (contro la legge avevano votato democristiani, missini e qualche cane sciolto franco tiratore): adesso torneranno alla carica le immobiliari, il Consorzio Costa Smeralda tornerà a pretendere qualche milione di metri cubi in più in comune di Arzachena, e così pure farà la Fininvest per il villaggio Costa Turchese a Olbia (un investimento di mille miliardi) con tanto di premi di cubatura. E di com'erano le coste sarde ci resteranno solo le vecchie cartoline.

C*** non è Troia: se Schliemann poté buttare addosso a sua moglie i gioielli di Elena, qui bisogna accontentarsi, dopo una giornata di scavo, di una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, e di un paio di braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nel secolo di Pirro e di Annibale.

Il melo accanto al quale, appena scesi dal treno, cominciammo a scavare, aveva superato i cinquant'anni e doveva la sua vita a un fatto inconsueto: proprio nel punto dove ora affondavano le sue radici screpolate, il proprietario del terreno aveva scoperto per caso durante certi lavori agricoli, sul finire del secolo scorso, un buon numero di teste stravaganti, e forse molto antiche, di terracotta che lo avevano lasciato interdetto e sorpreso; infine aveva deciso, con notevole senso di equità, di tenersene alcune, di regalarne altre agli amici e di vendere il resto allo Stato. Queste ultime, come capitava e capita spesso, furono di nuovo seppellite e dimenticate nei sotterranei di qualche museo; le prime invece, diventate presto un ottimo bersaglio per sassate e tiri a segno, sempre meno rispettate col passare degli anni, relegate nelle soffitte, nelle stalle e nei granai, scomparvero definitivamente dalla circolazione con l'ultima guerra, che ha distrutto tutto quanto poteva del paese di C***. Restava soltanto il melo, che il vecchio contadino con molta accortezza aveva voluto piantare a ricordo della sua fortunata scoperta.

Il primo sentimento che si prova, quando si comincia a scavare, è molto vicino alla vergogna. Per un paio d'ore i quattro operai ebbero da fare col prato: il piccone dava un suono sordo, le zolle d'erba rotolavano via molli, districandosi a stento, e non si vedevano che vermi. Faceva male pensare che quella terra dove per tanti secoli si era onestamente arato, zappato e falciato, venisse ora sconvolta per uno scopo tanto diverso e di esito così incerto, come era la nostra pretesa che essa producesse, oltre al grano, alle fave e alle patate, qualche testimonianza della civiltà degli Equi dopo la conquista romana. I movimenti degli operai sembravano goffi, quasi una caricatura del normale lavoro dei campi, la loro fatica eccessiva e assurda come la nostra impresa archeologica: per buona fortuna nessuna curiosità mostravano i carrettieri seduti sui loro carri di letame, mentre sulla strada provinciale salivano verso il paese (ne vedevamo solo le teste, sul pelo del prato), né gli scarsi passeggeri ai finestrini dei treni quando, ogni due ore, al di là della rete metallica, ci passavano accanto. Qua e là nell'erba qualche bossolo di mitragliatrice: a valle, oltre il cimitero con la sua chiesa romanica sconsacrata, scorreva in silenzio un magro torrente nel suo letto troppo ampio.

Ma viene sempre il momento che il terreno fertile finisce e la musica cambia; la punta del piccone diede a un tratto un suono più nitido e il lavoro divenne più risoluto: a sessanta centimetri di profondità era comparsa una fascia di argilla molto chiara, dura e compressa e gli operai cominciarono a sudare, a rizzarsi spesso sulle reni, a bere l'acqua dalla bottiglia e a parlare. Uno di essi si mise a rievocare, come un paradiso perduto, gli anni di prigionia in Inghilterra, quando si rifiutava di lavorare, quando faceva a pugni con i sorveglianti, quando godeva della compiacenza delle donne e approfittava della loro delicatezza, per cui «ci mettevano in tasca tre scellini, prima di entrare al cinema, perché fossimo noi a pagare anche per loro». Intanto, ai lati della fossa ormai ampia e regolare e profonda più di un metro, i mucchi della terra buttata andavano acquistando proporzioni rassicuranti.

La prima giornata di lavoro era vicino alla fine e non restava che rimandare all'indomani la voglia di sapere cosa c'era sotto a quell'argilla così dura e compressa, e noi stavamo guardando accendersi le prime luci nelle case raggrumate in cima ai colli più lontani già abbandonati dal sole, quando l'ex-prigioniero degli inglesi si mise ad urlare: «è maschio, è maschio», e intanto brandiva in alto con la mano sinistra qualcosa di molto piccolo: un giovinetto di bronzo, nudo, alto dieci centimetri, liscio e lucente, con un braccio alzato come per arringare la folla e imporle di tacere. Quel grido ne aveva salutato la rinascita al mondo dopo due dozzine di secoli: insieme, una moneta romana del terzo secolo a.C., con il pingue profilo di Mercurio sul dritto e una prua di nave sul rovescio, era un indizio molto eloquente di storia politica e militare. Ormai sotto l'argilla chiara, alla profondità di un metro e mezzo, era affiorato lo strato antico, fatto di terriccio scuro e friabile misto a detriti di carbone, ossa di animali, frammenti di terracotta e pezzetti di ceramica nera: sotto ad esso si sarebbe trovato, in seguito, il terreno vergine, bello e compatto. I quattro strati (terreno fertile, argilla sterile, strato antico, terreno vergine) si sovrapponevano nell'ordine con regolarità elementare.

Lo strato antico, trovato nel campo di C***, giace a un metro e mezzo o due di profondità e si estende per parecchie decine di metri quadrati come una grossa coltre, regolare nello spessore (trenta-cinquanta centimetri) e nella distribuzione degli elementi che lo compongono: è un deposito del terzo secolo prima di Cristo, formato da oggetti votivi di bronzo, ferro, ceramica e terracotta, mescolati insieme. Questi oggetti votivi erano stati esposti probabilmente in un edificio sacro non lontano che non ha lasciato traccia di sé fino a quando, a un dato momento, forse per ragioni di guerra, la località dovette essere abbandonata da un giorno all'altro: allora, per salvarli dalla dispersione, si pensò di nasconderli e di seppellirli, e bronzo, ferro, ceramica, terracotta, tutto venne ammucchiato alla rinfusa in gran fretta, senza badare all'integrità dei pezzi più fragili, portato via, scaricato e livellato con una certa cura, in modo da formare appunto lo strato in questione, nel luogo dove è stato scoperto: da quel momento a tutto il Mille nessuno più era andato ad abitare a C***.

Questo strato si lascia staccare a grossi blocchi: da ognuno di essi che l'operaio solleva come un neonato e poi rompe, frantuma e fruga con grande attenzione (un vero concentrato di vita antica, e gli operai, chiamandolo tenacemente «estratto», peccano appena contro il vocabolario, non contro la realtà delle cose), saltano fuori le sorprese: un dito, tre occhi, un pezzo di piede, un frammento di testa coi capelli a riccioli, un paio di monete di bronzo di Roma o della Campania, il manico di una minuscola anfora, una punta di ferro, una testina femminile grande come una noce, un chicco di collana di pasta vitrea blu striata di giallo: tutte cose che rivelano sinteticamente, anche a C***, la pietà popolare degli antichi italíci. È l'aspetto più caratteristico di una civiltà singolarmente uniforme, diffusa negli ultimi tre o quattro secoli della repubblica romana nell'Etruria meridionale, nel Lazio, nella Campania, quale ci è stata resa nota dai vecchi scavi, per lo più non sistematici, di Veio, Cerveteri, Civita Castellana, Conca, Nemi, Palestrina, Roma stessa, ecc.: si tratta sempre di grosse quantità di ex voto, che i fedeli offrivano nei luoghi sacri, e che consistevano in oggetti di uso comune (monete, armi di bronzo e di ferro, ornamenti personali, vasi di ceramica ecc.) oppure in riproduzioni intere o parziali o soltanto allusive, generalmente di terracotta, del devoto stesso o delle cose che gli premeva fossero protette dalla divinità.

Soddisfatto di una somiglianza del tutto simbolica, il devoto comprava dal fabbricante di terracotte, che in ogni paese aveva la sua bottega vicino ai luoghi di culto, una statua sommariamente lavorata, che lo potesse rappresentare davanti agli occhi della divinità, oppure, caso più frequente, si accontentava della sola testa grande al naturale o di una quasi-testa con solo la faccia modellata, di una mezza testa di profilo, di una testa minore del vero, di una mezza faccia (come una mascherina), secondo quanto gli suggerivano le sue possibilità e il fervore della sua fede: l'artigiano aveva le forme pronte e ne cavava quante teste voleva e, secondo il prezzo, decideva se valeva la pena di eseguire ritocchi, di variare una ciocca di capelli, di incidere l'iride o la pupilla (nella maggioranza dei casi lo giudicava superfluo). Ma la bottega del fabbricante di terrecotte era un campionario di pezzi anatomici: dita, mani, piedi, gambe, braccia, bustí con i visceri in mostra, mammelle, uteri, genitali maschili e femminili, orecchi, soprattutto occhi: singoli a forma di mandorla o rotondi con tutta l'orbita, oppure a coppie, come quelli d'argento che ancora oggi si vedono in Sicilia nelle cappelle di S. Lucia; e c'erano pure piccole statue di buoi, cavalli e maiali per chi aveva avuto il bestiame salvo da infezioni, e c'erano le imitazioni delle «tanagre» greche, che potevano rappresentare sia la divinità sia la pia donna che le dedicava: molti infine se la cavavano offrendo un semplice peso da telaio. Tutte queste antiche sacre terrecotte, una volta appese ai chiodi o collocate per terra o su mensole nei santuari, e poi seppellite quando erano diventate ingombranti o quando si era dovuto sgombrare per ragioni urgenti, oggi sono nel migliore dei casi esposte negli scaffali più bassi e peggio illuminati delle vetrine dei musei, dove, se il visitatore non è abbastanza giovane per permettersi ripetuti piegamenti, nessuno le guarda più. Va da sé che esse, quando venivano trovate, scomparivano regolarmente a centinaia e a centinaia regolarmente ricomparivano nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, da Madrid a Copenaghen.

Scavare stanca. La punta del piccone (o la penna, a seconda che vuole il lavoro) non va persa di vista per un solo momento: occorre spiegare agli operai il pregio e il significato dei pezzi che trovano, e, poiché lo capiscano subito, frenare la loro impazienza, convincerli che non devono tirare apppena spunta un'unghia, ma indurli a lavorarci intorno adagio perché, dietro l’unghia, può seguire tutta la mano, abituarli a moderare il loro entusiasmo; a non disprezzare le terrecotte per le monete, il ferro per l'argento, la ceramica per qualche bella statuina di bronzo.

Occorre aver sempre sottomano un quaderno per scrivere e descrivere tutto quanto merita, disegnare e misurare quote e livelli, occorre fare fotografie, anche perché si sa che alla sera, dopo otto ore di lavoro, nello stato di leggera demenza in cui ci si trova, tutto si confonde nella memoria. Ogni frammento va ricordato e tenuto d'occhio perché può attaccare, a distanza di ore, con un altro: bisogna, appena è il caso, procedere a difficili e provvisori tentativi di ricomposizione dei pezzi peggio conservati (in questi interventi eccelle il mio amico Lucos, che molto precocemente, a cinque anni, si con; all'archeologia trangugiando un cucchiaio di polvere di mattone delle mura di Aureliano).

Bisogna subito dividere e ordinare gli oggetti secondo quello che sono o la provenienza, riempire buste, cartocci, scatole, casse e cassette (non si ha l'idea dello smisurato numero di recipienti necessari a chi scava e che non si trovano mai). Bisogna spiegare con garbo alla gente che viene a vedere, e rispondere alle sue domande: che non si può dire esattamente cosa si comprava con quelle monete, che «a quei tempi l'oro lo conoscevano», che non si trovano «ossa di cristiani», che prima di Cristo gli anni non crescono ma calano, che non è come a Pompei, che Nerone non c'entra: ascoltare Ie sue meraviglie («però ci sapevano fare» oppure indifferentemente «quelli si che ci sapevano fare») e le storie più strampalate di terremoti che scoprono «mausolei», di statue che parlano, di tesori ingenti nascosti dai galeotti nel cavo degli alberi; persuaderla infine che, anche se non si trovano «anfore piene di marenghi», lo scavo può essere ugualmente interessante.

Le fatiche di chi scava sono però alleggerite da alcune occupazioni tranquille. Dà un gusto speciale prendere in mano una testa di terracotta, dopo averla un poco lasciata seccare al sole, e cominciare a pulirla con uno stecchino dalle incrostazioni: la terra indurita, se la si forza nel senso giusto, schizza via lasciando apparire a poco a poco le palpebre, le labbra, il lobo dell'orecchio coi loro bei contorni netti, alle volte si scopre una piccola fossa nel mento o due rughe sulla fronte o addirittura le impronte digitali dell'artefice antico: la testa ci guarda indifferente a occhi sbarrati, e l'archeologo partecipa un poco del compiacimento dell'artista di fronte alla sua opera. Mai adoperare, per lavori del genere, punte di metallo (temperini o spilli): si finirebbe per sfregiare irrimediabilmente tante piccole fanciulle d'argilla, sfigurando l'ammirevole fluire delle pieghe dei loro mantelli, le ghirlande di foglie d'edera o di vite che portano in testa, i loro minutissimi e patetici lineamenti, i loro graziosi cappelli: è necessario farsi le mani delicate come quelle della regina di Brobdingnag, quando sollevava sorridendo Gulliver e conversava con lui. Gli operai le chiamano immancabilmente pupazze, e anche qui dicono giusto: in Grecia esse erano spesso delle vere bambole che venivano chiuse, quando ormai non servivano più, nelle tombe delle ragazze morte nel fiore degli anni. Se invece sfreghiamo col pollice i fondi sbrecciati delle coppe che una volta avevano versato vino o latte sugli altari, scopriamo impressi i marchi di fabbrica, la palmetta, la stella, la foglia, il fiore a otto petali, il delfino, il granchio, il pentagono, limpidi come segni dello zodiaco. Sfreghiamo tra pollice e indice le monete che ci allunga l'operaio dopo essersele passate sui calzoni e averle osservate in silenzio, e scommettiamo quello che apparirà: se il profilo di Mercurio o quello di Minerva, sulle monete di Roma; se il leone che si strappa la freccia conficcata nelle fauci o il pegaso galoppante, su quelle romano-campane; se il toro con la barba che incede dignitoso mentre una vittoria gli svolazza sopra la testa o il gallo impettito, sulle monete di Napoli, di Teano, di Suessa.

Ma bisogna vigilare, perché son lavori pieni di tentazioni. Potrebbe capitare di lasciarsi andare al gioco o di restarsene li trasognati a ricamare con lo stecchino tra i riccioli di una testa o a rigirarsi oziosamente tra le dita il dignitoso toro barbuto, come vecchi cinesi al tramonto sull'uscio di casa, se non ci rendesse vigili, al momento giusto, una corta bestemmia di meraviglia: segno che l'operaio, interrompendo la descrizione dei suoi traffici al tempo dei tedeschi o l'elogio delle belle del paese, ha incontrato qualcosa di particolarmente degno della sua ammirazione, per esempio una figurina di bronzo. Ora è una antica donna di C***, che ha comprato dal fonditore la propria immagine da offrire alla dea preferita: indossa una lunga tunica con la cintura alta sotto il seno, in testa ha il diadema, con la mano destra regge la patera mentre l'altra è portata fiduciosamente al fianco; ora è un timido devoto contadino con la frangia sugli occhi che si è coperto il capo col mantello; ora è un piccolo Marte nudo con il pennacchio dell'elmo che gli scende in mezzo alle spalle; ora è un Ercole baldanzoso che avanza a grandì passi agitando la clava e proteggendosi col braccio sinistro, da cui pende la pelle del leone nemeo. É bene allora, col fiasco che sta in bilico sull'orlo della fossa, fargli una doccia di vino bianco, e il giovane dio infaticabile risplende sotto il sole d'ottobre, col suo corpo agile e snodato, rifinito con precisione nei capelli, nel volto, nelle mani, verde come una lucertola, lucido e guizzante come un pesce che rimbalza sulla rete; l'attacco di un braccio un poco tirato via, la superficie troppo appiattita di una gamba, mostrano l'opera di artigiani indigeni, che lavorano in margine alla grande tradizione greca, ma con gli occhi ben attenti e un mestiere istintivamente felice. («Cosa resterà di noi fra mille anni?» chiede la gente: non più di una poltiglia di sacri cuori di gesso, pezzi di lapidi informi e sgrammaticate, la carta stagnola dei moccoli, qualche sgorbìo ìnfantile dipinto per scampato pericolo.)

C*** non è Troia: se Schliemann poté, cacciati via gli operai turchi, buttare addosso a sua moglie i gioielli dì Elena, qui bisogna accontentarsi, alla fine dì una giornata di scavo, di trovarsi alle dita una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, senza castone e ai polsi un paio di smilzi braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nei secoli di Pìrro e di Annibale. Ma da tutta la complessa natura morta allineata davanti a noi, attorno ai margini della fossa, spira un'antica miseria. Sono i mucchi di occhi, dì teste, dì mani, di pìedì, dì animali domestìci frantumati; ì mucchi di coccì di piccolissime anfore, brocche, coppe, di minuscoli boccali, la ceramica di allora nelle sue più economiche varietà: verniciata di nero, stampigliata, per lo più grezza, con pochissimi pezzi dipinti; sono ì più grossi mucchi di ferro, puntali di lance e di frecce, rinforzi di ruote, collari, chiodi, ganci, uncini; sono i cartocci delle monete fuse e coniate (su cento di bronzo una è d'argento), degli oggettini dì bronzo, fibbie, fermagli, pendagli di collana, piccoli manici di vasi e di specchi, piedini di candelabro, frammenti di grattugie; sono i pezzetti di carbone, e le ossa degli animali sacrificati. E quando gli operai hanno smesso il lavoro, si perde la capacità di vedere e tutta questa roba si fa grigia e indistinta e verrebbe voglia di scegliere e scartare, se il primo comandamento dell'archeologo non fosse quello di non scegliere mai: lo aspettano mesi di laboratorio, in cui dovrà passare tutto alla lente, distinguere, classificare, confrontare, ricomporre, disegnare (potrà allora avere la sorpresa, grattando un coccio insignificante, di scoprirvi dipinta una dedica a Minerva, a Vesta, a Esculapio). Solo lo opprime il fatto che il «laboratorio» sarà inevitabilmente lo scuro scantinato di qualche museo, senza tavoli, senza seggiole, senza finestre. L'opprime anche per un istante lo spettro del dotto olandese, che ha scritto nella sua lingua centosettantacinque pagine assolutamente inevitabili intorno a certi vasetti neri in parte simili a quelli trovati a C***. Ma sono momenti di debolezza passeggera: il bello dell'archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei rètori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d'aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria.

aprile 1951

Lo scavo fu eseguito a Carsòli lungo la Via Tiburtina (a una trentina di chilometri da Tivoli) insieme all'amico archeologo romano Lucos Cozza (oggi professore di topografia antica all'Università di Perugia). Il materiale scoperto è stato in parte pubblicato su «Notizie degli scavi di antichità», dell'Accademia dei Lincei, ed è conservato al museo

Marzo 1958

[…] Al convegno indetto dalla rivista democristiana «Battaglie Politiche », ai primi di marzo, abbiamo riascoltato la condanna della distruzione di Villa Chigi, l'approvazione al nuovo piano regolatore e quindi implicito l'atto d'accusa contro i rappresentanti democristiani responsabili d'aver fatto di tutto per silurarlo. Di particolare rilievo è stata la relazione letta dall'architetto Leonardo Benevolo, uno dei nostri più preparati studiosi di problemi urbanistici. Lo stesso istituto giuridico - il diritto di fabbricazione considerato come parte integrante della proprietà privata dei terreni, cioè il diritto del privato di intascare il plus-valore d'un terreno divenuto fabbricabile – è stato definito come incompatibile con la società moderna: e con molta chiarezza è stato descritto il meccanismo della speculazione. La speculazione è responsabile della paradossale situazione della doppia crisi attuale, edilizia e degli alloggi, in quanto essa, mantenendo i prezzi dei terreni più alti del dovuto, costringe i costruttori a costruire solo case medie e di lusso, per contenere entro limiti ammissibili la percentuale del prezzo degli alloggi dovuta al terreno. «Un settore della domanda viene così saturato, molti appartamenti restano invenduti o sfitti, mentre la domanda di appartamenti popolari cresce, ma il prezzo dei terreni non consente al costruttore di soddisfarla; così si realizza lo scopo della speculazione, cioè lo sganciamento dell'offerta dalla domanda, a svantaggio dei costruttori e dei consumatori, e nell'interesse esclusivo di poche decine di proprietari terrieri ».

In particolare, c'è da aggiungere che i piccoli proprietari di terreni che il piano regolatore ha destinato a scarso o nullo sfruttamento edilizio, non potendo sperare di modificare a loro vantaggio le decisioni del piano, si sono indotti a vendere i loro terreni ai proprietari maggiori, i quali, effettuata l'operazione di acquisto, e non prima, fanno uso della loro influenza per far modificare il piano, e valorizzare i terreni acquistati: si capisce quindi perchè le opposizioni alle direttive generali del piano non si siano manifestate tre anni fa quando furono rese note per la prima volta, ma arrivino adesso, al momento di renderle esecutive e di trasformarle in vincoli effettivi di piano regolatore. In queste condizioni - ha continuato il Benevolo - sarebbe perfino inutile dar retta ai suggerimenti delle forze economiche che vorrebbero un diverso sviluppo di Roma, per esempio ad ovest del Tevere, sulla via Cassia.

«La dinamica inevitabile della speculazione tenderebbe subito dopo ad agire in senso opposto, per consentire un nuovo gioco al rialzo, e il risultato sarebbe un moto pendolare alternato della città, ben noto agli storici dell'urbanistica, fino alla completa paralisi dell'organismo urbano (e della speculazione stessa che, lasciata a se stessa, tenderebbe ad autodistruggersi, come il tumore che finisce per far morire l'organismo che lo nutre: altra prova, se occorresse, della natura patologica della speculazione sui terreni) ». Il piano regolatore come garanzia democratica per lo sviluppo razionale della città, l'arretratezza della casta dei funzionari quali sono emerse dal processo Immobiliare -«L'Espresso », le deficienze dell'industria edilizia per la mancanza di una norma urbanistica generale, il piano regolatore ridotto a «merce di scambio tra democristiani e fascisti »., la necessità di considerare punti fermi e acquisiti le premesse generali e le soluzioni tecniche del progetto di nuovo piano regolatore, eccetera, sono stati altrettanti temi trattati dal relatore, davanti all'uditorio democristiano. Un uditorio un po' scarso, in verità, forse perchè l'opinione ufficiale del maggior partito non ha simpatia per l'atteggiamento, per le sollecitazioni, i fermenti delle minoranze: non possiamo che augurarci che queste minoranze qualificate riescano a condurre avanti la loro opera di chiarificazione e a illuminare anche tenuemente l'orgogliosa insipienza della maggioranza. Solo centosettanta giorni ci separano dalla data in cui il Comune di Roma, al termine di un iter complicato, dovrà aver adottato il nuovo piano regolatore.

Roma antica, e lo sconfinato campo delle sue rovine, ha funzionato nei secoli da stimolo etico sulla cultura europea. Partecipazione commossa della memoria, sgomento di una tragedia universale, sospensione di ogni interesse pratico , lacrimae rerum: la rievocazione della grandezza passata nasceva direttamente dal disfacimento presente, quel gran «cadavere» era l'ammonimento, il freno contro ogni esaltazione viziosa.

Con l'affacciarsi dell'Italia al mondo moderno e l'unificazione nazionale, è invece l'interpretazione deteriore della romanità, ricorrente nella cultura italiana, che diventa sentimento e letteratura comune: la romanità diventa oggetto di nostalgia reazionaria e incentivo a velleità di potenza, viene degradata a eccitante di avventura e di boria nazionalistica. Giunta tardi e senza tradizioni alla dignità nazionale, la borghesia italiana si specchia impotente nella gloria passata, tenta di trarne gli auspici, comincia a sognare ritorni impossibili: Roma, ovvero l'immagine stravolta di essa, diventa la Medusa che pietrifica chi si volta a guardarla, remora ad ogni progresso civile. E’ in nome di Roma che Mussolini annienta lo Stato.

Mentre il progresso del mondo imponeva di riguardare al passato con la nuova prospettiva e il distacco offerto dalla cultura critica e storica, e mentre occorreva concentrare gli sforzi per affrontare con strumenti adeguati i grandi problemi posti alle nazioni moderne dalle trasformazioni economiche, sociali, territoriali, da noi si instaurava una mitologica continuità tra il presente e i fantasmi di una civiltà sepolta. La sorte patita da Roma sotto il fascismo è esemplare. Nell'ignoranza di tutti i mutamenti intervenuti nella storia delle città con la rivoluzione industriale, si pretese di «adeguare» semplicisticamente, meccanicamente la città vecchia alla vita moderna, per via di sventramenti e di addizioni successive, fino a cancellarla dalla faccia della terra: come sarebbe accaduto se si fosse realizzato interamente il piano regolatore del 1931, in cui si era espressa tutta la cultura ufficiale del tempo.

Così facendo il fascismo, mentre esaudiva i voti di una generazione di retori, di archeologi e di decadenti, manifestava la sua incultura e il suo carattere anacronistico: Roma veniva considerata un immenso deposito alluvionale da setacciare, alla ricerca dei ruderi più antichi, facendo piazza pulita di tutto quanto si era venuto frapponendo tra essi e noi, cioè della storia stessa. Al rito negromantico della «risurrezione» di Roma (« e Roma rinascerà più bella e più superba che pria », dirà il Nerone di Petrolini), alla ricostituzione di colossali «denti cariati», di scheletri monumentali entro uno spazio metafisico, poi subito sommersi dal traffico e dagli edifici di speculazione, tutti, italiani e stranieri, applaudirono: ci si dimenticò soltanto di costruire la Roma nuova, la Roma moderna, la città per gli uomini e per le loro esigenze di vita.

La montatura romanistica degli anni trenta è stata la manifestazione vistosa di un atteggiamento congenito di gran parte della classe dirigente italiana: la sordità ai problemi del progresso, il ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, il rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico. L'esaltazione isterica della romanità, a fini retorici e di propaganda politica, non è stata che il diversivo sentimentale dell'unico culto autentico praticato dalla società italiana, il culto del lotto e delle aree fabbricabili, nel sostanziale disprezzo per l'uomo. Roma divenne oggetto di mercato, fu abbandonata come una carogna al sole al saccheggio privato. Ai fantasmi melodrammatici dei ruderi raschiati corrisposero immediatamente le borgate e i ghetti, gli spaventosi concentramenti della periferia, la congestione e il sovraffollamento, lo sgangherato espandersi della città, in esclusivo omaggio alla furente speculazione edilizia: via via fino ai nostri giorni, fino a quella sinistra bancarotta dell'urbanistica romana degli anni cinquanta, che non ha riscontro nella storia di nessun'altra città del mondo, e che ha avuto effetti peggiori di una qualsiasi calamità naturale.

Roma presenta oggi un centro storico degradato e impraticabile, incrostato in mezzo a un'immensa, informe agglomerazione, squallida e sterminata periferia, sorta nel segno della violenza privata e della complicità pubblica, che tutto si può chiamare fuor che città. La stessa configurazione fisica di Roma è stata distrutta: un unico tavoliere di cemento, uno stomachevole, soffocante magma di «palazzine» e «intensivo », colma le valli, ricopre le colline, sommerge la campagna, grazie allo sfruttamento dell'ultimo metro quadrato disponibile, quasi ci si fosse proposti di impedire a chiunque di dire: questa era Roma.

Roma ripercorre a ritroso la storia delle città straniere, e ogni decennio segna un'ulteriore fase di decadenza: gli stessi problemi elementari posti dal traffico motorizzato sono stati semplicemente ignorati a vantaggio dei padroni del suolo. II risultato piuttosto di un'ormai secolare insipienza, ed esperienza quotidiana per tutti, è il caos e il disagio della circolazione nei nuovi quartieri, più inadatti alla vita moderna di quelli di età barocca, con una rete stradale che sembra tracciata da un branco di deficienti, in un'inconcepibile confusione di attività e di funzioni. Quanto si costruisce oggi - ha scritto un giornalista straniero - sono gli slums di domani: ai baraccati e ai segregati delle bidonvilles non resta che la prospettiva del carcere a vita nelle inumane concentrazioni dell'intensivo destinate, queste sì, a durare nei secoli.

La grande invenzione dell'urbanistica moderna, vanto delle città dei paesi civili, gli spazi naturali liberi e attrezzati per la ricreazione e lo sport, il verde pubblico non entrano nelle previsioni, sono stati sadicamente eliminati: lo spettacolo quotidiano, l'indice maggiore della criminalità della politica seguita fin qui, sono bambini, ragazzi e giovani costretti a trascinarsi nelle strade, tra l'immondizia e il traffico, a giocare nella polvere o nella sterpaglia dei lotti non ancora fabbricati. In nome degli eterni valori, anzi del plusvalore delle aree, la generazione nata e cresciuta col «miracolo» e il boom edilizio è stata con- dannata alla nevrosi, alla menomazione psichica e fisica.

Roma non è altro oggi che l'espressione topografica della distribuzione della proprietà fondiaria, il suo paesaggio urbano la proiezione dell'abuso e dell'illegalità, traduzione puntuale dei voleri delle società immobiliari, di una banda di imprenditori improvvisati e ladri. Ogni piano regolatore ha finito con l'essere la sanatoria di fatti comunque compiuti,. il rifiuto degli strumenti messi a disposizione dalla scienza, il disprezzo per le norme elementari dell'urbanistica moderna, l'ignoranza dei problemi sociali ed economici di una città in espansione, il perseguimento del vantaggio privato a scapito dell'interesse comune: questi e non altri sono i criteri adottati dalle forze politiche dominanti, che hanno basato le loro fortune sulla rapina del suolo, e quindi provocato, sempre in nome dei sacri principi dell'appropriazione indebita, il colossale fallimento delle finanze pubbliche.

E’ dunque lo spettacolo della nuova Roma che si impone oggi alla meditazione del visitatore esterrefatto. Alle rovine create in passato dall'Invidia del Tempo abbiamo sostituito le macerie della nostra ignoranza: all' antico lamento sulla Varietà delta Fortuna dobbiamo oggi opporre l’azione politica contro una società irresponsabile e nemica del pubblico bene. Quella che ci sta davanti e che, come è stato ben detto, continuiamo a chiamare Roma per una pietosa convenzione fonetica, è un'orrenda contraffazione di città: e in essa, inconsapevoli dei loro diritti e condizionati da decenni di propaganda corruttrice, vivono due milioni e mezzo di uomini e donne, di bambini e di ragazzi, di adulti e di vecchi, di sani e di malati.

L'interesse delle persone sensate muta ormai di oggetto e dimensione. I nomi prestigiosi che sono stati un riferimento della cultura del mondo non hanno quasi più senso, se non per le esercitazioni sentimentali o erudite: altri nomi fatidici, altri itinerari, un'altra topografia si offre a chi vuole capire la situazione presente. Sono i nomi delle scandalose decisioni municipali, i nomi del vandalismo organizzato, del sudiciume e dello sfarzo, i nomi delle concentrazioni edilizie omicide, della sofferenza e dell'umiliazione quotidiana. Quartiere Trionfale, Monte Mario, Albergo Hilton, Monti della Farnesina, Vigna Clara, quartiere Africano, Aniene e Conca d'oro, Tufello, Pietralata, San Basilio, Prenestino, borgata Gordiani, Centocelle, Acqua Bullicante, Tor Pignattara, Tuscolano - Don Bosco, Appia Antica e Caffarella, Cristoforo Colombo, Torvaianica, Fiumicino, Viale Marconi, Donna Olimpia e Monteverde Nuovo, via Olimpica, eccetera eccetera: tanto per illustrare la varia casistica delle malversazioni, lungo tutto l'arco dell'orizzonte.

Questi i nuovi Mirabilia Urbis: questo il nuovo tour di Roma che occorre intraprendere, per misurare l'entità del disastro e riconoscerlo finalmente intollerabile per una nazione civile.

La situazione romana, nella sua particolare atrocità riproduce e riassume ovviamente la situazione nazionale: di un paese cioè che quasi tutti coloro che hanno una qualche responsabilità, politici, architetti, intellettuali, artisti, uomini di legge, «operatori economici» e via dicendo, concordano nel massacrare e nel trasformare nel repellente ritratto di un volgo disperso e senza nome: per cattiva cultura, distrazione, frivolezza o diretto interesse. E’ una realtà che va finalmente conosciuta, studiata e divulgata perchè si possa cominciare a sperare in qualche cosa di diverso: una realtà che, mentre ci distanzia sempre più dai paesi civili, dovrebbe servire almeno ad aprire gli occhi della gente sulla necessità di rinnovare radicalmente il nostro preistorico assetto giuridico in materia urbanistica e di proprietà del suolo. La nuova legge urbanistica è la riforma di fondo che andava fatta prima di ogni altra, e che non va in porto, e contro cui si è scatenata la indegna cagnara di tutta la destra politica ed economica: di tutti coloro cioè che, mentre si arricchiscono in danno della salute e delle finanze pubbliche e mentre impuniti devastano il territorio nazionale, usano invocare ogni momento il mito e il primato di Roma e d’Italia. Un mito e un primato che tra poco non significheranno altro che smentita alla civiltà, utopia alla rovescia, scandalo permanente di fronte al mondo. […]

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